martedì 15 gennaio 2008

Comunicato dei collettivi di scienze e fisica e il programma degli eventi organizzati in questi giorni.

Il desiderio di accrescere la libertà, di condurre a un vita piena e gratificante, e il corrispondente tentativo di scoprire i segreti della natura e dell’uomo, comportano quindi il rifiuto di ogni norma universale e di ogni tradizione rigida. - Paul K. Feyerabend -

È a partire da questo desiderio che, come studenti della Facoltà di Scienze e come esseri umani, esprimiamo la nostra più completa contrarietà alla visita del Papa all'Università La Sapienza.
Rifiutiamo le "norme universali" in nome delle quali il Papa e la Chiesa rivendicano il loro presunto diritto di intromettersi nella vita degli uomini e delle donne, pretendendo di regolarne gli aspetti più intimi e privati, imponendo la propria visione della realtà sui corpi e sugli affetti di chi questa visione non condivide. Sono mesi che in parlamento giace una legge
contro le violenze domestiche (nel sacro vincolo del matrimonio tutto è lecito...) ed è passato più di un anno dall'ultimo tentativo di legiferare in materia di diritti delle coppie di conviventi (visto mai che si incentivi qualcuno a vivere nel peccato!), intanto si parla di "moratoria sugli aborti" e di revisione della legge 194. Tutto questo avviene anche grazie ad un sistematico uso strumentale del "progresso scientifico", vediamo spesso come ai risultati di alcune ricerche venga attribuita quella validità assoluta che le moderne scoperte scientifiche non possono né vogliono avere, mentre altri sono screditati e criminalizzati senza alcuna argomentazione: così la Ru486 è pericolosissima, una minaccia per la salute delle donne, mentre la possibilità di tenere un feto prematuro in vita per un tempo illimitato completamente dipendente dalle macchine è un avanzamento tecnologico da benedire ed un gamete appena fecondato è un nuovo individuo perché lo dice il suo DNA. Nelle mani di questi professionisti della mistificazione la scienza è un mezzo per confondere esseri umani con macromolecole, vite umane con battiti cardiaci. Il Papa da sempre - ma oggi con rinnovata forza, specialmente in questo Paese - incarna un'attitudine manipolatrice nei confronti della scienza, rappresenta quella "tradizione rigida" che pretende di conformare, filtrare, giudicare l'attività umana che per eccellenza si nutre di libertà ed indipendenza, mirando a farne uno strumento di potere. Riteniamo quindi assolutamente inaccettabile che l'Università si presti a dare legittimità ad una simile operazione invitando il Pontefice a partecipare all'inaugurazione dell'anno accademico.

Come studenti e studentesse della Facoltà di Scienze dell’Università La Sapienza ci sentiamo, però, in dovere di dire qualcosa di più: la Chiesa non è l'unica istituzione impegnata a servirsi della scienza per i propri scopi, al contrario essa si trova sempre più in buona compagnia, sempre più spesso governi, enti locali, imprese chiamano in causa degli scienziati volendo persuadere i cittadini, le comunità locali o i dipendenti dei benefici di questo o quel progetto. E troppo spesso gli scienziati si prestano a questo gioco, espongono le "verità rivelate" della loro professione, sciorinano dati il più delle volte incomprensibili e quindi inconfutabili, senza porsi troppo il problema di cosa sarebbe successo se fossero giunti ad una conclusione diversa, senza chiedersi se avrebbero avuto ugualmente diritto di parola. Non vogliamo opporre al principio di autorità religioso il principio di autorità scientifico, un simile scontro tra titani non ci interessa affatto, anche e soprattutto perché riteniamo che la scienza abbia molto di più (e di meglio) da offrire al genere umano che non un nuovo corpus di dogmi.
"Le affermazioni scientifiche, per la quasi totalità della gente, vengono accettate o per autorità o per la divulgazione", scriveva il professor Daniel J. Amit. L’evidente realtà di questa denuncia dovrebbe suscitare l’esigenza nella Comunità Scientifica e in noi studenti di una profonda riflessione che possa aiutarci a difenderci da ogni tentativo di asservimento, indipendentemente dalla sua origine. Ci auguriamo perciò che questa sciagurata occasione possa trasformarsi in uno spunto per aprire un proficuo e duraturo dibattito.
Ribadiamo quindi il nostro più totale rifiuto alla presenza del Papa, e di ciò che rappresenta, tra le mura della città universitaria, luogo che dovrebbe essere di libero scambio di saperi e di formazione nella libertà e che il Rettore ha mostrato invece di essere pronto a svendere, a seconda delle opportunità, tanto alle aziende quanto al Pontefice.
Invitiamo tutti a partecipare alle iniziative organizzate dagli studenti/esse del Collettivo di Scienze .
Collettivo ResistenzaFISICA
Collettivo di Scienze MM.FF.NN.

Lunedì 14
Ore 13:00 Vecchio Ed. Fisica: Pranzo Sociale
Ore 14:00 Aula Conversi V.E.F.: Proiezione de "La Vita di Galileo"
Interviene il professor A. Frova

Martedì 15
Ore 13:00 Pratone di Geologia: Pranzo Sociale
Orario e Aula da definirsi Matematica: Proiezione de "La legge 40 e
i suoi inganni"
Interviene il regista B. Caputo

Mercoledì 16
Ore 13:00 Aula Conversi V.E.F.: Assemblea Studentesca
Ore 16:00 Aula 11 Geologia: Dibattito sull’evoluzionismo
Intervengono i professori:
U. Nicosia
J. Pignatti
M. Cristaldi
l’Unità 15.1.08
Il Papa a La Sapienza, scontro sulla laicità
67 docenti: offesi dalla sua presenza per il via all’anno accademico. Il Vaticano: è censura
di Anna Tarquini


UNA CROCIATA LAICA all’alba del 2008. Uno scontro tra scienziati e Chiesa nel nome di Galileo. Cento professori hanno cercato di zittire il Papa: «All’università non parla» e i monsignori hanno risposto alzando i megafoni: «Siete censori. Censori e intolleranti». Ancora Ratzinger al centro della scena. Ancora polemiche. Ancora un atto che non ha precedenti e scatena scontri politici. Tra tre giorni il Papa sarà all’università di Roma per inaugurare l’anno accademico con un discorso dedicato alla moratoria sulla pena di morte e molti docenti hanno scritto al rettore: non lo vogliamo. «Chi dice che è stato giusto processare Galileo non può entrare nel tempio della laicità e inaugurare i corsi di una università dove si studia e si insegna la scienza... È un invito che ci offende. E nemmeno nei peggiori momenti della Dc si è arrivati a tanto servilismo... ».
Sessantasette firme in calce sotto una lettera con questi toni inviata due mesi fa al rettore de La Sapienza e saltata fuori ad arte solo adesso. Sono firme di docenti illustri e contestano tutte l’opportunità di un invito e di un intervento di un Papa così oscurantista deciso da tempo dal Magnifico rettore Renato Guarini. Lo ha fatto anche Alberto Asor Rosa ieri in un accorato appello sulle pagine del Corsera: «Benedetto XVI ci ripensi. La rinuncia sarebbe un bel gesto». La lettera che doveva forse restare privata, almeno così sostengono ora alcuni firmatari, è stata invece resa pubblica prima un po’ in sordina insieme alla proteste dei collettivi studenteschi poi da Radio Vaticana. Che a mano pesante ha risposto con altrettanta pesantezza: «C’è un tollerante appello di 67 docenti. La comunità universitaria attende con interesse l’incontro con Benedetto XVI tuttavia non manca qualche contestazione e iniziative di tipo censorio. Proprio a La Sapienza, l’università fondata da un Papa, Bonifacio VIII nel milletrecento». E subito dopo è arrivata anche una nota ufficiale della Santa Sede. «Nessun cambiamento di programma. La visita del Papa ci sarà. Il Papa è stato invitato e la visita si terrà regolarmente».
Si conoscono solo pochi nomi dei firmatari. Uno di questi è Andrea Frova autore con Mariapiera Marenzana di un libro su Galileo e la Chiesa. Poi Luciano Maiani, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, Carlo Bernardini, Giorgio Parisi, Carlo Cosmelli. Dicevamo Galileo. Gli scienziati hanno buona memoria e nella missiva inviata al rettore Guarini motivano il loro disappunto citando proprio un discorso di Ratzinger, quando era ancora cardinale. «Era il 15 marzo 1990 - scrivono - in un discorso nella città di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: "All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto"». Ecco: «In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo - spiegano i firmatari - aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato».
C’è un retroscena. Ed è il retroscena che rivela Asor Rosa ma anche Andrea Frova. «Non è che fossimo contrari all’incontro tra il rettore e il Papa. Quel che non va è l’intervento durante la cerimonia». All’inizio sembra infatti che Guarini volesse affidare a Benedetto XVI la Lectio magistralis di apertura dell’anno accademico. «Poi si sono accorti che sarebbe stato troppo anche per gli stomaci più resistenti» ha chiosato Asor Rosa. Il rettore non precisa se quest’ultimo particolare è vero però a sua volta ha preso carta e penna per rispondere ai sessanta: «Abbiamo invitato il Papa a parlarne in quanto è un uomo di grande cultura e profondo pensiero filosofico». Mussi e Veltroni che saranno presenti alla cerimonia non sono intervenuti nella polemica. La destra, naturalmente, ha soffiato sul fuoco: «Ecco la libertà di parola, ecco il nuovo sessantotto». Calderoli in tono minore: «Adesso la Sapienza si chiami l’Ignoranza».

l’Unità 15.1.08
IL DOCUMENTO. Perché la Chiesa non ha preso una posizione più chiara contro i disastri quando lo scienziato aprì il vaso di Pandora?
Ratzinger: ecco perché sbagliò Galileo


Difficile trovare il testo del discorso che l’allora cardinal Ratzinger tenne a Parma il 15 maggio 1990, citato dai 67 professori de «La Sapienza» per motivare il loro «no» alla presenza del Papa per l’inaugurazione dell’anno accademico. Ma alcuni brani sono stati pubblicati in Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, edizioni Paoline 1992. Eccone alcuni brani.

«Nell'ultimo decennio, la resistenza della creazione a farsi manipolare dall'uomo si è manifestata come elemento di novità nella situazione culturale complessiva. La domanda circa i limiti della scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta inevitabile. Particolarmente significativo di tale cambiamento del clima intellettuale mi sembra il diverso modo con cui si giudica il caso Galileo.
Questo fatto, ancora poco considerato nel XVII secolo, venne - già nel secolo successivo- elevato a mito dell'illuminismo. Galileo appare come vittima di quell'oscurantismo medievale che permane nella Chiesa. Bene e male sono separati con un taglio netto. Da una parte troviamo l'Inquisizione: il potere che incarna la superstizione, l'avversario della libertà e della conoscenza. Dall'altra la scienza della natura, rappresentata da Galileo; ecco la forza del progresso e della liberazione dell'uomo dalle catene dell'ignoranza che lo mantengono impotente di fronte alla natura. La stella della Modernità brilla nella notte buia dell'oscuro Medioevo.
(...) Molto più drastico appare un giudizio sintetico del filosofo agnostico-scettico P. Feyerabend. Egli scrive: «La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Dal punto di vista delle conseguenze concrete della svolta galileiana, C. F. Von Weizsacker fa ancora un passo avanti, quando vede una «via direttissima» che conduce da Galileo alla bomba atomica.
Con mia grande sorpresa, in una recente intervista sul caso Galileo non mi è stata posta una domanda del tipo: «Perché la Chiesa ha preteso di ostacolare lo sviluppo delle scienze naturali?», ma esattamente quella opposta, cioè: «Perché la Chiesa non ha preso una posizione più chiara contro i disastri che dovevano necessariamente accadere, una volta che Galileo aprì il vaso di Pandora?». (...) La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande.

l’Unità 15.1.08
Il docente di Fisica all’ateneo romano, tra i firmatari dell’appello anti-Ratzinger: allora si inviti anche il rabbino
«Tra scienza e fede rotto l’armistizio che durava da 50 anni»
di Daniela Cipolloni


«La Chiesa cattolica ha rotto l'armistizio tra scienza e fede che andava avanti da più di 50 anni. Per questo il Papa è un ospite sgradito in casa nostra». Giorgio Parisi, fisico dell'Università La Sapienza è tra i 67 firmatari nell'appello al rettore dell'ateneo capitolino contro l'intervento del Pontefice previsto giovedì 17, al termine dell’inaugurazione dell'anno accademico.
Come mai questa alzata di scudi contro il Papa?
«Tutti i motivi della nostra contrarietà sono stati esposti dettagliatamente nella lettera che il collega Marcello Cini ha indirizzato alla stampa nel novembre scorso. Il significato del nostro appello al rettore è che Cini non è il solo a pensarla così. Alla lista di motivazioni, abbiamo solo aggiunto il riferimento a Galileo».
Qual è la critica mossa alla Chiesa?
«Negli ultimi 50 anni scienza e religione avevano firmato una sorta di armistizio, riconoscendosi come due ambiti distinti e indipendenti, due verità non in contrasto l'una con l'altra. Questa posizione è stata molto esplicita negli anni di Papa Giovanni Paolo II, il quale, per esempio, sull'evoluzionismo aveva preso posizioni "laiche": un fatto ormai assodato nel mondo scientifico su cui la Chiesa non aveva obiezioni da fare. Questo armistizio tra religione e scienza è stato però rotto dalla Chiesa Cattolica. Oggi la spartizione delle rispettive sfere di competenza fra fede e conoscenza non vale più e c'è un tentativo di affermare la superiorità della fede sulla scienza. Lo hanno dimostrato le dichiarazioni del Papa e di alcuni cardinali, che hanno parlato contro la scienza e contro l'evoluzionismo. Per questo noi come professori universitari non abbiamo piacere a ricevere il Pontefice il giorno dell'inaugurazione dell'anno accademico. Dovrebbe venire parlare della pena di morte, ma non ci stupirebbe se passasse ad altri argomenti come la moratoria sull'aborto. È fuori luogo. Ma se il Papa venisse alla Sapienza solo per inaugurare la Cappella sarebbe il benvenuto».
Se al suo posto ci fosse stato Wojtyla la vostra reazione sarebbe stata la stessa?
«Il precedente Pontefice venne a far visita all'Università, anche se non in occasione dell'inaugurazione dell'anno. Non ci furono grandi obiezioni, al massimo qualche mugugno. Resta il fatto che l'Università non deve dare insegnamenti religiosi. Per par condicio, l'anno prossimo inviteremo il capo della Chiesa Valdese o il Rabbino di Roma?».

l’Unità 15.1.08
Cari docenti disertate
di Roberto Cotroneo


Il sospetto c’è, e non è di quei sospetti che danno grande sollievo. Nel senso che questo invito dell'Università La Sapienza di Roma perché il Papa inauguri l'anno accademico assomiglia più a una gaffe piuttosto che a una scelta etica e religiosa. E i docenti di fisica dovrebbero sorriderne piuttosto che agitarsi più di tanto. La gaffe è semplice: non si invita un Pontefice a inaugurare un anno accademico universitario. Nessuno di solito lo fa, e non ha alcun senso. Non si invita un Pontefice a inaugurare un anno accademico perché il Papa è un capo di Stato, ed è la massima autorità della Chiesa cattolica.
Come non si invita Benedetto XVI non si invita il Dalai Lama, e non si invita il Rabbino capo di Roma. Il pontefice può far visita all’università di Roma, ma l’inaugurazione di un anno accademico è un evento laico, scientifico e intel-lettuale. E il papa non è un intellettuale, è un papa, che è cosa assai diversa.
E allora? Allora si tratta di gaffe, di superficialità, di frivolezza intellettuale. Alla Sapienza si saranno chiesti: da chi facciamo inaugurare l’anno accademico? Da uno importante, molto importante, forse il più importante. Guardati attorno e chi trovi? Bill Gates e Steve Jobs, sono famosi e importanti, ma non abbastanza. George Bush è molto importante ma non è un intellettuale. Di premi Nobel è pieno il mondo, e non fanno più effetto a nessuno. Forse il papa, certo, il papa: intellettuale, colto, e soprattutto importantissimo. Perché non lui? E perché non affidargli la lectio magistralis? Peccato che l’università è un’istituzione scientifica, dove insegnano atei e credenti, e tra i credenti ci possono esere cattolici o protestanti, buddisti o induisti, anglicani o ebrei.
E allora come gli è venuto in mente? Gli è venuto in mente perché il piano del discorso non è intellettuale, la provocazione di chiedere al papa di inaugurare un anno accademico nella laicissima università di Roma non viene da una scelta intellettuale, ma da una scelta puramente vanitosa e opportunista. Una vanità fuori luogo di chi lo ha invitato. Un opportunismo certo calcolato.
Risultato: un bel pasticcio, e un boomerang. Perché non si può contestare un papa, inneggiando a Giordano Bruno. È di cattivo gusto. Ed è di cattivo gusto mettere un pontefice in questa situazione difficile e imbarazzante. Ratzinger non è un papa indiscutibile, come lo fu Giovanni Paolo II. Non tutti i pontefici sono uguali. E Paolo VI, o ancora di più Pio XII, non erano Giovanni XXIII. Ratzinger è un pontefice che si è espresso in modo netto, e più volte, sul fatto che la scienza deve essere subordinata alla religione. E l’università è prima di ogni cosa una comunità scientifica che non si sente subordinata a nessuno. È il suo mestiere: che si occupi di Dante come di fisica delle particelle.
E allora? Allora non sono un bello spettacolo, anche se legittimi, gli striscioni antipapa davanti all’università, e ancor meno le inopportune e ridondanti veglie di preghiera degli studenti cattolici. Il papa non è Bono Vox, non è una star da portare in processione. È un signore che fa politica, che parla ex cathedra, e soprattutto urbi et orbi. Non abbiamo bisogno di dargli visibilità ne ha moltissima da solo, e se deve parlare contro la pena di morte è meglio che lo faccia dal soglio di Pietro, rivolgendosi direttamente ai capi di Stato, piuttosto che farlo con una dotta disquisizione davanti a toghe ed ermellini. E se deve affrontare un tema così rilevante, preferiremmo che lo facesse attraverso un’enciclica. Perché il risalto sarebbe chiaro e forte. Non credo che l’università di Harvard, di Friburgo, o la Sorbona inviterebbero mai il papa a inaugurare l’anno accademico. E a Oxford o Cambridge nessuno chiamarerebbe l’Arcivescovo di Canterbury. Ognuno faccia il suo mestiere, ognuno mantenga la sua identità. Solo un paese fragile, senza dei punti di riferimento saldi può cadere in un errore come questo. Ma i docenti che trovano fuori luogo la presenza del papa all’università non dovrebbero po-lemizzare. La cosa migliore è disertare. Sarebbe meglio che lo facessero quasi tutti, docenti laici e docenti cattolici. Non dovrebbero partecipare. Potrebbero andare al mare, se è una bella giornata. Chiedendo rispetto per il ruolo che ha sempre avuto l’istituzione universitaria in un paese moderno e laico.
Siamo ormai a nuova forma di cattolicesimo: il cattolicesimo opportunista. È tutto un compiacere senza mezze misure e in modo smaccato le gerarchie ecclesiastiche. A destra e ogni tanto anche a sinistra, purtroppo. Qualcosa che in queste forme non si era mai visto prima d’ora, neppure quando eravamo un paese molto cattolico e molto bigotto. Questo invito del papa alla Sapienza è un altro esempio di smaccato cattolicesimo opportunista. Come poi papa Benedetto XVI abbia potuto accettare un invito così inopportuno è un’altra storia ancora. Che forse appartiene ai misteri e ai segreti vaticani.
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 15.1.08
Tra i «duri» di Fisica: scienza, libertà e goliardia
di Andrea Carugati


Musica dance a palla, assedio sonoro all’Aula Magna. E la Minerva diventerà trans
Pranzi sociali e film, si discute di Galileo e Bruno
Altre 700 adesioni all’appello dei docenti
Si prepara la «frocessione»: 12 stazioni su Aids, 8 per mille, eutanasia, famiglia, aborto, scuola...

«Fra Giordano è bruciato, Galileo ha abiurato... Noi resisteremo al Papato!», recita lo striscione dei collettivi studenteschi che accoglie, su piazzale Aldo Moro, chi arriva all’università La Sapienza. Altri striscioni coprono i muri dei palazzi delle facoltà, e uno anche la statua della Minerva: «Il sapere non ha bisogno né di padri né di preti». Centinaia i manifesti sparsi i vialetti dell’ateneo: «Il Papa all’Università? Anche no». «No pope».
L’epicentro della protesta «No Ratzinger» è al vecchio istituto di Fisica. Da qui è partita a novembre la lettera di 67 professori al rettore per contestare l’invito a Benedetto XVI, è qui che ieri è iniziata la «settimana anticlericale» dei collettivi, con un pranzo sociale, rigorosamente «No Vat», a base di porchetta. Prezzi superpolitici, striscioni che raffigurano un ideale abbraccio tra il Papa, Veltroni e il ministro Mussi, e ardore laico nelle parole degli studenti: «Non lo vogliamo perché è un ostacolo all’avanzata dei diritti degli omosessuali», dice una matricola di Medicina. «L’ingerenza del Vaticano nella vita degli italiani è insopportabile», spiega Giorgio Sestili, portavoce del collettivo di Fisica. «Basta guardare alle campagne contro i Dico, contro i gay, contro gli anticoncezionali». Il tema dei diritti degli omosessuali è centrale nel ragionamento degli studenti: non a caso la gran parte delle proteste organizzate per giovedì, quando Ratzinger arriverà alla Sapienza (non è il primo Papa qui: prima di lui Paolo VI nel 1964 e Giovanni Paolo II nel 1991), battono su questo tasto: il corteo del pomeriggio in San Lorenzo si chiamerà «la Frocessione», con tanto di 12 stazioni a tema: sulla fecondazione eterologa, la famiglia, le coppie di fatto (con foto gigante di Ratzinger e Bush), l’Aids, l’otto per mille, l’eutanasia, i finanziamenti alle scuole cattoliche. Chiudono «i gonfaloni di Sodoma e Gomorra», tanto per chiarire. E la statua della Minerva, al centro dell’Ateneo, sara travestita come «un vero trans». Ancora: gli studenti vestiti da preti «sbattezzerano» la cappella dell’ateneo con il vin santo, e organizzeranno un «assedio sonoro» in piazza Aldo Moro a base di musica dance e house.
In un aula del primo piano di Fisica, dove campeggia la grande foto dei ragazzi di via Panisperna («Enrico Fermi ha insegnato qui», ricorda la lapide), va in onda il film «Vita di Galileo»: una cinquantina tra studenti e professori assiste attenta. Mentre dalla sala-cinema arrivano le urla di Giordano Bruno al rogo, in corridoio Andrea Frova, fisico di fama, e uno dei promotori della lettera «No Ratzinger», si sfoga: «Ho invitato i ragazzi a evitare azioni volgari o violente, che sarebbero l’opposto dei nostri obiettivi. Io non andrò alle manifestazioni di protesta, me me starò a casa perché quell’ospite non lo desidero». Neppure un Papa professore come Benedetto? «Ma quale professore. Quando è andato in luoghi intellettualmente avanzati, come Ratisbona, ha fatto solo delle gaffe». Frova è sconsolato «dal livello di ingerenza del Vaticano nella politica italiana»: neppure ai tempi della Dc una cosa del genere, che nostalgia di personalità come Scalfaro, che sapeva separare fede e politica...». Finisce il film, parte il dibattito. Si vola alto: ruolo della scienza, i suoi limiti, il rapporto con le “altre” verità e con l’inevitabile provvisorietà di ogni risultato scientifico. Si discute della riabilitazione di Galileo: «Non c’è mai stata veramente» dice un professore. Un altro, Carlo Cosmelli: «Ratzinger sostiene che chi nega il ruolo della divina provvidenza non fa scienza ma ideologia. Allora era meglio ai tempi di Leone XIII, almeno erano più chiari...». Concorda uno studente: «Oggi lo scontro è ancora sugli stessi temi dei tempi di Galileo». Un altro prof. invita i ragazzi a «fare più chiasso». Giancarlo Ruocco, direttore del Dipartimento, annuncia: «Alla nostra lettera sono arrivare 700 adesioni, tra colleghi della Sapienza, quasi tutti di materie scientifiche, e scienziati italiani all’estero». Nell’auletta occupata di Giurisprudenza i collettivi preparano la giornata di giovedì: i costumi per la Frocessione, l’attacchinaggio contro le strisce bianche e rosse che già recintano tutte le aiuole, i rapporti con la polizia, le contromosse «se arrivano i fasci». Intanto arrivano le defezioni: Paola Cortellesi e la banda Osiris, annunciati alle contromanifestazioni, non ci saranno. Resta solo la «lectio magistralis» di Andrea Rivera, il comico di «Parla con me» che già era entrato in rotta col Vaticano il primo maggio. Giorgio scuote la testa: «Evidentemente non se la sono sentita».
La settimana anticlericale prosegue: oggi altro pranzo sociale a Geologia, segue la proiezione del documentario «La legge 40 e i suoi inganni». Mercoledì altra assemblea a Fisica con i professori. Si chiamano fuori le sigle vicine al Pd, che parlano di «protesta strumentale e preventiva». Tanti i ragazzi che si stupiscono di questo clamore: chi perchè disinteressato all’evento, chi perché stupito dai toni «fuori tempo» dello scontro. E i ragazzi cattolici preparano l’evento a modo loro: alcuni puliscono la chiesetta e le stanze che il Papa benedirà, altri distribuiscono volantini chiedendo ai “colleghi” se hanno dei messaggi per Benedetto. Stasera alle 19 ci sarà una veglia di preghiera con monsignor Enzo Dieci, vescovo ausiliario di Roma. «La maggioranza degli studenti attende il Papa con entusiasmo», dicono i ragazzi di don Orione. Il cappellano Vincenzo D’Adamo non attacca chi si prepara a protestare, anche con forme «goliardiche» come la «frocessione», ma invita tutti a «evitare violenze». Concetto condiviso anche dai prof. «No Ratzinger»: «Dialogo e confronto devono prevalere», dice Luciano Maiani. E Cosmelli: «Siamo certi che sarà una protesta pacifica».

l’Unità 15.1.08
Il crociato-Ferrara insulta: «L’aborto? Un omicidio perfetto... »
Milano, il direttore del «Foglio» a teatro con la claque rilancia la sua moratoria: «Siamo all’eugenetica, Berlusconi si schieri»
di Luigina Venturelli


MORATORIA «L’aborto è un omicidio, punto». La sentenza è definitiva, il giudice Giuliano Ferrara si è pronunciato, la platea applaude contenta e soddisfatta: le truppe di Comunione e Liberazione si sono mosse in gran numero per riempire il teatro Dal Verme di Milano nel giorno di presentazione della moratoria lanciata dal direttore del Foglio, le poche femministe che si sono introdotte in sala vengono ignorate o zittite dai fischi del pubblico devoto. Insomma, nulla ha turbato il “one man show” del giornalista: «Sapete cosa è l’omicidio? È la negazione del futuro, per cui cosa è se non un omicidio perfetto la soppressione di una vita nel grembo di una donna?». Gli applausi arrivano fragorosi e puntuali ad ogni parola d’ordine. I presenti sembrano ben organizzati, confortati dalla presenza del loro referente politico, il presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, reagiscono con opportuni cori da stadio: «Sei uno di noi, Ferrara uno di noi».
Lui li premia con espressioni accalorate: «Noi non siamo la civiltà della rupe Tarpea, noi siamo la civiltà giudaico cristiana» dice, citando la rupe da cui gli spartani gettavano i loro figli più deboli. Non solo. Il direttore del Foglio cita addirittura gli esperimenti dei medici nazisti per illustrare il testo della moratoria, che presto verrà presentata al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon.
Il documento non ha mezze misure: «L’aborto è diventato lo strumento di una nuova eugenetica che viola i diritti del nascituro e l’uguaglianza tra gli uomini, portando la diagnostica prenatale vicino al criterio del miglioramento della razza, distruggendo così gli ideali universalistici che sono all’origine della Dichiarazione universale del 1948».
Giuliano Ferrara pontifica da una piccola scrivania montata al centro del palco, ad illuminarlo un cono di luce nel teatro semibuio. Persino il suo compare di crociata, il coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi, non riesce a rubargli la scena: sceglie male i tempi d’intervento, raggiunge il palco quando il teatro si sta già svuotando e il microfono è già stato rimosso.
Invece il direttore del Foglio continua a tuonare. Invita il Cavaliere a rompere gli indugi che sono «assenza sulle questioni civili e morali», ne dice quattro a Zapatero per «l’infame codice civile che parla di genitore A e B, non di padre e madre», invita a costituire comitati a sostegno della moratoria. E le canta soprattutto ai contestatori della Santa Sede: «Non vogliamo che le università italiane si riducano in uno stato pietoso come la Sapienza di Roma, dove si vuole negare la parola al professor Ratzinger». È a questo punto che si scatena l’applauso più caldo e lungo del pubblico, si sente urlare «Viva il papa» e «Viva Ratzinger», a chiarire - se mai ce ne fosse stato bisogno - quanto la fede papalina sia il primo e vero motore della battaglia.

l’Unità 15.1.08
L’aborto, la libertà, i diritti
di Gianna Granati Tamburrano


Puntualmente si torna a parlare della 194. Come sempre scendono in campo le gerarchie cattoliche le quali protestano prima di tutto per la risposta secca degli abortisti: «La legge non si tocca». È vero, la risposta è intollerante. Non vorrei sembrare intollerante e perciò parliamone. Espongo qui le ragioni per le quali, secondo me, le gerarchie ecclesiastiche hanno torto. Esse sostengono - vedi da ultimo il cardinal Bagnasco sul Corriere della Sera del 4 gennaio 2008 - che l’evoluzione tecnica e scientifica e dello spirito pubblico inducono a rivedere la legge. Io non capisco perchè la evoluzione tecnica e scientifica invocata dagli antiabortisti va in quella direzione. Ritengo che vada nella direzione opposta perché essa ha reso più facile la contraccezione la quale previene l’aborto, contraccezione che la chiesa, però, respinge in tutte le sue forme, compreso l’innocente profilattico. Per quanto riguarda lo spirito pubblico per i sondaggi gli antiabortisti sono meno del 30%, all’incirca la stessa percentuale del referendum del 1981.
Insomma vi è una minoranza alla quale nessuno impone l’aborto e la quale, invece, almeno attraverso il magistero della chiesa, vorrebbe impedire alla maggioranza di esercitare un diritto che è, non ci sarebbe bisogno di dirlo, nella stragrande maggioranza dei casi una decisione dolorosissima che lascia cicatrici indelebili nell’animo e nella psiche della donna. E questo è, nella maniera più evidente, un comportamento antidemocratico. Essi dicono che lo fanno per la tutela del nascituro. Ma non pensano che un figlio non accettato provocherà l’infelicità della madre e sua? O meglio che la madre ricorrerà all’aborto clandestino o all’abbandono? E non dicono nulla le statistiche che rivelano che i casi di aborto si sono dimezzati?
Su un punto concordo con il cardinal Bagnasco: quello di dare applicazione piena alla legge 194.
In conclusione la chiesa ha il diritto di far valere le ragioni del suo magistero, ma lo stato ha il dovere di proteggere i diritti e le libertà di tutti. Mi preme ricordare quanto scrisse Pietro Nenni ad Aldo Moro a proposito di un intervento di Paolo VI sui lavori parlamentari relativi alla legge sul divorzio: «La Costituzione ha voluto che Stato e Chiesa cattolica siano, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. La Chiesa è nel suo diritto quando ravvisa nel matrimonio un sacramento indissolubile davanti a Dio ed ai suoi rappresentanti in terra. Lo Stato è nel suo diritto se regola, o propone di regolare come meglio crede, gli effetti civili del matrimonio, ispirandosi al criterio che l’uomo può dividere ciò che l’uomo unisce. Sono convinto che non è nell’interesse di nessuno, né dello Stato né della Santa Sede, sollevare questioni inerenti alla sovranità dei due poteri. Va da sé che come ministro tengo per lo Stato».

l’Unità 15.1.08
La 194? Ecco la mia contro-moratoria
di Franca Bimbi


La proposta di moratoria dell’aborto persegue obiettivi locali e mondiali. Per l’Italia si punta a modificare la legge 194: per ora sull’aborto terapeutico e sul ruolo pubblico dei Centri aiuto alla vita, contro la commercializzazione della Ru284. Inoltre arriverà all’Onu una proposta per i diritti del non-nato, affinché prevalgano su quelli della madre, che bloccherebbe gli investimenti per la contraccezione e le ulteriori legalizzazioni dell’aborto. La «campagna» sarà lunga. La moratoria vuole combattere le «culture della morte»: scientismo, relativismo morale, consumismo, culture del femminismo di genere, in nome di valori umanistici «veri», univoci ed autoevidenti e perciò non negoziabili.
Propongo una «modesta» contro-moratoria: contro la criminalizzazione delle donne e contro l’aborto non-scelta, con l’obiettivo di rendere possibili tutte le maternità desiderate ed anche quelle per le quali il desiderio è appena appena un dubbio. I proponenti la moratoria, definiscono l’aborto in vari modi, «strage degli innocenti», «pena di morte», «omicidio di massa» : comunque un atto in sé gravemente immorale anche (e soprattutto) quando diviene legalmente lecito. Il substrato filosofico del discorso vede la sovrapposizione di una interpretazione culturale, soggettiva (l’ovulo fecondato come persona umana, sin dalla fecondazione) ad un dato biologico, obiettivo (l’ovulo fecondato della specie umana è vita umana). Due conseguenze: ogni donna che abortisce commette oggettivamente un omicidio, ogni persona che la approva ne diviene potenzialmente complice; la definizione di un diritto incondizionato a nascere, inserito tra i diritti umani, imporrebbe (almeno sul piano morale) ad ogni donna di portare a compimento ogni gravidanza. L’eventuale tolleranza legale dell’aborto trasformerebbe le donne in omicide a piede libero : per opportunità sociale o in grazia della loro incapacità di essere persone responsabili? La mia opinione è radicalmente diversa.
L’ovulo fecondato è vita umana da un punto di vista biologico, ma non persona umana, nel senso di soggetto senziente e cosciente, capace di vita emotiva e spirituale. Questo passaggio avviene nel tempo, e si attua, normalmente e pienamente, a partire dalla nascita o da non molto prima. Il come e il quando della qualità di persona prima della nascita va discusso: non riguarda l’inizio del percorso e il momento in cui normalmente si decide del sì o del no alla gravidanza. È giusto - sul piano fattuale e morale - sostenere che una donna incinta custodisce un «altro da sè», come potenzialità e promessa: questo le conferisce una responsabilità personale rilevante e non delegabile; ma non è affatto giusto sostenere che quell’ovulo è persona umana la cui soppressione coincide con un omicidio. L’aborto volontario, anzi, può essere una risposta morale positiva (cioè «buona») alla sconfitta della donna, nella sua relazione con l’uomo o/e nel conflitto tra il biologico e l’umano, che attraversa il suo corpo, inteso come spazio anche morale della potenzialità materna.
Paradossalmente, senza la libertà di abortire la donna non potrebbe dispiegarsi pienamente come individuo morale, restando dipendente dalla sua necessità biologica: non in quanto obbligata a partorire, ma perché impossibilitata a scegliere davvero la sua maternità. Al momento della consapevolezza della gravidanza il sì ed il no si fronteggiano con la stessa dignità morale. Ogni gravidanza, segua ad un atto d’amore o derivi da uno stupro, diventa fatto morale per la possibilità di scelta tra il sì o il no. L’aborto volontario scelto con «piena avvertenza e deliberata volontà» può essere un’azione morale che restaura la verità della donna di fronte alle sopraffazioni della sua libertà di persona. In questo ragionamento la libertà della scelta di maternità, alla pari di quella di abortire, non discende da leggi positive, ma è diritto umano fondamentale della persona-donna, e presupposto etico-relazionale della «libertà di nascere» dell’altro, che è promessa di persona.
La distinzione etica non si pone tra maternità e aborto, ma riguarda il peso della libertà e della responsabilità tipiche della donna-persona nei confronti della propria capacità di mettere al mondo. Perciò, sul piano pratico, il primo punto della moratoria dovrebbe riguardare la depenalizzazione completa della legge 194 del 1978. Potremmo fermarci qui? Non mi pare, perché storicamente, in assenza di leggi, il corpo femminile è ancora troppo spesso regolato dai costumi e dai rapporti di potere, con non grande giustizia per le donne. Gli aborti imposti, indotti da condizioni economiche e relazionali non umane, o dovuti alla negazione di mezzi contraccettivi, vanno ascritti ai delitti di femminicidio o di tentato femminicidio, così come le maternità imposte in qualsiasi maniera, e quelle non sostenute moralmente e materialmente. Perciò pretendiamo buone leggi. La legge 194 del 1978 lo è, anche se non si tratta di una legge «leggera» per la donna. Ad esempio il riferimento alla tutela della «vita umana nascente» appare ambiguamente rivolto sia a sostenere la rimozione delle cause dell’aborto non voluto o imposto sia a tener aperto il conflitto tra la libertà morale della madre ed un ipotetico pari diritto alla vita da parte dell’ovulo fecondato.
Tuttavia la legge risulta fondamentalmente saggia nel fissare il termine di novanta giorni per l’intervento precoce come nel porre forti vincoli ed un limite non temporale, bensì di «possibilità di vita autonoma del feto», per i casi dell’aborto terapeutico. Su questo secondo tipo di intervento è aperta da tempo una discussione che non va strumentalizzata: la centralità della libertà femminile resta limite invalicabile dalle intrusioni dei medici, degli psicologi e dei moralisti nei confronti della coscienza personale della donna e deve prevenire il ritorno all’antico conflitto tra la vita della madre e quella del nascituro. Oggi i consultori dovrebbero essere rivalutati come ambito ideologicamente neutro (cioè moralmente non intrusivo) e posti al centro della rete dei servizi pubblici e privati di sostegno alle scelte sessuali, procreative e genitoriali della donna e delle coppie. Chi considera l’aborto un omicidio (e la donna una potenziale assassina) dovrebbe sospendere questa sua convinzione nella relazione d’aiuto, poiché si tratta obiettivamente di un pre-giudizio negativo nei confronti della persona che si intende sostenere. Inoltre dovrebbero far parte della rete dei servizi anche le associazioni e le iniziative di volontariato femministe, convinte del valore dell’autodeterminazione, ma con un approccio critico verso la sanitarizzazione della sessualità e della maternità. Una rete culturalmente plurale implica un’attenzione al pluralismo morale dei cittadini, e perciò dovrebbe escludere stili comunicativi di tipo propagandistico così come atteggiamenti ideologico-autoritari. Nel nostro Paese, per una moratoria degli aborti non-scelta, mancano soprattutto l’ascolto delle/degli adolescenti ed il lavoro transculturale con le donne immigrate; anche se cresce tra gli operatori la domanda di una formazione professionale transdisciplinare, per far fronte ai conflitti interpersonali nella crescita affettiva e per sostenere le immigrate nei loro percorsi di emancipazione nella e dalla famiglia, attraverso scelte di maternità consapevole, conoscenza del proprio corpo, informazione contraccettiva, sostegno per le maternità socialmente difficili. A trent’anni dalla legge 194, non abbiamo sbagliato per eccesso di credito verso la libertà femminile. La negazione materiale e morale delle maternità desiderate, e l’aborto non-scelta, si collocano nello stesso contesto.
Questi sono i problemi da affrontare. Nel Pd non può risolverli un Manifesto dei valori: un documento di partito non può creare sintesi tra visioni del nascere e del morire giustamente antitetiche. Occorre produrre diversi «forti» documenti che sostengano le differenti visioni, per un dibattito aperto che diventi, col tempo necessario, carne e sangue del modo di confrontarsi in un soggetto politico nuovo.
*deputata gruppo Pd-l’Ulivo,
presidente della commissione Politiche dell’Unione europea

l’Unità 15.1.08
Si discute di un testo da contapporre a quello - contro la legge - che presenterà Buttiglione
Sulla 194 una mozione Binetti-Finocchiaro
di Maria Zegarelli


Mentre da Milano il direttore del Foglio lancia l’ultimo pesantissimo affondo contro l’aborto, a Roma Azione Giovani racconta di aver affisso una coccarda nera sul portone del Ministero della Famiglia, per ricordare i bambini mai nati nei trent’anni di legge 194. A corredo uno striscione con scritto «4 milioni e mezzo di aborti, 9 milioni di vittime», cento scalmanati, in prima fila Giorgia Meloni. È lo stesso Ministero a smentire la notizia della coccarda, spiegando «che i ragazzi di Azione giovani sono stati ricevuti» dalla segreteria del Dipartimento e hanno anche ricevuto qualche informazione sia sulla legge sia sui finanziamenti - 100 milioni - destinati a rilanciare anche la funzione di tutela della maternità dei consultori familiari. Nel frattempo in Senato Rocco Buttiglione prepara una mozione da presentare con lo scopo di creare maggioranze trasversali e fratturare l’Unione sul tema della legge 194.
Il suo obiettivo sono i cattolici di entrambi i fronti, ma soprattutto i teodoem. Una trappola a cui il partito democratico vorrebbe sottrarsi: ieri mattina alla buvette di un deserto Senato - animatosi per la burrascosa riunione del pomeriggio sul legge elettorale - Paola Binetti e Anna Finocchiaro hanno parlato del da farsi. Secondo la senatrice teodem il Pd - ma sarebbe meglio l’Unione tutta intera - dovrebbe presentare una propria mozione «chiedendo la piena applicazione della 194 in ogni sua parte e finanziamenti necessari anche a sostenere le donne che per motivi economici non se la sentono diportare avanti una gravidanza. Non soltanto dunque, come chiede Emma Bonino, per fare prevenzione e spiegare i metodi contraccettivi». Cauta ma disponibile la capogruppo Anna Finocchiaro: «Non ho nulla in contrario a pensare alla possibilità di presentare una mozione a sostegno della 194».
Ma la cautela è d’obbligo. Per vari motivi. Allargare la mozione a tutta l’Unione può essere arduo: come far convergere le posizioni di Paola Binetti con le senatrici di Rc e del Pdci, tanto per dirne una?
Un testo generico servirebbe a poco. I teodem potrebbero non accontentarsi: per loro va ribadito il sostegno alla vita. Sarà ancora una volta necessario lavorare di cesello su un testo in grado di unire e non spaccare. Ma il momento politico non è dei migliori, dopo quanto accaduto ieri al tavolo della riforma elettorale.

l’Unità 15.1.08
Le parole dimenticate
di Vittorio Foa


ANTICIPAZIONI L’ultimo libro del grande maestro «azionista» è una sofferta autoriflessione autobiografica sul senso dell’agire collettivo. Al centro, il nesso tra il linguaggio della politica e la vita reale. Ecco uno stralcio di questi pensieri

Si parla di una politica di centrodestra e di una politica di centrosinistra, si vive l’alternanza dei loro rispettivi governi. L’ultimo governo di centrodestra ha suscitato moltissime proteste ed è stato sconfitto nelle elezioni. Con l’arrivo del governo di centrosinistra è successo però un disastro: le proteste non sono finite e i cittadini che protestavano durante il governo di centrodestra hanno continuato a farlo.
Ciò è accaduto perché si è rappresentata la sinistra in maniera imperfetta e quindi, anziché rassegnarsi a questo centrosinistra, ma anche a questo centrodestra, bisogna andare oltre. È una ricerca aperta laicamente a tutti, che non ha primati, nel tentativo di delineare un futuro che, insieme alle critiche del presente e del passato, indichi le speranze che sono tutte reali, se lo vogliamo, già nell’oggi.
Una caratteristica dell’irrilevanza dei discorsi di oggi è che l’interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa: quando l’interlocutore non è considerato o non c’è, la parola è nel vento. In politica, tanto a destra quanto a sinistra, un caso molto frequente di scomparsa dell’interlocutore è il cosiddetto patto dei governi verso i governati: la concretezza dei soggetti viene meno, non si sa più chi di fatto si assume gli impegni e non si riconoscono le esistenze reali cui ci si rivolge.
Penso molto alle parole della politica, alla loro capacità o incapacità di comunicare, e penso al carattere plurale di queste parole, alla molteplicità di significati, e anche di contraddizioni, che esse possono raccogliere: solo leggendo la loro interna contraddizione, la loro polarità, riusciamo a capirle.
La parola «lavoro», ad esempio, mi ha accompagnato per una parte della mia vita: mi sono occupato del lavoro umano e della sua organizzazione. Quando facevo l’organizzatore sindacale mi era chiaro che lo sviluppo, la crescita dell’economia d’insieme era una necessità per andare avanti e, al tempo stesso, una radice di difficoltà e d’infelicità. Le due cose, camminare e soffrire, vanno avanti insieme. Ogni giorno si può ascoltare, su Rai Radio 1, la trasmissione Pianeta dimenticato che tratta proprio le umane sofferenze e l’umana volontà di crescere. Consiglio di ascoltarla. Ho un’amica, Mariella Gramaglia, che è andata in India per aiutare un sindacato di donne non ancora riconosciuto, lasciando per questo incarichi politici molto importanti in Italia.

Nella mia vita il lavoro non è stato solo erogazione di fatica, di energia e di tempo, ma anche il punto di sbocco di una linea politica, di una più generale volontà di cambiamento. Oggi quel tipo di sbocco sul terreno politico sembra scolorito e addirittura scomparso: i lavori sono infiniti, uno diverso dall’altro e non sembrano più costituire il terreno propizio per un confronto omogeneo. A volte un carattere apparentemente omogeneo sembra dato dal precariato, ma ci sono molti modi di essere precario. Accanto al precariato e alla visibile difficoltà di affrontarlo c’è poi l’immigrazione nella sua doppia forma: da un lato essa è una grandissima risorsa a partire dalla diversità delle sue lingue e, dall’altro, rappresenta una notevole complessità.
Vi sono ulteriori termini di possibile confronto da cui far emergere i nuovi interlocutori e le loro rivendicazioni: basti pensare all’eterno mutare dei profili professionali, che comporta il riconsiderare il rapporto possibile con le professioni storiche e con i sindacati; poi allo sterminato campo del lavoro femminile, tutto da esplorare, e ancora alle diverse forme del tempo del lavoro.
Tutta la storia del sindacato è fatta di conquiste e rinunce; e le conquiste sono più spesso di dignità che di libertà.
Io continuo a credere a uno sbocco politico: il lavoro è sempre più legato al sapere, alla formazione di una capacità di muoversi nel futuro, alla formazione di tutte le età e di tutti i tempi. Per capire il nostro tempo abbiamo bisogno di un punto di partenza, e se il punto di partenza non è il lavoro umano che cosa diavolo può essere?

Penso alla parola polare, per esempio a «radicale». Io sono radicale perché credo e spero che il mondo cambi e cancelli violenze e ingiustizie. Ma sono anche un radicale diverso perché vorrei partecipare all’eliminazione delle violenze e delle ingiustizie, non vorrei agire senza partecipazione: per questo penso di essere autonomo. Confesso di aver sempre creduto di essere autonomo, ma non sono sicuro di me stesso.

Un’altra parola di grande uso in politica è «cambiamento». È una parola che può assumere molti significati e, a seconda del significato che le attribuisco, che riesco a trovare, si aprono orizzonti diversi. Posso pensare a una piccola riforma, posso pensare a una grande rivoluzione: la scelta del significato diventa decisiva. Mi viene in mente L’antico regime e la Rivoluzione di Tocqueville, quindi l’agosto 1789 quando i francesi unificarono gli stati proclamando l’Assemblea nazionale. Essi sentivano di aver compiuto un passo decisivo per l’umanità ed era una sensazione meravigliosa: questa meraviglia era il significato della rivoluzione che poi abbiamo dimenticato.

Il degrado del linguaggio non è un problema di parole, ma deriva da un comportamento pratico, cioè dall’esempio. Mi colpisce il fatto che dell’esempio non si parla mai, anzi non esiste come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento: eppure sappiamo che tutto viene da lì.
L’esempio non nasce dalle prediche, ma dalla vita, quella che si svolge nelle scuole, negli ospedali, negli eserciti, ovunque si stia insieme.

Le scelte qualche volta sembrano difficili, ma non bisogna avere paura: si deve scegliere. Ogni scelta ha le sue ragioni e avere consapevolezza delle ragioni degli altri non diminuisce il valore della scelta.

Non sono mai stato in grado di aggrapparmi a un pensiero strutturato. Ho lasciato fare e ho vissuto questa mia mancanza con un certo senso di rimprovero, però non mi sento di trovare un punto di riferimento esplicito. Prendo dove posso, dove trovo: non sono un maestro e forse non ho avuto maestri.

Essendomi occupato di politica tutta la vita ho un senso limitato dello spettacolo. Ho coscienza del fatto che la politica è una cosa stretta e che ci sono mille altre cose. Lo spettacolo è qualcosa di molto importante da cui però sono rimasto fuori e sono consapevole del mio limite che è molto forte: sono contento quindi che qualcun altro, ad esempio Luca Ronconi che ha messo in scena Il silenzio dei comunisti, riesca a vincere questo limite, a vedere come spettacolo quello che io ho visto come agire tecnico di qualche uomo in mezzo ad altri uomini. Mi fa piacere insomma che qualcuno sappia andare oltre quello che io ho vissuto come agire empirico, come azione politica: è una questione che mi interessa molto.
Anche se personalmente sono limitato nella capacità di godere lo spettacolo, in qualche modo provo un grande interesse per il fatto che la politica, vissuta da me come una tecnica ristretta anche se legata al destino e al progresso dell’umanità, sia vissuta in un modo più ampio, come musica, spettacolo, come arte in genere, come riflessione che va oltre il presente: tutto ciò è più forte in me quanto più divento vecchio. Sento cioè il pericolo, e anche il rischio, di una vita per certi versi limitata. Se per ipotesi dovessi dire a un ragazzo di occuparsi di politica gli direi di occuparsi di altre cose, soprattutto di altre cose insieme alla politica. Questa è una delle ragioni per cui mi attira lo spettacolo e mi attira proprio come curiosità, dal momento che il mio è stato un rapporto limitato.

Dicono che il collettivismo è finito, che c’è un ritorno dell’individuo. Io ho sempre parlato di un individuo che non è solo: devo pensare l’individuo perché lo penso sociale, altrimenti non lo potrei pensare nemmeno come individuo, perché chiuso in se stesso egli è un’immagine vuota.

Le immagini del passato mostrano anche grandi cortei, dimostrazioni di forza del sindacato con centinaia di migliaia di persone. Io non credo più tanto in queste forme di lotta, ma non voglio condannarle con sufficienza: ho una certa età e rispetto il mio passato, anche quando dubito che possa essere riproposto oggi. Mi sento comunque di indicare un obiettivo per il futuro: lavorare per l’unità. Lavorare per l’unità sapendo di essere diversi senza pretendere di essere uguali e rispettando le differenze che stanno alla base del progresso umano.

Da giovane mi sono occupato del movimento di lotta popolare dei «fasci siciliani» del 1890: è stato importante studiarlo. Era il tentativo di un nuovo socialismo, un socialismo differenziato in cui protagonista non era più soltanto la classe, ma tutti, e ognuno trovava in se stesso una ragione conviviale della propria vita, qualunque cosa facesse. È stata un’esperienza breve, stroncata con la violenza perché era una grande esperienza di libertà…

La memoria è selettiva. Oggi è spesso sanzionatoria, al servizio della politica. Di fronte a un guasto morale, civile, sociale, la cosa più importante è il riconoscimento: il guasto va riconosciuto perché se non lo si riconosce colpisce due volte. È riconoscimento quello che chiedeva Gandhi e quello chiesto nei processi all’apartheid in Sudafrica, che ha permesso la riconciliazione di Nelson Mandela. Anche in Ruanda, mi ricorda mia figlia Bettina, sul genocidio dei tutsi da parte degli hutu il processo di riconoscimento va rafforzato, e nei casi in cui il contesto politico è sfavorevole alle vittime, si pensi alla Bosnia e in particolare a Srebrenica, il riconoscimento è ancora più difficile.
Anche nel nostro passato di italiani ci sono cose che non vanno: quando il governo italiano ha riconosciuto per la prima volta che, durante la guerra fascista del 1936, abbiamo lanciato gas sui contadini etiopi, la notizia ha creato sollievo nel mondo etiope. Ma perché sollievo? Perché riconoscere il male che si è fatto è davvero importante. E immaginiamo quante cose si devono ancora riconoscere…

La memoria aiuta a pensare e io credo che si debba pensare. Si deve pensare ai propri passi e chiedersi: perché li faccio? come mi muovo? come si muovono i miei simili, i miei amici e anche i miei avversari? La memoria stimola a pensare e aiuta a porre domande, e le domande sono la cosa più importante. La domanda sul futuro che mi faccio continuamente è provocata anche dalla memoria: quando avevo vent’anni se mi avessero chiesto come mi immaginavo gli esseri umani mille anni dopo, mi sarei divertito con la fantasia scientifica e con la fantasia storica a proiettare sul futuro i cambiamenti che mi stavano alle spalle, che stavano nei miei ricordi personali e nella memoria storica.
Per un giovane di oggi quella domanda è impossibile: chiedere oggi come sarà l’essere umano fra mille anni non ha più alcun senso.

l’Unità 15.1.08
E al vertice si spacca anche la Cosa rossa


Il vertice dei capigruppo dell’Unione non divide solo la maggioranza ma, al suo interno, anche la Cosa rossa: Verdi e Pdci da un lato con il loro no netto alla bozza Bianco e Prc e Sd dall’altro a trattare per migliorarla. «È disarmante il tentativo di migliorare la bozza Bianco fatto da Rifondazione e Sinistra democratica attraverso un atto di trasversalismo con l’Udc - denuncia Orazio Licandro (Comunisti italiani), lasciando la riunione - Sono accorgimenti insufficienti non fondati su garanzie politiche - prosegue - c’è qualcuno che ci vuole spingere verso il referendum attribuendone a noi la responsabilità». Anche per Natale Ripamonti (verdi) è «paradossale che il Prc abbia accettato l’impostazione della bozza Bianco. La paura del referendum spinge ad accogliere certe proposte che però alla fine sono peggio del referendum stesso». Loredana De Petris conclude: «Ci stupisce che Prc, che ha iniziato con noi un percorso politico, abbia privilegiato il rapporto con l’Udc piuttosto che con noi. Non si può pensare che ci sono le ancelle e che c’è il padrone...».

l’Unità 15.1.08
Barenboim, c’è un muro anche nella musica
I falchi israeliani contro Daniel Barenboim: toglietegli il passaporto
Il direttore d’orchestra ebreo è sotto accusa per aver accettato il documento palestinese come simbolo di fraternità
di Umberto De Giovannangeli


Un messaggio di speranza che viaggia sulle note musicali. Un messaggio tanto più pregnante perchè a veicolarlo è un grande direttore d’orchestra: Daniel Barenboim. In Israele la destra oltranzista si è scagliata contro di lui per aver accettato il passaporto palestinese. Si è gridato al «tradimento», la stessa accusa a suo tempo lanciata contro il premier israeliano Yitzhak Rabin, colpito a morte da un giovane zelota per aver «osato» di fare la pace con il «Nemico», Yasser Arafat. Ma prima di riflettere sul significato del «doppio passaporto», vale la pena soffermarsi sul contesto nel quale questa scelta è stata annunciata.
Perché è quel contesto a dare il senso della straordinaria esperienza di cui Daniel Barenboim si è reso protagonista. I Territori palestinesi conquistano l’interesse internazionale quando sono associati a raid, atti di terrorismo, rappresaglie, sofferenze, patimenti... Ramallah, capitale della Cisgiordania, è balzata ai tristi onori della cronaca nei mesi dell’assedio israeliano alla Muqata, il quartier generale dell’Anp dove era confinato Yasser Arafat. Le «note» di quei mesi erano quelle, lugubri, di mitragliatori, colpi di artiglieria, missili... È con queste «note» che i giovani di Ramallah sono cresciuti, che sono stati costretti a «imparare» fin da piccoli. Ben diverse, erano le note che hanno riempito, l’altra sera, il Palazzo della Cultura di Ramallah. Note che hanno beato un pubblico di oltre 1200 persone. Molti avevano le lacrime agli occhi nell’ascoltare le composizioni di Beethoven eseguite dall’orchestra diretta da Barenboim.
È questo il «miracolo» maturato a Ramallah: invece di ingrossare le fila delle milizie armate, centinaia di ragazzi e ragazze palestinesi erano lì ad ascoltare quel maestro israeliano. E la sua orchestra. Un’orchestra composta da giovani musicisti israeliani e arabi( in maggior parte palestinesi). In platea c’erano ragazzi in jeans e donne velate. Quelle note struggenti hanno superato i Muri, quelli fisici e quelli mentali che segnano la Terra Santa. Note che uniscono. Che fannno sognare. Note che liberano la mente dalle angosce del presente, un presente di sofferenza per tanti palestinesi e israeliani. Il doppio passaporto è la carta d’identità di questa speranza. Perché la musica raggiunge i cuori prima e meglio di tante esternazioni politiche. Perché la West-Eastern Divan Orchestra - realizzata nel 1999 su un progetto che Barenboim aveva messo a punto assieme ad Edward Said, il più grande intellettuale palestinese, ora scomparso - racchiude in sé, più e meglio di tanti accordi scritti e mai praticati, una idea alta, nobile, e concreta, di cooperazione tra i due popoli. Tra le loro gioventù.
Quel doppio passaporto non è una provocazione. È un investimento sul futuro. La forza di Barenboim è di non voler vestire i panni del politico. Ed è per questo che il suo messaggio è ancora più (positivamente) dirompente, ed è per questo che è entrato nel mirino dei seminatori di odio: «Non credo che la musica sia il veicolo di qualcosa. Io vengo qui (a Ramallah) come un essere umano, con lo spirito di chi vuol far conoscere e migliorare la vita delle persone», ha spiegato dopo aver concluso il suo concerto. E la musica aiuta, e molto, a migliorare la vita dei giovani di Ramallah. E, se fosse per il maestro, le note di Beethoven riempirebbero anche Gaza. Se fosse per lui, porterebbe anche la Scala di Milano a Ramallah.
Non dà lezioni di diplomazia, Daniel Barenboim. Ma ricorda che «la musica ti dà soprattutto la possibilità di capire il mondo. Suonare in orchestra, ad esempio, è una grande lezione di democrazia. Forma l’abitudine ad ascoltare gli altri. Così i modi di fare musica possono, devono essere modelli per l’esperienza umana. E la missione della musica in questo millennio è quella di lottare contro chi la vuole staccata dalla vita...». Una lotta che Barenboim conduce con coerenza. Attraverso le note e l’esperienza di un’orchestra che parla ai politici dei due campi. E racconta di una pace possibile. «Proponiamo un modello - riflette Barenboim -. Dei ragazzi con in comune la musica possono esprimere se stessi e ascotare al contempo le ragioni dell’altro. Perché non esiste una soluzione militare, e i destini del popolo palestinese e israeliano sono inestricabilmente uniti». Uniti come la West-Eastern Divan Orchestra. Uniti come il doppio passaporto - israeliano e palestinese - di Daniel Barenboim.

Non «sparate» sul pianista... In questo caso, sul direttore d’orchestra. Il vecchio adagio non sembra però valere per Daniel Barenboim. A «sparare», politicamente parlando s’intende, sul celebre direttore d’orchestra è la destra israeliana, infuriata per la decisione di Barenboim di accettare il passaporto palestinese nell’intento di dare il proprio contributo al processo di pace. Il primo a insorgere è Yaakov Margi, uno dei leader del partito ortodosso sefardita Shas. Margi ha chiesto che al direttore d’orchestra sia revocata la cittadinanza israeliana. E spiega così la sua richiesta: «In quanto cittadino di una entità nemica, il ministro degli Interni dovrebbe revocargliela. Ma anche se ciò non avvenisse - aggiunge il dirigente di Sgas - Barenboim ha definitivamente perso agli occhi degli israeliani la propria statura morale». Ai suoi contestatori, Barenboim risponde, sia pur indirettamente, tornando sulle ragioni del proprio impegno a favore del dialogo: «Quello che vorrei soprattutto - dice - è che venga superato il pregiudizio che chi fa qualcosa per i palestinesi sia per ciò stesso un nemico di Israele».
Ma per gli zeloti oltranzisti, la sentenza è già stata emessa. Ed è una condanna senza appello. Che naviga su internet, nei siti legati alla destra oltranzista israeliana: Barenboim è un «traditore», ed è l’epiteto più gentile. Sul piano strettamente legale, è un portavoce del ministero degli Interni a precisare che «la questione (del ritiro del passaporto israeliano a Barenboim, ndr.) non si pone», innanzitutto per motivi tecnici. Israele vieta infatti ai propri cittadini di assumere la cittadinanza di «Stati nemici» e l’Autorità nazionale palestinese non è per il momento qualificata come uno Stato. Ma la precisazione non mette fine alle polemiche. Anche la stampa di destra non lesina critiche nei confronti del grande musicista. Il quotidiano «Makor Rishon» si è chiesto ieri «quale sarà la prossima provocazione di Barenboim: andrà forse a singhiozzare sulla tomba di Yasser Arafat?». Non basta. Il giornale accusa pure Barenboim di aver mostrato insensibilità quando si rifiutò di rilasciare una intervista ad una soldatessa della radio militare che si era presentata in divisa al suo cospetto e quando eseguì di fronte a sopravvissuti dell’Olocausto brani di Richard Wagner, un compositore che in Israele è associato all’ideologia nazista. «Baremboim - conclude il giornale - ha dimostrato che scandali mediatici avvengono non solo negli ambienti del rock-and-roll. Ma possiamo consolarci: forse almeno in questo modo attirerà la curiosità dei nostri giovani per la musica classica». Nel fuoco delle polemiche e delle accuse più sferzanti, i censori di Barenboim cancellano il significato, che va ben oltre il campo artistico, insito nell’esperienza della West-Eastern Divan Orchestra, fondata da Barenboim nel 1999 su una idea condivisa con il più grande intellettuale palestinese, ora scomparso, Edward Said; orchestra composta da 80 giovani musicisti israeliani e arabi, in particolare palestinesi. «Questa iniziativa - dice a l’Unità Mustafa Barghuti, ex ministro dell’Informazione palestinese - ha promosso il dialogo molto più di tante esternazioni politiche». u.d.g.

l’Unità 15.1.08
Il Pd, i valori, i nani e i giganti
diu Silvana Sanlorenzo


«Noi siamo come il nano sulle spalle del gigante. Egli vede più in là del gigante non grazie alla propria statura ma a quella del suo sostegno»: Bernardo di Chartres, XII secolo
Ostellino scrive sul Corriere che la bozza di Reichlin del «Manifesto per il Pd» suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un'ammirazione per il Manifesto di Karl Marx che era nel 1848 la punta avanzata della cultura della sua epoca, tanto quanto il documento proposto oggi è invece la retroguardia della cultura di oggi. Io sono d'accordo con Ostellino.
Il mio personale disorientamento non deriva dal fatto che sono consapevole di essere un nano. E neppure dal fatto che so di stare sulle spalle di giganti. Nasce dalla constatazione che i nani di oggi non hanno il coraggio di interpretare il loro tempo, confondono poi la loro statura con quella dei giganti e scambiano le ombre con le figure reali.
Nella Commissione nazionale del Manifesto siamo in 100. Stiamo discutendo, tra bozze, integrazioni, opinioni plurali e diverse. Abbiamo prodotto sin qui almeno una trentina di testi. Il lavoro è lungi dall'essere concluso. Poiché il dibattito è uscito dalle stanze della Commissione - come forse era giusto che accadesse dopo una prima fase dei lavori - penso sia utile rendere pubblici alcuni spunti di riflessione. In queste settimane di lavoro della Commissione ho fatto una ricerca sui documenti fondativi o programmatici dei maggiori partiti politici democratici o conservatori del mondo. Quelli del campo democratico hanno scelto procedure di elaborazione con modalità assai varie e di lunga durata. I democratici americani, il Labour e il partito di Zapatero si affidano a piattaforme politiche programmatiche che inverano i valori in obiettivi concreti; l'Spd parte da un testo, lo ridiscute e modifica con ampie consultazioni tra i diversi attori sociali (un processo che ha occupato, ad esempio, i partecipanti dall'aprile 2006 all'ottobre 2007) e poi ne fa una stesura che propone al congresso. Intendo dire che produrre una carta di intenti, un manifesto programmatico non può che essere un processo continuo e aperto. E un partito moderno che non è guida, che non è chiesa, che non è stato, deve saper costruire nel tempo una vision, un'indicazione di progetto per il paese in cui si opera a partire dall'individuazione delle priorità di cambiamento utili alla società in cui vive.
Un partito moderno non si affida all'ideologia, ma alla composizione possibile tra le diverse, plurali e molteplici risorse intellettuali e spirituali del suo tempo. Non solo quelle delle classi ma anche quelle degli individui. Il nostro essere per la Tav e per la tutela dell' ambiente; per la laicità - quindi mai per il laicismo o per l'integralismo; per la moratoria della pena di morte e per pene severe e scontate ecc. ecc. sono tutti tratti distintivi di una forza politica e culturale che ha appreso la lezione del '900, non la dimentica e guarda avanti. Tutti temi difficili da tradurre in un manifesto che, necessariamente, sarà una traccia di discussione aperta. Ma una difficoltà di traduzione non si risolve «saltando» le parti più difficili.
Quanto ho detto sinora lo abbiamo già letto nei testi e nella discussione dei partiti che ci hanno portato alla creazione del Pd. Eppure oggi ci dobbiamo ritornare sopra. Forse è perché le trasformazioni culturali profonde, come quelle che stiamo vivendo alla nascita di un secolo e di un millennio richiedono molto tempo per essere assimilate. Là fuori però, nella società, il tempo scorre veloce e ci si è già da tempo accorti che il mondo è cambiato. Vediamo di non continuare a corrergli dietro. Almeno cerchiamo di stare al passo.
*Commissione nazionale per il manifesto del Pd

Repubblica 15.1.08
Se vince la paura tra America e Cina
di Joseph S.Nye


La principale minaccia alle relazioni bilaterali è la convinzione che il conflitto sia inevitabile. Nella storia quando una potenza in ascesa suscita timori, questi diventano causa di conflitto

I sondaggi di opinione indicano che un terzo degli americani è convinto che la Cina «presto arriverà a dominare il mondo», e circa la metà dei cittadini statunitensi considera l´avanzata del Celeste Impero una «minaccia per la pace mondiale». Specularmente, molti cinesi temono che gli Stati Uniti non accetteranno la loro «pacifica ascesa». Americani e cinesi hanno il dovere di non lasciarsi guidare da questi timori esagerati. Mantenere buoni rapporti tra Washington e Pechino sarà un elemento chiave per la stabilità mondiale in questo secolo.

La principale minaccia alle relazioni bilaterali forse è proprio la convinzione che il conflitto sia inevitabile. Nella storia, ogni volta che una potenza in ascesa ha suscitato timori tra i Paesi vicini e le altre grandi potenze, questi timori sono diventati causa di conflitto. In simili circostanze, eventi apparentemente insignificanti possono innescare una reazione a catena dagli esiti imprevedibili e catastrofici.
Oggi, il rischio maggiore di incidenti destabilizzanti viene dai complessi rapporti tra le due rive dello Stretto di Formosa. La Cina, che considera Taiwan una parte integrante del suo territorio, riparata fin dai tempi della guerra civile cinese dietro al muro protettivo della marina americana, giura che risponderà con la forza a qualsiasi dichiarazione di indipendenza da parte di Taiwan.
Gli Stati Uniti non sfidano la sovranità cinese, ma vogliono un accordo pacifico che preservi le istituzioni democratiche dell´isola. A Taiwan, il sentimento di identità nazionale si fa sempre più forte, ma c´è una netta divisione tra i pragmatisti della "coalizione azzurra", consapevoli che la geografia impone di trovare un compromesso con la Cina continentale, e la "coalizione verde", attualmente al governo, le cui forze aspirano, quale più quale meno, all´indipendenza.

Le due facce di Taiwan si fronteggeranno nelle elezioni presidenziali del 22 marzo. Gli ultimi sondaggi indicano un vantaggio dell´ex sindaco di Taipei, Ma Ying-jeou, del Kuomintang, su Frank Hsieh, il leader del Partito progressista democratico (Ppd), attualmente al potere. Alcuni osservatori, però, temono che il presidente uscente, Chen Shui-bian, anche lui del Ppd, cerchi un pretesto per impedire la sconfitta della coalizione indipendentista. In questo momento, Chen Shui-bian sta perorando un referendum sull´ingresso di Taiwan nelle nazioni Unite, una mossa che la Cina considera alla stregua di una provocazione. Chen replica che è la Cina «quella che agisce in modo provocatorio, attualmente».
L´America è palesemente preoccupata. Recentemente, il segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha detto in una conferenza stampa di «considerare il referendum di Taiwan per chiedere l´ingresso nelle Nazioni Unite con la denominazione di "Taiwan" un´iniziativa provocatoria, che fa salire inutilmente il livello della tensione nello Stretto di Formosa, senza apportare, in prospettiva, alcun beneficio reale al popolo taiwanese sulla scena internazionale». La Rice ha anche ribadito la politica dell´amministrazione Bush, contro le «minacce unilaterali, da ciascuna delle due parti, mirate ad alterare lo status quo».
Il giorno stesso, il segretario della Difesa, Robert Gates, ha criticato Pechino per l´inatteso provvedimento di limitazione degli ingressi di navi americane nei suoi porti, a causa della vendita di armi a Taiwan da parte degli Stati Uniti. Gates sostiene di aver comunicato alle autorità cinesi che le vendite di armi a Taiwan da parte dell´America erano in linea con la politica seguita in passato, e che fintanto che Pechino «continuerà a potenziare le sue forze dal lato cinese dello Stretto, noi continueremo a fornire a Taiwan le risorse necessarie per difendersi». L´esponente del governo Usa ha però aggiunto, a dispetto dell´aumento dei fondi per la difesa deciso dal governo cinese, che «io non considero la Cina un nemico, e penso che ci siano opportunità per una cooperazione continuativa in diversi settori».
Il problema di Taiwan, in linea di principio, non è necessariamente foriero di conflitti. Con l´avanzare del cambiamento in Cina e i crescenti contatti sociali ed economici tra le due rive dello Stretto, dovrebbe essere possibile trovare una formula che consenta ai taiwanesi di conservare la loro economia di mercato e il loro sistema democratico, senza necessità di mettere una propria targa all´Onu.
Fino a questo momento, Washington ha cercato di favorire questa evoluzione mettendo l´accento su due punti molto chiari: nessuna indipendenza per Taiwan e nessun uso della forza da parte della Cina. Alla luce del pericolo di incidenti, che potrebbero nascere dalla competizione politica a Taiwan o dalla crescente impazienza dell´Esercito popolare di liberazione in Cina, gli Stati Uniti farebbero bene a incoraggiare contatti e trattative più energici dalle due parti.

È nell´interesse nazionale dell´America mantenere buoni rapporti con la Cina, ed è anche nell´interesse nazionale dell´America, in termini di diritti umani, proteggere la democrazia taiwanese. Non è invece nell´interesse nazionale dell´America aiutare Taiwan a diventare uno Stato sovrano con un suo seggio alle Nazioni Unite, e gli sforzi in tal senso portati avanti da alcuni, sull´isola, rappresentato il più grande pericolo di una mossa sbagliata che potrebbe creare inimicizia tra Washington e Pechino. In Cina, qualcuno già sospetta gli americani di voler arrivare all´indipendenza di Taiwan per avere una "portaerei inaffondabile" da usare contro un futuro nemico cinese. Sono sospetti infondati, ma che possono alimentare un clima di ostilità.
Se l´America oggi tratterà la Cina come un nemico si garantirà la sua inimicizia nel futuro. Non possiamo avere la sicurezza di come si evolverà la Cina, ma non ha senso precludere le possibilità di un futuro migliore. La politica attualmente seguita dagli Stati Uniti combina integrazione economica e misure cautelative contro incertezze future. L´alleanza di difesa tra l´America e il Giappone impedisce alla Cina di giocarsi una "carta giapponese". Ma se queste misure cautelative sono naturali nella politica mondiale, è importante che entrambe le parti diano prova di moderazione. Se il clima generale è un clima di sfiducia, quelle che a una delle parti appaiono come misure cautelative all´altra parte appariranno come una minaccia.
Una guerra tra Stati Uniti e Cina in questo secolo è tutt´altro che inevitabile. Dall´una e dall´altra parte si deve fare in modo di non consentire che un incidente a Taiwan porti a un esito di questo tipo. Le paure esagerate possono generare una profezia che si autorealizza, ma americani e cinesi non devono permetterlo.

Copyright: Project Syndicate, 2008 www.project-syndicate.org (Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 15.1.08
Herzog: la natura ci distruggerà
intervista di Grazia Paganelli


«La nostra civiltà tecnologica, con il suo enorme spreco, non è più sostenibile». Così spiega il regista Werner Herzog, che oggi sarà a Torino per una retrospettiva organizzata in suo onore dal Museo del cinema. La sua visione del mondo è apocalittica: «Alla fine - dice - la natura ci regolerà e noi scompariremo abbastanza in fretta, più rapidamente di quanto non si siano estinti i dinosauri. Cosa resterà di noi? Ho parlato con molti scienziati e mi hanno detto che granchi, ricci e spugne sono quelli che hanno maggiori probabilità di sopravvivere».

"La natura si vendicherà alla fine scompariremo più in fretta dei dinosauri"

TORINO - Il suo ultimo documentario, Encounters at the End of the World - domani al Cinema Massimo - ma anche l´intera sua filmografia, 52 titoli fra corti, medio e lungometraggi, a partire dalle primissime prove, negli anni Sessanta. E poi le foto di scena, i video, i disegni, la musica. È una retrospettiva completa quella che Torino dedica a Werner Herzog, organizzata dal Museo Nazionale del Cinema con la Fondazione Sandretto, il Teatro Regio e la Scuola Holden, che ospita due giorni di lezioni con il regista. Il catalogo-monografia a cura di Grazia Paganelli, con l´introduzione di Alberto Barbera, è pubblicato da Il Castoro.

Il museo del cinema di Torino dedica una retrospettiva al regista. E un catalogo del Castoro
Mi piacciono i giocatori che sanno valutare lo spazio. Ecco perché Baresi è stato il mio eroe per tanto tempo

Ci sono molti sogni nei suoi film, c´è sempre un sogno o una visione particolare che si manifesta. Può apparire semplicistico, ma vorrei iniziare chiedendole il motivo della presenza di tutti questi sogni.
«Per me è molto difficile rispondere, come ho già detto altre volte io di notte non sogno. Quindi, forse, la ragione è il vuoto che sento per questa mia incapacità di sognare, ma è anche vero che il cinema ha a che fare con i nostri sogni, intendo i nostri sogni collettivi. La storia del cinema ne è piena».
In "Encounters at the End of the World" lei parla anche di sognatori.
«Sì, i professional dreamers. L´idea di sognarsi dentro l´esistenza rimanda a un concetto aborigeno secondo cui la realtà prende a esistere attraverso i sogni, ma è un pensiero molto complesso che probabilmente rimarrà illusorio, perché non viviamo più nella cultura dell´età della pietra e quest´idea è legata alla percezione di quell´epoca. Dove sognano le formiche verdi è un film in cui le realtà entrano tragicamente in collisione con uno di questi sogni».
C´è un sogno identico in "Echi da un regno oscuro" e "Invincibile", quello dei granchi rossi.
«È vero, a volte le immagini mi seguono di film in film. Eravamo sulla Christmas Island, a nord-ovest dell´Australia, avevo visto quell´immagine una volta e aveva una qualità così misteriosa, una forza così grande che decisi di servirmene sia all´inizio di Echi da un regno oscuro sia alla fine di Invincibile… Milioni e milioni di granchi rossi che uscivano dalla foresta, era impossibile camminare senza calpestarli».
Il loro colore, in "Invincibile", è importante, perché il film non è saturo di colori, a parte questo sogno. Mi chiedevo quale fosse il suo significato.
«Non riesco ad attribuirgli un grande significato, perché i granchi erano proprio così rossi, li ho filmati com´erano, se fossero stati verdi o blu li avrei inseriti ugualmente. Ma ovviamente questo rosso-arancio sconvolgente ha qualcosa di allarmante rispetto alla loro presenza. E poi siamo coscienti che creature come queste ci sopravviveranno. Dopo essere stato in Antartide e aver visto il mondo da un punto di vista completamente diverso, ho capito che la nostra civiltà tecnologica, con il suo enorme spreco di risorse, non è sostenibile. Ma non è solo questo, è ovvio che la tecnologia sarà la prima a sparire. Alla fine la natura ci regolerà e noi scompariremo abbastanza in fretta, più rapidamente di quanto non si siano estinti i dinosauri. Per loro ci vollero milioni di anni, anche se milioni di anni in termini geologici non sono nulla. La presenza umana sparirà più in fretta. Che resterà di noi? Ho parlato con molti scienziati e mi hanno detto che i granchi, i ricci di mare e le spugne sono quelli che avranno maggiori probabilità di sopravvivere. Tra le creature terrestri, i rettili. Cosa rimarrà, invece, di noi? Credo che tra le follie più pericolose realizzate dall´uomo su questo pianeta resteranno soprattutto le dighe, come quella del Vajont, che ha 60 metri di fondamenta di cemento e acciaio, ed è alta 150 metri. Nonostante tutto è ancora in piedi, e tra duecento o trecentomila anni sarà ancora lì. Torino non ci sarà più, e nemmeno Los Angeles, ma il Vajont durerà più a lungo delle piramidi. La più grande delle follie umane sopravviverà a tutto il resto».
Il paesaggio acquista, nei suoi film, un significato molto importante. Non è solo un´ambientazione, ma è come se dal paesaggio si potesse già capire il tono del film.
«L´idea di alcuni miei film nasce proprio da un paesaggio, come i mulini a vento di Segni di vita: era chiaro che sarebbero stati il centro di tutta la storia. Nei miei film spesso l´origine profonda è il paesaggio. Mi piacciono le persone che sanno interpretare la natura, come il nonno archeologo, che ci trovava sempre qualcosa. Quando viaggio a piedi sono molto bravo a decifrare i paesaggi, devo stare a una certa altitudine, su una montagna per esempio, e da lì riesco a comprendere come è fatta, capisco se, scendendo, la discesa sarà impossibile, e poi so trovare la strada giusta. Anche nello sport mi piacciono i giocatori che sanno leggere la partita, che, pur stando nel mezzo del gioco, sanno che cosa aspettarsi. Nel calcio accade spesso con i difensori, il migliore di tutti era Baresi. Non lo si vedeva mai molto durante la partita, ma lui stava sempre giocando. Quando aveva contro quattro avversari in un attacco a sorpresa, e lui era solo, riusciva a togliere loro la palla perché era in grado di prevedere quel che avrebbero fatto. Mi piacciono molto i giocatori che sanno valutare bene lo spazio. Ecco perché Baresi è stato il mio eroe per tanto tempo. C´erano giocatori più veloci o più tecnicamente preparati di lui, e nonostante ciò lui era sempre indispensabile, non si poteva lasciarlo in panchina. Quando l´Italia perse i Mondiali contro il Brasile ai rigori, Baresi sbagliò dal dischetto e Baggio tirò troppo alto. Tutti parlarono dell´errore di Baggio, ma anche Baresi sbagliò. Per tornare al nostro discorso, posso dire che non mi perdo mai e quando mi perdo sono momenti davvero destabilizzanti per me».
In "Aguirre, furore di Dio" il paesaggio viene mostrato in modo diverso rispetto ad altri film, è un vero personaggio e Aguirre, alla fine, si perde a causa del paesaggio stesso.
«Sì, alla fine non c´è più senso dell´orientamento, tutto gira, e non solo perché la macchina da presa si muove circolarmente. L´impressione che abbiamo come spettatori è che non ci sia più una direzione, ho organizzato con grande attenzione tutto il percorso che doveva compiere la piccola spedizione spagnola, quella capitanata da Aguirre. Quando partono hanno la precisa sensazione di procedere verso l´Eldorado, ma, impercettibilmente, perdono il senso dell´orientamento».
Alcuni volti di "Cuore di vetro" sembrano paesaggi.
«Sarei prudente, penserei piuttosto allo strano fenomeno che si ha quando si guardano delle foto degli anni Cinquanta, ad esempio. Ci si rende subito conto che sono facce degli anni Cinquanta. In realtà non riesco a pensare ai volti come a dei paesaggi, forse sono particolarmente allergico all´idea perché Kinski mi urlava sempre dietro quando filmavo dei paesaggi. Mi diceva che il volto umano è in assoluto il paesaggio più affascinante».
In "Dark Glow of the Mountains" parla con Messner di viaggi e lui dice qualcosa di molto particolare sul suo sogno di viaggiare solo per viaggiare, senza una meta. È come lei.
«Idealmente mi piacerebbe finire la mia vita così, ma sarebbe bello avere con me un cane, un husky, comunque un cane grande e forte. È strano perché alcuni indiani d´America, quando erano nomadi, si spostavano con le tende e i cavalli, ma avevano anche cani che venivano sellati per trasportare parte delle loro cose. Quando ci si muove in spazi così grandi bisogna portare con sé delle provviste, dell´acqua, ed è bene avere dei cani. A me non piace viaggiare con bagagli, porto con me solo lo stretto necessario».
(da "Segni di vita-Werner Herzog e il cinema". ed il Castoro)

Repubblica 15.1.08
Il Corano e i suoi falsi interpreti
A che punto è lo scontro con l´occidente
di Tariq Ramadan


Tra i musulmani c´è chi si lascia condizionareda una lettura dogmatica del testo
Come orientarsi nella lettura di un libro che ha generato la fede e il fanatismo

Per i musulmani, il Corano è il Testo di riferimento, fonte ed essenza del messaggio trasmesso all´umanità dal Creatore. E´ l´ultima di una lunga serie di rivelazioni rivolte agli umani nel corso della storia. È la Parola di Dio – ma non è Dio. Il Corano fa conoscere, rivela e guida. È una luce che risponde alla ricerca di senso. Il Corano è rimembranza di tutti i messaggi precedenti, quelli di Noè e di Abramo, di Mosè e di Gesù. E al pari di essi istruisce le nostre coscienze, ricordandoci che la Vita ha un senso, e che i fatti sono segni.
Il Corano è il Libro di tutti i musulmani, in ogni parte del mondo; ma paradossalmente, per chi cerca di conoscere l´Islam non dovrebbe essere questo il primo libro da leggere (meglio iniziare dalla Vita del Profeta, o da un´altra delle opere di introduzione all´Islam), dato che è a un tempo estremamente semplice e profondamente complesso. La natura degli insegnamenti spirituali, umani, storici e sociali che se ne possono trarre può essere compresa a diversi livelli. Il Testo è uno, ma le sue letture sono molteplici.
Alla donna o all´uomo che nel suo cuore ha fatto proprio il messaggio dell´Islam, il Corano parla in maniera singolare. È a un tempo la Voce e il Sentiero. In tutto il mondo musulmano, nelle moschee, nelle case e per le strade, si possono ascoltare magnifiche voci che recitano le Parole divine. Qui non può esservi distinzione tra laici e studiosi della religione ("ulema"). Il Corano parla a ciascuno nella sua lingua, in maniera accessibile, come a incontrare la sua intelligenza, il suo cuore, le sue domande, la sua gioia o il suo dolore. È questo che gli ulema chiamano adorazione, nella lettura o nell´ascolto. Quando un musulmano legge o ascolta il Testo, si sforza di compenetrarsi della dimensione spirituale del suo messaggio. Oltre il tempo, oltre la storia e i milioni di esseri che popolano la Terra, Dio parla a ciascuno di essi, richiamando, invitando e guidando con consigli e comandi. Dio risponde parlando al cuore di ciascuna e ciascuno, senza intermediari, nella più profonda intimità.
Non c´è bisogno di studi o diplomi, di maestri o di guide. E´ qui, da quando muoviamo i nostri primi passi, che Dio ci chiama con la semplicità della sua vicinanza. Il Corano appartiene a tutti, senza distinzioni né gerarchie. Dio risponde a chiunque acceda alla sua Parola. Non di rado capita di osservare donne e uomini, poveri e ricchi, colti e analfabeti, orientali e occidentali, immergersi nel silenzio, guardare in lontananza, persi nei pensieri, o fare un passo indietro piangendo. La ricerca di senso ha incontrato il sacro, Dio è vicino: «In verità sono vicinissimo, a portata di mano. E rispondo all´appello di chi mi chiama».
Il Corano può essere letto in realtà a vari livelli, e in campi molto diversi. Ma innanzitutto il lettore dev´essere consapevole del processo attraverso il quale si è costruito il Testo. Il Corano fu rivelato nel corso di 23 anni, per sequenze di lunghezza variabile – a volte interi capitoli ("surat"). Nella sua forma finale, esso non segue un ordine cronologico, e neppure tematico nel senso stretto del termine. Due sono le cose che colpiscono il lettore di primo acchito: la ripetizione delle storie profetiche e le formule o informazioni su situazioni storiche specifiche, non elucidate nel Corano. A questo primo livello, la comprensione richiede un duplice sforzo da parte del lettore. Se sul piano spirituale la reiterazione serve a rammentare e a ravvivare, su quello intellettuale porta a tentare di ricostruire le storie. Quelle di Eva e Adamo, o di Mosè, sono ripetute più e più volte, con elementi e particolari diversi, ancorché non contraddittori: ed è l´intelligenza umana a dover ricomporre la struttura narrativa, mettendo insieme tutti gli elementi per consentire la comprensione dei fatti.
Il secondo livello non è meno impegnativo. Il testo coranico è innanzitutto e soprattutto la promulgazione di un messaggio il cui contenuto ha una dimensione preminentemente morale. In ogni pagina vediamo prendere forma l´etica, i fondamenti, i valori e la gerarchia dell´Islam. In questa luce, una lettura lineare potrebbe facilmente disorientare, facendo sorgere nel lettore un´impressione di incoerenza, e persino di contraddittorietà. Per chi si sforza di individuare il messaggio morale dell´Islam, sarebbe più appropriato accostarsi al testo da un´altra angolazione. Mentre le storie dei Profeti si possono trarre dalle narrazioni reiterate, lo studio delle categorie etiche richiede innanzitutto un approccio più ampio e generale, per poi desumere dal messaggio i principi e i valori che vanno a costituire l´ordine morale. I metodi da applicare a questo secondo livello sono esattamente opposti a quelli del primo, ma li completano, consentendo allo studioso di procedere dalla narrazione del racconto profetico alla codificazione dei suoi insegnamenti spirituali ed etici.
Resta da affrontare un terzo livello, che esige una completa immersione spirituale e intellettuale nel Testo e nel messaggio rivelato. Il compito dello studioso è di desumerne le prescrizioni su tutto ciò che riguarda la fede islamica, i suoi precetti fondamentali, così come le pratiche religiose. In senso più ampio, si tratta di determinare le leggi e le regole che daranno a tutti i musulmani la possibilità di disporre di un quadro di riferimento per quanto attiene agli obblighi, ai divieti e agli aspetti essenziali e secondari della pratica religiosa, così come per ciò che riguarda la sfera sociale. La sola lettura del Corano non è sufficiente. Allo studio della scienza coranica va aggiunto quello di segmenti della tradizione profetica.
Come possiamo vedere, questo terzo livello richiede una competenza e conoscenza particolari, che si possono acquisire soltanto mediante uno studio esteso ed esauriente dei testi e del loro ambito contestuale, nonché ovviamente attraverso una conoscenza approfondita della tradizione classica e secolare delle scienze islamiche. Non solo è pericoloso, ma è un errore fondamentale formarsi un giudizio generico su quanto i musulmani debbano o non debbano fare in base a una semplice lettura del Corano. Tra i musulmani c´è chi si lascia irretire da interpretazioni del tutto false e inaccettabili dei versetti coranici, basate su una concezione letterale o dogmatica, non possedendo i mezzi, e a volte neppure l´intelligenza per intenderli nella prospettiva superiore e complessiva del messaggio. E alcuni orientalisti, sociologi o commentatori non musulmani ne seguono l´esempio, estraendo dal Corano questo o quel passaggio per analizzarlo senza tenere in alcun conto gli strumenti metodologici applicati dagli ulema.
Al disopra e al di là di questi differenti livelli di lettura, dobbiamo tenere in considerazione le diverse interpretazioni proposte dalla grande tradizione classica islamica. E´ superfluo dire che per tutti i musulmani il Corano è la rivelazione divina finale. Ma risalendo all´esperienza diretta dei Compagni del Profeta, è sempre stato chiaro che l´interpretazione dei suoi versi è di natura plurale; e da sempre l´esistenza di diverse letture è accettata nel mondo musulmano.
Alcuni sostengono, a torto, l´impossibilità di qualsiasi interpretazione o riforma, dal momento che per i musulmani il Corano è Parola di Dio; e basandosi su questa tesi escludono qualsiasi esame storico o critico del testo rivelato. Ma la realtà dello sviluppo delle scienze del Corano – cioè degli strumenti metodologici approntati e maneggiati dagli ulema e la storia dei commenti coranici – dimostra l´infondatezza di un´affermazione del genere. Fin dall´inizio, la distinzione dei tre livelli sopra descritti ha portato ad accostarsi ai testi con molta cautela: chiunque ne affronti lo studio è anche tenuto ad essere in armonia col suo tempo, e a rinnovare la propria comprensione della materia. E´ chiaro che una lettura dogmatica, gretta o mummificata del Testo non ne riflette l´Autore, ma denota solo il grado di intelligenza e la psicologia del lettore. Così come le opere dell´ingegno umano – quali ad esempio quelle di Marx o di Keynes – possono essere lette con un´ottica rigida e ristretta, può esserlo anche la rivelazione divina. Dovremmo avere invece un atteggiamento critico e incisivo, mantenendo al tempo stesso la mente aperta. Di ciò possiamo trovare ampie prove nella storia della civiltà islamica.
Quando ci si accosta al Corano, non è né appropriato né utile voler tracciare una linea di demarcazione netta tra il cuore e la mente. Tutti i maestri di studi coranici, senza eccezione alcuna, hanno sottolineato l´importanza della dimensione spirituale, come necessario completamento dell´investigazione intellettuale sul significato del Corano. Il cuore possiede la sua propria intelligenza: «Non hanno cuori con cui comprendere?» ci ammonisce il Corano, come a sottolineare che la sola luce dell´intelletto non basta.
Il Corano è un libro per il cuore e per la mente. Avvicinandosi ad esso, una donna o un uomo che possiedano una scintilla di fede trovano il sentiero da seguire, e riconoscono le proprie inadeguatezze. Non c´è bisogno di uno sceicco, né di un saggio o di un consigliere: alla fin fine, il cuore sa. Ecco quale fu la risposta del Profeta a chi lo interrogava sul senso morale: «Alla luce del Libro – disse - chiedi al tuo cuore». E se la nostra intelligenza dovesse smarrirsi nella complessità dei diversi livelli di lettura, dall´etica applicata alle regole della pratica, non dovremmo mai dimenticare di rivestirci della modestia intellettuale che sola può rivelare i segreti del Testo. Perché «non gli occhi sono ciechi, bensì il cuore racchiuso nel petto». Un cuore umile e attento è il fedele amico del Corano.
Distribuito da The New York Times SyndicateTraduzione di Elisabetta Horvat

L´islamismo radicale, a cui è diventato usuale dare il nome di fondamentalismo islamico, non è un unico movimento omogeneo. Ci sono vari tipi di fondamentalismo islamico nei vari paesi, e a volte anche in uno stesso paese. Alcuni sono sponsorizzati dallo stato: diffusi, usati e favoriti da questo o quel governo musulmano per i suoi scopi; altri sono movimenti autenticamente popolari che vengono dal basso. I movimenti islamici sponsorizzati dallo stato possono essere a loro volta di vario genere: radicali o conservatori, sovversivi o legalitari. I movimenti conservatori e legalitari sono stati promossi da governi in carica, allo scopo di arginare l´ondata rivoluzionaria. A questo tipo appartengono i movimenti incoraggiati in tempi diversi dagli egiziani, dai pakistani, e specialmente dai sauditi. (Bernard Lewis)

Repubblica 15.1.08
Il nuovo radicalismo dei giovani musulmani
di Fouad Ajami


Huntington aveva visto questa tempesta che si andava addensando. È come se quella massa venuta dai popolosi Stati nordafricani fosse scaturita direttamente dalle sue pagine
Perché le tesi di Huntington sullo scontro delle civiltà oggi sono più convincenti di quando apparve il libro

Da uno studioso austero e serio come Samuel P. Huntington non era certo il caso di aspettarsi, dopo l´11 settembre, frasi del tipo: «Io l´avevo detto». Politologo dalla carriera leggendaria, sempre in controtendenza rispetto alle opinioni prevalenti, può essere considerato come l´osservatore più originale e influente di quest´ultimo mezzo secolo. Negli anni ‘90, in un articolo pubblicato da Foreign Affairs, e successivamente nel libro del 1996 Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Huntington ha formulato una tesi in netta controtendenza rispetto all´euforia di quegli anni per un "mondo senza confini". Dopo la guerra fredda, scriveva Huntington, dobbiamo aspettarci uno "scontro delle civiltà". Saranno il territorio, il sangue e le appartenenze culturali a imporre e a definire l´assetto di un mondo [che resterà] diviso in Stati. Nella sua cartografia, Huntington distingue con tratti incisivi «l´Occidente dal resto»; il primo in posizione isolata a fronte di otto poli di civiltà: latino americana, africana, islamica, cinese, indù, ortodossa, buddista e nipponica. In questo mondo post- guerra fredda, afferma poi, la civiltà islamica riemergerà come una nemesi a fronte dell´Occidente. L´autore si esprime in termini lapidari. «I rapporti tra l´islam e la cristianità, sia ortodossa che occidentale, sono stati spesso burrascosi. Per i cristiani, gli islamici erano "gli altri", e viceversa. Il conflitto del XX secolo tra liberal-democrazie e leninismo marxista non è altro che un fenomeno storico fugace, a confronto con la continuità del conflitto tra il mondo musulmano e quello cristiano».
I diciannove giovani arabi che colpirono l´America, l´11 settembre 2001, hanno conferito a Huntington un avallo storico più netto di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Una delle sue previsioni riguardava gli effetti destabilizzanti del "youth bulge", la forte prevalenza di giovani nelle società musulmane. E sono proprio i giovani musulmani a costituire oggi la punta d´ariete di un nuovo radicalismo: una marea montante che dopo aver travolto l´ordine dei rispettivi Paesi sta tracimando oltre i confini, verso le società non musulmane. L´islam si è fatto ardito e combattivo. Le ideologie occidentalizzanti, che un tempo dominavano la storia della Turchia, dell´Iran e del mondo arabo, hanno perso terreno, e nelle società ove un tempo le correnti nazionaliste cercavano di emulare i modelli occidentali, l´"indigenizzazione" è ormai all´ordine del giorno.
Anziché occidentalizzare la società, i Paesi islamici raccolgono oggi un massiccio consenso intorno all´islamizzazione della modernità. Secondo Huntington, una "civiltà universale" di fatto non è mai esistita; era solo la pretesa della "cultura di Davos": un pugno di tecnocrati, accademici e uomini d´affari che ogni anno s´incontrano in Svizzera, in una sorta di taverna da élite globale. Nell´impietosa ottica di Huntington, la cultura è puntellata e definita dal potere. Ai tempi della sua supremazia, l´Occidente godeva anche militarmente di una posizione dominante; e la prima generazione di nazionalisti del terzo mondo aveva cercato di plasmare a sua immagine le società dei rispettivi Paesi; ma sempre secondo Huntington, quella posizione di dominio si è ormai incrinata. I dati demografici la dicono lunga su questo: mentre nel 1900 oltre il 40 per cento della popolazione mondiale era sotto il controllo politico dell´Occidente, nel 1990 questa percentuale si era ridotta al 15 circa, ed entro il 2025 dovrebbe scendere al 10. Per converso, la quota di popolazione controllata dall´islam è passata dal quattro per cento del 1900 al 13 del 1990, e potrebbe raggiungere nel 2025 il 19.
La situazione è tutt´altro che promettente nelle zone di confine tra società tendenti al calo demografico - quali l´Europa occidentale e la Russia - e quelle in cui masse di giovani premono per conquistare il mondo. Huntington l´aveva vista, questa tempesta che si andava addensando. È come se i giovani venuti dai popolosi Stati nordafricani, che hanno rischiato tutto per attraversare lo Stretto di Gibilterra, fossero scaturiti direttamente dalle sue pagine.
Poco dopo la pubblicazione dell´articolo che anticipava il suo libro, la rivista Foreign Affairs invitò un gruppo di scrittori a rispondere alle tesi di Huntington, assegnandomi il ruolo di capofila dei critici. Pur esprimendo il mio apprezzamento nei confronti dell´autore, misi l´accento, nella mia risposta, sulla modernizzazione e sul sistema instaurato dall´Occidente. «Le realtà e i metodi che ha diffuso - scrissi - sono stati adottati dal resto del mondo. L´idea del laicismo, il sistema statuale, l´equilibrio dei poteri, la cultura pop che ignora le barriere doganali e scavalca i confini, lo Stato come strumento del welfare - tutto questo è stato interiorizzato fin nei luoghi più remoti. Li abbiamo scatenati noi, i venti della burrasca in cui ci stiamo lanciando». Mettevo inoltre in discussione l´idea di Huntington che le civiltà si potessero ritrovare «integre e intatte, impermeabili sotto un cielo eterno», osservando che ogni civiltà è percorsa da solchi, e sostenendo che il consenso modernista avrebbe retto in Paesi quali l´India, l´Egitto o la Turchia.
A quasi 15 anni di distanza, la tesi di Huntington sullo scontro delle civiltà mi appare assai più convincente delle mie critiche. In questi ultimi anni ad esempio, l´edificio del kemalismo è stato preso d´assalto, e recentemente la Turchia ha eletto alla presidenza un islamista. La "ridefinizione" profetizzata da Huntington si è avverata - anche se indubbiamente con un verdetto meno drastico di quanto avesse previsto. Gli islamisti hanno avuto la meglio, ma almeno a quanto ci viene detto, il loro obiettivo rimane Bruxelles: sperano, non senza astuzia, di trovare in Europa un rifugio contro il potere militare.
«Ti insegnerò le differenze», dice Kent al servo di Re Lear. Samuel P. Huntington ha avuto la preveggenza e l´onestà intellettuale di riconoscere la falsità di un mondo senza confini e senza differenze. È uno dei due grandi intellettuali (l´altro è Bernard Lewis) che hanno saputo scrutare nel cuore stesso della realtà, senza lasciarsi irretire dall´inganno del globalismo.
Mi rimane comunque un dubbio: mi chiedo se gli esponenti dell´islamismo radicale che bussano alle porte d´Europa, o l´aggrediscono dall´interno, siano gli alfieri di un´intera civiltà. Fuggono dal terreno infuocato dell´islam, ma portano il fuoco con sé: sono "nowhere men", sradicati, figli della frontiera tra islam e Occidente, che non appartengono né all´uno né all´altro. Se mai, sono testimoni dell´incapacità dell´islam moderno di provvedere a se stesso e di tener viva la fedeltà dei giovani.
Ma la nota forse più inquietante del libro di Huntington è un´ansiosa incertezza sulla volontà e la coerenza dell´Occidente: il timore che i suoi bastioni non siano sorvegliati e difesi con ogni cura. L´islam, afferma l´autore con preoccupazione, resterà l´islam; ma "dubita" che l´Occidente resti fedele a se stesso e alla sua missione. Chiaramente, il commercio non ci ha esonerati dalle passioni che hanno fatto la nostra storia; e il World Wide Web non ha cancellato i legami di sangue, il senso d´appartenenza e la fede. Non è colpa di Samuel Huntington se abbiamo prestato scarsa attenzione alla sua visone fosca, ma forse più autentica della realtà.

(traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 15.1.08
Il superamento delle origini
L'islam, l'occidente e la fede superstiziosa
di Ayaan Hirsi Ali


Sono stata allevata fin dalla nascita secondo una mentalità tribale, ma sono cambiata. Ho adottato i valori dell´Illuminismo accettando l´espulsione dal mio clan e dal mondo islamico
Il confronto tra modernità e tradizione ha finito con il trasformarsi in quello tra due etiche

Da quella traumatica mattina di settembre di sei anni fa, diversi autori hanno pubblicato libri sull´Islam radicale e la sua minaccia contro l´Occidente. Lee Harris entra a far parte di questa schiera col suo The Suicide of Reason (Il suicidio della ragione, Basic Books, pagg. 290, $ 26), ma si distingue spingendo la sua argomentazione fino a contemplare la peggiore di tutte le ipotesi: la distruzione del mondo occidentale ad opera del radicalismo islamico. Le sue pagine comunicano un senso di urgenza, un desiderio di scuotere dal loro sonno i leader occidentali, costringendoli a prendere atto di quanto finora non hanno saputo comprendere: sono oramai in guerra contro un avversario che si batte secondo le leggi della giungla.
Lee Harris, che è anche autore di La civiltà e i suoi nemici (in Italia è in pubblicazione da Rubbettino, ndr), dedica gran parte del suo libro a identificare due tipi di fanatismo: il primo è quello islamico. Harris vede nel fanatismo un «meccanismo di difesa», che ha protetto l´Islam dalla pressione di un mondo in trasformazione, consentendogli di espandersi verso nuovi territori e culture. A suo giudizio, l´espansione islamica rappresenta un fenomeno permanente. Per quanto le sue affermazioni siano indubbiamente discutibili, l´autore si impegna valorosamente a dimostrare come l´ingresso dell´Islam in un´altra cultura produca cambiamenti a tutti i livelli, dal politico al personale. Denunciando la natura imperialista dell´Islam, Harris ne pone in rilievo le differenze rispetto agli imperi dell´antica Roma, della Gran Bretagna o della Francia. Ai suoi occhi, l´impero islamico persegue l´obiettivo unico di un´espansione tutta concentrata sulla religione, verso un mondo governato da Allah. In questo senso, l´idea della jihad non sarebbe quella di una lotta interna per la pace e la giustizia, ma piuttosto di una grandiosa missione di conversione. L´argomentazione di Harris è incompleta, anche perché non tiene in alcun conto la diffusione della Cristianesimo nell´Impero romano, così come in quello britannico o francese. La potenza dell´espansione islamica è forse maggiore di quella degli imperi cristiani perché, a differenza della cristianità, l´Islam non ha mai accettato l´idea della separazione tra sacro e profano. Ciò spiega in parte la disponibilità dei musulmani al martirio in nome della più ampia comunità, la umma, che unisce anche i popoli separati in senso geografico, oltre che da culture, lingue e retaggi diversi. Secondo lui, questo senso di solidarietà può essere sostenuto solo con l´arma del fanatismo, che impone a ogni membro della umma di convertire gli infedeli, e di minacciare di morte chiunque tenti di dissociarsi. In altri termini, la cultura musulmana persegue al tempo stesso la conservazione e la conversione ed è questo duplice obiettivo a consentirle di diffondersi sull´intero pianeta.
Il secondo fanatismo, che starebbe contaminando le società occidentali, è quello che Lee Harris identifica come un «fanatismo della ragione». A suo parere, la ragione ha in sé un potenziale che potrebbe essere fatale, poiché induce nei leader dell´Occidente una sorta di cecità a fronte della vera natura delle culture influenzate dall´Islam. Gli occidentali tendono a vederle come pure e semplici variabili del mondo che conoscono, con valori dominanti simili a quelli accettati dalla propria cultura. Si tratta, secondo Harris, di un errore fatale, che impedisce all´Occidente di valutare correttamente la loro storia e la vera natura dell´opposizione che si trova a fronteggiare. Il fanatismo islamico non sarebbe dunque una devianza limitata a un ristretto numero di musulmani. Per Harris, esso rappresenta invece il principio fondamentale dell´Islam. «Fin dai primi anni di vita - scrive - i musulmani vengono indottrinati attraverso un codice intimidatorio che impone un atteggiamento di rigetto fanatico di tutto ciò che potrebbe mettere a repentaglio la supremazia dell´Islam». Un buon musulmano dev´essere disposto a rinunciare a tutto - proprietà, famiglia, figli - fino a sacrificare la vita stessa in nome dell´Islam. Ai maschi, in particolare, si insegna ad essere spietati e dominanti, per dar vita a una società di "guerrieri consacrati". Tutto ciò è in netto contrasto con l´Occidente, con la sua etica dell´individualismo, della ragione e della tolleranza, col suo sistema elaborato, in cui ogni attore, dall´individuo allo stato nazione, si adopera per risolvere i conflitti attraverso l´uso della parola. L´Occidente ha tentato in vari modi di convertire e assimilare i musulmani, seducendoli alla modernità. Tuttavia, secondo Harris, nessuno di questi tentativi ha avuto successo. E al tempo stesso il nostro culto della ragione ci rende inermi a fronte di predatori estremamente aggressivi, rischiando di contribuire al nostro lento "suicidio" culturale.
Io non sono nata in Occidente. Sono stata allevata secondo i codici dell´Islam, e indottrinata fin dalla nascita secondo una mentalità tribale. Eppure sono cambiata. Ho adottato i valori dell´Illuminismo, e di conseguenza ho dovuto accettare di vedermi respinta dal mio clan natale e dal mondo tribale islamico. Cosa mi ha indotto a farlo? Il fatto che nelle società tribali la vita è crudele e terribile. Peraltro, non sono la sola. Per vari decenni, i musulmani sono emigrati in massa verso l´Occidente. Sono partiti in cerca di una vita migliore, ma hanno portato con sé i loro condizionamenti tribali e culturali. E in questo sono stati favoriti dal multiculturalismo, dal relativismo morale che regna in Occidente.
Harris ha ragione di ritenere che i leader occidentali abbiano in genere idee molto confuse sul mondo islamico. Ma il problema non è certo un eccesso di ragione. A promuovere e incoraggiare la perdurante segregazione, il tribalismo dei musulmani immigrati in Occidente, non è certo la ragione, ma piuttosto una mentalità di segno romantico. Il multiculturalismo e il relativismo morale, con la loro tendenza a idealizzare i costumi tribali, si sono dimostrati refrattari a ogni critica empirica. I leader occidentali si stanno lasciando sfuggire una grandissima opportunità di competere con gli agenti dell´Islam radicale per conquistare - soprattutto all´interno dei loro confini - le menti dei musulmani. Ma in questa gara, la ragione deve prevalere sul sentimento.
Per Lee Harris, chi è nato e cresciuto all´interno di culture che promuovono il fanatismo è condannato e condannerà gli altri a un´esistenza governata dalla legge della giungla. Ma sostenere questo vuol dire ignorare le lezioni del passato dello stesso Occidente. Per lunghi periodi, i comportamenti occidentali - dalle Crociate fino ai programmi di genocidio - sono stati tutt´altro che nobili. Ma è anche vero che molti occidentali nati nella legge della giungla, quella del maschio dominante e della donna succube, hanno incontrato la cultura della ragione e l´hanno fatta propria. In breve, se innegabilmente questo conflitto è una lotta mortale tra culture diverse, saranno gli individui a determinarne l´esito.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 15.1.08
Intervista a Vittorio Foa. Un nuovo saggio del leader quasi centenario


Una bussola civile in forma di autobiografia: i valori bisogna innanzitutto viverli
L´Italia è troppo debole davanti all´arroganza delle gerarchie ecclesiastiche

FORMIA. Le spalle ricurve, prossimo ormai ai cent´anni, Vittorio Foa appare sprofondato sotto una soffice coltre di maglie rosse, una macchia di colore in un angolo della grande cucina di Formia. I suoi occhi non vedono quasi più, cammina con due bastoni, ma il sorriso è quello di sempre: un misto di curiosità e risolutezza, proprio di chi si apre alla vita, non di chi se ne accomiata. «Sono sempre dibattuto tra la mia età e la conseguente domanda - ma perché devo occuparmi di questo? - e la volontà comunque di partecipare. Ma non sono sicuro di questo, capisce cosa voglio dire?».
Alle spalle un secolo di passioni civili, otto anni di galera sotto il fascismo, la costruzione dell´Italia repubblicana, le infiammate battaglie sindacali, l´impegno a sinistra e l´eterna mossa del cavallo, ma oggi sembra prevalere un sentimento di stanchezza, tentazione di ripiegamento, che non è riconducibile al solo dato anagrafico (nato a Torino il 18 settembre del 1910). «Sono cieco, ma continuo a seguire le vicende pubbliche. Mia moglie Sesa mi legge ogni giorno almeno tre quotidiani. Ebbene, raramente mi appassiono alle cose. Non trovo nulla di coinvolgente, mi appare tutto privo di senso. La politica, le sue parole. Per la prima volta avverto estraneità alla discussione, mi sento come inferiore a questo paese, privo di interesse». Lui, padre costituente e fondatore della Repubblica, "inferiore a questo paese". Lui homo politicus per eccellenza, che alla politica è arrivato per la strada più stretta - quella della opposizione al fascismo - , ora deluso dalla politica, da questa politica. «Non credo affatto che l´Italia sia un paese in declino, o peggiore di altri. Chi lo rappresenta, tuttavia, dovrebbe sentire una responsabilità diversa». Non c´è rabbia né rancore, solo amarezza.
Alle liturgie insensate della politica, al suo vocabolario svuotato e ingannevole, è dedicato il suo ultimo saggio, pubblicato in questi giorni da Einaudi (Le parole della politica, con la collaborazione di Federica Montevecchi, pagg. 64, euro 8). Una bussola civile in forma di autobiografia, un personalissimo lessico etico-politico che serva da monito soprattutto alla sua famiglia ideale. Quel che Foa più teme non è il "berlusconismo" in sé, il potere piegato a fini personali e tenacemente denunciato negli anni passati, ma le tracce profonde impresse nella stessa sinistra, la politica come occupazione di cariche e fonte di arricchimento. «Una mutazione antropologica è stata già prodotta», riflette con malinconia Foa. «Io ho atteso con speranza il governo di centro-sinistra, ma quando questa mia speranza si è concretizzata ho provato e provo tuttora una sincera amarezza vedendo l´incredibile corsa verso i posti, cioè verso il denaro». Forse il degrado della politica sta proprio nel «pensare di essere soli e nel pensare solo a se stessi».
Tra le parole estinte e ora rimpiante, l´ex azionista Foa annovera il vocabolo "esempio", una condizione quasi prepolitica da cui non si può prescindere. «Mi colpisce che dell´esempio non si parla mai, non esiste come categoria di giudizio del proprio e dell´altrui comportamento: eppure sappiamo che tutto viene da lì. Anche a sinistra la "politica dell´esempio" è venuta meno, come se i valori bastasse predicarli, non viverli e praticarli. La rinascita è possibile soltanto se ciascuno pensa a ciò che fa, cioè a chi giova e chi danneggia. La rieducazione civile degli italiani riparte nelle case, nelle scuole, negli ospedali, nelle strade, nella vita personale di ciascuno di noi. Ho sempre pensato che il comportamento di mio padre verso mia madre abbia influito sul tessuto civile complessivo e sulle mie scelte personali successive. Non è così?».
Un secolo vissuto da democratico, e oggi il deprimente spettacolo di uno Stato arreso davanti a cumuli di immondezza. Foa vi riconosce quella malattia delle istituzioni che egli definisce "la scomparsa dell´interlocutore", la morte in sostanza della responsabilità. «Una caratteristica dell´irrilevanza dei discorsi d´oggi è che l´interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa. Quando l´interlocutore non è considerato o non c´è, la parola è nel vento. Accade tanto a destra quanto a sinistra: la concretezza dei soggetti viene meno, non si sa più chi si assume gli impegni. E non si riconoscono più le esigenze reali».
Qualche volta, confessa, si sente anche umiliato, e "allora è anche inutile parlare se nessuno mi ascolta". Il rapporto Stato e Chiesa, in tempi recenti, è tra i temi che più l´affliggono, mentre dovrebbe trattarsi di una questione risolta ormai da tempo. «Per me, per la mia esperienza quasi centenaria, è inammissibile l´immagine di un´Italia debole e infragilita davanti all´arroganza delle gerarchie clericali. Dovremmo farci forti di quel che accade all´estero, invece non lo utilizziamo abbastanza». Vivere è scegliere, ma anche far politica implica scelte limpide. «Al segretario del nuovo partito democratico consiglierei di essere più rigoroso e cristallino: se cediamo nei piccoli dettagli, rischiamo di perder tutto». Bisogna correre dei rischi, ne vale la pena. «Se uno parla con chiarezza, non va incontro a malintesi».
La parola che più ricorre nella sua conversazione è "ripensare". Anche nei momenti in cui sembra assorto, come ripiegato in se stesso, la mente di Foa torna alla sua lunga pratica novecentesca, per ricavarne suggerimenti per l´oggi, per un assetto democratico dissanguato dalle lacerazioni politiche. «Sono persuaso che si possano trovare regole condivise, seppure da posizioni distanti. Quando lavoravamo nell´Assemblea Costituente, passavamo metà della giornata a discutere di politica, quasi sbranandoci, con litigi terribili: questo al mattino. Al pomeriggio si discuteva delle regole, ossia della Costituzione, e tutto cambiava: la nostra testa diventava un´altra cosa». Per trovare una soluzione - è il monito di Foa - basta volerlo. L´altra pagina storica alla quale torna volentieri è il discusso periodo badogliano, segnato da incertezza e fughe. «Fu allora che i partiti, che pure la pensavano in modo profondamente diverso, si ritrovarono all´improvviso a farsi carico del futuro. Tante questioni furono risolte nel rispetto delle differenze, ma mirando anche al loro superamento nella ricerca di regole condivise. Molti parlano di quella stagione come della fine della patria, invece era l´inizio».
I suoi ricordi risalgono al 1913, ha vissuto la prima Guerra da bambino, anche lui un po´ figlio del Risorgimento, e ha partecipato alla seconda contro l´invasore nazista. Di trincee, in vita sua, ne ha viste tante: nel 1991, da senatore della Sinistra Indipendente, votò a favore dell´intervento americano nel Golfo. Oggi a inquietarlo è l´assuefazione delle coscienze, il rassegnarsi collettivo alla morte e alla guerra come fatale necessità. «I morti non ci fanno più impressione», dice Foa, «segno che qualcosa è cambiato dentro di noi. Uno dei fenomeni più preoccupanti del presente è l´indifferenza con cui assistiamo al propagarsi delle guerre totali, un´invenzione del Novecento che ha lasciato una lunga traccia dietro di sé. Troppo spesso la guerra si presenta come soluzione di problemi interni, un rimedio per stabilire gerarchie sociali o rapporti di potere economico: uno strumento di politica interna». Quando era bambino la guerra era carneficina, inferno inaccettabile. «La guerra era il pianto delle donne mentre gli uomini partivano per il fronte, il pianto così frequente di mia madre. Oggi invece tutto ci appare normale. Non pensiamo mai che in gioco siano le vite umane. E non si parla mai dei morti. Decine, centinaia di cadaveri senza domande: questo mi fa molto impressione». A sinistra, spesso, si risolve la questione innalzando la bandiera pacifista. «Ma non basta», ammonisce severo Foa. «Non basta trincerarsi dietro vessilli d´appartenenza, come se in nome della pace tutto fosse risolto. Bisognerebbe saperne di più: dove offendiamo i diritti umani? cosa possiamo fare? Ecco, non so se a sinistra il problema sia avvertito in questi termini, al di là di generiche predicazioni».
Parla in modo lucido e serrato, Foa, e anche quando sembra riposare torna con i pensieri all´universo pubblico. Il suo destino personale è sempre apparso saldato con quello collettivo, e oggi perfino i suoi sogni sono politici. «Sì, a quasi cent´anni continuo a sognare personaggi ed episodi della vita pubblica. Di recente mi è apparso in sogno Ignazio Silone, che mostrava grande attenzione per i miei occhi: poi, con quei passaggi bruschi tipici dei processi onirici, mi veniva consegnato il premio Silone... Mi sono risvegliato di buonumore». Ha appena licenziato un libro sulle parole della politica, ma lei, Foa, con quale parola vorrebbe essere ricordato? «Partecipazione», sorride senza esitazione. «L´autonomia ha sempre significato per me partecipare alla trasformazione, voler cambiare la società, senza aspettare che il problema venga risolto da qualcun altro». Ci pensa un po´ su. «Partecipare ha comportato anche cambiare opinione. Talvolta mi si dice con tono di rimprovero: "Ma tu negli anni Settanta la pensavi così, oggi invece...". Sì, perché negarlo? Sono cambiato anche io, è stato anche questo un modo di partecipare al cambiamento. A novantasette anni vorrei mi fossero riconosciute lealtà e sincerità».

Corriere della Sera 15.1.08
Flores: sbagliato adesso. C'è un'offensiva clericale
di P. Co.


ROMA — Paolo Flores d'Arcais, filosofo, dirige «MicroMega » appena uscita col numero «Per una riscossa laica»: la stessa testata ha pubblicato nel 2005 il resoconto del dibattito pubblico tra Flores e Ratzinger organizzato a Roma il 21 settembre 2000. Ed è ricercatore a «La Sapienza». Favorevole o contrario alla visita del Papa di giovedì, Flores?
«Contrario. La scelta di un "ospite" all'inaugurazione dell'anno accademico ha altissima valenza simbolica. Scegliere il regnante Pontefice nel momento in cui viene scatenata dalla Chiesa una campagna efferata di criminalizzazione delle donne che scelgono l'aborto, in una più ampia offensiva clericale contro ogni residuo di laicità della politica italiana, significa da parte della "Sapienza" più o meno il "bacio della pantofola". Per una istituzione come quella universitaria che perfino nel Medioevo era baluardo di autonomia del sapere, diventa il tradimento più pieno della sua ragion d'essere».
Lei dialogò con Ratzinger. Il suo «no» non è contraddittorio?
«No. Sono favorevolissimo al confronto pubblico con uomini di Chiesa. Presto uscirà in volumetto un analogo confronto avuto due anni fa col Patriarca di Venezia Angelo Scola. Oggi sono gli alti prelati che si sottraggono quasi sempre al confronto. Consapevoli del monopolio che ormai hanno in tv e nei media, perché affrontare l'"argomento contro argomento" in cui la ragione laica potrebbe avere la meglio?» Che ricordo ha del Ratzinger dell'incontro al teatro Quirino?
«Umanamente ottimo. Persona squisita, perfino spiritosa: a una mia obiezione rispose di non ricordare il brano di un'enciclica di Wojtyla che tutti sanno scritta da lui. Mentre negava gli veniva da sorridere. Teologicamente, un cattolico integralista senza incertezze e crisi. E per questo curioso e interessato al confronto con filosofi laici. Almeno allora».
E adesso cosa pensa della figura complessiva di Benedetto XVI?
«Teologicamente è solo un Dispensatore di Verità. E quelle curiosità mi sembrano venute meno. Il suo libro su Gesù, nella parte che pretende di affrontare il Gesù storico, è di una povertà scientifica imbarazzante. La sua azione sembra tesa a cancellare ogni vestigia del Concilio e a tornare alla Chiesa del Sillabo, anche se con un linguaggio perfino post-moderno».
Il rettore Renato Guarini dice: il Papa verrà accolto dalla nostra università come «messaggero di pace». Che ne pensa?
«Se questa fosse la vocazione principale dell'università, ci sarebbe solo l'imbarazzo della scelta per un ospite come ambasciatore di pace: da Noam Chomsky a Gino Strada. Sono francamente scuse risibili. E una istituzione la cui bandiera dovrebbe essere l'illuministico "Sapere aude!", accanto al ministro Fabio Mussi e al sindaco Walter Veltroni... che non stanno esibendo un'alta caratura di laicità... ecco, una grande personalità di scienza e appunto di illuminismo sarebbe stata una scelta ovvia e doverosa».

Corriere della Sera 15.1.08
Il dottore dei cinquemila aborti: più rifiuti tra i giovani colleghi
di Simona Ravizza


«Costretto a continuare, ogni volta un peso da portare»
È primario al San Carlo: «Davanti agli scrupoli di coscienza torno agli Anni '70, quando l'aborto clandestino era la terza causa di morte»

MILANO — Almeno cinquemila interruzioni di gravidanza sulle spalle, per trentasette anni di carriera da ginecologo abortista. Mauro Buscaglia, 62 anni a giugno, non riesce a smettere di fare aborti neppure da primario dell'ospedale San Carlo. «Sono costretto ad andare avanti — confessa —. I neolaureati sempre più spesso non ne vogliono sapere». La sua è la testimonianza di una vita in sala operatoria nella Milano dai settemila aborti l'anno dove oggi due medici su tre sono obiettori di coscienza (nel resto d'Italia la percentuale è del 59 per cento). Il lavoro se lo devono spartire 140 ginecologi sui 383 ingaggiati dagli ospedali. «Dagli aborti con la pinza ad anelli a quelli con il metodo karman, ogni volta è stato un dramma interiore. E lo è ancora, anche e soprattutto, perché tra i giovani medici milanesi cresce il rifiuto di eseguire le interruzioni di gravidanza — racconta Buscaglia —. Ma davanti agli scrupoli di coscienza la mia testa ritorna sempre indietro agli Anni Settanta. Alle immagini delle donne che arrivavano in ospedale con l'intestino estirpato dalle mammane durante gli interventi clandestini. Ogni volta ritrovo la forza per andare avanti».
È il 1971 quando Buscaglia entra in Mangiagalli, la clinica dove sette anni più tardi verrà eseguita la prima interruzione di gravidanza legale (e dove nel 2004 è stato introdotto uno dei primi codici di autoregolamentazione d'Italia per abbassare il limite degli aborti terapeutici alla 22ª settimana). Una laurea in medicina appena conquistata, il primo lavoro scientifico che gli viene affidato è un'indagine sulla mortalità delle donne. Un dossier da elaborare cartelle cliniche alla mano. «Così scoprii che l'aborto clandestino era la terza causa di morte dopo le emorragie e l'ipertensione — ricorda il ginecologo —. Poco dopo entrai nella pattuglia dei giovani medici che si battevano per la legalizzazione delle interruzioni di gravidanza». Intorno alla stanza 6 della Mangiagalli nascono discussioni, scontri, risse. Qualche volta si rischia anche di venire alle mani. «Tutte esperienze che mancano alle nuove generazioni — denuncia Buscaglia —. L'applicazione della legge 194 adesso viene considerata un problema che riguarda gli altri perché non c'è più l'ideologia di allora ».
Sono anni di lotta che Buscaglia non riesce a dimenticare durante tutta la sua carriera che lo porta a lavorare per otto anni al San Paolo e, dal 1997, al San Carlo. In corsia giorno e notte. «Non sarò mai un abortista pentito, anche se ogni interruzione di gravidanza è un peso sulla coscienza. È una ferita destinata a non rimarginarsi: vuol dire avere fallito nell'attività di prevenzione — ammette —. Il senso di impotenza aumenta quando si capisce che la donna è spinta ad abortire per problemi economici. Non sempre si riesce a offrire un aiuto concreto, soprattutto nel caso delle extracomunitarie ». Sullo sfondo del racconto restano i dati choc diffusi dalla Mangiagalli nel luglio 2006, ma ancora validi: «Sui 1.720 aborti all'anno della clinica almeno un terzo riguarda pazienti in difficoltà economiche».
Il vento di bufera che soffia sulla 194 non spaventa Buscaglia. «Trent'anni dopo la sua approvazione è giusto tornare a discutere della legge — dice —. Ma senza intaccarne i principi. L'importante è che il dibattito sia costruttivo». L'argomento che tiene banco negli ospedali di Milano sono le linee guida annunciate dalla Regione Lombardia per limitare l'aborto terapeutico alla 22ª settimana e vincolare l'interruzione di gravidanza per motivi di salute al via libera di un'équipe di specialisti (tra cui, eventualmente, uno psichiatra). «È importante che venga lasciata una scappatoia caso per caso», s'azzarda a suggerire Buscaglia.
Del resto, dopo la morte dei ginecologi Giorgio Pardi e Umberto Nicolini, entrambi scomparsi di recente, il medico è considerato l'ultimo testimone della storica battaglia a difesa della libertà di scelta delle donne. «Altri tempi», dice mentre si prepara a entrare in sala operatoria. Per l'ennesima volta. Suo malgrado, ma a testa alta.

Corriere della Sera 15.1.08
Gli intransigenti sono un'eccezione
I valori e la convivenza nel Pd
di Michele Salvati


Angelo Panebianco (sul Corriere del 10 gennaio) e Ernesto Galli della Loggia (prima ancora, sul Corriere del 2 gennaio) fanno bene a occuparsi della convivenza tra «laici» e «cattolici» nel Partito Democratico. Da questa convivenza — dalla sua facilità o difficoltà — dipende non solo il successo di un partito, al quale molti potrebbero legittimamente essere poco interessati, ma anche la possibile evoluzione del sistema politico italiano verso un bipartitismo civile. Fors'anche il definitivo ancoraggio del nostro Paese al drappello delle grandi democrazie liberali, quelle in cui la separazione tra religione e politica non pone (eccessivi) problemi e non è rimessa in discussione a ogni stormir di fronda Oltretevere. I due nostri editorialisti sono moderatamente pessimisti in proposito. Qui vorrei sostenere un'opinione moderatamente ottimista.
Nessun dubbio che la convivenza di cui parliamo sia il problema centrale del Pd e che sia difficile. E' centrale non solo perché, per ora, il Pd è poco più della fusione di due partiti il cui ceto politico e la cui tradizione ideologica derivano in larga misura dal Pci e dalla sinistra democristiana. Ma perché il superamento degli «storici steccati» tra laici e cattolici è parte centrale della sua missione, il maggiore contributo che il Pd può recare all'incivilimento del nostro Paese, la riparazione definitiva di una frattura che ha attraversato l'intera storia d'Italia. Ed è un problema difficile, il vero ostacolo ad una fusione di successo. Per gran parte dei temi che contano nella definizione di una linea politica — politica estera e politiche economico-sociali — gli eredi delle due grandi tradizioni della Prima repubblica sono arrivati a posizioni molto vicine, spesso indistinguibili. Resta in campo, e non è del tutto risolto, il problema di cui stiamo parlando, una posizione comune su che cosa voglia dire in concreto, nell'Italia che ospita il Vaticano ed è composta in grandissima parte da cittadini di religione cattolica, il principio fondante di uno stato liberale: la separazione tra religione e politica.
Mi affretto ad aggiungere che questa separazione dà luogo a problemi anche nelle grandi democrazie liberali cui aspiriamo ad appartenere. La domanda di senso cui le religioni rispondono conosce lunghi cicli storici e l'intero mondo occidentale vive ora un momento in cui la domanda è alta, per ragioni nelle quali ora non posso entrare: in questi momenti la «separazione» conosce qualche difficoltà anche in Paesi in cui essa ha cessato di essere problematica da lungo tempo. Ma naturalmente essa crea problemi assai maggiori nel nostro, se la Chiesa si fa interprete della domanda di senso, di religione, di questo momento storico e propone una concezione militante e intransigente del cattolicesimo. Anche in politica. E qui sta il punto, perché la «separazione» esige che le convinzioni assolute entrino in politica disposte alla mediazione con chi quelle convinzioni non possiede: lo stato laico non conosce «verità» e non può schierarsi a favore di una «verità» contro un'altra. Questo non implica che i partecipanti al dialogo politico democratico smettano di credere al valore assoluto delle posizioni di cui sono convinti e smettano di difenderle con passione: tutto ciò sta perfettamente dentro una democrazia liberale. Implica però «un'accettazione dell'aperto, pragmatico, contingente, incerto e tollerante carattere di ogni argomentazione… sul lato politico della linea di demarcazione» (Michael Walzer). Implica dunque che essi siano disposti ad accettare compromessi, vittorie e sconfitte parziali, per consentire un buon funzionamento di una politica liberale e democratica.
Se c'è un nemico di questa politica esso è l'intransigenza, il trasferimento diretto in politica della «non negoziabilità», degli «imperativi categorici», che caratterizzano le convinzioni assolute e che sono perfettamente legittimi sul piano personale. Imperativi che le Chiese e le religioni (ma anche le ideologie laiche) sostengono e cercano di diffondere nel libero mercato delle convinzioni, delle diverse «verità».
Certo, il compromesso e la mediazione sono facili, anzi, del tutto naturali, nel campo delle politiche economico-sociali, degli interessi; meno facili quando sono in gioco principi che i partecipanti al dialogo politico considerano verità assolute.
Ma il grande portato civilizzatore della riflessione che inizia in Europa dopo le guerre di religione è stato proprio quello di sottomettere a una logica liberale e democratica, attraverso il principio della separazione, anche materie così ostiche e calde.
In questo momento storico, ed in presenza di una linea dottrinale della Chiesa militante e intransigente, ciò che altrove è un raffreddore può trasformarsi in Italia in una polmonite. E' vero. Ma vorrei invitare i pessimisti a riflettere sul fatto che il cattolicesimo liberale e democratico ha forti radici, anche in Italia, nella patria di Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi: nel Partito democratico i «cattolici maggiorenni» sono la grande maggioranza e le Binetti e i Bobba sono eccezioni. E sono eccezioni anche i «laici intransigenti», come il professor Odifreddi. O almeno così mi sembra.

Corriere della Sera 15.1.08
Scienze. Charles Seife: come si trasmettono le informazioni
L'«agente segreto» che prova a decifrare i codici dell'universo
di Edoardo Boncinelli


Subito dopo la biomedicina, sono l'astronomia e l'astrofisica le scienze che sembrano attrarre maggiormente l'interesse dell'italiano medio. E molti buoni libri divulgativi sono stati scritti su questi argomenti. Alcuni poi sono veramente eccellenti. Gli autori hanno fatto uno sforzo titanico per cercare di trasmettere al lettore la maggior quantità di informazione possibile senza tradire lo spirito e il rigore delle scoperte corrispondenti.
È chiaro che una tale operazione diviene nel tempo sempre più ardua perché le informazioni inerenti a questi campi aumentano vertiginosamente di numero e soprattutto di complessità. Non si tratta più di raccontare le meraviglie del Sistema solare e dei vari corpi celesti che vi si trovano. Si parla oggi di stelle, di galassie, di ammassi stellari, di quasi stelle, di buchi neri e di materia che non è materia o di energia che non è energia. Il tutto strettamente intrecciato con le vicende veramente mirabolanti della fisica contemporanea.
Ma in genere ne vale la pena. E si può sempre migliorare. Con La scoperta dell'universo. I misteri del cosmo alla luce della teoria dell'informazione
(Bollati Boringhieri) Charles Seife ci ha consegnato un libro entusiasmante su un argomento entusiasmante. Come dichiara il sottotitolo (e come dichiarava il titolo originale che parlava di decodificare l'universo) la particolare angolazione dell'opera è quella della storia del concetto di informazione e della sua evoluzione, nell'informatica, nella fisica e nella cosmologia. Non che cosa l'informazione ci dice quindi dell'universo, ma che cosa l'universo ci dice dell'informazione, che è la grande, indiscussa protagonista dell'opera, la dramatis persona che compare fin dall'inizio e che non lascerà mai più la scena, anche quella che riguarda il futuro più remoto.
Anche se uno si limitasse a leggere le prime cento pagine del libro, si troverebbe a essere testimone di un'avventura esaltante, una delle più avvincenti della nostra epoca: la materializzazione progressiva del concetto di informazione, una quantità che oggi tutti sanno misurare — in bit, byte, kilobyte, Gigabyte o addirittura Terabyte — ma che stenta a guadagnare la posizione che le spetta nel nostro panorama culturale e intellettuale. Non è la prima volta che un libro del genere tenta l'operazione di mettere l'informazione al centro della scena, ma questa volta l'operazione mi pare riesca del tutto naturale.
Si parte dall'esame dei codici di guerra e dalle diverse storie della loro decifrazione, per proseguire con l'esame della ridondanza di un testo e dell'opera pionieristica di Claude Shannon, colui che ha enucleato e domato il concetto stesso di informazione. Entra poi in ballo la fisica — per ora quella classica — con la teoria del calore e il cosiddetto diavoletto di Maxwell. Il ponte gettato fra l'informazione e le quantità fisiche, come l'energia e l'entropia — che rappresenta di per sé una delle più grandiose realizzazioni dell'animo umano — permette poi all'autore di raccontarci gli ultimi, recentissimi sviluppi dell'analisi del «costo» della trasmissione e dell'elaborazione dell'informazione, che si tratti di cervelli artificiali o di cervelli di carne e sangue.
Chi ha seguito fino a questo punto senza perdersi, può poi gustarsi da una parte il racconto delle alterne vicende del tentativo di costruire un computer quantistico su questa terra e dall'altra la presentazione dell'intero universo come una gigantesca macchina per elaborare informazione.
La capacità di raccontare — e prima ancora di immaginare — tutto questo, riposa, insieme alla forza di ideare la Divina Commedia e l'Arte della fuga, sulla potenza e sull'agilità del nostro cervello, la più fragile e la più sorprendente delle macchine cosmiche. L'ultima frontiera è quindi rappresentata — e come potrebbe essere diversamente? — dalla comprensione dell'azione del nostro cervello, un organo che si è progressivamente liberato dei suoi impegni strettamente fisiologici per potersi dedicare alle futilità dell'immaginazione filosofica, della comprensione scientifica e della creazione artistica. E pensare che molti di noi lo trattano con sufficienza e gli assegnano d'ufficio un «insegnante di sostegno», che chiamano variamente anima o spirito...

Repubblica 12.1.08
Albert Camus
L´AUTORE I SUOI LIBRI


Cos´è un artista nell´epoca della mediocrità e della ferocia? Alla fine degli anni Quaranta, con l´Europa uscita dalla guerra ed entrata nella ricostruzione, lo scrittore francese cercò di descrivere quali compiti l´arte e il pensiero erano chiamati a svolgere

Il nostro è un tempo in cui gli uomini, spinti da ideologie mediocri e feroci, sono abituati ad aver vergogna di tutto. Vergogna di se stessi, vergogna di essere felici, di amare o di creare. Un tempo in cui Racine arrossirebbe per Bérénice e Rembrandt, per farsi perdonare d´aver dipinto la Ronda di notte, correrebbe a iscriversi alla sezione del partito del quartiere. Gli scrittori e gli artisti di oggi hanno insomma la coscienza malaticcia e va di moda fra noi chiedere scusa per il nostro mestiere. A dir la verità, sono tutti molto solleciti ad aiutarci. Da ogni angolo della nostra società politica, verso di noi si leva un appello insistente, che ci ingiunge di giustificarci. Dobbiamo giustificarci di essere inutili e, allo stesso tempo, di servire, con la nostra stessa inutilità, cause spregevoli. E quando rispondiamo che è molto difficile affrancarsi da accuse così contraddittorie, ci dicono che non è possibile giustificarsi agli occhi di tutti, ma che possiamo ottenere il perdono generoso di alcuni schierandoci dalla loro parte, che poi, a sentir loro, è la sola giusta. Se argomentazioni del genere non fanno effetto, si dice ancora all´artista: "Guarda la miseria del mondo. E tu che cosa fai?" A un ricatto così cinico, l´artista potrebbe rispondere: "La miseria del mondo? Io non l´accresco. Si può dire altrettanto di voi?" Ma non è meno vero che nessuno di noi artisti può restare indifferente all´appello che sale da un´umanità disperata. Bisogna dunque sentirsi colpevoli, a ogni costo. Ed eccoci trascinati dinanzi al confessionale laico, il peggiore di tutti.

Essere artisti
per cambiare il mondo

Eppure, non è così semplice. La scelta che ci chiedono di compiere non è scontata; è determinata da altre scelte, fatte in precedenza. E la prima scelta che fa un artista è proprio quella di essere un artista. E se ha scelto di essere un artista è in considerazione di ciò che egli è e a causa di una certa idea che si è fatto dell´arte. E se tali ragioni gli sono sembrate abbastanza buone per giustificare la sua scelta, è probabile che esse continueranno a essere tanto buone da aiutarlo a definire la sua posizione rispetto alla storia. È questo, almeno, quello che penso io e, questa sera, visto che qui parliamo liberamente, vorrei distinguermi dagli altri, mettendo l´accento, a titolo personale, non sulla cattiva coscienza, che non ho, ma sui due sentimenti che, di fronte e a causa della miseria del mondo, provo riguardo al nostro mestiere: la riconoscenza e l´orgoglio. Dal momento che dobbiamo giustificarci, vorrei dire perché è legittimo esercitare, entro i limiti imposti dalle nostre forze e dai nostri talenti, un mestiere che, in un mondo inaridito dall´odio, permette a ciascuno di noi di dire tranquillamente di non essere il nemico mortale di nessuno. Ma è una cosa che deve essere spiegata e posso farlo solo parlando un po´ del mondo in cui viviamo e di ciò che noi, artisti e scrittori, siamo votati a fare.
Il mondo intorno a noi è in disgrazia e ci chiedono di fare qualcosa per cambiarlo. Ma in che cosa consiste questa disgrazia? A prima vista, si definisce facilmente: negli ultimi anni, si è ucciso molto nel mondo e c´è chi prevede che si ucciderà ancora. Un tal numero di morti finisce per rendere l´aria irrespirabile. Naturalmente, niente di nuovo. La storia ufficiale è sempre stata una storia di grandi omicidi. Non è certo da oggi che Caino uccide Abele. Ma è da oggi che Caino uccide Abele in nome della logica e pretende poi la Legion d´Onore. Farò un esempio per farmi capire meglio.
Durante i grandi scioperi del novembre 1947, i giornali annunciarono che anche il boia di Parigi si sarebbe astenuto dal lavoro. La decisione del nostro compatriota non è stata, a mio avviso, sottolineata abbastanza. Le sue rivendicazioni erano chiare. Chiedeva naturalmente un premio per ogni esecuzione, come è consuetudine in ogni azienda. Ma, soprattutto, reclamava con forza il ruolo di capo ufficio. Voleva infatti ricevere dallo Stato, che riteneva di servire degnamente, la sola consacrazione, il solo onore tangibile che una nazione moderna possa offrire ai suoi bravi servitori: una posizione amministrativa. Così si estingueva, sotto il peso della storia, una delle nostre ultime professioni liberali. Proprio sotto il peso della storia.
In passato, un´aura terribile teneva il boia lontano dal mondo. Era colui che, per mestiere, insidiava il mistero della vita e della carne. Era e sapeva di essere oggetto d´orrore. E questo orrore consacrava al tempo stesso il valore della vita umana. Oggi egli è soltanto oggetto di pudore. E, nella condizione attuale, ha ragione a non voler più essere il parente povero che si tiene nascosto in cucina perché ha le unghie sporche. In una cultura in cui l´omicidio e la violenza sono già dottrina e stanno per diventare istituzione, i boia hanno tutto il diritto di accedere al quadro amministrativo. A dire il vero, noi francesi siamo un po´ in ritardo. Ovunque nel mondo gli esecutori occupano già le poltrone ministeriali. Solo che all´ascia hanno sostituito il timbro.
Quando la morte diventa una questione di statistiche e di amministrazione significa che le faccende del mondo non vanno un granché bene. Se la morte diventa astratta, vuol dire che lo è anche la vita. E la vita di ognuno non può che essere astratta, se c´è qualcuno che cerca di piegarla a un´ideologia. La disgrazia è che viviamo nell´epoca delle ideologie e delle ideologie totalitarie, tanto sicure di se stesse, della loro ragione imbecille o della loro verità miope da vedere la salvezza del mondo solo e unicamente nel loro stesso dominio. E voler dominare qualcuno o qualcosa significa augurargli sterilità, silenzio e morte. Per constatarlo, basta guardarsi attorno. (...)

Persuasione
e intimidazione

Non c´è vita senza persuasione. E la storia attuale conosce solo l´intimidazione. Gli uomini vivono e possono vivere solo sull´idea che hanno qualcosa in comune in cui possono sempre ritrovarsi. Ma abbiamo scoperto questo: ci sono uomini che non possono essere persuasi. Era ed è impossibile che una vittima dei campi di concentramento riesca a spiegare a coloro che la umiliano che non devono farlo. Il fatto è che questi ultimi non rappresentano più gli uomini, ma un´idea messa a punto dalla più inflessibile della volontà. Chi vuole dominare è sordo. Al suo cospetto bisogna combattere o morire. È per questo che gli uomini di oggi vivono nel terrore. Nel Libro dei morti, si legge che un egiziano, per esser giusto, per meritarsi il perdono, doveva poter dire: "Non ho spaventato nessuno". In queste condizioni, nel giorno del giudizio finale, tra le fila dei beati, invano si cercheranno i nostri grandi contemporanei.
Non c´è da stupirsi se queste sagome da tiro, ormai sorde e cieche, terrorizzate, tenute in vita dalla tessera annonaria, la cui vita intera è riassunta in una scheda di polizia, possano essere poi trattate come astrazioni anonime. È interessante constatare che i regimi derivati da queste ideologie sono proprio quelli che procedono sistematicamente allo sradicamento delle popolazioni, sballottandole per l´Europa come simboli esangui che si animano di una vita derisoria soltanto nei numeri delle statistiche. Da quando queste belle filosofie sono entrate nella storia, enormi masse di uomini, ognuno dei quali aveva un tempo un modo diverso di stringere la mano, sono definitivamente sepolte sotto le due iniziali delle persone deportate, che un mondo dominato dalla logica ha inventato per loro. (...)

Artisti, testimoni
della vita

I veri artisti non sono mai buoni vincitori politici, perché sono incapaci di accettare con leggerezza – ah, lo so bene – la morte dell´avversario! Stanno dalla parte della vita, non della morte. Sono i testimoni della carne, non della legge. Per vocazione sono condannati a comprendere anche ciò che è ostile nei loro confronti. Ciò non significa che siano incapaci di giudicare il bene e il male. Ma la loro capacità di vivere la vita altrui permette loro di riconoscere, anche nel peggiore dei criminali, la giustificazione di ogni uomo, che è il dolore. Ecco che cosa ci impedirà sempre di pronunciare il giudizio finale e, dunque, di ratificare il castigo definitivo. Nel mondo della condanna a morte, che è il nostro, gli artisti testimoniano a favore di ciò che nell´uomo si rifiuta di morire. Sono nemici di nessuno, solo dei carnefici! Ed è questo che li esporrà sempre, eterni girondini, alle minacce e ai colpi dei nostri montagnardi dai colletti bianchi. D´altronde, è in questa posizione difficile, proprio per la sua scomodità, che sta la loro grandezza. Un giorno verrà in cui tutti lo riconosceranno e, rispettosi delle nostre differenze, i più validi di noi smetteranno di tormentarsi a vicenda. Riconosceranno che la loro vocazione più profonda è difendere fino in fondo il diritto dei loro avversari a non essere d´accordo con loro. Proclameranno che è meglio sbagliarsi senza uccidere nessuno e lasciando parlare gli altri che avere ragione nel silenzio e negli ossari. Cercheranno di dimostrare che le rivoluzioni possono affermarsi con la violenza, ma possono durare solo con il dialogo. E sapranno allora che questa vocazione particolare crea la fraternità più sconvolgente, quella delle battaglie dall´esito incerto e delle conquiste precarie, quella che, attraverso tutte le età dell´intelligenza, non ha mai smesso di lottare per affermare, contro le astrazioni della storia, ciò che trascende ogni storia: la carne, sia essa sofferente o felice. Tutta l´Europa attuale, piena nella sua superbia, ci grida che è un´impresa ridicola e vana. Ma noi tutti siamo al mondo per dimostrare il contrario.

(Traduzione di Dario Gentili e Laura Talarico)
© Editions Gallimard, Paris, 1950; per la traduzione italiana
© 2007 Lettera Internazionale, edizione italiana; questo testo è estratto da "Le témoin de la liberté" di Albert Camus, pubblicato nel 1975 dalle Editions Gallimard, Paris, negli "Essais" ed è pubblicato in extenso nel n. 94 di Lettera Internazionale

Liberazione 15.1.08
Intervista ad uno dei fisici firmatari dell'appello contro la visita del papa alla Sapienza di Roma
Giorgio Parisi: «La Chiesa non giudichi la scienza»
di Vittorio Bonanni


E 'netta l'offensiva dei sessantasette fisici dell'Università La Sapienza che hanno lanciato un appello al rettore Renato Guarini affinché venga revocato l'invito a papa Benedetto XVI all'Università di Roma in occasione della inaugurazione dell'anno accademico, prevista per giovedì. Una protesta che sta ottenendo l'adesione di molti altri esponenti del mondo scientifico italiano - le adesioni supererebbero di dieci volte il numero dei firmatari e tra questi molti studiosi che lavorano all'estero - alla quale si unirà anche quella degli studenti che stanno preparando sit-in e striscioni contro il pontificato più oscurantista dal Concilio Vaticano II ad oggi. Gli autorevoli studiosi, tra questi i fisici Andrea Frova, autore con Mariapiera Marenzana di un libro su Galileo e la Chiesa, Luciano Maiani, da poco nominato presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Carlo Bernardini, Giorgio Parisi, Carlo Cosmelli, hanno fatto sapere di condividere appieno la lettera che il loro collega Marcello Cini aveva fatto pervenire alla stampa sull'inopportuno intervento di Ratzinger. Proprio al professor Parisi abbiamo chiesto di spiegare il senso dell'iniziativa: «Questa visita del papa - dice il fisico - è parte di uno spostamento interventista della politica della Chiesa nell'ambito scientifico che non era riscontrabile nel pontificato precedente. Va ricordato che il magistero ecclesiastico, da quello precedente a Pio XII in poi, aveva accettato la scienza moderna e sosteneva che la stessa scienza e la religione percorrevano due strade che non si incontravano ma che potevano procedere parallele ciascuna dentro il proprio ambito di competenza.»

Qual è invece il tentativo del teologo bavarese?
Questo papa tende a spostarsi da questa posizione per affermare che la religione può dare un giudizio sulla scienza. A questo proposito noi abbiamo citato la sua frase pronunciata a Parma il 15 marzo 1990, quando, ancora cardinale, disse che il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto rilanciando così un'intollerabile affermazione del filosofo austriaco Paul Karl Feyerabend. Ma quel processo per noi non fu assolutamente giusto. E non tanto perché Galileo avesse ragione o torto ma perché la Chiesa non deve esprimere un giudizio su questioni scientifiche. Come ho già detto i precedenti pontefici erano stati invece abbastanza ragionevoli nel fare un passo indietro. Lo stesso Giovanni Paolo II aveva affermato che la teoria darwiniana dell'evoluzione era giusta ed accettabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, ed era un fatto di cui la Chiesa doveva tenere conto. Con il nuovo pontefice sono stati fatti via via tanti passi indietro, mettendo in primo luogo in discussione proprio la teoria dell'evoluzione e iniziando a corteggiare quella del "disegno intelligente". Dunque un vero e proprio passo indietro sull'evoluzione rispetto alla posizione molto più lineare e chiara del papa precedente.

Che ruolo ha avuto il rettore in questa vicenda? Certamente non era obbligato ad invitare papa Ratzinger...
Benedetto XVI era stato invitato giustamente per inaugurare la cappella universitaria dopo i lavori di restauro. Naturalmente su questo fatto non ho nulla da obiettare. Poi il rettore ha avuto l'idea di approfittare di questa visita per chiedere al papa di dire due parole in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico che però, come è evidente, si tratta di un fatto completamento diverso.

Questa episodio si inserisce in un contesto nel quale la gerarchie cattoliche trovano sempre più terreno fertile per intervenire in politicacome nella società...
Specialmente in questo campo, appunto nel rapporto con la scienza, la Chiesa secondo me sta facendo un grave errore durante questo papato e anche rispetto ai loro stessi interessi. Già sul caso Galileo la Santa Sede ne era uscita scottata nel 600 e quel fatto aveva causato un allontanamento dalla cultura scientifica durato fino al XIX° secolo. E proprio per questa ragione la Chiesa cattolica ha avuto successivamente una posizione di maggiore apertura rispetto alle chiese protestanti sull'evoluzione. Cosa che per noi è stata molto preziosa e ora il timore è che questa apertura venga meno. Certamente un passo falso anche per loro.

Dove vanno a parare questi tentativi che allontanano la religione cattolica dalla realtà?
Difficile dirlo. Certamente portano ad uno scontro frontale con i valori della società moderna. E credo sia proprio quello che Ratzinger intenda fare quando sostiene che bisogna andare nella direzione di contestare tutto quello che nella società attuale allontana dai dettami della Chiesa. In questo senso papa Giovanni Paolo II era molto più duttile. Senza rinunciare per niente ai valori classici e tradizionali della fede cattolica era molto più incline ad accettare la modernità e, con essa, il suo tempo.

Liberazione 15.1.08
Ridare senso e vitalità alla politica da sinistra, al governo e nella società
La relazione del segretario di Rifondazione alla Direzione nazionale: la verifica di governo, la piattaforma unitaria a sinistra,
la redistribuzione sociale e le politiche per i lavoratori, l'egoismo dell'impresa, l'emergenza rifiuti e le politiche del territorio


La ripresa si è rivelata subito densa di impegni, confermando l'opportunità della nostra scelta di rinvio di alcuni mesi del congresso.
La verifica è iniziata con la discussione sul rapporto salari-prezzi-profitti. Questo punto rappresenta solo l'avvio della discussione, senza esaurirla, a cui noi affianchiamo anche il tema della precarietà impantanatosi nel protocollo sul welfare. In questo avvio di discussione, un elemento positivo sta nella presentazione a Prodi, nei prossimi giorni, di una piattaforma comune delle forze della sinistra. Abbiamo illustrato unitariamente il primo punto della piattaforma già giovedì scorso quando abbiamo discusso dell'emergenza sociale del paese e delle priorità di natura economica. Salari, tariffe e potere d'acquisto rappresentano i prossimi punti della verifica. A ciò vanno aggiunti lotta alla precarietà e sicurezza del lavoro; ambiente e beni comuni a partire dall'acqua che, dopo aver già ottenuto la moratoria contro la sua privatizzazione, va ripubblicizzata tramite una apposita norma; la scuola, l'università, la ricerca, l'innovazione e la qualificazione del sistema produttivo, tema dirimente per prospettare un'alternativa di modello economico che permetta di sottrarci alla logica del rapporto retribuzione/produttività e che punti, invece, sulla qualità; il Mezzogiorno; i diritti civili ed in particolare la difesa della 194, le forme di convivenza, le norme contro la discriminazione di genere e razziale ed il tema delle tossicodipendenze; il conflitto d'interessi; il tema dei diritti dei migranti con la rapida approvazione in primavera della legge Amato-Ferrero; il tema del welfare; il tema della pace, della cooperazione internazionale e della riduzione delle spese militari.
Sono priorità meramente temporali, e non di merito, su cui si basa la piattaforma che presenteremo al Presidente del Consiglio, in modo da prospettare una realizzazione dei diversi punti nell'arco dell'intera legislatura. Su questa ipotesi di piattaforma svilupperemo una consultazione di massa, come previsto nell'ultimo Cpn, che sarà di tutte le forze della sinistra. Nel prossimo mese, infatti, costruiremo insieme una serie di iniziative e di campagne grazie alle quali potremo rimettere in moto il processo unitario avviato l'8 e 9 dicembre scorsi.
Penso che la nostra campagna per il tesseramento debba incentrarsi sul rafforzamento del partito affrontando direttamente i temi di natura sociale ed il percorso unitario a sinistra. Ritengo che ci sia bisogno di un'ulteriore accelerazione nel processo unitario per dare seguito a quanto avviato e perché incombono delle scadenze importanti: le prossime elezioni amministrative e l'assemblea di fine febbraio in cui si definiranno le modalità di costruzione del soggetto unitario e della sua organizzazione: è necessario un coinvolgimento in una logica binaria delle forme di autorganizzazione della società e non solo dei partiti. Subito dopo la consultazione ed il giudizio del gruppo dirigente del partito, si svolgerà il referendum che avrà ad oggetto proprio l'esito della verifica con il governo.
Nel corso del primo incontro con il governo abbiamo adottato una posizione comune con le altre forze della sinistra, cosa che ci permette di acquisire una maggiore capacità di ascolto e di incidenza. Dal punto di vista del metodo abbiamo ottenuto una vittoria: ogni proposta del governo da presentare ai sindacati non sarà più espressione solo di una parte della coalizione, ma dovrà essere il frutto di una discussione interna a tutta l'Unione. Ciò servirebbe anche alle rappresentanze sindacali che avrebbero un confronto sereno con una posizione unitaria da parte del governo. Colgo che sia importante l'impegno assunto da Prodi per lo sblocco del contratto collettivo nazionale dei lavoratori pubblici, per la revisione della tassazione sulle rendite finanziarie e il riconoscimento di quella che è l'emergenza reale del paese: la perdita del potere d'acquisto dei salari che, con una rapidità impressionante, sono scivolati alle ultime posizioni in Europa.

il Riformista 15.1.08
Polemiche. il dibattito sulla laicità dentro e fuori le mura del partito democratico
Contro il «soccorso bianco» dei moralisti cattolici nel Pd
di Livia Profeti


Con Böckenförde molti politici pensano che lo stato liberale, secolarizzato, viva di presupposti morali che non garantisce. Rusconi critica la credenza per cui la democrazia deve denunciare questo deficit e colmarlo con i valori della Chiesa

L'unico fatto positivo scaturito dalla proposta a gamba tesa di Giuliano Ferrara di una «moratoria» sull'aborto è stata l'unanime reazione della cultura riformista in difesa della libertà e autodeterminazione delle donne. Una reazione limpida che si è svolta ampiamente anche sulle pagine di questo giornale, nei tanti interventi che hanno argomentato rigorosamente perché e quanto sia necessario, per la nostra società, difendere sia le conquiste di civiltà già ottenute che la sovranità normativa nazionale dai tentativi egemonici di uno Stato straniero, quale in fondo lo Stato della Chiesa è.
Sottolineata questa positività, permane purtroppo una sensazione di difficoltà nel rispondere nella sostanza alle incursioni delle gerarchie cattoliche sui grandi temi umani della nascita, vita, amore, morte. Una sorta di afasia culturale nell'affrontare sino in fondo il passaggio sottolineato da Franceschelli: «Dalla creaturalità alla naturalità del mondo e dell'uomo». Se è vero infatti che tale passaggio costituisce il nodo cruciale di tutto il confronto-scontro tra teologia e scienza e filosofia moderne, è altrettanto vero che queste ultime non riescono ancora a fondare un'egemonia culturale alternativa che orienti l'immaginario collettivo (Mariella Gramaglia) sui cosiddetti temi eticamente sensibili.
La rapida evoluzione delle capacità della scienza ha aperto scenari prima impensabili, ed il comprensibile sconcerto sociale che ne deriva richiede alla cultura di sinistra, se vuole ancora esser tale, uno sforzo del pensiero in grado di produrre un «senso comune» adeguato, che rassicuri le donne sul loro essere esseri umani completi anche se non hanno figli, che le sollevi profondamente dal senso di colpa qualora fossero costrette ad abortire, che non faccia sentire nessuno un assassino nel rispettare la libera scelta di un suo caro che chiede di non soffrire ulteriormente di fronte ad una morte inevitabile o a terribili inevitabili sofferenze.
In un suo recente intervento su Micromega , il politologo Gian Enrico Rusconi ha notato come anche per le menti più progressiste della Chiesa cattolica, quelle che si dichiarano a favore di un sistema democratico laico, permane la «riserva» secondo la quale «la democrazia dovrebbe riconoscere alla propria base un deficit strutturale di valori che soltanto la religione (o la tradizione religiosa specificamente cristiana) sarebbe in grado di colmare offrendo al sistema democratico l'ethos di cui ha bisogno». Una riserva che ha preso sostanza dall'assioma coniato quarant'anni fa dal cattolico tedesco Ernst-Wolfang Böckenförde, per il quale «Lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti morali normativi che non può garantire», e che sta diventando popolare anche in Italia non solo tra i costituzionalisti, «ma più in generale per chi, occupandosi dei rapporti tra Stato e religione, accredita alla religione la capacità di fornire i presupposti morali prepolitici di cui ha bisogno lo Stato per funzionare». Spontaneo pensare che tale convinzione sia diffusa anche in molta parte dei discendenti del Pci confluiti nel Partito democratico, e che sia proprio tale convinzione a fondare stabilmente la «strana coppia» dei post-comunisti e post-democristiani, aldilà delle attuali contraddizioni.
In un clima più apertamente laico, oggi sono molti i fautori di un dialogo politically correct con le gerarchie ecclesiastiche, ma ritengo sia importante sottolineare quanto Rusconi sostiene in proposito, ovvero che «occorre guardarsi dall'idealizzare il dibattito pubblico come luogo deputato allo «scambio di ragioni» per arrivare al reciproco convincimento. Nella realtà sociale e politica al fondo di ogni confronto, in cui è implicato un forte investimento identitario, permane l'inconciliabilità dei punti di vista». In altre parole, su certe questioni lo scontro implicito nel weberiano politeismo di valori non solo è inevitabile, ma persino auspicabile perché - differentemente dalla preoccupazione di Boselli espressa recentemente su Repubblica rispetto ad un presunto carattere di aggressività delle posizioni apertamente atee come quelle di Odifreddi - è proprio nel dialogo tra «diversi» che può nascere qualcosa di fecondo. Il problema è piuttosto quello di rilevare un autentica diversità nel pensiero specificamente di sinistra, che si basi su un materialismo non riduzionista che renda conto di come la sfera etica «immateriale» umana possa nascere da una biologia specie specifica senza interventi divini. Non è infatti sufficiente, senza argomentare anche «il perché», sostenere che un embrione non è una persona oppure che esiste una solidarietà che non bisogno del comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso». In assenza di posizioni teoriche su questi temi la nostra cultura difficilmente riuscirà a fondare stabilmente i suoi valori autonomi rispetto a quelli religiosi.
Solo da una posizione radicalmente diversa e sufficientemente certa di se stessa può partire un autentico dialogo, che non è lo scontro distruttivo da più parti temuto ma, secondo Rusconi, nient'altro che «il riconoscimento della realtà e inaggirabilità del pluralismo delle visioni del mondo e della vita, pluralismo che è riconosciuto dalle Costituzioni democratiche (…) l'ethos comune non è sinonimo di omologazione dei valori bensì la coesistenza di differenti punti di vista valoriali, di diversi ethos». Il problema della laicità in Italia oggi non è quindi solo quello della riconferma dei principi del pluralismo, «ma anche l'affermazione di una cultura che dia sostegno concreto alla cittadinanza costituzionale». Un sostegno concreto, tanto quanto la coraggiosa ricerca che ne deve essere alla base.