domenica 13 gennaio 2008

l’Unità 13.1.08
Pd, per un codice morale
di Furio Colombo


Mi confronto con la diffusa definizione di «temi eticamente sensibili». Ci dicono che sono questioni e argomenti che una parte di noi, nel Pd, dichiara non negoziabile neppure da mettere in discussione, per ragioni superiori ed estranee alla politica. Oppure, lasciando uno spiraglio di speranza, dichiara risolvibili con una «sintesi». Ma, poiché si tratta di atti e fatti che devono essere previsti o vietati in modo chiaro e inequivocabile dalle leggi della Repubblica, la «sintesi» non facilita ma blocca ogni decisione fra le due scelte giuridiche del permettere e del vietare. Confonde il dibattito di persuasioni e di idee, sempre nobile, civile, e utile, con i doveri dell’impegno di fare le leggi, dove invece una decisione esclude l’altra.
Per questa ragione mi sento di dire che ogni aspetto della vita pubblica (di questa ci stiamo occupando) in cui ci si assume la responsabilità di cambiare la vita degli altri è tema eticamente sensibile. E che non è di alcun aiuto tracciare una linea che separa alcuni argomenti intoccabili da tutti gli altri impegni di libertà e responsabilità. Come non è di aiuto immaginare un’area laica indicata come limitata, e minore, rispetto a visioni più autorevoli.
Ciò porta a una deformazione della vita politica e a una mutilazione dei doveri decisionali che sono tipici di tale attività. Per queste ragioni ho scritto e inviato al comitato etico del Pd, di cui faccio parte, il contributo che segue.
1 - Il Partito democratico è laico. Laico è sinonimo di democratico. Nessuno può imporre o sovrapporre precetti, comandamenti o istruzioni sul fare o applicare le leggi fuori dal processo democratico.
2 - Il rispetto per la religione, i suoi valori, precetti e indicazioni si manifesta prima di tutto attraverso il rifiuto di mischiarla, confonderla o sovrapporla alla politica, al processo di dibattito e di confronto, alle forme democratiche di decisione.
3 - Ogni gara a mostrare fedeltà e ubbidienza alle gerarchie religiose come modo di acquisire approvazione e legittimazione è estraneo alla vita politica, organizzativa, operativa del partito democratico che ha come riferimento le istituzioni della Repubblica, le cariche elette, le strutture parlamentari e l’organizzazione di partito.
Proprio come ha detto il primo ministro socialista spagnolo Zapatero ai vescovi Rouco-Varela e Garcia-Gasco che, nel “giorno della famiglia” dei Cattolici spagnoli lo avevano accusato di «violazione della democrazia e dei diritti civili» a causa delle due leggi sui matrimoni gay e sui divorzi rapidi.
4 - Ogni proposta, dibattito, incontro di lavoro, discussione, decisione del Partito democratico, ad ogni livello della sua struttura esecutiva, saranno noti, annunciati e trasparenti, e saranno sempre portati a conoscenza degli elettori e di tutta l’opinione pubblica orientata verso il Pd, attraverso l’annuncio e, alla fine, il resoconto dell’evento, attraverso la pubblicazione in rete e in ogni altra forma disponibile di comunicazione. Per la prima volta nella vita italiana i cittadini interessati al lavoro del Partito democratico potranno partecipare, rispondere, interferire.
Trasparenza è moralità.
5 - Interessi, ragioni e pressioni di ogni tipo, anche se legittimi, rischiano di deviare il percorso decisionale di un partito o di deformarne l’immagine. Ciò avviene soprattutto nelle questioni che hanno a che fare con l’economia, la produzione di ricchezza e la protezione della ricchezza acquisita. Per difendersi da spinte squilibranti e da risposte discontinue, il Pd si doterà di carte programmatiche che indicano preventivamente i suoi punti di sostegno, equilibrio, garanzia e le sue regole di condotta, in modo da evitare clientele, imposizioni padronali e atteggiamenti di pretesa o ricatto basati sullo scambio.
Chiarezza è moralità.
6 - Il lavoro in tutte le sue forme e livelli, è il punto di riferimento fondamentale del Pd, che riconosce nella buona organizzazione, nell’adeguata formazione, nell’equa retribuzione, nel sistema di premi e garanzie, nella fine della precarietà, nella ricostituzione di un legame saldo tra lavoro e cittadinanza, in moderni e adeguati ammortizzatori sociali, i tratti di civiltà a cui il Pd vuole contribuire e alla cui costruzione partecipa.
La difesa del lavoro è moralità.
7 - I cittadini hanno il diritto di essere informati. Il Pd si impegna nella difesa di questo diritto che vuol dire libertà dalla manipolazione, dalla omissione deliberata, dalle censure di tutti i tipi, dalle propagande travestite da notizie persino se a proprio favore. Il rigore nel proteggere e garantire la disponibilità continua e immediata di notizie verificate - unica barriera contro le due pratiche corrotte del pettegolezzo giornalisticamente diffuso e dei fatui talk show che si trasformano in servizi alla persona dei partecipanti e sono fabbrica di esasperata antipolitica - deve diventare rigoroso e austero impegno quotidiano del Pd che mette i cittadini informati, e non gli esibizionisti della telecamera, al primo posto del diritto all’informazione. E restituisce ai giornalisti seri e professionali il dovere di ordinare e spiegare le notizie.
L’informazione piena, sobria e corretta è moralità.
8 - L’Italia esce da un periodo violentemente conflittuale di vari centri di potere, compresi centri istituzionali, e l’intero sistema giudiziario del Paese. Imputati di alto livello economico e politico hanno cercato di screditare e di rifiutare giudici e giudizio e, quando necessario per risolvere casi personali, hanno cambiato le leggi accorciando i temini di prescrizione, cancellando reati gravi come il falso in bilancio, autoesentandosi dal giudizio, persino quando la legge “ad personam” mentre risolveva il problema per uno provocava disastrosi esiti per la giustizia in numerosi altri casi.
Il Pd è il nuovo partito testimone di un’epoca di limpida e rigorosa separazione dei poteri in cui non è consentito alcun attacco, screditamento o tentativo di inceppare la giustizia. Vige la Costituzione, la giurisdizione del giudice naturale, le leggi, comprese quelle che dovranno essere ripristinate.
Rispetto delle istituzioni e piena autonomia della giustizia sono moralità.
9 - La scuola è il punto più alto e ambizioso nel progetto di un’epoca nuova per un grande Paese democratico. Scuola come luogo e incontro gentile e civile di diversità; scuola come curriculum di apprendimento; scuola come rapporto solidale fra generazioni e passaggio di consegne culturale; scuola come luogo e ambiente formativo in cui nasce il cittadino e si forma la persona capace di invenzione e di innovazione.
Anche con limitate risorse in ogni altro settore, niente può - nella concezione etica del Pd - essere risparmiato per la scuola, perché la buona scuola produce risorse più di ogni altra attività umana. E perché assolve al compito di grande valore morale di liberare ogni cittadino dal peso e dalla catena di ciò che non sa e non potrà sapere.
La buona scuola, impegno preminente del Pd, è moralità.
10 - Il diritto alla salute viene visto spesso come reclamo. Il Pd pensa che proteggere l’integrità fisica dei cittadini incarni i principali valori e diritti sanciti dalla Costituzione. La crescita sicura dei bambini, la protezione delle donne specie nel ciclo della maternità e della libera scelta, la prevenzione medica per tutti come politica, la garanzia di salvare sempre gli anziani dalla solitudine e dall’abbandono, il diritto al testamento biologico come riconoscimento della libertà e dignità della persona, tutto ciò è l’irrinunciabile patrimonio morale di cui il Pd intende, con il voto e con il sostegno degli elettori, dotare l’Italia.

l’Unità 13.1.08
Chiesa e sinistra. Il Vaticano ai tempi del Pci
di Roberto Cotroneo


La domanda è forse una sola, e vale la pena di farsela. Si può dire che il vecchio Partito comunista italiano era più compatibile e più vicino al Vaticano e alla Chiesa, rispetto al Partito Democratico oggi? O facciamoci la domanda in un altro modo ancora.
Eccola: le gerarchie vaticane si fidavano più dei comunisti che dei nuovi dirigenti del Pd?
Dopo quello che è accaduto in questi giorni, con le parole che Benedetto XVI avrebbe rivolto a Veltroni, Marrazzo e Gasbarra, poi riportate dai giornali, poi smentite, con la frase davvero curiosa che «le parole del papa sono state strumentalizzate» (ma si può strumentalizzare uno che parla ex cathedra?) sembrerebbe di sì. Dopo quello che è accaduto sul registro delle unioni civili a Roma, sembrerebbe ancora di sì, dopo i vari gay pride che si sono svolti a Roma, sembrerebbe ancora di più di sì. Eppure il Pd non è un partito comunista, non dice che “la religione è l’oppio dei popoli”, non ha esponenti trinariciuti che vorrebbero abbeverare i loro cavalli nella fontana di San Pietro. Non vuole fare la rivoluzione, per poi vietare ogni culto, eccezion fatta per quello del “Migliore”. Ma anzi, il partito democratico è un partito in quasi perfetto equilibrio tra l’ala migliorista e socialdemocratica del vecchio Pci, i cattolici liberali, i cattolici riformisti e la vecchia sinistra democristiana, e altro ancora. E meglio di così non si potrebbe.
E invece no. Qualcosa non torna. La nascita del partito democratico aveva, tra gli altri, due compiti. Da una parte far dimenticare quel retaggio, quel passato, quel pezzo di storia che il vecchio partito comunista si portava dietro e che non era abbastanza rassicurante, non era abbastanza “istituzionale”, per un elettorato che pur non essendo di destra, non avrebbe mai potuto votare un partito che per buona parte della sua storia era stato legato a un Paese totalitario, l’Unione Sovietica, anche attraverso flussi finanziari imponenti e importanti. Il partito di Amendola, certo, degli eroismi resistenziali, certo, di Enrico Berlinguer, certo, ma anche di Pietro Secchia e della Gladio Rossa, il partito con quell’album di famiglia, di cui parlò Rossana Rossanda, con pagine per niente esemplari. Dall’altra parte, nella parte cattolica e popolare del partito democratico, figlia della migliore Democrazia Cristiana, c’era da far dimenticare altre pagine ancora meno esemplari: collusioni con vecchi poteri fascisti, esponenti di partito mafiosi, golpismi striscianti, utilizzo di reti stay-behind non per difendere realmente un territorio di confine, come era l’Italia, ma per scopi illegali e spesso oscuri, che andavano a confondersi con le pagine più brutte della storia del nostro Paese. E al centro di tutto il nodo cruciale: i rapporti con il Vaticano, Stato nello Stato, Stato della Chiesa geograficamente dentro uno Stato che aveva il più forte partito comunista del mondo occidentale.
Da allora ne sono passati di anni. Dalle vignette propagandistiche che dicevano: «Nell’urna dio ti vede, Stalin no». All’epopea di don Camillo e Peppone, raccontata da Guareschi, e poi rappresentata visivamente da Fernandel e Gino Cervi. Quell’Italia un po’ alla buona, dove la mattina si andava alla sede del partito, e il pomeriggio a messa. E il partito non poteva che essere “il partito”: ovvero quello comunista. In una Emilia rossa, e assieme cattolica, in un Paese dove i comunisti con la chiesa e con i cattolici si intendevano assai bene. A cominciare dalla bizzarria vera di inserire un trattato internazionale, come il concordato, in una carta fondamentale, come la Costituzione.
E i comunisti votarono il famoso articolo 7, con il diktat di Togliatti, e molti musi si fecero scuri. E il Vaticano cominciò a pensare quasi da subito che i comunisti non erano nemici. Se alcuni di loro avevano la sgradevole convinzione che i preti fossero commestibili (comunisti mangiapreti), oltre naturalmente i bambini, e negassero recisamente che esistesse altro dio al di fuori della fede nella rivoluzione, nei fatti molti punti in comune c’erano. Primo fra tutti una vera idiosincrasia nei confronti dello Stato liberale. Perfido, baro e inaffidabile, per le gerarchie vaticane, visto che aveva portato via al Papa il potere temporale, la città santa, e vari territori che arrivavano fino in Romagna. Nemico autentico per chi quello stato liberale avrebbe voluto sovvertirlo per instaurare finalmente una bella dittatura del proletariato. Storie vecchie, certo. Passate, che nulla avevano a che fare con un dopoguerra di polemiche, leggi truffa, e scontri frontali tra Pci e Dc, scontri, per la verità, neppure troppo convinti. Non dimentichiamo che proprio Enrico Berlinguer, nella metà degli anni Cinquanta, portava a esempio per le giovani comuniste Santa Maria Goretti come modello di virtù, la santa contadina, la santa che si fece uccidere per non perdere la verginità.
Sulla morale comunista sono stati scritti molti saggi, interessantissimi. E in un certo senso c’era un humus, un moralismo, un’empatia comune a certa morale cattolica. Non dimentichiamo che Pier Paolo Pasolini fu espulso da Partito Comunista perché era omosessuale, e a rileggere il testo del provvedimento, ancora oggi c’è da stupirsi: «La federazione del Pci di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre 1949 l’espulsione dal partito del dott. Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della generazione borghese». Basta sostituire la parola “borghese” con la parola “nichilista”, e il testo si adatta perfettamente anche alla morale cattolica.
Sono passati sessant’anni. Gli anni Settanta hanno cambiato il Pci, e hanno cambiato anche la Chiesa, basti pensare alla teologia della liberazione, ai preti operai, e via dicendo. La morale comunista è apparsa un retaggio di un tempo che non esisteva davvero più. Però è sempre rimasta aperta da parte delle gerarchie cattoliche e vaticane se non proprio una simpatia perlomeno un intendersi con il Pci su alcuni linee fondamentali, per far fronte assieme ai veri pericoli: il nichilismo, le spinte libertarie, certe degenerazioni borghesi, la finanza laica, e soprattutto il moderno.
E proprio su questa parola si gioca tutto: il moderno. Il partito democratico è moderno. Non ha una morale opprimente, e cerca di non fare giochi opportunisti, anche se non sempre in questi mesi gli è riuscito. E di fronte a questa modernità che la Chiesa ha un vero e proprio disagio, perché la lingua non è più comune e non è più la stessa. Con il “moderno” questa chiesa ratzingeriana, che rispetto al suo predecessore è più reazionaria, ha difficoltà e mille disagi. Un potente partito democratico, moderno e aperto sui temi etici, e sui valori laici, è di una pericolosità immensa. E quello che è avvenuto nei giorni scorsi assomiglia troppo alla vecchia tecnica del bastone e della carota. Avvertimenti, e guanto di velluto.
Le pressioni saranno molte. Da parte del partito democratico guardare oltre Tevere, come si diceva un tempo, è indispensabile, e il timore di perdere l’elettorato cattolico è un incubo della sinistra di questi ultimi anni. Incubi a parte, la partita ora è aperta, e sarà molto interessante capire cosa accadrà nel prossimo futuro.
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 13.1.08
Tra Bertone e Ruini fulmini all’ombra del Vaticano
di Roberto Monteforte


Pace fatta tra Vaticano e Campidoglio dopo le precisazioni seguite all’udienza di giovedì. Tutti soddisfatti dopo la nota di chiarificazione della Santa Sede sulle reali intenzioni del pontefice, vescovo di Roma a proposito del degrado della Capitale. Ma il freddo resta e pesante tra amministrazione capitolina e un altro palazzo apostolico, quello di san Giovanni in Laterano, sede del Vicariato e del cardinal-vicario Camillo Ruini. Non solo. Se si è dissinescata una polemica che poteva avere effetti pericolosi per i rapporti tra la Chiesa, praticamente possibile ostaggio della campagna di strumentalizzazione della destra, e l’intero centrosinistra, lo si deve all’intervento diretto del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone che ha colto il pericolo. Anche per la telefonata del premier, Romano Prodi che pare gli abbia chiarito la portata politica delle strumentalizzazioni delle parole del pontefice, critiche verso il sindaco di Roma, nonché leader del Pd, Walter Veltroni. La segreteria di Stato interviene e chiarisce. È un passo importante per mantere aperta quell’interlocuzione con il primo cittadino della Capitale anche nella sua nuova veste di leader politico interlocutore attento e aperto alle esigenze della Chiesa.
L’obiettivo può essere stato anche un altro. Più interno alle dinamiche in seno alla Chiesa. Visto che la secca denuncia sul degrado che colpisce la Città eterna contenuta nel discorso del Papa, era stata confezionato altrove, in Vicariato appunto, negli uffici dove ancora governa il cardinale Ruini, fautore convinto di una presenza più direttamente «politica» della Chiesa in Italia. Al porporato che ha guidato in modo incontrastato la Cei per oltre un ventennio, al fine stratega della «visibilità» della Chiesa nella società secolarizzata, al regista «politico» dell’astensione sul referendum sulla fecondazione assistita, brandito come una vittoria della Chiesa ed espressione della sua egemonia sulla società italiana, non potevano certo sfuggire le implicazioni di quel messaggio. Compreso il rischio di una rottura brusca con il centrosinistra e con la novità per la democrazia italiana rappresentata dal Pd.
Ma l’era Ruini è finita. C’è da correggere. Bertone non delega. Non a caso alla guida della Cei è stato chiamato l’arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, figura robusta, ma certo non presenzialista. Lo ha chiarito più volte Bertone, vuole essere lui e solo lui a tenere i fili dei rapporti con la politica in Italia. Decide di intervenire: da qui la nota ufficiale della Santa Sede e il suggello datole con la sua dichiarazione.
È una contrapposizione che prosegue. Ruini è una personalità forte, che continua ad avere un suo peso nella vita della Chiesa italiana ed anche nella dinamica politica. Lo si è visto sulla 194, con il suo appoggio all’inziativa di moratoria sull’aborto lanciata dal direttore del Foglio, Giuliano Ferrara.
Il vero strappo con l’«era Ruini» c’è stato lo scorso febbraio, in un’occasione solenne e impegnativa sia per il Vaticano che per lo Stato italiano: l’anniversario della firma dei patti Lateranensi. Il tradizionale incontro presso l’ambasciata d’Italia a villa Borromeo tra i massimi rappresentanti della Repubblica italiana e della Chiesa, è stato anticipato da un faccia a faccia tra il segretario di Stato Bertone e il premier Prodi. Uno scambio di impressioni durato una buona mezz’ora. Fuori, ad attenderne la conclusione, l’allora presidente della Cei e cardinal vicario Ruini e i suoi collaboratori.
È da quell’incontro che emerge con chiarezza come qualcosa sia cambiato nei rapporti tra le due sponde del Tevere. Senza nulla togliere all’intransigenza nella difesa dei valori, il segretario di Stato sembra poco propenso a dare spazio allo spirito di crociata. Vuole lasciarsi aperte le vie del dialogo a tutto campo, L’importante è incidere. Così, «pragmaticamente» incontra il leader del Pd, Veltroni a cui pone il niet vaticano sul registro delle unioni civili ed anche il Berlusconi che annuncia il nuovo partito del centrodestra.
Ma Ruini è tenace, intende condizionare il futuro, avere voce in capitolo nella oramai prossima nomina del suo successore. C’è chi dice che avverrà entro Pasqua, chi invece ipotizza entro l’estate. Chi gli succederà? «Sarà un pastore, una figura dal forte tratto spirituale». Questo è l’identikit indicato dalla segreteria di Stato. Corrisponde alla linea impressa da Ratzinger alla Chiesa. Sarà il Papa a decidere. Ma le ipotesi si succedono. Viene dato in forte ribasso il prelato che più impersona la linea della continuità con il «Ruini-pensiero»: il rettore della Lateranense e vescovo ausiliare della Capitale, monsignor Rino Fisichella, «cappellano» di Montecitorio e politico per vocazione. È un altro il nome che circola con insistenza: quello del cardinale Agostino Vallini, attualmente a capo del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. È figura di pastore, oltre che fine giurista, una persona lontana dalla ribalta. Si vedrà. Certo è che quella scelta vorrà dire molto non solo per la diocesi di Roma.

l’Unità 13.1.08
Scienziati e collettivi
«No a Ratzinger a La Sapienza»: pronto il comitato «d’accoglienza»


Si surriscalda il clima dell’Università La Sapienza di Roma in attesa dell’arrivo di Papa Benedetto XVI, invitato giovedì prossimo per l’inaugurazione del nuovo anno accademico. Al fronte «anti-Ratzinger» di alcuni collettivi studenteschi e un gruppo di professori che hanno dichiarato di «non volere il Papa perchè troppo reazionario» e hanno firmato un appello perchè «quell’invito sconcertante venga revocato», hanno fatto seguito ulteriori reazioni di segno inverso di altre frange di studenti e di esponenti politici.
Le organizzazioni studentesche stanno preparando un assedio sonoro, una lectio magistralis condotta da Paola Cortellesi, Andrea Rivera e la Banda Osiris e persino una «frocessione»: così il loro benvenuto. Tra le iniziative in programma, a cura, oltre che dei Collettivi, di Facciamo Breccia e del Collettivo di Fisica, da oggi si terranno «pranzi sociali anticlericali, assemblee, proiezioni di film su Galilei e la legge 40, evoluzionismo e creazionismo. Non mancheranno i momenti di discussione a cui interverranno i docenti che già in questi giorni hanno espresso le proprie perplessità sulla visita del Pontefice. Giovedì alle 12 partirà «l’assedio sonoro» in occasione dell'arrivo del Papa, del ministro Mussi e del sindaco Veltroni. Alle 14 prenderà il via il corteo, chiamato «Frocessione per i diritti negati», da piazzale Aldo Moro, entrerà nel quartiere di S. Lorenzo e tornerà a piazzale della Minerva.
A sostegno della visita di Benedetto XVI si sono pronunciati esponenti di Forza Italie a di Azione Universitaria.

Corriere della Sera 13.1.08
Giovedì il Pontefice all'università. Iniziative di studenti e professori
Il Papa visita la Sapienza Via alle proteste anticlericali
«Attaccò Galileo». Sul palco ci sarà Andrea Rivera
di E. Sa.


Contestazioni di collettivi di sinistra e movimenti Poi show con Cortellesi e il comico accusato dall'«Osservatore»

ROMA — «O con il Papa o con i saperi. Difendiamo la Minerva dall'oscurantismo»: da giorni uno striscione pende dal terrazzo del rettorato dell'università La Sapienza di Roma, dove giovedì 17 è atteso il papa Benedetto XVI. Una visita, in coincidenza dell'inaugurazione ufficiale del 705˚ anniversario del primo ateneo di Roma, che ha già mandato su tutte le furie, dallo scorso novembre, un vasto fronte di accademici, soprattutto professori di facoltà scientifiche.
Ora a protestare sono, oltre ad alcuni docenti, anche alcuni collettivi studenteschi di sinistra, che in accordo con i movimenti «Facciamo Breccia» e «No Vat» («Fuori Ratzinger dalle università», il loro slogan) hanno indetto una serie di iniziative di protesta già a partire da domani, quando comincerà la «settimana anticlericale» di protesta (ore 14, facoltà di fisica, film e intervento del professor Andrea Frova, autore del volume «Parola di Galileo»).
Il clou delle proteste sarà comunque giovedì, con i collettivi che hanno già definito «ospiti indesiderati» non solo il Papa, ma anche il ministro dell'università Fabio Mussi e il sindaco e leader del Pd Walter Veltroni che parteciperanno alla cerimonia di inaugurazione. Dalle 9 sono previsti volantinaggi in ogni facoltà. Dalle 12 in piazza Aldo Moro «assedio sonoro ». Poi, dalle 14, «Frocessione Layca per i diritti negati», che da piazza Moro attraverserà l'attiguo quartiere San Lorenzo per approdare infine ai piedi della statua di Minerva a celebrazioni avvenute.
Quest'ultima parte del programma prevede inoltre le esibizioni dell'attrice Paola Cortellesi, della Banda Osiris e di Andrea Rivera, comico «citofonista» che già il 1˚ maggio dal palco di piazza San Giovanni criticò aspramente il Vaticano, con l'«Osservatore Romano» che arrivò a parlare di «terrorismo».
Della settimana anticlericale fa parte anche un'assemblea indetta mercoledì alle 13 a Fisica, con l'intervento dei docenti firmatari di un appello contro la presenza di Ratzinger, inviato a suo tempo al rettore dell'ateneo Renato Guarini. Il primo a protestare per la presenza del Papa all'apertura dell'anno accademico era stato infatti Marcello Cini, professore emerito, fisico di grande fama e membro di Sinistra democratica (di cui è leader il ministro Mussi).
A novembre, in un'infuocata lettera a Guarini, Cini parlò di «incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università », seguito pochi giorni dopo da un appello al rettore di altri 61 docenti, i quali chiedevano che «l'incongruo evento» fosse annullato. Riferendo in particolare una citazione dell'allora cardinal Ratzinger i docenti scrissero: «Il 15 marzo 1990 in un discorso nella città di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: "All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto". Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano».
Dal rettorato già allora replicarono che almeno formalmente il Papa non sarebbe intervenuto all'inaugurazione dell'anno accademico, bensì «al termine di questa, per un saluto alla comunità universitaria in Aula Magna e poi per una visita alla cappella restaurata». «Una toppa che cerca di nascondere il buco» fu la replica di Cini (inizialmente Guarini comunicò al Senato accademico una «lectio magistralis» del Papa, mentre la lectio è per tradizione riservata a un professore dell'ateneo). A difendere invece la visita di Benedetto XVI, criticando collettivi e appello dei docenti, sono stati ieri gli studenti di Azione giovani (An) e il deputato di Forza Italia Francesco Giro.

l’Unità Roma 13.1.08
«Per la visita del Papa a La Sapienza forzeremo il blocco»
Gli studenti dei collettivi: faremo una performance sulla libertà dei corpi anche se c’è il divieto di manifestare
di Luciana Cimino


ZONA ROSSA ALLA SAPIENZA In occasione della visita del Papa, il prossimo 17 gennaio, la città universitaria sarà interdetta ai cortei. Vietato entrare da piazzale Aldo Moro e vietato sostare sotto la statua della Minerva, proprio il simbolo scelto dagli studenti e dai collettivi per manifestare la loro contrarietà alla presenza, assieme al Ministro Fabio Mussi e al sindaco Veltroni, di papa Ratzinger per l’inaugurazione del 705esimo anno accademico. «Una presenza fuori luogo che offende la laicità del più grande ateneo d’Europa – spiega Francesco della Rete per l’autoformazione, sigla che riunisce i collettivi delle diverse facoltà – per questo vogliamo simbolicamente difendere la Minerva, protettrice della conoscenza, dagli attacchi oscurantisti della chiesa cattolica». Domani è previsto un ulteriore incontro tra manifestanti e forze dell’ordine ma è difficile che la "zona rossa" venga rimossa. «Abbiamo chiesto al rettore Renato Guarini il permesso di manifestare – continua Francesco – ma non ci ha risposto. A questo punto giovedì l’unica soluzione sarà quella di forzare il blocco per dare luogo ad una performance sulla libertà nel disporre del proprio corpo che farà scalpore». Transenne o meno quel che è certo è che la visita del pontefice, per la prima volta in una università italiana, ha creato una grande mobilitazione di dissenso, non solo all’interno del circuito accademico capitolino. Il timore è che, sulla scorta di quanto successo a Ratisbona, in Germania, Ratzinger si faccia scappare anche in Italia una lectio magistralis più politica che spirituale. E cioè che parta dal tema della giornata, la moratoria contro la pena di morte, per «contestare ancora una volta la legge sull’aborto», sospetta Pasquita, studentessa di Scienze della Comunicazione. Attività e mobilitazioni in difesa della laicità dello stato e del libero sapere partiranno quindi da domani con il ricco programma della Settimana Anticlericale, organizzata da professori e studenti del dipartimento di scienze matematiche – fisiche – naturali e che prevede proiezioni e dibattiti su Galileo, sull’evoluzionismo e sulla legge 40, e con le attività di sensibilizzazione all’interno di ciascuna facoltà.
Si concluderanno poi con l’assedio sonoro del 17 mattina a piazzale della Minerva e con la lectio magistralis alternativa che professori di storia e di fisica della Sapienza terranno nel pomeriggio con Andrea Rivera, Banda Osiris e Paola Cortellesi a conclusione della "Frocessione". Così gli organizzatori (il Coordinamento Nazionale Facciamo Breccia che racchiude, oltre ai collettivi ed ai centri sociali, associazioni femministe e omosessuali) hanno chiamato il corteo in forma di processione che si snoderà per San Lorenzo, con partenza alle ore 12, attraverso varie tappe – performance che, spiega Dario di Lettere, «serviranno a catalizzare l’attenzione su varie questioni: non solo la legge 194 ma anche lo strapotere economico della chiesa a Roma, la violenza sulle donne, l’omofobia, il diritto allo studio, il riconoscimento dei diritti civili per tutte e tutti». «Al corteo saremo in tanti – si augura Giorgio del dipartimento di fisica – ci aspettiamo anche pullman da altre città perché l’ultima offensiva del papa sull’aborto e la bocciatura, da parte del consiglio comunale capitolino, del registro per le unioni civili hanno fatto capire a molti che l’ingerenza della chiesa nella vita pubblica italiana non è più tollerabile». Non per niente i manifesti scelti per l’evento e con i quali, a partire da oggi, sarà tappezzata la città, rappresentano il pontefice che manovra le faccette di Veltroni e Mussi.

l’Unità 13.1.08
Pd, accordo sui valori. A vuoto il blitz di Ferrara
Il direttore del «Foglio» si presenta all’assise sul «manifesto» che diventa «pubblica»
Tensione sulla laicità, poi l’ok al testo base
di Maria Zegarelli


LA RIUNIONE del Comitato del manifesto dei valori del Pd inizia con un’incursione a sorpresa del direttore del «Foglio» Giuliano Ferrara che arriva nella sede della Margherita di via del Nazareno. «La riunione è chiusa alla stampa», lo bloccano all’ingresso. Ma è Ferrara. E viene accompagnato dal presidente del Comitato, Alfredo Reichlin che chiede: «Vuole intervenire?». No, assistere «come giornalista» spiega il direttore. Più tardi aggiunge: «Per parlare della moratoria contro l’aborto ci sarà un incontro al riguardo, deciderà Veltroni quando». Osserva, da fuori, polemico Roberto Cuillo: «I tre milioni e mezzo di cittadini che hanno votato alle primarie non hanno meno diritti di Ferrara. Quindi potrebbe essere un’idea che d’ora in poi si segua la norma che ognuno dei cittadini che hanno votato alle primarie possa partecipare liberamente a tutte le commissioni del Pd». L’assemblea arriva addirittura al voto sul punto. Ferrara entra. Assicura che era in buona fede, pensava fosse una riunione aperta, il senatore Antonio Polito sposa la tesi. Domanda: lo stesso trattamento - con tanto di votazione - sarebbe stato riservato a qualunque altro giornalista?
Risolto il caso Ferrara finalmente si inizia. Osservazioni sulla bozza - rielaborata - sostanzialmente positive, ma non mancano voci dissonanti. Il matematico Piergiorgio Odifreddi e Marina Salomon provocano autentiche scintille a fine mattinata quando si tratta di decidere se mandare o no all’esterno un messaggio di “trovato accordo” sul testo base e soprattutto sulla laicità del partito. Secondo Odifreddi il testo dovrebbe essere molto più stringato, dieci punti, non di più. Secondo Salomon il linguaggio del Manifesto è «vecchio», obsoleto. Il presidente minaccia le dimissioni: «Se non vi sta bene, fatevelo voi». La diplomazia Pd scende in campo, la crisi si risolve. Passa a stragrande maggioranza la linea - con l’astensione dei due dissidenti - la proposta di Pierluigi Castagnetti, Marco Follini, Giorgio Tonini, Gianni Cuperlo e Ermete Realacci di votare il testo base - per dare un messaggio all’esterno di ritrovata armonia dopo le tensioni provocate dalla definizione di partito laico - e dare mandato al presidente Reichlin e al relatore Mario Ceruti, di accogliere suggerimenti, e poi il 26 gennaio procedere alla discussione e al voto finale.
Suggerimenti e critiche. Sergio Gentili: «Dobbiamo inserire il principio della responsabilità umana nei confronti della specie» e, tema caro agli ex ds, indicare la collocazione Europea del Pd. Avverte il rutelliano Polito: «Noi dobbiamo parlare al popolo del Pd. Dobbiamo dire che noi vogliamo che il figlio dell’operaio e il figlio del notaio abbiano le stesse identiche possibilità». E come non mettere tra i valori del Pd la questione del mercato? «La creazione del lavoro è o non un valore?». Dissente sul punto Giorgio Ruffolo, che invece approva l’impianto generale. Francesco Merlo annota che il documento «va bene, ma ricorda più un agenda programmatica che un Manifesto dei valori». Il prodiano Franco Monaco si chiede «come si organizza il pluralismo interno? Attenzione a non diventare un partito che non prende posizione». L’ex popolare Castagnetti pone il tema della libertà di coscienza dei parlamentari: dovrebbe essere - ragiona - l’estrema ratio quando dopo una lunga e articolata discussione nel partito, sui temi eticamente sensibili, non si trova una posizione unitaria. «Ma è una decisione che dovrebbe spettare ai gruppi parlamentari». Sul tema interviene, da Moena il vicesegretario del Pd, Dario Franceschini: «Una cosa è che si lasci libertà di coscienza a conclusione di un processo comune, altra cosa è che la coscienza sia il punto iniziale, non ascoltando neppure le ragioni dell’altro».

l’Unità 13.1.08
Ebrei e partigiani. Una storia da scrivere
di Michele Sarfatti


Sui 43.000 italiani di «razza ebraica» all’8 settembre '43 i resistenti furono ben mille. E cento furono i caduti
La Shoah non consentiva di partecipare alle azioni urbane. Ma tra loro ci fu chi, come Leo Valiani ed Emilio Sereni, rivestì alti incarichi

UN CONVEGNO a Roma si occupa per la prima volta della partecipazione della comunità ebraica alla Resistenza italiana: in molti affluirono nelle varie formazioni combattenti e nei movimenti politici che le sostenevano, ma individualmente

Uno studioso ha suddiviso la Resistenza ebraica nell’Europa orientale in tre grandi ambiti di tipo strutturale-geografico: la Resistenza nei ghetti, la Resistenza nelle foreste, la Resistenza nei campi di concentramento e di sterminio. Nei ghetti - ovviamente - e quasi sempre nelle foreste (nonché nel Sonderkommando di Birkenau) questo impegno si concretò nella costituzione di veri e propri gruppi ebraici di lotta.
In Italia invece, similmente a quanto accadde in gran parte dell’Europa meridionale e occidentale, gli ebrei affluirono individualmente, quali singoli, nelle varie formazioni partigiane e nei movimenti politici che le sostenevano e indirizzavano.
La decisione fu talora molto semplice e immediata; il ventottenne Emanuele Artom, il giorno dopo l’8 settembre 1943, scrisse sul proprio diario: «La radio tedesca annunzia che verranno a vendicare Mussolini. Così bisogna arruolarsi nelle forze dei partiti e io mi sono già iscritto». Come si vede, la seconda frase condensa una grande quantità di informazioni: «così» rimanda sia all’urgenza del momento, sia all’automaticità della decisione; «arruolarsi» esprime la consapevolezza che si tratta di un’iscrizione già militare, e non semplicemente politica; «dei partiti» documenta sia il carattere unitario della Resistenza sin dagli inizi, sia la loro pronta ripresa di attività dopo il 25 luglio 1943; «già iscritto» testimonia una prontezza e quasi un desiderio di organizzazione che compare anche in altri scritti di ebrei.
Il venticinquenne Carlo Rosselli, subito dopo l’assassinio del socialista Giacomo Matteotti nel luglio 1924, scrisse a Piero Gobetti: «è venuta l’ora per tutti di assumere il proprio posto di battaglia in seno ai partiti». Non voglio sostenere che il riconoscimento della necessità dell’organizzazione politica - e, poi, politico-militare - fosse un’esclusiva ebraica; ma, certo, tra alcuni ebrei appare particolarmente presente.
Intorno all’8 settembre, nelle regioni centrali e settentrionali della penisola vi erano circa 43.000 persone appartenenti - secondo la classificazione biologica del fascismo - alla «razza ebraica»; di esse circa 33.000 possono essere definite effettivamente ebree, ossia professanti o almeno mantenenti un’identità ebraica. Alcuni erano immigrati o profughi, giunti nella penisola da poche settimane o vari anni, spesso ormai impoveriti.
Molti altri avevano una cittadinanza italiana che talora derivava dai tempi di Roma antica, e anch’essi portavano sulle spalle gli effetti di cinque anni di dura persecuzione legislativa, che li aveva colpiti nella condizione socio-economica e nella rete di rapporti con i non ebrei. Erano l’uno per mille della popolazione complessiva, dalla quale peraltro - a eccezione degli ebrei molto osservanti provenienti dal nord del continente - non si differenziavano grandemente, né nel vestire, né nel comportarsi.
Possiamo sintetizzare che per molti anni gli ebrei italiani erano stati fascisti come gli altri italiani e più antifascisti degli altri italiani; cioè che essi - in termini schematici - in parte avevano sostenuto strenuamente Benito Mussolini e il suo regime e in un’altra parte, che rispetto agli italiani non ebrei risultava proporzionalmente più numerosa, lo avevano avversato. Le leggi antiebraiche razziste del 1938 e ancora di più i processi da esse messi in moto avevano fatto maturare un profondo disincanto in molti dei primi (non in tutti!) e avevano parallelamente accresciuto il rispetto e la credibilità intraebraica degli antifascisti.
Per tutti essi, lo sterminio divenne una prospettiva reale solo dopo l’8 settembre 1943, quando ormai di esso circolavano le prime parziali notizie. Così, mentre nelle terre sovietiche percorse dalle Einsatzgruppen la morte di massa giunse prima che si potesse prevederla o anche ipotizzarla, in Italia il partigiano Emanuele Artom (poi arrestato e ucciso) così commentò sul proprio diario l’ordine della Rsi di fine novembre 1943 di arresto generalizzato degli ebrei: «Che cosa ne sarà della mia famiglia? Forse non vedrò più né mio padre né mia madre. In questo caso chiederò al comandante di essere mandato in una missione tale da essere ucciso».
Gli ebrei resistenti attivi furono circa un migliaio: in grandissima maggioranza combattenti partigiani, ma anche esponenti clandestini politici o militari, membri di missioni clandestine alleate nella penisola.
Alcuni di loro (come il piemontese Raffaele Jona) si impegnarono anche nel salvataggio e nell’assistenza degli altri ebrei. Resistenti attivi, pur se disarmati, furono inoltre coloro che si dedicarono unicamente a quest’ultima azione. Tra essi vi erano vari attivisti della Delegazione per l’assistenza agli emigranti - Delasem (diretta a Genova da Lelio Vittorio Valobra e poi da Massimo Teglio e animata a Roma da Settimio Sorani), nonché alcuni rabbini (come Nathan Cassuto e Riccardo Pacifici, poi arrestati e morti in deportazione). La rete della Delasem, sostenuta dall’indispensabile apporto di vari non ebrei, compresi alti esponenti cattolici, riuscì a garantire un certo afflusso di fondi dalla Svizzera e una loro distribuzione in varie località per l’acquisto di documenti falsi, generi alimentari, medicine, vestiario di lana, legna per il fuoco ecc. Tale opera permise la sopravvivenza e la permanenza in clandestinità di alcune migliaia di braccati, in particolare ebrei stranieri ed ebrei italiani poveri o totalmente soli.
Vi furono inoltre ebrei italiani che combatterono volontari su altri fronti europei. Infine, molti ebrei non italiani combatterono in Italia (spesso anch’essi quali volontari) sotto la divisa statunitense, inglese, ecc., compresi naturalmente i membri della Brigata Ebraica costituita in Palestina. Peraltro, il totale di un migliaio di resistenti in Italia comprende alcune decine di ebrei stranieri o apolidi.
Gli ebrei partecipanti alla lotta armata, operarono quasi sempre nelle formazioni partigiane; pochissimi furono quelli impegnati nelle azioni cittadine: la clandestinità imposta dalla Shoah era incompatibile con le necessità delle azioni clandestine urbane.
Alcuni ebrei ebbero importanti incarichi negli organismi dirigenti locali e nazionali della Resistenza: l’azionista Leo Valiani e il comunista Emilio Sereni furono nominati il 29 marzo 1945 membro effettivo e membro supplente per i rispettivi partiti nel Comitato esecutivo insurrezionale, incaricato dal Clnai di sovrintendere all’ormai imminente insurrezione. Nei convulsi giorni di fine aprile 1945 spettò a questi ultimi due, assieme al socialista Sandro Pertini, il compito di confermare la precedente decisione del Clnai di condannare a morte Benito Mussolini. Il comunista Umberto Terracini fu segretario della Giunta provvisoria di governo costituita nel settembre-ottobre 1944 nell’Ossola liberata. Vari altri svolsero la funzione di «commissari politici» nelle singole formazioni partigiane. Queste presenze erano in qualche modo conseguenza automatica del maggior livello di istruzione del gruppo ebraico italiano. Allo stesso tempo ci segnalano la permanenza del ruolo ebraico di «educatore della nazione», testimoniato per tutto il periodo storico dell’Italia unita, e ci indicano che nella complessa vicenda del passaggio dal fascismo all’antifascismo l’Italia fece di nuovo ricorso proprio anche al gruppo degli ex-perseguitati.
La maggior parte dei resistenti ebrei aderì al partito d’azione e a quello comunista, e fece quindi parte delle formazioni «Giustizia e Libertà» o «Garibaldi».
I caduti furono quasi cento, in maggioranza uccisi in combattimento o poco dopo l’arresto (come le triestine Silvia Elfer e Rita Rosani), ma anche nei campi dove erano stati deportati per motivi politici o perché riconosciuti come ebrei dopo l’arresto (come la torinese Vanda Maestro, arrestata assieme a Primo Levi).
Tra i resistenti ebrei vi fu, rispetto all’insieme del movimento partigiano, una maggiore presenza delle classi di età meno giovani e un minore numero di donne combattenti; il primo dato segnala ancora una volta la radicalità del contributo ebraico, il secondo testimonia che sulle donne gravava maggiormente la sopravvivenza delle famiglie braccate e che proprio la loro condizione di clandestine impediva di impegnarsi nell’attività di «staffetta».
Poco o nulla sappiamo intorno alla loro religiosità e ai mille problemi che i più osservanti di essi dovettero affrontare sulle montagne (anche se occorre dire che la grande maggioranza degli ebrei italiani seguiva relativamente poco le regole alimentari e altre regole di vita dettate dall’ebraismo).
Mille resistenti ebrei non furono pochi. I certificati di «partigiano combattente» rilasciati dopo la guerra sono, in tutta la penisola, oltre 233.000. Se ipotizziamo che solo due terzi dei partigiani ebrei li abbiano ricevuti, il loro numero costituisce pur sempre il 2,8 per mille del totale dei partigiani italiani, ovvero tre volte la proporzione della popolazione ebraica nella penisola. Va poi tenuto presente che altri uomini abili alla lotta dovettero impegnarsi - al fianco di tante donne - nel proteggere dagli arresti o dalla morte per stenti i loro figli, i loro anziani, i loro malati. Mille furono insomma molti, tanti. Va aggiunto che i resistenti ebrei decorati di medaglia d’oro al valor militare furono sette (Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti, tutti «alla memoria») su poco più di seicento. Si tratta di una percentuale notevole, che, seppure non può e non deve dare adito a confronti di tipo meccanico (il valore mostrato da uomini e donne di tutte le fedi è sempre superiore a quanto contabilizzato dai medaglieri), tuttavia concorre anch’essa a rendere legittima l’affermazione che gli ebrei italiani parteciparono in misura assai elevata (rispetto alle loro dimensioni numeriche e alla loro condizione specifica) alla liberazione di se stessi e dell’Italia tutta.
Si potrebbe osservare che ciò costituiva un fatto semplicemente ovvio, che gli ebrei non potevano far altro che difendersi combattendo. Questa considerazione è ovviamente vera, ma non esaustiva. Essa non spiega ad esempio perché vari ebrei rientrarono in Italia dai loro luoghi di rifugio o di emigrazione (come il sionista-socialista-pacifista Enzo Sereni, che, arruolatosi in Palestina, si fece paracadutare nell’Italia occupata, per essere però poi arrestato, deportato come politico e ucciso a Dachau). C’era quindi dell’altro, e per illustrarlo consentitemi di proporvi le testimonianze dei compagni di lotta del partigiano Gianfranco Sarfatti, comunista, rientrato in Italia dopo aver accompagnato i genitori al sicuro, caduto in combattimento in Valle d’Aosta. A chi gli chiedeva: «Combatti i tedeschi e i fascisti perché sei ebreo?», lui rispondeva «No, combatto i tedeschi e i fascisti perché spero di arrivare a dare al popolo italiano onore, benessere e dignità». E ancora: «Ma tu prima di venire qua dov’eri?», «Ero in Svizzera», «E come mai sei venuto di qua? Avevi la vita più facile di là, no?», «Si, ma vedi, ci sono degli ideali».
Ecco, i resistenti ebrei apportarono al movimento di liberazione il proprio specifico bisogno di libertà, giustizia e solidarietà e le loro riflessioni su tali problemi. E questo bisogno e questa assicurazione di eguaglianza (per sé stessi e per tutti) costituirono forse il motivo principale (allo stesso tempo materiale e ideale) che li spinse a prendere le armi.

l’Unità 13.1.08
Le tentazioni di Francesco Furini
di Renato Barilli


PALAZZO PITTI apre le porte ai dipinti sensuali dell’artista fiorentino che contribuì allo stile che dominò l’arte seicentesca: nudi di donne con carni dal candore lunare, seni morbidi e gonfi e gambe flessuose

Una fortunata circostanza vede l’apertura quasi simultanea di ampie mostre dedicate rispettivamente al fiorentino Francesco Furini (1603-1646) e al romagnolo Guido Cagnacci (S. Arcangelo, 1601-1663), la prima a Pitti, Museo degli Argenti, di cui mi occuperò in queste righe, mentre per l’altra, a Forlì, si dovrà attendere ancora una settimana. Sarebbe bello che un visitatore volonteroso si recasse ad ammirarle entrambe, magari anche chiamato a esprimere una preferenza sull’uno o sull’altro artista. Come si vede dai dati anagrafici, si è trattato quasi di due vite parallele, anche se di fatto non si frequentarono, e scarsa è anche la consapevolezza di questo destino parallelo che emerge, almeno nelle pagine del catalogo sul Furini, dove il nome dell’altro compare un po’ di straforo, secondo il miopismo che purtroppo domina oggi molti di questi cataloghi, in cui si tengono gli occhi troppo fissi sul piatto del giorno. Ovviamente, i dati anagrafici da soli non bastano, conta verificarli sui rispettivi percorsi, ed ecco allora l’inevitabile attrazione esercitata su entrambi da Roma, la capitale imprescindibile dell’arte a cui si accorreva da ogni parte d’Europa. E nell’Urbe scatta per i due la suggestione del caravaggismo da cui tuttavia, e anche questa è una sorte comune, non solo a loro ma a decine di colleghi, si ritraggono subito a partire dal terzo decennio. Entrambi del resto se ne tornano dalle loro parti a svilupparvi il verbo ricevuto a Roma. Questo impallidire delle fortune del caravaggismo dovrebbe essere tenuto più presente, dai commentatori del nostro tempo, che invece eccedono in ammirazione a favore del Merisi e derivati per effetto di una retrospezione in nome del realismo francese di Courbet e compagni. Allora, invece, come d’altronde è ben noto, all’attrazione esercitata dal Caravaggio subentrò ben presto l’altra del polo «bolognese», tra Annibale e Guido Reni, cui i nostri due non furono certo insensibili. Se quindi, venendo al Furini, uno dei primi dipinti in mostra è un Autoritratto ancora provvisto di qualche sodezza di fattura caravaggesca, subentrano poi le mollezze, le sdolcinature «alla Guido». Basti vedere una Aurora e Cefalo, in cui l’artista rivela la sua avida propensione per la carne nuda, di donna soprattutto, attraverso vesti che si dischiudono facendo spuntare seni procaci, gambe flessuose e ben tornite. Accanto al nudo femminile, un posto ugualmente importante lo ha quello di bimbetti anch’essi ben in carne, coi lineamenti atteggiati a sorrisi suadenti e perfino beffardi. Nel breve soggiorno romano, ci avvisano i curatori della mostra, il Furini fece molta attenzione alla statuaria classica, studiando le Veneri sorgenti dal bagno, le Niobi, le Grazie, ma la sensualità che lo dominava lo induceva a colpire con la bacchetta di un mago le fredde nudità marmoree per dar loro un goloso palpito di vita, o forse c’era in lui addirittura un negromante desideroso di resuscitare i corpi morti con qualche ricetta misteriosa. Un procedimento in cui appunto, per suo conto, il dirimpettaio Cagnacci gli fu buon emulo, puntando pure lui su soffici seni, di Cleopatra o di altri personaggi muliebri del mondo antico, ma trasportati nel tepore di alcove, spiati nelle stanze da bagno, circondati da ninfe-inservienti devote e servizievoli. Semmai, al Cagnacci si può attribuire l’attaccamento a carni più sode e plastiche, ma vedremo quando sarà il suo turno. Quanto al Furini, rientrato a Firenze, vi raccoglieva un retaggio dalla grande tradizione locale, seppure nella persona dell’eversore numero uno del culto stretto del disegno, Leonardo, da cui il Nostro trasse la propensione per il morbido e lo sfumato, portandola a vertici estremi, sfiorando perfino una punta di perversione, degna di un altro Toscano illustre, il Pontormo. Un fascio di ombre, densa da tagliar col coltello, cinge come una guaina i busti delle sue eroine, facendone emergere per contrasto il candore lunare delle carni, che ci appaiono quasi madide di sudori; inoltre, simulando disinvoltura di pose, quei nudi spesso e volentieri si girano di spalle ostentando il gonfiore anch’esso lunare delle natiche.
Tutto questo, sia ben chiaro, nel rispetto delle commitenze lecite a quei tempi, che non ammettevano certo il nudo di grandi dame sorprese appunto nei riti domestici, nelle cure estetiche minuziosamente apprestate per tendere reti amatorie ai loro corteggiatori. Lunga è la strada per giungere alle donnine procaci di Renoir, per il momento bisogna accontentarsi di un repertorio folto di Giuditte intente a recidere il capo ad Oloferne, o di Maddalene penitenti, o di Sante Caterine d’Alessandria. In sostanza il Furini praticava una specie di polarizzazione agli estremi, infatti un dato biografico ci dice che nel 1633 si fece prete andando a isolarsi in una remota chiesa del contado. Ma sappiamo che esiste l’ossimoro della coabitazione tra il diavolo e l’acqua santa, due secoli dopo lo avrebbe ben avvertito Gustave Flaubert tormentandosi attorno alle tentazioni di S. Antonio. Il sacerdote che Furini volle essere doveva ricevere in visita notturna quei simulacri colmi di sensualità, per non dire di sex appeal. Ma in tal modo egli recò un consistente contributo, assieme al lontano compagno di strada, il Cagnacci, al clima di fervido naturalismo-sensualismo che dominò il Seicento.

Repubblica 13.1.08
Una chiesa che scambia il sacro con il profano
di Eugenio Scalfari


E´ durato ventiquattr'ore il gelo tra Vaticano e Campidoglio, tra il Papa e il sindaco di Roma. Poi c´è stata la marcia indietro guidata dal cardinal Bertone, Segretario di Stato, e Roma da città in «gravissimo degrado» come aveva affermato Benedetto XVI di fronte a Veltroni, Marrazzo e Gasbarra allibiti di tanta inattesa severità, è diventata di colpo una «città godibile e accogliente» e le istituzioni locali «alacremente impegnate a migliorare la socievolezza e il benessere diffuso».
Le due diplomazie parallele hanno lavorato sotto traccia senza risparmiarsi, ottenendo infine il risultato desiderato da entrambe (quella di Veltroni e quella di Bertone): correggere la «gaffe» di papa Ratzinger, ristabilire rapporti amichevolmente corretti tra le due sponde del Tevere, mettere allo scoperto l´ultimo colpo di coda di Ruini, autore del dossier cui si era ispirato il Papa per la sua improvvida sortita. Ruini sta facendo i bagagli, tra poco lascerà il Vicariato (per limiti d´età).
Al suo posto andrà il prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica, candidato del Segretario di Stato.
Quanto all´assalto antiveltroniano scaturito dopo l´intervento papale dell´altro giorno, la correzione effettuata dal cardinale Segretario di Stato ha avuto l´effetto di un «boomerang»: per l´ennesima volta gli statisti del centrodestra – con la sola eccezione di Casini – si sono esposti con strepiti e sceneggiate clericaloidi per poi trovarsi spiazzati e beffati.
Una vittoria non trascurabile per Veltroni, derivante da un appuntamento che in condizioni diverse avrebbe avuto dai «media» l´attenzione di poche righe e che si è invece trasformato in una prova di forza del sindaco di Roma e leader del Partito democratico.
Tutto è bene quel che finisce bene, ma è proprio così?

Dipende dai punti di vista. Per i laici-laici (adesso si usa definirli così) restano molti punti interrogativi dopo questa vicenda, ma problemi ancora maggiori si pongono al laicato cattolico.
Non che siano nati dalla «gaffe» di Benedetto XVI; esistono da molto tempo e precedono di anni l´incoronazione dell´attuale pontefice. Ma quest´ultima sua sortita ha avuto l´effetto di riproporli tutti, insoluti e sempre più urticanti.
Al di là della palese inconsistenza politica e culturale di papa Ratzinger, che da Ratisbona in qua si comporta come un allievo di questo o quel dignitario della sua corte spostando la barra del timone secondo i suggerimenti che gli vengono da chi di volta in volta lo consiglia, esiste più che mai un disagio profondo nella Chiesa e nel laicato cattolico. La Chiesa di Benedetto XVI, ma anche quella di Giovanni Paolo II, non riesce ad entrare in sintonia con la cultura moderna e con la moderna società. Questo è il vero tema che dovrebbero porsi tutti coloro che si occupano dei rapporti tra la società ecclesiale e la società civile all´inizio del XXI secolo.
La gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente viene definito il Magistero si sono da tempo e sempre più trasformati in una «lobby» che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall´attività pastorale e dall´approfondimento culturale. Il «popolo di Dio» soffre di questa trasformazione; i laici non trovano terreno adatto al dialogo se non sul piano miserevole di comportarsi anch´essi come una confraternita pronta a compromessi e patteggiamenti.
Quando un Papa arriva al punto di bacchettare un sindaco di Roma e un presidente di Regione e reclama maggiori aiuti finanziari per il Gemelli e il Gesù Bambino e per le scuole cattoliche; quando il Vicariato di Roma e il vertice della Conferenza episcopale intervengono direttamente sui membri del Parlamento e del Consiglio comunale romano per bloccare una legge o mandarne avanti un´altra; quando questa prassi va avanti da anni di fronte a problemi mondiali che chiamano in causa civiltà e culture, bisogna pur dire che siamo in presenza di spettacoli desolanti.
Aggiungo che si tratta di responsabilità condivise. La gerarchia cattolica baratta da anni (o da secoli?) il sacro con il profano; le istituzioni politiche l´accompagnano su questa strada di compromessi al ribasso per cavarne improbabili tornaconti elettorali; lo stuolo sempre più vociante degli atei devoti affianca o precede il corteo.
Verrebbe spontaneo di voltar la faccia dall´altra parte per non vedere.
* * *
Veltroni ha fatto bene a protestare sottotraccia e portare a casa la vistosa correzione di rotta vaticana.
Zapatero, in una situazione per molti versi analoga, ha scelto una strada diversa. L´Episcopato spagnolo guidato dal primate vescovo di Madrid aveva pochi giorni fa portato in piazza un milione di fedeli per protestare contro la legge sul matrimonio dei «gay»; la vicepresidente del governo, signora Fernandez de la Vega, ha ufficialmente commentato quella manifestazione con queste parole: «La società spagnola non è disposta a tornare ai tempi in cui una morale unica era imposta a tutto il Paese né ha bisogno di tutele morali. Tanto meno ne ha bisogno il governo che non le accetta».
Capisco che Madrid non è Roma e il vescovo di Madrid non è il Papa. Ma la Chiesa è la stessa in Spagna come in Italia. I laici-laici italiani avrebbero probabilmente preferito che la protesta del leader del partito democratico fosse stata simile a quella del suo collega spagnolo, ma in Italia non si può. L´Italia è una provincia papalina, Porta Pia è una data caduta in disuso, il Concordato fu voluto e firmato da un altro ateo devoto come Benito Mussolini e inserito nella Costituzione con il voto determinante di un altro ateo come Togliatti per ragioni esclusivamente politiche.
In Italia ci sono oggi due minoranze, quelle dei cattolici autentici e quella degli autentici laici. In mezzo c´è un corpaccione di laici e di cattolici «dimezzati», che ostentano virtù civiche e religiose che non praticano affatto. Quella è la maggioranza del paese.
Il resto viene da sé.
Il guaio è che la gerarchia ecclesiastica e il Magistero non sono affatto turbati da questa situazione paganeggiante. La loro preoccupazione è l´otto per mille, i contributi pubblici agli oratori, la costruzione di nuove chiese e parrocchie, l´esenzione dall´Ici, l´insegnamento del catechismo nella scuola pubblica, il finanziamento di quella privata. E naturalmente la crociata antiabortista, la moratoria.
A loro interessa non già di usare lo spazio pubblico per propagandare la dottrina e il Vangelo ma entrare nelle istituzioni politiche per guidare il voto dei parlamentari e condizionare i partiti. L´attuale Segretario di Stato, che rimpiange il Togliatti dell´articolo 7 della Costituzione, è comunque un progresso rispetto al suo predecessore, cardinal Sodano che, alla vigilia di ogni elezione, esaminava i leader dei vari partiti per vedere chi offriva maggiori garanzie alla Santa Sede. E quelli si facevano esaminare, felici quando il «master» toccava ad uno di loro invece che all´altro.
Serve a qualche cosa una Chiesa così? Fa barriera contro le invasioni barbariche del terzo millennio o invece apre loro la porta?
* * *
Risponderò con una citazione quanto mai attuale: «La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un´altra forza politica; l´immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire ad una società inquieta e per tanti aspetti lacerata motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. E´ legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. E´ in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l´esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l´Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?».
L´autore di questa pagina è Pietro Scoppola e la data è del febbraio 2001, nel pieno d´una campagna elettorale che si concluse con la vittoria di Berlusconi e del suo cattolicesimo ateo e paganeggiante. Ma potrebbe essere stata scritta anche oggi con la stessa attualità. Purtroppo l´autore è scomparso, la sua voce non parla più e la perdita è stata grave per i laici ma soprattutto per i cattolici.
Scoppola si rendeva conto che solo il dialogo tra la minoranza dei veri laici e la minoranza dei cattolici autentici avrebbe ridotto il peso di quell´indifferenziato corpaccione di finti devoti e di finti laici «appiattiti sullo scambio dei benefici e dei favori, impoveriti di slancio profetico e pastorale, dominati dalla gerarchia e dalle oligarchie».
Questo era il problema di allora ed è ancora quello di oggi. Di esso il Partito democratico, la sinistra radicale, i cattolici moderati, gli uomini e le donne di buona volontà, dovrebbero discutere; su di esso dovrebbero dialogare. La gerarchia occupi tutto lo spazio pubblico che vuole ma non interferisca nell´autonomia dei laici e delle istituzioni civili. I rappresentanti di queste ultime impediscano le interferenze anziché assecondarle o nel caso migliore tollerarle fingendo che non vi siano state. Queste finzioni non fanno bene né alla Chiesa popolo di Dio né alla democrazia.

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono di intervenire a proposito della campagna per una moratoria sull´aborto.
L´ho già fatto nei miei due ultimi articoli domenicali e non mi sembra di dover aggiungere altro. Mi chiedono anche un´opinione sulla disponibilità di Veltroni a dialogare su questi temi con Giuliano Ferrara, l´ateo devoto che ha promosso quella moratoria. Non ho opinioni in proposito.
Anche a me capita talvolta di dialogare con il conduttore di «Otto e mezzo» in qualcuna delle sue trasmissioni. Certo Veltroni è un capo partito, ma questo non cambia molto le cose. Mi permetto semmai di incitare Veltroni a discuterne con le donne che sono le vere protagoniste, anzi le vere vittime di questa campagna di stampa regressiva. Il corpo delle donne, dal momento in cui è stato fecondato dal seme maschile e quali che siano le circostanze di quella fecondazione, dovrebbe diventare di proprietà della legge, cioè dello Stato? Questo sarebbe l´illuminismo cristiano di cui si scrive sul «Foglio»? Se questo è il tema, credo e spero che Veltroni avrà usi più utili per impiegare il suo tempo.

Repubblica 13.1.08
Gli inglesi pensarono al golpe per impedire un governo con Berlinguer
di Filippo Ceccarelli


Le carte ufficiali rinvenute da Repubblica negli archivi britannici gettano una luce inquietante sui retroscena della Guerra fredda. L´ingresso del partito di Berlinguer nel governo appariva "un evento catastrofico". Come fermarlo? "In linea teorica si potrebbe promuovere un colpo di Stato".

Nel 1976, temendo la vittoria del Pci, la diplomazia britannica formulò anche - per scartarla subito dopo - l´ipotesi di un colpo di Stato in Italia

A mali estremi, estremi rimedi. Anche questo fu la guerra fredda in Italia, là dove il male estremo, più che una generica idea di comunismo, era la concretissima possibilità che il Partito comunista italiano andasse al potere.Era il 1976, l´anno delle elezioni più drammatiche dopo quelle del 1948. Ebbene: dinanzi al male assoluto che un governo con il Pci avrebbe arrecato al sistema di sicurezza dell´Alleanza atlantica, nel novero degli estremi e possibili rimedi il fronte occidentale, le potenze alleate e in qualche misura la Nato presero in considerazione anche l´ipotesi di un colpo di Stato. Un «coup d´Etat», letteralmente: alla francese. Eventualità scartata in quanto «irrealistica» e temeraria.
Nei documenti britannici di cui Repubblica è venuta in possesso grazie alla norma che libera dal segreto le carte di Stato dopo trent´anni, ce n´è uno del 6 maggio 1976, ovviamente super-segreto, elaborato dal Planning Staff del Foreign Office, il ministero degli Esteri inglese, e intitolato «Italy and the communists: options for the West». All´inizio di pagina 14, tra le varie opzioni, si legge in maiuscolo: «Action in support of a coup d´Etat or other subversive action». Il tono del testo è distaccato e didattico: «Per sua natura un colpo di Stato può condurre a sviluppi imprevedibili. Tuttavia, in linea teorica, lo si potrebbe promuovere. In un modo o nell´altro potrebbe presumibilmente arrivare dalle forze della destra, con l´appoggio dell´esercito e della polizia. Per una serie di motivi - continua il documento - l´idea di un colpo di Stato asettico e chirurgico, in grado di rimuovere il Pci o di prevenirne l´ascesa al potere, potrebbe risultare attraente. Ma è una idea irrealistica». Seguono altre impegnative valutazioni che ne sconsiglierebbero l´attuazione: la forza del Pci nel movimento sindacale, la possibilità di una «lunga e sanguinosa» guerra civile, l´Urss che potrebbe intervenire, i contraccolpi nell´opinione pubblica dei vari paesi occidentali. E dunque: «Un regime autoritario in Italia - concludono gli analisti del Western European Department del Foreign and Commonwealth Office (Fco) - risulterebbe difficilmente più accettabile di un governo a partecipazione comunista».
In politica estera i documenti diplomatici, specie se a uso interno, hanno una loro fredda determinazione. Gli interessi sono nudi, non di rado venati di cinismo. Questi che raccontano la crisi italiana prima e dopo le elezioni del 20 giugno 1976 provengono dai faldoni desecretati dell´archivio del premier britannico e del ministero degli esteri. Sono centinaia e centinaia di fogli: corrispondenza fra i grandi del mondo occidentale, resoconti di riunioni e incontri, analisi di rischio, lettere di accompagnamento, policy papers, telegrammi, schede, studi comparati (l´Italia come il Portogallo della rivoluzione dei garofani, ad esempio), relazioni dirette alle ambasciate di Sua Maestà a Roma, Parigi, Bonn, Washington e Bruxelles, quartier generale della Nato.

In questo abbondante materiale non c´è, ovviamente, solo la rivelazione del golpe. Eppure, mai come in queste testimonianze scritte il «Fattore K», come «Kommunism», cioè l´impossibilità per il Pci di essere accettato al governo nel quadro degli equilibri decisi a Yalta, trova la sua più realistica rappresentazione. E al massimo livello. Grazie all´ambasciatore americano a Londra, Elliot L. Richardson, si viene a conoscere il testo di una lettera privata che il Segretario di Stato Henry Kissinger scrive in gennaio all´allora presidente dell´Internazionale socialista Willy Brandt a proposito della crescita comunista in Italia, Spagna e Portogallo: «Ho il dovere di esprimere la mia forte preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare. La natura politica della Nato sarebbe destinata a cambiare se uno o più tra i paesi dell´Alleanza dovessero formare dei governi con una partecipazione comunista, diretta o indiretta che sia. L´emergere dell´Urss come grande potenza nello scenario mondiale continua a essere motivo di inquietudine. Il ruolo della Nato, così come la nostra immutata posizione militare in Europa, è indispensabile e cruciale. La mia ansia consiste nel fatto che questi punti di forza saranno messi in pericolo nel momento in cui i partiti comunisti raggiungeranno posizioni influenti nell´Europa occidentale».
Dei vari protagonisti Kissinger è senz´altro il più caparbio e intransigente. Mentre i vertici della Nato sono fin dall´inizio i più irrequieti. Scrivono il 25 marzo dal ministero della Difesa britannica ai colleghi degli Esteri: «La presenza del Pci nel governo italiano e conseguentemente l´accresciuta minaccia di sovversione comunista potrebbero collocare l´Alleanza e l´Occidente dinanzi alla necessità di prendere una decisione grave». È chiaro che la partita va ben oltre le faccende italiane: «L´arrivo al potere dei comunisti - si legge in un documento interno del Fco - costituirebbe un forte colpo psicologico per l´Occidente. L´impegno Usa verso l´Europa finirebbe per indebolirsi, potrebbero così sorgere tensioni gravi fra gli americani e i membri europei della Nato su come trattare gli italiani». Ma al tempo stesso c´è il rischio che un governo con Berlinguer sconvolga gli equilibri consolidati da trent´anni di guerra fredda creando problemi anche all´Urss, e qui i diplomatici inglesi sottolineano il pericolo che «le idee riformiste si diffondano in Russia e nell´Europa dell´Est». Il Pci di Berlinguer, e più in generale quello che allora andava sotto il nome di «eurocomunismo», costituisce a loro giudizio una vera e propria «eresia revisionista» e il suo sbocco governativo porterebbe il dibattito teorico della chiesa marxista sul terreno della politica reale. Il Pcus ha tutte le ragioni per temere il «contagio» di un «comunismo alternativo» al potere in occidente. E tuttavia, secondo altre analisi, su un piano più immediatamente geopolitico e militare per l´Urss «i vantaggi supererebbero di gran lunga gli svantaggi, specie in relazione all´indebolimento della Nato».
E insomma, sarebbe un evento «catastrofico». La parola risuona più e più volte nei papers in attesa delle elezioni italiane. Da Bruxelles, soprattutto, fanno presente che il tempo stringe e per questo occorre prepararsi al peggio. «La presenza di ministri comunisti nel governo italiano porterebbe a un immediato problema di sicurezza nell´Alleanza - scrive a Londra l´ambasciatore inglese alla Nato, John Killick - Qualunque informazione in mano ai comunisti dovrà essere automaticamente considerata a rischio. I comunisti al potere altro non sono che l´estensione di una minaccia contro la quale la Nato si batte. Dunque, è preferibile una netta amputazione (dell´Italia, ndr) piuttosto che una paralisi interna».

La questione vitale riguarda la sicurezza nucleare, quindi la dislocazione e la custodia delle bombe atomiche: anche senza ministri comunisti alla Difesa e agli Esteri, un´Italia governata dal Pci va comunque esclusa dal Nuclear Planning Group: «Per dirla con parole crude - chiarisce il Ministero della Difesa - il rischio è che i documenti sensibili finiscano a Mosca». Altri problemi hanno a che fare con le basi militari e navali della Nato nella penisola: «Considerata l´alta percentuale degli italiani che votano Pci, è quasi certo che alcuni simpatizzanti di questo partito hanno già penetrato il quartier generale della Nato a Napoli (Afsouth). Sul lungo termine il Pci potrebbe accentuare lo spionaggio oppure spingere per rimpiazzare gradualmente i funzionari nei posti chiave dell´Alleanza con elementi comunisti». A parte gli scioperi, i blocchi e le manifestazioni che potrebbero essere organizzate attorno alle installazioni militari. In caso di guerra, possono nascere problemi seri: «La perdita del quartier generale di Napoli, ad esempio, avrebbe un effetto negativo sulle operazioni della Sesta Flotta nel Mediterraneo Orientale».
Il sistema di edifici in vetro, acciaio e cemento che ospita i National Archives a Kew Gardens, venti minuti di metropolitana a sud di Londra, sembra una via di mezzo tra una serra e una pagoda. Qui dentro sono conservati circa trenta milioni di record, dall´alto medioevo ai giorni nostri. Intorno, cottage, boschi, giardini e un piccolo lago artificiale popolato da oche e anatre. Nell´immensa reading room climatizzata, insonorizzata e strettamente sorvegliata da telecamere e dal personale in elegante giacca blu, il ricercatore Mario J. Cereghino ha passato varie settimane. Su uno dei grandi tavoli esagonali in legno scuro si sono via via ammonticchiati fascicoli su fascicoli, tutti originali, ingialliti dal tempo. Trent´anni e oltre: è attraverso queste carte che si può osservare, come mai finora, il backstage della guerra fredda.
L´Italia del 1976, come si sarà capito, è un paese in crisi. La formula del centrosinistra è morta; i comunisti hanno ottenuto un grande successo alle amministrative dell´anno prima conquistando il governo di diverse regioni e importanti città; il Psi, di cui è segretario l´anziano De Martino, ha aperto la crisi al buio; mentre ancora tramortita dalla sconfitta nel referendum sul divorzio e sotto accusa per una serie di scandali, la Dc sembra per la prima volta allo sbando, più che divisa, divorata dalle faide. A reggere le sorti del governo nei primi mesi dell´anno c´è un pallido bicolore Moro-La Malfa, cui segue, per gestire le elezioni anticipate, un ancora più esangue monocolore sempre diretto da Moro. La maggioranza è in pezzi, Berlinguer appare il personaggio del momento e da anni ormai ha posto sul tavolo l´offerta del Compromesso storico.
L´ambasciatore britannico a Roma, Sir Guy Millard, è un uomo molto sottile e per giunta dotato di una buona penna. «Berlinguer - scrive a Londra, al Segretario di Stato - è una figura attraente, ispira fiducia con la sua oratoria. Ciò che dice è credibile e lui lo afferma in modo convincente». Ma proprio per questo non c´è da fidarsi. «Il suo ingresso nel governo porrebbe la Nato e la Comunità europea dinanzi a un problema serio e potrebbe rivelarsi un evento dalle conseguenze catastrofiche». Quali Millard lo spiega in modo incalzante: la «disintegrazione» della Dc, innanzi tutto, poi il calo degli investimenti, la fuga dei capitali, la caduta di fiducia nelle imprese, l´intervento drastico del governo nello Stato e di conseguenza «la rapida fine del sistema di libero mercato». Cosa fare per tenere il Pci alla larga dal governo? «Non molto, temo». E aggiunge: «È un peccato che la difesa dell´Italia dal comunismo sia nelle mani di un partito così carente come la Dc».
Dello scudo crociato, dopo il congresso che a marzo ha visto la vittoria di Benigno Zaccagnini su Arnaldo Forlani, Millard va a parlare con l´ambasciatore americano a Roma John Volpe. Secondo quest´ultimo, Forlani «è una brava persona, ma non è un combattente», Zac invece «piace molto ai giovani», gli Usa lo appoggiano anche se preferirebbero Forlani e Fanfani che sono più anticomunisti. Parlano anche di Moro: «Qualche volta - sostiene Millard - sembra piuttosto ambiguo sul Compromesso storico». Volpe concorda: «È un pessimista, troppo incline a ritenerlo inevitabile». È questa specie di rassegnazione la colpa che gli americani attribuiscono all´astuta, ma imbelle classe di governo democristiana. In un rapporto del 23 marzo si legge che al Dipartimento di Stato Usa sono molto preoccupati: «La situazione italiana va deteriorandosi e non si sa come agire». Di qui al sospetto che la Dc faccia il doppio gioco il passo è breve: «Piuttosto che perdere il potere, preferirebbe spartirlo con il Pci».
Ai primi di aprile il rappresentante britannico presso la Santa Sede, Dugald Malcolm, va a trovare il Patriarca di Venezia, monsignor Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I: «Il Patriarca sembra aver assunto una posizione incline alla catastrofe. L´argomento trattato era sempre uno: l´avanzata del Pci». È il periodo in cui i comunisti italiani corteggiano i cattolici (alcuni di questi finiranno eletti nelle loro liste di lì a qualche mese). Su questo Luciani è intransigente: «Non si può essere al contempo cristiani e marxisti». Al diplomatico inglese racconta di aver dei problemi con alcuni sacerdoti della sua diocesi «che si sentono in obbligo di convertirsi al comunismo». In un´isola della laguna un gruppo di scout ha addirittura sostituito il crocifisso con la foto di Mao. Nel congedarsi, il prossimo pontefice sussurra: «Siamo nelle mani di Dio». E aggiunge: «Che comunque sono buone mani».
Per i laici l´ambasciatore Millard consulta Giovanni Spadolini. Lo trova piuttosto agitato: «È un sintomo grave che il presidente Moro abbia convocato Berlinguer a Palazzo Chigi prima del Consiglio dei ministri. Così ora i comunisti fanno virtualmente parte della maggioranza, ma non sono più in grado di dare ordini alla classe operaia. Per farlo - scherza, ma non troppo Spadolini - avrebbero bisogno dell´Armata rossa». E comunque: «Il Pci è ormai parte integrante del sistema politico, che sta andando a pezzi. L´unica speranza è che sia contaminato dal potere come gli altri partiti». Parla da intellettuale, ma anche come ex ministro (dei Beni culturali, nel dicastero Moro-La Malfa): «La polizia è insoddisfatta e il quaranta per cento degli agenti sarebbe pronto a partecipare a un colpo di Stato di sinistra. I carabinieri invece sono molto più affidabili». Commento di Millard: «Si percepisce un clima di profonda depressione, quasi di disperazione, per non dire di panico».
Il tempo stringe, è la formula che risuona nei documenti britannici. A Londra Henry Kissinger incontra il nuovo ministro degli Esteri di Sua Maestà, Anthony Crosland. Da parte americana si avverte un indubbio nervosismo: «La questione dell´obbedienza del Pci a Mosca è secondaria. Per la coesione dell´occidente - è ora la tesi di Kissinger - i comunisti come Berlinguer sono più pericolosi del portoghese Cunhal». Ribatte Crosland: «Il Pci non avrebbe il prestigio di cui gode se gli altri partiti italiani non fossero messi così male. Ma vi sono segni di decadenza anche tra i comunisti, corruzione, come nel caso di Parma». E francamente colpisce che leader così potenti si abbassino a parlare di un piccolo scandalo edilizio che nell´autunno del 1975 coinvolse l´amministrazione rossa della città emiliana. La risposta di Kissinger, comunque, sembra stizzita: «Sembrano tutti ipnotizzati dai successi del Pci, senza avere idea di cosa fare per bloccarne l´ascesa».
Il 13 aprile un gruppo di specialisti del Western European Department del Foreign Office elabora un dossier che ha proprio il compito di stabilire la strategia operativa anticomunista, graduandone le mosse a seconda dei vari scenari. La prima parte è dedicata appunto a come impedire che il Pci vada al governo e sono indicati i vari passi da compiere: finanziamento degli altri partiti, orchestrazione di campagne stampa sul pericolo, attacco alla credibilità delle Botteghe Oscure, moniti ai sovietici.

Nella seconda parte il documento offre delle soluzioni per così dire pratiche nel caso il Pci sia già riuscito a conquistare una quota di potere, cioè sia già andato al governo. A questo punto gli scenari sono cinque, e cinque di conseguenza le options, ciascuna esaminata a seconda dei vantaggi e degli svantaggi. La linea più morbida è definita «Business as usual» e prevede di «continuare le relazioni come se nulla fosse cambiato». Seguono, in ordine di gravità, «misure di ordine pratico-amministrativo» per «salvaguardare i segreti e i processi decisionali dell´Alleanza atlantica». Come ulteriore scelta, sempre rispetto all´Italia, gli inglesi si riservano di mettere in atto una «persuasione di tipo economico» che si traduce in una serie di pressioni anche sul piano della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale. Entrerebbero in gioco, in quel caso, posti di potere in tali organismi, benefici, prestiti. «Occorre comunque precisare - si legge - che tali misure cesserebbero se il Pci abbandonasse il governo».
La Option Number Four ha un titolo che, anche in lingua inglese, non è che suoni proprio tranquillizzante: «Subversive or military intervention against the Pci». Ecco come comincia: «Questa opzione copre una serie di possibilità: dalle operazioni di basso profilo al supporto attivo delle forze democratiche (finanziario o di altro tipo) con l´obiettivo di dirigere un intervento a sostegno di un colpo di Stato incoraggiato dall´esterno». Vantaggi: «Tali misure possono aiutare a rimuovere il Pci dal governo». Svantaggi: «Vi sono immense difficoltà pratiche per portare a compimento questo tipo di operazione. Vista la situazione italiana, è estremamente improbabile che un´operazione coperta rimanga segreta a lungo. La sua rivelazione può danneggiare gli interessi dell´occidente e aiutare il Pci a giustificare in maniera più decisa il suo controllo sulla macchina del governo. Inoltre, la pubblica opinione dei paesi occidentali potrebbe prenderla male col risultato di creare tensioni all´interno della Nato, soprattutto fra Usa e alleati europei, nel caso gli americani assumano il comando dell´iniziativa». E conclude: «Anche se l´intervento esterno servisse a rimuovere il Pci dal potere, la situazione politica italiana rimarrebbe instabile, rafforzando così l´influenza comunista e quella dell´Urss sul lungo periodo».
L´ultima opzione prevede, seccamente, «l´espulsione dell´Italia dalla Nato». Vantaggi: «Si tutelano i segreti e si elimina la possibilità che l´Italia comprometta l´alleanza dall´interno». Ma in questo caso, secondo gli analisti del Fco, si arriverebbe alla «chiusura di tutte le basi nel paese, destinato a diventare neutrale con un orientamento verso l´occidente. Ma l´Italia potrebbe anche evolversi in una sorta di Yugoslavia. Al limite, potrebbe anche offrire agevolazioni di tipo militare all´Urss in cambio di denaro». In ogni caso, conclude il dossier, «si renderebbe necessaria una revisione della strategia difensiva della Nato sul fianco Sud. La Sesta flotta ne sarebbe danneggiata. Grecia e Turchia potrebbero chiedersi se valga la pena continuare a far parte dell´alleanza. Potrebbe anche essere compromessa la capacità americana di intervenire in Medio Oriente e di influenzare quei paesi a livello politico. Di conseguenza, il ritiro dell´Italia dalla Nato si trasformerebbe di fatto in una sconfitta dell´occidente di fronte al mondo intero».
Dopo tanto tempo viene da chiedersi, e pure con un certo sgomento, se e in che misura nel 1976 gli italiani fossero consapevoli dei rischi che correvano. Si ha qualche scrupolo a montare un caso di golpismo postumo, per giunta irrealizzato. Eppure, c´è da dire che mai come allora l´idea stessa del golpe, la minaccia di golpe, le voci di golpe, la vigilanza e l´autodifesa in caso di golpe, erano entrate da tempo nell´immaginario politico.

C´era stata la Grecia (1967) e poi il Cile (1973); e qui il "Piano Solo" del generale col monocolo, Giovanni De Lorenzo (1964), il tentativo del "Principe nero" Junio Valerio Borghese (1970) e la Rosa dei Venti (1974). Circolavano anche film (Colpo di Stato di Salce e l´indimenticabile Vogliamo i colonnelli di Monicelli) e perfino barzellette: «Dicono a De Martino: "Sono arrivati i carri armati", e quello: "Bene, e a noi socialisti quanti ce ne toccano?"»). Umorismo in verità raffreddato dalle tante, troppe stragi di quegli anni: Piazza Fontana, Reggio Calabria, Peteano, Piazza della Loggia, Italicus.
Alla metà degli anni Settanta i capi comunisti sono prudenti e qualche volta dormono fuori casa: «Non ci prenderanno a letto», garantisce Pajetta. Ogni tanto qualche capo democristiano, ad esempio Moro, se ne esce con criptiche denunce tipo: «Sta prendendo corpo un torbido disegno eversivo». Ogni tanto finisce in prigione qualche generale dei servizi segreti, accusato di cospirazione politica e insurrezione armata: proprio nel febbraio del 1976 tocca al generale Gianadelio Maletti, mentre a maggio la magistratura di Torino chiede l´arresto di Edgardo Sogno, figura di spicco della Resistenza non comunista, poi divenuto così acceso anticomunista da farsi ispiratore di un golpe detto «bianco», para-legalitario. Scrive Pier Paolo Pasolini nell´articolo sulle lucciole, la cui scomparsa nelle campagne definiva poeticamente la grande mutazione antropologica degli italiani: «È probabile che il vuoto di potere stia già riempiendosi attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l´intera nazione. Ne è un indice ad esempio l´attesa "morbosa" del colpo di Stato».
Perché si potrà anche sorridere di questa strisciante mitomania golpistica, dietrologica e pistarola; così come del comandante della Guardia Forestale Berti, con il suo spadone, che nella notte dell´Immacolata Concezione, da Cittaducale, provincia di Rieti, si lancia alla conquista del Viminale. Ma assai meno viene da sorridere leggendo il rapporto top-secret inviato a Londra dall´addetto militare dell´ambasciata britannica a Roma, colonnello Madsen, un mese esatto prima delle elezioni del 20 giugno. Titolo: «La reazione delle forze armate italiane alla partecipazione comunista al governo e l´effetto che essa può avere sul contributo dell´Italia alla Nato». Sono undici pagine fitte e dettagliatissime, dai piani di ristrutturazione appoggiati dal Pci al movimento dei «proletari in divisa» organizzato da Lotta continua. E di nuovo le conclusioni dell´indagine vanno a parare sul colpo di Stato: «Gli ufficiali delle Forze armate sono per la maggior parte di destra o di estrema destra. Tuttavia i soldati di leva riflettono le inclinazioni politiche tipiche dell´Italia attuale. In teoria, se non in pratica, il Pci potrebbe contare sul sostegno di un terzo delle Forze armate. Una eccezione importante è costituita dai Carabinieri, ottantaseimila uomini tra i quali il Pci non ha appoggi. Ma i Carabinieri sono tradizionalmente leali al governo, qualunque sia il suo colore politico». Rispetto all´ipotesi di un governo con i comunisti, sostiene il colonnello che «il sentimento degli ufficiali è generalmente di preoccupazione. È difficile individuare nelle Forze armate un nucleo abbastanza forte o influente da promuovere un golpe. L´unica possibile eccezione è quella dei Carabinieri. Nell´attuale situazione è improbabile che i militari lo appoggino. Tuttavia potrebbe in breve crearsi una situazione tale da favorire un putsch militare "per l´ordine pubblico", soprattutto se i risultati delle elezioni del 20 giugno generassero una situazione di incertezza politica». La premessa è che si tratta di uno «scenario ipotetico». Ma al tempo stesso il colonnello Madsen segnala al suo ministro della Difesa che «nei piani di ristrutturazione, le forze armate italiane hanno di recente rafforzato le formazioni territoriali e quelle dei parà con l´obiettivo di condurre operazioni di salvaguardia della sicurezza nazionale, nel caso venga meno l´ordine pubblico».

Beato il paese che non ha paura del proprio passato. E che in nome della democrazia e della trasparenza apre regolarmente i suoi archivi a studiosi, appassionati e gente comune. Detto questo, a rileggere queste carte, si resta colpiti da un dubbio: meritava, l´Italia, la società italiana, di essere sorvegliata in quel modo? Come una repubblica delle banane in mezzo al Mediterraneo? Torna alla memoria quel 1976: «E l´Italia giocava alle carte/ e parlava di calcio nei bar» come ne La presa del potere di Gaber. Si resta un po´ interdetti fronte a certe canzoni di allora: «E la Cia ci spia - questo è un Finardi d´annata - e non vuole più andare via». L´Italia degli scioperi, della guerriglia urbana, dell´austerità, della disoccupazione, dell´inflazione, dei mini-assegni al posto degli spiccioli. Parco Lambro e Porci con le ali. Ma anche l´Italia del boom di Benetton, del femminismo, della nascita di Repubblica e delle radio libere, degli ultimi Caroselli e dell´arrivo in tv della banda di Renzo Arbore, con Roberto Benigni improbabile critico cinematografico la domenica pomeriggio. E Gimondi, Panatta, la Ferrari di Niki Lauda. E il terremoto del Friuli, i matrimoni che diminuivano, Gheddafi nella Fiat, le Br che cominciano ad uccidere, il giudice Coco, a Genova, l´8 giugno 1976. Mai che le carte inglesi facciano riferimento al terrorismo rosso e nero di quella stagione di piombo.
Insomma, non c´era solo Berlinguer. Ma in quella primavera fra Londra, Washington e Bruxelles sembra davvero che non pensino ad altro. Il 6 maggio il Fco produce un secondo documento che integra e sviluppa il manuale di metodologia anticomunista del 13 aprile. E tuttavia proseguendo nella lettura si capisce che sull´uso di questi record nei contatti internazionali con gli alleati sorgono dei problemi. Il segretario di Stato si preoccupa delle «implicazioni politiche» di una linea così rigida. Nell´ambito dell´amministrazione britannica, che è pur sempre costituita da laburisti, ci sono delle diverse valutazioni. Quelle che pone all´attenzione del Segretario di Stato il suo consigliere politico David Lipsey suonano ad esempio più moderate e molto meno interventiste: «Se diamo troppa corda ai comunisti potrebbero dichiararsi innocenti oppure impiccarsi da soli. Se invece ci imbarchiamo in un´operazione di linciaggio - è la conclusione - sarà la nostra credibilità democratica ad essere danneggiata, non la loro».
Anche per questo il governo inglese è preoccupato che studi, indagini e relazioni restino al sicuro. «La loro esistenza non deve essere rivelata - è la raccomandazione - La Gran Bretagna non deve essere vista come un governo che interferisce negli affari interni dell´Italia». Ma il 18 maggio, in vista di un vertice Nato a Oslo, qualcosa trapela: un articolo del Financial Times dal titolo «I timori del Foreign Office sull´Italia». Il giornalista rivela che l´atteggiamento degli alleati è stato riassunto in un documento ad hoc. Dalla Farnesina, a questo punto, chiedono spiegazioni, ma a Londra fanno i vaghi, ridimensionano: il caso Italia non è nell´agenda ufficiale di Oslo, non c´è nessun paper, del Pci si parlerà al massimo «nei corridoi».
Più in generale, al di là delle necessità diplomatiche, pare anche di cogliere una sottile linea di distinzione fra l´atteggiamento britannico e quello americano. Oltre una certa prudenza che porta Crosland e il premier Callaghan a non fare mosse avventate prima del 20 giugno, il Foreign office si preoccupa soprattutto dell´unità degli alleati, il che significa da un lato incoraggiare i francesi e i tedeschi a una maggiore presenza sulla questione italiana e dall´altro di frenare gli americani, soprattutto Kissinger.
Del Segretario di Stato Usa i colleghi britannici sembrano poco apprezzare certe intemperanze, sottolineano che in privato usa uno «strong language», un linguaggio forte; come pure si concedono una qualche distaccata superiorità quando gli pare che Kissinger si comporti più da professore di storia che da stratega: «Così rischia di perdere di vista le implicazioni immediate delle sue parole - nota l´ambasciatore inglese a Washington, Peter Ramsbotham - sviluppando una sorta di teoria del domino europeo sul lungo termine». Ma gli americani, imperterriti, non solo seguitano a spingere sulla loro linea, ma in un memorandum del 4 giugno si mostrano anche piuttosto seccati dal fatto che mentre gli europei sono indecisi sul da farsi, loro rischiano di figurare sempre e comunque come il «bad cop», il cattivo poliziotto della situazione, tipo in Cile nel 1973.
A pochi giorni dalle elezioni tutto è ancora incerto: «I sondaggi italiani sono notoriamente inaffidabili». Intanto Berlinguer dichiara di accettare l´ombrello della Nato e Montanelli invita a turarsi il naso e votare Dc. E con questo si arriva finalmente al 20 giugno. I risultati non potrebbero essere più ambigui. La Dc al 38,7 per cento e il Pci al 34,3 risultano i «due vincitori», come li definisce Moro. Ma questi due vincitori, secondo un´analisi del Fco, sono anche «prigionieri l´uno dell´altro».
Una settimana dopo, al vertice di Puerto Rico, riservato alle sette potenze più industrializzate del mondo, l´Italia si presenta senza un governo. Ci sono Moro e Rumor, ma solo per salvare le forme. Gerald Ford, Callaghan, Schmidt e Giscard d´Estaing si incontrano alle 12,45 di domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel per un pranzo di lavoro e qui si verifica un pietoso incidente. Lo descrive brutalmente Campbell, futuro ambasciatore britannico a Roma: «Quando arrivano per il lunch, ai due sfortunati ministri italiani viene impedito di entrare». È il massimo dell´umiliazione.
Appena chiuse le porte, si affronta il «problema Italia». Il verbale di quell´incontro viene redatto dal funzionario Fergusson. Pur riconoscendo che gli italiani devono decidere da soli, i quattro capi di Stato sono d´accordo che occorre fare tutto il possibile perché i comunisti restino fuori dal potere. Giscard propone di elaborare, in una prossima riunione da tenersi a Parigi, una bozza di programma di governo che gli italiani dovranno accettare in cambio di un sostanzioso aiuto finanziario.
Quella riunione si tiene effettivamente a Parigi, all´Eliseo, l´8 luglio del 1976. Il padrone di casa è il Segretario generale aggiunto della Presidenza della Repubblica francese Yves Cannac. Per gli Usa c´è Helmut Sonnenfeldt, consigliere del Dipartimento di Stato e braccio destro di Kissinger; per i tedeschi arriva Gunther Van Well, alto funzionario del ministero degli Esteri di Bonn; e infine, per la Gran Bretagna, il sottosegretario del Foreign Office, Reginald Hibbert.
È a quest´ultimo che si deve il resoconto, a tratti anche abbastanza scanzonato, di un incontro in cui «ognuno ha i suoi buoni motivi per mantenere il Pci fuori dal governo». Giscard vorrebbe un «centrodestra riformista» in Italia perché teme la spinta che a casa sua favorirebbe Mitterrand. Il rappresentante di Schmidt, d´altra parte, punta sulla rinascita del centrosinistra perché un successo di Berlinguer potrebbe spaventare il suo elettorato e aprire le porte a una vittoria dei democristiani nelle imminenti elezioni tedesche. E poi ci sono gli americani che appoggiano decisamente una Dc rinnovata. Insomma, un po´ di confusione.
In più, fa notare Hibbert con evidente disappunto, mancano traduttori e dattilografi che lavorino in inglese e soprattutto c´è una gran fretta perché il rappresentante di Kissinger deve scappare all´aeroporto. Così, «Cannac ci invita a pranzo al ristorante Ledoyen, ma l´urgenza è tale che non facciamo neanche in tempo a leggere il menu». In un angolo, Sonnenfeldt si concede una battuta sul clima carbonaro di quel pranzo: «Siete sicuri che l´ambasciatore italiano non sia qui? Se ci beccano, è chiaro che è per parlare di Berlino».

Chissà che cosa sapevano Moro, Andreotti o Berlinguer di tutto questo. O che cosa immaginavano. Da quel che si capisce l´incontro di Parigi, che Hibbert definisce «sticky», cioè difficile, insidioso, appiccicoso, fa pensare in realtà a una specie di ultimo avviso all´Italia, che è anche una prova di commissariamento. Le delegazioni producono una bozza d´intenti che a distanza di trent´anni finisce per avere un certo peso storiografico. S´intitola «Democracy in Italy» e in pratica espone ai futuri governanti italiani quello che devono fare. Così comincia: «Malgrado gli ulteriori progressi del Pci, le recenti elezioni consentono di mantenere in vita la democrazia in Italia. Ma è arrivato il momento di mettere fine a questa deriva». La parola usata è «slide», uno scivolamento che porta a una caduta, al collasso italiano.
I quattro grandi dell´occidente non solo alzano il tradizionale muro di fronte all´ipotesi di un governo con il Pci, ma nella riunione segreta di Parigi intervengono anche sulla formula e sulla maggioranza che dovrà avere il nuovo dicastero: a «guida Dc», con «partiti non comunisti e non fascisti». E quindi provano pure a delineare le caratteristiche della loro compagine ideale: «Un piccolo gruppo omogeneo di uomini di prestigio che lavorino in squadra». Nelle carte c´è addirittura il programma, che tocca amministrazione pubblica, giustizia, sicurezza, economia e politica estera. Si scende nei particolari: un piano a medio termine per il risanamento della finanza pubblica e riduzione dell´evasione fiscale; è indicata la necessità di tentare un accordo con imprenditori e sindacati. C´è anche la lotta alla corruzione e perfino un accenno al «nepotismo».
Ma soprattutto si fa notare, sotto un paragrafo dal titolo «The Christian Democratic party», un appello che di nuovo suona come un atto di sottomissione richiesto alla classe di governo del «partito che ha esercitato il potere per trent´anni e rimane il più forte dopo le elezioni». Per battere il Pci, la Dc dovrebbe (should) ripulire la sua immagine di partito tollerante della «prevaricazione e del sotterfugio», ha il dovere di «liberarsi delle pecore nere», la necessità di «mettere ordine a casa sua», di svecchiarsi e arruolare giovani, assicurare maggiore spazio alle donne, ai lavoratori e ai sindacati. Suo compito è anche quello di contestare al Pci l´egemonia culturale «riconquistando l´intellighenzia, le università e i media». Il giorno dopo, 9 luglio, ore 23,20, l´ambasciatore inglese a Washington telegrafa a Londra: «Kissinger approva il paper "Democracy in Italy"». Da Londra, forse, il premier Callaghan un po´ si spaventa a leggere quelle carte: «Dobbiamo usare molta cautela considerando il grande danno che ne verrebbe se la loro esistenza divenisse pubblica. Sarebbe un´intrusione diretta negli affari di uno Stato europeo nostro alleato». E aggiunge: «Ogni fuga di notizie finirebbe per essere un regalo ai comunisti italiani».
E così potrebbe anche concludersi il grande film del 1976. Poi certo, molte altre cose accadono - e il Foreign Office le registra con la consueta diligenza. Il Pci che rimane sulla soglia del potere. I democristiani che continuano a traccheggiare inventando formule quasi intraducibili, per cui l´andreottianissima «non sfiducia» diventa «non no-confidence». C´è anche un nuovo segretario socialista, il quarantenne milanese Bettino Craxi. L´ambasciatore Millard, che ha l´occhio lungo, lo segnala subito come una luce in fondo al tunnel del caos italiano. Si stabilisce che una sua visita a Londra «sarebbe auspicabile». Arriva l´autunno e a Bruxelles, davanti a Kissinger, il ministro degli Esteri britannico Crosland parla «warmly», con calore, del «signor Craxi».
A Roma il successore di Millard è Alan Hugh Campbell. A fine anno l´ambasciatore scrive la tradizionale Christmas Letter al Foreign Office: «Pur immersi nella tristezza, frustrazione, incompetenza, corruzione, gli italiani continuano a essere un popolo duttile e molto operoso. Ma condivido l´idea che non siano maturi per la rivoluzione». E c´è quasi un salto poetico: «Forse, questo spiega la sofferenza che ho osservato sul volto di Berlinguer, l´altro giorno, quando me lo sono trovato seduto vicino durante una cerimonia».

Repubblica 13.1.08
Il presidente della Camera: dopo lo scontro sulla scala mobile le tute blu sono scomparse dalla scena del Paese
Bertinotti: "Operai ormai invisibili ridiamogli dignità aumentando i salari"
di Umberto Rosso


"Bisogna riaprire una grande discussione sul ruolo e sul destino dei lavoratori"
"Gli incrementi in busta paga devono essere indipendenti dalla produttività"

CUSCO - «Quanti anni sono passati ormai? Tanti. La scala mobile, lo scontro sul referendum è stata l´ultima grande occasione di dibattito sulla classe operaia, sui salari, sulla loro struttura. E lo dico indipendentemente da un giudizio di merito su quel referendum, giusto o sbagliato che fosse. Quello fu come l´ultimo treno. Da allora in poi, fino ad oggi, davvero i lavoratori sono diventati come invisibili, la classe operaia come scomparsa dalla scena del paese. Bene, è ora di riaprire una grande, e certo complessa e impegnativa discussione sul ruolo e sul destino dei lavoratori, e di portata anche più ampia rispetto al nodo, irrinunciabile, degli aumenti salariali».
Sotto gli occhi del presidente della Camera, un angolo di disperazione del mondo, favelas boliviane e peruviane, con tanti italiani - preti, uomini e donne di buona volontà - che portano un sorriso e un progetto di cooperazione con le ong. Una condizione-indio però, così la pensa Fausto Bertinotti, che rischia di «attecchire» pericolosamente in altri, inaspettati angoli del mondo. Nelle periferie francesi dell´Europa ricca? Sì. Nel cuore di Napoli soffocato dalla rivolta della "monnezza"? Nel cuore di Napoli. Perciò tira avanti sull´ «indigenismo», quel "siamo tutti indigeni" che gli viene rimproverato come l´ultima infatuazione politica e allo stesso tempo, mentre i ninos speranza de Dios corrono e gli fanno festa, c´è un filo diretto che porta alla «violenza dei ricchi sui poveri che si esercita in ogni parte del mondo». Italia compresa. Gli operai e i salari allora anzitutto, finiti appunto come sott´acqua per troppo tempo. «E oggi - è il ragionamento del presidente della Camera - non è più come negli anni Novanta, quando si trattava di difendere e mantenere sostanzialmente i livelli retributivi esistenti. Siamo in una fase completamente diversa, ora sono necessari aumenti salariali veri in busta paga. Del resto mi pare la ricetta migliore per rimettere poi in moto tutta quanta l´economia del nostro paese». Una via in fondo, rilanciando con gli aumenti del salario i consumi, per rimettere al centro della scena la classe operaia. E le parole di Guglielmo Epifani, l´autocritica del sindacato dopo la strage della Thyssen Krupp, non possono che piacere a Fausto Bertinotti.
La linea-Confindustria invece al presidente della Camera sembra andare proprio in direzione opposta. E sull´ultima offerta di 100 euro in due anni per i metalmeccanici, il presidente della Camera concorda con il gran rifiuto dei sindacati: «inaccettabile». Qui Bertinotti torna sindacalista, perché «al netto i 100 euro diventano 40, e al livello più basso ancora di meno». Il muro contro muro perciò gli pare del tutto giustificato. Senza contare la richiesta di legare produttività e aumenti salariali. Il presidente della Camera lancia uno stop. «Il perno resta il contratto nazionale di lavoro. Nessuno scambio. Gli imprenditori non possono pensare di scaricare tutto sulla contrattazione di secondo livello. E´ in gioco il valore stesso politico del contratto nazionale». Il timore del presidente della Camera a questo punto è che, e la vertenza dei metalmeccanici fa testo, la riapertura di una questione operaia se è entrata nell´agenda del governo (sia pure con resistenze) sarà decisamente ostacolata dal cartello delle imprese più grandi. Nessuna disponibilità quindi a mettere mano anche al grande tema della produttività? «L´aumento del salario è una variabile indipendente rispetto alla produttività. Per il resto, c´è la contrattazione fra le parti».

Repubblica 13.1.08
Il direttore del Foglio: ma sembra l'unificazione tra Psdi e Psi
"Così sono entrato nel convento di Walter"
di g.d.m.


ROMA - Lui arriva tranquillo, imbocca il portone, lo bloccano. «Signor Ferrara, la commissione Manifesto è a porte chiuse. Aspetti che mi informo». L´usciere chiama. Gli dicono: lo faccia salire. Comincia così il "blitz" di Giuliano Ferrara alla riunione del gruppo di lavoro per la Carta dei valori. In ascensore il direttore del Foglio, gran tifoso di Papa Ratzinger, inventore della moratoria sull´aborto, incrocia Piergiorgio Odifreddi, superlaico, agli antipodi di Ferrara. «Abbiamo scherzato sull´ateismo», racconta il giornalista. Lo introducono nella sala riunioni e gli fanno: «Le presentiamo il presidente Reichlin». A lui, che lo conosce da quando è nato (l´ex dirigente del Pci era grande amico del padre di Ferrara, Maurizio).
Insomma, lo sbarco nel Pd è stato una comica.
«Ma sì, una cosa da ridere, un grande equivoco. Io ero sicuro che la riunione fosse aperta alla stampa e sono andato per scrivere il pezzo di lunedì sul Foglio. Mi hanno accolto con grande gentilezza, hanno deciso che potevo rimanere e hanno aperto i lavori a tutti gli altri giornalisti».
Il Pd è riuscita a farla questa sintesi tra le sue storie, tra laici e cattolici?
«La discussione è stata di ottima qualità. Anche il documento lo è. Però mi sembra un film già visto. Si scrivono le solite tesi del partito, si dà vita all´unificazione di due forze... Mah! Il manifesto è uno strumento vecchio. Avevano detto che facevano un partito all´americana... Allora basta scrivere alcuni valori fondamentali e poi chi ha più tela da tessere, tesse. Invece mi sembra l´unità di Psi e Psdi».
Non è beneaugurante, quella durò tre anni.
«Io sono per le vie nette. Se è innovazione, che sia fino in fondo».
Questo Pd potrebbe votarlo?
«Resto uno scalcagnato amico di Berlusconi. Però parlo con tutti. Domani vado a un convegno di Bondi sulla moratoria. Mi ha chiamato cinque minuti fa l´abate di Montecassino per invitarmi anche lui. Il Partito democratico è solo uno dei tanti conventi che mi capita di girare...».

Corriere della Sera 13.1.08
I due fronti. Binetti sfida Odifreddi sull'anima
di M.Gu.


ROMA — Paola Binetti e Piergiorgio Odifreddi seduti l'uno accanto all'altra, ben consapevoli del valore simbolico di quella foto.
Lei senatrice ultracattolica vicina all'Opus Dei, lui matematico razionalista, autore del saggio Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici). I critici dell'unità riformista li hanno presi a paradigma dell'impossibilità di conciliare, nel Pd, il diavolo e l'acquasanta. Ma ieri, nella ex sede della Margherita, sono stati protagonisti di un siparietto aspro nei contenuti e quasi affettuoso nei toni.
Odifreddi: «Tu laica? No, sei clericale». Binetti: «Non mi considero tale, ma tu di certo sei anticlericale». Lui: «Non lo sono, ma mi piacerebbe esserlo. Io la penso come il cattolico De Gaulle, che non faceva la comunione in pubblico».
Nella scena finale, a telecamere accese, il matematico polemista sta dicendo che parlare di anima laica e anima cattolica è una contraddizione in termini.
«Stai scherzando? — ribatte la senatrice — io sono convinta che tu ce l'abbia un'anima». E Odifreddi: «Io invece sono sicuro di non averla».

Corriere della Sera 13.1.08
Il premier spagnolo «Da quando governo sono diventato più di sinistra». «Non vado in collera: mi autoimpongo una disciplina molto forte»
«Dalla destra non ho imparato nulla»
Zapatero: «Rispetto la Chiesa, ma non fa le leggi»
di Pedro J. Ramìrez, direttore di «El Mundo»


José Luis Rodríguez Zapatero, premier spagnolo, domani si pubblica il decreto di scioglimento delle Cortes, il Parlamento. Che voto si darebbe, lei che è il capo del governo, alla fine di questa legislatura?
«Questo sta ai cittadini stabilirlo. Io sono quello sotto esame».
Nell'ultimo sondaggio di El Mundo le davano un 5,44.
«I cittadini ci azzeccano sempre ».
Però è un successo per il rotto della cuffia…
«5,44 è un risultato accettabile, secondo gli abituali standard di valutazione delle leadership politiche ».
Perché le piace tanto scontrarsi con la Chiesa cattolica?
«A me? Io non mi sono scontrato su niente con la Chiesa cattolica».
Ma se lo sta facendo dall'inizio della legislatura… La Chiesa si sente offesa per alcune delle sue leggi.
«Io non ho mai attaccato la Chiesa. Ho seguito il mio programma elettorale. Ditemi se c'è una sola cosa, sugli accordi del Vaticano, sul finanziamento, in cui avrei attaccato la Chiesa. Al contrario, ho sempre mantenuto una posizione di rispetto. Ma voglio essere molto chiaro sul fatto che chi fa leggi è la maggioranza democratica della società civile. E questo Paese ha aumentato i diritti individuali attraverso leggi liberali che rispettano l'individuo, la persona. Questo vuol dire rafforzare i diritti umani. E io ho molto rispetto per la famiglia cristiana, al punto che mi sono sposato in Chiesa…»
Lei oggi si considera cristiano?
«Sì... sono battezzato... Ho molto rispetto per la famiglia cristiana, per chi pensa che il matrimonio debba essere celebrato in Chiesa e vuole avere 11 figli. Ma dobbiamo avere lo stesso rispetto per chi vuole vivere in coppia senza sposarsi o per chi, essendo omosessuale, decide di convivere in matrimonio con il proprio partner»
Ma tra le possibilità che aveva, di dare gli stessi diritti alle unioni omosessuali oppure includerle nell'istituzione del matrimonio, lei ha scelto quella di maggiore confronto con la Chiesa…
«Chiamiamo le cose con il loro nome. L'unione delle persone che vogliono istituire un contratto legale, con un vincolo giuridico, si chiama matrimonio. E questo termine si impone in tutti i Paesi. Ma poi, arrivare a dire, come sto sentendo in questi giorni, che la riforma delle Legge sul divorzio ha favorito la dissoluzione della famiglia…»
A volte succede che questi «nuovi diritti» abbiano un effetto paradossale. Che ne pensa del fatto che le donne del comune di Garachico non si siano potute presentare alle elezioni perché non avevano abbastanza uomini nelle liste (per la Legge di Parità, pensata per le donne, ci deve essere almeno il 40% di candidati di uno dei due sessi)?
«Questo è un caso assolutamente eccezionale».
I casi eccezionali sono quelli che mettono a dura prova la consistenza delle liste.
«Le leggi si fanno per regolamentare situazioni generali».
E come risolverebbe questo problema come giurista?
«Lo ha già risolto la Corte costituzionale. Rispettiamo il suo giudizio ».
No, la Corte non ha ancora affrontato la costituzionalità della legge.
«Ne deduco che lei è contrario alle quote...»
Sì, io sono per l'uguaglianza, ma non attraverso l'imposizione, non attraverso le quote.
«Io sono per la parità».
Un'altra cosa su cui la pensiamo diversamente…
«Io non ho paura dell'uguaglianza ».
Neanch'io. Ma si può arrivare all'uguaglianza attraverso la libertà e non attraverso l'imposizione... Qualche mese fa si è operato di miopia…
«Sì».
Perché non ha mai detto in nessuna intervista che era miope?
«Nessuno me l'ha mai chiesto».
E adesso vede bene?
«Da vicino vedo un po' meno bene. Da lontano molto meglio».
Si dice che nei miopi prevale il lato sinistro su quello destro. Ha già corretto questo squilibrio?
«Sono di sinistra, e la conoscenza più profonda, al governo, della realtà sociale, della distribuzione della ricchezza, delle opportunità degli uni e degli altri, di come funziona la società, mi ha permesso di confermare i miei convincimenti come persona di sinistra».
Cioè non ha corretto quello squilibrio, e continua a pensare, come mi ha detto due anni fa, che la destra non le abbia insegnato nulla…
«La destra non mi ha insegnato niente, con l'atteggiamento che ha avuto in tutti questi anni all'opposizione. Ma leggo persone di destra e, ovviamente, ci sono riflessioni che come già le ho detto in un'altra occasione… Per esempio riconosco che il principio della stabilità di bilancio, che ha una tradizione più forte nel pensiero di destra, sia positivo, e per questo lo applico».
Si sente odiato da una parte dei cittadini?
«No. Ci sono stati momenti di forte tensione, ed è evidente che i più fedeli al Partito popolare (all'opposizione, ndr) non condividono il mio modo di fare politica. Settori isolati, non mi sembra che nella Spagna di oggi si generi odio».
Quando è stata l'ultima volta che è andato in collera?
«Ora sì che è difficile dare una risposta».
Non ricorda neanche una volta?
«Del periodo come premier, no. Mi autoimpongo una disciplina di contenimento molto forte. Il potere deve essere contenuto…».
E in ambito personale?
«Neanche. Sono molto felice con mia moglie e le mie figlie».
Non ha mai dato uno schiaffo a una delle sue figlie?
«Credo di no. Al contrario. Sono il loro alleato».
Lo dico per la recente riforma del Codice Civile. Si immagina un bambino che denuncia il padre perché gli ha dato uno schiaffo?
«Beh, questo non prevede sanzioni. Ma mi sembra un buon principio. La repressione fisica non è accettabile, né dal punto di vista pedagogico né dal punto di vista etico. Bisogna educare in un altro modo. Io sono favorevole a educare con autorità, a essere esigente con i propri figli o con gli alunni, ma ci sono altri meccanismi per incentivare. Trovo estremamente ripugnante qualsiasi sintomo di violenza… È la cosa che mi ripugna di più in assoluto. Non sopporto vedere due persone picchiarsi e non mi piace vedere un padre che dà uno schiaffo al figlio».
Qual è la donna più attraente che ha conosciuto da quando è premier?
«Sonsoles (la moglie, ndr) ».
Intendo dire da quando è premier.
«Sonsoles. Per me la persona più attraente è Sonsoles».
Bene, allora diciamo qual è la persona più interessante che ha conosciuto da quando è presidente?
«Sonsoles».
Lei si vanta sempre della sua «agilità». Non teme che qualcuno faccia un bilancio un giorno e dica: «Quest'uomo ha avuto più agilità che testa»?
«In politica l'agilità è nella testa ».
El Mundo Traduzione di Francesca Buffo

Corriere della Sera 13.1.08
La pena di morte in America
La cicuta di Socrate, l'iniezione letale e la moratoria
di Eva Cantarella


Dopo aver bevuto la cicuta — racconta Platone — Socrate rimproverò i suoi allievi, che non riuscivano a frenare il pianto: «Che stranezza è mai questa, amici? Si dice che sia bene morire fra serene parole di augurio». E serenamente spirò. Così nel «Fedone». Ma che la cicuta (koneion) desse una morte indolore è tutt'altro che certo. Platone, probabilmente, voleva idealizzare gli ultimi momenti del maestro ma altri resoconti, più realistici, descrivono la morte di chi aveva ingerito il veleno in modo molto diverso: la mente oscurata, la vista deformata, gli occhi che selvaggiamente roteavano, la gola attanagliata, le estremità paralizzate.
La cicuta, infatti, non venne introdotta per alleviare le sofferenze dei condannati a morte. Venne introdotta per calcolo politico dai Trenta Tiranni (V secolo a.C.), che per liberarsi senza troppo rumore degli oppositori mandavano loro in carcere una porzione del veleno: per ovvie ragioni, queste esecuzioni dovevano avvenire senza suscitare scalpore. La cicuta, insomma, doveva risolvere un problema politico: esattamente come negli Usa, a distanza di duemilacinquecento anni, l'iniezione letale, introdotta in un momento molto delicato per i sostenitori della pena capitale. Nel 1972, nel corso di una lunga moratoria, la Corte Suprema (Furman vs. Georgia)
aveva dichiarato l'incostituzionalità di questa pena, perché nei modi e nelle le forme in cui era applicata era contraria all'Ottavo Emendamento, che proibisce pene «crudeli e inusuali». Ma nel 1976 (Gregg vs. Georgia) la Corte, i cui componenti erano cambiati, mutò opinione.
Senonché nel frattempo era cambiato anche l'atteggiamento dell'opinione pubblica e un forte malessere serpeggiava anche fra i sostenitori della pena.
Per evitare che la reintroduzione provocasse traumi eccessivi, era necessario trovare altre forme di esecuzione. La fucilazione e l'impiccagione apparivano crudeli e disumane; la camera a gas e la sedia elettrica provocavano lunghe agonie: inoltre, la camera a gas era stata usata dai nazisti. Una morte «medicalizzata», con aghi e siringhe, era una concessione a sentimenti di umana solidarietà che avrebbe contribuito a dare della pena un'immagine più accettabile. E così è stato, fino a quando la verità è andata facendosi strada.
Nel 2005, un articolo sulla rivista medica The Lancet spiegava che le iniezioni che inducono prima la paralisi e quindi l'arresto cardiaco devono essere precedute dalla somministrazione di un anestetico, senza il quale il condannato, in preda a fortissimi spasmi muscolari, si sente soffocare e ha, letteralmente, la sensazione di venire bruciato vivo. Ma nelle camere della morte l'anestesia viene praticata senza test clinici, da personale non addestrato, senza controllo medico sui metodi: le iniezioni letali attualmente in uso per gli esseri umani — era la conclusione della ricerca — vengono praticate secondo standard che non raggiungono neppure quelli richiesti per l'esecuzione degli animali. E purtroppo la conferma della denunzia dei medici venne da esecuzioni successive. Un solo esempio tra i tanti: il 13 dicembre 2006, a Jacksonville, in Florida, il portoricano Angel Nives Diaz ha agonizzato sul lettino per 34 minuti. Così stando le cose, per evitare l'obiezione che l'esecuzione fosse contraria all'Ottavo Emendamento, ai medici venne fatta una richiesta: quella che un anestesista supervedesse all'esecuzione. Il rifiuto fu netto. Nel Code of Medical Ethic, del 1992, si legge: «Un medico, in quanto esponente di una professione il cui scopo è salvare la vita, quando vi sono speranze di farlo, non dovrebbe partecipare a un'esecuzione» anche se l'opinione personale del medico sulla pena capitale rimane una scelta morale individuale.
L'iniezione letale si è ritorta contro coloro che ipocritamente, per calcolo politico, ne hanno sostenuto l'introduzione. Ora, la parola è alla Suprema Corte. Se la crudeltà della «morte dolce» americana verrà riconosciuta, gli Usa, credo, saranno probabilmente costretti a fare buon viso a cattivo gioco, e applicare la moratoria promossa dall'Italia approvata all'Onu. Come altre volte, la Suprema Corte potrebbe scrivere una sentenza veramente storica.

Corriere della Sera 13.1.08
Risponde Sergio Romano
Terroristi e patrioti, qualche utile distinzione


Ho sentito definire Thaci dell'Uck terrorista e bandito. Altrettanto gli iracheni che si fanno scoppiare una bomba addosso. Ma come mai Rosario Bentivegna viene definito un eroe? Ha avuto anche lui la medaglia d'oro o l'hanno data solo a Carla Capponi? Voleva liberare l'Italia dagli invasori tedeschi o ha ammazzato 35 e più innocui soldati altoatesini? E Thaci non vuole liberare il suo Paese dagli invasori serbi? E gli iracheni «terroristi» non vogliono liberare il loro paese dagli invasori Usa? Quando si è patrioti e quando si è terroristi?
Silverio Tondi

Caro Tondi,
Esistono molti terrorismi, fra cui quello rivoluzionario di organizzazioni che si propongono il radicale cambiamento della società e del sistema politico, come le Brigate Rosse in Italia e la Rote Armee Fraktion in Germania. Ma lei si riferisce evidentemente al terrorismo di gruppi che dichiarano di battersi per l'indipendenza della loro nazione, soggetta al dominio di una potenza straniera, o il diritto alla secessione di una provincia che appartiene a uno Stato più grande. Questo fu per l'appunto, verso la fine degli anni Novanta, l'obiettivo dell'esercito di liberazione kosovaro (Uck) e dell'uomo, Hasim Thaci, che ne fu il principale esponente. È un terrorista, come sostengono i serbi, o appartiene alla categoria dei resistenti, come Rosario Bentivegna, autore dell'attentato di via Rasella?
In ultima analisi la differenza è soltanto quantitativa. Se la persona di cui si discute appartiene a uno sparuto gruppo di teste calde ed è priva di qualsiasi seguito popolare, è un terrorista. Se dietro le sue spalle vi è un sentimento ancora inespresso ma diffuso, che la lotta armata contribuisce a rafforzare, è un patriota. La difficoltà, naturalmente, sta nell'accertare se il fenomeno in discussione appartenga alla prima o alla seconda categoria. Il governo che difende il proprio dominio sulla terra contestata ha un evidente interesse a sostenere che i suoi nemici sono terroristi. Vorrebbe che tutti i Paesi condividessero il suo punto di vista e che tutti i membri della comunità internazionale, ma soprattutto i suoi amici, lo accettassero e negassero ai «terroristi » qualsiasi riconoscimento o sostegno. Così fecero i britannici in Palestina quando dovettero subire gli attentati delle organizzazioni ebraiche. Così fecero i francesi, quando difendevano la loro sovranità in Algeria contro l'insidia del Fronte di liberazione nazionale. Così fece il governo di Londra quando cercò di stroncare le operazioni dell'Ira (Irish Republican Army) nell'Ulster. Così fecero i russi in Cecenia dal 1994 sino alla normalizzazione, forse soltanto provvisoria, degli anni scorsi. Così fa il governo israeliano quando sostiene che Hamas e Hezbollah sono organizzazioni terroristiche. Così fa il governo spagnolo quando parla dei militanti baschi dell'Eta, la Nato quando descrive i talebani in Afghanistan e il governo turco quando accusa la stampa italiana di non definire terroristi i curdi del Pkk.
Ma tutto, alla fine, dipende dall'esito dello scontro. Se il governo centrale riesce a prevalere, i suoi nemici sono e restano terroristi. Se deve venire a patti e concludere un accordo (come la Francia in Algeria e la Gran Bretagna nel-l'Ulster), i terroristi diventano prima interlocutori accettabili, poi nemici coraggiosi e, infine, patrioti.
Esiste poi, caro Tondi, un altro problema, non meno delicato. Come dovrebbero comportarsi i governi stranieri quando il Paese minacciato chiede loro insistentemente di definire terroristi i suoi nemici? Nei limiti del possibile la linea preferita è quella di stare alla finestra senza sbilanciarsi troppo da una parte o dall'altra. Non si sa come andrà a finire e nessuno vuole pregiudicare i propri rapporti con il vincitore quando la fase della lotta si sarà conclusa. Ma vi sono circostanze in cui il Paese minacciato insiste e può contare sul sostegno di una grande potenza. È questa la ragione per cui Hamas e Hezbollah sono state definite organizzazioni terroristiche.