mercoledì 16 gennaio 2008

l’Unità 16.1.08
Il ministro Amato: «Ordine pubblico garantito, lo sapevano anche loro... »
di Massimo Solani


«La sicurezza per la visita del Papa sarebbe stata garantita al mille per cento. Quello di cui sono certo, e di cui anche la Santa Sede è certa non meno di me, è che non si è trattato di una questione di sicurezza». È al tempo stesso amareggiato e imbarazzato il ministro dell’Interno Giuliano Amato dopo la scelta di Papa Benedetto XVI di annullare la sua partecipazione all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza. Del resto, ha spiegato il ministro al termine di una giornata intensa di colloqui e trattative, «abbiamo garantito la sicurezza al presidente degli Stati Uniti a Roma, che ha fatto movimenti ben più ampi e siamo dunque sperimentati in questo ambito». Rassicurazioni che in mattinata erano state fornite, tanto dalle informative dei servizi segreti quanto da quelle della Digos capitolina, nel corso delle riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica indetto dal prefetto Carlo Mosca. Un tavolo tecnico a cui aveva partecipato anche il responsabile della sicurezza vaticana Domenico Giani, e nel corso del quale non era emerso alcun rischio effettivo: «Nessuna segnalazione di minacce di terrorismo interno o internazionale o di contestazioni violente», era stata la laconica comunicazione arrivata dalle fonti dell’Intelligence. E la situazione non era cambiata nemmeno quando dalla città universitaria era arrivata la notizia della momentanea occupazione dell’edifici del Rettorato. La visita di Papa Benedetto XVI era confermata. Almeno per poche ore, fino all’annuncio dell’annullamento, quando i contestaori avevano già ottenuto dal preside Guarini il permesso di manifestare e il rettorato era stato sgombrato. La causa del dietro front del Vaticano, quindi, andrebbe cercata altrove. Almeno secondo il ministro Amato, secondo cui la rinuncia «è legata a contestazioni che si prevedeva avrebbero avuto luogo in Aula Magna» e al «rischio di manifestazioni di altro genere intorno». Situazioni che hanno portato il Pontefice, ha proseguito Amato, a «non ravvisare le condizioni di serenità a cui ogni professore ha diritto quanto tiene una lezione all’università».

l’Unità 16.1.08
Tubinga, Quando il ’68 fece scappare il prof. Ratzinger


La contestazione studentesca il professore Joseph Ratzinger l’ha conosciuta direttamente a Tubinga, la prestigiosa università teologica tedesca. Gli anni erano quelli a cavallo del 1968. Trasferitosi nella città sveva da Muster infatti, a tenere i suoi corsi nel semestre estivo del 1966, poco dopo la conclusione del Concilio Vaticano II che lo aveva visto giovane consultore esperto del cardiale Fings. Insegnerà con successo teologia dogmatica. Tra i suoi colleghi docenti di altissimo livello come Hans Kung. Nel suo libro autobiografico «La mia vita» annota il clima, critica un certo «progressismo» che avrebbe finito per mettere tutto in discussione. benché annota «incline alle polemiche». «I segni dei tempi» assumevano già tratti drammatici, annota con una certa preoccupazione. Lo fa richiamando quei «cambiamenti fulminei del paradigma culturale» che segnano l’irrompere della rivoluzione marxista che «scuoteva l’università sino alle sue fondamenta». Cambiamenti che - osserva - finiscono per colpire anche le facoltà di teologia segnate da una politicizzazione ritenuta inaccettabile dal giovane professore. «Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle dato che nel momento del culmine dello scontro ero decano della mia facoltà». Ricorda come «Un piccolo gruppo di impiegati dell’università», una minoranza, ne fossero i responsabili, «erano in grado di condizionare il clima».

l’Unità 16.1.08
Gli studenti prima occupano poi esultano: «Ha vinto la laicità»
di Andrea Carugati


Sono le sette di sera e piove a dirotto sui palazzi e sui viali della Sapienza. Piove sugli striscioni contro il Papa, l’acqua annebbia i contorni delle parole a pennarello rosso, «Resisteremo al papato». Piove sulle aiuole dove gli operai hanno lavorato tutto il giorno perché fossero pronte e scintillanti per l’illustre ospite. Piove sulla cappella dove don Ottavio sta concludendo la messa con parole solenni: «Benediciamo coloro che hanno impedito la nostra gioia, coloro che ci hanno umiliato. Assolviamoci gli uni gli altri». Cita il padre nostro: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi...». Sguardi tristi dei ragazzi seduti sui banchi, preghiere, silenzi.
Meno di due ore prima, poco dopo le cinque del pomeriggio, nell’auletta di Scienze politiche dove gli studenti erano riuniti con i prof di Fisica della lettera «No Ratzinger», fianco a fianco, era arrivata la Notizia: il Papa non viene. Ovazioni, applausi, cori. Abbracci. «È una vittoria della laicità, della ragione, ce l’abbiamo fatta», esulta Francesco Raparelli, dottorando in Filosofia, uno dei leader della protesta. «È una vittoria politica e culturale, l’università pubblica non ha bisogno di benedizioni. Adesso nessuno tocchi la 194 e le libertà sessuali». «Giovedì? Ci saremo lo stesso, sarà una grande festa». «Adesso fermiamo anche l’altro papa, Veltroni», gli fa eco un ragazzo in verde militare che vuole restare anonimo. «Una occasione perduta», commenta nel suo studio il rettore Renato Guarini. «Una sconfitta della libertà di espressione e del mondo laico. Da questa vicenda escono male quelli che l’hanno prodotta, i cattivi maestri. Io ho difeso la libertà di tutti, non ho nulla da rimproverarmi».
Finisce così una giornata lunghissima, iniziata attorno a mezzogiorno, quando un centinaio di studenti dei collettivi (in testa la «Rete per l’autoformazione») ha occupato il rettorato al grido di «Fuori il Papa dall’università» e con gli striscioni «La Sapienza ostaggio del Papa». Tutti abbarbicati attorno al grande tavolo del Senato accademico, su cui hanno appoggiato dei cartelli a pennarello nero. «Più Maria meno Gesù», dei collettivi antiproibizionisti e il romanesco «A Papa, forse non hai capito, nun te volemo!». Obiettivo dell’azione: ottenere un’area all’interno dell’università per manifestare giovedì mattina. «Non ce ne andremo finché non l’avremo ottenuta, no alle zone rosse e alla militarizzazione della Sapienza», assicurano. Parlano Bea e Luana, concetti nettissimi: «Ratzinger nega i diritti delle donne, criminalizza i gay, cosa deve venire a insegnarci?». Sono le due del pomeriggio, arriva la notizia che il rettore intende ricevere una delegazione. I ragazzi, barbette, giacche e maglioni anni 70, spariscono dietro il portone austero di legno scuro. Riemergono dopo una mezz’ora, la ressa di telecamere è incredibile, pare che debba uscire George W. Bush. Invece esce Francesco Raparelli, con aplomb da politico navigato: «Siamo contenti, abbiamo ottenuto uno spazio tra Lettere e la Minerva. Potremo esprimere il nostro dissenso contro un Papa reazionario, contro Mussi e Veltroni». Urla, applausi, cori: «Fuori il Papa dall’università». Non vi sentite un po’ intolleranti?, chiede un cronista. Replica Raparelli: «Non è facile essere laici e tolleranti con chi tollerante e laico non è, con un Papa che attacca le libertà civile e sessuali, un Papa tutto politico». Tocca al rettore dire la sua: «Ho dato agli studenti la possibilità di uno spazio per riunirsi e dialogare delle problematiche di loro interesse», spiega. «Credo nella loro capacità di autocontrollo, non ci saranno poliziotti in assetto antisommossa. Ma non ammetterò alcuna infiltrazione di chi studente non è». Nel frattempo Guarini ha ricevuto una telefonata dal Vaticano in cui ha appreso che l’ipotesi del forfait sta maturando. E dice: «So che nella cerchia del Papa c’è amarezza per quanto sta avvenendo, per questa campagna indegna che è stata montata».
È solo l’antipasto del Grande Rifiuto che due ore dopo sarà ufficiale. Che piomba sul Senato accademico riunito nella sala liberata dagli occupanti. Scuote la testa Massimiliano Rizzo, rappresentante degli studenti: «Un atto di intolleranza». «Una sberla per la Sapienza», dice il preside di Scienze Politiche Fulco Lanchester. Soddisfatto invece Andrea Frova, uno dei fisici più impegnati nella protesta: «È la conclusione migliore che si potesse sperare. Speriamo che sia un primissimo passo avanti per svincolare l’Italia dalla pressione ossessionante del Vaticano, che condiziona la nostra vita politica, sociale e culturale. Un primo passo per l’emancipazione, come è successo in Spagna». Nessuna ombra sulla Sapienza? «Macchè, questo lo dicono i politici che non sanno di cosa parlano. Potrebbero fare leva su di noi per fare dei passi avanti sulla laicità, sulla ricerca, sui Dico, e invece strumentalizzano tutto. Non hanno capito che qui alla Sapienza è emerso un tesoro, un punto di vista indipendente e dignitoso». Nel fronte dei prof. c’è anche prudenza, però. «Da noi critiche alla scelta del rettore, ma nessun intento censorio», precisa Giancarlo Ruocco, direttore del dipartimento di Fisica.
Sono le sette di sera, inizia la veglia di preghiera in cappella. Almeno quella è stata confermata. All’ingresso c’è ancora il librone per le dediche: «Messaggi per la visita del Santo Padre in cappella, 17 gennaio 2008». «Prega per noi», «aiutaci» «portaci una ventata di aria nuova, riscalda i nostri freddi cuori». Una madre scrive: «Sia tollerante con i ragazzi». Sull’altare c’è il cappellano Vincenzo D’Adamo, uomo mite e di larghe vedute, che si era spinto fino ad accettare la «frocessione» degli studenti, «purché non ci siano violenze». «Il Santo Padre ha rinunciato- dice- accogliamo la sua decisione ravvedendo in essa lo spirito evangelico della mitezza, della pace e della intelligenza». Due ragazze, sedute in fondo, scuotono la testa: «Non commentiamo, la nostra risposta è essere qui». Don Edoardo è duro: «Mi vergogno come italiano».

l’Unità 16.1.08
Carlo Bernardini. Macché intolleranza. Disdicevole è chiedere al Papa, intransigente sull’etica, la lectio magistralis
«Non viene? Bene. Sarebbe stato irresponsabile»
di Cristiana Pulcinelli


«Sono contento che Ratzinger non venga. Se avesse provocato tafferugli, lo avrei giudicato peggio che mai: "socialmente irresponsabile per motivi ideologici"». Il fisico Carlo Bernardini chiude con una battuta una storia cominciata qualche giorno fa con la pubblicazione di una lettera indirizzata da un gruppo di docenti al rettore dell’università La Sapienza. Bernardini quella lettera l’aveva firmata. «La lectio magistralis l’anno scorso l’ho fatta io. Quando ho saputo che quest’anno sarebbe stata affidata a Ratzinger la cosa mi ha colpito. L’inaugurazione ha un significato preciso. L’idea su cui viene costruita la lezione magistrale è quella di dare l’indirizzo culturale all’università per l’anno che si sta aprendo. Che questo indirizzo lo desse Ratzinger ci è sembrato disdicevole».
Come ha inizio la storia?
«La storia ha inizio il giorno in cui Marcello Cini è venuto a sapere che si stava discutendo l’ipotesi di far fare la lezione magistrale di inaugurazione dell’anno accademico a Ratzinger. Così ha scritto al Manifesto per esporre il suo dissenso. Noi abbiamo sostenuto la sua iniziativa con una lettera al rettore».
Il problema era Ratzinger?
«Ratzinger non è una figura innocua: il suo atteggiamento verso la scienza è dogmatico, la sua pretesa è quella di un controllo assoluto. Ratzinger è una persona intransigente sui problemi dell’etica legata alla ricerca scientifica e questo è sotto gli occhi di tutti: lo si è visto sulla questione della fecondazione assistita, sulla limitazione dei rapporti sessuali alle sole coppie eterosessuali, sulla questione delle coppie di fatto. Tutte le posizioni della Chiesa su questi temi sono ispirate da lui. In generale, c’è da chiedersi se è mai possibile che un esponente dottrinario di una delle tante religioni locali venga ad inaugurare l’anno accademico all’università, luogo in cui si deposita la conoscenza. Che all’università si insegni la storia delle religioni, va bene. Ma che sia presente la teologia dominante è un’altra cosa. Tanto più che la dottrina rappresentata non è simpatizzante con la conoscenza scientifica le cui basi sono il dubbio e l’incertezza, come dimostra anche l’affermazione fatta dal papa su Galileo che abbiamo citato nella lettera».
Che cosa è accaduto dopo?
«Il rettore forse capì che nasceva un inutile vespaio e decise di cambiare programma: la lezione magistrale è stata chiesta a Mario Caravale e Ratzinger sarebbe stato invitato per parlare della moratoria sulla pena di morte. Rimaneva il rischio che, con l’occasione della pena di morte, il papa parlasse di aborto. Ma decidemmo di soprassedere. In fondo, il papa non avrebbe più dato l’indirizzo: la sua presenza ci avrebbe lasciato liberi di scrivere e dire quello che abbiamo sempre scritto, detto e pensato. Così la lettera non è stata resa pubblica fino a giovedì scorso, quando è riapparsa».
Molti hanno protestato dicendo che l’università è intollerante. Che ne pensa?
«La cosa più giusta l’ha detta Emma Bonino: come fate a dire che l’università ha imbavagliato il papa se parla dappertutto? Io rimango dell’idea che venire a parlare all’università sarebbe stata una scelta inopportuna. Si dice: ciascuno ha il diritto di esprimere la propria opinione. Vero, ma abbiamo anche il diritto di dire che alcune opinioni sono sciocchezze. Se si parte da quel presupposto, infatti, dobbiamo affermare che il diritto di parlare all’università ce l’ha anche l’astrologo o lo sciamano. Se però io nego questo diritto all’astrologo tutti lo trovano ovvio. Il papa sarebbe venuto a parlare in un luogo dove tanti hanno lavorato per anni con tutt’altro spirito da quello che lui incarna».
Cosa dobbiamo imparare da questa vicenda?
«Credo che faremmo bene a riflettere: questi rigurgiti di religiosità ci porteranno ad obbedienze che dovrebbero essere da sempre estranee alla nostra civiltà».

l’Unità 16.1.08
Io Herzog terzino destro del cinema
di Dario Zonta


CINEMA Il grande regista è a Torino il cui Museo del cinema gli ha dedicato una retrospettiva globale. Sempre simpatico e intelligente, Herzog parla volentieri della sua passione per Franco Baresi, difensore che sa intuire lo spazio di gioco oltre la palla...

Ascoltare Werner Herzog è sorprendente come vedere i suoi film. Ne abbiamo avuto conferma durante l’incontro tenutosi a Torino in occasione della presentazione alla stampa della retrospettiva «Segni di vita. Werner Herzog e il cinema», un evento importante che raccoglie per la prima volta, tutti i suoi film, 52 in 45 anni di carriera. Il regista tedesco ha regalato all’uditorio quasi un’ora di libera ed entusiasmante conversazione sui temi dell’arte, del cinema, della musica, della filosofia... Quell’universo immaginifico e reale che gira intorno alla sua esperienza di cineasta. Con un inglese teutonico, a volte buffo, ma con la profondità di un filosofo tedesco, Herzog ha ripetuto con le sue parole il gesto che lo ha reso regista e incantatore.
Per spiegare in parte il segreto della sua formula, il perché le sue immagini sembrano «mai viste così», si è lanciato in una metafora calcistica: «Mi piace dei calciatori la comprensione dello spazio, anche quando non giocano la palla. Il migliore in questo senso era Franco Baresi, il senso della posizione e dello spazio, il muoversi e cercare la posizione giusta». Un inedito e sornione, «Herzog esperto di calcio» ci regala una metafora lampante del suo cinema. Il campo di calcio è il mondo delle immagini, ma il suo cinema non segue la palla (come fa l’altro cinema), bensì il giocatore che l’attende, quell’uno che studia lo spazio, «solo» ma con una visione.
I film di Herzog, dagli esordi di Segni di vita fino all’ultimissimo Incontri alla fine del mondo, sono una continua estatica scoperta del mondo e dei suoi personaggi visti attraverso un’ottica inconsueta, un punto di vista originale. Al proposito Herzog ha teorie illuminanti, allorquando dice che «esiste una visione collettiva inconscia. È come se ci fossero immagini in ognuno di noi. Il cinema come la pittura è in grado, a volte, di attivarle. Ad esempio, la Cappella Sistina di Michelangelo ha svelato a tutti noi un pathos prima sconosciuto. Michelangelo l’ha reso visibile ad ognuno di noi. La scoperta di una visione collettiva è il cinema, quando è grande».
E non a caso l’estasi è uno dei concetti più approfonditi dal regista tedesco. Allora vengono in mente le sue tante immagini che hanno cercato di riprodurre l’estasi, che hanno portato la percezione della visione un passo oltre il visibile. In uno dei suoi documentari, La grande estasi dell’intagliatore Steiner, storia del campione di salto con gli sci Walter Steiner, Herzog cerca di soppesare l’invisibile rallentando fino a trentacinque volte quel volo. Ma inane è il tentativo di mostrare l’invisibile.
Ma con quali strumenti Herzog cerca di estrapolare la trasparenza e il sublime? Le ottiche non sono sufficienti, come anche i ralentì, «ci vuole la musica e la letteratura. Di questo omaggio a me dedicato - afferma Herzog - la cosa più segreta e bella è il cine-concerto che si terrà al Piccolo Regio. Per l’occasione ho montato nuove sequenze da L’ignoto spazio profondo e Il diamante bianco, proiettate insieme alle musiche dal vivo eseguite dall’ensemble formato dal violoncellista olandese Ernst Reijseger, dal cantante senegalese Mola Sylla e dal quintetto di voci sarde Tenore e Cuncordu de Orosei». Questa esperienza cine musicale, che avrà per titolo Requiem For a Dying Placet, promette di essere una delle sorprese di questo evento. L’altra è stata la proiezione in anteprima italiana di Incontri alla fine del mondo. Ne abbiamo parlato qualche settimana fa su queste colonne, dando cronaca della proiezione tenutasi ad Amsterdam. È l’ultima fatica di Herzog che ha raggiunto il Polo Sud per filmare la comunità di ricercatori, scienziati e avventurieri che abita la remota stazione McMurdo, nei pressi di Ross Island, in Antartica. Con questo film Herzog completa la sua «missione» romantica di toccare ogni parte del globo (anche lo spazio profondo e i mari sotto la calotta), ma «non c’è niente di romantico all’Antartico - risponde Herzog -, il romanticismo era al tempo delle prime spedizioni. Ora alla base McMurdo, data in appalto a una società da Pentagono, ci sono le stanze per fare yoga e il bancomat». Ma non è certo andato al termine della notte per scoprire il ripetersi della civiltà in condizioni estreme, bensì per mostrare, anche, il suicidio di un pinguino che corre verso i monti anziché in mare, il suicidio del mondo. «Il film dice, io dico, che l’uomo sarà la prossima catastrofe nel mondo. Scomparirà, come le lingue cha ha prodotto. Uno dei personaggi, un linguista scappato al Polo, ci dice che nell’arco della vita biologica di un uomo scompaiono il 90% delle lingue del mondo. Capite quanto sia scioccante questa rivelazione». Non sembri che Herzog sia un cupo indagatore delle tristi sorti del mondo, Incontri è anche un film tremendamente divertente e ironico, come il suo regista. Che, per il suo prossimo lavoro, annuncia mete più abbordabili: «Parigi o Londra».

l’Unità 16.1.08
L’India moderna nasce in famiglia
di Sudhir Kakar


SARI E BLUE JEANS: sono le donne il motore del cambiamento in corso nel grande paese perché spetta a loro educare i figli. Ne parlerà a Torino lo scrittore e psicoanalista indiano Kakar, tra gli ospiti di un convegno organizzato dal Grinzane

L’India era e continua ad essere una società patriarcale nella quale in linea generale le donne vivono in una condizione di subordinazione e di mancanza di potere. E non di meno osservare le donne indiane solamente attraverso la lente del patriarcato ci consegna una fotografia che presenta una superficiale somiglianza con le foto delle donne che vivono in altre società patriarcali, per il semplice fatto che l’immagine è sfocata e indistinta. Se invece usiamo lo zoom della cultura indiana (e del suo fermento contemporaneo) la foto diventa più nitida e ricca di sfumature in quanto emergono inattesi particolari in contrasto con i presupposti del patriarcato. Le analogie con le donne di altre società patriarcali non scompaiono, ma sono controbilanciate e, in alcuni punti della fotografia, soverchiate dalle differenze. Ad esempio in India la casta prevale quasi sempre sulla differenza di genere nel senso che una donna bramina ha una condizione sociale superiore ad un uomo appartenente ad una casta inferiore. O, per fare un altro esempio, il potente ruolo svolto dalle dee-madri nell’immaginario culturale indiano - e dalle madri nel mondo interiore dei loro figli - impregna il dominio maschile con i colori emotivi della paura, della soggezione, del desiderio, della resa e via dicendo, normalmente assenti nella limitata tavolozza delle spiegazioni patriarcali. L’interazione tra valori universali patriarcali, cultura indiana e cambiamento storico sulla scia dell’incontro dell’India con l’Occidente è chiaramente visibile nel caso della moderna donna indiana urbana.
Le donne urbane, di casta elevata e istruite cominciarono a lavorare fuori casa in numero significativo solo dopo gli anni ’40. In precedenza sarebbe stato impensabile che una ragazza di famiglia rispettabile facesse il suo ingresso nel mondo del lavoro e cercasse una occupazione. Questo processo delle donne della classe media che lavorano in cambio di uno stipendio ha subito una accelerazione a partire dagli anni ’70 principalmente per due ragioni: in primo luogo è cambiata la tradizionale concezione dell’educazione di una figlia e ora si incoraggiano le ragazze ad accedere ai livelli più alti dell’istruzione rendendo possibile la loro partecipazione a lavori socialmente rispettabili e, in secondo luogo, i crescenti bisogni finanziari delle famiglie della classe media, in parte riconducibili alla maggiore spinta e propensione al consumo, fanno sì che venga accettato con piacere il contributo della donna al reddito della famiglia.
La maggior parte delle donne istruite della classe media svolgono mansioni impiegatizie di livello medio-basso come segretarie, operatrici telefoniche o, se vogliono guadagnare di più, impiegate nei call center che spuntano come funghi. Le donne professionalmente qualificate insegnano nelle scuole primarie o secondarie e nelle università, lavorano come medici o come ricercatrici. Nell’ultimo decennio un numero limitato, ma significativo di donne della classe media hanno abbandonato quelle che a lungo sono state considerate occupazioni adatte alle donne per entrare nei settori della pubblicità, del software per computer, della gestione aziendale e per creare piccole imprese. La maggior parte di queste donne investono nella loro carriera molto più di quanto fanno la maggior parte degli uomini della classe media.
Le donne che svolgono o hanno svolto in passato un lavoro retribuito, ritengono che, rispetto alle loro madri, il più elevato livello di istruzione e le qualificazioni professionali hanno avuto una significativa influenza nel determinare un miglioramento della loro condizione sociale e dell’auto-stima. È palese tra le donne che continuano a lavorare la soddisfazione che deriva dalla libertà di movimento e dalla sensazione di indipendenza garantite dal lavoro. Persino la donna della classe media che non lavora esibisce una fiducia in se stessa superiore a quella della generazione di sua madre. È convinta di avere un maggiore controllo sul suo destino proprio in quanto l’istruzione ricevuta le consentirà di entrare nel mercato del lavoro qualora ne avvertisse la necessità. Avere un lavoro non è tanto importante ai fini della sua auto-stima quanto per il fatto di garantire alla donna la consapevolezza che è qualificata a svolgerlo.
Come è logico aspettarsi, l’interesse della donna della classe media per le questioni sociali, culturali e politiche – seguite attraverso la televisione, la lettura delle riviste e, in misura minore, dei quotidiani – è molto maggiore di quello della donna tradizionale. D’altro canto la donna della classe media è più sola della donna tradizionale. Quest’ultima, completamente immersa nella vita familiare e in ambiti ben precisi delle attività domestiche, sociali e rituali svolte all’interno di comunità di donne, dedica alla famiglia tutte le sue energie e soddisfa in essa la maggior parte dei suoi bisogni di amicizia ed intimità. I legami con la famiglia – sia sua che di suo marito - della moderna donna della classe media sono più deboli, le sue amicizie hanno un maggiore carattere di discontinuità e il suo ambiente sociale è più ristretto. L’intimità che manca nella sua vita viene chiesta sempre più spesso al marito che, con un po’ di fortuna, la concede.
La tradizione continua ad esercitare la sua influenza nella mente della donna della classe media nel senso che considera ancora i suoi doveri domestici e materni un elemento centrale della sua identità. Ciò vale per la casalinga quanto per la donna in carriera ad alto livello. La norma sociale tradizionale secondo cui il primo impegno della donna deve essere quello verso i suoi figli e il secondo quello verso il marito, non sembra influenzata dalla condizione lavorativa o dal livello di istruzione della donna. Le donne che lavorano e che sono contente della loro carriera non di meno considerano ancora la cura dei figli il massimo obiettivo della vita di una donna.
A questo proposito è del tutto manifesto un grave ritardo tra i valori delle mogli e dei mariti della classe media. In uno studio condotto a Bangalore quindici anni fa la maggior delle mogli assegnavano un valore molto alto agli scopi tradizionali del matrimonio: i bambini, l’amore e l’affetto, il soddisfacimento dei bisogni sessuali del marito (ma non dei loro). I mariti, invece, assegnavano più importanza delle mogli agli obiettivi di un matrimonio apparentemente più moderno: una vita comoda, l’amicizia tra coniugi, il soddisfacimento dei bisogni sessuali di entrambi. Forse con l’eccezione delle donne appartenenti al ceto medio-alto, ho l’impressione che ciò che le donne si aspettano consapevolmente dal matrimonio non sia cambiato in misura significativa.
Per certi versi la donna della classe media, che lavori o meno, ha i figli al centro della sua vita più della donna tradizionale. Ad esempio, si è accollata la principale responsabilità dell’istruzione dei suoi figli piccoli e svolge un ruolo chiave nell’organizzare le attività ricreative dei figli, ambiti riservati in passato al marito o ai membri più anziani della famiglia allargata. La vita della donna che non lavora sembra completamente organizzata intorno ai bisogni dei figli, il ritmo della giornata è determinato dalle loro varie attività. I successi dei figli, specialmente in campo scolastico, sono il principale motivo di soddisfazione e di conferma della sua femminilità. Che lavori o meno, il ruolo materno della donna della classe media non è una imposizione, ma una scelta libera e fatta con gioia; la maternità resta il momento culminante di una vita realizzata.
È questa, quindi, la donna indiana moderna: con il suo sari bianco di cotone, in un momento, intenta a svolgere un rituale antichissimo con un attenzione al dettaglio che, al tempo stesso, la assorbe e la rallegra e con un vecchio paio di blue jeans, in un altro momento, distesa su un divano a guardare una soap opera sugli intrighi familiari con una concentrazione che le illumina il viso. La donna è una forza trainante dei cambiamenti in corso nella famiglia indiana, una istituzione intrinsecamente conservatrice che cambia con un ritmo molto più lento rispetto alla politica, all’economia e alle altre istituzioni della società. Inoltre la donna della classe media sta spingendo la famiglia, lentamente ma con decisione, verso un maggiore riconoscimento, magari accettato controvoglia, dell’importanza (se non della supremazia) del legame coniugale. Una maggiore individuazione del figlio sarà una conseguenza di questa nuclearizzazione psicologica all’interno della famiglia allargata e porterà anche ad una esplosione dei piaceri e dei mali dell’individualismo.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 16.1.08
Ecco come fu mandato al rogo Giordano Bruno

Caro Unità,
nell’articolo di Andrea Carugati apparso ieri a proposito della visita di Ratzinger alla Sapienza, si legge «In un’aula del primo piano di Fisica (...) va in onda il film “Vita di Galileo” (...) Mentre dalla sala-cinema arrivano le urla di Giordano Bruno al rogo». Ecco, vorrei solo ricordare che in verità a Giordano Bruno, frate domenicano, non fu concesso neppure di urlare mentre il fuoco lo divorava vivo, in quanto egli fu prima torturato a lungo sapientemente e scientificamente, come solo l’Inquisizione sapeva fare e gli fu strappata la lingua affinchè non potesse più parlare (dato che non fece abiura) e neppure urlare... e affinché ciò fosse certo, lo condussero verso il suo martirio e messo al rogo con la mordacchia. Di questo è stata capace la Santa Romana Chiesa a differenza dell’Illuminismo e ateismo che hanno lasciato solo macerie (Benedetto XVI dixit).
Salvo Gensabella, Catania

Repubblica 16.1.08
Situazionismo. Lo stupore dei cinesi. Eccedi, sottrai, crea
Gli studenti festeggiano per la rinuncia di Ratzinger dopo aver occupato il Senato Accademico e strappato l´autorizzazione al sit in
Pugni chiusi e coro di "augh" l’assemblea canta vittoria "Davide ha sconfitto Golia"
E ora nel mirino finiscono Veltroni e Mussi

di Francesco Bei

Abbiamo vinto soprattutto grazie alla determinazione e al situazionismo
Sorry, ma davvero in Italia si può protestare contro il Santo Padre?
L’acronimo Esc del nostro collettivo significa eccedi, sottrai, crea

ROMA - Piano terra di Scienze politiche, aula professori, assemblea degli studenti. Un portatile nero, al tavolo della presidenza, è acceso, collegato alle agenzie di stampa. Sono le cinque della sera: Giorgio sbianca e si avvicina a Francesco, gli sussurra qualcosa all´orecchio. Anche Tatiana capisce che sta succedendo l´inimmaginabile, ma non ci vogliono credere. Parte qualche telefonata ai giornalisti, arrivano le conferme: «Ratzinger non verrà, ha rinunciato!». La piccola sala stipata di gente, un centinaio di studenti e qualche professore, esplode in urla e applausi. «Fuori il papa dall´Università-fuori il Papa dall´Università», tutti si abbracciano, si baciano. Poi, come indiani metropolitani, parte prima piano, poi sempre più forte, un coro di «Augh!». Tutti insieme, col braccio destro alzato e il pugno chiuso: «Augh!, Augh! Augh!». Gli indiani hanno battuto il generale Custer. Anzi, per dirla con Francesco Brancaccio, uno dei leader della rivolta, «Davide ha sconfitto Golia». Con quali armi? «Quelle di sempre, determinazione, spontaneità e un pizzico di situazionismo».
Sbaglia il rettore Guarini a definire questi studenti «solo una minoranza». In realtà quelli che hanno occupato la mattina il Senato Accademico, quelli che gli hanno strappato l´autorizzazione al sit-in contro Ratzinger, in definitiva quelli che hanno armato l´escalation finale sono una minoranza della minoranza. Ma sono capaci e creativi, sanno manipolare i media, dicono ai giornalisti le cose che i giornalisti vogliono sentirsi dire, sanno trattare con la Digos come politici consumati. Si chiamano "Rete per l´autoformazione", un organismo romano nato nell´autunno del 2005 dalle occupazioni delle facolta contro la Moratti. A loro volta sono inseriti in un «network» (lo chiamano così) più grande, nazionale, che fa capo al sito uniriot.org. Non fanno grandi differenze fra destra e sinistra. Sono gli stessi, per capirsi, che hanno fischiato Bertinotti al grido di «guerrafondaio e buffone» quando si è presentato alla Sapienza lo scorso anno. A Roma sono un centinaio, che si ritrovano al centro sociale "Esc" a San Lorenzo. «Esc - ti spiegano - come il tasto della tastiera del Pc, nel senso di "esci dal sistema". Ma anche come acronimo di Eccedi, Sottrai, Crea». Sono loro, mentre il coordinamento dei collettivi si accontenterebbe di manifestare fuori dalla città universitaria, a compiere il blitz di mezzogiorno nel palazzo del rettorato per «pretendere che venga autorizzata una nostra presenza, giovedì mattina, all´interno delle mura della Sapienza. Il Papa può parlare, ma non può pretendere di cacciare gli studenti dall´Università».
Saranno al massimo una quarantina, tutti ventenni, tutti studenti, apparentemente nessun cattivo maestro. Il dirigente del primo commissariato di Ps è incaricato di parlamentare con gli "okkupanti" e li tratta con rispetto: «State tranquilli, non consentirò interventi finché non parlerete con il Rettore. La vostra protesta pacifica deve svolgersi in maniera regolare». Loro ci restano pure un po´ male, nessuno li sgombra con la forza. «Ma quali cariche? A parte il fatto che anch´io da studente ero un po´ discolo - confessa il poliziotto - ma tra loro potrebbe esserci pure mia figlia».
Fuori dal Rettorato, nonostante da dentro urlino con il megafono che «la Sapienza è ostaggio del Papa», non sembra che la massa degli studenti sia particolarmente appassionata al tema. «Ci sono gli esami alle porte», quasi si giustifica una ragazza affrettando il passo. Tre cinesi riprendono la scena dell´occupazione con una telecamerina: «Sorry, ma davvero in Italia si può protestare contro il Papa?». Alle tre il rettore concede lo spazio per il sit-in, alla cinque Ratzinger rinuncia.
La «vittoria» è dunque raggiunta, al di là di ogni loro speranza, «la Minerva è libera dal Papa». E dunque ora pensano a come gestirla questa «vittoria», a non sciuparla. Fuori piove, ormai è notte, l´assemblea a Scienze politiche prosegue. Con chi prendersela adesso? «Il Papa non verrà, ma Mussi e Veltroni sì. E noi - annuncia Giorgio Sestili, del coordinamento dei collettivi, 23 anni, iscritto a Fisica - manifesteremo contro di loro. Mussi è un ministro devastante: non ha abrogato la riforma Moratti e ha allargato il numero chiuso a tutte le lauree specialistiche». Gessato grigio con polo rossa, stile metrosexual, Francesco Raparelli è un altro leader dell´ala dura: «Il centrosinistra non ha fatto nulla per l´università. Siamo arrivati al punto che, se i ricercatori avranno un aumento, dovremo dire grazie a un emendamento di An». E Veltroni che c´entra? «E lui il leader del Pd, no? E poi, con il pacchetto sicurezza, ha dato il via alla stretta securitaria».
Mentre gli studenti anticlericali si abbracciano di gioia, alla veglia dei cattolici nella cappella universitaria, c´è invece rabbia e mestizia. «Con il suo bel gesto Ratzinger - sostiene Alessandra Amendola - dimostra di non voler imporre né la sua presenza né il suo pensiero». Indignato è Gianluca Senatore, area Pd, uno dei due rappresentanti degli studenti che avrebbe dovuto parlare di fronte al Papa: «Saremmo pronti a raccogliere almeno 130 mila firme di studenti favorevoli alla visita del Papa se questo potesse fargli cambiare idea».

Repubblica 16.1.08
La rinuncia del Papa alla Sapienza riaccende un conflitto che ha le radici nella storia
Lepanto, Porta Pia e ora Ratzinger. l’Italia divisa nel nome di Benedetto
di Filippo Ceccarelli


Il doppio volto del Pontefice: persona mite che però da tre anni causa lacerazioni
Teatro della "deflagrazione" è l´ateneo che vide sommosse già nel pre-fascismo

Quante divisioni ha il Papa? chiedeva sprezzante Giuseppe Stalin. Ma quante divisioni si stanno creando, con questo Papa, in Italia, dove le cose non è che fossero già molto semplici, né ordinate, né promettenti, tantomeno pacifiche. Può sembrare ingiusto notarlo dopo che Benedetto XVI ha dovuto rinunciare alla sua visita all´Università di Roma per l´ostilità venutasi a creare lì dentro.
E tuttavia proprio questo suo gesto, anche prudente, questa amara rinuncia ad alto impatto politico e mediatico ha il potere di illuminare più di mille cartelli irriverenti e più di cento dichiarazioni vittimistiche, il nuovo conflitto antico che segnerà un prossimo futuro debitamente rivolto all´indietro, una specie di guerra di religione all´italiana, ora buffa, ora drammatica, comunque inutile ed esagerata come tutte le guerre.
Pare incredibile, la vita pubblica italiana: Lepanto e Porta Pia, ingiurie blasfeme e preghiere mirate, e veglie, processioni, pellegrinaggi, croci al collo e crocette all´occhiello dei leader, Calderoli crociato, Fini templare, Volontè che dà alle stampe un libretto intitolato «Furore giacobino», Mastella che evoca la figura del beato Bartolo Longo (1841-1926), che dall´anticlericalismo e dallo spiritismo si slanciò per le vie dell´eroismo cristiano fino a far sorgere il Santuario di Pompei. Le sacre immagini che tornano sugli stendardi, la corrente laica del Partito democratico, la Binetti che prega a ginocchioni nella chiesa vicina al loft , Pera che invoca il Sant´Uffizio contro i francescani giocherelloni, la «frocessione» di gay travestiti da suore o da vescovi e i manifesti, a Roma, di un´organizzazione che si chiama il Trifoglio, alcuni pure in latino, e che contemplano uno dopo l´altro tutti e dieci i comandamenti - sono arrivati al quarto, «Onora il Padre e la Madre», che sarebbe, anzi è un sacrosanto dovere, ma forse non sarà la propaganda politica sui muri a farlo rispettare.
Dice: non lo volevano far parlare. Vero. Potere chiama potere, come intolleranza chiama intolleranza. Il quarantennio democristiano ha intorpidito i ricordi degli scontri tra sanfedisti e giacobini, laicisti e anticlericali. Se si allunga il tavolo dello storia non è il primo Papa ad averne sofferto. Pio IX i liberali sostenevano che portasse jella e tentarono addirittura di gettarne il cadavere nel Tevere. Pio XI se la vide con i fascisti. Di Pio XII una deputata del Pci, Laura Diaz, disse che aveva «le mani sporche di sangue». Paolo VI fu aggredito sul piano personale per una presunta omosessualità. E quando all´inizio del suo pontificato Giovanni Paolo II fece qualche uscita controversa, provò Bettino Craxi a dargli una regolata sostenendo che leggeva la realtà italiana con «lenti polacche».
E dire che il Pontefice dovrebbe essere figura di pace, agnello fra i lupi. E magari lo è pure, Papa Benedetto, personalmente, intimamente, un uomo «mite, colto e sensibile», come lo ha dipinto Giuliano Ferrara, un intellettuale vero, un teologo, un filosofo, perciò curioso degli altri e forse pure aperto alle loro ragioni. E invece no. Saranno diventati di colpo cattivi, ma da quando Joseph Ratzinger è asceso al Soglio, ormai quasi tre anni orsono, sembra che gli italiani abbiano una ragione in più per polemizzare, litigare e adesso anche lacerarsi, e quindi esultare, offendere, vergognarsi, inventare pretesti, darsi addosso come allo stadio.
Passeggiando ieri mattina per i viali dell´ateneo capitolino, che la pioggia invernale e le transenne d´occasione rendevano ancora più brutti, veniva in mente che non sempre la «Sapienza», che dopo tutto i Papi hanno fondato, è stata autentica sede di sapienza. E di prudenza. Anzi, la "Sapienza" è sempre stato un ragguardevole laboratorio di effervescenza sociale, per non dire di rivolta giovanile. L´insigne professor Guarini, principe della Statistica, che chissà per quali nobili o recondite ragioni ha avuto la bella idea dell´invito, potrebbe utilmente valutare la regolarità delle sommosse che ciclicamente si dipartono avendo la «Sapienza» come infiammatissimo epicentro: da quelle interventiste a quelle fasciste, dall´uccisione in loco di Paolo Rossi (aprile 1966, vero preludio del Sessantotto) al Lama cacciato del Settantasette dopo la sparatoria del febbraio, a parte le varie «pantere», il costo dei libri, la rapina degli affitti e sub-affitti e l´obiettiva condizione di disagio che accoglie i ventenni nell´era di san Precario e della flessibilità.
Poca tensione comunque si respirava ieri, a parte striscioni «creativi» e scontati lenzuoli. Colpiva piuttosto l´esiguità dei giovani contestatori e la simmetrica abbondanza dei giornalisti che, nell´occupazione soft del Rettorato, rischiavano di intervistarsi l´un l´altro. Gli zainetti sull´enorme tavolone del Senato accademico, il polveroso stendardo accademico, la megafonata d´antan alla finestra, la pendola scarica o rotta, un paio di ragazzi-capetti molto gentili e preparati, si direbbe pronti per i talk-show, l´orrido e gelido connubio marmo-legno e alcuni temerari burocrati che scivolavano per i corridoi di quell´edificio negletto, e nei cui occhi si potevano leggere i più inconfessabili interessi: beghe di potere, concorsi taroccati, nepotismi, parcheggi. E adesso, sembravano dire, gli mancava solo questa storia del Papa.
Questo Papa, però. Perché la funzione è sempre quella, si sa, ma i Papi nella cronaca come nella storia non sono mica tutti uguali. E infatti quest´ultimo, per dirla chiara, più che come un capo spirituale (come era vissuto il penultimo, Karol Wojtyla), è vissuto da un pezzo di paese come un capo politico, per giunta del genere dei restauratori e degli intransigenti. E anche qui, a voler essere meno trancianti: forse non lo è nemmeno, Papa Ratzinger; forse è più interessato alla liturgia che alla teocrazia; forse è il sistema e l´automatismo dei media che lo costringono in quella gabbia; forse non basta che Celentano lo qualifichi «rock» o Libero osservi che «Papa Benedetto fa paura a chi non ha più nulla da dire e vuole solo demolire l´Occidente».
Ma certo non gli giova che a sinistra i teo-dem si proclamino, letteralmente, «guardie svizzere»; o che a destra, dopo aver preso le misure di un «partito incazzato e con la bava alla bocca», la Santanché se ne esca: «Questo Papa ha una forza pazzesca, ci esalta, è il migliore che potevamo avere». Lo Spirito Santo che lo ha scelto, rischia così di entrare, anzi di essere trascinato nel già cospicuo armamentario. Insieme con l´anima, l´ateismo, il diavolo, la legge di natura, la famiglia perfetta, il relativismo, il Concordato, i principi irrinunciabili, le radici cristiane, la verginità, la sacra fiction tv, il crocifisso di battaglia, il presepe contundente, il documento esplosivo sui preti pedofili, don Pierino e i matrimoni misti. Insomma, i «valori». Di solito più predicati che praticati, ma anche per questo eccezionalmente gettonati nel nuovo inutile conflitto che non costa nulla, però fa male lo stesso.

Repubblica 16.1.08
Il ritorno del diavolo
Dopo la denuncia del cardinale Poletto, siamo andati a trovare i preti inviati a combattere il Demonio. Ecco la loro nuova guerra
di Maurizio Crosetti


Lui è tornato. Ma era mai andato via? E non ha gli zoccoli, non ha la barbetta caprina, non ha la coda a punta, non ha le corna, non è scarlatto e non sputa fuoco. Però, se vuole far soffrire la gente ne sa una più di se stesso. Va forte, il diavolo. È di gran moda. C´è la fila, davanti alla porta degli esorcisti. «Ma a volte, chi bussa avrebbe più bisogno di uno psichiatra che di un prete». Lo dice il cardinale Severino Poletto, arcivescovo della "satanica" Torino. «Il maligno esiste, però non bisogna tirarlo in ballo tutti i momenti. E la preghiera non è una magia».
Difficile segnare il confine tra ossessione e possessione, tra malattia della mente e dolore dell´anima. Soprattutto in questi tempi di maghi self-service e fattucchiere, una mente debole e confusa può perdere l´orientamento. Di sicuro la Chiesa non sottovaluta il problema: Benedetto XVI ha ordinato ai vescovi di istituire almeno un esorcista per ogni diocesi. E Torino, che su certi temi non si fa mancare niente, ne ha addirittura cinque. «La norma esiste» ha spiegato padre Gabriele Amorth, decano della categoria, tra i più noti esorcisti d´Europa, «ma molti porporati la ignorano perché essi per primi non credono nell´esistenza del diavolo». Padre Amorth, per la cronaca, è colui che disse che il venti per cento dei romani avrebbe contatti col diavolo.
Figura ammantata di mistero e circonfusa di sinistro terrore, l´esorcista paga ancora dazio a quel famoso film e convive con un´immagine non proprio rasserenante tra chiodi sputati, convulsioni, voci gutturali e bave alla bocca. Visto come un centauro, mezzo sciamano e mezzo arcangelo, un po´ stregone e un po´ amuleto, viene ormai scambiato per uno sportello di salute mentale da chi nemmeno sa di essere malato.
Secondo il Diritto Canonico, canone 1172, egli "deve essere un sacerdote che si distingua per pietà, scienza, prudenza e integrità di vita". Siccome non esiste un master in esorcismo, spesso è costretto ad arrangiarsi alla scuola dell´esperienza, facoltà destinata a mandare fuori corso tutti i suoi iscritti.
«Non è facile, si fa fatica, si rema contro ma si hanno anche delle belle soddisfazioni». Eccolo qui, l´esorcista. Ma don Pietro non è mica uscito da una mente di Hollywood, sembra anzi un mite curato di campagna. Ha settant´anni, anche se duella di fioretto e sciabola col principe delle tenebre da appena una ventina di mesi. Lui e gli altri quattro moschettieri della fede, che il cardinale Poletto ha nominato ben consapevole di non essere il ministro della Sanità. La cadenza della voce è pacata, l´accento piemontese marcato. E zero effetti speciali.
«Di indemoniati non ne ho ancora visti, neppure uno. Ma ho conosciuto tanto dolore, anche fisico. Un dolore enorme. Vengono da me dopo essersi confidati col loro parroco, e mi ripetono di sentirsi la testa spaccata. Hanno male dentro, e io ho imparato che a molti di loro serve più che altro un bravo medico. Infatti collaboro con un amico psichiatra». Prima di Dio, il litio. O comunque un lungo viaggio nell´analisi. Il problema è che il malato raramente si fida e s´abbandona. «Spesso, quelli che credono di essere posseduti dal maligno mi confessano di essere già stati dallo psicologo o dallo psichiatra: il guaio è che non hanno accettato di curarsi. Non vomitano chiodi, semmai le medicine. Poi parlo con i parenti e saltano fuori patologie ereditarie, storie vecchie di decenni».
L´indemoniato-tipo è un soggetto difficile da classificare. Non solo giovani, non solo anziani. Soprattutto, non solo poveracci. «Ah, non si creda. Ho visto parecchi professionisti, gente colta, persino personaggi con responsabilità pubbliche». Oddìo, i manager torinesi posseduti da Satana? «C´è di tutto. E quasi tutti, purtroppo, dicono di sentirsi meglio dopo la preghiera, come se avessero bevuto la pozione magica. Una visione della fede pericolosissima».
Sono trecento, in Italia, i preti che fanno a pugni con il diavolo. In teoria dovrebbero vedersela con tentazioni, oppressioni, vessazioni, ossessioni e possessioni, invece si trovano quasi sempre alle prese con una diagnosi che non è nelle loro competenze formulare. Le statistiche della Chiesa dicono che solo quattro o cinque persone su cento sono effettivamente possedute dal maligno, percentuale che sembrerebbe abbassarsi nella città delle messe nere e del triangolo magico. Torino, appunto. Qui, dove quasi bruciò la Sindone. Qui, dove 64 persone morirono nel cinema Statuto che proiettava La capra, simbolo diabolico, nel 1983. Qui, dove per una tragedia del fuoco non c´è purtroppo bisogno di scomodare l´inferno di Dante, basta e avanza quello delle acciaierie.
«Il diavolo è anche un po´ una moda» dice don Pietro. «Certo che esiste, ma non come lo immaginano questi ragazzotti che fanno le orge e prendono sostanze strane. La suggestione di Torino magica e altre scemenze simili fa presa su menti fragili, su persone vittime di un´enorme debolezza affettiva. Perché l´idea della possessione diabolica si manifesta quando manca l´amore, quando nessuno ti ha mai voluto davvero bene. Il crollo della famiglia spiega molte cose».
La scenografia infernale, derivi o meno da suggestioni e immaginario collettivo, procede con la classica sequenza di isterismi, allucinazioni, mania di persecuzione e perdita totale dell´autocontrollo. Ma da quale sottosuolo mentale proviene tutto questo? Da quale abisso? «Spiace dirlo, ma c´è anche tanta ignoranza. Noi esorcisti ci confrontiamo a volte con forme di religiosità primordiale, a metà strada tra luogo comune e superstizione. L´idea del malocchio e delle fatture appartiene a una mentalità meridionale, non so come spiegarlo diversamente ma è così. Provo a convincere queste persone che le maledizioni non esistono, le benedizioni invece sì. Io non parlo col diavolo, semmai con Dio. E sapeste quanti giovani arrivano qui, dopo essersi fatti il giro di maghi e santoni. Gente che li sfrutta e li debilita nel corpo e nel portafoglio. Povera umanità, altro che inferno».
Lui è tornato. Ma non è che stiamo tornando noi nel Medioevo? Per intanto, Papa Ratzinger incoraggia la diffusione della preghiera esorcista a San Michele Arcangelo, da recitarsi al termine della liturgia (spalle ai fedeli?), istituita da Leone XIII alla fine del 1800 e abolita dal Concilio Vaticano II. Di sicuro, Benedetto XVI col diavolo non scherza, e non dubita della sua pericolosità sin dai tempi in cui era Prefetto dell´ex Sant´Uffizio. All´inizio del suo pontificato, aveva ricevuto in udienza gli esorcisti di tutta Europa. Ancora non c´era tra loro don Pietro, con i suoi settant´anni di fatiche e lotte. «Mai avrei pensato che mi sarebbe toccato un compito simile. Le manifestazioni del maligno non le ho mai viste, chiodi o cose del genere. Ma so che queste persone sono sofferenti e bisognose d´aiuto più di tutte: la loro realtà è terribile, spaventosa. Come spiega la Chiesa, sono i più poveri tra i poveri. Non mangiano, non dormono, tentano di uccidersi. Qualcuno si affida a un medico e guarisce, qualcun altro comincia un percorso di conversione e si rasserena, però la fede non è mai magica».
Forse il diavolo è tornato anche perché con lui e grazie a lui si fanno affari maligni niente male. Se il lavoro va male, se l´amore non funziona, se il vicino di casa ti odia, se il tuo capo ti emargina è sempre possibile che qualcuno ti abbia lanciato una maledizione. E se gli esperti contro Belzebù si travestono da maghi, l´onorario sarà salato. Se indossano un camice bianco, bisogna fidarsi e seguire con scrupolo le prescrizioni. Se, invece, hanno solo una lunga tonaca nera abbottonata, il viaggio sarà più lungo e complesso, senza scorciatoie. «La psiche e l´anima non sono la stessa cosa» dice don Pietro, tormentandosi le mani. «L´anima è più alta e nello stesso tempo più profonda, perché anela a Dio. Però, quanta confusione sotto il cielo! Ho visto persone passare da un esorcista all´altro come se questi fossero specialisti dell´Asl, e ho sentito sacerdoti consigliare la pratica come se si trattasse di prendere una pastiglia. Ho imparato una cosa, in questo anno e mezzo di servizio: è molto più facile incontrare un malato di mente che un indemoniato. Bisogna sapere distinguere, ma questo vale anche nel confessionale. E non si deve avere paura di chi sta male». Ecco, lui è tornato perché non era mai andato via. Si chiama dolore. È l´altro nome del diavolo.

Repubblica 16.1.08
Dal caprone all'immateriale così cambia il look del maligno
di Marino Niola


Il diavolo diventa psicosi e l´esorcista prende il posto dell´analista. Sono sempre di più le persone che considerano il demonio responsabile delle loro sofferenze. E si rivolgono alla chiesa anziché agli psichiatri. La denuncia viene dal cardinal Poletto, arcivescovo di Torino.
Il principe delle tenebre torna dunque in scena per rappresentare le paure, le insicurezze, le nevrosi e i disagi del nostro tempo. Apparentemente in controtendenza sulla secolarizzazione galoppante della nostra società. Ma in realtà si tratta solo del nuovo look del maligno.
Perché Satana, Belzebù o Lucifero che dir si voglia, continua ad essere ciò che è sempre stato. Il simbolo del male. Una maschera mutevole, a bassa definizione, che la Chiesa stessa ha raramente definito con precisione. E proprio grazie a questa indefinizione il diavolo è rimasto nei secoli un evergreen. Perché è in grado di assumere volta per volta le sembianze che ogni epoca assegna al male.
In questo senso il demonio è un assoluto coprotagonista della storia. È il necessario alter ego del bene, del Dio onnipotente e infinitamente buono. Se è vero che non esiste il bene senza il male, senza Satana non c´è Dio e viceversa. Del resto il nome stesso del demonio riflette la sua natura antagonistica. È questo, infatti, il senso della radice ebraica stn - da cui Satana, cioè avversario - e del greco diabolos che significa "colui che divide". Il diavolo può esistere solo in funzione di qualcosa o qualcuno a cui opporsi. È un negativo in opposizione a un positivo. Ieri come oggi.
Dal caprone con tanto di corna e zoccoli che nel medioevo corrompe le donne trasformandole in streghe, al diavolo della modernità che compra l´anima degli uomini con il cinismo di un banchiere. Fino a quello di oggi. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato, medicalizzato. Un demonio da psicologi più che da teologi. E tanto meno da inquisitori.
Questo trasformismo è il vero segreto dell´immortalità del diavolo. Soprattutto in questo tempo dove morali e ideologie sono a bassa tensione e dove la realtà appare sempre più difficile da interpretare, si avverte il bisogno di segni forti, capaci di incarnare il male a tutto tondo, con l´immediatezza di un logo. Come è stato per Bin Laden, l´anticristo dell´11 settembre.
In fondo il revival del diavolo nasce dal disorientamento delle coscienze, dall´incertezza generata dalle tumultuose accelerazioni del mondo attuale. Dall´angoscia e dallo sgomento provocati da una realtà maledettamente complessa e diabolicamente indecifrabile. Da una insicurezza che ha troppe cause per poterle affrontare tutte insieme. Satana diventa dunque una spiegazione passpartout che dice soprattutto la gravità del sintomo più che la sua ragione.
È una confessione di impotenza di fronte a un male che non si sa affrontare. Ma al massimo esorcizzare.

Repubblica 16.1.08
Darwin
Disegnando l’albero della vita
Escono i taccuini inediti


I gatti, i cani e gli ibis egiziani sono uguali a quelli di un tempo. Ma se separiamo una coppia e la mettiamo su un´isola recente è dubbio che resterebbero tali
L´estinzione di una specie animale potrebbe non dipendere da aspetti dell´adattamento: comunque non sorprende più dell´estinzione del singolo
Appunti disordinati e appassionati presi tra il 1836 e il 1844 nei quali comincia a prendere corpo la celebre teoria dell´evoluzione

«Cani. Gatti. Cavalli. Bovini. Capre. Asini. Si sono tutti rinselvatichiti e riprodotti, senza dubbio con un completo successo. Mostrando che la non creazione non è in relazione soltanto con l´adattamento degli animali. Allo stesso modo, l´estinzione potrebbe non dipendere da aspetti dell´adattamento. L´estinzione delle specie non sorprende di più dell´estinzione del singolo».

«Non [c´è] un cambiamento graduale: se una specie si trasforma invero in un´altra deve essere per saltum».

«Nulla di utile per alcuno scopo».

«I gatti, i cani e gli ibis egiziani sono uguali a quelli d´un tempo; tuttavia, separiamo una coppia e mettiamola su un´isola di recente formazione, è molto dubbio che rimarrebbero costanti. Gli animali, su isole separate, dovrebbero diventare diversi purché tenuti abbastanza a lungo separati, in condizioni leggermente diverse».

«Pertanto fra A e B un´immensa distanza di parentela, fra C e B la gradazione più sottile, fra B e D una distinzione alquanto più grande. Così i generi sarebbero formati, attraverso legami di parentela con i tipi antichi, con diverse forme estinte».

«Il mondo deve essere più antico di quanto pensano i geologi».

«I cambiamenti non sono il risultato della volontà dell´animale, ma di una legge dell´adattamento».

«La condizione di ogni animale è in parte dovuta all´adattamento diretto [e in parte al]marchio ereditario [dove il secondo] è di gran lunga l´elemento più importante».

«Quando uno vede i capezzoli sul petto di un uomo, non dice che abbiano un qualche uso, ma che il sesso non sia stato determinante. Lo stesso per le ali inutilizzate sotto le elitre di coleotteri, nati da coleotteri con ali e modificati. Se si trattasse di semplice creazione, di certo sarebbero nati senza».

«Quanto più semplice e sublime sarebbe una forza per cui, agendo l´attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conseguenze; essendo creato l´animale, tali saranno i suoi successori secondo le leggi prefissate della generazione».

«Il Creatore ha continuato a creare animali con la stessa struttura generale dai tempi delle formazioni del Cambriano[?] Concezione miserevole e limitata».

«Quando parliamo degli ordini superiori, dovremmo sempre dire, intellettualmente superiori. Ma chi, al cospetto della Terra, ricoperta di splendide savane e foreste, oserebbe dire che l´intelletto è l´unico scopo di questo mondo?».

«Può darsi che non saremo mai in grado di ricostruire i passi mediante i quali l´organizzazione dell´occhio passò da uno stadio più semplice a uno più perfezionato, conservando le sue relazioni. Il magnifico potere dell´adattamento dato all´organizzazione. Questa forse è la massima difficoltà dell´intera teoria».
«Non è all´altezza della dignità di Colui che si presume abbia detto "Sia fatta luce" e luce fu immaginare che Egli abbia creato una lunga successione di vili animali molluschi».

«Quantunque nessun fatto nuovo venga scoperto da queste speculazioni, anche se parzialmente vere esse sono della massima utilità per l´obiettivo della scienza, ossia la predizione. Prima che i fatti siano raggruppati e denominati, non vi può essere predizione. L´unico vantaggio di scoprire leggi è prevedere che cosa accadrà e vedere una connessione tra fatti sparsi».

«Il genere di ragionamento spesso seguito in tutta la mia teoria consiste nello stabilire un punto come probabile mediante l´induzione, applicandolo poi come ipotesi ad altri punti per vedere se li risolve».

«Si potrebbe dire che esiste una forza come di centomila cunei che cerca di spingere ogni genere di struttura adattata nelle lacune dell´economia della Natura, o piuttosto di formare lacune spingendo fuori i più deboli. La causa finale di tutta questa azione dei cunei deve essere quella di vagliare la struttura appropriata e adattarla al cambiamento».

«1) I nipoti come i nonni; 2) tendenza a piccoli cambiamenti, specialmente in caso di cambiamenti fisici; 3) grande fecondità rispetto al sostegno [assicurato] dai genitori».

«È difficile credere nella guerra, terribile ma silenziosa, che ha luogo fra esseri organici nei boschi tranquilli e nei campi ridenti».

«Dovremo forse rinunciare all´intero sistema della trasmutazione, o credere piuttosto che il tempo sia stato assai più lungo e che i sistemi non siano altro che fogli sparsi, strappati da interi volumi?».

«L´enorme numero degli animali [presenti] nel mondo dipende dalla loro varia struttura e complessità pertanto, quando le forme divennero complicate, dischiusero nuovi modi per aumentare la loro complessità. Pur tuttavia non esiste alcuna tendenza necessaria negli animali semplici a diventare complicati, sebbene tutti, forse, lo avranno fatto per via dei nuovi rapporti causati dall´aumento della complessità altrui. Ci si potrebbe chiedere perché non debbano esserci, in ogni momento, altrettante specie tendenti a de-svilupparsi (alcune probabilmente lo hanno sempre fatto, come i pesci più semplici); la mia risposta è che, se partiamo dalle forme più semplici e supponiamo che esse siano cambiate, quegli stessi cambiamenti tendono a originarne altri. Ma allora perché nei cefalopodi e nei pesci e nei rettili vi è stato un movimento retrogrado? Ammettendo che sia davvero così, ciò dimostra che la legge dello sviluppo in classi parziali è ben lungi dall´esser vera. Io non ho dubbi che, se gli animali più semplici potessero esser distrutti, quelli più altamente organizzati ben presto perderebbero la propria organizzazione per occupare il loro posto».

Corriere della Sera 16.1.08
Il fronte del «no» L'ex preside di Sociologia: «È la soluzione meno peggiore»
I docenti «ribelli» esultano «Vittoria dell'autonomia»
Professori soddisfatti: dialogo, non dogmi
di Virginia Piccolillo


La rinuncia Papa Benedetto XVI non andrà alla Sapienza, ma invierà soltanto un messaggio
Bernardini: è un atto di buona volontà.
Brancaccio: ha vinto la laicità. De Nardis: temevo parlasse d'aborto

ROMA — «Giovedì senza di lui sarà una grande festa». Il Papa abbandona e chi lo aveva contestato brinda a Galileo. Uniti per un giorno scienziati e studenti fuori corso, artisti e pensatori vantano la vittoria del libero pensiero sul dogma, della laicità sul clericalismo e persino della tolleranza sull'integralismo.
A Fisica, motore della rivolta, c'è un'aria di pericolo scampato. E Carlo Bernardini, ex docente di metodi matematici e mito in facoltà, riassume perché: «È il primo atto di buona volontà del Papa: non mi sembra il caso di far nascere tafferugli ». Non è una censura? «No, può parlare quando vuole in altre sedi. Non era il caso di inaugurare l'anno accademico con un'autorità religiosa (perché come filosofo un credente è un po' fiacchetto)». «La paura — spiega l'ex preside di Sociologia delle comunicazioni Paolo De Nardis — era che dalla pena di morte passasse a parlare di aborto: per una vicenda nata male è la soluzione "meno peggio" ». «Ha vinto l'università laica del sapere autonomo» gioisce
Francesco Brancaccio (collettivo di fisica). «Il Papa incarna uno dei poteri forti che portano all'arretramento culturale »rincara Fabio Ingrasso
(Unione Universitari). E parla di «vittoria strepitosa» Francesco Raparelli, leader degli studenti in rivolta. «Il Papa si ritira con le sue divisioni — festeggia il leader cobas Piero Bernocchi —. Pretendeva di dare direttive alla maggiore università statale. Come se un fisico cantasse a Natale alla Sistina per il Papa». Ma è una festa amara per chi, come il filosofo
Paolo Flores D'Arcais teme che «ora il Papa verrà fatto passare come una vittima. In realtà censurati e oscurati dalle tv sono solo i laici e gli atei». Per la cantautrice Fiorella Mannoia «papa Ratzinger paga i suoi atteggiamenti oscurantisti diventati intollerabili. Non si può legiferare nulla che c'è il veto della Chiesa (come su Pacs e staminali)». Lo scrittore Erri De Luca approva: «Non si va dove non si è desiderati». E difende la protesta: «E' legittima perché l'invito a lui era fuori dall'ordinario». «La sconfitta della democrazia e della laicità era tutta in quell'incredibile invito » concorda D'Arcais. Ugo Rubeo, americanista, continua a raccogliere firme per declinarlo: «L'Università è la sede del dialogo ma Ratzinger alla ragione preferisce i dogmi. Padrone. Ma anche noi di non esserci. Era ciò che volevamo fare ma avremmo preferito tenesse duro. Ora ci daranno tutti addosso ». Tra le firme l'italianista Serena Sapegno, lo slavista Luigi Marinelli, la francesista Gabriella Violato, l'angloamericanista Alessandro Portelli, l'ispanista Francisco Lobera e Johan Fitzgerald, cattolica irlandese, docente di letteratura inglese che aveva bocciato «l'intervento del "papa-re"» come «scomodo e sbagliato: da accademico avrebbe dovuto farlo in un dibattito». Per Enzo Campelli ordinario di Metodologia delle scienze sociali «sarebbe stato integralismo vietargli di venire all'Università, ma lo è stato anche definire "censura" le obiezioni contro la sua presenza». L'intellettuale ex ordinario di Letteratura, Alberto Asor Rosa, rivendica di aver indicato «nella rinuncia lo strumento per calmare gli animi» e chiosa: «La saggezza del Papa è più grande di quella degli amministratori della Sapienza».

Corriere della Sera 16.1.08
Il «capo» della rivolta «Nel '56 mi opposi all'invasione dell'Ungheria, Pajetta mi fece nero»
Cini, il «vendicatore» di Galileo: criticai pure il Pci
di Aldo Cazzullo


ROMA — L'ombra di Galileo attendeva da quattro secoli il professor Marcello Cini che la vendicasse. Almeno, il professor Cini ne sembra convinto. «Sin dai tempi di Cartesio si è addivenuti, per porre fine al conflitto fra conoscenza e fede culminato con la condanna di Galileo da parte del Santo ufficio, a una spartizione di sfere di competenza tra l'Accademia e la Chiesa. La sua clamorosa violazione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico de La Sapienza sarebbe considerata, nel mondo, come un salto indietro nel tempo...».
Il professor Cini non è solo l'artefice della lettera aperta dello scorso 14 novembre, che ha innescato l'incidente più serio con il Vaticano da tempo immemorabile. E' uno dei grandi vecchi (84 anni, quattro più del suo avversario Ratzinger) della cultura italiana. Fin da quando, oltre mezzo secolo fa, Edoardo Amaldi, Enrico Persico e Giorgio Salvini — vale a dire, la Fisica — lo chiamarono a insegnare proprio alla Sapienza. «Cattivo maestro» si definisce (riprendendo un'invettiva di Giorgio Bocca) nel titolo della propria autobiografia intellettuale, pubblicata nel 2001 da Bollati Boringhieri. Ma si capisce bene che scherza e, in fondo, si stima. «Non posso fare a meno di domandarmi se non mi sono troppo spesso identificato con Charlie Brown quando confessa: odio la gente, ma amo l'umanità!», ha scritto di sé. Di Ratzinger, invece: «Ci vuole un bel coraggio a nascondere sotto lo zerbino le crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell'Inquisizione...».
Nato a Firenze, formatosi al liceo D'Azeglio di Torino, iscritto al Pci fin dai primi anni del dopoguerra, nel '56 porta al congresso della federazione di Catania, dove insegna, una mozione di critica all'invasione dell'Ungheria: «Pajetta mi rispose facendomi nero, con il sarcasmo che gli era abituale». Critico da sinistra del togliattismo, amico di Raniero Panzieri, fu l'unico tra i docenti di fisica — lo racconta il suo allievo Marco D'Eramo — a schierarsi con gli studenti ribelli del '68. Cofondatore del Manifesto. E poi: Medicina democratica, la polemica con Emilio Sereni reo di aver esaltato lo sbarco americano sulla luna («ma quale progresso, è stato il più fantastico spettacolo di circenses offerto alla plebe dai tempi di Nerone!»), i protoambientalisti, la battaglia contro il nucleare. Ma Cini ha lasciato il più ampio segno di sé con «L'ape e l'architetto», che fu il caso politico-culturale del 1976. Un titolo mutuato da Marx, un pamphlet a più mani per dire che la scienza non è mai neutrale, non è indifferente alla storia, alle idee, e soprattutto agli interessi. La reazione dei colleghi fu ora ammirata, ora beffarda; uno di loro replicò che i corpi cadevano nel vuoto allo stesso modo, sia che al potere fossero i democristiani, sia i comunisti. Lucio Colletti infierì: «C'è una certa differenza tra le verità scientifiche e la predica di un parroco o la relazione di un segretario generale». «Il mio vero rimpianto — si immalinconì lui — è che uno impara a vivere quando non gli serve più». Serviva invece a respingere Benedetto XVI, che gli ha regalato una seconda giovinezza: «Possiamo tollerare che il papa», minuscolo ovviamente, «possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin?».
Capelli bianchi, occhi azzurro pallido, una riproduzione di Guernica dietro la scrivania, Cini non è mai stato un intellettuale retrivo. Pronto già nel '94 a dichiarare la fine del paradigma delle certezze («Un paradiso perduto» uscì da Feltrinelli), è stato tra i primi a occuparsi di bioetica e a denunciare «il pericolo maggiore, una visione di onnipotenza». Critico della clonazione e della scienza ridotta a mercato, ha ammonito a non demonizzare gli ogm — «non fanno peggio delle sigarette e degli hamburger» — e ha invitato la sinistra a diffidare «degli scienziati che giocano a Dio», e anche un poco di se stessa. Proprio sul Manifesto scrisse: «Io non capisco più cosa voglia dire l'aggettivo "comunista" che compare sulla sua testata». Ha fatto autocritica sui figli — «dev'essere stato difficile per loro avere un padre ingombrante, egocentrico e non sempre presente» —, si è sporto sull'orlo di una confessione di fallimento: «Ho passato gran parte della mia vita concentrandomi sul comunismo e sulla fisica. Ora viviamo in un mondo in cui non c'è il comunismo e non c'è la fisica». Resiste invece Ratzinger, il quale «ha solo cambiato strategia. Non potendo più usare roghi e pene corporali, ha imparato da Ulisse. Ha utilizzato l'effigie della Dea Ragione degli illuministi come cavallo di Troia per entrare nella cittadella scientifica e metterla in riga». Sulla soglia, però, l'attendeva il professor Cini.

Corriere della Sera 16.1.08
Odifreddi: lui ha buon senso Veltroni no
di Alessandra Arachi


ROMA — Piergiorgio Odifreddi ( foto) non usa mezzi termini: «Oh, meno male. È uno dei rari momenti in cui il Papa ha dimostrato buon senso».
Lui la visita del Papa l'ha osteggiata come ha potuto anche se non c'entra nulla con la «Sapienza», visto che Matematica la insegna all'università di Torino.
Ma è da tempo che il suo mestiere non sono soltanto i numeri, reclutato nel Pd fin dalla sua fondazione.
Ed è proprio al leader del Pd che approfitta per dare una stoccata. Dice: «Credo che con questo gesto il Papa abbia insegnato qualcosa: talvolta è meglio abbandonare le posizioni piuttosto che andare a sbattere. Proprio come avrebbe dovuto fare Veltroni la settimana scorsa quando è andato in udienza da lui. Perché si è fatto umiliare con quelle parole sul degrado di Roma? Avrebbe dovuto prendere e andarsene per dignità, per senso delle istituzioni. E invece...». E invece, professore? «È rimasto lì a far capire al Papa che con i politici può fare quello che vuole».
È deciso e inflessibile Piergiorgio Odifreddi.
Spiega: «La Chiesa spinge sempre un po' più avanti il suo potere verso lo Stato italiano. E più le istituzioni non la contrastano, più vanno avanti, eliminando il confine tra laicità e religione. Ricordiamo de Gaulle. Il cattolico de Gaulle: per non mischiare i due piani non faceva mai la comunione in pubblico».
Ce ne è anche per Fabio Mussi, ministro dell'Università: «Non capisco davvero la sua posizione di consenso verso la visita del Papa: proprio lui che ha abbandonato il Pd perché non sopportava il compromesso tra Ds e Margherita».

Corriere della Sera 16.1.08
Il Papa «risucchiato» di nuovo nella mischia
di Massimo Franco


Il «giallo» sulla disdetta della visita. Il difficile dialogo tra Vaticano e Pd

Al netto di un'indignazione inevitabile e con poche eccezioni, c'è da chiedersi come mai sia potuto succedere. Benedetto XVI ha subìto l'ennesima sovraesposizione in un arco di tempo brevissimo. E, dopo l'annullamento del suo discorso per l'apertura dell'anno accademico all'università «La Sapienza» di Roma, si ritrova di nuovo nella mischia, suo malgrado. Silvio Berlusconi invita la sinistra «a farsi un severo esame di coscienza ». Ma l'Unione difende decisamente il Papa, seppure con qualche distinguo e una punta di imbarazzo. E dire che sono passati pochi giorni dall'incidente seguìto al suo atto d'accusa sul degrado della capitale, ridimensionato il giorno dopo dalla sala stampa vaticana.
L'idea che 67 docenti figli di un anticlericalismo datato possano avere obbligato da soli il Papa a restarsene in Vaticano, lascia perplessi. Così, mentre la polemica lievita, si intravede sotto traccia qualcosa che somiglia ad un larvato malinteso col Viminale; e due versioni sui motivi ed i tempi della disdetta: anche se il premier Romano Prodi ha escluso che la rinuncia sia stata dettata da ragioni di sicurezza.
«Era garantita», ha spiegato il presidente del Consiglio, «anche da una riunione al ministero dell'Interno» avvenuta ieri. Prodi ha parlato invece di «problemi di opportunità». Ed ha invitato inopinatamente il pontefice «a mantenere il programma originario». In effetti, sembra non esistessero preoccupazioni per quanto riguardava l'aula in cui avrebbe parlato Benedetto XVI. Ma la tesi vaticana è che il ministero dell'Interno fosse seriamente in allarme per quanto poteva accadere fuori; e che per questo motivo si sia ipotizzato di comune accordo di cancellare la visita circa ventiquattr'ore prima dell'annuncio ufficiale.
Lunedì sera ne avrebbero discusso al telefono il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, e il ministro dell'Interno, Giuliano Amato. Le implicazioni di questa versione sono evidenti. Non si sarebbe trattato di una «decisione del Vaticano», ma di entrambi. Rimane comunque la sensazione di un'altra vicenda dai contorni confusi, sia che la si guardi da palazzo Chigi che da Oltretevere; e di una nuova occasione di scontro politico, della quale Benedetto XVI finisce per diventare protagonista involontario, oltre che vittima. Il centrodestra è all'attacco.
E non esita a sostenere che quanto è accaduto nasce dalla «campagna di anticlericalismo ideologico fomentata da alcuni partiti della maggioranza», come dice Berlusconi. Sa che i rapporti fra Santa Sede e Unione sono a dir poco altalenanti; e che il dialogo fra il segretario del Pd, Walter Veltroni, e il Vaticano deve fare i conti con l'ostilità di una parte della coalizione prodiana. Su questo sfondo, la visita cancellata alla «Sapienza» viene usata dal centrodestra come una possibile rivincita, nonostante il grosso della coalizione prodiana difenda il Papa. È improbabile, infatti, che la Santa Sede accusi di nuovo An e la Lega di strumentalizzare le parole del Pontefice, come avvenne dopo le critiche di Benedetto XVI alla situazione di Roma.

Corriere della Sera 16.1.08
La frase contestata 1990: Ratzinger e il brano del filosofo contro lo scienziato
Quella citazione di Feyerabend l'epistemologo che smitizzò Galileo
di Antonio Carioti


Il contesto
L'allora cardinale non voleva giustificare la condanna dello scienziato

Paul K. Feyerabend, lo studioso citato dal Papa, prendeva di mira il metodo galileiano perché non riconosceva alla rivoluzione scientifica un valore oggettivo. Era convinto che si fosse imposta non per la sua razionalità, ma per via delle «macchinazioni propagandistiche di Galileo». A suo dire, Galileo non si basa su evidenze empiriche, ma «inventa un'esperienza che contiene ingredienti metafisici».
Si spiega così, con lo spirito dissacratore del filosofo della scienza nato in Austria e affermatosi nel mondo anglosassone, la citazione che l'allora cardinale Joseph Ratzinger fece in una conferenza del febbraio 1990 proprio alla Sapienza di Roma. «La Chiesa all'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione »: queste parole di Feyerabend, tratte dall'edizione tedesca del suo saggio Contro il metodo, sono la pietra dello scandalo.
L'epistemologo, allievo ribelle di Karl Popper, non stava però tessendo l'elogio dell'Inquisizione. Si proponeva semmai di dimostrare che non esistono regole invariabili nello sviluppo della conoscenza scientifica e che in particolare Galileo vinse la sua battaglia per l'affermazione della cosmologia copernicana soprattutto «grazie al suo stile e alle sue capacità di persuasione», ricorrendo ai «mezzi della propaganda» e utilizzando anche «trucchi psicologici», perché in realtà non disponeva di prove sufficienti ad affermare la propria tesi. Il punto di partenza delle rivoluzione scientifica galileiana, secondo Feyrabend, «è costituito da una forte convinzione, che contrasta con la ragione e l'esperienza contemporanee». Perciò il filosofo mostra comprensione per il cardinale Roberto Bellarmino, accusatore di Galileo, che suggeriva di considerare l'eliocentrismo solo una congettura, anche per non compromettere «la pace sociale» con teorie capaci di turbare la fede dei semplici.
C'è anche un elemento provocatorio nelle affermazioni di Feyerabend, che nega l'esistenza di un confine netto tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è, giungendo a rivalutare stregoneria e astrologia, fino a reclamare una «separazione fra Stato e scienza» simile a quella fra Stato e Chiesa. La sua polemica contro l'oggettività della conoscenza scientifica è peraltro condivisa da un pensatore assai lontano da Ratzinger, Gianni Vattimo, secondo il quale il valore delle teorie dipende soprattutto dal fatto che riescano a convincere, a trovare consenso nella comunità degli studiosi. Viceversa Marcello Pera, oggi grandissimo ammiratore del Papa, da filosofo della scienza avanzava precise riserve in materia, nell'introduzione scritta nel 1984 per il libro di Feyerabend Scienza come arte, difendendo l'idea di un «progresso cumulativo» nella conoscenza scientifica, pur consapevole che le sue tesi potevano «apparire conservatrici».
Quanto a Ratzinger, è evidente dal contesto della citazione che il Papa non sposa la visione di Feyerabend, né intende usarla retrospettivamente per giustificare la condanna di Galileo. Ma vuole affermare che la razionalità scientifica ha dei limiti, posti in rilievo dalla critica più spregiudicata, e quindi va ricompresa «in una ragionevolezza più grande» di carattere filosofico e aperta alla trascendenza.

Corriere della Sera 16.1.08
Il caso Polemiche contro gli studiosi: «Complottano per distruggere l'Islam»
Manoscritto ritrovato in Yemen «Forse la prima copia del Corano»
di Viviana Mazza


Il Corano è uno solo: infallibile, contiene la parola di Dio rivelata al Profeta Maometto nel VII secolo dall'arcangelo Gabriele. Così vuole l'Islam, secondo il quale il testo sacro dei musulmani è anche preservato in paradiso in una enorme tavola. Ma alcuni studiosi affermano oggi che, in realtà, ci sono più Corani. A Berlino, alla Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, è in corso il progetto «Corpus Coranicum», che mira a cercare tutti i manoscritti per studiarli e confrontarli. E uno dei partecipanti al progetto, Sergio Noja Noseda, 77 anni, uno dei più grandi arabisti europei, dice al Corriere di avere recuperato, poche settimane fa, in Yemen, quello che potrebbe essere il più antico manoscritto del Corano. Secondo la tradizione islamica, nel 632, alla morte di Maometto, le rivelazioni coraniche non erano state raccolte in un unico libro. La versione ufficiale del Corano risale a una sistemazione voluta dal terzo Califfo, Othman, sulla base di note e trascrizioni dei compagni del Profeta. Noja Noseda crede di aver trovato il Corano scritto dai compagni del Profeta.
Molti fedeli sono convinti che ci sia un testo solo, dice. «Invece, i sapienti musulmani sanno da sempre che c'erano voluti due secoli perché venisse trascritto con una grafia normalizzata e una standardizzazione del testo. Sanno benissimo che ci sono una serie di varianti».
Finora erano disponibili frammenti di Corani del I e del II secolo dell'Egira in microfilm. «Negli anni '30 — spiega il filologo — un professore tedesco ebbe l'idea di fotografare tutti i più antichi manoscritti del Corano, ma le carte sembrarono essere andate perdute sotto i bombardamenti alleati. Le casse dei microfilm sono state recentemente ritrovate a Berlino, ma sono in bianco e nero». In più, vi sono oggi riproduzioni a colori dei manoscritti, pubblicate in vari volumi dallo stesso Noja Noseda. Ma mancava un manoscritto che riproducesse una prima versione. Almeno fino a Natale. Noja Noseda era andato in Yemen per fotografare alcuni codici la cui esistenza era nota dal 1972. Col permesso del presidente yemenita, ha portato a casa centinaia di foto di tre codici «risalenti agli anni immediatamente successivi alla morte di Maometto», secondo un suo primo esame della grafia. Il crollo del soffitto della moschea di Sana'a, ha portato alla luce 7.500 pezzi: tra questi, c'era un palinsesto.
«Sa cos'è un palinsesto? È un testo che è stato scritto su una pergamena lavata, su cui era precedentemente scritto un altro testo — spiega —. Sotto c'è un Corano diverso e, sopra, un altro che quadra con la versione odierna ufficiale. Potrebbe essere il manoscritto più antico mai trovato, forse scritto dagli stessi compagni di Maometto». Lo studioso si è portato a casa, a Lesa, sul Lago Maggiore, alcuni frammenti delle pergamene, che ha riposto in frigo, al riparo dai topi di campagna.
Saranno analizzati al Carbonio-14 per determinarne l'età. Poi i testi e le differenze verranno studiati con esperti musulmani.
Una ricerca «scottante». Milioni di persone cercano nel Corano una guida alle proprie azioni. Il sito ImamReza.net ritiene si tratti di un complotto: «Se i musulmani dubitano dell'autenticità del Corano, l'Islam perderà la sua autorità sociale e politica». Vi sono inoltre studiosi che affermano che il Corano potrebbe essere stato redatto sulla base di testi cristiani ed ebraici. Un'ipotesi smentita decisamente da Noja Noseda: «E' una cattiveria schifosa senza fondamento scientifico ».

Corriere della Sera 16.1.08
Dopo la visita in Vaticano
Il cinismo religioso di Monsieur Sarkozy
di Bernard-Henry Levy


Di fronte al Papa, il presidente ha pronunciato parole che sono una sconfessione, se non un insulto, per coloro che, pur non essendo cristiani, hanno tuttavia fatto la Francia

L'evento è passato relativamente inosservato. Invece, è un evento enorme e, mi pare, senza precedenti. Il problema non è, in sé, di aver evocato le «radici cristiane della Francia»: perché è un fatto. E nemmeno di aver dichiarato che le religioni sono un atout più che un «pericolo»: anche qui, perché no? E ancor meno è di aver rivolto un saluto alla memoria dei sette monaci di Thiberine assassinati il 21 maggio 1996, vicino ad Algeri; martiri dimenticati troppo rapidamente.
No. Quello che è sconvolgente in questa vicenda, al di là della sua messa in scena, al di là del bizzarro miscuglio di riverenza e sconvenienza che ha caratterizzato la scorribanda di Nicolas Sarkozy in compagnia di Jean-Marie Bigard e di Jean-Claude Gaudin che continuava a masticare gomma americana davanti a Benedetto XVI, sono cinque gesti politici che, se esistesse ancora un'opposizione, avrebbero dovuto provocare una levata di scudi.
1. L'affermazione secondo cui la Francia avrebbe radici non cristiane, ma essenzialmente cristiane: questo «essenzialmente » cambia tutto ed è come una sconfessione, se non un insulto, per coloro che, pur non essendo cristiani, hanno tuttavia fatto la Francia: le altre religioni, beninteso; ma anche gli agnostici, gli atei, i sostenitori dello spirito dei Lumi, gli inventori dei diritti dell' uomo del 1789, gli umanisti senza la fede o scettici.
2. La designazione della Francia come «figlia maggiore della Chiesa» «attraverso il battesimo di Clodoveo»: sorvoliamo sul fatto che il predecessore di Nicolas Sarkozy, Jacques Chirac, di cui possiamo supporre che la fede non sia meno solida della sua, ha avuto la saggezza, invece, di considerare che la neutralità inerente alla propria funzione gli proibiva di assistere alla messa per il quindicesimo centenario del battesimo di Clodoveo; ma ricordiamo a quegli ignoranti che hanno pensato e redatto il discorso di Sarkozy che l'espressione stessa di «figlia maggiore della Chiesa» è un' espressione da Chiesa, inventata da un uomo di Chiesa (il cardinale Langénieux, arcivescovo di Reims, nel 1896) e che, in realtà, non ha alcun senso sulla bocca di un capo di Stato laico.
3. L'accostamento fra due vocazioni, politica e sacerdotale: sorvoliamo sul probabile stupore dei cardinali (hanno visto ben altro…) nell'ascoltare l'apostolo di una presidenza bling-bling, cioè dallo stile di vita ostentato ed eccessivo, senza complessi nel suo rapporto col piacere e nel metterlo in mostra, spiegar loro, senza ridere: «Capisco i sacrifici che fate per rispondere alla vostra vocazione, perché io stesso so quel che ho fatto per realizzare la mia». Quello che non va giù, che non può andar giù,
è l'incoscienza con la quale, attraverso tali parole, egli manda in rovina tutto il lavoro di dissociazione fra i due ordini, quindi fra le due vocazioni, che da due secoli è stato il lavoro essenziale della Repubblica.
4. La strana idea secondo cui l'aspirazione spirituale, e anche morale, che è in ogni uomo troverebbe la sua realizzazione solo nella religione e attraverso di essa: ancora un insulto agli scettici; uno schiaffo a tutti coloro che non hanno bisogno d'essere credenti per avere «un impegno sostenuto dalla speranza»; una gravissima rassegnazione al fatto che la laicità, dal momento che essa «rischia sempre di esaurirsi» o di «mutarsi in fanatismo», sarebbe incapace di proporre un senso all'esistenza (cosa pensare, in questo caso, del fanatismo in nome del quale tante donne, in tante parti del mondo e anche talvolta in Francia, sono mutilate, bruciate vive, martirizzate? Nicolas Sarkozy pensa forse che si tratti di una manifestazione del suo «fanatismo laico» che «l' aspirazione all'infinito non appaga »?).
5. Infine, ecco il colmo: la parte del discorso in cui il garante dell'indipendenza della Scuola ha la faccia tosta di affermare che «nella trasmissione dei valori l'istitutore non potrà mai sostituire il pastore o il curato, perché gli mancherà sempre la radicalità del sacrificio della propria vita»: gli insegnanti saranno contenti! I maestri e i professori della scuola laica, uomini e donne che accettano sacrifici — ben più seri di quelli di cui si vanta il loro Presidente — per inculcare i valori civici, il senso della conoscenza disinteressata, la libertà dello spirito a ragazzi provenienti da famiglie dove talvolta si tende troppo, appunto, a portare alle stelle la «radicalità del sacrificio», trarranno le conseguenze che s'impongono da questo abbandono così manifesto. Chi impedirà a quell'altra specie di «pastori» che sono gli amici di Tariq Ramadan di trarre proprie conclusioni da questo nuovo contesto e di scorgere la possibilità di diventare gli insegnanti modello dei territori perduti della Repubblica?
Di fronte a questa serie spaventosa di provocazioni, abbiamo la scelta, come spesso accade con il nostro singolare presidente, fra diverse spiegazioni. Forse è il redattore? Come per il discorso razzista di Dakar, potremo sempre immaginare la mano un po' pesante di un altro speech writer ignaro o, semplicemente, esaltato. Poi il cinismo. La decisione fredda, calcolata, di andare a fare un giro dalle parti dei cattolici prima di farne presto un altro — non ne dubitiamo! — dalle parti degli ebrei, dei massoni o dei musulmani.
Possiamo infine dare atto al Presidente di sapere, molto precisamente, quello che dice; e allora non potremo evitare di fare l'accostamento con l'unica grande ideologia francese che ha pensato il cattolicesimo come «cultura» alla quale non si è costretti a credere ma che come nessun'altra suggella, se solo le viene data in subappalto, la coesione di un legame sociale: il maurrassismo. Di queste tre interpretazioni, non saprei dire quale mi appaia più inquietante.
Traduzione di Daniela Maggioni

Corriere della Sera 16.1.08
Pubblicati per la prima volta in Italia i «Protocolli» dei due prigionieri che, riusciti a fuggire dal lager, ne documentarono la realtà
Vrba, l'illusione di fermare Auschwitz
Nel '44 rivelò gli orrori delle camere a gas. E finì col denunciare il silenzio degli ebrei ungheresi
di Alberto Melloni


Più che dal suo metodo, prima che dai suoi postulati, la storia è identificata da qualcosa di impalpabile e reale, che è il limite. Studiare storia, insegnare storia, consumare storia vuol dire andare alla ricerca di questa thule sperando che l'applicazione o un dettaglio o la fortuna euristica o la massa critica del lavoro di più anni sposti di un nonnulla quel confine che separa i fatti dalle anime, il racconto dal silenzio, il dicibile dall'indicibile e che non può essere mai superato, pena la degenerazione nella chiacchiera moralista. Quel confine è spesso un confine dolorante, doloroso: e per questo il solo avvicinarlo sgomenta, confonde, identifica, e di rimbalzo separa anima da anima, distingue silenzio da silenzio.
È su questo confine che si colloca un documento, identificato ora come il «rapporto Vrba- Wetzler» ora come i «protocolli di Auschwitz » (quasi scherzando sul titolo di un famoso falso della polizia zarista — i «protocolli dei savi di Sion» — che era il libro di testo di tutti gli antisemitismi del Novecento, russi o nazisti o islamici che fossero). Questi altri «protocolli di Auschwitz», invece, sono un documento autentico e breve, circolante da maggio 1944 in varie traduzioni prima nell'Europa centro-orientale e poi irradiatosi verso il Bosforo, la Svizzera, Londra, Roma, l'America.
Una trentina di pagine di drammatica semplicità dovute alla voce, alla penna di due giovani ebrei slovacchi evasi il 7 aprile 1944 da un campo di sterminio di cui tutti impareranno presto o tardi il nome. Quella notte essi fuggono non per una improvvisata fortuna, ma grazie a piani e con informazioni che esistono all'interno del campo di sterminio: e fuggono non con il solo obiettivo di salvarsi, ma per compiere una specie di missione.
Camminano per dieci notti scendendo verso la Slovacchia e una volta giunti lì dettano ai capi della comunità ebraica, in parte separatamente, in parte congiuntamente, una descrizione dettagliata di ciò che accade ad Auschwitz-Birkenau. La loro testimonianza, escussa da un legale, presenta piante, calcoli, stime, su come venga organizzata e industrializzata la «soluzione finale», di cui molti altri avevano già colto il senso più dei ritmi, gli scopi più delle misure. Questo rapporto inizia a circolare fra il 27 e il 28 aprile 1944. Continua per settimane a essere letto, copiato, raccontato. Fra gli esiti che i fuggitivi sembrano ripromettersi c'è quello di «fare qualcosa» per fermare lo sterminio degli ebrei ungheresi che Adolf Eichmann sta fulmineamente organizzando, complice l'inerzia dell'esautorato Miklós Horthy e delle autorità del Paese occupato dall'esercito tedesco il 18 marzo del 1944. In realtà, il rapporto non riesce a fermare il trasferimento ferroviario di migliaia di questi ebrei verso Birkenau se non dopo la prima settimana di luglio, quando pressioni politiche e religiose di rango internazionale inducono il governo a impedire nuove deportazioni. Nel contempo quel documento che viaggia in varie forme viene diffuso via radio dalla Bbc e poi dal «New York Times», arriva sul tavolo di diverse autorità alleate, giunge in varie ambasciate di Paesi neutrali, agli uomini della Jewish Agency, a Pio XII, certamente a colui che sarà il suo successore, allora delegato apostolico in Turchia e Grecia.
E fa parte del lento processo che — ben oltre la fine della guerra e il processo di Norimberga — avrebbe trasformato la Shoah da un capitolo della guerra mondiale a un evento dotato di una identità performativa storica, militare, politica, teologica.
C'è però un «dopo»: perché il più giovane dei due estensori si convincerà che del «suo» rapporto è stato fatto un uso sbagliato. Talmente sbagliato da aver vanificato il suo obiettivo più vero, che era quello di allertare le comunità ungheresi perché la fuga o la resistenza le sottraessero alla morte. Si convincerà, il fuggitivo, che la responsabilità di questo cattivo uso coincide col mancato raggiungimento dell'obiettivo che lui s'era proposto. Si sente in grado di dire, tanto più forte quanto più isolato, che una oppure addirittura la responsabilità dell'ecatombe dell'ebraismo ungherese che si era consumata poche settimane dopo la fuga sua e del suo compagno da Birkenau ricadeva sui leader di quella comunità. Passerà tutto il resto della vita a ripetere questa accusa, mentre i «protocolli» di cui era coautore appaiono in diversi tribunali. Vilipendio? Frutto ultimo della ferocia genocidaria? Non per lui: anzi l'isolamento che incontra nel dopoguerra lo conforta nel suo rappresentarsi come una Cassandra scomoda e lo farà apparire, in una polemica riaccesasi all'inizio del secolo XXI, come la voce rimossa di una storia troppo tragica, un teste che ha smarrito il senso del confine che separa vittime e assassini, o come un caso limite nel rapporto fra storia e memoria.
Per leggere un documento povero, fatto di numeri e disegni come i «protocolli di Auschwitz » è dunque necessario — come sempre quando si tocca la Shoah — consentire l'esistenza di ciò che grazie ad essi rimane irraggiungibile e insieme sfuggire alle pseudoteologizzazioni così frequenti quando non ci si vuole misurare con le responsabilità della ricerca e degli uomini; bisogna conoscere la loro storia disadorna e antiretorica; bisogna pensare e insieme sapere di ignorare ciò che avrebbero potuto o dovuto dire a chi li leggeva, ciò che chi li ha scritti pensava fossero in grado di dire, e poi tornare alla loro vicenda. Punto per punto, tessera per tessera: rinunciando a prestidigitar risposte per le domande sollecitate da una curiosità blasfema, e se mai provando a tendere l'orecchio per sentire la domanda che posero e pongono quelle pagine, la domanda che tiene insieme persone e processi, speranze e illusioni, anime e corpi.
E per converso, storicizzare il risentimento di Vrba – una operazione al fondo naturale e violenta nel linguaggio dell'arte che così spesso incrocia quello della storia della Shoah — è infatti diventato un banco di prova di tipo critico e di tipo morale per tutta una letteratura. Infatti Vrba, paradossalmente, diventa vittima e fornitore prima di materiali a buon mercato per i deliri antisemiti o neonazisti del dopoguerra, poi per chi cercava qualche analogo ebraico fra i silenzi e gli errori degli «spettatori» della Shoah, e infine per un vasto fronte revisionista che vede schierati tradizionalismo cattolico, estremismo islamista, negazionismo spicciolo.
Eppure, come ha mostrato Yehuda Bauer sul piano squisitamente storico, quella voce imponeva una riflessione sulla quantità di informazioni andate perdute in Europa durante la guerra nel disperato tentativo di razionalizzare l'irrazionalizzabile. Forniva ai fabbricanti di comparazioni troppo interessate, a chi intendeva riciclare una immagine semplicista della Shoah, un «traditore » da accusare di vilipendio dell'eroe o un valoroso testimone utile per accusare di tradimento altri.
La vicenda dei «protocolli di Auschwitz» è perciò esemplare di uno dei grandi nodi della Shoah: cioè la coniugazione fra storia e memoria, fra azione e inazione, fra percezioni e gesti, fra perpetrazione dei crimini e pragmatismo del soccorso in una vicenda che rende l'uno incompatibile con l'altro. Insomma tutto quel tessuto dell'umano che la soluzione finale voleva distruggere e ha effettivamente distrutto, al pari delle vite di milioni di vittime.
Il giovane Rosenberg/Vrba che ad Auschwitz fa esercizio di mnemonica per tenere i calcoli dei morti e ad anni di distanza si batte per i propri «numeri», contro un uomo forse innocente e contro la posatezza del lavoro storico-critico, non è un caso di studio per una neutrale psicologia cognitiva. Finché vive e post mortem, egli è la spia superstite della tragedia, l'ombra d'una Rachele che rifiuta consolazioni a buon mercato, una vita che afferma con l'impeto della denuncia il passaggio da una generazione a un'altra – è una formula di Hilberg – non sente la fonte: e come tale costituisce una sfida al sapere storico che non ha molti paragoni. E il racconto pieno d'affanno che lui e il suo compagno d'evasione riescono a esprimere – il resoconto nel quale, secondo lui, era implicito un grido di fuga o di rivolta, che altri avrebbe soffocato – non può essere giudicato con le misure spicce di chi manovra la fonte come un cadavere da sottoporre ad autopsia, ma con quelle di chi tocca cose vive. Il trattamento storiografico dell'inaccettabile, il racconto storico dell'indicibile, significa misurarsi, senza sconti e senza tardive enfasi, in questo caso con ciò che fu già inaccettabile e indicibile.

il Riformista 16.1.08
«Censori noi? è la Chiesa che ci attacca»
di Stefano Cappellini


Se la facoltà di Fisica è il cuore della rivolta anti-Ratzinger, lo studio del professor Andrea Frova, al terzo piano dell’istituto, con vista sulla città universitaria La Sapienza, è il cuore del cuore. Frova non è solo uno dei circa 60 docenti che in novembre hanno scritto al rettore Renato Guarini per chiedere di annullare l’invito a Joseph Ratzinger in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, ma è anche il più galileiano tra i fisici firmatari, autore di un testo di fama mondiale, Parola di Galileo, distrattamente poggiato sulla sua scrivania. Alla porta di Frova bussano docenti che chiedono fuori tempo massimo di sottoscrivere il documento. Lui li liquida un po’ brusco: «Non è un appello, è una lettera di due mesi fa. Se volete, scrivete direttamente al rettore». Il telefono squilla ogni minuto esatto. «Il Los Angeles Times che chiede un’intervista», spiega lui. Nuovo squillo. Un collega spagnolo. «Quanto gli invidio Zapatero. Quando sento i politici di centrosinistra dire che non bisogna rischiare lo zapaterismo, mi sento male». Ma Frova non accetta letture politiche della vicenda che sta agitando i palazzi della politica come poche altre negli ultimi mesi: «Sia chiaro, noi siamo tutti moderatissimi e questa storia è finita sui giornali per ragioni strumentali. Il nostro non era un appello pubblico, ma una lettera privata al rettore. Abbiamo diritto o no di dire la nostra al rettore su questioni che riguardano le linee guida della nostra comunità?». Ma ora che la vicenda ha assunto contorni giganteschi il prof non si tira indietro: «Siamo sommersi di mail di solidarietà, di gente che dice che finalmente qualcuno si è eretto dal tappeto sul quale tutti, politici in testa, sono distesi».
Al secondo e terzo piano dell’edificio intitolato a Guglielmo Marconi, dove ci sono gli studi dei docenti, la preoccupazione generale è ricostruire la dinamica dei fatti. Che secondo i fisici è la seguente: in novembre Marcello Cini pubblica un intervento sul manifesto per contestare l’affidamento della lectio magistralis inaugurale dell’anno accademico a Benedetto XVI. A stretto giro, sessanta docenti, quasi tutti fisici, scrivono una lettera al rettore per sostenere Cini e contestare l’«incongrua» presenza. Il rettore si convince che qualcosa va cambiato (e tutti i prof si dicono convinti che Fabio Mussi ci metta del suo a “sconsigliare” Guarini). La lectio magistralis del papa diventa un discorso successivo alla cerimonia ufficiale, anche se per Guarini, addirittura, non è mai esistita l’ipotesi contestata. In ogni caso, per i fisici la sostanza è la stessa e il problema resta. Poi la lettera arriva ai giornali. E scoppia il «caso Galileo». «Ma quello di Galileo è un riferimento quasi aneddotico. La questione è l’inopportunità della presenza di un pontefice che ha rotto l’armistizio tra scienza e fede e ha intrapreso una battaglia contro il metodo scientifico», dice Giorgio Parisi, cattedra di Fisica teorica, compagno di stanza di Cini. Parisi pare la caricatura dello scienziato: scapigliato, sciatto il giusto nel suo loden verde bottiglia: «Nessuno di noi - dice Parisi - ha protestato per la laurea honoris causa a Giovanni Paolo II, né lo avremmo fatto se Ratzinger fosse stato invitato per una lezione di teologia alla facoltà di Filosofia. Ma l’inaugurazione dell’anno accademico è un momento particolare, che coinvolge e rappresenta tutta l’università, e deve essere coerente con le linee guida della nostra attività didattica». Vuol dire anche che con il precedente papa tutto questo non sarebbe successo? «Penso di no», risponde Parisi.
Per i viali della Sapienza l’aria è elettrica. In tutte le facoltà ci sono manifesti e inviti alla mobilitazione. In mattinata un centinaio di studenti della Rete per l’autoformazione, la filiazione universitaria dei Disobbedienti, occupa il rettorato. Ma sono i professionisti del picchetto: per loro il papa, Berlusconi, Prodi o Bush farebbe lo stesso. Se si vuole respirare l’aria tutta particolare di questa storia bisogna restare all’istituto di Fisica, all’angolo del piazzale della Minerva che tante ne ha viste. Ma non è il 1968 che viene a mente, e tantomeno il 1977, affacciandosi nell’atrio dell’edificio dove troneggia la scultura di Galileo e Milton. Certo, all’ingresso ci sono i tazebao del collettivo studentesco che ha organizzato la «settimana anticlericale», gli striscioni delle femministe («194 motivi per cacciarti»). Nelle aule si tengono riunioni nelle quali sfilano i vecchi arnesi che arringano e blandiscono gli studenti: il cinquantenne dei Cobas che fa demagogia («Dovevano invitare gli operai della Thyssen»), il quarantenne trotzkista che ce l’ha più «col silenzio del Pd e della Cosa rossa» che con Benedetto XVI. Gli astanti - un cruogiolo di post-autonomi, femministe, collettivi gay lesbo trans eccetera - ascoltano svogliatamente. No, niente ’68. Saranno le suggestioni letterarie, sarà che sembrano riaperte ferite secolari, il cardinal Bellarmino e l’Inquisizione, vecchie abiure e dispute dottrinarie del Medioevo, ma la cittadella dei fisici, nelle parole dei suoi abitanti, evoca il fortino della Repubblica romana o - se ci si passa lo slittamento - le città anabattiste assediate dalle truppe luterane. I prof sono convinti di aver sfidato un potere ingiusto e invasivo.
In tarda mattinata, quando ancora la presenza del Papa sembra confermata, arriva in facoltà Luciano Maiani, nuovo presidente del Cnr, che sui giornali del mattino ha ammorbidito i toni e sdoganato la visita papale. «Ma il mio non è stato un dietrofront», giura Maiani. E aggiunge: «Certo, se due mesi fa fossi stato già designato alla guida del Cnr, mi sarei astenuto dal firmare la lettera. Se invece le polemiche sul mio conto stanno a significare che si vuole un presidente del Cnr che consideri superato il limite tra scienza e fede, allora ne cerchino un altro».
C’è orgoglio nella cittadella dei fisici, e anche a parlare con dozzine di prof non se ne trova uno pentito di essersi esposto. Ma c’è anche un po’ di paura, di essere additati come i fomentatori di possibili contestazioni violente, quindi di passare come censori e intolleranti. «Censori noi? Mi pare la storia del lupo e dell’agnello», ribatte Enzo Marinari. Il quale è mezzo indignato mezzo divertito dall’accusa secondo cui gli scienziati avrebbero travisato il senso della citazione di Feyerabend («All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto») utilizzata da Ratzinger tre lustri fa e oggi incriminata: «Il metodo - dice Marinari - è il medesimo del discorso di Ratisbona. Ratzinger usa una citazione, non la fa sua apertamente, ma di fatto la utilizza per sposarne la tesi».
In facoltà si aggira anche Carlo Bernardini, decano della comunità: «Mi pare che di questa storia si sia parlato fin troppo», butta lì. Che sia il primo pentito? «Tutt’altro - spiega Bernardini, ex senatore indipendente del Pci - non mi fa piacere che il papa metta piede all’università e non mi piace l’idea che i giovani possano essere influenzati da chi chiede alla scienza di arrestarsi davanti ai dogmi e alle dottrine». Il professor Calogero ne fa anche una questione di par condicio: «Se oggi tocca al papa, il prossimo anno chi invitiamo, il rabbino?».
Nel pomeriggio arriva la notizia che il pontefice rinuncia. I collettivi esultano, ma confermano le mobilitazioni di giovedì. Il ministro Mussi si dice «rammaricato». Il rettore pure. Da centrodestra e centrosinistra è un coro di accuse: censura e intolleranza verso Benedetto XVI. Un illustre fisico, Antonio Zichichi, si dissocia dai colleghi: «Questi signori della Sapienza contestano e travisano il pensiero del papa perché hanno una paura matta di Benedetto XVI, del suo gigantismo culturale». Ma al terzo piano Frova la pensa sempre all’opposto: «Ratzinger dice che la scienza è in crisi con se stessa. Ma questa è la condizione naturale della scienza: procedere per errore e per sperimentazione. Il fatto è che questo è un papa mal consigliato, spesso costretto a ritrattare, del quale solo in Italia si sopravvaluta la caratura intellettuale».

il Riformista 16.1.08
il papa alla Sapienza

Caro direttore, naturalmente anch'io credo che ognuno abbia il diritto di dire la sua, papa compreso. Quel che non mi convince è l'assurdità di chi sostiene che al pontefice sia negato il diritto di parola. Ma lorsignori li leggono i giornali? La guardano la televisione? E soprattutto, sono informati dell'immobilità della politica e di questo Parlamento su determinati temi, che chiamano "etici"? Cordiali saluti
Mariano Savi e-mail

Aprile on line 15.1.08
Il gran rifiuto
di Emiliano Sbaraglia


Il caso. Il Papa decide di non partecipare all'inaugurazione dell'Anno Accademico de "La Sapienza" di giovedì, scatenando le reazioni critiche di gran parte del mondo politico, e l'applauso fragoroso degli studenti riuniti in assemblea. Prodi condanna, per Veltroni si tratta di "una sconfitta", mentre il ministro Mussi parla di "grave sbaglio". Ma il pontefice rimane pur sempre il rappresentante di uno Stato straniero, che nei giorni precedenti, come in altre occasioni passate, non aveva certo favorito il dialogo tra le parti

Nella sua insuperata e insuperabile "Commedia", al canto terzo dell'Inferno Dante parla de "l'ombra di colui che fece per viltate il gran rifiuto"; la critica dantesca, appassionata dagli infiniti riferimenti contenuti nell'opera poetica, ancora una volta si divide tra due interpretazioni in particolare. La prima vuole che ci si rivolga a Celestino V, il quale abdica dopo le pressioni di Bonifiacio VIII, che appoggiava i guelfi neri nella guerra contro i bianchi, proponendosi dunque nello scenario politico come un gran nemico del poeta di Firenze. Ma Celestino, non sopportando il peso delle pressioni, abdica e non "rifiuta", quindi qualche dubbio rimane.
L'altro personaggio ipotizzato è Ponzio Pilato, di cui tutti conosciamo la storia. Il suo "lavarsi le mani" possiamo dire abbia inaugurato un genere di comportamento, nella politica come nella società moderna. Anche se, come il Sommo insegna, i tempi di Dante in fatto di corruzione e giochi di potere non erano propriamente digiuni. Anzi.
Ma rinfrescarsi la memoria grazie a questo passaggio della più importante opera della storia della letteratura italiana, ci aiuta a ricordare che il diritto di critica da parte del "mondo intellettuale" (per definirlo così), risale a secoli e secoli fa, e che forse prima godeva addirittura di una maggiore libertà rispetto a oggi. Per chi rimanesse scettico di fronte a tale chiave di lettura, può agevolmente saltare dal terzo al diciannovesimo canto dell'Inferno, dove i pontefici (alcuni pontefici ben precisi) vengono messi non solo nel territorio del diavolo, ma a testa in giù, con i piedi a bruciare: bramosi di ricchezze ottenute con simonie ed indulgenze, il loro contrappasso è servito. Chi avrebbe oggi il coraggio di raffigurare Benedetto XVI non tanto tra i demoni, ma almeno in Purgatorio?
Accade così che dopo giorni di dibattiti e dibattimenti, causa la presenza-intervento del Papa giovedì prossimo in occasione dell'inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Università "La Sapienza", alla fine Ratzinger opta per il colpo di teatro, rifiutando appunto l'invito che tanto clamore ha suscitato. Il Vaticano infatti giustifica la decisione parlando di "un problema più di immagine che di sicurezza per l'incolumità del santo padre". La visita viene dunque annullata per motivi di opportunità legati più che altro all'effetto che avrebbe potuto avere una contestazione ripresa dalle telecamere, che di certo avrebbe fatto rapidamente il giro del mondo. Le reazioni giungono rapide e copiose.
Tralasciando quelle di matrice destrorsa e conservatrice, che all'unanimità parlano di "vittoria dei violenti" e "vergogna nazionale", si registrano le dichiarazioni del ministro della Ricerca scientifica Fabio Mussi, invitato tra gli altri all'inaugurazione: "Sono sinceramente rammaricato. E' uno sbaglio aver creato le condizioni per cui il Papa abbia dovuto rinunciare alla sua visita all'Università La Sapienza. L'Università deve essere un luogo che accoglie e non respinge". A ruota quella del ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni: "Tappare la bocca, a chiunque, non è mai una vittoria per nessuno". Il premier Prodi incalza: "Un clima inaccettabile. Condanno chi ha provocato tensioni inaccettabili. Esprimo e provo profondo rammarico per la decisione del Pontefice". La chiosa è del sindaco Veltroni: "E' una sconfitta della cultura liberale e di quel principio fondamentale che è il confronto delle idee ed il rispetto delle istituzioni".
Rimane il fatto che ci troviamo di fronte a una figura che, al di là della componente religiosa, rappresenta lo Stato Vaticano, cioé uno Stato diverso da quello italiano. E se è pur vero che gli ospiti vanno accolti nella maniera dovuta, è altrettanto pacifico che gli ospitati dovrebbero contribuire a farsi ben volere. Soltanto pochi giorni fa, parlando di Roma, non dimentichiamo come il santo padre abbia disinvoltamente citato il termine "degrado", salvo poi una marcia indietro sostenuta dalla teoria dell'incomprensione dovuta agli "organi di stampa", che ricorda giochetti di bassa politica che per rispetto non stiamo neanche a commentare.
Tralasciamo poi le varie perplessità suscitate in un paese laico, come sulla carta (costituzionale) dovrebbe essere il nostro, da esternazioni come quelle di Ratisbona nei confronti di altre credenze, mentre il figlio di Dio (siamo tutti figli di Dio) Piergiorgio Welby non ha potuto veder terminare la propria atroce sofferenza nel conforto della Chiesa cattolica. Ci sarebbe inoltre da valutare il ruolo avuto per circa trent'anni da Ratzinger nell'aggiornare e controllare che fossero rispettati i dettami del "Crimen Sollicitationis", documento con il quale le autorità ecclesiastiche fanno recapitare ai vescovi di tutto il mondo una sorta di vademecum, per fare in modo che non si rendano note notizie e informazioni che potrebbero mettere sotto accusa di pedofilia preti e altre categorie clericali, almeno fino a quando ad indagare non sia stata prima la Chiesa stessa. Ma questa è un'altra storia.
Gli studenti, che erano riuniti in assemblea in un'aula della facoltà di Scienze Politiche, hanno accolto con un fragoroso applauso la notizia che il Papa non interverrà alla cerimonia di inaugurazione dell'Anno accademico.
Chissà come avrebbe reagito il padre della lingua italiana.