venerdì 18 gennaio 2008

l’Unità 18.1.08
I «no-Vat»: noi fuori, quelli di An dentro
Pochi a contestare: assurda militarizzazione. Prof dissidenti, nessuna punizione
di Andrea Carugati


Alle 9 di mattina alla Sapienza il silenzio è irreale, rotto solo dalle radio trasmittenti della polizia. Transenne dappertutto, polizia e carabinieri le presidiano, nei pochissimi varchi può passare solo chi è dotato di un tesserino. In piazzale Aldo Moro lo spiegamento di forze è imponente: decine di mezzi di polizia, carabinieri e finanza, strade di accesso chiuse e deserte. Gli studenti dei collettivi vengono dirottati a un ingresso laterale, su via De Lollis. A impedire loro l’ingresso agenti in tenuta antisommossa. Potrebbero entrare solo quelli che possono dimostrare di essere iscritti alla Sapienza. Ma i collettivi decidono di restare fuori per solidarietà con i manifestanti non iscritti, al grido di «No alla militarizzazione dell’università», «Sapienza libera». Sono circa 200, armati di striscioni graffianti e qualche fumogeno rosso. «Guarini come Mastella», è uno degli slogan più gridati. Come «Guarini servo di Ruini» e «Noi siamo i papa boys». Nel mirino anche Fabio Mussi: «Non ci dai fondi, difendi il papato, Mussi sei licenziato», dice uno striscione. Tra i manifestanti anche il leader dei Cobas Piero Bernocchi e il direttore di Liberazione Piero Sansonetti, che concordano: «Una militarizzazione del genere neppure negli anni Settanta». Sansonetti lancia anche una stoccatina a Mussi: «Mi auguro che non fosse informato di questa occupazione militare». Della stessa opinione anche Bruno Tirozzi, uno dei prof. di Fisica, che attacca: «Guarini se ne deve andare». “Uniti” da questo slogan gli studenti rossi e quelli di An, che sono riusciti a entrare e manifestano in un angolo di piazza della Minerva al grido di «Dimissioni» e con lo striscione: «Censura e teppismo. È questa la laicità?». Con loro anche Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera di An, che se la prende con «lo storico gruppo di mentecatti che pensa di decidere chi può parlare e chi no». Saranno una cinquantina, ma la notizia che i «fasci» sono entrati fa imbufalire i rossi di via De Lollis: «Vergogna, vergogna», urlano, e coprono di «bastardi» gli agenti. Parte una trattativa col rettore per poter entrare, partecipa anche il deputato No Global del Prc Francesco Caruso (che annuncia con il collega ex Prc Cannavò una interrogazione a Mussi sulla militarizzazione dell’ateneo). Ma è un nulla di fatto. Sono le dieci e i manifestanti, mani alzate, avanzano, entrano in contatto con gli scudi degli agenti. Solo spintoni, ma la tensione è alta. Fino a quando gli studenti ripiegano su un corteo attorno all’Università. A dar man forte arrivano altri collettivi, quelli che occupano un palazzo in viale Regina Elena. I manifestanti cantano e ballano, altri slogan contro Mastella e Veltroni. Viene strappato un manifesto della Destra di Storace. La polizia è irremovibile. Prima di dare il via libera per il rientro a piazzale Aldo Moro aspetta che la cerimonia sia conclusa. E poi, ancora, blocca l’ingresso principale della Sapienza fino alle due. Anche qui agenti e studenti si fronteggiano, insulti contro le divise, ma nessun indicente. Poco a poco gli agenti se ne vanno, i vialetti della Sapienza riprendono vita. Gli studenti si preparano alla «frocessione» che attraverserà San Lorenzo: uno vestito da papa con tanto di maschera, uno da Bagnasco, altri da Ruini, papi e papesse con mitrie colorate e piume di struzzo, benedizioni «froci et orbi», lanci di preservativi, baci gay. «Non abbiamo risposto alla provocazione indecorosa di Guarini, da noi nessun estremismo», conclude Francesco Raparelli. Mentre il rettore manda a dire che «contro i prof dissidenti nessun provvedimento», ma bolla i collettivi come «ignoranti» e «estremisti che istigano all’odio».

l’Unità 18.1.08
Ma io quei professori li difendo
di Pietro Greco


Saranno anche stati ingenui, politicamente. Ma non meritano certo la pubblica gogna cui sono sottoposti in queste ore dalla gran parte dei giornali, delle radio e delle televisioni i 67 professori che hanno giudicato “incongruo” l’invito che il loro Rettore, Renato Guarini, ha rivolto al Papa, Benedetto XVI, affinché inaugurasse il nuovo anno accademico dell’università La Sapienza di Roma. Anzi, il loro comportamento è stato del tutto corretto nel metodo e sufficientemente fondato nel merito.
Cosa hanno fatto, dunque, i 67? Hanno scritto, nel lontano mese di novembre, una cortese, anche se ferma, lettera al loro Rettore per criticare un'iniziativa che giudicavano “incongrua”. Non hanno contestato la legittimità dell'invito che Renato Guarini ha rivolto al Papa. Né hanno minacciato le barricate. Si sono limitati a esprimere per iscritto un giudizio di congruità, esercitando un loro diritto. Anzi, un loro dovere. Qualsiasi atto nell’università, anche se proposto dal Rettore e approvato a maggioranza dal Senato accademico, può essere sottoposto a critica. E se un docente o uno studente giudica “incongruo” che ad aprire l’anno accademico - atto di notevole pregnanza simbolica - sia Tizio piuttosto che Caio, ha tutto il diritto di farlo presente al suo Rettore. E quell'espressione di un giudizio non può essere in alcun modo considerata un tentativo di censura. Tanto più nel mondo delle scienze, naturali e umanistiche, dove l’analisi critica, palese e anonima, è la norma assoluta. E dove - come insegna il sociologo Robert Merton - non vale, in alcun caso, l’ipse dixit. Nell’università una critica, a chicchessia - fosse anche al Papa - non può essere considerata di per sé un atto di intolleranza, ma al contrario è un'interpretazione piena di laicità e democrazia vissuta.
Naturalmente, la critica può essere a sua volta criticata. E giudicata sbagliata nel merito. C’è, dunque, un palese errore di merito nel giudizio di “incongruità” espresso dai 67 professori al loro Rettore sul fatto che a inaugurare con una “lectio magistralis” (di questo si parlava a novembre) l’anno accademico 2007/08 dell’università La Sapienza di Roma fosse il Papa, Benedetto XVI? Francamente, non pensiamo. In discussione, infatti, non è se un Papa possa parlare in un’università. È già successo, in molte università e in molti paesi. Con soddisfazione di tutti. È successo anche alla Sapienza: per esempio, il 17 maggio 2003 quando Giovanni Paolo II che fece un applaudito intervento ricevendo una laurea “honoris causa”.
I 67 professori hanno messo in discussione due cose. Primo: se è congruo che un Papa o una qualsiasi autorità religiosa inauguri l’anno accademico, ovvero compia un gesto di alto valore simbolico (nessuno più dei religiosi conosce il valore dei simboli) in un’istituzione laica. È un po’ come se a tenere l'udienza il primo mercoledì dell’anno in sala Nervi in Vaticano venisse chiamato il Presidente della Repubblica italiana. L’evento sarebbe da molti giudicato non congruo.
Secondo: i 67 si sono chiesti se è congruo che a inaugurare l’accademico all’università di Roma sia quest’anno, questo Papa, Benedetto XVI. Che nei suoi tre anni di magistero non solo si è trovato, più volte, a polemizzare con svariati ambienti scientifici su singole questioni (dalla ricerca sulle staminali embrionali al darwinismo), ma ha addirittura affermato (proprio in un’università, a Regensburg) che una scienza senza la guida della fede è cieca. Il Papa può legittimamente proporre questo rapporto asimmetrico tra scienza e fede. Ma è altrettanto legittimo (anzi, è auspicabile) che uno scienziato - o una qualsiasi persona laica - possa contestarlo. La scienza rivendica come suo valore fondante l’universalismo. Può contribuire pienamente al suo sviluppo chiunque: a prescindere dal sesso, dalla razza e, appunto, dalla fede religiosa. I cattolici non fanno scienza meglio dei protestanti, degli islamici o dei non credenti. E affermarlo, come hanno fatto i 67, può essere politicamente ingenuo (bisogna sempre calcolare gli effetti indesiderati di ogni propria azione), ma non è affatto oltraggioso. Anzi, è addirittura meritorio.
Invece, i 67 che hanno esercitato questo diritto di critica - corretto nel metodo, e ben fondato nel merito - sono stati messi alla pubblica gogna. La gran parte degli editorialisti li ha accusati di intolleranza, di attentato alla laicità e alla democrazia. Un ex ministro ne ha chiesto il licenziamento, come successe ai tempi del fascismo a chi rifiutò il giuramento al regime. Un ex segretario di partito li ha definiti ignoranti e un ex Presidente della Camera li ha definiti imbecilli - senza forse sapere che tra quei 67 più d’uno è in odore di Nobel.
Non dobbiamo preoccuparci per il giudizio - certo criticabile, ma legittimo nel metodo e ben fondato nel merito, espresso dai 67 - ma faremmo bene a preoccuparci del conformismo di un paese che tratta così sessantasette persone che hanno l’unico torto di aver fatto emergere con ingenua determinazione l’esistenza di un nodo, quello dei rapporti tra chiesa e società, che negli ultimi tempi si è aggrovigliato e si è stretto fino a diventare a volte doloroso.

l’Unità 18.1.08
Ricercatori Usa creano 5 embrioni umani partendo da una cellula della pelle
L’annuncio della rivista scientifica Stem Cells potrebbe aprire la strada alla produzione di staminali per terapie personalizzate. La ricerca finanziata da privati
di Pietro Greco


È la prima volta che succede. Hanno ottenuto embrioni umani sani, lasciati sviluppare fino allo stadio di blastocisti, attraverso il metodo per trasferimento di nuclei prelevati da cellule somatiche adulte sane. Il risultato, hanno dichiarato gli autori dell'esperimento, è di grande importanza per sviluppare un processo di clonazione terapeutica umana ad alta efficienza. Loro, gli autori, sono Andrew French e un gruppo di suoi collaboratori in forze alla Stemagen (una società privata di ricerca) di La Jolla in California, che ieri hanno pubblicato sulla rivista «Stem Cells» un articolo in cui rendono conto dello sviluppo di blastocisti umane ottenute per clonazione mediante il metodo ormai classico del trasferimento di nucleo a partire da cellule adulte.
Gli embrioni sono stati fatti sviluppare fino al livello di blastocisti, ovvero all'aggregato di poche cellule che si ottiene attraverso lo sviluppo dell'embrione per meno di una settimana. French e i suoi collaboratori hanno verificato, con una serie di test, che i cinque embrioni prodotti sono effettivamente «embrioni-cloni», ovvero hanno il patrimonio genetico del donatore del nucleo cellulare. È stato analizzato anche il Dna mitocondriale e, come atteso, corrisponde a quello della donatrice dell'ovocita.
Le novità maggiori sono tre. La prima è che i ricercatori californiani hanno dimostrato che la clonazione per trasferimento di un nucleo prelevato da cellule differenziate adulte del corpo umano possono essere utilizzate per ottenere embrioni umani. La seconda è che il processo inizia ad avere un'efficienza relativamente elevata. Infatti, il gruppo avrebbe ottenuto 5 embrioni a partire da «soli» 29 ovociti, donati da tre diverse donne in cui è stato trasferito il nucleo di cellule somatiche prelevate dalla pelle di due maschi. La terza è che finora i pochi embrioni umani clonati erano stati ottenuti a partire da nuclei prelevati da staminali in laboratorio e non da cellule differenziate adulte prelevate dal corpo di una persona. Se i risultati di French e collaboratori verranno confermati, avremmo la prova non solo che la tecnica con la quale è stata fatta nascere la pecora Dolly può essere usata anche per l'uomo. Ma che la sua efficienza sarebbe piuttosto alta. Inoltre avremmo la possibilità di utilizzare questi embrioni umani per ottenere cellule staminali embrionali totipotenti. E, nel caso riuscissimo a utilizzare queste cellule a fini terapeutici, potremmo finalmente evitare i fenomeni di rigetto. Infatti i nuclei potrebbero essere prelevati dalle cellule somatiche del malato a cui reimpiantarle.
Ma stiamo già parlando di un futuro indeterminato. Per ora possiamo dire che i risultati della ricerca sono stati pubblicati su una delle riviste scientifiche specializzate in ricerca sulle cellule staminali più accreditate al mondo. E anche se, come è giusto che sia, non mancano gli scettici, va considerata affidabile. E va considerata un importante passo avanti da un punto di vista scientifico. Non tanto perché rende più vicina la possibilità di usare cellule staminali embrionali per fini terapeutici, ma perché - come sostiene Carlo Alberto Redi, docente dell'università di Pavia, membro dell'Accademia dei Lincei ed esperto di staminali e di biologia dello sviluppo - ci aiuta a capire meglio la biologia delle cellule staminali.
Va detto che in Italia una ricerca del genere non potrebbe essere realizzata. Ma negli Stati Unti è lecita, purché sia realizzata con fondi privati (come è avvenuta in questo caso) o comunque non federali. Certo, i problemi etici restano. Alcuni sono contrari in linea di principio alla produzione di embrioni a fini terapeutici. Altri sostengono che sono preferibili altre vie: come quelle esplorate di recente, che consentono di ottenere staminali embrionali senza lo sviluppo di embrioni. Ma quelle tecniche producono cellule staminali embrionali più «sporche» - malate e/o con retrovirus - mentre la clonazione per trasferimento di nucleo le sviluppa in maniera «più pulita».
La discussione resta aperta. Ma certo è da riaggiornare.

Liberazione 17.1.08
L'esempio della Sapienza

Caro Piero,
le vicende umane di Joseph Ratzinger mi ricordano tanto la favoletta di Andersen "quel che fa il babbo è sempre ben fatto". Qualsiasi cosa egli dica o faccia, anche decidere di starsene a casa, raccoglie subito il favore di politici, giornalisti e "intellettuali", pronti a fare propria l'opinione papale, anche la più orrenda, e a tramutarla nel tema rilevante del giorno, fulcro necessario e supremo dell'interesse collettivo, e d'altro non si parla finché il livello dell'immondizia campana non ci riporta alla realtà. Bene, tre mesi or sono il museo della scienza di Londra cancellò una lezione del Premio Nobel per la medicina James Watson, poiché, con le sue affermazioni sull'intelligenza della gente nera, aveva "oltrepassato la linea del dibattito accettabile". L'intero mondo scientifico aveva preso le distanze da Watson. Immagino l'abbiano fatto anche Fini e Ferrara, D'Alema e Berlusconi, Prodi e la CEI, perché non ricordo di aver sentito parlare, in quel caso, di intolleranza antidemocratica e chiusura culturale.
Stranamente invece tutto ciò non avviene per Joseph Ratzinger, che è solito oltrepassare la linea del dibattito accettabile un giorno no e due si. Ma "quel che fa il babbo è sempre ben fatto", per cui lui, e non gli altri, diventa la vittima dell'intolleranza, del fanatismo, della campagna di anticlericalismo ideologico, della violenza ideologica e rissosa di pochi, di prese di posizione estremistiche di un branco di asini. Tanto si legge ora nelle news. Ma l'ostinazione di alcuni professori e studenti della Sapienza ci dimostra invece che nessuno è disposto a barattare un cavallo per un sacco di mele marce. Conferma che la grande maggioranza degli italiani è assai lontana dalle credenze e dai pregiudizi di un gruppetto di persone che da sé se la canta e da sé se la suona, arroccata in un anacronistico fortino mass-mediatico. La piccola rivoluzione della Sapienza dovrebbe incoraggiare la gente a scrollarsi di dosso tutta questa servitù fatta di clerici opportunisti, di giornalisti servili, di politici ipocriti e di intellettuali poco intelligenti.
Roberto Martina

Liberazione 17.1.08
Papa. La libertà è solo per Ratzinger?
Cara "Liberazione", finalmente Ratzinger, sentendosi offeso dal fatto di non essere accolto entusiasticamente dal cento per cento del suo uditorio, ha deciso di non tenere il suo comizio all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza. Per tutto il giorno è stato un continuo stillicidio di dichiarazioni di politici (qualcuno ne ha dibattuto anche alla Camera mentre magari ci sarebbe stato qualcosa di più serio da fare) che si stracciavano le vesti (tra essi dispiace vedere il ministro Mussi) gridando alla mancanza di libertà, quella stessa eccessiva libertà che viene concessa al Papa dai Tg (che hanno addirittura dei giornalisti addetti a raccogliere quotidianamente ogni perla di saggezza proveniente dalle alte sfere cattoliche), dai giornali, dalla radio, dalle centinaia di potenti riviste cattoliche in giro per il mondo, dall'enorme potere economico del Vaticano. Per tutto il giorno si è parlato solo del diritto del signor Ratzinger, capo dello Stato Città del Vaticano, di parlare all'Università. Nessuno dei grandi pensatori liberali da quattro soldi, degli "atei devoti" che infestano il Paese ha speso una parola per la libertà di chi non ha piacere di sentir parlare il Papa e intende manifestarlo liberamente, nessuno di quelli che hanno gridato alla censura ha pensato per un minuto alle tante soggettività quotidianamente attaccate, sminuite e offese dal Papa: dai ricercatori alle coppie di fatto...
Roberto Capizzi Enna

Liberazione 17.1.08
Confronto reale delle opinioni
Caro direttore, democrazia esigerebbe che chiunque parli e sappia ascoltare gli altri in un confronto dialettico vero, non dalla cattedra. Il silenzio è sempre rinuncia. Occorre invece né stadio né soliloquio. Paolo Mieli ha ricordato quel che il nostro giornale clandestino, "La compagna", riportò sempre come manchette, una frase di Voltaire: «Io detesto la tua opinione ma son pronto a morire per il tuo diritto di proclamarla». Fu una frase che allora, nella rabbia della nostra lotta clandestina, mi fece pensare molto. Benissimo. Dovrebbe quindi valere la regola della democrazia, cioè della dialettica, del confronto reale delle opinioni, come del resto sarebbe d'obbligo in una sede di ricerca quale dovrebbe essere l'Università. Non discorsi dalla cattedra, "veni, vidi, vinci" e... arrivederci. Altrimenti c'è chi ragiona e chi sentenzia.
Gianni Alasia via e-mail

l’Unità 18.1.08
Orgoglio laico: io ringrazio gli studenti e i docenti
Cara Unità,
uscito da poco, per raggiunti limiti di età, dalla Sapienza dopo quasi quaranta anni di insegnamento e ricerca nelle frontiere avanzate della biologia molecolare e della genetica, desidero esprimere il mio sentito ringraziamento ai valorosi colleghi ed ai giovani studenti che con un bello scatto di orgoglio laico hanno riproposto con forza l’incompatibilità del razionalismo critico e dello scetticismo metodologico - propri del pensiero scientifico e della istituzione universitaria - con chiunque rappresenti, affermi e sostenga (da Trofim Denissovic Lyssenko a Joseph Ratzinger) la «verità» teologica (e/o ideologica), come criterio ultimo ed autentico di validazione di ogni altra verità. Di nuovo un grazie di cuore ai colleghi ed agli studenti per aver messo a nudo l'arroganza dei clerici e il servilismo di tanti 'genuflessi', e per aver restituito orgoglio a quanti, come il sottoscritto, alla scienza, ai suoi metodi ed al suo insegnamento hanno dedicato le loro migliori energie intellettuali e l’impegno di una vita. Ed anche grazie per aver restituito, a me, personalmente, la fierezza di essere stato (dalla laurea a tuttoggi) membro attivo di una comunità universitaria che - nonostante molte ombre - si dimostra ancora rigorosamente fedele al suo mandato storico ed istituzionale di sede del pensiero critico.
Piero Cammarano
Già professore ordinario di biologia cellulare della facolta di Medicina della Sapienza attualemente in attesa di ratifica ministeriale del ruolo di professore emerito

l’Unità 18.1.08
Benedetto non può dettare la linea magistrale
Cara Unità,
Benedetto XVI fa il suo mestiere. Altrettanto non si può dire dei massimi dirigenti della Sapienza, dal Rettore al Senato Accademico. Non si invita il Papa ad inaugurare l'Anno Accademico (addirittura ad aprirlo con la «lezione magistrale»), senza pensare alle eventuali reazioni, considerato il soggetto in questione. Il capo di una delle più importanti Chiese del Mondo può essere benissimo invitato a tenere una conferenza, con tanto di dibattito, quale contributo alla cultura (visto che siamo in un'università), ma non a dettare la linea magistrale. Non si tratta di un errore di metodo (come sostiene Camon), ma di sostanza e bene ha fatto il porfessor Marcello Cini a sollevare la questione. E bene ha fatto il Papa (dimostrando grande senso di opportunità) a rinunciare. Tra l'altro va ricordato che recentemente per ragioni sicuramente meno nobili il Dalai Lama non è stato ricevuto ufficialmente dalle autorità italiane. Nel mondo, per i buddisti, il Dalai Lama equivale a quello che il Papa di Roma significa fra i cattolici. Perché due pesi e due misure?
Diego Novelli

Repubblica 18.1.08
Carlo Bernardini: "Da Cacciari parole squallide ribadiremo il no a Benedetto XVI"
di a.m.l.


ROMA - «Mi sembra che per una persona chiamata "filosofo" usare questi argomenti e dire cretini ad un gruppo di professori sia dequalificante. Si tratta del modo di esprimersi, piuttosto squallido, di qualcuno che non ha capito che non può esserci compatibilità tra il pensiero dottrinario e la conoscenza scientifica». Carlo Bernardini, fisico e professore emerito della Sapienza, nonché uno dei firmatari dell´appello contro la visita del Papa, non usa mezzi termini per ribattere a Massimo Cacciari.
Cacciari ha detto la vostra è stata una "cretineria politica".
«E´ proprio per non cedere al fatto che una concezione come quella che vorrebbe che Dio si occupi della politica che molti di noi si oppongono a ciò che Ratzinger racconta. E´ questa la cretineria politica di cui parla Cacciari?».
Quindi non condivide il nuovo invito del rettore al Papa perché torni all´ateneo?
«Non credo sia una buona idea in questo momento. Né questa né, ovviamente, la paradossale richiesta dei ragazzi perché abbia con loro un contraddittorio. Inoltre il Papa lo abbiamo in casa, è presente quotidianamente su tutti gli schemi televisivi e sui giornali. Non sarebbe lo stesso se si trattasse di monaco buddista o di un imam islamico, ai quali però lo stesso rettore non avrebbe mai chiesto la lectio magistralis».
Cacciari dice che dovreste tacere per 20 anni...
«Invece parleremo per 20 anni. Anche perché io spero che per il futuro l´università si attenga a tematiche che rispettino i problemi della educazione superiore, della sorte dei giovani e dei problemi della ricerca».

Repubblica 18.1.08
Cagnacci. Maestro del sacro e del profano


Domenica nei Musei San Domenico di Forlì, il pittore seicentesco capace di dare grandezza ai santi quanto a erotiche Cleopatre Parla il curatore Antonio Paolucci
Capolavori da tutto il mondo messi a confronto con i lavori degli amici, da Guido Reni a Caravaggio Vouet, Guercino

Sedotto dai piaceri della carne e dalla spiritualità, artista bizzarro e stravagante, lo definirono le fonti antiche. Ed effettivamente Guido Cagnacci lo fu per mille ragioni, a cominciare dall´idea di trascinarsi dietro splendide fanciulle, le modelle, vestite da uomo. Amante della vita e delle feste e al contempo assai litigioso ebbe una gioventù difficile come racconta indirettamente il padre il quale, conciapelli e messo del comune di Casteldurante (l´odierna Urbania), nell´atto testamentario detrasse dall´eredità le spese sostenute per mantenerlo agli studi di pittore. Una decisione aspra che Matteo Cagnacci - secondo Daniele Benati con Antonio Paolucci curatore della mostra che aprirà a Forlì nei Musei San Domenico il 20 gennaio - maturò in seguito agli scandali di cui il figlio si era reso protagonista a Rimini. In quella costa romagnola, forse con un fondo crapulone e orgiastico come oggi, Guido Cagnacci aveva tentò di fuggire con una nobile riminese, Teodora Stivivi vedova Battaglini, contessa ricca, svelta e chiacchierata, con la quale aveva stretto segretamente un patto di nozze. Fu il padre a denunciarlo all´autorità pontificia. Intervenne la «squadra del buon costume» che sventò la fuga, imprigionò la contessa, costrinse il pittore all´esilio.
Ma gli scandali toccarono ben poco l´arte di Guido Cagnacci, maestro sublime, capace di dare grandezza al sacro e al profano, ai santi e agli angeli che volano su tersi cieli azzurri, alle sensuali morenti Cleopatre da un incarnato rosa più vero del vero, influenzato da Guido Reni e da Caravaggio.
Fu odiato e molto amato tanto da trascorrere gli ultimi anni alla corte di Leopoldo I d´Asburgo, a Vienna dove morì nel 1663 a 62 anni e dove fu sepolto nella Augustinerkieche. Quando la notizia della sua morte giunse a Rimini monsignor Giacomo Villani la annotò nel suo diario aggiungendo: «pittore di felice ingegno, ma d´infelice fortuna». Poi un imbarazzato silenzio: i tempi si erano fatti più cupi e l´inquisizione più attenta anche al «privato».
Molti collezionisti italiani si liberarono dei suoi quadri vendendoli a principi oltremontani, come narra un erudito bolognese.
Fu così che su questo meraviglioso artista scese l´oblio. Fu quasi dimenticato per almeno quattro secoli fino, agli anni Cinquanta del Novecento, quando due mostre e gli studi di Cesare Gnudi e di Francesco Arcangeli accesero le luci sull´originalità e la grandezza dell´artista, avviarono una lettura corretta della pittura realistica e contrastata della sua giovinezza e di quella più luminosa e sensuale della sua maturità.
Oggi per Guido Cagnacci arriva la prima vera monografica, carica di capolavori provenienti da ogni parte del mondo, messi a confronto con la pittura degli artisti che «incontrò» durante i soggiorni romani con l´amico Guercino: Caravaggio e Guido Reni (presenti con 4 dipinti ciascuno), ma anche Bogianni, Serodine, Honthorst, Gentileschi, Vouet.
Grande mostra dunque che, come dice Antonio Paolucci, curatore e oggi anche direttore dei Musei Vaticani, «fin dal sottotitolo spiega gli intenti dell´esposizione: Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Guido Reni. Noi vogliamo dimostrare - ed è la prima volta che accade - che Cagnacci è un protagonista della sua epoca, non è un comprimario, un testimone, un seguace. E´ in primo piano nella scena della pittura del naturalismo e del Barocco. Ecco perché è accanto a Caravaggio e al Reni. Questo il mercato lo ha compreso prima di noi: Cagnacci è un pittore internazionale che nelle vendite all´asta spunta prezzi altissimi».
Fino agli anni Cinquanta del Novecento fu però dimenticato.
«Ha avuto una lunga eclisse, fu riscoperto da Gnudi e Arcangeli. Ci fu una mostra nel 1993 curata da Benati, ma era piccola. A Forlì c´è tutto il corpus di Cagnacci, messo a confronto con grandi maestri».
Guercino, di cui Cagnacci fu amico, ne segnò la pittura?
«Cagnacci fu un artista onnivoro, che prese quel che poteva da tutti. Certamente anche da Guercino. A Roma abitavano nella stessa casa. Ma non si può dire che ne fu un seguace. Guercino prese un´altra strada».
Da Caravaggio che vide a Roma fu influenzato più per il sacro.
«Cerco di spiegare una cosa che viene fuori dalla mostra. E´ molto difficile classificare con un´etichetta Guido Cagnacci, parlare di naturalismo, barocco, classicismo. Contaminava, disarticolava gli stili, ne creava uno suo. Non v´è dubbio che vide Caravaggio e vi sono opere di fortissimo naturalismo ma vi sono opere anche in cui si vede che vira verso gli esempi di Guido Reni, verso il classicismo bolognese».
Quanto risentì di Guido Reni nei quadri erotici «da stanza»?
«Guido Reni fu il pittore della bellezza virtuosa, incarnata, sublimata, asessuata. Cagnacci al contrario immerse l´anatomia, la realtà fisica del corpo nella pelle degli uomini e delle donne di tutti i tempi. Tutte queste suggestioni messe insieme crearono una diversa proposta stilistica dell´artista che si esprime anche nei soggetti erotici che l´hanno reso famoso nel mondo».
Famoso perché leggermente porno? Anche la sua vita fu molto turbolenta. Vestiva le modelle da uomo.
«La sua vita fu turbolenta. Fu un mascalzoncello, sempre nei guai a causa delle donne, corse a Venezia, a Vienna. I biografi testimoniano il suo carattere pittoresco anche attraverso le modelle travestite. Ma non era un pornografo, non cercava una committenza particolare. Sentiva l´eros come un qualcosa di sostanziale della natura umana, riuscì a dare una straordinaria evidenza e attualità alla componente erotica. Questa è la sua modernità. Era, fu in qualche modo, un artista concettuale. Per lui la rappresentazione del concetto, dell´idea, era più importante dei modi tecnici usati dal pittore».

Repubblica 18.1.08
Cagnacci. Tra naturalismo e classicismo
Alla scuola di Caravaggio e Guido Reni


Lungo la sua vita eccentrica è amico del Guercino che segue a Roma dove incontra le novità caravaggesche
Ispirati dai seguaci di Michelangelo Merisi nascono i suoi primi capolavori sempre carichi di una intensa fisicità
Parte da un soggiorno bolognese, negli anni ´40, la produzione delle sue sensuali e accattivanti immagini femminili

Per una curiosa coincidenza, due pittori seicenteschi che Roberto Longhi accomunò sotto la sbrigativa ma efficace etichetta di «sensualisti», per la carica erotica sprigionata dai loro conturbanti nudi femminili, sono entrambi protagonisti della presente stagione espositiva con una propria «personale»: Francesco Furini, nella sua Firenze, a Palazzo Pitti (ne abbiamo dato conto su queste colonne poche settimane fa) e il romagnolo Guido Cagnacci, con la grande rassegna che si inaugura in questi giorni a Forlì, negli ormai collaudati spazi museali di San Domenico (Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, a cura di Antonio Paolucci e Daniele Benati, fino al 22 giugno).
Diversamente da Furini, Cagnacci è già stato gratificato una quindicina di anni fa di un´altra mostra monografica (Rimini, 1993), che però rispetto a quella odierna era assai meno ambiziosa, perché si concentrava esclusivamente sulle opere dell´artista. A Forlì, invece, accanto ad una quarantina di tele che esauriscono quasi interamente il catalogo noto del pittore, i curatori hanno convocato un pari numero di quadri eseguiti dai grandi artisti seicenteschi che hanno lasciato un segno profondo nel suo itinerario pittorico. Fra gli altri: Ludovico Carracci, Caravaggio (di cui sono presenti ben quattro tele: l´Amorino dormiente di Pitti, il Fanciullo morso da un ramarro della collezione Longhi, la Maddalena penitente della Galleria Doria Pamphilj e il San Francesco in preghiera del Museo civico di Cremona), Simon Vouet, Orazio Borgianni, Gerrit van Hontorst (con la stupenda Decollazione del Battista della chiesa trasteverina di Santa Maria della Scala), Artemisia e Orazio Gentileschi, il Fossombrone, Guido Reni, Guercino.
Di Guido Cagnacci e della sua vita eccentrica e irregolare, per non dire sregolata, vorremmo conoscere più notizie di quante non ne abbiano finora lasciate filtrare le carte d´archivio. Nasce nel 1601 a Santarcangelo di Romagna da una famiglia che proveniva dalla non lontana Casteldurante, nel Montefeltro (l´attuale Urbania). Suo padre, Matteo, aveva una doppia attività: commerciava in pelli ed era messo comunale. Proprio il testamento paterno, stilato nel 1643, è uno dei documenti più succosi a nostra disposizione. Da esso apprendiamo che Matteo, per avviare il figlio alla carriera di pittore, lo aveva inviato per ben quattro anni a Bologna, finanziandogli inoltre ripetuti viaggi di studio a Roma. Il soggiorno bolognese dovette protrarsi dal 1616 al 1620 circa, mentre il secondo viaggio romano risale al 1621-22, quando gli «Stati d´anime» della parrocchia di Santa Lucina menzionano Guido tra i residenti in una casa di Strada Paolina (l´odierna via del Babuino), in cui abita anche il grande Guercino. Quest´ultimo è senza dubbio un pittore che ha avuto una profonda influenza sulla formazione di Cagnacci, il quale l´aveva certamente conosciuto e frequentato nel suo quadriennio di apprendistato a Bologna. Il 1621 segna l´avvento al soglio pontificio dell´arcivescovo bolognese Ludovisi, che assume il nome di Gregorio XV. E confidando in importanti incarichi di lavoro da parte del nuovo papa che Guercino si sposta prontamente nella capitale, e non è improbabile che sia stato egli stesso ad incoraggiare Guido a seguirlo.
A Roma l´orizzonte culturale di Cagnacci si allarga a dismisura, venendo a contatto con le sconvolgenti novità caravaggesche. Ma più che le opere del maestro, sono quelle dei suoi seguaci italiani e stranieri a lasciare un´impronta indelebile nel giovane romagnolo: le ombre colorate e la sontuosa densità materica di Orazio Borgianni e del ticinese Serodine, l´elegante declinazione «in chiaro» del caravaggismo di Orazio Gentileschi o l´audacia profana dei quadri che proprio in quel giro di anni Simon Vouet stava dipingendo per una cappella in San Lorenzo in Lucina.
Nasce da questi incontri decisivi il capolavoro giovanile di Cagnacci: quella strepitosa pala della chiesa riminese di San Giovanni Battista, con le tre diverse (e incomunicanti) esperienze estatiche e mistiche dei tre Santi carmelitani, con cui il pittore si lascia perentoriamente alle spalle le timidezze degli esordi (ancora succubi delle idee compositive di Ludovico Carracci), per volare alto e dare un primo, indimenticabile saggio della sua stupefacente capacità di trasmettere alle proprie immagini dipinte una carica di intensa e pulsante fisicità.
Curiosamente, è proprio nella chiesa riminese di San Giovanni Battista che Guido cerca provvisoriamente rifugio nel 1628, quando a seguito di un suo tentativo di fuggire con una giovane e facoltosa vedova con cui aveva intrecciato una relazione, è denunciato alle autorità proprio da suo padre Matteo, costretto a questo amaro passo dallo scandalo sociale che il figlio aveva suscitato con i suoi colpi di testa.
Negli anni Trenta Guido continua a risiedere a Rimini, producendo tele sacre per gli altari della città e del circondario (Saludecio, Santarcangelo, Urbania). Poi, nel ‘40, si apre un nuovo ciclo con la sua presenza a Bologna, dove egli entra in contatto con la pittura tarda di Guido Reni, le cui estenuate eleganze producono una svolta decisiva nella sua pittura, attenuandone la prorompente densità materica e l´evidenza illusiva, ma non la fisicità fremente, che si limitano a rendere più sensibile e squisita; in altre parole, operando una sorta di moderata spiritualizzazione della sua produzione pittorica, che finisce per collocarsi esattamente a mezza strada tra i due poli espressivi del secolo: quello del naturalismo e quello del classicismo.
Nasce così, a partire da questo secondo soggiorno bolognese, la produzione di quadri profani «da stanza», che renderanno famoso Cagnacci per le sue sensuali e accattivanti immagini femminili, per lo più a mezza figura, sempre semivestite, invariabilmente comprese nella loro parte come altrettante eroine da melodramma impegnate in un a solo, che un opportuno e variabile attributo - ora un teschio e un tarassaco, ora un pugnale da affondare nelle tenere carni, ora un aspide, ora un vasetto d´unguenti - trasforma in altrettante Vanità, Lucrezie, Cleopatre o Maddalene.
Nel 1642 Cagnacci è a Forlì, impegnato in due grandi teleri sacri destinati a decorare il tamburo della cappella di Santa Maria del Fuoco in duomo. Sembrerebbe un momento felice, come dimostra la strepitosa virata in chiaro di questi due quadroni in cui il pittore recupera da Correggio e Veronese il gusto dell´interazione scherzosa tra lo spettatore e le figure dipinte e scorciate di sott´in su, che lo guardano con sussiego dall´alto in basso, irridendolo più o meno apertamente, oppure lo ignorano, volgendogli le spalle e caprioleggiando felici nell´aria.
Ma la rinuncia ad affrescare la cupola della cappella, con la conseguente rottura del contratto, fa tornare in primo piano il carattere ombroso e inaffidabile dell´artista.
Qualche anno dopo Guido risiede stabilmente a Venezia, dove il clima libero e disinibito è quanto di più favorevole si possa immaginare per una ripresa in grande stile dei suoi nudi femminili «da stanza». Ma l´irrequietudine, e forse anche l´invidia nutrita nei suoi confronti dai pittori lagunari che ne temevano la concorrenza, lo portano a passare gli ultimi anni della sua vita alla corte di Leopoldo I d´Asburgo a Vienna, dove muore nel ‘63 e viene sepolto nella prestigiosa Augustinerkirche. Non prima però di aver compiuto un ultimo, stupefacente capolavoro: quella sconcertante e audace messa in scena della Conversione di Maddalena, la cui visione diretta, per volontà di Norton Simon e di sua moglie Jennifer Jones (sì, proprio lei, l´attrice hollywoodiana!), è riservata solo a chi visita il loro strepitoso museo in un dorato sobborgo di Los Angeles, Pasadena.

Informazioni utili
FORLÌ - La mostra Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni apre al pubblico nei musei San Domenico di piazza Guido da Montefeltro domenica 20 gennaio (fino al 22 giugno). Curata da Antonio Paolucci e Daniele Benati, organizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì in collaborazione con l´amministrazione comunale, presenta quasi l´intero corpus dell´artista, una quarantina di dipinti del maestro e a confronto altrettanti quadri di Caravaggio, come l´Amore dormiente, o Guido Reni. Il catalogo è Silvana Editoriale. L´orario di visita dell´esposizione forlivese, facilmente raggiungibile in auto, treno e aereo, dal martedì al venerdì è dalle 9,30 alle 19. Sabato, domenica e giorni festivi (4 febbraio, 24 marzo e 2 giugno) è dalle 9,30 alle 20. La biglietteria chiude un´ora prima. La mostra si ferma ogni lunedì. Il costo del biglietto intero è di 9 euro, ridotto 5 euro. La prenotazione è obbligatoria per gruppi e scuole ma è consigliata anche per i singoli essendo la visita regolamentata da un sistema di fasce orarie con ingressi programmati. Il sito internet è www.guidocagnacci.com il telefono 199 199 111. Per gruppi e scuole 02 43 35 35 22. E-mail: servizicivita. it.

Repubblica 18.1.08
I ragazzi di Terezin
Esce un saggio in Germania con le loro testimonianze dopo la Shoah si sparsero per il mondo ma restarono uniti


Si sono aiutati a vicenda formando una specie di comunità, di rete ante litteram
"Dopo quello che abbiamo vissuto" racconta uno di loro , "la normalità era una chimera"

BERLINO. Erano bambini, erano destinati alle camere a gas e poi ai forni crematori. Il gas Zyklone-B, vanto tecnologico della IG Farben, avrebbe dovuto porre fine alle loro piccole vite, i perfetti forni made in Germany avrebbero ridotto i loro resti in cenere. Invece sopravvissero, in più di settecento. 732 per l´esattezza. E dopo la guerra, rimasti orfani delle famiglie sterminate nell´Olocausto, si aiutarono a vicenda. Con un networking straordinario fondarono tra di loro una comunità ante litteram, decenni prima di internet. E oggi un libro li ricorda, e nell´avvicinarsi della ricorrenza della Giornata della memoria scuote le coscienze della Germania e di tutto il Mitteleuropa.
Sie waren die Boys. Die Geschichte von 732 jungen Holocaust- Ueberlebenden, cioè «Erano i Boys. La storia di 732 giovani sopravvissuti all´Olocausto», s´intitola il volume dello storico britannico Martin Gilbert, appena uscito in Germania per i tipi dell´editore Verlag fuer Berlin-Brandenburg. L´opera ha colto una delle ultime occasioni di ottenere dal vivo testimonianze, racconti e ricordi di quella generazione di bimbi e adolescenti ebrei d´Europa, una generazione giovane spezzata dal nazismo. Oggi quelli di loro ancora in vita sono tutti anziani. I 732 dei "Boys of Terezin" vivono sparsi per il mondo: chi nel Regno Unito, altri in Europa orientale, altri ancora nel nuovo mondo. Ma ancora oggi si aiutano a vicenda, e ricordano quello spirito straordinario di solidarietà che li unì nel dopoguerra. E consentì loro di sopravvivere all´incubo.
«Rammento ancora quando il figlio di uno di noi Boys, ormai maggiorenne, cresciuto nel dopoguerra pacifico a differenza del papà, s´innamorò e volle sposarsi», narra Ben Helfgott, uno dei sopravvissuti che più ha aiutato Gilbert a raccogliere le testimonianze del libro, al Tagesspiegel, il quotidiano liberal di Berlino che ieri ha dedicato un´intera pagina alla storia. «Il padre gli disse: "bene, organizziamo una bella festa di matrimonio, ma sai già che ben pochi della nostra famiglia sono rimasti vivi, quindi ben pochi verranno". "No, ti sbagli, papà", gli rispose il ragazzo. "Io ho almeno settecento zii o fratelli: gli altri Terezin Boys, gli altri bimbi sopravvissuti ai forni. Ecco la mia famiglia».
Terezin, Theresienstadt in tedesco, luogo così registrato negli archivi del Reichssicherheitshauptamt (Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich, il supremo supervisore della Shoah), è una cittadina cèca. I nazisti occupanti vi costruirono un Lager speciale: riservato quasi solo ai bambini ebrei d´Europa. Fame, torture, lavoro forzato, malattie, e poi lo sterminio, separati dalle famiglie che venivano eliminate altrove, o erano state già massacrate dalle Ss. «Dopo quello che abbiamo vissuto», dice Helfgott, «avremmo dovuto diventare giovani criminali, o casi di psicopatologia sociale. Invece siamo riusciti a realizzare il sogno: sopravvivere».
L´idea di organizzare il network dei Terezin Boys sopravvissuti nacque in parte grazie a Paul Yogi Mayer, ebreo berlinese scampato anche lui alla Shoah. Era un atleta di grido, ma come ebreo fu escluso dalla squadra delle olimpiadi del 1936.
Due anni dopo fuggì in Gran Bretagna. Nel 1945, si prese cura lui dei 732 sopravvissuti. Oggi è ancora vivo, 95 anni ben portati. Si pose subito un compito: dare ai boys una vita normale. Lui ideò il termine boys, anche se tra i sopravvissuti c´erano pure molte ragazze. Era la parola-slogan più facile da ricordare, dette subito un´identità e un senso d´appartenenza a una comunità e una famiglia agli scampati che non avevano più nulla e nessuno alle spalle.
«Io dissi subito a ciascuno di loro: vorrei per voi una vita come tutte le altre persone normali, perché voi siete normali», dice Mayer. Fu la sua terapia, funzionò come collante del networking dei ragazzi di Terezin. Meglio da Mayer che dallo psichiatra, meglio da Mayer che restare nell´Europa orientale sovietizzata e investita dal risorgere di vecchi e nuovi odii antisemiti. Incontri, dibattiti, aiuto reciproco dalla scuola al lavoro e alla vita. I boys avviarono il loro networking nel mondo libero degli anni Cinquanta, e con le loro forze ne hanno fatta di strada. Ben Helfgott divenne sportivo olimpionico britannico, premiato dalla Regina. Kurt Klappholz è stato professore di rango alla London School of Economics, Hugo Gryn fu il rabbino che dai microfoni della Bbc parlava all´ebraismo della nuova diàspora. Roman Halter, architetto e artista, progettò lo Yad Vashem, il memoriale dell´Olocausto in Israele.
Successi e gioie, settecento vite normali costruite dal nulla sparsi per il mondo, grazie al networking di quella loro famiglia immaginaria e insieme reale e ben viva che si erano inventati e costruiti da soli. Al posto delle famiglie che avevano visto assassinare dai nazisti. Con Paul Yogi Mayer non si parlava del passato, ma tra loro sì, ogni volta. Come se ne parla ancora oggi nei loro incontri annuali, un tragico "come eravamo" dei sopravvissuti al genocidio. Ben Helfgott era tra i ventiduemila ebrei di Piotrkow, città polacca occupata dai nazisti, che furono deportati prima nel ghetto, poi a gruppi nei campi di sterminio.
«Non potete immaginare cosa abbiamo vissuto», narra a Markus Hesselmann del Tagesspiegel. «Cercavano con accanimento ognuno di noi, davano la caccia a chiunque si nascondeva. Uno dopo l´altro, vedemmo morire tutti i nostri cari». Per dieci giorni, i nazisti rinchiusero 560 persone, quasi tutte donne e bambini, in una sinagoga. Sara, la mamma di Ben, e la sorellina di lui Lusia, erano tra quei prigionieri. Ben, papà Moshe Jakov e l´altra sorella Mala riuscirono a restare nascosti nel ghetto. «Dai fili spinati che circondavano il ghetto, scorgevamo da lontano la sinagoga. Era una domenica mattina, il 20 dicembre 1942, quando vedemmo i nazisti portar via le persone dal tempio. A gruppi di un centinaio, l´uno dopo l´altro, venivano condotti verso una foresta poco distante. Cento, poi cento, poi altri cento, e poi rumori e voci lontane». Mamma Sara e la piccola Lusia furono assassinate col colpo alla nuca là nel bosco. Ben e papà Moshe Jakov furono portati nelle marce della morte verso Terezin, poco prima della fine della guerra. Il padre era combattivo, tentò di fuggire per unirsi a gruppi partigiani. «Fu catturato da alcuni anziani del Volkssturm, la milizia degli ultimi giorni del Reich. Lo uccisero, sebbene sapessero benissimo che la loro guerra era già perduta».
Oggi i Terezin boys sopravvissuti sono diverse centinaia. Di loro, secondo Helfgott, saranno morti di vecchiaia o malattia sì e no duecento. Più di duecento si rivedono all´incontro annuale, si confortano con le loro storie di vite ricominciate, dopo. «I loro successi sono stati resi possibili proprio dal loro Gemeinschaftsgefuehl, da quel sentimento di comunità che forgiarono da soli». Nelle baracche di Terezin, confortandosi a vicenda, poi l´8 maggio 1945 l´Armata rossa liberò il campo, poi da adulti nel dopoguerra in Occidente.
Pure, non tutti i ricordi del dopo-liberazione sono belli. Ben Helfgott e suo cugino tentarono di tornare a piedi nella natìa Polonia. Ufficiali polacchi li fermarono, e imposero loro l´atroce supplizio di una fucilazione simulata. «Al muro, ebrei di merda, vi eliminiamo!», gridarono. Poi decisero di lasciarli andare, «via, sono solo ragazzini». Con questo passato alle spalle, dice Helfgott, «la vendetta avrebbe potuto diventare il nostro primo obiettivo. Invece no». Decisero di ricominciare, tenendosi per mano a distanza, aiutandosi tra ragazzi. In un mondo in cui Hitler era stato spazzato via dalla macchina da guerra alleata, eppure l´antisemitismo non era morto.

Corriere della Sera 18.1.08
L'intervista Il segretario del Prc Giordano
«Il Pd non ceda, a rischio il governo»
di Monica Guerzoni


Avanti su quel testo La consultazione ci espone a qualsiasi ipotesi di rottura e spazza via la politica Contrario Il segretario del Prc Franco Giordano è contrario ai referendum sulla legge elettorale

ROMA — Segretario Franco Giordano, il referendum tanto osteggiato dal Prc si avvicina. È l'ora di rassegnarsi?
«No. Sono sempre più determinato a cambiare la legge elettorale in Parlamento. Il referendum alimenta la frammentazione e spinge alla degenerazione politica. In un improbabile listone possono entrarci tutti, anche chi accampa una rappresentatività mai misurata. Ecco perché chiediamo di andare avanti sulla bozza Bianco».
Perché non ammette che l'asse del Prc con Pd e Forza Italia non ha retto?
«Noi abbiamo cercato di allargare la disponibilità al confronto a forze anche diverse, dall'Udc a Sd, è importante anche l'apporto di altri partiti dell'opposizione e io mi prodigherò per cercare un confronto più serrato anche a sinistra. Con il referendum siamo tutti di fronte all'ipotesi che la politica sia spazzata via e il trasformismo trionfi».
Il Pd però è spaccato e Veltroni rischia di restare solo.
«Tranne i referendari, sulla bozza Bianco ci può essere il consenso di tutto il Pd. Se si insegue il modello americano intere classi sociali, le più deboli, non saranno rappresentate, come succede negli Usa. È un passaggio decisivo. C'è una verifica in corso su questi temi e la tenuta del nostro patto di governo dipende dalle scelte sociali e democratiche che si determineranno. Salari, pensioni, lotta alla precarietà...».
Ma Berlusconi torna a chiedere il «vassallum » e voi volete il tedesco, davvero spera che si trovi un accordo?
«Ogni giochino è possibile, ma il confronto va cercato con tutti. Noi siamo pronti a discutere di miglioramenti, ma vorrei dire a tutti che il referendum alimenta i personalismi e distrugge le soggettività politiche. E non parlo per noi».
Sta chiamando alle armi i piccoli partiti?
«Sto dicendo che siamo al capolavoro. Il referendum affolla il già affollato sistema politico e mette a rischio il governo».
Si potrebbe obiettare «è la democrazia, bellezza ».
«Con un referendum che cancella ogni forma di soggettività politica siamo esposti a qualsiasi ipotesi di rottura».
E Veltroni che potrebbe cavalcarlo? E i Parisi, le Melandri, i Santagata che hanno sostenuto i quesiti?
«Hanno fatto un grave errore a partecipare alla partita referendaria. Si sono illusi di poter produrre la palingenesi invece producono fortissima instabilità, a causa loro Prodi è sospeso nel vuoto. Di fronte a questa deriva abbiamo il dovere di cercare una risposta».
Perché non lasciate che siano i cittadini a offrirla?
«Faccio notare, e non c'è alcun elemento di causalità con il caso Mastella, che il referendum potrebbe essere la via semplificata per far emergere un giudizio generalizzato e indistinto sulla politica».
Teme un voto contro la casta?
«Un terremoto, sì. Che però finirebbe per favorire i poteri forti del Paese, i notabili, i clan, le lobby».
Molti guardano con sospetto alla coincidenza tra il sì della Consulta e il Mastella indagato. E lei?
«Sono lontano anni luci dalla teoria del complotto. Dico solo, e mi viene voglia di citare Gramsci, che se non c'è uno scatto democratico, un rinnovamento morale, una grande riforma intellettuale del Paese, il rischio della deriva plebiscitaria, del populismo e in alcuni casi della torsione autoritaria è sempre possibile».
Mastella può tornare al governo?
«Lo valuteremo dopo le vicende giudiziarie. Al momento è più utile per il Paese il gesto importante delle dimissioni, così che il leader dell'Udeur possa liberamente contestare le accuse. Noi siamo di cultura garantista, ma guai ad aprire un conflitto tra le istituzioni».
A proposito: un governo istituzionale?
«È bene per tutti fare subito la legge elettorale ».

Corriere della Sera 18.1.08
Radio Maria: gruppi satanici in Ateneo


MILANO — «Non mi meraviglio che ci siano professori cornuti con tanto di tridente e di coda». Padre Livio Fanzaga non ha dubbi, in questa vicenda c'è lo zampino di Satana. Il filmino si può trovare su You Tube, inserito da un utente che si firma «Razionalismo». Il direttore di Radio Maria, filiale italiana dell'emittente cattolica accusata in passato di antisemitismo, commenta la mancata visita del Pontefice all'Università. Don Livio ha le idee chiare: «Non escludo — spiega — che ci siano gruppuscoli satanici tra questi studenti, gruppi di atei che hanno come slogan odio la Chiesa o ammazziamo Cristo. Non facciamoci illusioni, Satana è dappertutto.
Sotto sotto, state tranquilli, c'è l'odio contro Dio. C'è sempre il maligno, non mi posso sbagliare, sennò non si spiega. Se vai da quella gente lì e gli spruzzi l'acqua santa viene fuori il fuoco. Fumano, come avviene negli esorcismi più tremendi».

Corriere della Sera 18.1.08
Il «New York Times» scopre 121 omicidi commessi da reduci


Dei delitti, 108 sono stati commessi da veterani dell'Iraq, il resto da reduci dell'Afghanistan.
Un terzo delle vittime erano familiari

NEW YORK — Krisiauna Calaira Lewis aveva 2 anni. Il padre ventenne, tornato in Texas dopo aver perso un piede in un'esplosione a Falluja, la sbattè contro un muro, uccidendola. Il soldato Richard Davis, invece, è stato pugnalato ripetutamente dai compagni il giorno dopo il loro rientro dall'Iraq. Il suo cadavere fu dato a fuoco e nascosto in un bosco. Un'inchiesta del New York Times ha portato alla luce 121 casi di omicidi commessi negli Stati Uniti e attribuiti a reduci americani delle guerre in Iraq e in Afghanistan. In molti di questi casi, è stato lo stress post-traumatico insieme a problemi di alcolismo e familiari a portare i soldati «alla distruzione e all'autodistruzione», secondo il quotidiano. Tre quarti dei veterani erano ancora membri delle forze armate prima degli omicidi, che sono stati commessi per lo più con pistole; altri accoltellando le vittime, strangolandole o affogandole nella vasca da bagno. Delle vittime, 41 erano mogli, fidanzate, bambini; 32 erano altri reduci di guerra. Il resto erano conoscenti o estranei, come Noah P. Gamez, 21 anni che stava cercando di rubare una macchina in un motel di Tucson, in Arizona, quando un suo coetaneo, reduce dall'Iraq, lo ha sorpreso, gli ha sparato e poi si è suicidato. Tredici di questi soldati si sono uccisi, altri hanno tentato o minacciato di farlo. Il Times, che ha scoperto i 121 casi attraverso ricerche sui giornali locali e documenti di polizia, tribunali e militari, afferma che vi sono probabilmente molti altri casi non riportati dai media. Il Pentagono, che non raccoglie dati su questi episodi, ha rifiutato di commentare l'inchiesta. Molti di questi reduci hanno appreso di avere disturbi da stress post-traumatico dopo l'arresto. Soltanto a due di loro erano stati diagnosticati problemi mentali dopo il ritorno dalla guerra. Alcune delle vittime hanno denunciato il governo, dicendo che le forze armate potevano e avevano «l'obbligo di compiere passi ragionevoli» per prevenire gli omicidi.

Corriere della Sera 18.1.08
Il culto della purezza e il potere del sacrificio
Dagli Atridi all'Africa, se il sangue «lava»
di Maria Serena Natale


«Lo zio Wu», raccontano gli abitanti di Zhenping, era molto superstizioso e non riusciva a togliersi dalla testa quell'antica leggenda taoista del vecchio che ritrova gloria, potenza e longevità possedendo fanciulle vergini: alla centesima, si narra, l'uomo avrà recuperato la forza perduta. L'atto sessuale come attingimento della pienezza vitale nell'unione dei principi dello yin e dello yang, potenziato dal valore rigenerante della verginità.
L'idea del sangue che lava torna in tempi e culture differenti. In sé, il sangue è da sempre simbolo di vita ed energia (Odino, il dio nordico di guerra, sapienza e poesia, sparge sangue di re per far fiorire le messi); quello verginale, purifica e santifica. Accade nel mito greco, nella casa degli Atridi: i figli di Tieste massacrati dallo zio Atreo; la figlia sopravvissuta, Pelopia, violata dal padre per volere dell'oracolo; la nascita di Egisto, vendicatore di Tieste. Ed è sempre di vergine il sangue più gradito agli dei nei sacrifici, nell'Aulide di Ifigenia (salvata all'ultimo momento da Artemide), come nell'impero degli Inca. La purezza è attributo della divinità: Cibele genera l'universo «senza conoscere maschio », Atena «fugge talami». Immacolata sarà Maria, il corpo gravido di quell'unico, assoluto «sì».
Che nel sangue «incontaminato » la comunità veda il tramite privilegiato con la fonte della vita o lo strumento per esorcizzare la mancanza originaria, la nostalgia dell'integrità perduta che è il tratto fondamentale dell'esperienza umana, il valore attribuito alla verginità dice del ruolo della donna in un preciso sistema antropologico e sociale, rimandando a quel nodo fondamentale che è, in tutte le culture, il corpo femminile, la sua «funzione», i limiti imposti al potere terribile che detiene, dare la vita. Verginità come valore socioeconomico. Scelta, anche, scrive la femminista americana Hanne Blank nel suo ultimo libro Virgin. The Untouched History, dalle sante e badesse che nelle società patriarcali imparano a «usare» il corpo come merce di scambio per affrancarsi da una condizione di inferiorità e accedere al potere. La verginità, ha insegnato Elisabetta I, è politica.
In un'Inghilterra molto diversa da quella elisabettiana, il Regno di Vittoria, l'originaria fede nel valore catartico del sangue verginale si tradurrà nella più scientifica «cura delle vergini», rapporti sessuali contro le malattie veneree (ripescata dai «cattivi» de La grande rapina al treno, il romanzo di Crichton ambientato nel 1855). Nel '900 la «terapia» è esportata in Africa. Due anni fa il Girl Child Network Project ha lanciato in Zimbabwe la campagna «Le vergini non curano l'Aids. È un mito », per dissuadere i guaritori dal prescriverla agli ammalati, il 25 per cento della popolazione. Sulle piccole salvatrici, esistono solo stime.

Corriere della Sera 18.1.08
I testi e le immagini nelle mappe secolari dedicate al Paradiso Terrestre
Il giardino dell'Eden, padre di tutti i miti
di Arturo Carlo Quintavalle


Il Paradiso in terra? Un libro di Alessandro Scafi racconta una vicenda secolare utilizzando testi e immagini dalla tradizione tardoantica a tutto il medioevo ed oltre, fino al XVII secolo (Il paradiso in terra, Bruno Mondadori, pagine 414, e 58). Il giardino dell'Eden per secoli è stato rappresentato e narrato, dalle mappe e dai racconti che le accompagnano; in origine esso si colloca come polo di un sistema di tre continenti, Asia in alto, Europa e Africa sotto, le così dette mappe a T o a Y con l'est sopra e l'ovest sotto. Esempi di questa geografia, fra XI e XII secolo, sono i ricchi codici dei Beatus, miniati in Spagna: sono essi a proporci il luogo, ma dove?
Dal Paradiso sgorgano quattro fiumi, Tigri, Eufrate, Gange e Nilo, fiumi che scorrono in terre in parte ben note, ma alle loro sorgenti il giardino dell'Eden non si trova. Certo il corso dei fiumi dell'Eden è sotterraneo nella prima parte, per questo ritrovare il giardino del peccato è difficile, ma nelle mappe più antiche comunque esso viene fissato nella zona del Caucaso, in Armenia, anche se quel polo del racconto si sposta continuamente, man mano che le esplorazioni o le conoscenze geografiche dilatano le terre conosciute. Eppure il mito vive nei secoli e dura ancora se, alle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate, il turista, prima della recente guerra in Iraq che ha distrutto tutto, poteva vedere, spacciato come luogo del giardino dell'Eden, qualche alberello e qualche tugurio nello spazio enorme del deserto.
Il Giardino dell'Eden ha insieme una dimensione temporale: esso, infatti, è anche la Gerusalemme Celeste che si rappresenta come città chiusa da mura costellate di pietre preziose e difesa da dodici porte, tante quanti sono gli Apostoli; del resto l'immagine di quella città la si ritrova dai mosaici paleocristiani agli affreschi romanici e oltre. Così l'Eden del peccato diventa il luogo della salvezza; lo spazio mitico del Paradiso terrestre coincide con quello altrettanto distante della Gerusalemme dell'Apocalisse di Giovanni, la città della salvezza alla fine dei tempi.

Corriere della Sera 18.1.08
La legge di Moriarty. Con la matematica il Male può trionfare
di Giulio Giorello


«Per capire questi delitti dobbiamo considerare l'usuale armamentario del matematico, visto che le sue speculazioni e i suoi calcoli tendono a enfatizzare la relativa insignificanza di questo pianeta e la scarsa importanza della vita umana». Così Philo Vance, l'intellettuale snob e raffinato che nella New York degli anni Trenta riusciva sempre a smascherare il colpevole. Questa volta, la mente criminale si è esercitata nel settore «proibito» delle funzioni continue e mai derivabili, cioè delle curve che non hanno tangente in alcun punto! Non dovremmo sorprenderci «che un uomo che tratta tali colossali, incommensurabili concetti perda il senso delle proporzioni. Nel suo cuore egli vorrebbe farsi beffa di tutti i valori umani...». Una sessantina di anni prima di queste conclusioni dell'eroe creato da S. S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright, antropologo, cultore d'arte e filologo) era stato un grandissimo matematico come Jules-Henri Poincaré a dichiarare (1871) che le funzioni «oneste» (!) dovrebbero avere «tutto l'interesse a essere ovunque derivabili » e che era stato l'eccesso di logica a partorire «mostri!». È un peccato che nelle versioni del romanzo ( L'enigma dell'alfiere) che circolano nel nostro Paese l'osservazione di Vance spesso venga disinvoltamente eliminata.
Oggi sappiamo che le curve «rispettabili » sono l'eccezione, mentre le «patologie» costituiscono la regola: sono tra l'altro il nucleo concettuale dei cosiddetti «oggetti frattali », che tanto affascinano tecnologi e artisti, e non credo che si tratti di una congrega tutta di assassini! Piuttosto, è la pratica dell'intelligenza che può avvicinare il matematico creativo al criminale distruttivo, ma anche alla sua controparte «buona », l'investigatore capace di incastrare un colpevole con una logica non meno ferrea di quella del ricercatore che dimostra un teorema.
Quali sono, dunque, le relazioni «strane e intriganti tra matematica e romanzo poliziesco», si chiede Carlo Toffalori, docente di logica e appassionato di detective story. Vero e proprio Matematico in giallo
(come recita il titolo del suo ultimo libro, edito da Guanda), il nostro autore mostra come la matematica possa fare la sua comparsa nei casi polizieschi più complicati e come, a sua volta, questa «regina delle scienze» presenti vicende ricche di misteri e colpi di scena, degni degli intrighi di E. A. Poe, di Conan Doyle e di Agatha Christie.
Del resto, il più terribile nemico del geniale ma eccentrico Sherlock Holmes era un matematico di nome Moriarty, che aveva messo il suo talento al servizio del crimine. Conan Doyle lo fa morire ingoiato dai vortici di una cascata svizzera (se non andiamo errati, quella stessa che un giorno parve a Hegel incarnare la «dialettica della natura»: identità e cambiamento insieme!), in un abbraccio letale con il suo avversario Holmes, che sarà però «resuscitato » per le pressanti richieste dei lettori. Un omaggio postumo gli è stato tributato da Isaac Asimov, famoso per la divulgazione scientifica e la fantascienza, ma autore anche di impeccabili storie poliziesche. Il suo Club dei Vedovi Neri, specializzati in misteri apparentemente insolubili, scoprirà che Moriarty aveva addirittura progettato il «delitto supremo», quello di spostare la nostra Terra dalla sua orbita per farla precipitare verso il Sole! Per quanto moralmente esecrabile, il nostro «cattivo» non aveva fatto altro che sfruttare uno dei più impressionanti risultati della matematica della seconda metà dell'Ottocento: la difficile «stabilità» del Sistema solare, «l'elegante compagine del Sole, dei pianeti e delle comete » (come la chiamava Isaac Newton), così fragile da essere mandata in frantumi da un'opportuna «perturbazione». Guarda caso, quei teoremi così inquietanti sono legati (di nuovo!) al nome di Poincaré.
E così abbiamo trovato la connessione tra speculazione matematica e racconto poliziesco. Per dirla con Borges, si tratta di «un genere fantastico », ma «non solo dell'immaginazione », bensì appunto «dell'intelligenza ». Chi ha mai detto che la matematica (e più in generale la scienza) non pensa? Il solito Martin Heidegger, mi pare. Ma anche un grande inventore di enigmi della camera chiusa, John Dickson Carr (alias Carter Dickson) fa dichiarare a un matematico che compare in un suo romanzo che egli non si «permette mai» il lusso del pensiero! Forse, voleva solo dire che non ci si dovrebbe perdere in fantasticherie, ma eccellere nell'efficacia dei calcoli e nella potenza raffigurativa della geometria. E non sono queste due tra le migliori espressioni del pensiero?

Corriere della Sera 18.1.08
Mostre. Colloquio con il direttore del British Museum, candidato alla guida del Metropolitan
L'imperatore che si ritirò dall'Iraq
Londra celebra Adriano: «Una figura di straordinaria attualità»
di Guido Santevecchi


Il Vallo? L'idea era di unire la Britannia al resto di Roma
Questa è la più grande istituzione del mondo: io sto bene qui Il potere e i conflitti

All'imperatore romano, che regnò dal 117 al 138, anno della sua morte, è dedicata la mostra «Hadrian, Empire and Conflict» in programma da luglio a ottobre al British Museum di Londra

LONDRA — Le parole di Neil MacGregor, nella Great Court del British Museum, hanno il tono di un elogio funebre. Diciannove secoli dopo la morte dell'imperatore romano che Londra si prepara a celebrare con una grande mostra: Hadrian, Empire and Conflict, inprogramma da luglio a ottobre. Alle spalle del direttore del museo la testa di bronzo di Adriano domina la sala: l'artista romano-britannico l'aveva modellata dopo aver osservato da vicino il sovrano durante la sua visita a Londinium nel 122. Secoli dopo qualcuno la gettò nel Tamigi, da dove è riemersa nel 1834. Il direttore MacGregor ci parla in italiano, ma potrebbe esprimersi anche in latino, perché sente di essere un erede della grande costruzione imperiale di cui la Provincia Britannia faceva parte.
«Abbiamo scelto di offrire Adriano ai visitatori come protagonista del 2008 perché pensiamo che questa figura classica abbia un rilievo nelle nostre vite ancora oggi, rappresenti la continuità della storia. Volete una prova? La sua prima decisione quando arrivò al potere nel 117 dopo Cristo fu di ritirare le legioni dalla Mesopotamia, l'Iraq di oggi. L'ordine partì poche settimane, forse pochi giorni soltanto dopo l'inizio del suo dominio. E poi la sua seconda priorità fu l'apertura di un negoziato con i Parti, i moderni iraniani », dice con un sorriso. E subito insiste con i paralleli, con i segni della continuità della storia: «C'erano rivolte dalla Mesopotamia alla Palestina, ai Balcani quando Adriano prese in mano le sorti del mondo».
Iraq, Palestina, Kosovo, sembra di leggere i titoli dei giornali.
Vuole forse dire che l'imperatore potrebbe suggerire qualche risposta al prossimo presidente degli Stati Uniti? Se fosse vivo oggi, invece che nella sua villa di Tivoli, Adriano potrebbe insediarsi alla Casa Bianca di Washington? MacGregor sta al gioco e replica deciso: «Israele non sarebbe d'accordo. Una sezione della mostra illustrerà la repressione della ribellione in Giudea, che rappresentò il volto brutale del suo potere. Scavi recenti hanno restituito reperti commoventi di quella campagna spietata: come alcune chiavi trovate dagli archeologi israeliani nel deserto. Le avevano portate nelle loro sacche dei fuggiaschi ebrei, erano le chiavi delle case in cui avevano sperato di poter tornare: ma i romani distrussero decine di città e villaggi e quella gente morì in una grotta».
Anche Neil MacGregor potrebbe avere qualche motivo di risentimento storico nei confronti di Adriano. Il direttore viene dalla Scozia, che fu separata dal resto dell'isola con il Vallo Adriano. «Per noi è l'imperatore che ha fissato i confini tra l'Inghilterra e la Scozia, ma quel muro non era fatto solo per dividere, l'idea era di unire la Britannia governata dai romani con il resto dell'impero». Eppure uno studio che sta avendo un buon successo editoriale, An Imperial Possession, di David Mattingly, sostiene in termini revisionisti che l'impero romano non ha fatto alcun bene alla Britannia, che è stato un dominio militare di sfruttamento. MacGregor non è d'accordo: «Per me la presenza romana in Britannia è stato il fatto fondamentale di tutta la nostra storia, una circostanza molto felice, che ci ha legato al continente, ci ha reso parte delle grandi vicende del Mediterraneo. E il Vallo Adriano è in un certo senso un simbolo di questa nostra Gran Bretagna, della sua doppia natura, non interamente europea, in parte atlantica, fuori dall'Europa, una continuità affascinante».
Però era pur sempre un muro, come quello di Berlino. Sembra ardito vederci qualcosa di positivo. «Quello di Adriano era una risposta intelligente a una crisi, come la decisione di ritirarsi dalla Mesopotamia, per fissare una frontiera difendibile dal punto di vista militare e politico. Certo, moralmente ogni muro è problematico». Ma la politica non è mai morale. MacGregor ride: «Lei viene dal Paese di Machiavelli, io no».
Non è machiavellico, ma da quello che dice il direttore è evidentemente convinto che l'impero vittoriano britannico sia stato più vicino all'Antica Roma che non alla politica di superpotenza americana.
«Sì, i due imperi sono molto simili, per la loro visione mondiale della civilizzazione e per l'eredità. Hanno lasciato lingue universali: il latino e l'inglese; un sistema legale: il diritto romano e il nostro common law; ed erano impegnati allo stesso modo nel campo delle comunicazioni: i romani hanno costruito una rete di grandi vie, noi la ferrovia.
Erano due imperi molto pratici, che guardavano alla stabilità per garantire la libertà dei commerci e per questo hanno consentito diversità enormi al loro interno, hanno permesso ai popoli di mantenere tradizioni, religioni, in questo erano di massima tolleranza».
Di Neil MacGregor si parla sempre come del possibile successore di Philippe de Montebello alla guida del Metropolitan Museum di New York.
«Sto benissimo al British», replica senza esitazione il direttore scozzese. Forse pensa agli Uffizi? «Si guarda sempre agli Uffizi, con amore e nostalgia, ma io sono qui, nella più grande istituzione del mondo». Saluta e torna nel suo studio, forse a pensare alle sue legioni: quei cinque milioni e mezzo di visitatori che l'anno scorso sono entrati al British Museum.

Corriere della Sera 18.1.08
Le opere complete curate da Acerbi
L'anima euclidea della modernità
di Armando Torno


Negli «Elementi» una concezione della geometria che non si piega a istanze pratiche

Chi fu Euclide? Difficile rispondere in modo soddisfacente. Di lui ci restano alcune opere, in particolare gli Elementi, la spina dorsale del pensiero matematico, ma non conosciamo le date di nascita e morte né chi frequentasse. La fioritura del suo sapere (fissata al 300 a.C. circa) si ricava da congetture, il carattere è consegnato ad aneddoti, le sue tendenze — Proclo lo colloca tra i più giovani discepoli di Platone — riflettono antichi bisogni di appropriazione.
Eppure senza Euclide noi saremmo diversi, e altro sarebbe il nostro modo di guardare e analizzare la realtà. Se il mondo greco indicò all'uomo la via per comprendere numeri e figure oltre l'aspetto pratico — con la scuola di Pitagora, con quella di Elea — con Platone la matematica diventò definitivamente filosofia ed ebbe il compito di elevare la mente oltre le banalità dell'esperienza per vivificarla nella contemplazione del mondo delle idee. Euclide negli Elementi, ovvero nella celebre opera che fu seconda soltanto alla Bibbia per diffusione nei due millenni abbondanti che ci separano da lui, non si rivolge mai alla pratica ed invano si cercherebbe nei tredici libri che la compongono una regola di misura o di calcolo. Egli parla soltanto dei presupposti teorici. Per ricordare un caso, dimostra il teorema sulla proporzionalità dei cerchi ai quadrati dei diametri, ma non accenna ad una determinazione del relativo rapporto costante, vale a dire di quel pi greco che già gli scolari conoscono come 3,14.
Euclide, insomma, non fornì degli esercizi ma offrì i presupposti a un metodo: forse per questo le sue opere furono bramate, chiosate, confutate, difese, tradotte, sempre studiate. C'è da farsi tremare i polsi nell'aprire il libro della storia delle sue influenze. Limitandoci a dei semplici cenni, diremo che Imre Toth in Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria (Vita & Pensiero) ricorda che l'inizio dei sistemi non euclidei moderni comincia con alcuni passi del sommo filosofo greco; aggiungiamo che presso i Romani trovò un ambiente ostile, giacché la geometria teorica era vista quasi esclusivamente in funzione di quella pratica. Ma Boezio, all'inizio del VI secolo — oltre cent'anni dopo il primo Concilio di Toledo, che scagliò l'anatema contro astrologia e matematica — sentì la necessità di tradurre gli Elementi. Troviamo Euclide nel mondo bizantino, soprattutto nell'islamico, anzi il primo fece da ponte per il secondo; la versione araba di Thabit ben Zurra lo farà ritornare in Occidente perché sarà la base di quella latina di Gherardo da Cremona (1114-1187), subito seguito da altri: a cominciare da Giovanni Campano da Novara (Ruggero Bacone lo cita con rispetto), cappellano di Urbano IV. Sarà Luca Pacioli a spiegare all'amico Leonardo da Vinci molte cose di Euclide e sarà ancora il magnifico greco a guidare la rinascita del XVII secolo: impensabile buona parte delle opere scientifiche di Cartesio senza la sua presenza, così come l'Etica di Spinoza, che avrà bisogno del suo metodo. In quel tempo si arrivò a parlare di un «Euclide spirituale», ma è storia troppo vasta per queste righe. La geometria si fece strada ribellandosi a Euclide, a partire dal famoso quinto postulato. Ma egli è ancora nei libri di scuola del mondo contemporaneo: siamo euclidei nell'anima, anche se cerchiamo una nuova assiomatica e le matematiche inseguono altri orizzonti.
Tutto questo discorso lo poniamo in margine a un lavoro commovente, da poco uscito nella collana «Il pensiero occidentale » di Bompiani, diretta da Giovanni Reale. È un'opera che mancava: la traduzione italiana, con testo a fronte, di Tutte le opere di Euclide (pp. 2.734, e 41). La cura si deve a Fabio Acerbi. C'è un'introduzione di 776 pagine che è un saggio tra i più esaurienti sul matematico greco e sulle sue opere. Vi trovate, oltre gli Elementi
(persino i libri XIV e XV non autentici), i Data, l' Ottica ela Catottrica, i Fenomeni, gli scritti musicali o Sectio canonis. Fabio Acerbi merita più di un elogio e in questo lavoro c'è la sua vita e qualche vendetta: lo si capisce leggendo locuzioni quali «imperversano i gringos» , forse rivolta — per usare una battuta di Anacleto Verrecchia — ai blocchi e ai commerci culturali organizzati dal «bestiame.

Corriere della Sera 18.1.08
La denuncia di Ciliga fra censure rosse e brune
Orribile Urss, sembra il Reich
di Dario Fertilio


Un filo invisibile — l'oscura maledizione dei grandi — sembra collegare tra loro Vasilij Grossman e Ante Ciliga. Infatti il capolavoro romanzesco del primo, Vita e destino, proprio come i ricordi autobiografici del secondo ( Nel paese della Grande Menzogna, Jaca Book, pp. 455, e 35) sono dedicati all'Unione Sovietica. Molto diverse, però, le ambientazioni, dal momento che Vita e destino racconta con toni epici la battaglia di Stalingrado, mentre Ciliga descrive le sue drammatiche esperienze personali, avvenute fra il 1926 e il 1935, in un'area immensa compresa fra gli Urali e l'Oceano Pacifico, il Cremlino e l'arcipelago gulag. Li accomuna però una cosa: l'odio parallelo, e istintivo, che i loro libri finirono per suscitare fra i nazionalsocialisti come tra le fila dei bolscevichi. E non solo a causa del patto siglato nel '39 fra Molotov e Ribbentrop, ma anche perché le affinità fra i due sistemi, attraverso le loro descrizioni, balzano agli occhi del lettore. Quando Grossman dipinge la logica sovietica applicata alla difesa di Stalingrado, sembra che stia parlando anche di quella nazista. E quando Ante Ciliga svela i retroscena delle lotte di potere in corso nell'Urss, sottolineando le affinità esistenti fra i due mortali nemici, Stalin e Trotzkij, pare fotografare i regolamenti di conti interni alle gerarchie hitleriane.
Il prezzo pagato da entrambi fu la censura, ma quella che subì Ciliga risultò ancora più paradossale. Nel Paese della Grande Menzogna avrebbe dovuto essere pubblicato in Francia nel 1940, e fu l'arrivo delle Panzerdivisionen hitleriane a provocare la sua inclusione fra i libri proibiti: i nazisti si preoccuparono di togliere di mezzo la denuncia degli orrori sovietici che poteva ricordare troppo da vicino i loro stessi mali.
Destino ironico, quello di Ante Ciliga. Idealista e refrattario alla menzogna, marxista fino all'ultimo ma nemico della dittatura, mitteleuropeo portato a sentirsi a casa dovunque, da Trieste a Leningrado, letteralmente «consumato dalla curiosità per ogni cosa esistente al mondo», incarnò un tipo umano novecentesco inconfondibile, ma presto destinato a diventare sgradito, anzi intollerabile. Così si spiega perché lui, istriano di nascita, cittadino prima austriaco, poi italiano, jugoslavo, di nuovo italiano, abbia viaggiato da Mostar a Praga, Budapest, Zagabria, Vienna, Mosca, Irkutsk, Milano, Trieste, animato da una sete inestinguibile per la politica, ma sempre senza pace. Solo oggi, nel pantheon dei grandi eretici novecenteschi, può trovare riposo.

Corriere della Sera 18.1.08
Signorinaeffe. Sindacati, marcia dei 40 mila e sentimenti: il mix vacilla
L'amore alla Fiat, in quei giorni caldi
di Maurizio Porro


Effe sta per Fiat e quindi è la storia sentimentale di una signorina Fiat (modellata su una vera impiegata poi cassintegrata), meridionale di famiglia, avviata a un salto di classe con ingegnere vedovo di belle maniere, se non fosse che s'impantana in una vicenda d'amore proletaria proprio nel 1980. Fu l'ultimo sontuoso atto sindacale di massa, quando gli operai Fiat, come I compagni di un grande Monicelli, scioperarono 35 giorni contro 23.000 licenziamenti diventati, dopo lunghe trattative, referendum e visita di Berlinguer, cassa integrazione.
Punto focale fu un corteo della libertà, con la maggioranza non silenziosa né moderata di ben 40.000 mini yuppies alla piemontese, colletti bianchi con bottoncini alla Brooks Brothers. Mutò il corso della storia mentre la nostra bella e indecisa F. passa dalle mani curate del dirigente delle raccomandazioni a quelle populiste del ribelle: infine sceglie il fascino discreto della borghesia.
Strano film quello di Wilma Labate, una finzione quasi fiction mescolata a un mockumentary, con facoltà di prova documento su quei momenti che oggi molti non ricordano o rimuovono. Ma quella che non riesce è proprio la miscela, la storia è tutta fredda, telecomandata soprattutto da esigenze romantiche (brutto il taxi del destino finale), ravvivata dalla presa diretta dei luoghi torinesi, dove la Film Commission vede e provvede. I ritratti sono didascalici ma gli attori, tutta la new generation al completo, dalla sensibile Solarino a Gifuni, dal-l'arruffato Timi alla Impacciatore, da Paravidino a Colangeli alla Pianeta, sono bravi ma monolitici: come partono, così arrivano.
La categoria interessante è certo ampia ma dalla Labate era lecito attendersi qualcosa di più esplicativo sul perché degli eventi, sulla crisi della stessa classe operaia che non va più in paradiso ma è già pronta al pranzo della domenica come nella borghesia dei film dei Vanzina. S'ascolta «Pata Pata» della Makeba, Patti Smith e, se non ripudia, Dalla.

il Riformista 18.1.08
Domenica in piazza per il Papa-Day
La vasta schiera di politici e associazioni cattoliche
di Paolo Rodari


«È un momento di preghiera». «Non è un comizio». «Un appuntamento che per sua natura non può essere scambiato per alcun tipo di manifestazione politica». Un'occasione per offrire «affetto e serenità» al Papa. Così, quest'oggi, il cardinale Camillo Ruini spiega sulle colonne dell' Osservatore Romano il senso della convocazione dei cattolici in piazza San Pietro domenica, in occasione dell'Angelus che ha luogo tre giorni dopo la rinuncia del Pontefice a recarsi all'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza.
Che l'Angelus di domenica non sarà una manifestazione politica è quanto si tiene a rimarcare non soltanto nel Vicariato di Roma (promotore dell'iniziativa) ma pure nelle sedi dei principali movimenti ecclesiali e associazioni cattoliche che hanno deciso, in massa, di essere presenti domenica. Ed è quanto è stato richiesto anche ai politici di turno che hanno annunciato la loro presenza.
Saranno in tanti, i politici in piazza, soprattutto, naturalmente, del centro destra. Tra questi spiccano i nomi di diversi esponenti di Forza Italia, a cominciare da Bondi e Cicchitto che dice: «Sarò presente da laico». Poi Cesa e Casini e, ancora, diversi esponenti di An. Tra questi, Gasparri, che chiede che dal sagrato si levi al cielo un solo grido: «Libertà!». Tutti i politici sono stati richiamati a lasciare a casa bandiere e insegne di partito perché - lo ha detto Ruini - all'Angelus si va a pregare, non a fare propaganda. Insieme a quella di diversi esponenti dell'opposizione, si segnala anche la presenza della "stella d'oltre il Tevere" (è rimasta tale, nonostante le recenti difficoltà, fin dai tempi dei Dico) Clemente Mastella che rende noto: è «mia intenzione esprimere solidarietà a questo straordinario, eccezionale Pontefice, vittima di un laicismo esasperato». Ma anche quella del vicepremier Francesco Rutelli: «Sarò a San Pietro da credente e da cittadino romano».
In piazza arriverà pure Savino Pezzotta, ieri a Roma anche per dare ufficialmente il via alla "rinascita" di Retinopera, l'associazione nazionale che raccoglie al suo interno, con la benedizione della Conferenza episcopale italiana, i principali esponenti dei movimenti ecclesiali e dell'associazionismo cattolico.

il Riformista 18.1.08
Signorinaeffe, film coraggioso, ma tradisce intenzione e spunto
Wilma non è riuscita a "rifondare" il racconto operaio
di Michele Anselmi


Vi siete mai chiesti perché i film americani sulla classe operaia, inclusi quelli prodotti dalle majors, sembrano più «veri» dei nostri? Jane Fonda in Lettere d'amore , Sally Field in Norma Rae , Meryl Streep in Silkwood , perfino Charlize Theron nel recente North Country . Le vedi sullo schermo in ruoli da operaie tessili o metallurgiche e ci credi; eppure sappiamo bene che sono (erano) star hollywoodiane, quindi dotate di glamour, ossessionate dall'immagine, attente ad amministrarsi. Una risposta possibile? Abilità mimetica degli attori, bravura dei registi, ma soprattutto la speciale sensibilità sceneggiatoria nel ritrarre, in una chiave umana e politica non asservita all'ideologia, la ruvidezza della lotta sindacale, l'insidia del crumiraggio, la fatica del lavoro materiale, insomma quelle che un tempo si chiamavano le contraddizioni della lotta di classe.
Proprio ciò che non succede in Signorinaeffe , nuovo film, anche coraggioso, di Wilma Labate. D'accordo, gli operai al cinema non tirano più. Lontani i tempi di Romanzo popolare o di Mimì metallurgico ferito nell'onore . Nel 2003 Riccardo Milani, con Il posto dell'anima , ha provato a riproporre una lotta sindacale in chiave di commedia umana: non ha funzionato, nonostante il ricco cast. Meglio dimenticare Guido Rossa che sfidò le Brigate rosse di Beppe Ferrara, pur animato da buone intenzioni. Wilma Labate, cineasta con pedigree tutto a sinistra, vicina a Rifondazione, già regista del controverso La mia generazione , sembrava la persona giusta. Alla vigilia delle riprese, teorizzò che la Fiat ribollente di quel 1980, stretta tra mobilitazione operaia e ristrutturazione industriale, «è solo uno sfondo, un'ambientazione interessante, inconsueta. Non mi schiero con nessuna teoria. Giuro che non metterò un goccio di ideologia, farebbe solo male al film». Aggiunse che la marcia dei quadri, favorita dalla Fiat e tuttavia frutto anche di una rabbia spontanea che scompaginò i piani sindacali, «fu un grande evento sociale, segnò l'emergere dei cosiddetti colletti bianchi, l'avvento della mobilità: però a me interessa raccontare una straordinaria storia d'amore tra due trentenni, un rapporto appassionante e teso».
Luca Mastrantonio, sul Riformista di ieri, ha elogiato il film. Specie Valeria Solarino, che incarna l'avvenente impiegata di origine meridionale, studente universitaria, prossima a una promozione, che si innamora del fiero metalmeccanico salito dall'Umbria, generoso e sindacalizzato, benissimo reso da Filippo Tomi. Si scoprono, si vogliono, si amano, ma il contesto non aiuta: anche perché la donna, cresciuta nel culto degli Agnelli come il padre operaio, è sentimentalmente legata a un giovane dirigente aziendale, che reagirà male, vendicandosi, mentre la situazione all'interno della fabbrica precipita. Lo spunto viene da un documentario di Giovanna Boursier, intitolato proprio La signorina Fiat . Solo che lì si componeva il ritratto di un'impiegata dei primi anni Novanta, stretta tra orgoglio aziendale e paura di perdere il posto.
Nel retrodatare la vicenda al 1980, Labate e i suoi sceneggiatori hanno cambiato tutto, lasciando però intatto il senso di appartenenza, l'identificazione assoluta con l'azienda.
Ottima idea. Tuttavia - parere personale - il film non convince. Perché, alla fine dei conti, la storia d'amore risulta un pretesto, diciamo un tirante narrativo, per parlare d'altro. Qualcosa del genere succedeva anche in Riff Raff di Loach, in Risorse umane di Cantet o in Full Monty di Cattaneo, film diversi nel clima ancorché mirabili, ma, appunto, è il fattore umano a fare la differenza. Invece, a partire dalle omissioni sull'infiltrazione terroristica in fabbrica rilevate da vari commentatori, Wilma Labate addolcisce alcuni aspetti orribili di quelle giornate, enfatizza la «gioiosa» solidarietà operaia, mostra schitarrate notturne e belle ragazze col poncho, pervenendo infine ad un'amara riflessione: la marcia dei quarantamila segnò la sconfitta politica di un progetto che lei chiamerebbe di ristrutturazione capitalistica.
Ne consegue che il contesto fa aggio sul testo, sicché i personaggi, invece di vivere di vita propria, vengono via via piegati «ideologicamente» alla prospettiva del film. Più che l'amore contrastato tra l'emancipata (sulle prime filo-padronale) Emma e l'incazzato operaio Sergio, emergono le oscure manovre del «dottor Agnelli».
Per questo, pur nell'accorto dosaggio delle psicologie e delle tipologie, il risultato è così spesso prevedibile. Com'è prevedibile che il dirigente interpretato da Fabrizio Gifuni, forse il personaggio più interessante della storia, reagisca incattivendosi con Emma, benché scosso da qualche dubbio sulla strategia padronale. In una prima stesura del copione, Emma moriva investita dal più fetente dei dirigenti, e nell'epilogo, vent'anni e passa dopo, si vedeva Berlusconi in tv. Per fortuna, gli sceneggiatori ci hanno ripensato. Ma resta un senso di vago disagio vedendo Signorinaeffe .
Se davvero, come scrive Labate, «il 1980 segna la fine del fordismo del movimento operaio, sconfitto da quei quarantamila quadri e impiegati che si impadroniscono della piazza», bisogna riconoscere che il cuore del film sta tutto lì. Non a caso, sono stati i ricordi di Romiti, Calleri e Carniti a riempire le pagine dei giornali. Il che di solito rende molto folta la rassegna stampa ma meno felice la conta dei biglietti. Magari ci sbagliamo.

Liberazione 16.1.08
Il papa rinuncia all'Università: papisti battuti
di Ritanna Armeni


Alla fine Benedetto XVI ha deciso di annullare la sua visita all'Università di Roma. Una decisione saggia, politicamente avveduta, viste le polemiche e il contesto nella quale quella visita si collocava. Un gesto che esprime una sapienza maggiore (come sa fare una Chiesa millenaria) di quella di molti dei suoi sostenitori di questi giorni. Il Papa, Vicario di Cristo, espressione della Chiesa cattolica, non ha voluto esporsi a contestazioni riduttive della sua figura e dell'istituzione che rappresenta. Il pontefice è il capo della Comunità cattolica, interloquisce con i popoli e gli Stati del pianeta, interviene sulle manifestazioni della vita e della società che toccano aspetti fondanti dei valori religiosi cattolici: la vita, la morte, la pace, la guerra la scienza, la politica. Attraverso di lui la Chiesa cattolica parla ai poveri e ai ricchi, al terzo e al primo mondo. Ieri ha scelto di non parlare all'Università La Sapienza perché non ha ritenuto opportuno che le sue parole fossero utilizzate all'interno di polemiche inutili e sbagliate, quali quelle che si sono manifestate in questi giorni.
Mi riferisco a due polemiche contrapposte. Quella di alcuni che si sono opposti alla visita non solo perché in disaccordo con le parole e le opinioni della Chiesa, ma perché contrari al fatto che il Pontefice parlasse. E' vero, questo papa dice e interviene moltissimo, spesso sostiene argomenti che trovo reazionari e pericolosi, ma se anche dicesse il doppio di quello che già dice e dicesse cose ancor peggiori, comunque sarebbe legittimo e giusto. Se la politica degli Stati, a cominciare da quello italiano, viene influenzata dalle sue parole, il problema sta nella subalternità colpevole e opportunista dei politici italiani. In altri paesi non avviene. Dire che il pontefice non deve parlare è indizio di subalternità e d'inferiorità. Di un minoritarismo resistenziale di una parte del mondo laico che, di fronte ad una presenza e di una battaglia di valori iniziata dalla Chiesa e non solo da essa sulla legge 40 e proseguita su vari terreni, dall'eutanasia alla famiglia e alle unioni civili e ora all'aborto, si limita alla denuncia lamentosa di ingerenze anziché accettare il confronto convinto, duro, privo di pregiudizi.
Ma la decisione del papa taglia alla radice anche la seconda polemica, quella di chi, politici, giornalisti e intellettuali, in questi giorni ha voluto descrivere la Chiesa cattolica debole, censurata, impossibilitata a dire la sua, circondata da fanatici laici. Quelli che l'hanno difesa con l'ardore che meriterebbero altri soggetti e altre questioni (se ne potrebbero citare decine) queste sì trascurate da chi forma l'opinione pubblica. Che sono pronti a difendere il diritto della Chiesa a dire la sua, ma nemmeno per un momento prendono in considerazione che anche chi non è d'accordo ha diritto di esprimere il suo dissenso. E questo non significa necessariamente essere estremisti, laicisti, prepotenti. Anche se si sbaglia. Quelli che riducono la Chiesa a un soggetto qualunque e non vedono quello che fortunatamente è: una comunità e un' istituzione forte, pesante, autorevole, pervasiva , che vuole incidere e riesce a farlo. E che davvero è difficile descrivere come un ente perseguitato.

Liberazione 16.1.08
Il problema non è il Papa, il problema siamo noi
Elogio della contestazione a Ratzinger
di Massimiliano Smeriglio


Ultimamente Massimo D'Alema ama ripetere una frase colma di fascinazione e potenza: "non solo noi, ma anche gli altri. Non solo qui ma anche il mondo. Non solo oggi ma anche il domani". Una frase che per noi è anche una sfida sul terreno della innovazione e della trasformazione sociale. Muoviamo da qui per porre la questione del "noi", perché sembra prevalere ovunque la trasfigurazione di una identità dinamica verso un altrismo indistinto che tutto ricomprende. E un conformismo che mette i brividi. La discussione successiva alla rinuncia unilaterale del Papa alla prolusione per l'apertura dell'anno accademico della Sapienza è stata una lezione tragica sullo smottamento della discussione pubblica nel Paese. Come è noto il problema non è il Papa, il problema siamo noi, la tenuta e la forza della res pubblica ben prima di qualsiasi ragionamento sulla laicità. Il punto che sembra prevalere è una subordinazione culturale senza precedenti alle capacità egemoniche della Chiesa di Roma. Il tutto fondato su una supposta e indiscutibile autorevolezza e primazia della voce del Papa. Questo è il punto su cui vorrei discutere. Esiste, per i cattolici e solo per i cattolici apostolici e romani, una autorità indiscutibile, il Sommo pontefice, perché rappresentante del Cristo in terra. Ma appunto questo vincolo di obbedienza e subordinazione riguarda i cattolici, coloro che fanno professione di fede. Altra cosa è l'autorevolezza e la conquista del consenso praticando forme di egemonia culturale e non per sottomissione. Questo è un punto importante, su questo agli inizi del ‘500 si è accesa la Riforma protestante e anche il movimento della Renovatio evangelica guidato da Erasmo da Rotterdam. Una Riforma che ha sottratto al dominio di Roma e della mediazione ecclesiastica gran parte del nord Europa. E una Renovatio che ha sbattutto contro i cumuli di cenere prodotti dai roghi.
L'autorevolezza del Papa e della Chiesa di Roma non valgono a prescindere, non possono essere confuse con la sfera dell'autorità. E mentre i cattolici sono vincolati al dogma dell'obbedienza e quindi alla sottomissione all'autorità papale, per tutti gli altri conta solo il linguaggio dell'autorevolezza. E l'autorevolezza si conquista sul campo, dismettendo le vesti militanti, valorizzando l'ecumenismo ed un linguaggio che abbia validità erga omnes. Su questo terreno Giovanni Paolo II ha giocato e vinto la sua partita nella Chiesa e tra gli uomini (ma non tra le donne, ma questo riguarda tutti i Papi).
L'autorevolezza si conquista parlando al mondo, sviluppando capacità di ascolto e sensibilità sincretiche. Papa Benedetto XVI ha scelto un altro terreno, quello del rafforzamento identitario della comunità militante; ha scelto di accumulare forze su questo terreno per giocare partite politiche e culturali qui e ora. Dalla moratoria sull'aborto alla negazione dei diritti civili, dall'attacco al sindaco di Roma al ripristino del rito preconciliare alla umiliazione della differenza di genere. In fondo era chiaro dall'origine, anche nella scelta del nome vi era la ricerca di un destino: il richiamo alla regola di San Benedetto per la evangelizzazione dell'Europa e l'omaggio a Benedetto XV, il papa che difese con i denti il cattolicissimo impero austroungarico. Benedetto XVI è un Papa militante che ci ricorda spesso la superiorità "oggettiva" del cristianesimo, unico monoteismo fondato su di un Dio che si è fatto uomo, vera carne e vero spirito. Benedetto XVI ha deciso di entrare nel mondo per via d'urto, compattando e rafforzando sempre più il campo crociato. Nulla di male e nulla di nuovo nella storia millenaria della Chiesa, ma questa strategia inevitabilmente comporta scontri e contenziosi con la res pubblica, inevitabile perché inscritto nel carisma praticato da Ratzinger. Un carisma fondato sull'Autorità che non cerca consensi esterni al cattolicesimo e che anzi si fonda sulla competizione di campo con le altre confessioni religiose e con il resto del mondo. Un carisma che gioca partite tutte politiche nell'ultimo cortile di casa rimasto nella disponibilità del Vaticano, dopo la svolta di Zapatero in Spagna. Insomma la pratica quotidiana di una vera e propria teocrazia.
Per questo non vi è autorevolezza nell'azione del Papa, per questo diviene decisivo resistere alla sua occupazione di campo. In fondo non è scritto da nessuna parte che si debba essere autorevoli e portatore di dialogo. Non lo fu Alessandro VI Borgia accusato di aver comprato i voti dei suoi elettori e di aver avuto cinque figli da Vanozza de' Cattanei, tra cui il Valentino; non lo fu Paolo IV Carafa per l'uso sistematico dell'Inquisizione, non lo fu Clemente VIII Aldobrandini che mando al rogo Giordano Bruno, non lo fu Urbano VIII Barberini che non si oppose al processo a Galileo. Potremmo continuare. Questi furono Papi che utilizzarono la loro autorità formale, ma non furono Papi autorevoli. Papa Benedetto XVI è indubbiamente una autorità del nostro tempo, ma non è un Papa autorevole perché non cammina sul sentiero del dialogo ma su quello dell'identità e della contrapposizione. Per questo è giusto che prenda la parola dove e quando vuole, così come è legittimo contrastarne l'azione e contestarne la presunta superiore neutralità.
Non vi era neutralità nel non expedit (Decreto della Curia) con cui Papa_Pio IX si espresse negativamente circa la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni e in generale alla vita politica dello Stato. E paradosso della storia è solo grazie a questa decisione che oggi possiamo ammirare la statua di Giordano Bruno in Campo de fiori a Roma, statua che oggi nessun Primo ministro avrebbe il coraggio di far erigere.
In questo contesto le iniziative dei docenti e degli studenti della Sapienza sono un contributo indispensabile per riaprire un ragionamento sui fondamenti delle ragioni della sfera pubblica e della critica dei saperi; insomma una piccola speranza di fronte al mutismo a alla catastrofe culturale a cui sembra rassegnata la politica italiana. Una politica che balbetta, che accetta la subordinazione culturale come se fosse un fatto ovvio e naturale; e una centro sinistra, soprattutto quello post comunista, genuflesso, incapace di determinare una dialettica per lo meno simile a quella che De Gasperi manteneva nei riguardi della Santa Sede. La discussione in Parlamento successiva alla rinuncia del Papa è stata una pessima pagina di conformismo e di incapacità ad individuare le parole e le forme di un rinnovato orgoglio repubblicano. Rinuncia che ha fatto il giro del mondo procurando un ulteriore danno d'immagine per il governo Prodi; in fondo e con un po' di malizia si potrebbe pensare che la contestazione sarebbe stato solo una delle tante e sarebbe stata responsabilità degli organizzatori. Il personale non expedit di Ratzinger mette viceversa alla gogna globale questo traballante governo.
Siamo ostinati e continuiamo a pensare che c'è ancora spazio per la tutela ed il rilancio delle istituzioni pubbliche, dipende da noi e da quanto questo Paese saprà sottrarre la sua autonomia e il suo destino dalle grinfie dei poteri forti, Vaticano compreso. Anche se spesso la partita che stiamo giocando più che ad un match equilibrato sembra quella pubblicità dove da una lato c'è una squadra di calcio da undici e dall'altro una squadra di duecento persone. Sottotitolo, "ti piace vincere facile?".

Liberazione 16.1.08
Intervista al fisico promotore della protesta contro la visita di Benedetto XVI alla Sapienza che sottolinea: «Bastava cambiare data e non avrei detto nulla»
Cini: «Il papa non poteva inauguare l'anno accademico »
di Vittorio Bonanni


Professor Cini, la prima cosa che balza agli occhi, leggendo le dichiarazioni dei vari leader politici, è, pur con delle sfumature, una sorta di unanimismo tra i vari partiti, compresa Rifondazione comunista. C'è insomma molta moderazione e nel nostro giornale venite accusati di "minoritarismo resistenziale". Come reagisce a quest'ondata di critiche?
Devo dire che è molto difficile fermarla. Io reagisco dicendo che c'è stata una colossale disinformazione e supercialità. Per me è complicato usare parole forti ma certamente la vicenda è sconcertante perché l'essenza della questione è stata ridotta con un semplicismo che spaventa. Sia io, in primo luogo, che i miei colleghi, autori per propria iniziativa di un appello al rettore, veniamo tutti accusati di aver complottato per impedire al papa di parlare, diventando così intolleranti e violenti. Ma a parte il fatto che il papa parla tutti i giorni e le sue parole sono ogni giorno amplificate e riportate in tutti i telegiornali. E a parte il fatto che sarebbe paranoico e pazzesco pensare di fermare tutto questo, devo ricordare che quella era una lettera di un professore dell'università che dissente dalla decisione presa dal suo rettore spiegando il perché.

Quale era il punto professore?
La sostanza riguarda l'inaugurazione dell'anno accademico della più importante università italiana, un atto pubblico, un rito se si vuole, in cui viene ribadito il ruolo fondamentale dell'istituzione universitaria in uno Stato laico moderno, pluralista e democratico dove l'articolo 33 della Costituzione sancisce e riconosce la libertà della ricerca scientifica. Questo atto pubblico è una riaffermazione del carattere dell'università come comunità di studiosi appartenenti a tutti gli orientamenti, con quella critica reciproca che caratterizza lo sviluppo della conoscenza in particolare dopo l'Illuminismo e la Rivoluzione francese. Questo atto pubblico entra in contrasto con l'invito ad aprire ad un rappresentante di una autorità, certamente rispettabile e riconosciuta da centinaia di milioni di fedeli, ma che si fonda su un principio totalmente diverso dal punto di vista metodologico, ontologico, epistemologico, un principio autoritario, dogmatico secondo il quale il papa è il rappresentante di dio in terra e le sue parole riversano carattere di verità assoluta. C'è dunque un improprio accostamento in un'unica fede di due concezioni differenti, rispettabili e autonome nelle proprie sfere ma che se si mettono insieme costituiscono un'obiettiva contraddizione.

Insomma, nessun intento censorio...
Assolutamente. E io non ho mai pensato di dire che il papa non deve mettere piede nell'università, cosa che peraltro hanno fatto altri papi. Sarebbe invece stato un atto di saggezza se il rettore da un lato e il Vaticano dall'altro si fossero semplicemente accordati per una data diversa. E' dunque
l'accostamento della visita del papa con l'inaugurazione dell'anno accademico che ha suscitato la mia protesta e che continuo a ritenere un accostamento che non ha nulla a che vedere con il dialogo e con la libertà del pontefice. E' un accostamento improprio, è come se io andassi dal parroco chiedendo di usare la chiesa per fare una lezione su Darwin. Giustamente mi direbbe di no e io non direi che è intollerante e che mi vieta di parlare. Nessuno, in questo valanga di indignazioni o pseudo tali e di strumentalizzazioni che ci si è rovesciata addosso, tiene conto del fatto che bastava che spostassero la visita del papa in altro giorno perché io non scrivessi quella lettera.

A sinistra si discute se la retromarcia vaticana seguita alla mobilitazione dei docenti e degli studenti è stata un successo per la causa laica oppure un boomerang, vista l'enormità delle reazioni che hanno dipinto il papa come una vittima. Qual è la sua opinione?
Si tratta di uno dei classici esempi di una farfalla che sbatte le ali in Brasile e provoca un tornado a diecimila chilometri di distanza. E' imprevedibile quello che può succedere quando si intraprende un'azione qualsiasi. Certamente la mossa del Vaticano è stata abile, non c'è dubbio. Fa il suo mestiere. E comunque io non la considero una vittoria, perché puntavo ad una soluzione interna all'università che salvasse la sua autonomia. Ora chissà che cosa si inventeranno i politici per rimediare a quello che è successo!

Qualcuno ricorda che non ci fu un'analoga protesta quando papa Wojtyla venne invitato in parlamento...
Non sono mai stato parlamentare e comunque l'atteggiamento di Giovanni Paolo II era complessivamente diverso, per esempio nei riguardi delle altre religioni. Anche se quella visita non mi sembrò un trionfo dell'autonomia della repubblica italiana nei confronti del papato. E comunque quel fatto non può certo essere utilizzato per scalpire le mie argomentazioni.

Come accennava prima, c'è in tutto questo una responsabilità della politica, incapace di arginare gli sconfinamenti della Chiesa. Per esempio molti commentatori sostengono che il neonato Partito democratico è meno laico della vecchia e defunta Democrazia cristiana. Come si spiega questo scenario?
Purtroppo il nostro paese subisce l'eredità del papato. Certo né in Spagna né in Francia si sognerebbero di invitare il papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sorbona o dell'università di Madrid. Per ciò che riguarda la politica, la formazione del Pd è stato un tentativo di abbattere le barriere tra il pensiero riformista laico e socialista e quello cattolico. Ma questo si inserisce in una situazione politica intollerabile, con il cardinal Bertone che telefona ai deputati cattolici della maggioranza invitandoli a votare contro il proprio governo. E io non sono in grado di dire come si può fronteggiare tutto questo.

Liberazione 16.1.08
"Signorinaeffe". I giorni delle ultime passioni
La regista Wilma Labate racconta gli operai della Fiat, le loro lotte e i loro amori. Fino alla marcia dei colletti bianchi del 1980
Al centro della storia, scritta con Starnone, una giovane figlia di emigranti che tenta il salto sociale. Interpreti Solarino, Timi e Gifuni
di Roberta Ronconi


Signorinaeffe arriva venerdì nelle sale italiane (distribuito da 01, prodotto dalla coraggiosa Biancafilm) dopo la calda accoglienza che lo scorso novembre gli ha riservato il Film Festival di Torino. Da anni Wilma Labate ( La mia generazione , candidato italiano all'Oscar nel 1996) tentava di fare un film sugli operai, ma da anni i lavoratori non sono più un'attrattiva per nessuno, figuriamoci per la fabbrica dei sogni. La tigna e l'incontro con la Biancafilm hanno permesso alla combattiva regista romana di giungere al risultato. Unico, nel suo genere, visto che degli Ottanta il cinema sino ad oggi ci ha restituito solo esami di maturità modaioli.
Labate ci riporta al 1980, l'anno in cui la Fiat di Agnelli, dopo i dodici anni di "sogno operaio", si riprende la fabbrica, mandando in piazza la maggioranza silenziosa dei quarantamila colletti bianchi. Quelli che dopo i 35 infiniti giorni di sciopero contro la minaccia di 20mila licenziamenti (un terzo dei lavoratori Fiat), decisero di rientrare in fabbrica a tutti i costi.
«Una battaglia e una sconfitta delle lotte operaie che per me segnano una cesura epocale - dice Labate -, uno spartiacque profondo nella società italiana. Fino ad allora esisteva una classe operaia, dopo andrà inesorabilmente scomparendo». Non è nostalgia - o almeno, non solo - quella che spinge Labate a raccontare di quegli anni, né un rigurgito ideologico o la necessità di rimettere i tasselli a posto. Piuttosto la necessità di «ritrovare la storia operaia del nostro paese, perché ho sempre pensato che lì risiedesse gran parte della nostra radice culturale. Quel periodo è una pietra miliare per cercare di comprendere l'oggi, anche nei suoi aspetti più tragici». Tra le tragedie, per esempio quella della Thyssen Krupp acciaieria anche questa torinese, dove nelle ultime settimane si è consumata una strage.
Ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una regista impegnata come Labate, Signorinaeffe sceglie coraggiosamente di raccontare le lotte e gli eventi sociali di quel 1980 non da una prospettiva macro-documentaristica quanto piuttosto individuando una protagonista e lasciando che sia lei e la sua micro-storia travagliata di scelte e di amori, a fare da perno degli avvenimenti grandi e piccoli.
Emma (Valeria Solarino) è la figlia del riscatto, quella che la sua famiglia di emigranti siciliani a Torino ha fatto studiare per compiere il salto di classe. Fidanzata a un giovane dirigente (sempre della Fiat, interprete Gifuni) finirà per innamorarsi di un operaio in prima fila negli scioperi (Filippo Timi, "corpo operaio" come pochi), partecipando senza consapevolezza alla battaglia ideologica di lui. Il resto ve lo dirà il film. Labate sceglie per protagonista di quel passaggio d'epoca una donna giovane e indeterminata, stretta tra due fuochi: l'amore per lui, il patto sociale stretto con il padre. Una ragazza che si perde per passione e che la regista segue con una macchina da presa languida, sensuale, dai movimenti più sentimentali che tecnici. «Come si usa dire, per raccontare questa storia ho cercato di partire da me - dice Labate -. E ho scelto il punto di vista di questa donna giovane e molto moderna, sorta di personaggio sospeso che a mio avviso è la giusta chiave di interpretazione per quei tempi così difficili».
Anche il finale, come la protagonista, è sospeso. Partiti, nei bellissimi titoli di testa, da uno spot del 1931 sui nuovi stabilimenti della Fiat (per musica una magnifica "Crapa pelada" di Gorni Kramer), finiamo in un 2007 molto contratto, con la fabbrica diventata un centro commerciale e la pista sui tetti dello stabilimento trasformata in giardino botanico. «Sì, un finale tagliato - ci conferma Labate -, ma proprio perché quell'anno a mio avviso segnò un punto di interruzione. Dopo il quale non volevo tratteggiare tesi ma al massimo suscitare quesiti. Cosa è successo dopo? Sono davvero finiti quegli anni ribelli? E dov'è andata a nascondersi tutta quella passione?». Infine, la fabbrica. Che nel film appare poco ma con inconsueta intensità. Pochi attimi attorno ad una pressa, e quell'intera cittadina fatta di scale sociali, di amori, di lotte, di centomila tra uomini e donne, sembra prendere vita. «In realtà le presse sono completamente cambiate e la Fiat oggi è fatta di reparti silenziosi, colorati, puliti». Per trovarla, una pressa come quella di trent'anni fa, Labate e la troupe si sono dovuti trasferire in un'altra fabbrica, la TurinAuto di Rivalta, che per la Fiat comunque lavora in appalto («e a colpi di caporalato» sottolinea duro Fausto Paravidino, anche lui giovane operaio nel film).
«Nonostante non fosse la Fiat, l'emozione nell'entrare in quel reparto di presse per me è stata enorme - continua a raccontare la regista - e anche terribile. Nell'aria si respira l'olio dei motori, il rumore è assordante e per terra c'è uno strato di grasso. Finito di girare, siamo rimasti tutti storditi e quasi sordi per diverse ore».
Nei giorni scorsi Romiti, allora amministratore delegato della Fiat, ha dichiarato che il film tiene fuori il tema del terrorismo, motivo principale, a suo dire, della fermezza di quella dirigenza nei licenziamenti, che avrebbero dovuto fare piazza pulita delle teste calde. «E' vero - conclude Labate - il terrorismo lo abbiamo solo sfiorato, anche se tema caldissimo in quell'anno. Ma era un argomento di tale peso che avrebbe sommerso qualsiasi altro piano del racconto. E io invece volevo stare addosso agli operai nelle lotte ai cancelli, nei picchetti, durante i cortei interni». «E poi - aggiunge lo sceneggiatore Starnone, rispondendo a Romiti - non è vero che la marcia dei 40mila fu una protesta contro i fenomeni terroristici in fabbrica. In realtà fu una mossa studiata dalla dirigenza di allora per riprendere il pieno possesso della fabbrica e determinare la fine degli operai come classe».

COMUNICATO STAMPA
DEVASTATA L'AULA AUTOGESTITA DAL COLLETTIVO DI FISICA
SIT-IN - CONFERENZA STAMPA OGGI, ORE 16 SOTTO AL RETTORATO DELLA SAPIENZA


Ci avete dipinto come violenti e intolleranti. Il rettore ieri ci ha
chiuso fuori dalla città universitaria come pericolosi bande medievali pronte alla devastazione e al saccheggio. Aspettavate di vederci cadere nella trappola e scontrarci con le forze dell'ordine. Non è accaduto, ma questo clima ha portato a degli atti punitivi che hanno colpito l'aula studenti di fisica, il gabbiotto autogestito di geologia e l'aula occupata di giurisprudenza.
Questa mattina entrando nell'aula occupata di Fisica, gli studenti hanno trovato foto e manifesti strappati dalle pareti e armadi, computer e libri imbrattati con bombolette; uno spettacolo in perfetto stile squadrista.
I luoghi simbolo dell'università che vorremmo, dove gli studenti si
incontrano, studiano e dibattono liberamente.
Sapevamo di aver fatto cosa grande e sgradita a molti, ce l'hanno fatta pagare e speriamo che i responsabili di questi atti non vadano oltre. Ma questo non deve cancellare i contenuti che in questi giorni abbiamo prodotto.
Il Re è nudo.
L'atteggiamento del Vaticano ha dimostrato, al di là delle parole, la
natura eminentemente politica di questa istituzione. La quasi totalità
dell'arco politico istituzionale, non riuscendo a far altro che a balbettare insulti a noi e servilistiche scuse al Papa, sottraendosi poi, esattamente come Ratzinger, alle contestazioni, ha dimostrato una volta di più la distanza che lo separa dalla società reale, che ormai non riesce più non solo a rappresentare, ma neanche ad interpretare. E ha anche dimostrato di essere ostaggio di una Chiesa sempre più prepotente e delle sue lobbie. Le istituzioni universitarie, il rettore Guarini in testa, con la loro gestione ridicola e incompetente dell'intera situazione prima e con la militarizzazione tanto surreale quanto autoritaria della piazza nella giornata di giovedì hanno reso evidente la crisi di potere che attraversano e l'incapacità di governare un corpo studentesco che parla ormai una lingua che non capiscono. I media, se ce ne fosse ancora bisogno, con la loro caccia al mostro e con la totale mistificazione della realtà che hanno operato, hanno dimostrato ancora una volta di essere mero strumento di propaganda del potere e di indottrinamento della società civile.
Quando abbiamo iniziato non pensavamo che sarebbe venuto a galla tutto questo.
E nemmeno pensavamo che il rettore sarebbe arrivato a tanto, dimostrando di aver perso totalmente il controllo di sé stesso, prima che dell'Università.
Vietare l'accesso alla città universitaria agli studenti che volevano
manifestare, chiedendo il dispiegamento di un numero enorme di forze dell'ordine in assetto antisommossa a bloccare gli ingressi, impedendo la normale circolazione di chiunque in uno spazio pubblico e lasciando che, invece, i fascistelli di Alleanza Universitaria scorrazzassero liberamente per le strade della nostra università è degno solo di una dittatura. Guarini si deve dimettere.
Ma quello che è successo non può essere cancellato. Non importa quanto o quanti abbiano capito, noi c'eravamo. Non si potrà più tornare indietro.
Abbiamo dimostrato che gli studenti possono decidere dell'università. Abbiamo dimostrato che il Papa può essere contestato come qualsiasi uomo su questa terra senza che nessun fulmine colpisca chicchessia. Abbiamo dimostrato che il dibattito in questo Paese sulle questioni della scienza, delle ingerenze culturali e politiche del Vaticano sulla ricerca e sul pensiero scientifico è indegnamente arretrato e censurato. Abbiamo dimostrato che chi dissente e lo fa con la forza delle proprie idee viene additato da tutti come Il Mostro. E se a molti ha dato fastidio, vuol dire solo che abbiamo colpito nel segno.

COLLETTIVO RESISTENZA-FISICA
E COORDINAMENTO DEI COLLETTIVI SAPIENZA


Liberazione 18.1.08
Lettera aperta a Mussi e Veltroni
Contestare il papa non è peccato mortale
di Piero Sansonetti


Ieri il ministro dell'Università Fabio Mussi e il sindaco di Roma Walter Veltroni hanno partecipato all'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza, hanno pronunciato i loro discorsi ufficiali, hanno espresso solidarietà al papa - e quindi al rettore che l'aveva invitato - e sdegno per il fatto che gli è stato negato il diritto di parola; infine hanno condannato gli studenti che stavano contestando la cerimonia e i professori che nei giorni scorsi avevano criticato Ratzinger e la sua visita all'Università. Veltroni ha definito inaccettabili le proteste contro il capo della Chiesa cattolica. Addirittura inaccettabili per la democrazia. In sostanza ha sostenuto che il professor Marcello Cini e gli altri illustri accademici protagonisti della protesta, (e naturalmente anche i collettivi studenteschi) vivono e pensano in un ottica totalitaria. Mussi ha detto che bisogna respingere la logica della violenza.
Il ministro e il sindaco hanno parlato in un'aula magna blindata. Protetta da migliaia di agenti della polizia, dai carabinieri e dalle guardia di finanza. Dagli scudi, dai gipponi, dai manganelli, dai cellulari. L'ateneo di Roma era stato interamente circondato e preso d'assedio come non succedeva almeno da 30 anni. Dal '77. Agli studenti, e credo anche ai professori, non e stato consentito per diverse ore di entrare nell'ateneo. Neanche a noi giornalisti, tranne a quelli accreditati dal giorno prima. Per quale motivo questo clima da guerra civile? Probabilmente perché si temeva che il professor Cini, o altri suoi colleghi, si appostassero magari con le fionde, o tirassero le bottiglie molotov... In realtà c'è stata solo una manifestazione, pacata e civilissima, di alcune centinaia di studenti, che si è svolta ad una certa distanza dall'Università. Nemmeno l'ombra, caro Mussi, di niente che assomigliasse alla violenza.
I discorsi pronunciati da Mussi e Veltroni, per quello che ho potuto sentire alla radio e leggere dalle agenzie di stampa, sono stati due discorsi molto diversi tra loro. Mussi ha detto cose sagge, intelligenti, liberali. Mi è piaciuto il suo discorso. Veltroni si è attenuto allo stile del "Veltroni novus", seriamente e organicamente conservatore e conformista. Niente di male, nessuno è condannato a restare di sinistra per tutta la vita. Il problema è che - credo - né l'uno né l'altro avrebbero dovuto pronunciare quei discorsi dentro un ateneo che era diventato una caserma e nel quale si stava violando ogni principio liberale e affermando in modo arrogante l'idea che l'Università appartiene ai baroni più potenti e alle autorità che essi intendono invitare. Questo, secondo me, è stato uno scandalo. Ricordo che, quando ero ragazzo, per molto meno chiedemmo le dimissioni del rettore (che allora si chiamava D'Avack) e alla fine le ottenemmo. Oggi penso che sia giusto chiedere le dimissioni del rettore Guarini, e che Mussi dovrebbe fare un passo formale per favorirle o sollecitarle.
Certamente Mussi e Veltroni sono stati condizionati dal clima papalino che si è realizzato in questi giorni in Italia. Un balzo indietro di almeno un secolo. Loro si sono sentiti in dovere di mostrarsi amici del Vaticano, offeso dai professori atei e ribelli, e di condannare le contestazioni. Vorremmo dire a Mussi e Veltroni che contestare il papa non è peccato mortale. Lo consentono le leggi dello Sato, le quali devono essere compatibili con la Costituzione e non col diritto canonico. Io aggiungo che contestare "questo" papa - le sue idee reazionarie, il suo pensiero fondamentalista e seriamente antidemocratico - è forse un dovere. E' il Papa che sta imponendo all'Italia di diventare il paese culturalmente più arretrato d'Europa. E' il papa che si batte contro le unioni civili, contro i diritti delle donne e la loro dignità. E' il papa che sta smontando il Concilio, cioè la più grande conquista teorica (e anche teologica) del Cristianesimo in questi duemila anni. In pochissimo tempo è riuscito a modificare profondamente la faccia del cattolicesimo, facendo sparire i tratti sociali, umanitari, avanzati, che erano stati impressi dagli ultimi quattro pontificati, e riportandola all'aspetto dei secoli bui. Assistere senza protestare, o addirittura genuflettendosi, alla sua battaglia contro la civiltà, a me non pare affatto un atteggiamento responsabile. Al contrario. Serve solo a rendere più forte e devastante questa gigantesca ondata conformista che da qualche giorno ci sta sommergendo, con tutti i grandi giornali, le televisioni, i partiti, trasformati in «assistenti al soglio».

Liberazione 18.1.08
Benedetto XVI, filosofo gramsciano alla riconquista delle anime
di Michel Onfray


L'intellettuale francese interviene sulla politica vaticana dall'arrivo di Ratzinger. Se Wojtyla era un papa ecumenico,
l'attuale pontefice è un politico raffinato che crea consenso pur facendo concessioni ai settori più integralisti della Chiesa

Il suo ingresso in politica è avvenuto con l'insolenza di un altro colpo di mano, che dimostra come egli possieda un'arte consumata della "politica politicista": in occasione del referendum italiano sulle questioni della bioetica, il Papa è riuscito a dirottare la totalità delle astensioni verso il proprio progetto, avendo fatto appello agli elettori cristiani ad astenersi. In questo modo, il numero degli astensionisti, al cui interno il cristianesimo era minoritario, si è tradotto, per grazia di quel sofistico colpo di Stato, in incidenza totale dell'espressione cristiana. Si è trattato di un modo scaltro, abile, politicista, per dirla tutta gesuitico, di segnare il proprio ingresso sulla scena politica come Papa ben deciso a pesare nelle faccende di Stato, con in mano un progetto cristiano di civilizzazione.
Ed eccolo dunque all'Università di Roma: normale, Benedetto XVI procede nella sua riconquista ricusando le classiche contrapposizioni. Ad esempio, l'antinomia tradizionale laicismo/religione. Benedetto XVI compie, infatti, l'elogio del laicismo (cristiano) e della religione, cosa che rappresenta un doppio vantaggio per lui e per i suoi e, al tempo stesso, un vero e proprio pericolo per i laici, che non si sono invece preoccupati di ripensare la propria concezione. Infatti il papa, da buon gramsciano (suppongo che abbia anche dovuto leggere Gramsci...), ha capito che la riconquista politica passa in primo luogo per la riconquista degli animi: nel suo linguaggio, delle anime...
Se i laici e la sinistra vogliono condurre la battaglia, devono sfoderare armi pesanti, intellettuali conseguenti, non le mezze cartucce della politica politicista. Benedetto XVI è infatti un osso duro! Per essere all'altezza della battaglia del pontefice, il laicismo dovrà pensarsi chiaramente rispetto alla permeabilità e alla radicalità. Il laicismo permeabile dichiara di tollerare tutte le religioni, senza distinzione alcuna, il che apre il varco al predominio delle religioni più imperiose, di quelle più consistenti dal punto di vista demografico, di quelle più determinate a vincere lo scontro. In questa ipotesi, il cattolicesimo è minacciato nella sua leadership, donde il senso del discorso di Ratisbona, che era un modo (la sua tattica) di marcare il territorio cristiano (la sua strategia), nella prospettiva di un'immancabile prossimo scontro intellettuale e ideologico.
Vi è poi un laicismo radicale che, ad esempio in Francia, presuppone la separazione franca e netta tra la Chiesa e lo Stato. Una prerogativa alla quale Nicolas Sarkozy, sostenitore della laicità permeabile, sembra disposto a rinunciare (si veda il discorso tenuto al papa nella sua recente visita in Vaticano). Il laicismo radicale non scende a patti con la religione, perché la rinvia rigorosamente alla sfera privata e impedisce a una credenza di produrre effetti diretti, pubblici e politici.
Benedetto XVI è certamente un laico nella prima accezione del termine. Se si vuole combattere il papa, non bisogna impedirgli la rivendicazione di disporre del diritto al laicismo, ma sottolineare come questo laicismo permeabile non sia una nuova forma del laicismo stesso, ma un modo abile di distruggere quest'utimo restaurando abilmente la teocrazia, che consente di riservare a coloro che si richiamano a Dio, quindi al suo clero, il potere di immischiarsi nelle faccende dello Stato, e a volte di dirigerle - su problemi quali la clonazione terapeutica, il matrimonio degli omosessuali, l'adozione da parte di genitori dello stesso sesso, l'aborto, il divorzio, la legalizzazione delle droghe leggere ed altri terreni sociali che implicano un'etica che un fautore del laicismo radicale deve pretendere post-cristiana.
Giovanni Paolo II non voleva scontri aperti, portava avanti la sua crociata meno "prussianamente" e più da apostolo, con un esercito di televisioni e di giornalisti. Benedetto XVI gira la schiena al popolo e pretende di essere in presa diretta con Dio. Il suo obiettivo? La prosecuzione dei due millenni cristiani attraverso la decisa inaugurazione di un terzo. Egli persiste in qualità di custode del dogma restaurandolo nella sua purezza, per poi indurirlo nella sua pratica. Il suo è un gramscianesimo senza ipocrisie, fa il suo mestiere di papa. In compenso, visto che è lui a prendersi cura di dichiarare la guerra, i laici degni di questo nome e la sinistra - se vuole ancora meritare di chiamarsi così - devono anch'essi pretendersi gramsciani. La prospettiva per l'Europa del prossimo secolo non è, allora, quella del ritorno dell'aspetto religioso, nella sua forma cristiana via Roma. o in quella musulmana via Istanbul, ma la prosecuzione dell'Illuminismo ateo del XVIII secolo ripensato per il nostro XXI secolo. Per quanto riguarda me, è questo il senso della mia battaglia di filosofo francese ed europeo... Traduzione dal francese di Titti Pierini

Liberazione 18.1.08
Il presidente: «Basta con il laicismo. La religione merita rispetto»
Sarkozy attacca l'ultimo tabù: la Francia laica
di Luca Sebastiani


Parigi. Che la laicità vacilli anche in Francia sotto i colpi incrociati della rupture e del suo ispiratore?
In questi giorni sono parecchi i francesi che s'interrogano sulla sorte di quella che considerano a buon titolo il pilastro della République nella nuova era sarkozista. Una preoccupazione generata a buona ragione dalle parole del presidente Nicolas Sarkozy che, dopo aver vantato «le radici cristiane della Francia» nel suo discorso pronunciato a Roma prima di natale, e dopo aver ribadito lunedì in Arabia Saudita che «al fondo d'ogni civilizzazione c'è sempre qualche cosa di religioso», ieri, di fronte alle autorità religiose riunite all'Eliseo per la tradizionale cerimonia degli auguri di buon anno, è ritornato sul ruolo privilegiato che intende riservare alla religione nella società e sulla sua concezione della laicità.
Certo, Sarkozy ha anche assicurato che non intende toccare gli equilibri fondativi della divisione tra Stato e Chiesa stabiliti dalla celebre legge del 1905, ma ci ha tenuto a declinare la laicità del secolo scorso alla sua maniera, conferendole un inconfondibile tocco di «religiosità».
Prendendo le distanze dalla cosiddetta laïcité alla francese, già a Roma Sarkozy aveva parlato di una «laicità positiva», cioè di una laicità, aveva spiegato, «che, vegliando sulla libertà di pensiero, a quella di credere o di non credere, non consideri le religioni come un pericolo, ma come un atout».
Poi con un sillogismo aveva spiegato quale fosse questo atout : «Un uomo che crede è un uomo che spera e l'interesse della Repubblica è che ci siano molti uomini e donne che sperano».
Come dire, se la morale pubblica non conferisce più speranza ai cittadini, meglio augurarsi, e magari incentivare, che si rifugino in quella religiosa. Un discorso le cui contraddizioni non sono sfuggite neanche ad un cattolico doc come François Bayrou. «Questa concezione sociologica della religione che fornisce la "speranza" ai popoli in modo che stiano tranquilli - ha denunciato il presidente del Modem - ci riporta ai tempi della religione come oppio dei popoli».
Da parte sua, invece, François Hollande, segretario del Partito socialista, ha liquidato in cin una breve battuta la laicità positiva in salsa sarkozista: «E' un vecchio motivo della destra francese più clericale». Niente di nuovo dunque, solo un attacco a uno dei fondamenti della Repubblica nel più classico stile di una droite arcaica. Attacco peraltro confermato anche nel discorso che lunedì Sarkozy ha pronunciato nella capitale saudita Ryad dove era in visita diplomatica ufficiale.
Con un registro che ricordava più un sermone che un vero e proprio discorso presidenziale, Sarkò preso dall'afflato aveva infatti parlato di un «Dio trascendente che è nel pensiero e nel cuore di ogni uomo, un Dio che non asserve l'uomo ma lo libera, un Dio che è la difesa contro l'orgoglio smisurato e la follia degli uomini». Non si era mai sentito un presidente della Repubblica francese (patria della rivoluzione del 1789) parlare con tale trasporto di Dio. Ma soprattutto non si era mai sentito un capo di uno Stato laico collocare la religione al centro di ogni pensiero umano e dire che forse «quello che c'è di più universale nelle civiltà» è qualcosa di religioso.
Un girare le spalle in piena regola rispetto agli ideali universalisti del secolo dei Lumi. Ma anche un atteggiamento che ha messo sul chi va là l'opposizione e la società civile. Qualche giorno fa, alla riapertura delle scuole dopo le vacanze di natale, erano stati i sindacati degli insegnanti a reagire indignati alle parole che Sarkozy aveva pronunciato a Roma, specialmente quelle con cui aveva affermato che nella «trasmissione dei valori e nell'insegnamento della differenza tra bene e male, l'istitutore non potrà mai sostituire il curato o il pastore». Parole che i sindacati hanno definito «sorprendenti e scioccanti» e che, oltre ad offendere il personale insegnante, gerarchizzano le morali subordinando l'etica pubblica a quella religiosa. Una rimessa in discussione cioè «del concetto stesso di laicità».

Liberazione 18.1.08
Non lasceremo soli gli studenti e i docenti nella loro battaglia di civiltà e di laicità
di Loredana Fraleone


Se all'apertura dell'anno giudiziario fosse invitato un sostenitore della pena di morte, farebbe scandalo chiedere il ritiro di quell'invito? Suppongo che non solo non vi sarebbe scandalo, ma i media, tranne qualche frangia irrilevante, farebbero a gara per esprimere apprezzamenti nei confronti della contestazione. Il valore simbolico del modo come si aprono eventi del genere è sempre stato forte e riconosciuto come indicativo di tendenze e d'impegni, ne emergono infatti gli intenti programmatici di un'intera comunità. Nel caso dell'apertura dell'anno accademico, invece, si fa a gara a destra e purtroppo anche a sinistra nel criticare ferocemente le reazioni all'invito da parte del rettore della Sapienza a Benedetto XVI. Si va dal denunciare una presunta censura nei confronti del pontefice al rammarico per la perdita di un'occasione di confronto tra idee e culture diverse.
Non credo sia necessario ribadire che una cultura garantista, alla quale mi sento di appartenere, consentirebbe, nei normali contesti di confronto, anche ad un sostenitore della pena di morte di parteciparvi, ovviamente.
Ma quale confronto? A differenza di altre occasioni, che hanno visto nelle aule universitarie la presenza di esponenti di varie religioni, compreso Giovanni Paolo II, l'apertura dell'anno accademico ha valore e significato del tutto diverso da quello di un dibattito.
Nelle occasioni, a cui facevo riferimento, religiosi e non si sono confrontati, soddisfacendo curiosità e producendo significativi scambi culturali, Benedetto XVI invece, nel contesto dell'apertura dell'anno accademico, si sarebbe limitato ad esporre quelle idee, che da mesi ed anni fanno da sfondo ad interferenze pesanti sulle scelte dello Stato italiano e riportano la stessa chiesa indietro di decenni. I portavoce, a vario titolo, del pontefice si affannano a sottolineare che nel suo discorso avrebbe riconosciuto l'autonomia dell'università; grazie per la gentile concessione, ci mancherebbe che non lo avesse fatto!
Quel punto di vista sarebbe dovuto entrare senza colpo ferire, nel contesto dell'apertura dell'anno accademico della Sapienza? Si sarebbe dovuto depositare all'interno di una cerimonia, come di fatto è successo con la lettura dell'intervento preparato dal papa, senza la possibilità che altri punti di vista potessero avere la stessa opportunità?
Al di là di ciò che emerge dal battage mediatico che in nome della laicità fa assumere al papa il ruolo di vittima della censura, dobbiamo chiederci quale fosse il vero scopo dell'invito da parte del rettore della Sapienza. Mi astengo da considerazioni politiche che sarebbe tutto sommato facile produrre, stante la necessità di un'area politica ben precisa di riconnettere una tradizione culturale laica a quella cattolica, vorrei solo sottolineare la grave responsabilità del rettore nel contribuire a rafforzare un pensiero che tenta di impossessarsi anche della sfera della razionalità, come fosse prerogativa unica del cristianesimo, attaccando non a caso l'illuminismo. Siamo di fronte ad una subdola operazione che tenta di costruire un involucro "moderno" per il ripristino di una cultura medioevale, come si vede nei confronti delle diversità, delle donne, della scienza, delle forme rituali rimesse in campo, nella neoinvadenza della sfera personale. Dai tempi di Galileo e del secolo dei "Lumi" si tenta, da parte della chiesa cattolica romana, di negare la separazione tra religione ed altre sfere della conoscenza. Su questo punto papa Ratzinger produce un affondo, che va diretto al cuore del pensiero dello scienziato pisano, quello che da secoli non intende tollerare.
Questa vicenda potrebbe essere strumentalizzata tanto da far arretrare ancora il fronte laico, ma potrebbe anche aprire un confronto vero che da troppo tempo vede sotto schiaffo la laicità. Gli studenti ne ricevono sicuramente stimoli culturali positivi e potrebbero persino arrivare a riconnettere i tentativi di "normalizzazione" culturale a quelli sociali. Già emerge la loro condizione di sofferenza per l'aumento delle tasse universitarie, per le mille difficoltà dell'immediato futuro, tutto ciò potrebbe tramutarsi in una nuova salutare mobilitazione. La scelta del rettore Guarini di far entrare gli studenti di destra e di Cl, durante la cerimonia, facendo impedire dalle forze dell'ordine l'ingresso a tutti gli altri, appare gravissimo, non solo per ragioni democratiche, ma anche per la cecità che impedisce di vedere e di misurarsi con le richieste degli studenti sia in tema di laicità che in quello di diritto allo studio. Istanze destinate a crescere nei prossimi giorni.
Infine vorrei esprimere gratitudine a Marcello Cini, al quale siamo già tanto debitori da decenni per le sue riflessioni sulla scienza e la cultura, ed ai docenti che hanno sollevato un problema che richiede un rilancio di temi tanto fondamentali quanto trascurati da troppi anni.
Per quello che mi riguarda non saranno lasciati soli nella battaglia di civiltà che stanno conducendo.