giovedì 17 gennaio 2008

l’Unità 17.1.08
E i «duri» non si fermano: oggi contesteremo Veltroni e Mussi
Annunciati sit-in e manifestazione. Gasparri: allontanare dall’ateneo i docenti firmatari della lettera
di Andrea Carugati


«NUNTIO VOBIS gaudium magnum: non habemus papam», recita orgoglioso e irriverente lo striscione appeso all’ingresso di Fisica. L’hanno affisso i collettivi, gli stessi che, sulla scalinata del rettorato, festeggiano la «vittoria laica». Ci sono le ragazze con le mitrie rosa di cartone con le scritte «No omofobia», «No Pope». Altre ragazze, con maschere di Ratzinger, distribuiscono i volantini della «frocessione». Recitano come un salmo le sigle dei vari collettivi («Sui generis», «Le mele di Eva»), seguite da un corale «goda pro nobis». «Il Papa è fuori dall’università, ora esca anche dalle nostre vite», dice una ragazzina. «Il Papa non parla più, Uolter ripensaci anche tu. No alla moratoria sull’aborto, no al pacchetto sicurezza», recita uno striscione. Già, perché Veltroni, e anche il ministro Mussi ora sono gli obiettivi dei manifestanti, che confermano tutto il ricco programma di oggi. Si parte alle 9.30 con il sit-in davanti a Lettere; alle 13,30, da piazzale Aldo Moro, partirà la «frocessione». Nel pomeriggio, davanti alla Minerva, la lectio magistralis del comico Andrea Rivera. Nel mirino, dunque, Veltroni e Mussi. Il primo, spiegano, «per il pacchetto sicurezza»; il secondo «perché non ha cambiato la riforma Moratti, anzi l’ha peggiorata con nuovi numeri chiusi». Ancora tensione con il rettore che, accusano, «ha deciso di impedire l’ingresso nella città universitaria a chiunque non sia studente della Sapienza».
Gli studenti ricordano di avere aperto «una breccia nel silenzio mediatico sulle continue ingerenze vaticane», ma rimandano al mittente le accuse di censura. «L’integralismo è di chi non vuole conflitti e dissenso», dice Francesco Raparelli, uno dei leader, che attacca le «insopportabili risposte del mondo politico» e propone un invito ai prof. Cacciari (che ha accusato gli autori della lettera di «cretinismo») e Asor Rosa alla Sapienza per discutere della vicenda. «Da noi non è arrivato alcun problema di sicurezza per la visita del papa», ricorda. «Nessuna violenza, nessun parallelo con Lama e il 1977». «Il Papa non è venuto perché non poteva permettersi di essere contestato», die Giorgio Sestili.
Tra i professori, invece, la linea non è univoca. Il direttore del dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco, esprime «rammarico» per il forfait del Papa e spiega a colleghi e studenti riuniti nel primo pomeriggio in un aula del suo istituto: «Siamo sotto attacco mediatico». Propone: «Organizziamo un dibattito aperto su 194, scienza e fede, in cui saranno i benvenuti tutti i rappresentanti che la Curia deciderà di inviare». Gli studenti sono d’accordo: «Il Papa venga qui per un libero dibattito». Sulla lavagna alcuni ricercatori hanno scritto che non sono d’accordo con la protesta e con la lettera. Si levano anche alcuni voci di studenti, come Antonio, che si dissociano dai «toni» delle contestazioni. Il prof. Carlo Cosmelli ribadisce le ragioni della lettera: «Un capo religioso non può inaugurare l’anno accademico di una università laica». Applausi. Quanto all’accusa di essere «cattivi maestri», dice: «Spero che il rettore ritiri questa espressione. La prendo come un lapsus». Più duro il collega Brunello Tirozzi, che strappa applausi parlando di «attacchi scomposti da una classe politica che non sa tenere fermo un principio neppure per un giorno». Attacchi anche a Buttiglione: «Vuole togliere a Maiani, medaglia della Fisica, il posto al Cnr perché ha scritto una lettera. E poi gli oscurantisti saremmo noi?».
Quasi nessuno parla di Maurizio Gasparri, che ha chiesto che «vengano assunte iniziative per allontanare dall'Ateneo i professori ancora in servizio che hanno firmato quel vergognoso manifesto». Gli risponde, da Fisica, il prof. Guido Martinelli: «Gasparri vuole fare le epurazioni come nel Ventennio? Si accomodi pure, noi continueremo a dire quello che pensiamo». Massimo Grossi, docente di Analisi matematica che non ha firmato la missiva, scrive al ministro Mussi: «Caro ministro, difenda i miei colleghi da questi indegni attacchi». Annuncio di dimissioni per protesta “pro Ratzinger” di Giovanni Martines Augusti, docente di Informazione radio tv alla Sapienza, discendente di una famiglia che ha avuto tre papi. A prof e studenti arriva la solidarietà del deputato Prc Caruso. «No alla caccia alla streghe contro docenti e studenti», dice il sottosegretario Paolo Cento. Intanto Forza Nuova ha annunciato che oggi non manifesterà.

l’Unità 17.1.08
Sessantotto volte no all’oscurantismo
di Toni Jop


Un notevole ciclo di film sul ’68 e dintorni va in onda su Raisat
Cioè sul satellite e non sulla tv generalista come sarebbe giusto

«Il ’68 ha prodotto una rivoluzione, i giovani allora hanno preso in mano la vita, quelli di oggi devono imparare a fare altrettanto»

Il direttore di Raisat ha programmato film come «Soldato blu» e «Conoscenza carnale». Per ritrovare l’esercizio di critica al potere

CINEMA E TV Freccero ha un piatto quasi pronto: una collana di film che affrontano i temi cruciali del ’68. Prima o dopo. Giusto mentre quell’anno compie il quarantesimo compleanno e viene attaccato come diabolico dal pensiero premoderno...

Signore e signori, lo spettacolo sta per iniziare. Sarà uno show indimenticabile e ne vedremo delle belle. Ma dite la verità: lo sapete anche voi. Perché non capiterà più in modo tanto bruciante che si aprano le celebrazioni dedicate al quarantennale del ‘68 mentre una parte non piccola della politica italiana, e non solo, accusa quell’anno e i suoi movimenti di essere, in pratica, il diavolo. Così, se da un lato Pierferdinando Casini si scatena contro i docenti che con le loro critiche avrebbero respinto il Papa prima che mettesse piede all’Università La Sapienza, accusandoli di rappresentare «i cattivi maestri del ‘68», Carlo Freccero, direttore di Raisat, si prepara a suonare le sue trombe, in direzione opposta e contraria, dal satellite. Intanto si capisce perché hanno voluto tenere fuori dalle tre reti generaliste una «testa calda» come quella di Freccero: chi lo controlla? Chi gli impedisce di mostrare come il ‘68, allo stesso modo del 1789, come la Resistenza siano eventi molto connessi di una storia nuova in cui l’uomo - come diceva Kant della Rivoluzione - si fa più padrone del suo destino? Vada per il satellite: il piano «sovversivo» è già in atto. Dal giorno 8 gennaio, da quando cioè hanno programmato per la prima volta Fino all’ultimo respiro di quell’altro «diavolo» di Godard, è in corso una programmazione osée di cinema non allineato con il pensiero ratzingheriano e interamente dedicato al ‘68 nonché posto sotto l’ombrello programmatico-esistenziale di «vivi la tua vita». «Il Sessantotto - diceva ieri Freccero - ha prodotto una vera e propria rivoluzione dei costumi, dell’organizzazione sociale e del lavoro. Nessuno ha detto ai baby boomer: “prego accomodatevi”. I giovani del ‘68 hanno preso in mano le proprie vite. I giovani di oggi devono imparare a fare altrettanto»: il senso polemico è chiaro, ma è come dire a Casini «ti è sfuggita la sostanza delle cose». Ma Freccero non vuole intervenire nella questione legata a questo presente, dice «no comment» ogni volta che gli si chiede una parola di cronaca. Fatto sta che ha messo assieme un «programma culturale», come si diceva una volta quando la politica non era una cosa che «faceva schifo» ma il miglior decodificatore della realtà usato a man bassa dalle fabbriche come dalle università. Perché, dopo Godard, ecco Bella ciao, immagini senza didascalia dalla Genova del G8; dove si potrebbero rintracciare, se si volesse, un bel pacco di veri «cattivi maestri» su come spezzare le ossa a ragazzi che dormono, inventare prove di accusa che non ci sono, ammazzare un ragazzo e, se possibile, farla franca. «Se oggi il ‘68 appare a chi non l’ha vissuto estraneo e ostile - è il pensiero di Freccero - è perché si muove ancora nello spazio della modernità. Vuol cambiare il mondo e vuole farlo con le armi del sapere e della critica»: è un pensiero che discende dall’illuminismo e dalle sue pratiche, messo alle corde da un presente programmato per rigettare queste e quello. «Dopo l’11 settembre 2001 anche le luci del consumismo e dello spettacolo si affievoliscono per svelare scenari premoderni: integralismo, fanatismo, terrorismo, collasso e penuria dei consumi e delle materie prime...A ben vedere - suggerisce il direttore di Raisat - gli unici punti fermi della vita di oggi sono i bersagli della critica del ‘68: Dio, Patria e Famiglia». Critica: che «brutta» parola, oggi, irritante come la varechina, soprattutto se applicata al potere e alle sue forme perché rischia di scomodare frammenti di verità che oggi se ne stanno più volentieri al riparo nei tabernacoli di sistema e, secondo Freccero «persino il potere, ossessione del pensiero politico di allora, non è più sinonimo di sopraffazione ma di sicurezza per i cittadini. Siamo tornati a prima della Rivoluzione». Se è così, e niente ci suggerisce che le cose non stiano esattamente così, allora questo programma su Raisat ha davvero qualche cosa di diligentemente, civilmente «sovversivo». Scorrere i titoli: Electra Glide, ovvero come in America si ammazzano i sogni, La meglio gioventù tutto sommato la storia di come la critica possa formare pratiche di vita, Gli amici di Georgia e Alice’s Restaurant di Penn e quello splendore di Conoscenza carnale di Nichols, che questo presente potrebbe opportunamente dichiarare fuori-legge per la devastante insicurezza con cui sembra minare la realtà. Sassate contro la vetrina del pensiero premoderno. A febbraio, Soldato blu, Model Shop, Bob & Carol & Ted & Alice, Darling, Giardini di pietra, Quadrophenia dove le immagini incrociano il demonio che esce dagli amplificatori degli Who. Il rock: almeno l’hanno sempre detto che è opera diabolica. Il programma è in costruzione, quello che vi abbiamo annunciato è solo l’inizio. Per il resto, c’è solo da augurarsi che Raisat trovi le sostanze per poter mettere in scaletta i titoli che le garbano. Bisogna accontentarsi ma quanto sarebbe stato utile e democratico che tutto questo avesse attraversato la prima serata di una rete pubblica generalista convinta che, anche se non dice, si vive nell’impossibilità di essere normali.

l’Unità 17.1.08
Università, mille anni d’educazione alla libertà
di Michele Prospero


Quella di Napoli fu fondata nel 1224 da Federico II che chiamò un ceto di specialisti laici

È dal Seicento con la nascita della scienza moderna che la Curia comincia
ad attaccare i «fisici perniciosissimi»

Dal 1088 a oggi, storia di un’«autonomia»

PAPI & SAPIENZA L’ateneo romano fu fondato nel 1303 da Bonifacio VIII. Un pontefice autoritario, che in epoca di Comuni rivendicava un obsoleto ruolo egemone per la Chiesa. Ma la laicità fu il vero insegnamento delle «universitates»

Sono ancora calde le polemiche sull’invito del Papa all’apertura dell’Anno Accademico della Sapienza. E sono anche debordate dall’oggetto in questione (come spesso accade nel nostro Paese) inondando altri «oggetti», ad esempio la guerra tra laici e cattolici, finendo per farci perdere il nocciolo della questione: ha senso che il pontefice sia l’ospite d’onore dell’avvio dei lavori di una istituzione che si occupa del sapere e della cultura? Di espressioni dell’attività umana che prescindono dalla fede? Non è l’università un «ente autonomo»? Ecco, allora, per rinfrescarsi la memoria, proponiamo in questa pagina una breve storia dell’università. Nata in Italia a Bologna nel 1088. Con questo spirito: l’attività universitaria è un’attività in cui uno studioso traccia i confini di una disciplina e conduce entro questi confini una ricerca rigorosa per amore del sapere; questo studioso, mentre ricerca, trasmette le sue conoscenze a una comunità di allievi che lo seguono liberamente, al di fuori di ogni altra istituzione ufficiale, sia essa la Chiesa o lo Stato; la società può rivolgersi a questo centro di ricerca per usarne le conoscenze a fini pratici.

C’è un che di evocativo nella storia della Sapienza. L’università di Roma, che ha in questi giorni spinto il papa al gran rifiuto, fu fondata nel 1303 proprio da un papa, Bonifacio VIII che di affronti, e non solo metaforici, ne subì parecchi. Conobbe prigionia, congiure, forse schiaffi e oltraggi. Questo ricco giurista «principe de’ novi Farisei», come lo chiamò Dante, dopo aver indotto Celestino V a rinunciare al soglio di Pietro e alla mortale prigionia, sfidò, incurante di ogni anacronismo, le potenze nascenti della nuova Europa. La sua rivendicazione di uno spazio pubblico egemone per la fede, la sua richiesta di esenzioni fiscali per il clero, lo indussero a scontri spesso cruenti. Umiliante fu la sconfitta che ricevette ad opera di re Filippo il Bello che rigettò ogni pretesa in campo tributario della chiesa. Agli scacchi politici sonori, il papa reagì organizzando il primo giubileo (che vide l’affluenza di un «esercito» molto ampio disse Dante) e si concesse alla folla dicendo: «Io sono Cesare, io sono l’imperatore». Con Filippo il Bello il monito rivolto ai potenti perché concedessero esenzioni dalle tasse e si inginocchiassero al cospetto del vescovo di Roma però non funzionò. La potenza reale di un monarca assoluto trionfò in Francia sulle illusioni di un papa che cullava ormai fragili e velleitari sogni autocratici di Respublica christiana. Non furono di sicuro estranei alla decisione di Bonifacio di fondare la Sapienza il suo anelito di dominio e una cura quasi narcisistica della propria immagine (ancora vivo, si fece raffigurare in quadri di Giotto e in una impressionante quantità di statue erette ovunque).
Le università nacquero a ridosso della fioritura della grande civiltà comunale (a Bologna se ne hanno tracce già nell’XI secolo) e si svilupparono proprio in questo clima di scontro aperto tra la chiesa (che rivendicava la fusione delle due spade, la temporale e la spirituale), l’impero e i nuovi re nazionali che reclamavano il pieno controllo del territorio, dei tributi e dell’immaginario. Federico II affrontò in campo aperto la chiesa, la prima istituzione peraltro a fare un uso pubblico dell’università, e non solo perché quasi tutti i papi erano laureati ma perché nella sua ossatura amministrativa si avvaleva di competenze d’ufficio e di un diritto canonico formalizzato e con una forte impronta romanistica. Federico nel 1224 fondò a Napoli la prima università statale d’Europa con l’ambizione di erodere la supremazia culturale della chiesa e dell’università di Bologna così rinomata negli studi giuridici (il suo stretto collaboratore Pier delle Vigne si era formato proprio a Bologna). Con la fondazione dello Studio di Napoli, al quale chiamò ad insegnare i giuristi e i filosofi più prestigiosi, Federico intendeva fornire una formazione laica a un corpo tecnicamente attrezzato di funzionari pubblici. Questo ceto di specialisti, non più di estrazione ecclesiastica, avrebbero dovuto sentire lo Stato e non la chiesa come fonte unica di obbligazione negli affari pubblici.
Sebbene le istanze di un controllo politico centralizzato fossero molto pressanti, lo studio di Napoli fu la fucina di un sapere d’impronta laica e, per l’epoca, di sapore tollerante (si studiavano i cattivi maestri del tempo e cioè i filosofi arabi, ebraici e greci, un po’ come a Padova i cui corsi universitari erano stati inaugurati nel 1222). L’apertura e la profonda libertà dello studio napoletano si ricava dal fatto stesso che nei suoi banchi si formò nientemeno che san Tommaso d’Aquino, cugino di Federico. L’Aquinate, teologo scrutato con un certo sospetto dalla chiesa per il suo dialogo imbarazzante con Averroè e Aristotele, fu richiamato a Napoli nel 1272 da Carlo d’Angiò per fondare la facoltà di teologia presso il convento di San Domenico Maggiore (lo stesso dove furono ospitati personaggi perseguitati e inquieti come Campanella e Giordano Bruno e che per qualche tempo fu sede anche dello Studio pubblico o università). Solo in una università pubblica, come quella fidericiana, erano pensabili quegli innesti di saperi pagani e blasfemi che un peso ebbero eccome nella struttura del pensiero tomista, così sensibile ad alcune eversive istanze teoriche del naturalismo averroista. Rispetto alle università francesi (alla Sorbona), quelle sorte nei principali comuni italiani (Bologna, Padova soprattutto) conservarono per un certo tempo una spiccata autonomia dal controllo ecclesiastico e insegnarono una materia dalla genesi così palesemente pagana come il diritto romano, bandito invece dalla chiesa all’università di Parigi.
Le tesi di Averroè (la più scottante era senz’altro quella secondo cui il mondo è eterno e pertanto non creato), su precisa istanza dottrinale avanzata dal papa, furono colpite dalla condanna promulgata dal vescovo di Parigi nel 1277. Una commissione di 16 maestri di teologia dirimeva nell’università parigina le dispute metafisiche e denunciava gli «errori» di chi non riconosceva la onnipotenza divina nella determinazione dell'ordine del mondo. Il controllo dottrinale era opprimente. Con un abile ribaltamento semantico, le accuse di dogmatismo ricadevano proprio sulla libera filosofia di Averroè ed Aristotele, esempi di vana curiositas, mentre non dogmatica e luminosa era considerata la verità della fede che si imponeva con la sua certezza assoluta al gracile paradigma dei saperi. La pretesa di ricondurre alla supervisione della teologia il discorso fisico-naturale durò molto a lungo dopo la denuncia dell’error Averrois. Non a torto Koyré ha affermato che il moderno incomincia non tanto dalla scoperta dell’America quanto dalla comparsa nel 1453 di un testo essenziale di Copernico circa il movimento della terra. Questo prete polacco nel suo De revolutionibus orbium caelestuium condensò in una formula esplosiva il distacco necessario dei saperi fisico-naturali dalla custodia teologica: «Mathemata mathematicis scribuntur». Cioè «la matematica si scrive per i matematici», e non per i teologi, del cui giudizio si può fare tranquillamente a meno. Lo stesso invito al silenzio lo rivolse ai teologi anche Alberico Gentile per fondare, nel 1588, esule a Londra, il moderno diritto internazionale. Silete teologi in munere alieno! era la sua ferma intimazione.
In una Europa sempre più policentrica prendeva ormai quota lo Stato territoriale che spezzava ogni pretesa di fondare sull’altare il sostegno dei troni. Religione e politica sotto le monarchie assolute trovarono nuove sintesi che rovesciavano i pilastri della cristianità medievale. In molti Stati la fede divenne uno strumento del controllo politico e del disciplinamento sociale. Hobbes si fece interprete di questa esigenza di una sovranità dello Stato da far valere anche sulla chiesa. Per Hobbes il diritto è nient’altro che ius positivum, comando posto cioè da un’autorità, che si esprime sempre più con una lingua nazionale, e non dalla Verità che ricorre al medium del latino e al potere ermeneutico del clero. Il legalismo giuridico hobbesiano postulava un efficace controllo sulle università percepite come possibili luoghi di sedizione. Proprio Hobbes tuttavia coglieva l’essenza dell’università pubblica vista come sede in cui vale solo la dimostrazione che prevale sull’autorità e sull’oscurantismo religioso. In età moderna la separazione tra Stato e chiesa ha condotto a sistemi di istruzione laica che hanno eroso le posizioni a lungo dominanti del clero e hanno concesso autonomia alla ricerca affrancata dai rigidi controlli autoritativi. Dopo la spada, la moneta e anche il sapere è diventato un irrinunciabile status symbol del moderno Stato. In Italia, però, a causa del ritardo con cui lo Stato è sorto, ci sono state lunghe fasi di ripiegamento provinciale e dialettale, momenti di stagnazione sociale e culturale, di cupa restaurazione religiosa (condanne a vario modo hanno coinvolto Dante, Boccaccio, Machiavelli, Pomponazzi, Galilei). Per questo un paese che pure nel ‘600 contava 25 università (un record europeo) non riuscì a dare uno sbocco politico-statuale alle nuove istanze culturali del moderno.
Le dispute tra fede e sapere, che appassioneranno ancora Hegel sul piano speculativo, per le scienze empiriche sono invece diventate del tutto sterili: le controversie si risolvono solo con gli strumenti verificabili dei saperi speciali. Risiede proprio qui l’ossatura oggettivamente laica del paradigma scientifico, e a nulla sono valsi indici dei libri proibiti (la corona inglese precedette la chiesa nel redigerli), sillabi, censure, roghi e processi. Tutti gli interrogativi sulle idee, sulle cause, sull’anima, sul mistero dell’inizio si risolvono con il rigore dell’analisi. Qui risiede un punto di non ritorno. A togliere la parola al teologo, da questo punto di vista, non è certo l’esuberanza giovanile dei collettivi studenteschi o il laicismo demodé di 67 fisici (di «fisici perniciosissimi» la curia parlava già nel 1676). A rendere afona la voce delle potenze spirituali è la logica specifica delle scienze (le scienze della terra poi sono così irriguardose quando mostrano che per formare un pianeta come la Terra sono occorsi 100 milioni di anni; neanche le neuroscienze scherzano quando descrivono le idee come un casuale meccanismo di trasmissione chimica di impulsi nervosi). La microbiologia, la biochimica, l’ingegneria genetica, la fisica delle particelle elementari, l’astrofisica con le loro acquisizioni demoliscono gli ultimi pregiudizi religiosi. Esse espellono cause finali, sensi ultimi delle cose e ricostruiscono il disordine, la contingenza, il caso, le grandi catastrofi evolutive. L’indipendenza che le universitates dovevano assicurarsi oggi si tutela con il materialismo muto delle scienze.

l’Unità 17.1.08
L’insostenibile leggerezza di Ferrara
di Paola Gaiotti de Biase


La lotta contro l’aborto ha una sola via: creare condizioni economiche e sociali di solidarietà in cui la maternità possa essere vissuta serenamente
Il resto è solo un gioco verbale

È con fastidio che si interviene nel dibattito aperto da quest’ultima provocazione di Ferrara, che riesce a dimostrare insieme il suo cinismo e la troppa disponibilità della stampa italiana a prendere sul serio strumentalizzazione e protagonismi che non servono a nessuno e si muovono con spregiudicatezza e insieme superficialità su terreni che meriterebbero ben altro spessore. Cosa hanno in comune la pena di morte e l’aborto tanto da dover collegare la moratoria dell’Onu (fra l’altro si badi bene iniziativa altamente meritoria e politicamente significativa per gli Stati, ma non vincolante per nessuno, non si sa come applicabile a singoli) alla legge sull’aborto. L’accoppiamento di due temi così diversi, nelle logiche e condizioni che ne sono all’origine, nelle pratiche che possono combatterli, nei soggetti che ne sono responsabili, nasce solo dall'evocazione di questa magica parola “vita”, una parola intorno a cui si è andato come coagulando, in una sostanziale fuga dalla politica reale e dagli strumenti che è in grado di usare, il rimando a qualcosa di intangibile e assoluto, che va oltre, e spesso ignora, l’unico assoluto e intangibile che per la politica è la persona reale.
Si tratta, infatti, di una espressione insieme ovvia e generica, politicamente inutilizzabile per la sua vaghezza, usata, proprio per la sua genericità quasi come una fuga dall’analisi approfondita di come e dove la vita umana si difende e garantisce, dei rischi che affronta, degli strumenti cui si può ricorrere. È entro quest’analisi che la laicità della politica è chiamata a trovare risposte coerenti ai diritti non genericamente della vita ma degli esseri umani nella loro concretezza.
Si può e si deve difendere la vita, ma per farlo davvero, in fedeltà alla propria coscienza bisogna maturare ben altra consapevolezza degli strumenti adeguati per farlo. Il primo dilemma che ci troviamo di fronte da questo punto di vista sta, a seconda dei problemi che ci troviamo ad affrontare, nella scelta fra strategie preventive e strategie repressive, in particolare in questo caso in cui siamo di fronte alla verifica oggettiva da secoli del fallimento da una parte e del danno aggiuntivo dall'altra legato alle strategie repressive.
In Italia, checchè se ne dica, la lettera della legge 194 non assume affatto il diritto all’aborto ma fa le scelta della strategia preventiva e la fece, (e vorrei ricordarlo per essermene occupata anche da storica in un saggio di qualche anno fa) con particolare forza grazie agli emendamenti introdotti da due cattolici esemplari, Gozzini e Pratesi. Ritengo che il no democristiano a questa scelta preventiva cui si approdò, abbia bloccato allora anche la possibilità di influire sulla legge riducendone qualche ambiguità. Il referendum che ne seguì fu condotto ignorando totalmente la natura del problema politico reale cioè la scelta politica concreta della strategia preventiva o repressiva, per concentrasi tutto polemicamente sul dilemma astratto e di principio, del si o del no alla vita, assai male riflesso del resto nello stesso dispositivo referendario. Questa scelta, politicamente errata e cieca, non solo favorì ulteriormente la sconfitta, comunque prevista, dell’iniziativa referendaria, non solo radicò nella grande maggioranza degli italiani il si all’aborto attraverso un voto personale, ma accreditò insieme alla vittoria della legge la lettura dell'aborto proprio nella chiave assolutizzante di fatto come un diritto. I colpevoli di quel clamoroso e prevedibilissimo, errore storico non solo non ne risposero mai, ma finirono coll'essere considerati dalla Chiesa come i figli più coerenti e affidabili.
Quest’errore ne portò con sé un altro ancora più grave: la prevalenza di un conflitto di natura ideologica, di principi, anziché di strumenti, fece si che non si affrontò né allora né poi proprio il problema centrale degli strumenti adeguati della prevenzione, salvo qualche tentativo di introdurvi elementi dissuasivi, di fatto repressivi. La scelta preventiva ha dato, come è stata puntualmente ricordato più volte in questi anni, risultati certamente importanti non trascurabili. Ma si tratta pur sempre di una scelta ancora parziale e da integrare nei suoi strumenti decisivi. Ricordiamo i punti centrali: aumentano significativamente i fondi destinati ai consultori, confidando su un loro insediamento sul territorio nazionale, che non ci sarà; si impone una informazione sui contraccettivi che certamente contribuirà a ridurre sempre più, ove praticata, il ricorso all’aborto; ma mancano e mancheranno a lungo le misure di sostegno economico e sociale alla maternità, senza le quali non ha fondamento pratico un’azione dissuasiva dei consultori.
I sostenitori della moratoria non ci stanno proponendo un ritorno alla strategia repressiva: ma che cosa allora? Una predica edificante? Una ripresa della informazione sulla contraccezione? O finalmente una vera politica delle famiglie? Ma se è questo perché chiamarla moratoria?
Qualcuno pensa che proibire gli asili ai figli degli immigrati clandestini possa dissuadere le migranti, che sono sempre i soggetti oggi più esposti, dal ricorrere all’aborto o è il contrario? La lotta contro l’aborto ha una sola via: creare condizioni economiche sociali, culturali, di solidarietà collettiva in cui la maternità possa essere vissuta serenamente e responsabilmente. Il resto è gioco verbale e impotente.

l’Unità Roma 17.1.08
Rammarico per il Papa: in dodici non votano
Escono dall’aula della Pisana per non sostenere la mozione: «C’è stata protesta, non intolleranza»
di Mariagrazia Gerina


IL DISAGIO espresso da assessori come Daniela Valentini e Giulia Rodano, entrambe di cultura cattolica, da Luigi Nieri (Prc) e dai Verdi. Il documento letto da Enrico Fontana

«Vorrei che il mio pontefice non parlasse voltandomi le spalle, ma si aprisse al mondo», spiega mentre abbandona l’aula Daniela Valentini (Pd), che, data l’occasione, parla «da credente» oltre che da politica: «Sono dispiaciuta per la mancata partecipazione del papa, ma sono anche profondamente sofferente per il clima di continua divisione e incomprensione e amareggiata dal tormento a cui viene sottoposta la nostra comunità da parte di alcuni della gerarchia ecclesiastica». Alla Pisana si vota la mozione di solidarietà con Bendetto XVI. Una mozione bipartisan: la destra ne ha appena proposto una per «condannare le manifestazioni di intolleranza discriminatorie nei confronti della visita del Pontefice», il capogruppo del Pd Giuseppe Parroncini ne propone un’altra «che sia più largamente condivisibile». Il testo esprime «rammarico», respinge «ogni manifestazione di intolleranza», auspica «che il papa possa al più presto visitare La Sapienza in un clima di rispetto e accoglienza» e impegna Marrazzo «a rappresentare nelle sedi opportune la volontà del Consiglio regionale». L’opposizione la vota, ritirando la propria, la maggioranza anche e il testo passa all’unanimità. Ma senza il sì di dodici consiglieri che lasciano l’aula prima del voto. Se ne va la Pd Valentini, se ne va anche Giulia Rodano, di Sd e cattolica, via il Prc Luigi Nieri e il verde Filberto Zaratti, tutti e quattro assessori oltre che consiglieri, e poi Maria Antonietta Grosso e Luisa Laurelli del Pd, Anna Pizzo, Ivan Peduzzi e Alessandra Tibaldi del Prc, Enrico Fontana e Peppe Mariani, Roberto Alagna, Giuseppe Celli. Un modo pacato per esprimere dissenso o disagio lasciando che l’aula si dica solidale con il papa, senza divisioni, ma anche senza il voto di chi, pur condividendo il rammarico per la mancata visita del papa, non vuole condannare «chi ha protestato pacificamente», spiega il verde Fontana.
Difficile davvero mettere d’accordo tutti se la questione è Benedetto XVI, il papa che divide. La destra lo sa e, dopo aver cavalcato, smentita dalla Santa Sede, le parole pronunciate da Ratzinger durante la visita degli amministratori locali, prova a cavalcare ora il caso Sapienza. L’azzurro Pallone attacca i dissidenti della Pisana, il nazional-alleato Marco Marsilio attacca preventivamente quanti oggi nell’aula Giulio Cesare potrebbero fare altrettanto. Sia l’opposizione che la maggioranza preparano infatti per questo pomeriggio un documento sulla mancata visita del papa alla Sapienza - lo stesso presidente Mirko Coratti ha irritualmente chiesto «un chiaro segnale al consiglio comunale». Ma non tutti si preannunciano d’accordo: «Se mai dovremmo censurare il rettore che ha gestito malissimo la vicenda», suggerisce la Prc Adriana Spera. Ma An ha già scelto il proprio capro espiatorio: cattolico, piddino, veltroniano, Paolo Masini. Non basta a discolparlo aver puntato il dito «contro qualche trombone e laicista». Marsilio lo attacca a testa bassa per aver detto: «Mi dispiace sinceramente che il papa abbia deciso di non andare». E poi, addirittura: «Questo pontefice causa più divisioni e polemiche che spirito di comunione e fratellanza». Vietato dirlo nella Roma papalina messa in scena in queste ore dalla destra.

Repubblica 17.1.08
Evitare conflitti
Dal Venezuela la strategia del presidente della Camera per tenere il governo al riparo
Bertinotti frena il Guardasigilli "Niente guerre coi magistrati"
Eviterei di usare parole che possano far pensare ad un conflitto tra poteri dello Stato
di Umberto Rosso


CARACAS - Fausto Bertinotti dice di sì al dibattito parlamentare sul caso Mastella. «L´opposizione chiede un confronto in aula sulla vicenda, e io sono d´accordo: è giusto affrontare una discussione approfondita, aperta, senza reticenze e d´altra parte senza alcuna paura». Un fitto giro di telefonate con l´Italia, con Prodi e con gli uffici della Camera appena, poco dopo le sei del mattino qui a Caracas, lo informano dell´ultima grana per Prodi e la maggioranza. E l´orientamento del presidente della Camera è presto chiaro: grande solidarietà umana al ministro della Giustizia ma allo stesso tempo il caso non va assolutamente «nascosto» ma portato alla luce del sole e affrontato apertamente.
Lo ha spiegato ai suoi interlocutori, a Romano Prodi, ed ecco appunto la scelta di convocare una seduta a Montecitorio, considerato anche che Bertinotti già da stasera sarà in volo per far ritorno in Italia dopo il viaggio in Sud America, che si è concluso a Caracas incontrando prima la madre della Betancourt e quindi il caudillo rosso Hugo Chavez, il presidente del Venezuela. Nel Barrio Cotizia della capitale, Bertinotti va a verificare di persona come funziona il socialismo di Chavez nelle favelas della città, le cento casette della Villa del Sol che prendono lentamente il posto delle baracche, «anche una nuova architettura, con un cuore urbanistico che rinsalda i legami della comunità, serve a ridurre la criminalità», e intanto riceve altre e allarmanti informazioni sull´inchiesta che coinvolge Mastella e la moglie Sandra. Governo in difficoltà? «La difficoltà è evidente, ma è difficile fare una previsione a Roma figurarsi dal Venezuela».
Preoccupato, il presidente della Camera, lo è. E non lo nasconde. Però è convinto che la maggioranza possa farcela a superare la tempesta ad alcune condizioni. Tanto per cominciare «niente panico, bisogna tenere i nervi saldi, e poi mantenendo una linea diritta credo non sarà difficile venirne fuori». Già, una linea diritta. Quale? Intanto, evitare il corto circuito fra politica e magistratura, quello che il presidente della Camera chiama il «conflitto tra le istituzioni». Ovvero Mastella che nel suo discorso attacca a testa bassa i giudici ad orologeria e l´Anm che già scende in campo a difendere le toghe. Se si scatena questa nuova guerra, questo delicatissimo passaggio diventa ingovernabile, con il rischio di una marea montante dell´antipolitica. «Eviterei di usare parole che possano indurre a pensare ad un conflitto tra poteri dello Stato - è perciò la bacchettata di Bertinotti al Guardasigilli - i problemi vanno affrontati per come si presentano».
Niente crociate in nome delle grandi categorie, la Politica contro la Magistratura, «non bisogna generalizzare». Gli elementi di tensione «ci sono stati e ci sono» ma vanno affrontati appunto caso per caso. «La magistratura faccia il proprio lavoro, le indagini facciano il loro corso, e aspettiamo la fine dell´inchiesta prima di trarre conclusioni». Sul piano politico, «si possono governare gli eventi procedendo su una linea retta, certo, sempre che gli eventi non siano tali da rimettere tutto in discussione».

Repubblica 17.1.08
Alla Sapienza dopo il no del Papa. Ma non c'è il clima degli anni Settanta
Le due anime contro nell'università che torna sulle barricate
"Nessuno voleva censurare il Papa, chiedevamo solo che accettasse il confronto"
"Qui non c'è spazio per chi sta dalla parte della fede, c'è solo intransigenza"
di Marco Lodoli


Piove alla Sapienza, un´acquetta scura e noiosa viene giù per tutto il pomeriggio, svuota i viali, crea malinconia. La facoltà di Fisica e la chiesa se ne stanno come sempre una accanto all´altra, per anni si sono tenute compagnia o si sono ignorate, ma adesso sembrano le roccaforti di due schieramenti opposti, tremendamente separati dalla questione della mancata visita del Papa. Sopra l´ingresso della facoltà è appeso un grande lenzuolo dove c´è scritto: «Nuntio vobis magnum gaudium... non habemus papam». Dentro incontro subito i professori Andrea Frova e Paolo Mataloni, docenti di fisica e oggi sinceramente indignati per la piega che ha preso il dibattito. Soprattutto il professor Frova è scandalizzato da come tutta la faccenda sia stata travisata: «Nessuno ha mai impedito a un papa di venire a parlare all´università, nessuno ha mai censurato nessuno. Paolo VI e Giovanni Paolo II sono stati ospiti graditissimi di questa università. I firmatari della lettera hanno soltanto voluto affermare quanto fosse inopportuno che Ratzinger venisse a fare il suo discorso nel giorno dell´apertura dell´anno universitario. Poteva tranquillamente venire dieci giorni dopo, o quando meglio credeva, a fare la sua lezione, accettando però, come la tradizione di questo luogo pretende, domande e obiezioni. Purtroppo questa nostra legittimissima posizione non è stata presa in considerazione, e ora sembra quasi che noi siamo stati i fautori di una linea intransigente e antidemocratica. Noi abbiamo solo difeso la libertà della Sapienza, la libertà degli studi e della ricerca, da ogni ingerenza esterna. Avremmo detto di no anche a Sarkozy o al Rabbino di Roma».
Fuori, sul piazzale davanti alla facoltà, assisto a un dibattito spontaneo e accaloratissimo, preciso e appassionato, di quelli che mai riusciamo a trovare sui canali televisivi. Due piccoli gruppi di studenti si fronteggiano con un´abilità dialettica e una preparazione culturale veramente straordinaria. Marco è tra coloro che credono sia stato più che giusto esprimere un dissenso sulla visita del Papa. È pacato, intelligente, acuto. Tutto in effetti ruota attorno alla parola "dissenso". «È la base della democrazia, noi abbiamo il sacrosanto diritto di contestare l´arrivo di Ratzinger e guai se non fosse così. Non c´è stato alcun gesto violento e non ce ne sarebbero stati neppure il giorno dell´eventuale discorso del Papa. Solo dissenso, solo la civile difesa del nostro pensiero differente. Ha fatto male Benedetto XVI a non accettare una contestazione, non può sempre parlare come dalla finestra di san Pietro, deve confrontarsi con chi ha convinzioni diverse dalle sue».
L´altro gruppo, formato da studenti di Comunione e Liberazione, freme di sdegno. «L´università ha fatto una figuraccia – s´infervora Lorenzo, che mi pare il leader – i professori hanno addirittura attribuito al Papa una frase che invece era di Feyerabend, hanno preso una cantonata indecente. Il fatto è che non si è permesso alla massima autorità spirituale del nostro mondo di entrare qui alla Sapienza per esprimere le sue e le nostre convinzioni. Abbiamo cercato di distribuire un volantino a Scienze Politiche e ce l´hanno impedito in malo modo. Qui non c´è spazio per chi sta dalla parte della fede, c´è solo intransigenza e brutalità».
Due mondi si fronteggiano, nessuno è disposto a fare un passo indietro. Gli studenti cattolici sostengono che Ratzinger non poteva proprio passare in mezzo alla folla inferocita che si sarebbe raccolta davanti al rettorato. Sarebbero arrivati da tutti i centri sociali a fare casino e chissà che cos´altro ancora. Marco non demorde. Non gli sta bene questa fuga del Papa, non gli piace che il nostro paese non accetti la molteplicità delle opinioni, che sia ancora succube del Vaticano. Le parole corrono, ma nessuno alza la voce, nessuno insulta l´avversario. Arriva Michele, anche lui contrario alla visita del Papa: «Non sarebbe successo niente, figurati, ci sarebbero stati i cecchini sui tetti».
Passo a Scienze Politiche. Anche qui, sotto la pioggia battente, l´argomento è uno solo: Papa o non Papa. Quello che mi colpisce è la capacità di ragionare lucidamente da una parte e dall´altra, non ci sono facinorosi, invasati, avvelenati. È tutto un altro clima rispetto agli anni Settanta. Si ascolta senza interrompere, quindi si replica. Si discute sull´intromissione della chiesa nelle scelte governative. Molti sono schifati dalla debolezza della sinistra ufficiale, sempre troppo ossequiosa, troppo prudente. Che dire? È l´università come io non me la ricordavo. È dialogo, confronto, ragionamento. Questi ragazzi la sanno lunga, bisogna solo dargli spazio, starli a sentire con attenzione. Forse questo è il problema principale del nostro paese: parlano sempre gli stessi, e alla fine sono chiacchiere stanche, lontane dal campo fangoso dove si gioca accanitamente la partita del presente e del futuro.

Repubblica 17.1.08
Perché abbiamo bisogno di un nuovo '68
di Günter Grass


In un mondo in cui l´ultima ideologia che ancora regna incontrastata, tanto da fregiarsi di infallibilità, è il capitalismo, che detta le leggi dell´economia di mercato ma brucia mercati e capitali, in un mondo, dunque, in cui per smania di profitto e senza pudore si cancellano posti di lavoro, si ignorano i salari minimi e la distanza tra povero e ricco cresce a dismisura, l´alternativa al regno assoluto del capitale può essere trovata solo nel socialismo democratico. Lasciato in eredità dal movimento dei lavoratori europeo, esso si è dovuto rinnovare costantemente.

Non è soggetto ad alcun dogma. Il suo obiettivo è il percorso. Ha bisogno di costanti revisioni. Sì: i socialisti democratici sono dei revisionisti provetti. Solo grazie a questa qualità il socialismo democratico è potuto sopravvivere ai divieti e alle persecuzioni delle dittature. La storia del partito socialdemocratico, il più vecchio partito democratico tedesco, dimostra tale potere di sopravvivenza. E´ un motivo più che sufficiente per trarre forza da questa tradizione gravida di esperienza e affrontare le molteplici sfide del XXI secolo con rinnovato vigore.
Sono sfide multiformi: al termine del secolo scorso è si è potuto porre fine alla divisione della Germania, alla spaccatura dell´Europa, almeno per quanto riguarda la scomparsa delle frontiere impermeabili. Ma all´unità territoriale della Germania manca il legame sociale, dunque l´unione della società basata sul riconoscimento reciproco; e l´Europa diventata più grande non deve scadere nel semplice ampliamento di mercato, ma è piuttosto auspicabile un´Europa che sulle basi della propria forza commerciale si impegni in una carta sociale comune e che non si irrigidisca all´esterno diventando una fortezza.
All´inizio del nuovo secolo si sono presentati come non più ignorabili anche i cambiamenti globali, già da tempo indicati, purtroppo inutilmente, come una minaccia. C´è l´evoluzione demografica che ha tendenze opposte: da una parte la popolazione mondiale cresce minacciosamente, dall´altra si registra la mancanza di nuove leve nei paesi industriali europei, soprattutto in Germania. Parallelamente i danni del cambiamento climatico causato da sostanze tossiche e le sue conseguenze globali non possono essere più negati neppure da ignoranti cronici. A un numero crescente di crisi e zone di crisi in Medio Oriente e in Africa corrisponde il debole atteggiamento delle democrazie occidentali, che evocano la minaccia del terrorismo come nemico esterno, ma devono la crescente perdita di credibilità alle propria autonoma decadenza.
L´industria farmaceutica, quella automobilistica, o le banche, hanno un potere che non è legittimato né dalla costituzione, né dal popolo sovrano, e che determina sempre di più la politica sino all´attività legislativa. Sono loro che nello stato puzzano di marcio. Loro, non eletti, ma armati del potere del capitale, incarnano il più acerrimo nemico della democrazia. Le lobby non conoscono limiti. Gli asociali salari dei manager e la corruzione imperversante ovunque sono i fenomeni che accompagnano il lobbismo.

Visti questi mali evidenti, in parte supportati da media non indipendenti, non c´è da stupirsi se sempre meno cittadini sono pronti a fare uso del proprio diritto di voto, dato che la loro supposizione sempre più frequente, «tanto quello che succede o non succede nella politica non viene stabilito in parlamento ma ai piani alti», trova conferma giorno dopo giorno. Così la democrazia si trasforma in farsa. Così lo stato afferma apertamente la propria impotenza. Così il collasso della struttura democratica avviene liberamente dal proprio interno. Eppure la crescente perdita di credibilità della democrazia parlamentare viene accettata come un destino ineluttabile da tutti i partiti, anche da quello socialdemocratico, che dovrebbe essere consapevole che solo in una democrazia fedele alla costituzione si può realizzare la giustizia sociale.
Gli appartenenti alla mia generazione, che hanno vissuto la fine della guerra da bambini invecchiati precocemente, io ero diciassettenne, sono diventati adulti con la nostra democrazia. Ci sono state impartite delle lezioni pesanti. La democrazia che ci è stata prescritta dai vincitori doveva vivere di vita propria. Ci siamo messi al lavoro sulle macerie, appesantiti dalla colpa e dall´infamia persistente. Doveva nascere qualcosa di nuovo. Progresso, stagnazione e recessione hanno marcato un lungo cammino.
Il mio coinvolgimento nella politica in quanto scrittore è stato preparato da una lunga permanenza in Francia, durante la seconda metà degli anni Cinquanta. Ma ho preso partito solo all´inizio degli anni Sessanta, tornato a Berlino, quando fu costruito il muro e il sindaco Willy Brandt si candidò per la prima volta alla carica di Cancelliere. Abbandonai pulpito e manoscritto, lo scrittore si determinò in quanto cittadino che voleva percepire i suoi diritti democratici come doveri.
Devo molto a Willy Brandt. Da lui si poteva imparare che l´agire pragmatico, dettato dalle necessità del presente, e lo sguardo politico, il riconoscere i problemi futuri, non si escludono a vicenda. La sua politica tedesca dei "piccoli passi" si affermò con successi parziali, rese più permeabile la frontiera in mezzo al Paese diviso e aprì la strada alla successiva riunificazione. Nel bel mezzo della guerra fredda, nonostante l´ostracismo dei suoi avversari politici, favorì la distensione ponendo le basi per il futuro. Prima di tutti gli altri che si sono resi meritevoli nel persistente obiettivo della riunificazione tedesca, dovrebbe essere citato lui, il socialista democratico Willy Brandt. Dopo aver lasciato la carica di cancelliere ha favorito una politica globale efficace e rivolta al futuro come nessun altro politico. Parlo del Rapporto Nord-sud, che ha redatto a metà degli anni ´70 su richiesta dell´Onu. All´epoca la presa di coscienza di una crescente discrepanza tra un nord ricco e un sud povero provocava solo qualche cortese cenno con la testa. Ma chi apre oggi quel rapporto si accorge che Willy Brandt già all´epoca chiamava per nome quelle che oggi sono le devastanti conseguenze delle occasioni perse di allora.

Arrivo al mio prossimo appunto: il compito dei socialdemocratici tedeschi è riconoscere come linea guida per il proprio agire politico la prospettiva introdotta da Willy Brandt. Ciò significa che chi vuole arginare il terrorismo e infine eliminarlo dovrebbe prendere in mano il rapporto nord-sud e riconoscere nella povertà crescente, nella fame, nel dominio e nelle umiliazioni post-coloniali, le cause della virulenta violenza di oggi e del terrore che non si può sconfiggere solo con la contro-violenza militare. Il discorso che Willy Brandt, ancora in carica, tenne alle Nazioni Unite, terminò con la frase: «Anche la fame è guerra!». Io c´ero, quando parlò davanti all´assemblea generale a New York. Il suo grido fu soffocato dagli applausi. Di più non accadde.
Infine mi si impone un ultimo appunto. L´anno 2008, ancora giovane, ci darà la possibilità di riflettere sulle proteste studentesche di 40 anni fa. In molti media la resa dei conti con i sessantottini è già cominciata. Alcuni, che ai tempi si proclamavano di estrema sinistra, sono diventati cassa di risonanza della destra. No, la protesta della gioventù negli anni ´67 e ´68 era attesa, necessaria, e ha liberato la repubblica federale dal suo irrigidimento restauratore. Allora accompagnai la protesta con simpatia, ma anche criticando la retorica pseudo-rivoluzionaria di alcuni suoi portavoce. Quella sollevazione, che l´emergenza educativa in scuole e università e la lontana guerra del Vietnam avevano acceso in tutto il paese, non poteva essere placata dalle manganellate della polizia. In segno di sfida si chiedevano risposte politiche. Non pochi studenti si trasformarono in socialdemocratici. La Spd si rafforzò. L´anno successivo il suo segretario poté decidere da Cancelliere le linee guida della politica. Considerata la situazione attuale e in vista del futuro, gravido di crisi, una nuova protesta giovanile, da non reprimere con i manganelli, è urgente e necessaria. Anche la Spd potrebbe trarre vantaggio da una simile sfida.
(Traduzione di Thomas Paggini)

Repubblica 17.1.08
Le ragioni dei laici
di Paolo Flores d'Arcais


Caro direttore, posso esprimere la mia perplessità per l´unanime concerto politico e mediatico che giudica il regnante pontefice vittima della prevaricazione e della intolleranza di un "laicismo fondamentalista"? Prevaricazione che impedirebbe al Papa di parlare e perfino di muoversi liberamente nella sua città?
Certo, un viaggiatore che arrivasse per la prima volta in Italia, alle lettura dei giornali in aereo si farebbe l´idea che da noi la Chiesa cattolica è perseguitata, e che un forsennato laicismo ha messo al suo supremo Pastore la mordacchia. Ma soggiornando per qualche settimana, e informandosi ogni sera da un diverso telegiornale, scoprirebbe con stupore che Joseph Ratzinger è libero di parlare, eccome, e che anzi è di fatto l´onnipresente editorialista dei telegiornali pubblici e privati, che riprendono ogni sua dichiarazione, importante o meno che sia, con enorme e compunto rilievo.
Ma all´Università gli hanno impedito di aprire bocca, si dirà. Proviamo a stare ai fatti. Il Magnifico Rettore e la maggioranza del Senato Accademico decidono di invitarlo all´inaugurazione dell´anno accademico, momento simbolico per eccellenza per la scienza e il sapere (come l´inaugurazione dell´anno giudiziario per la giustizia). Non è chiaro se in quanto Papa Benedetto XVI o in quanto prof. Ratzinger, e se per una "lectio magistralis" o in qualità di "ospite" (le autorità accademiche della Sapienza accrediteranno via via versioni contrastanti). Un gruppo di docenti di Fisica esprime la sua contrarietà. Alcuni gruppi di studenti dichiarano che daranno luogo a concomitanti e pacifiche manifestazioni irridenti.
Ora, non è lecito che alcuni docenti giudichino sbagliata la scelta di invitare Papa Ratzinger come unico "ospite" all´inaugurazione dell´anno accademico? Se, poniamo, la scelta del rettore Guarini fosse caduta, anziché su Benedetto XVI, su – che so – Tariq Ramadan, da molti considerato un islamico antidogmatico e "aperto" e dunque interlocutore fondamentale per l´Occidente, personalmente io avrei protestato, e con me forse molti di quanti oggi giudicano inammissibile la protesta dei 67 scienziati romani per l´invito in esclusiva a Ratzinger. E qualche gruppo di studenti avrebbe indetto qualche manifestazione, più o meno folcloristica e irridente, contro le posizioni di Ramadan. E nessuno avrebbe parlato di inammissibile censura nei confronti di quest´ultimo.
E allora, cosa c´è di scandaloso o di prevaricatorio nelle posizioni espresse dal professor Marcello Cini e dai suoi autorevolissimi colleghi scienziati? Avrebbero voluto che invece di Ratzinger, quale "ospite" per l´inaugurazione dell´anno accademico fosse invitata una personalità più consona all´istituzione e alla cerimonia. Tutto qui.
Con buone argomentazioni, mi sembra. Entriamo nel merito. L´università è, come vuole la retorica, il "Tempio" della scienza e del sapere. Dell´autonomia del sapere, della ricerca libera da dogmi. Sarebbe logico pensare, come "invitato" (invitato unico, ripetiamolo) proprio a una grande personalità della scienza. Tanto più in un momento in cui, in tutto il mondo, il cuore della scienza contemporanea, il darwinismo, viene attaccato dai più diversi oscurantismi ideologici o religiosi. Sarebbe logico, insomma, pensare a una Levi Montalcini, che tiene alto il nome dell´Italia nel mondo, o, se si vuole una personalità straniera, a colui che, dopo la morte di Stephen Jay Gould, è il più noto darwinista vivente, Richard Dawkins.
Ma, si è obiettato, la Sapienza voleva un "ospite" che incarnasse l´impegno per la pace. In questo caso, più che mai, si davano scelte assai più congrue rispetto a quella del regnante pontefice, che su questo versante non ha fin qui avuto modo di illustrarsi significativamente (a meno che non si pretenda che un Papa è, ipso facto, la migliore delle icone di pace possibili). Dal Dalai Lama a scrittori come Yeoshua o Rushdie, da Noam Chomsky fino a Gino Strada (certamente l´italiano che nel mondo è considerato il più impegnato concretamente per la pace).
Non mi sembra perciò che abbia riscontri nella realtà l´immagine di un laicismo "fondamentalista" che vuole tappare la bocca al Papa, di fronte a una Chiesa davvero laica e aperta al dialogo con ogni ateismo contemporaneo. Perché il rettore Guarini non aveva affatto scelto la via del dialogo ma del monologo. L´invito era solo per il Papa, e ad avere spazio di "ospite" sarebbe stata solo la sua Parola. Se il sapere esige dialogo tra i diversi punti di vista (come si va ripetendo contro i 67 scienziati), perché il senato della Sapienza non ha invitato Joseph Ratzinger e Richard Dawkins? Perché un solo punto di vista?
Punto di vista, oltretutto (non facciamo finta di nulla) di un Papa e di una Chiesa gerarchica che si stanno segnalando per: a) un attacco sempre più sistematico al darwinismo (la cui scientificità non sarebbe accertata, vedi volume ratzingeriano appena uscito in Germania) e b) un attacco di inaudita violenza alle donne che abortiscono, la cui scelta viene equiparata esplicitamente all´omicidio.
Campagna, quest´ultima, sulla cui gravità e relative implicazioni mi sembra non ci si indigni abbastanza (o addirittura affatto). Eppure, se qualcuno accusasse il cardinal Ruini di essere un ladro e il cardinal Bertone di essere un assassino, sarebbe tutto uno stracciarsi di vesti (e fioccherebbero querele). Perché i prelati della Chiesa gerarchica e il loro Sommo Pontefice possono invece impunemente accusare tutte quelle donne del più grave dei reati del codice penale, di essere delle assassine? Se ricordassero loro che sono in peccato mortale, e rischiano le pene dell´inferno, nulla da ridire. Ma accusarle di essere "assassine" questo è ignobile e inammissibile, oltretutto da parte di chi, volendo impedire l´uso del preservativo contro l´Aids, è corresponsabile della morte di migliaia e migliaia di persone solo in Africa (persone, non embrioni).
Infine, l´accusa più incredibile, ma che ormai dilaga su ogni telegiornale: gli studenti erano pronti alla violenza per impedire al Papa di parlare. Eppure sia il premier Romano Prodi che il ministro dell´Interno Giuliano Amato hanno dichiarato che non sussisteva il minimo rischio per la sicurezza del Papa. Perché allora si continua con questa menzogna, con questo processo alle intenzioni?
Nessuno ha impedito al Papa di recarsi alla Sapienza e di essere, nell´Aula Magna, l´unico e monopolistico "ospite". Ma il Papa ha "rinunciato", cioè ha rifiutato, perché non ha accettato che, a qualche centinaia di metri di distanza, alcuni professori discutessero di scienza in termini antitetici ai suoi e alcuni studenti irridessero con maschere e cartelli ai suoi dogmi (attività sulla cui legittimità si spera nessuno abbia da obiettare, perché costituzionalmente garantite). Il Papa, insomma, pretendeva non solo il monopolio della ospitalità in Aula Magna ma anche l´unanime plauso dentro e fuori. Mancando tale unanimità, con perfetta astuzia politica ha preferito fare la grande rinuncia, e passare per vittima di una prevaricazione laicista inesistente. Visto che se ci sono posizioni che ormai stentano ad aver cittadinanza in tv, e al massimo trovano "asilo" in spazi marginali, sono quelle laiche (di credenti o atei che siano).

Repubblica 17.1.08
La lezione dell'India. Un paese davvero plurale
di M.J.Akbar


La letteratura indiana, come del resto la società, si basa su un principio di buonsenso: ciò che si dice è importante, ma non quanto ciò che l´interlocutore realizza
Nel ´47, sconfitto il colonialismo, ci fu lo scontro tra indù e musulmani con due milioni di morti
La Costituzione diede però vita a una federazione che assomiglia all´Unione Europea

La letteratura indiana (Akbar è autore del romanzo Fratelli di sangue, pubblicato da Neri Pozza, ndr), proprio come la società indiana, si basa su un principio di buonsenso: ciò che si dice è importante, ma non quanto ciò che l´interlocutore sente. Il testo deve essere nutrito nel grembo del contesto. Le parole sono vuote se non sono pietre di un ponte che colma una distanza. Un ponte che unisce all´altro e che diventa parte di un architettura multiculturale che rende la diversità più forte all´omogeneità.
L´India moderna è l´Unione Europea dell´est. E´ diventata Europa molto prima che l´Europa stessa lo diventasse. Gli anni Quaranta furono un periodo violento, orribile e determinante sia per l´India sia per l´Europa. Le due regioni giunsero a quel decennio, denso di guerre, da estremità politiche opposte e percorrendo traiettorie diverse: i conflitti, radicati nel passato, cambiarono il futuro.
I quattro secoli di brama colonizzatrice dell´Europa le portarono una dominazione nel mondo senza precedenti, oltre a ricchezze insperate. Il colonialismo combatteva in nome della civilizzazione, predicando che avrebbe strappato i nativi alla disperazione per consegnarli alla modernità.
Ma la cultura dell´oppressione che manteneva in vita la colonizzazione nei territori conquistati alimentava, tra i conquistatori, la politica della competizione, del conflitto, dell´avidità e spesso del desiderio di dispotismo. Infine, il passato coloniale si esaurì nel tanfo e nella brutalità della Seconda Guerra Mondiale.
Nel 1947 l´India fu la prima colonia a sconfiggere un dominatore europeo, ma pagò un pesante prezzo a livello nazionale. Non partecipò al conflitto mondiale, ma si piegò alla guerra civile tra gli indù e i sikh da una parte e i musulmani dall´altra. Senza l´aiuto di eserciti organizzati o dittatori, due milioni di indiani si uccisero l´un l´altro negli scontri per la divisione, nel momento in cui due nuove nazioni nascevano da un unico territorio. Le stime variano, ma più di sei milioni di persone distrutte divennero rifugiati in un processo di scambio di popolazioni.
Era un´eredità che avrebbe potuto istituzionalizzare gli odi. Invece, la costituzione indiana diede vita a una federazione costruita sugli stessi principi fondamentali su cui si fonda l´Unione Europea: una politica libera e democratica; uguaglianza per ogni cittadino, che sia indù o musulmano; libertà di movimento all´interno del paese (diritto di cui non godono i cittadini cinesi); il diritto alla migrazione economica; una moneta unica il cui valore non dipendeva dalle disparità di sviluppo regionale; un forte federalismo che consentiva alle province di mantenere le proprie lingue regionali come strumenti amministrativi e di rapporto sociale mentre due lingue nazionali ufficiali, l´hindi e l´inglese, permettevano di comunicare in tutta l´India. L´Europa raggiungerà negli anni ‘60 ciò che l´India aveva creato negli anni Cinquanta.
Lo spirito della nuova India superò la storia del conflitto tra indù e musulmani per dare vita a una visione. Ma le tensioni prodotte da quel conflitto sono rimaste un fattore centrale della nostra storia moderna e hanno inevitabilmente alimentato una letteratura che cercava di comprendere le sfumature della storia dell´uomo al di là delle dimensioni del puro fatto storico. I miei libri di analisi (India: The Siege within, Kashmir: behind the Vale, The Shade of Swords), le biografie (Nehr: The making of India), i reportage (Riot after Riot, Byline) e i romanzi (Blood brothers - Fratelli di sangue) tentano tutti di indagare un territorio emozionale che è spesso stato desolante, ma che ha tuttavia trovato la forza dell´ottimismo attraverso l´umanesimo.
Non sempre il mio pensiero sulle tensioni e le correnti diffuse nel mondo musulmano è stato compreso come avrei desiderato. Quando Samuel Huntington citò una frase di un mio saggio nella sua famosa monografia, The Clash of Civilizations (Lo scontro delle civiltà), ne diede un´interpretazione completamente diversa. Nel passaggio in cui dico che la regione tra il Marocco e l´Indonesia sta diventando un territorio di battaglia, parlavo di colonizzazione e non di civilizzazione. In un´area troppo ampia di questa regione la colonizzazione è stata sostituita dalla neocolonizzazione, generando così potenti élite locali che hanno negato democrazia e liberalismo ai propri popoli.
Tutte le ex colonie sono diventate indipendenti, ma quante sono libere? Milioni di persone in Africa e in Asia, di ogni razza e credo religioso, sono vittime di oligarchie nazionali e autocrazie protette dalla forza degli strumenti dello stato. A questa gente sono negati i diritti fondamentali di espressione senza paura e di voto autentico.
Come musulmano e come indiano, sono orgoglioso che i musulmani indiani siano gli unici al mondo ad aver goduto di sessant´anni di libertà democratica. Alcune nazioni a maggioranza musulmana hanno goduto della democrazia a tratti; ad altri è stata completamente negata con una scusa o un´altra.
La libertà è l´essenza della letteratura. Il concetto di libertà comprende il diritto di aver torto in una discussione, ma non si spinge fino alla superiorità o all´abuso. L´armonia tra gli indiani dipende dal rispetto dello spazio e dei sentimenti altrui.
Quando questo rispetto viene violato, ne deriva uno scoppio di devastazione che ci ricorda che la situazione ideale non è ancora stata raggiunta.
Il laicismo in India non significa assenza di fede, bensì spazio per tutte le fedi. Quando il Mahatma Gandhi cominciò a concepire l´idea di un´India all´interno di un movimento per la libertà disse che la politica senza religione era immorale. Gandhi, un alchimista che cancellò l´era della colonizzazione con un sorriso sdentato, non era un fondamentalista. Per lui la religione era la base della moralità.
La religione forgia l´identità di un indiano forse ancor più di qualsiasi altro fattore. Il popolo indiano non vede la religione come «anti-moderna». Sarebbe inconcepibile per un primo ministro sikh, come accade oggi, comparire in pubblico senza il turbante richiesto dalla sua fede; la proposta di non permettere l´uso di alcun simbolo di fede in un´istituzione di stato sarebbe derisa.
L´Islam e l´Induismo hanno convissuto in India quasi quanto l´Islam e la Cristianità in Medio Oriente, in Africa e in ampi territori del sud e dell´est europeo. Non vi è alcuno scrittore indù nella tradizione indiana a pensare che il merito letterario del suo lavoro migliorerebbe notevolmente deridendo il Profeta dei musulmani, né un importante scrittore musulmano che abbia scoperto la virtù estetica nell´insultare Hanuman, il dio scimmia.
La letteratura è destinata al lettore, e non si può arrivare al lettore lanciando insulti contro ciò che egli ritiene sacro.
Persino il marxismo, che ha reso la religione politicamente scorretta tra l´Europa e le coste del Pacifico, ha dovuto scendere a compromessi in India. I comunisti che detengono il potere da circa tre decenni nel Bengala hanno iniziato a vincere le elezioni solo dopo essersi inchinati alla dea Durga, o al suo avatar, la dea Kali, nel periodo delle celebrazioni annuali a lei dedicato.
Nella letteratura indiana di qualità, la lingua è un seme, non una mina. (...) La letteratura non può essere asservita alle leggi. Ricordo un famoso aforisma: nessuna corte può salvare una società che ha bisogno di salvare una corte. La letteratura non può essere salvata dalle leggi; è la sensibilità che la serve nel modo migliore. L´India crede in una sensibilità che tutti include. Ho detto che l´India è stata l´Europa dell´est. Quando l´Europa diventerà l´India dell´ovest?

Repubblica 17.1.08
Così finì la lingua di Adamo
di Franco Cordero


La storia delle religioni dimostra che anche i dogmi invecchiano e poi appassiscono Nonostante gli anatemi contro i relativisti, che si appellano alla cautela e all´onestà intellettuale
Si è creduto all´esistenza di un idioma perfetto, valido universalmente
La concezione dogmatica presuppone verità assolute finché queste durano

Lingua adamitica, peccato originale, confusione babelica sono temi d´una romanticheria regressiva. Vediamo gli antipodi, politicamente parlando. Joseph de Maistre (Chambéry 1753-Torino 1821) è un borghese nobilitato dagli uffici: François-Xavier siede dal 1740 nel Senato savoiardo (una delle quattro corti supreme subalpine, sul modello dei parlamenti francesi); Joseph eredita la carica; appena adolescente, sfilava con i Penitenti Neri, confortatori dei condannati a morte; massone nella Loggia dei «Trois Mortiers», passa alla «Parfaite Sincérité», 1778; l´anno seguente, sotto il nome esoterico "a Floribus", è uno dei quattro superiori incogniti nel collegio savoiardo, cultore d´occultismi sepolti nel testo biblico. La Rivoluzione gl´ispira una crociata teocratico-antimodernista.
La corte sabauda se ne libera spedendolo a Pietroburgo con pochi soldi e quando torna, caduto Napoleone, solo i gesuiti lo pigliano sul serio. Nelle Soirées de Saint-Pétersbourg (postume, Paris 1821) disserta sul «governo temporale della Provvidenza»: ogni sventura è castigo; non esistono malattie le cui cause siano soltanto naturali; il boia, figura mistica, garantisce l´ordine divino; i selvaggi sono relitto subumano d´una caduta preistorica, et similia. Figura ieratica, loquela estrosa, paradossi, gesto apocalittico, insomma classico profeta da salotto su fondo paranoide: ha un rabbioso bisogno d´autorità e dogmi; è così molestamente reazionario da disturbare persino i codini torinesi («Messieurs, la terre tremble et vous voulez bâtir»: il terremoto era un´innocua protesta studentesca); invoca censure inesorabili; proclama l´infallibilità papale mezzo secolo prima del Concilio Vaticano. S´è definito nel secondo colloquio: «plenus sum sermonibus»; crede d´avere citato Giobbe; no, era Eliu, il quarto contraddittore, un giovane rampante, esperto dei riti assembleari, le cui frasi scoppiano nelle budella; «coarctat me spiritus uterus mei» (Giobbe, 22.18s.). Adamo dispone d´una lingua perfetta: l´attestano cognizioni che i successori hanno perso, e un sorprendente talento d´onomaturgo; "cadaver", ad esempio, combina le prime sillabe della terna "carno data vermibus". Dio sa dove abbia scovato questo rebus.
L´uomo parla ab origine, innate essendo idee e parola: i cattivi pensatori lo negano perché hanno paura; e affiora il Leitmotiv demaistriano, che il mondo sia teofobo, quindi malato. Quarto colloquio: studiando la testa dell´odiato Voltaire, s´infuria; vuol dedicargli una statua eretta dal boia.
Non è compagnia raccomandabile Monsieur A Floribus, teosofo, massone, ambasciatore stralunato, papista: ogni tanto riappare nel circo reazionario; il povero Baudelaire se l´era eletto maître à penser. Walter Benjamin (Berlino 1892-Port Bou 1940) impersona il chierico vagante e sofferente, naturalmente disadatto ai quadri sociali: sebbene abbia rare qualità, va male qualunque cosa tenti, matrimonio, carriera accademica, libera professione intellettuale; a fortiori, non s´integra nella chiesa comunista. Viveva precariamente in Francia. Hitler l´ha invasa: vuol imbarcarsi dalla Spagna, diretto agli Usa; un alcalde lo ferma sul confine, con altri, i quali passeranno; lui no, s´è suicidato. A proposito d´Adamo e relativa lingua, lascia un manoscritto giovanile i cui flussi verbali non diventano quasi mai concetto: bagliori intuitivi innescano immagini inarticolate; pensa in lampi, nella misura dell´aforisma. Questa prosa malriuscita tocca corde comuni al savoiardo: Adamo fonda la filosofia ascoltando l´identità d´idea e nome; nella piatta «teoria borghese» le parole sono segni; eh no, imponendo i nomi, l´uomo completa l´opera cosmogonica; ogni cosa o fatto è lingua, e via seguitando attraverso faticose catene verbali spesso vuote, con qualche scorcio poetico; ad esempio, che fuori dello stato paradisiaco, la natura diventi muta, quindi triste, e l´inverso, triste, perciò muta.
A proposito d´allegoria (Benjamin se ne occupa nelle Origini del dramma tedesco), la cosiddetta caduta non sminuisce i lumi intellettuali, semmai l´inverso. L´animale umano doveva uscire dal torpido benessere paradisiaco: stimolato dai bisogni, compie exploits paragonabili alle cosmogonie; s´avventura nell´astratto; costruisce meraviglie semiotiche, dal geroglifico ai simboli diafani d´una lingua delle pure forme, così acuto da decomporre i manufatti mentali scovando sedimenti d´una mente prelogica; quanti, fastosi, ne tramanda il platonismo sopravvissuto al bagno scientifico aristotelico.
I maestri nominalisti dell´XI secolo li dissolvono. L´ultima scoperta choquante è che la logica sia solo affare combinatorio: duro colpo alle cosiddette strutture dell´Essere e scandalo nel tempio ma, praticata come clinica linguistica (Wittgenstein, Tractatus, 4.0031), la filosofia diventa utile; fissa i confini del pensabile, smaschera nonsensi, taglia premesse superflue (rasoio d´Occam), impone forme chiare all´esprimibile (ivi, 4.113-16). Sull´ineffabile l´unico partito pulito è tacere (ivi, prop. 7).
L´universo dogmatico presuppone verità forse mutevoli nel tempo ma assolute finché durino. Varie le fonti: concilio, papa definiens ex cathedra, Politburo, Iosef Stalin, e via seguitando, secondo le chiese; l´oracolo vincola i fedeli; i dissensi, anche inespressi, costituiscono eresia, variamente punita, dal biasimo al bando, rogo o pallottola nella nuca.
Logomachie intese al potere. Gli effetti pesano: discorso storpio, ossequio labiale, fumisterie, pragmatismo cinico; disinnescando gl´indicatori del vero-falso, il sistema alleva lotofagi (Odissea, IX, 84-104); nel sopore intellettuale bevono brodo dogmatico e intrattengono pensieri contraddittori senza rendersene conto; quando stimoli esterni inneschino curiosità pericolose, scattano segnali d´allarme (Orwell li chiama «crimestop»). Le dispute sul governo divino offrono esempi. Sant´Agostino sbaraglia Pelagio, campione d´umanesimo cristiano: la sua dottrina diventa dogma, non tollerabile dalle anime tenere; e successori politicanti (vedi Prospero d´Aquitania) la diluiscono. Se la partita dipende da noi, gli eretici pestiferi sono san Paolo e il vescovo d´Ippona, Doctor gratiae: l´uomo è padrone delle sue sorti o pedina d´un gioco divino talvolta atroce; aut aut, ma i discorsi netti danno sui nervi. San Tommaso, determinista, tira ipocritamente in ballo una «gratia sufficiens» purché cooperiamo. I canoni tridentini, sesta sessione, condannano un partito e l´opposto (l´equivalente è dire «piove, quindi non piove»). Solo Calvino parla chiaro rompendo l´ultimo velo. Padre Luis Molina Societatis Iesu difende un finto libero arbitrio (Dio aiuta tutti ma gradua i soccorsi e combina le circostanze secondo calcoli suoi, indipendenti dalla buona volontà umana, sicché spesso l´aiuto non basta). L´affare giansenista è una sagra della slealtà: vituperano i calvinisti mutuandone la dottrina; Roma condanna l´Augustinus, bibbia del movimento, senza smentire l´omonimo santo; fuori d´ogni decoro Port-Royal nega che il libro contenga le massime de quibus; anche Pascal figura male nel torneo del finto pensiero (Ecrits sur la grâce», 1656-57). Insomma, barano tutti. Invano Roma tenta d´imporre il silenzio: senza permesso del Sant´Ufficio nessuno pubblichi opuscoli o libri in materia (Paolo V, 1 dicembre 1611); Urbano VIII commina pene ai trasgressori, dalla perdita della licentia docendi alla scomunica (22 maggio 1625 e 1 agosto 1641). La faida séguita, rabbiosamente confusa, finché gli spiriti animali s´affievoliscono: l´argomento non interessa più; i contendenti se ne dimenticano. Capita nel governo ecclesiocratico dei cervelli.
L´attualità ripresenta questioni efferatamente discusse 16 secoli fa. Sant´Agostino muove guerra al monaco britanno Morgan, in greco Pelagio, colpevole d´essere diverso: mente latina, aliena da misteri, magìa, fantasie fosche; gli ripugna l´intimismo liquido delle Confessioni; non è animal ecclesiasticum; scomodamente serio, professa un impolitico e trasparente radicalismo evangelico; rifiuta l´idea tribale del peccato ereditario; postula valori indipendenti dai decreti divini. Era una quarta guerra punica, stravinta dal vescovo d´Ippona. Papa Zosimo aveva assolto l´eretico guastafeste: l´Africa gli salta alla gola; Alipio, emissario d´Agostino, intriga nella corte ravennate (portava 40 cavalli numidi in dono); l´Impero fornisce il brachium saeculare (editto 30 aprile 418); costituisce delitto pensare a quel modo; chi non denuncia i delinquenti rischia confisca dei beni e deportazione. L´indomani 214 vescovi d´un concilio cartaginese scagliano nove anatemi. I primi tre fulminano chi nella morte vede un evento fisiologico (no, è castigo): o solleva dubbi sulla lue adamitica; o sottrae all´inferno i «parvuli» morti senza battesimo, ma rivolta lo stomaco il guignol dei neonati pasto diabolico, sicché quest´anatema non figura nelle raccolte romane o, se vi entra, viene presto escluso; lo ignorano già i Capitolari celestinensi databili V secolo.
Sentiamo sant´Agostino: «iustissime» assemblee vescovili e sede apostolica condannano i pelagiani, così empi da concedere un luogo «quietis et salutis» ai bambini macchiati del peccato originale; è opinione «folle» che non solo sfuggano all´inferno ma godano d´una felicità naturale e, finito il mondo, siano addirittura ammessi nel Regno (Fiabe d´entropia, 309). I canoni quarto, quinto, sesto codificano il concetto della grazia come impulso irresistibile. Gli ultimi tre negano che l´uomo possa astenersi dal peccare: più o meno peccano tutti, donde un tranquillo scioglimento lassistico; inutile tentare sforzi impossibili. Pelagio chiedeva troppo. Ha vinto l´Africa, vittoria equivoca. Morgan resta abominevole eresiarca; ma barlumi delle sue idee penetrano nel dogma alimentando un circuito «double think».
Torniamo ai «parvuli» sciaguratamente morti senza battesimo. Ancora Gregorio da Rimini, generale dell´Ordine agostiniano, anno 1357, li manda all´inferno guadagnandosi l´epiteto tortor parvulorum. L´opinione teologale mite riscopre la via d´uscita d´una felicità naturale (manca la visio Dei). I testi tridentini suonano perentori: il battesimo è necessario «ad vitam aeternam consequendam»; i «parvuli» hanno in corpo un peccato congenito lavabile solo nel sacramento (Sessione V, 17 giugno 1546, Denzinger, ed. cit., 281ss., 787-92). Li avevamo lasciati nel limbo, col dubbio d´un trattamento iniquo, non essendo colpa essere morti ante partum o magari mentre li portavano al battistero. Tal Gabriele Gualdo, sacrae Theologiae professor, dedica all´argomento una «dissertatio medico-theologica», «Baptisma puerorum in uteris existentium iterum assertum»: dov´è scritto che il battesimo presupponga l´infans visibile?; «embryo habens animam rationalem potest baptizari» mediante aspersione del ventre materno (Patavii, 1712, apud Fratres Sardi). Assunto molto ragionevole ma 295 anni dopo non esiste più un limbo dei bambini, anzi non era mai esistito: vanno tutti nel Regno dei Cieli, d´emblée, assicurano autorevolissime fonti; sul quale punto esitava persino Morgan, eresiarca negatore del peccato ereditario.
Niente da obiettare nel merito, anzi benvenuto ogni passo sulla via d´una religione spirituale (non lo era legare le sorti ultraterrene a gocce d´acqua e parole rituali), purché ripensiamo tutto: quanto valgano le cosiddette verità dogmatiche, se i dogmi invecchiando appassiscono. Non sono questioni da rimuovere sotto banco né suonano bene gli anatemi moderni contro i relativisti. "Relativismo" significa cautela, intelletto onesto, umile riconoscimento dei limiti umani. Nel vecchio lessico ricorrevano due sintagmi: «sine praeiudicio melioris sententiae» e «probabiliter loquendo»; se n´è perso l´uso, peccato.

Corriere della Sera 17.1.08
Due celebri studiosi si confrontarono sul senso profondo della ricerca e sull'interpretazione dei fatti: un saggio propone quel dialogo
Storia, immaginazione al potere
François Furet e Jacques Le Goff: chi è grande ricrea il passato
di Alain Finkielkraut


Il giudizio di Furet
Gli autentici libri di storia traggono il loro valore dal fatto che sono più veri e fanno più appello degli altri alla fantasia
Il giudizio di Le Goff
Nel nostro lavoro il cinquanta per cento è dovuto all'erudizione, tutto il resto dipende dall'ispirazione

Giovedì 29 dicembre 1842, Jules Michelet incominciava in questi termini il suo corso al Collège de France: «Devo ringraziare le persone compiacenti che raccolgono le mie lezioni, ma nel contempo devo pregarle di non dare a questo alcuna pubblicità. Parlo con fiducia a voi, a voi soli, e non alla gente di fuori. Non vi confido solamente la mia scienza, ma il mio pensiero intimo sul tema più vitale. Appunto perché è molto numeroso, molto completo (per età, sesso, province, nazioni...), in questo uditorio sento l'umanità, l'uomo, cioè me stesso. Da me a voi, da uomo a uomo, tutto può dirsi. Sembra che uno solo parli, qui: errore, anche voi parlate. Io agisco e voi reagite, io insegno e voi m'insegnate. Le vostre obiezioni, le vostre approvazioni sono per me molto sensibili (...). L'insegnamento non è, come si crede, un discorso accademico o un'esibizione; è la comunicazione vicendevole, doppiamente feconda tra un uomo e un'assemblea che cercano insieme. La stenografia più completa, più esatta, riprodurrà il dialogo? No, riprodurrà solamente ciò che ho detto e non anche ciò che ho detto: io parlo anche con lo sguardo e con il gesto. La mia presenza e la mia persona sono una parte considerevole del mio insegnamento. La migliore stenografia parrà ridicola perché riprodurrà le lungaggini, le ripetizioni utilissime qui, le risposte che do sovente alle obiezioni che vedo nei vostri occhi, gli ampliamenti che do su un punto, in cui l'approvazione di tale o talaltra persona mi indica che vorrebbe fermarmi. Occorre quindi lasciar volare queste parole alate. Che si perdano, alla buon'ora! che si cancellino dalla vostra memoria, se ne resta lo spirito, va bene. Sta qui ciò che di toccante e di sacro c'è nell'insegnamento. Che sia un sacrificio, che non ne resti niente di materiale, ma che tutti ne escano forti, abbastanza forti per dimenticare questo debole punto di partenza. Quanto a me, se temessi che le mie parole rischiassero di gelare nell'aria e di essere riprodotte così, isolate da colui per il quale avete una qualche benevolenza, non oserei più parlare. Vi insegnerei qualche tavola cronologica, qualche secca e triviale formula, ma mi guarderei dall'apportare qui, come faccio, me stesso, la mia vita, il mio pensiero più intimo».
Occorre tuttavia rendere grazie agli editori di Michelet per non averlo ascoltato e a Paul Viallaneix per avere pubblicato da Gallimard l'integralità dei suoi corsi al Collège de France (...). Ogni professore riconoscerà la sua esperienza nella descrizione fatta da Michelet della relazione pedagogica, ma ogni professore dovrà nel contempo misurare l'insormontabile distanza che lo separa da Michelet: sia all'orale sia allo scritto. Michelet è poeta e, anche se è praticata con stile, la ricerca della verità ha rotto con la poesia. Come dire che, per i contemporanei, Michelet non è più una fonte d'ispirazione o un pensiero vivo, ma un monumento letterario e un oggetto di storia?
François Furet e Jacques Le Goff, voi avete entrambi contribuito a rinnovellare la disciplina storica. Quando leggete, di pugno di Michelet, che «la condizione imposta alla Storia non è più di raccontare solamente o di giudicare, ma di evocare, di rifare, di risuscitare le età» e che «il dovere dello storico è di dare assistenza ai morti troppo dimenticati», è ancora o è già della vostra pratica che parla?
François Furet Michelet resta per noi, storici della Rivoluzione, un esempio ineguagliato: è il più grande storico della Rivoluzione che ci sia stato. È vero che non lavorava come lavoriamo noi: ha letto molti più stampati e archivi di quanto non si dica generalmente ma, come le persone dell'Ottocento, cita poco le sue fonti (o, se lo fa, lo fa in modo intermittente e ineguale). Di straordinario e che potrebbe apparire lontano da noi, senza in verità esserlo in alcun modo, ha soprattutto che tiene conto del lavoro dell'immaginazione. La storia è una disciplina in cui c'è il 50% di fatti e il 50% di immaginazione, anche quando si lavora su dati che sono numerosi come nel caso della storia moderna e contemporanea.
Finkielkraut Lei direbbe quindi che questa proporzione vale anche per gli storici di oggi?
Furet Assolutamente! Si riconoscono i grandi storici dal lavoro dell'erudizione, da un lato, e dal lavoro dell'immaginazione e dell'intuizione, dall'altro. A questo riguardo, la storia non sarà mai una scienza sociale come un'altra, perché è un lavoro, se non di risuscitazione, in ogni caso di risurrezione del passato. E la risurrezione del passato è il lavoro dell'immaginazione. I grandi libri di storia traggono il loro valore e il loro mistero dal fatto che sono più veri e fanno più appello degli altri all'immaginazione.
Jacques Le Goff Sono pienamente d'accordo con François Furet. Ho coscienza della distanza, come Lei diceva, che c'è tra il mio lavoro di storico e Michelet, che si può ben definire un «genio». Detto questo, voglio soprattutto insistere sui modi in cui mi sento prossimo a Michelet. Devo a questo Corso, che non conoscevo, di avere scoperto un Michelet più prossimo alla mia pratica di quanto non pensassi dalla lettura delle sue grandi opere. In effetti, questo Corso ci fa vedere l'immaginazione all'opera su alcuni documenti. Credo che, per quanto concerne le pratiche e la concezione della Storia, occorra ridurre la distanza che si mette troppo volentieri tra Michelet e noi: occorre ridire, come ha appena fatto François Furet, che Michelet, per la sua epoca, era un erudito. Egli amava gli archivi e prendeva già come documenti ciò che noi stiamo scoprendo, ossia le opere letterarie e le opere d'arte. Non dimentichiamo d'altronde che l'urto da cui faceva dipendere la sua vocazione storica era stata la visita al recinto degli agostiniani, dove Alexandre Lenoir aveva riunito alcune sculture. Riprendo quindi a mia volta la formula di François Furet: nella storia c'è il 50% di erudizione e il 50% di immaginazione. Ritengo l'immaginazione veramente necessaria allo storico. La storia che cerchiamo di fare oggi, molto differente e nel contempo molto vicina, ha ritrovato questo tipo di ispirazione. La modernità di Michelet mi è molto fortemente apparsa in questo testo.
Alla fine, Furet ha fatto allusione a una formula che ci seduceva e nel contempo ci infastidiva quando eravamo apprendisti storici, ammiratori già di Michelet: è la formula in cui si tratta della «risurrezione integrale del passato ». Non ci sembrava possibile darlo come obiettivo alla Storia, perché ci sembrava per così dire antistorico volere far rivivere tale e quale il passato. Occorre che il passato riviva attraverso la differenza. Ma, qui, ho visto ciò che dà a questa formula ancora la sua piena efficacia per noi: Michelet ha piena coscienza di parlare dei morti. «Amare i morti è la mia immortalità», scrive per esempio. Ci mostra come ci sia un trattamento dei morti che resta ancora oggi un obiettivo per gli storici. Osservo infine che, nella formula della «risurrezione integrale del passato », «integrale» è un termine importantissimo: Michelet appare in questo
Corso, più che nelle altre sue opere, come se avesse veramente compiuto quello che era stato attribuito ai fondatori della rivista «Les Annales» ma che questi non erano mai veramente riusciti a definire né a realizzare esattamente, ossia la storia totale o globale. Michelet lo ha fatto, e si potrebbe anche mostrare come questa passione storica debordi sul mondo della natura...
Finkielkraut Restiamo per un istante ai morti: «Avevo una bella malattia che incupì la mia giovinezza ma molto appropriata allo storico. Amavo la morte. Avevo vissuto nove anni alle porte del Père-Lachaise, allora mia unica passeggiata. Poi, abitai verso la Bièvre, in mezzo a grandi giardini conventuali, altri sepolcri. Conducevo una vita che il mondo avrebbe potuto dire interrata, senza altra società che quella del passato e per amici i popoli sepolti. Rifacendo la loro leggenda, risvegliavo in loro mille cose svanite». Viene, un po' più avanti, questa confidenza straordinaria: «Il dono, che san Luigi chiede e non ottiene, io lo ebbi: il dono delle lacrime». Michelet oppone il dono delle lacrime come qualità dello storico all'obiettività di Spinoza secondo cui non bisogna «né ridere né piangere ma capire». Lei, da quale lato si situa?
Furet (...) Michelet fa uno straordinario lavoro di ascesi per scendere nel mondo dei morti. Ciò corrisponde peraltro nella sua vita personale a una profonda depressione. Poi, all'improvviso, nel mezzo dei suoi Corsi al Collège de France (ossia anche nel mezzo della sua opera), allorché deve affrontare il Rinascimento dopo tre o quattro anni di corsi sul Medioevo, decide di installarsi nel mondo della Rivoluzione francese. (...) A partire dal 1842 o dal 1843 quindi, Michelet si lancia in corsi profetici sulla storia di Francia; si vede così apparire un Michelet per cui la storia è il presente: ha smesso di essere una discesa nel mondo dei morti, per diventare un dialogo con le persone cui si sente appoggiato. (...)
Le Goff Lei, Finkielkraut, citava le parole sulle lacrime di san Luigi, e quello è un esempio del grandissimo talento di Michelet. Sono sempre stato colpito dalla prodigiosa intuizione di Michelet (...). In questo testo, sa mettere il dito sul dettaglio significativo, che è il seguente: san Luigi confessa al proprio confessore che il suo più grande motivo di tristezza è di non avere il dono delle lacrime che, per un cristiano del Medioevo, è necessario nel processo di penitenza. Michelet ha còlto che ciò esprime qualcosa di essenziale e di profondo, sia nel cristianesimo medievale sia in san Luigi.

il Riformista 17.1.08
In piazza con don Camillo
Non a caso Ruini ha scelto domenica
di Paolo Rodari


La scelta della data è significativa ed evidenzia come, a conti fatti, la vicenda che ha portato alla rinuncia, inevitabile seppure accettata a malincuore dal Papa, di recarsi alla Sapienza quest'oggi non sia per nulla ritenuta chiusa dalla leadership della Santa Sede, dal segretario di Stato Tarcisio Bertone innanzitutto, ma soprattutto dal vicario del Papa per la città di Roma, il cardinale Camillo Ruini.
Già, perché la scelta di Ruini di ieri di convocare «tutti i romani» domenica in piazza San Pietro in occasione della preghiera dell'Angelus per dimostrare la propria solidarietà al Papa «in questa circostanza che colpisce tanto dolorosamente tutta la nostra città», cade in un giorno particolare, in un giorno in cui piazza San Pietro avrebbe comunque dovuto essere parecchio affollata. In calendario, infatti, c'è la tradizionale giornata diocesana della scuola cattolica. Una giornata che, unita alla convocazione di Ruini di ieri, rischia di far diventare piazza San Pietro come una seconda piazza San Giovanni quando lo scorso 12 maggio andò in scena il Family Day : domenica in San Pietro, infatti, sono attese centinaia di migliaia di persone in rappresentanza dei principali movimenti ecclesiali e dell'associazionismo cattolico. E, insieme, anche tutte le cappellanie universitarie di Roma (e, pare, la maggior parte delle parrocchie) sono mobilitate. Particolarmente attivo anche il mondo politico, soprattutto del centrodestra, la cui presenza "rischia" di far diventare l'Angelus del Papa una vera e propria manifestazione politica.
La giornata annuale della scuola cattolica è stata da sempre vissuta con pathos dai cattolici romani in quanto occasione per dimostrare con forza, almeno davanti al Pontefice, che nel Paese c'è una fetta di popolazione per la quale la Chiesa è un'istituzione in grado di offrire un contributo fondamentale alla società italiana. E l'urlo «libertà-libertà», che è stato fatto risuonare forte ieri mattina all'interno dell'Aula Paolo VI dagli studenti di Comunione e Liberazione in occasione dell'udienza generale del mercoledì, con ogni probabilità risuonerà altrettanto forte domenica mattina in piazza San Pietro. Un urlo che venne pronunciato identico anche qualche anno fa, sempre in piazza San Pietro - erano i tempi del secondo governo Berlusconi -, in occasione di una giornata indetta da papa Wojtyla proprio in difesa della libertà di educazione.
La scelta di Ruini di scendere in piazza discende da un convincimento preciso dell'attuale vicario del Papa per la città di Roma, secondo il quale è meglio essere contestati piuttosto che risultare irrilevanti. È meglio, cioè, gridare con forza ciò che si è, piuttosto che relegarsi nel chiuso delle sagrestie. Anche le parole pronunciate ieri mattina da Ruini e dedicate agli studenti che hanno in questi giorni contestato l'arrivo del Papa alla Sapienza, evidenziano questo convincimento: «Gli studenti mi hanno fatto veramente tristezza e sono fermi ad almeno 40 anni fa, come se vivessimo la stagione del '68».
Parole forti, ma ritenute necessarie per non dare l'idea di una Chiesa che ha paura, che arretra di fronte all'immensa sfida di dire ciò che si è sempre e comunque.
Ieri, intanto, il discorso che il Papa avrebbe dovuto pronunciare alla Sapienza è stato pubblicato dall' Osservatore Romano nell'edizione disponibile ieri sera nell'edicola fuori il portone di Bronzo a ridosso di piazza San Pietro. Un discorso intenso in cui il Pontefice - citando il filosofo politico John Rawls - difende la ragionevolezza della fede, una fede che non deve essere imposta a nessuno, in quanto donata in libertà.
Se domenica i cattolici, oltre che piazza San Pietro, riusciranno a riempire anche via della Conciliazione, l'impatto sul mondo politico sarà notevole. Romano Prodi nella giornata di ieri ha cercato in tutti i modi di ricucire lo strappo con il Vaticano. I contatti con la segreteria di Stato pare siano stati intensi. Molto, comunque, ha giovato il messaggio distensivo e carico di affetto invitato da Giorgio Napolitano al Papa. Ma non si esclude che Prodi abbia in mente, per ricucire ulteriormente le posizioni, di mettere in campo un'azione simbolicamente più forte.
Più defilato, invece, si segnala Walter Veltroni. A conti fatti, per lui, la possibilità di tenere un discorso davanti al Papa quest'oggi alla Sapienza, sarebbe stata senz'altro un'occasione enorme per riproporsi davanti a Benedetto XVI in condizioni più favorevoli di quanto non fossero state quelle dello scorso giovedì, il giorno dell'udienza in Vaticano assieme agli amministratori del Lazio. Il motivo della sua presenza in università pare non fosse stato del tutto capito dalle autorità del Vaticano, ma l'annullamento della visita del Papa ha fatto decadere ogni possibile ulteriore polemica.i tempi del perdono

lettera a l'Unità
Cara Unità,
Bertrand Russel sosteneva che «il mondo non ha bisogno di dogmi, ma di libera ricerca». Perciò è almeno bizzaro che un’università, che della libera ricerca dovrebbe essere la casa, avesse invitato il papa, cioè il campione del dogma, a inaugurare l’anno accademico.
Che tale invito abbia riscosso il dissenso di una parte dei docenti e degli studenti, è del tutto normale e legittimo. Se è vero, come dice Prodi, che «in Italia nessuna voce deve tacere» non si vede perché tale diritto non dovrebbe valere anche per chi dissente dal papa e dall’opportunità d’invitarlo a inaugurare l’anno accademico. Se poi il papa, più abituato all’ossequio che alla critica, ha preferito rinunciare, questo non fa certo di lui una vittima di alcuna intolleranza.
Pietro Farro

lettera a il Riformista
Caro direttore, evidentemente sono tra i pochi eretici che, dall'annuncio dell'assenza di Joseph Ratzinger all'Università "La Sapienza" di Roma, stanno traendo una goliardica, anticlericale, laicista, intollerante e imperdonabile soddisfazione. Ma non è soltanto per manifestare questo liberatorio e irrazionale sentimento che le scrivo, bensì per rilevare l'istantaneità unisona con cui i vertici delle nostre istituzioni hanno invocato il perdono della Chiesa romana "per l'increscioso accadimento". Di quella stessa Chiesa che ha impiegato secoli e millenni a chiedere perdono - quando si è degnata di chiederlo - per eccidi, roghi, persecuzioni ed espropri perpetrati ai danni di chi ostacolava il suo cammino di fede, speranza e carità. Questo, prima di tutto. Avremo modo e tempo, purtroppo, per approfondire l'argomento.
Paolo Izzo www.paoloizzo.net

il manifesto 16.1.08
Retromarcia papale
Lo scontro tra la scienza e la fede
di Enzo Mazzi


Lo scontro fra la scienza e la fede che si sta dispiegando sotto i nostri occhi increduli in momenti nodali dell'attuale vicenda umana, religiosa e politica, ripropone in termini formalmente nuovi ma sostanzialmente identici la dura competizione che si è scatenata all'alba della modernità fra la «fede ormai impallidita» e la scienza che stava nascendo.
Ci sembra di tornare indietro di cinquecento anni quando il potere ecclesiastico e quello scientifico entrarono in feroce concorrenza per l'egemonia sul mondo nuovo. E fra i due contendenti fu schiacciata quella corrente dell'umanesimo, presente sia nella Chiesa che nel mondo scientifico, che era intrisa di amore per la natura.

Impedendole di svilupparsi e di indirizzare la nascente razionalità scientifica verso esiti meno distruttivi. La storica Anna Foa, nel suo Giordano Bruno, si domanda se gli inquisitori non fossero partecipi ben più di Bruno (e di Galileo), in quell'inizio del secolo XVII, di una mentalità 'moderna', e non rientrassero ormai nell'ambito di un pensiero razionalistico e 'geometrico' che non offriva più spazio né credito alla cultura naturalista del Rinascimento. Benedetto XVI ripropone nei suoi pronunciamenti quella sciagurata spartizione che ha avuto esiti così disastrosi. E lo farà, c'è da scommettere, anche alla Sapienza: a voi il dominio materiale sulla natura, alla Chiesa il dominio assoluto etico e spirituale. Chi fa le spese di una tale spartizione sono i Bruno, i Galilei e le streghe di oggi. Come il Sabba fu lo strumento inquisitorio della caccia alle streghe così oggi si usa l'aborto per accendere nuovamente i roghi delle donne. Un passo avanti si è fatto: è sparito il rogo fisico. Ci si contenta di riproporre la condanna penale dell'aborto e la moratoria. Ma il risultato culturale e politico è sempre lo stesso: l'annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura. Le persecuzioni delle streghe non furono un fenomeno medioevale. Il culmine dei pogrom è tra il 1560 e il 1630, quindi all'inizio dell'epoca moderna. Gli ultimi processi contro le streghe ebbero luogo nel 1775 in Germania, nel 1782 in Svizzera e nel 1793 in Polonia. Le «streghe» vennero lacerate tra la Chiesa, che voleva tener salda la «fede ormai impallidita» come bastione di resistenza, e la «ragione che stava fiorendo» e che portava al dominio sulla natura. La fede impallidita e la ragione fiorente, in feroce competizione per l'egemonia sul mondo nuovo che stava nascendo, si allearono per togliersi di mezzo la donna, radicale ostacolo alla cultura del dominio. I medici, ad esempio, contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del grado di tollerabilità delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro ma anche per strategia politica e di potere. Il nuovo soggetto «illuminato» doveva costituirsi in opposizione alla natura interiore ed esteriore e non in sintonia con esse. L'immagine magica del mondo, che aveva potuto resistere nei secoli nonostante la cristianizzazione, venne eliminata all'irruzione del periodo manifatturiero, con il trionfo della scienza moderna sulla teologia. Suo becchino fu però la chiesa, cosa che comportò l'assassinio delle donne, nel senso più vero dell'espressione. La cifra di un milione di roghi non è esagerata. Sia l'umanità medioevale che impallidiva e resisteva sia la «nuova» umanità dell'epoca industrializzata era maschile. Scrive queste cose, ed è sintomatico, la teologa tedesca Hedwin Meyer Wilmes docente di teologia femminista all'università cattolica di Nimega - Olanda, sulla rivista teologica internazionale Concilium 1/98. La competizione storica delineata sopra per l'egemonia sulla modernità prosegue oggi. Le modalità sono diverse, ma resta una competizione fra culture maschili che si alleano per togliersi di mezzo l'ostacolo comune e cioè la soggettività femminile. Dopo quattro secoli di rimozione, il naturalismo riemerge in forme nuove. Esso non è da confondere con la negazione dell'evoluzione in nome di una visione mitica della natura né con l'espandersi del mercato ai bisogni della psiche attraverso mode pseudo-religiose. È piuttosto emersione di soggettività dal basso e riscatto di culture represse. In qualche modo un ritorno della cultura delle streghe e dei maghi del Rinascimento e anche un riscatto delle culture indigene. Non va dimenticato infatti che nei secoli XVI e XVII, insieme al genocidio delle streghe e dei maghi si realizza il genocidio dei popoli indigeni delle Americhe e in Asia dei popoli di cultura sciamanica ad opera della colonizzazione russa. È ormai consolidata nella esperienza e nella riflessione del femminismo la convinzione che la ridefinizione della relazione uomo-donna come reciprocità, al posto della storica dipendenza gerarchica, fa tutt'uno con la medesima ridefinizione del rapporto fra classi-popoli-culture dominanti e dominati e con la pacificazione fra umanità e natura, tanto che ormai si parla di «eco-femminismo». Si intitola significativamente Gaia e Dio. Una teologia ecofemminista per la guarigione della terra una recente opera di Rosemary Radford Ruether, teologa nord-americana di grande prestigio, in cui risuona il tema caro a Bruno e anche a Galileo della immedesimazione fra la uomo, natura e Dio. La critica verso la divaricazione progressiva fra modernità e natura e il bisogno di nuovo naturalismo non è solo della teologia femminista, ma ora sembra l'approdo della stessa teologia della liberazione. «Tremate, tremate, le streghe son tornate», uno degli slogan più significativi del femminismo, è stato preso sul serio dai poteri che si contendono l'egemonia del mondo globalizzato. Ed è ripartita la caccia da parte sia di quel mondo scientifico che è legato a filo doppio alla nuova religione del danaro, sia di quel mondo della fede che punta con forza al ritorno del sacro e osteggia in ogni modo il processo storico di liberazione da ogni alienazione. Opporsi a questa orrida pratica repressiva verso la donna e verso la liberazione è parte della ricerca e della lotta per un «nuovo mondo possibile».