domenica 20 gennaio 2008

l'Unità 20.1.08
L'adunata del papa. Ore 12, via al Benedetto-day
Ruini chiama fedeli e politici a San Pietro. Da An ai Teo-dem, più che una preghiera sembra un comizio
di Roberto Brunelli


A COME ANGELUS: torpedoni, pulmini e pulmoni da tutta Italia. Ragazzi degli oratori, il mare dei papaboys con i loro striscioni, associazioni cattoliche, organizzazioni laicali ed ecclesiali, parrocchie, comunità, movimenti, seminaristi, studenti. E politici.
Di ogni risma e colore. Talvolta in lite tra loro, oppure vibranti nel «difendere la libertà» e «rimarginare una ferita», come dicono Maurizio Gasparri e Gianni Alemanno. C’è chi lo chiama «mini family day» (nel senso che invece del proverbiale milione ci potrebbero due o trecentomila persone), mentre il vicario di Roma Camillo Ruini, quello che ha lanciato l’appello a riunirsi qui in segno di vicinanza e d affetto al Papa, mette le mani avanti: che sia «un momento di preghiera», chiede il cardinale, e non «una manifestazione politica» e men che mai «un comizio», in modo che nessuno cada in tentazione di tirar Benedetto XVI per la giacchetta.
Di sicuro oggi a San Pietro non sarà una domenica come un’altra, nonostante il tentativo della Curia di tenere il profilo basso: niente impianti o palchi, un’organizzazione che non dia troppo nell’occhio per governare il flusso verso e dentro la piazza. Un flusso imponente, se si pensa che solo 50 mila saranno i fedeli presenti in nome della Giornata diocesana della scuola cattolica, così come si materializzeranno all’adunata ruiniana una miriade di formazioni e associazioni, tra cui Azione cattolica, focolarini, Mcl, Pax Christi, Sant’Egidio, Fuci, neocatecumenali, Scienza & Vita, gli studenti dell’Opus Dei, le Acli romane, così come i gruppi di Cl in pullman da ogni anfratto del Paese.
Un tema a sé sono gli esponenti politici che verranno ad omaggiare il pontefice. Niente vessilli, niente bandiere, è stato promesso alle gerarchie vaticane. Ma l’esercito di Benedetto, salvo sorprese dell’ultim’ora, potrà contare tra le sue fila diversi ministri, un ex presidente della Repubblica, sindacalisti passati e presenti, deputati e senatori, peones e portaborse. Scontata la massiccia presenza del centrodestra: assente non si sa quanto giustificato Giuliano Ferrara, il drappello è guidato da Sandro Bondi, da Fabrizio Cicchitto e Claudio Scajola, seguiti da Pierferdinando Casini e Lorenzo Cesa per l’Udc, da Andrea Ronchi, Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa per An, dal non esattamente pio Roberto Calderoli per la Lega, dall’ex presidente Francesco Cossiga. Poi c’è ovviamente tutta la galassia culturalmente affine, dal diccino Rotondi a Savino Pezzotta, nonché gli annessi e connesi del caso.
Più problematica, per così dire, la presenza degli esponenti del centrosinistra: certo, la squadra in campo comprende teo-dem, cattolici liberali, cristiano sociali, ex rutelliani e ex margheritini, in una vasta foto di gruppo che va da Paola Binetti a Enzo Carra, passando da Giorgio Tonini e Emanuela Baio Dossi al ministro all’Istruzione Beppe Fioroni, continuando da Pierluigi Castagnetti, Renzo Lusetti e Luigi Bobba, senza dimenticare Marco Follini (il cui spirito è quello «di partecipare ad un rito»), lo stesso Rutelli ed l’oramai ex ministro Clemente Mastella (il quale, come suo costume, si porterà dietro un torpedone di fedelissimi direttamente in arrivo da Ceppaloni). E, sulla scia dei 44 parlamentari del Pd che hanno sentito il bisogno di rendere pubblico il loro arrivo a San Pietro, hanno annunciato la loro venuta anche un gruppo di democratici calabresi nonché gli esponenti del Partito democratico cristiano, rappresentato da Michelangelo Suozzi. Romano Prodi? Non ci sarà, ma, parlando a Forlì, ha tenuto a comunicare che le contestazioni alla Sapienza sono «una messa in crisi della libertà di tutti. Come premier, professore universitario e cittadino non è questa la mia idea di libertà e laicità. Non mi sono mai battuto per impedire a qualcuno di parlare».
Nonostante l’invito di Ruini perché l’Angelus di stamane non venga usato politicamente, il tema della «coloritura politica» c’è tutto. Rosy Bindi, che ha fatto sapere che seguirà l’evento a casa sua, davanti alla tv, come sua abitudine non le manda a dire: la ministra ripete che «la partecipazione all’Angelus deve essere partecipazione di fedeli. Chi tenta di strumentalizzare questa cosa e dividere, ancora una volta, il Paese dal punto di vista etico, culturale e politico, fa un cattivo servizio al Papa e all’Italia».
Ancora più duro Arturo Parisi, che addirittura evoca la prospettiva che a San Pietro questa mattina si formi una «corrente politica interna al Pd»: prospettiva che il ministro alla Difesa considera «tragica». «Sarebbe una prima volta di una gravità assoluta. Si tratta dell’esito di un processo alimentato strumentalmente da tutte le parti in maniera equivoca. Al contrario, il Pd è chiamato a costruire un luogo di confronto in cui a ciascun membro del partito si a consentito di esercitare la propria laicità».
San Pietro, dunque, un’altra festa italiana. Esclusi, in linea generale, problemi di sicurezza: tutt’al più potrebbe esserci qualche contestazione «un po’ troppo colorita». Anche le forze dell’ordine hanno scelto un basso profilo, moltissimi saranno gli agenti in borghese disseminati tra la folla. L’Italia, sia chiaro, non è esclusa dalla festa. A Milano e a Verona ci saranno i maxischermi. Le televisioni ci saranno tutte. Altro che silenzio: la voce del Papa si sentirà forte e potente.

l'Unità 20.1.08
L’odore del diavolo
di Furio Colombo


Vedo un problema per i giornalisti che verranno dopo (alla fine un dopo ci sarà) e dovranno spiegare l’applauso che ha coperto la voce di Clemente Mastella mentre - alla Camera dei Deputati - ha lanciato la sua invettiva contro i giudici. Certo, in quella voce di un uomo che stava dimettendosi da ministro della Giustizia, era umano che vi fosse tensione, rabbia, indignazione, furore. Ciascuno ha diritto di sentirsi innocente e ingiustamente perseguitato, offeso se la famiglia è coinvolta, aggressivo nell’impeto di difendersi. E tutti noi siamo vincolati alla presunzione di innocenza.
Un dignitoso, riservato silenzio sarebbe stato il naturale comportamento di un’istituzione che rappresenta tutto il Paese che l’ha votata. Invece un applauso concitato, tonante, assolutamente compatto ha fatto irruzione come accade solo durante i concerti, quando un solista o un direttore d’orchestra hanno superato le soglie della bravura, e non resta che lo slancio dell’emozione per gridare «Bravo!». Vorrei esserci - in quel dopo che verrà - per capire come quella sequenza incredibile - tutta la Camera dei Deputati che porta in trionfo una persona pur sempre indagata - sarà spiegata in qualche programma tipo La storia siamo noi a cura del nipote di Minoli.
Forse dovranno invitare qualche storico che adesso è alle elementari, sempre che l’Italia, in quel futuro che non vedo vicino, sarà tornato un Paese normale. Altrimenti si continuerà a mentire. Altrimenti si creerà una particolare cerimonia religiosa nella vecchia redazione del Foglio, diventata nel frattempo una chiesa, per celebrare l’anniversario della cacciata del Papa dall’Università La Sapienza. Ci saranno immagini, ripetute all’infinito, dei giovani con la bocca bendata. E sarà spiegabile - perché la storia spesso è alterata - come mai si è potuto dire che un illustre personaggio che rifiuta un invito è un personaggio «cacciato», «censurato», «costretto a tacere», lui che ha parlato, parla e parlerà più di ogni “celebrity” al mondo (a confronto il presidente degli Stati Uniti vive in clausura).
E nessuno ricorderà un curioso dettaglio andato completamente perduto già oggi, figuriamoci nella storia. «Censura» sarebbe stato svilire e cacciare i professori e gli studenti che si sono opposti al Papa- docente. Certo, su di loro è calato il maglio del disprezzo, il vero disprezzo, da parte di tutti, come se invece di esprimere dissenso in un ateneo avessero bestemmiato in chiesa. Infatti il direttore di Radio Maria ha potuto dire pubblicamente - e senza provocare veglie - che «intorno a loro si sente certo l’odore del diavolo».
Poi la rinuncia del Papa a fare lezione è stata rovesciata in «proibizione di parlare», come se la sola condizione per parlare fosse il tripudio universale e preventivo e l’assoluta certezza che chi dissente taccia per sempre. Mi domando se in quel futuro lontano in cui l’Italia tornerà capace di una rappresentazione libera e critica di se stessa, qualcuno avrà conservato la registrazione di una serata di Porta a Porta che pure sarebbe molto importante per gli storici che verranno, per metterli in grado di domandarsi: «come è stato possibile?», e forse per guidare bus di studenti verso ciò che resta dello studio di Bruno Vespa, fra i ruderi di Saxa Rubra. Un esperto - se ci sarà - di questi giorni incomprensibili, potrà indicare: lì sedeva quella sera Marco Pannella, che è stato trattato come un malato di mente dai sostenitori del Papa (tutti i presenti compreso un attivissimo conduttore che incalzava e accusava, e la sola attonita eccezione dei professori atei Odifreddi e Cini, identificabili per l’odore del diavolo) mentre documentava le enormi percentuali di tempo riservate al Papa in tutti i media, circa un terzo delle notizie dal mondo trasmesse agli italiani. È stato a quel punto - ricorderanno gli storici - che un alto prelato del tempo, presumibilmente cappellano della televisione pubblica (o guida spirituale del celebre talk show di quei tempi bui) ha potuto ammonire Pannella, che forse era considerato un reietto e un disturbatore abituale dell’universale consenso: «Noi non abbiamo bisogno di digiunare per ottenere spazio in televisione».
Col tempo si capirà che la frase aveva un significato chiaro, anche se un po’ sarcastico. Significava: «Non si agiti, Pannella, tanto noi, con la scorta armata e agguerrita dei credenti di carriera, facciamo quello che vogliamo per tutto il tempo che vogliamo».
Invece, sul momento, e in quello studio, è stata accolta come un mite ammonimento pastorale. E la regia si è sempre preoccupata di mandare in onda, oltre alle dure sgridate ai laici di un conduttore evidentemente toccato nel vivo dei suoi sentimenti religiosi, il sorriso di compatimento che l’on. sen. prof. Buttiglione dedicava al folle Pannella (mentre leggeva i dati incontrovertibili del tempo sterminato dedicato dalla televisione di Stato al Papa) al suo sguardo di difesa e diffidenza verso i luciferini docenti del male Odifreddi e Cini che stavano profanando lo studio tv, a quel tempo una sorta di cappella consacrata alle sole verità consentite.
Ma grande sarà, in quel futuro fortunato e lontano, anche la difficoltà di commentare e spiegare il tripudio di una immensa folla accorsa in piazza San Pietro domenica 20 gennaio per dare tutto il sostegno al Papa e ascoltarlo finalmente e liberamente parlare esattamente come accade a grandi folle bus trasportate ogni domenica, ogni mercoledì e in ogni altro santo giorno infrasettimanale, più tutti i telegiornali che Dio ci manda.
***
Ma questo è il sogno di un futuro che non è neppure in vista. Stretti fra il sostegno al Papa, che pure dice quando vuole quello che vuole interferendo nella libertà, nelle decisioni e nelle leggi della nostra vita come nessuno, da quando esiste la democrazia e la separazione tra Stato e Chiesa ha mai potuto fare; e la solidarietà a Mastella di cui aspettavamo al Senato la legge che avrebbe vietato ai giornalisti di pubblicare notizie certe, legali, documentate, con l’indicazione della fonte (la celebre legge anti intercettazioni), ci sentiamo un po’ soli, come credo tocchi a coloro che non riescono a dare una ricostruzione logica ai fatti che ci travolgono.
Sono certo che i lettori mi perdoneranno se - in questo presente disorientamento - parlerò d’altro, cercando di dimostrare che questo parlar d’altro ha un suo senso che ci riguarda.
Un film mi ha aiutato ad attraversare, con pensieri, ricordi e riflessioni utili, questi giorni di significati rovesciati, immagini capovolte e fatti noti a tutti però negati. È il film La Signorina Effe di Wilma Labate. Dirò perché. Perché è molto raro che un film rivolto al passato sia a suo modo profetico; perché individua il vero confine fra un prima e un dopo che ha cambiato la storia; perché sembra che riguardi Torino e la Fiat e invece racconta e spiega il mondo, dalla fine del posto di lavoro fisso al crollo dei mutui detti “future" e "subprime"; perché la traccia sentimentale che sembra sovrapporsi a quella sindacale e politica individua in realtà istintivi percorsi di salvezza verso un piccolo "noi" privato mentre finisce qui un "noi" grande come il mondo, la vita degli altri, gli ideali per cui impegnarsi insieme.
Io non so quanto sia consapevole la bravissima Wilma Labate di avere fatto il ritratto di un’epoca, di un grandioso e cupo momento di transizione nel mondo che va molto al di là di una storia d’amore ai cancelli di Mirafiori a Torino.
Quello che accade è che la vicenda collettiva (che riguarda tutti a Torino, tutti a Detroit, tutti a Tokyo, tutti in Svezia, tutti in Inghilterra, persino tutti in India) è l’impetuosa corsa di un fiume che trascina via non solo ogni ostacolo sindacale ma anche le vite private di coloro che nel film sono i protagonisti e nella vita sono coloro che ciascuno di noi ha conosciuto sui posti di lavoro. Il volto della ragazza intelligente e in cerca di una sua vita, contesa fra un ingegnere e un operaio, che in apparenza racconta la storia principale del film, in realtà galleggia fra i detriti dell’inondazione che spazza via ogni argine. Spazza via l’ingegnere, l’operaio, gli operai, i quadri, buona parte dei manager, tutti coloro che credevano di sostenere il nuovo mondo spregiudicato e moderno o quello di prima, oscillante fra il buon lavoro e il sogno di una vita più piena, libera e personale.
Nel film di Wilma Labate - sequenza dopo sequenza di vicende che sembrano solo la storia di qualcuno - va via il lavoro, le sue garanzie, la sua dignità, la sua certezza, gli equilibri faticosamente trovati fra chi investe danaro nell’impresa e chi affitta la vita all’impresa chiamata lavoro. I giocatori-lavoratori hanno creduto di rilanciare ma sono stati prontamente avvertiti che era finita un’epoca, compresi gli impegni presi, le parole date, e le varie immaginazioni e attese per il futuro.
Ciò che accade è insieme privato ed enorme. Trovo strana, e nello stesso tempo esemplare, la coincidenza che ho dovuto notare tra il film appena visto la sera del 16 gennaio, e un articolo che occupava quasi tutta la pagina 6 dell’International Herald Tribune del 17 febbraio dal titolo «Un modo di vivere scompare mentre scompaiono gli operai del Mid West». Mid West vuol dire Chicago, Detroit, Ohio, vaste pianure costellate di fabbriche. Quelle fabbriche chiudono perché il lavoro ormai si fa altrove. L’articolo si conclude con la frase del capo squadra Jeffrey Evans, 49 anni, appena “messo in libertà”: «ho ceduto la mia casa, buttato le chiavi al nuovo proprietario. Ho guidato fino a casa di mia madre, mi sono ubriacato e sono andato a dormire». Questa è solo una di una ventina di storie esemplari, uomini e donne che hanno lavorato bene, lasciati all’improvviso senza lavoro, più giovani e più anziani di Jeffrey Evans. E non sai se tra loro c’è una Signorinaeffe, un operaio e un ingegnere che l’avrebbero voluta e lei che cerca da sola il suo destino. E non sai neppure se sia una fortuna o una disgrazia che il loro lavoro fisso e relativamente ben pagato (14 dollari all’ora) sia durato più a lungo di quello della Signorinaeffe e dei suoi compagni.
Di certo, per tutti coloro che chiamavamo “i lavoratori” è passata l’onda lunga della svalutazione e della irrilevanza. Ti devi domandare come sarà il futuro senza operai o con operai messi continuamente in concorrenza con rumeni e cinesi in una corsa sfrenata verso il lavoro a costo zero. Di certo, sia nel film di Wilma Labate che nelle praterie americane, non trovi leader politici. Nel film italiano, certo, ci sono repertori filmati di un passato (i picchetti con Berlinguer ai cancelli di Mirafiori) la cui fine è stata formalmente certificata. Nell’articolo - che pure è scritto mentre l’America è in piena campagna elettorale - non c’è alcun riferimento politico o sindacale, neppure come rimpianto.
Non sappiamo per chi pensi di votare Jeffrey Evans. Sull’orlo di un evento che cambia il mondo di tutti e certo ha cambiato il suo, lui ci dice che, a 49 anni, è tornato dalla madre, si è ubriacato ed è andato a dormire.
È la stessa intuizione - un po’ sociologica e un po’ poetica - delle ultime scene del film italiano. Solitudine. In quella solitudine non c’è la politica. La politica non dice, non vede, non guida, non sente, non dà un senso al caotico precipitare di eventi. Forse, da noi in Italia, siamo talmente schiacciati tra il Papa e Mastella che il lavoro diventa solo una questione di contratti che non si rinnovano e le morti sul lavoro sono il destino.
Come la spazzatura, riguardano solo coloro che sono coinvolti nella sequenza sgradevole. Resta il vuoto. Resta la solitudine. Restano le notizie inventate o insensate che ci riversano addosso ogni giorno per tenerci occupati. Non è una buona vita. E non è una buona politica. Mi servono, per spiegare quello che ho cercato di dire, due frasi che l’ex senatore Goffredo Bettini ha detto alla Repubblica il 19 gennaio: «Siamo di fronte a un Paese diviso, incarognito, avvelenato. Allora o il Pd ribalta questa situazione o non ha senso che esista. O ridà speranza all’Italia o fallirà nella sua missione».
colombo_f@posta.senato.it

l'Unità 20.1.08
Chiesa. Voglia di Riconquista
di Stefano Passigli


La mancata visita del Papa alla Sapienza sollecita - anzi impone, specie a chi come il Pd va definendo un proprio manifesto di valori - una pacata riflessione da un lato sui mutamenti intervenuti nel significato di una laicità che voglia essere al passo con i tempi, e dall’altro sul ruolo e sulla presenza della Chiesa in società, come quelle europee, oramai secolarizzate.
A scanso di equivoci, va innanzitutto detto che la vicenda della Sapienza è frutto di un cumulo di gravi errori: errato da parte del Rettore invitare il Pontefice, e della diplomazia vaticana accettarlo, senza valutare le obiezioni cui la visita avrebbe potuto dar luogo.
In particolare alla luce delle tensioni che hanno accompagnato i sempre più numerosi interventi della Chiesa su temi all’attenzione del Parlamento. I Pontefici parlano da ben altre e più alte cattedre di quelle della Sapienza, e non hanno certo bisogno di una inaugurazione di anno accademico per far udire la loro voce. Ma grave errore anche - a lectio magistralis declassata a mero invito - creare impedimenti alla libera espressione del pensiero del Pontefice, violando così non solo il diritto costituzionalmente garantito ad ognuno alla libera espressione del pensiero, ma anche il precetto laico del «libera Chiesa in libero Stato», e fornendo un’arma possente a quanti sono sempre pronti a derubricare la laicità a «laicismo», e a considerare come manifestazione di anticlericalismo qualsiasi osservazione critica nei confronti della Chiesa di Roma.
Ciò detto, occorre però interrogarsi sulle ragioni di quella che sembra tornare ad essere - dopo decenni in cui il problema del rapporto Stato-Chiesa appariva appartenere oramai al passato - una rinnovata «questione romana». Da qualche anno, infatti, in Europa, ma segnatamente in Italia, il rapporto tra laici e cattolici è tornato ad essere tormentato. Ciò è dovuto innanzitutto ai progressi della scienza che hanno oramai spostato i confini naturali della vita e della morte, oggi sempre più aperti ad un intervento progettuale dell’uomo, ponendo problemi etici del tutto nuovi sia alla coscienza dei credenti che a quella dei non credenti. È su questo terreno infatti che occorre definire un nuovo concetto di laicità, e valutare le attuali posizioni della Chiesa. Al pari di altri laici - penso ad esempio a Giuliano Amato - comprendo appieno che essa non perda occasione per richiamare i credenti alla difesa della vita. Non comprendo invece perché al rifiuto dell’aborto, ad esempio, non si accompagni l’ammissione della contraccezione, ignorando l’immenso impatto che l’esplosione della popolazione ha sulla povertà nel mondo e sulla crisi dell’equilibrio ecologico. O perché al rifiuto dell’eutanasia non si accompagni l’accettazione etica che un malato possa rifiutare insostenibili sofferenze terminali e pretendere l’interruzione di ogni inutile trattamento. Non comprendo insomma l’opposizione al testamento biologico, né l’imposizione nei confronti dei non credenti che vieta loro il ricorso a una fecondazione assistita che si avvalga di tutti i ritrovati della scienza. Il laico, anche credente, ha spesso l’impressione che la Chiesa, schierandosi contro l’autonomia della ricerca e il diritto del singolo ad una libera scelta circa l’uso dei suoi risultati, abbia nuovamente ingaggiato una battaglia contro la modernità e il pensiero scientifico, come purtroppo a più volte fatto nel corso della sua storia. Galli della Loggia ha affermato sul Corriere che l’operato dell’attuale Pontefice lo pone in una linea di continuità con i suoi predecessori. Credo che ciò non sia vero: da Giovanni XXIII a Wojtyla, per alcuni decenni la Chiesa ha sempre più guardato ai grandi problemi contemporanei, orientandosi verso le grandi aree povere del mondo e verso una riconciliazione ecumenica. Con Ratzinger si ha, invece, l’impressione che il principale obiettivo della Chiesa romana sia divenuto la “reconquista" di un’Europa oramai secolarizzata e in primo luogo di Spagna e Italia. Ma los reyes catolicos non ci sono più, e gli Stati non possono essere piegati a bracci secolari per l’opera di riconquista spirituale dell’Europa.
Un altro terreno di confronto tra laici e cattolici è rappresentato dall’importanza che nella società della conoscenza è venuta assumendo l’istruzione. Per chi si professi laico lo Stato deve concentrare le proprie risorse sulla scuola pubblica, evitando qualsiasi sostegno alla scuola privata, e questo non tanto per le attuali condizioni della nostra finanza pubblica che destina a scuola, università e ricerca risorse insufficienti, quanto perché uno Stato che voglia dirsi coerentemente laico non deve sostenere una scuola privata che trova il proprio fondamento nel desiderio dei genitori di dare ai propri figli un’educazione monoculturale, spesso fondata sulla convinzione della propria superiorità etica, laddove la scuola pubblica è invece il naturale luogo di confronto tra culture e valori diversi, in un mondo in cui tutti sono sempre più chiamati a scegliere se chiudersi nel proprio patrimonio di valori o aprirsi ad un confronto interculturale. Anche prescindendo da vincoli costituzionali (che nel caso italiano ritengo pienamente esistenti anche se progressivamente disattesi), il finanziamento alla scuola cattolica o di qualsiasi altra confessione viola dunque un fondamento dello stato laico: la promozione di un costante confronto tra culture. Piena autonomia della ricerca e libero uso dei suoi risultati, e sostegno esclusivo alla scuola pubblica: sono questi i capisaldi e le richieste di un moderno pensiero laico. Lo Stato italiano agli albori della sua esperienza unitaria unì ad una opportuna legge di guarentigie per la Chiesa la confisca dei beni ecclesiastici. Oggi esso sembra percorrere l’opposto cammino del concedere alla Chiesa di Roma molti vantaggi economici, ma rischia di venir meno al fondamento di qualsiasi logica di guarentigia nei confronti dei culti religiosi: il suo tutelarli tutti in egual misura proprio perché "agnostico" nei loro confronti. Sta proprio nell’agnosticismo la differenza fra Stato etico e Stato laico: tutelati i fondamentali diritti sanciti dalla propria Costituzione, e assicuratosi che qualsiasi fede religiosa ne garantisca il rispetto, uno Stato che voglia dirsi laico deve abbracciare quel "relativismo culturale" che qualsiasi Chiesa non può al contrario condividere. Dopo il 1860, una classe politica largamente composta di credenti non esitò ad affermare in concreto la laicità del nostro Stato, una laicità riaffermata dal cattolicesimo liberale e rispettata sino ad oggi da tutti i recenti Pontefici. È auspicabile che l’attuale classe politica e le gerarchie vaticane siano oggi all’altezza del compito di preservare la pace religiosa e sappiano evitare il risorgere dei conflitti del passato. Non sempre entrambi sembrano all’altezza del compito.

l'Unità 20.1.08
Rodotà: «L’Angelus non può essere un’adunata politica»
di Bruno Gravagnuolo


«Questo Papa si comporta come un leader politico ed è anche percepito come tale. Nessuna meraviglia quindi che ci siano reazioni contrarie: è la democrazia. E vittimismo e appelli integralisti sono fuori luogo». È netto Stefano Rodotà, ex garante per la privacy, giurista «bioetico» e studioso dei diritti nell’era della tecnica: la chiamata a raccolta all’Angelus dei politici non fa che confermare una tendenza «regressiva». Che confonde, senza residui, politica e religione, agire pubblico e agire religioso. Generando un cortocircuito arcaico che è la negazione di ogni laicità. Come nel caso della visita del Papa organizzata a Roma. Dove, sostiene Rodotà, «si è voluto mediaticamente rilanciare l’Istituzione dell’Anno Accademico con un’iniziativa incongrua e pasticciata». Fino a criminalizzare chi dissentiva su un’intervento non certo da libero pensatore tra gli altri. E «reclamando Voltaire solo per Ratzinger». E non per i docenti che avevano espresso contrarietà a quel tipo di visita. Sentiamo Rodotà.
Politici, sindacalisti, parrocchie. Tutti all’Angelus del Papa, in risposta all’appello di Ruini. Un’adunata politica in stile esercito della Santa Fede?
«È la conferma di un dato su cui non si riflette abbastanza. E cioè: non è solo questione di percezione sociale. Bensì di un atteggiarsi del Papa a leader politico che chiede solidarietà e consenso. Non è una forzatura. Già prima della storia dell’Università, c’era stato un attacco durissimo del Pontefice alla gestione di Roma, alla presenza di Veltroni e Marrazzo. Seguito da una procedura tipica della peggior politica. Una trattativa sotterranea tra gli staff, volta a “rettificare” strumentalizzazioni e travisamanenti di stampa. Procedura quasi berlusconiana, per lanciare avvertimenti e poi modificare le carte in tavola. Con le dietrologie del caso sui dissensi tra Ruini e Bertone».
La Chiesa si comporta come un partito, ma poi reclama tutele...
«Esatto, come all’Università di Roma. Le cosiddette reazioni politiche di chi ha reagito alla visita, sono state il contraccolpo di un’azione papale che muovendosi in chiave politica deve poi sottostare alle regole della democrazia. Regole che includono anche la contestazione del Papa».
Ma quella del Papa era una visita pastorale, l’intervento in un dibattito, un suggello all’Anno Accademico, o che altro?
«Tutti hanno invocato Voltaire. Ma solo per Ratzinger, non per Marcello Cini e i dissidenti! Se il Papa ha il diritto di esprimere la sua opinione, a maggior ragione lo hanno Cini e Bernardini, che parlavano in casa propria, dove non c’è un’autorità gerarchica. E dove anche una sola opinione ha valore. Aggiungo che l’occasione era stata ideata in maniera goffa. Prima una prolusione, poi il negoziato su un discorso dopo l’inaugurazione di una cappella. C’erano tute le premesse perché la vicenda finisse male».
Nessuna oltranza da parte dei laici?
«No, ma una legittima manifestazione di opinione. Meno che mai tale, perché non si potesse venire all’Università. Le condizioni di sicurezza erano garantite dal Ministro dell’Interno. E che ci si potesse imbattere in studenti che erano contrari, era del tutto all’interno delle regole democratiche, le quali prevedono dissenso e conflitto. Ed è incongrua, da questo punto di vista, la pretesa di distinguere tra Ratzinger mite teologo e un Papa leader politico che tuona contro la scristianizzazione e vuole rilanciare dall’Italia la riconquista cattolica del mondo».
Laici subalterni dinanzi a questa offensiva?
«Molto subalterni. Anche se c’è un uso esagerato del termine “laicità”. No, ci troviamo di fronte alla necessità di rispettare regole democratiche minime: il diritto di tutti a esprimere opinioni. Il Rettore invita il Papa all’Università, e alcuni professori dissentono. E poi: il Papa si immerge nella contesa politica? Si comporta da leader ideologico e politico? Ovvio che possa esserci una reazione, specie da parte di studenti e professori attenti ai diritti civili».
Torniamo all’Angelus. In fondo è una svolta senza precedenti, nemmeno nel 1948 era così...
«Non c’è dubbio che c’è una regressione clericale. E la discrezione richiesta tante volte alla politica, la sobrietà e il distacco, vengono clamorosamente violati. Uno studioso non certo anticlericale come Adriano Prosperi ha detto: attenti al ritorno del Papa Re! E una politica seria e responsabile, a destra come a sinistra, avrebbe avuto il dovere di criticare come impropria una tale chiamata alla solidarietà, in un’occasione liturgica come l’Angelus. Qui c’è una confusione di piani inaccettabile, che dimostra la debolezza strutturale di una politica ormai senza legittimazione, e che va a cercarsela fuori. Proprio come all’ Università di Roma. Si è pensato di poter rivitalizzare l’obsoleto avvio dell’Anno Accademico, allestendo un palco mediatico. E svilendo sia la presenza del Papa sia la cerimonia»
Ma c’è una «teoria democratica» di tutto questo: ruolo e rilevanza pubblica della religione. O no?
«Alla carta dei valori Pd, su questo punto, dobbiamo dare il giusto significato. Ovvero: anche il punto di vista religioso deve potersi esprimere nella sfera pubblica. Ciò detto, la religione entra nella sfera pubblica accettandone le regole democratiche. E non dettando le regole. Nessun privilegio, nessuna primazia. Ecco la lettura corretta e coerente della Carta dei Valori. Che infatti respinge la pretesa di ravvisare nelle “radici cristiane” il fondamento dell’Europa.
Ma la laicità è un puro terreno neutro di incontro, oppure è un’istanza di valori positiva e fondante?
«Assolutamente un’istanza positiva, non oppositiva al clericalismo. Quell’istanza coincide con la democrazia stessa e le sue regole. La tolleranza, il confronto, il rispetto dell’altro, sono consustanziali alla laicità della democrazia. Il che implica un’assoluta parità tra i diversi soggetti in gioco, con tutte le conseguenza del caso. Che si possano pretendere trattamenti privilegiati, che la religione sia una pretesa civile, è contrario ai princìpi fondamentali della democrazia, a cominciare dal principio di eguaglianza».

l'Unità 20.1.08
Ieri e oggi. Quando Pio XII nel ’47 chiamò a raccolta l’Azione cattolica e nacquero i Comitati civici. Che furono determinanti nelle elezioni del 1948 e che sparirono nel 1953
«O con Cristo o contro Cristo». Era Gedda, sembra Ferrara...
di Roberto Rossi


I mattoni, solidi, ben fabbricati, resistenti all'usura del tempo, erano quelli forgiati dalla paura: il terrore del comunismo. Per la manovalanza il compito fu affidato a Luigi Gedda, medico impegnato nella militanza politico religiosa. E ne fornì in quantità. Al collante, all’impasto, alla malta, invece, ci pensò direttamente papa Pio XII, chiamando a raccolta («alla prova») i nuclei di Azione Cattolica con uno storico discorso. Fu così che, in poco tempo, due settimane circa, vennero eretti dal nulla i Comitati civici, organizzazione propagandistica istituita presso ogni parrocchia per sostenere la vincente campagna elettorale della Democrazia cristiana. Era il 1948.
L’esperienza unica e forse irripetibile - i Comitati vennero «silenziati», come ricordò lo stesso Gedda, a partire dal ‘53 - fu l’esempio lampante della capacità di mobilitazione della Chiesa. Che, nell’Italia post fascista, come spiegava Giuseppe Vedovato, storico senatore democristiano, «individuava due pericoli concomitanti: il predominio del comunismo e l'affermarsi dell'anticlericalismo acritico». «Il tempo della riflessione - disse Pio XII nel 25° anniversario dell’Azione cattolica il 7 settembre 1947 - e dei progetti è passato: è l’ora dell’azione. Siete pronti? I fronti contrari nel campo religioso e morale si vengono sempre più delineando: è l'ora della prova».
Una vera e propria chiamata alla armi. Che nel giro di pochi mesi, anche grazie all’opera di Gedda, che coniò il motto «O con Cristo o contro Cristo», riuscì a ribaltare il quadro politico. I Comitati furono in grado di convincere, ricorda sempre Vedovato, «della necessità del voto centinaia di migliaia di anziani e di ammalati», che altrimenti non avrebbero voluto o potuto votare. Inoltre con tale formula si aggirò l’ostacolo giuridico del Concordato, che vietava alle organizzazioni dell’Azione Cattolica di immischiarsi nelle cose politiche.
Quasi sessant’anni dopo si torna a parlare di Comitati civici. Non perché qualcuno abbia avuto l’idea di rispolverarli dal cassetto, almeno per ora non ci sono notizie in tal senso, ma perché i toni usati dalle gerarchie cattoliche ricordano i tempi passati. Si prenda, ad esempio, il proclama del cardinale vicario Camillo Ruini all’indomani della rinuncia da parte di Benedetto XVI alla visita presso l’Università la Sapienza.
Ruini ha invitato tutti i fedeli e i cittadini romani oggi in piazza San Pietro per la preghiera dell’Angelus ad una manifestazione riparatoria, una sorta di «Papa-day» dopo l’«oltraggio» subito da Ratzinger ad opera dei contestatori anti-pontifici dell'Università La Sapienza. Anche se il vicariato ha parlato soprattutto di una manifestazione di «amore e gratitudine» verso il Papa, dopo una vicenda «che colpisce dolorosamente tutta la città di Roma», è probabile che ciò si trasformi in una prova di forza della mobilitazione cattolica contro le «ristrettezze dell’ideologia», come le ha definite Ruini.
In questo c’è una sorta di parallelismo con il passato. Scriveva Gedda: i Comitati Civici sono «un’articolazione tra la coscienza di un vasto elettorato e la forza politica che si propose di rappresentarlo». Oggi come allora, o forse più di allora, le parole del medico genetista (morto a Roma nel 2000 all'età di 92 anni), che fu anche presidente di Azione Cattolica, risuonano attuali. Il problema è che oggi la forza politica che si propone di rappresentare la coscienza di un vasto elettorato non c’è. O almeno non ha la forza di un tempo. In questo senso il compito della Chiesa è diventato più difficile. Non ci sono più i cosacchi alle porte ma non c’è neanche più un interlocutore di riferimento con cui fare fronte comune contro il relativismo. Per questo serve un pungolo cattolico capace di condizionare l’autonomia della politica.
Come detto, l'esperienza dei Comitati Civici non fu duratura. A partire dal 1954, la Democrazia Cristiana, sotto la spinta di Amintore Fanfani, riuscì a dotarsi di una struttura interna e di strumenti di sostegno che consentirono a di poter fare largamente a meno dell’attività propagandistica e di mobilitazione degli organismi del mondo cattolico e quindi pure dei Comitati civici. In questo senso anche l’elezione di Gedda alla presidenza generale dell’ACI tolse ai Comitati il loro ispiratore e principale leader. E chiuse un’esperienza irripetibile. Oggi la Chiesa non ha più un Gedda da spendere. Al massimo c’è Giuliano Ferrara. E non è la stessa cosa.

l'Unità 20.1.08
Otto Kallscheur. Il filosofo e politologo tedesco: questa assenza ha aumentato il loro ruolo e il loro peso specifico
«Senza Dc non c’è più mediazione per i cattolici»
di Paolo Soldini


Il professor Otto Kallscheuer nella sua casa di Berlino sta preparando le valigie: a febbraio verrà in Italia, all’Università di Sassari, dove lo hanno voluto come visiting professor. Filosofo, sociologo, politologo, titolare di cattedra alla Freie Universität, Kallscheuer ha frequentazioni continue con il nostro paese, dove ha vissuto e insegnato. Conosce l’Italia, la sua politica, il suo spirito pubblico e il suo inquilino più famoso, che qui da noi conta tanto e pure italiano non è: Joseph Ratzinger. All’indomani delle furibonde polemiche sulla visita disdetta alla Sapienza e alla vigilia dell’«Angelus militante» in piazza San Pietro cui il cardinal Ruini ha invitato oggi i cattolici, gli abbiamo chiesto un giudizio sull’intera vicenda.
«Mi lasci dire (e forse la deluderò) che io la penso come Massimo Cacciari: il rifiuto opposto da un piccolo numero di docenti della Sapienza all’intervento del Papa, che sarebbe stato un legittimo e interessante contributo a una discussione laica, è stato un atto di cretineria. Un riflusso di anticlericalismo, che – dico io – è una specie di illuminismo dei poveri nello stesso modo in cui l’antisemitismo fu il socialismo dei poveri».
E la reazione con cui si sono «chiamati» i «cattolici» a una specie di manifestazione politica in piazza San Pietro?
«Domani (oggi per chi legge, n.d.r.) uscirà sull’edizione domenicale della Frankfurter Allgemeine Zeitung un articolo in cui cerco di spiegare ai lettori tedeschi un ricorso storico dal quale chiunque consideri i rapporti tra le gerarchie cattoliche e il cattolicesimo europeo non dovrebbe prescindere. L’appello a “non lasciare solo” Ratzinger offeso dai professori “profani” richiama l’immagine del Papa “prigioniero in Vaticano”. Pio IX e Leone XIII si rifiutarono di riconoscere lo stato nazionale italiano e, proprio poche settimane prima della presa di Roma, il Concilio Vaticano primo aveva riaffermato il principio del Primato papale, della sua sovranità dottrinale e della sua infallibilità ex cathedra. Per decenni i Papi non varcarono il confine del Vaticano. E però piazza San Pietro accoglieva nelle braccia del colonnato berniniano l’appoggio morale dei pellegrini che arrivavano da tutta Europa. Le simpatie e le preghiere delle masse credenti del continente intero, soprattutto quelle del cattolicesimo sociale che si affermava a nord delle Alpi, si concentravano, domenica dopo domenica, su piazza San Pietro, per la benedizione dell’Angelus. La piazza fu il primo mezzo di comunicazione di massa del papato moderno, e ora è di nuovo questo il messaggio che dalla piazza parte per la politica italiana».
Quali sono le ragioni di questo corto circuito della storia?
«In Italia è scomparso quel grande fattore di mediazione che fu la Democrazia cristiana. È la mancanza di quella mediazione, e non il fatto che ci sia stato un grande ritorno alla religiosità, che ha aumentato il ruolo e il peso specifico dei cattolici. Anche delle gerarchie. I cattolici, o quelli che tali si dicono, sono una chiara Sperreminorität, come si dice nel lessico politico tedesco, ovvero una minoranza imprescindibile. I cattolici sono al centro del mercato politico e il centro è l’ago della bilancia. I problemi nascono da questo aumento di rendita di posizione, non dal fatto che le gerarchie intervengano più direttamente nel dibattito pubblico e anche politico…».
Anche questo maggiore interventismo è frutto del venir meno di fattori di mediazione. Ammetterà, però, che gli interventi talora sono molto pesanti e che la risposta della politica è spesso debole.
«Certo, in un paese nato da un conflitto con lo Stato pontificio sarebbe assai opportuno che sui rapporti stato-chiesa ci fosse più sensibilità cortese. Ma guardi, più delle ingerenze dei vescovi, mi dà da pensare la signora Mastella quando dice che i giudici hanno preso provvedimenti contro lei e il marito ‘perché vogliono colpire i cattolici’. Qui c’è un modo di ragionare su un assurdo discrimine cattolici-non cattolici che non solo tende a nascondere il malcostume politico-amministrativo, ma che paradossalmente rafforza l’anticlericalismo, che io considero la “malattia infantile dell’illuminismo”».
L’illuminismo poteva non essere critico verso le religioni, quella cattolica innanzitutto?
«Lo fu nei paesi latini, dove ancora se ne vedono forti tracce. Non, per esempio, in Germania».
Però proprio al prof. Ratzinger viene attribuita l’idea, assolutamente anti-illuministica, che la fede sia superiore alla scienza.
«Io non sono affatto d’accordo con molte delle posizioni del Papa. Però va detto che nel discorso che non ha potuto pronunciare alla Sapienza non veniva fissato alcun limite alla scienza ma, insieme con il concetto di “fede ragionevole”, si ponevano le classiche domande metafisiche sulle possibilità di conoscenza dell’uomo tra teologia e filosofia. Non mi convince, perché sul tema dei rapporti tra fede e scienza preferisco senz’altro Biagio Pascal, così come trovo deludente l’impianto del libro di Ratzinger su Gesù. Mi pare però che Benedetto XVI abbia evitato di seguire fino in fondo il vescovo di Vienna Schönborn sulle sue posizioni neo-creazioniste».
Un’aurea di assolutismo e di “primato cattolico” intorno al “Papa tedesco” c’è e non si può negare. Ratzinger rischia di piacere poco a molti suoi connazionali abituati alla convivenza di due grandi chiese cristiane con i suoi indiretti (ma mica tanto) richiami alla verità dell’”unica fede”, quella di Roma.
«L’ecumemismo del passato è in crisi perché è in crisi il dialogo tra le chiese occidentali. Ma ciò dipende soprattutto dall’accentuazione di Ratzinger, e anche del suo predecessore, del confronto con le chiese orientali, con cui ci sono più vicinanze di carattere teologico e dottrinario. Lo ha detto anche il vescovo di Berlino Wolfgang Huber, capo del concilio della chiesa evangelica tedesca: “È un momento in cui prevale l’esigenza di avere un profilo netto”. Ma proprio quando le posizioni sono più diverse c’è più bisogno di ascolto».

l'Unità 20.1.08
SD. Un documento dei «sindacalisti» a Mussi: «Oscurati da Bertinotti»


ROMA La Cosa Rossa non ha risolto il dilemma tra riformismo e radicalismo. sinistra democratica finisce per essere oscurata dalle posizioni di Rifondazione. E, con l'esecutivo a rischio, c'è il pericolo reale che la sinistra esca dall'area di governo. Un documento dal titolo «una sinistra per il paese» apre il confronto politico in Sinistra democratica. Il testo, firmato in particolare dall'ala sindacale e sul quale all'interno del movimento è in corso una raccolta di adesioni, punta apertamente il dito contro la gestione di Fabio Mussi.
Firmano: i deputati Massimo Cialente e Angelo Lo Maglio, il sottosegretario agli esteri Famiano Crucianelli, l'economista Paolo Leon, il giurista Felice Besostri, i segretari nazionali della cgil Carla Cantone, Morena Piccinini e Paolo Nerozzi, il segretario generale della cgil scuola Enrico Panini, il segretario generale della funzione pubblica cgil Carlo Podda, il segretario della cgil lazio Walter Schiavella e il presidente dell'inca nazionale Raffaele Minelli. «Grande è il rischio che la destra torni al governo del paese, grande è il pericolo che la sinistra vi arrivi esaurita dall'esperienza del governo e senza una bussola per il domani», si legge nel testo. «Se gli stati generali dell'8 e 9 dicembre saranno stati un nuovo inizio o un falso movimento, Lo si deciderà nei prossimi mesi, intanto dobbiamo registrare le luci e le ombre della situazione attuale, tenere aperta la discussione politica e, con questo documento, affermare un punto di vista e un percorso con esso coerente. La nostra convinzione è che oggi la priorità sia proprio quella di avere una riflessione, una discussione aperta, partecipata».

l'Unità 20.1.08
Claudia Cardinale attrice in un film da Camus
e sul papa dice: separati Stato e chiesa


Non c’è la bora che spazzava piazza Unità, in quell’inverno del '61, fin quasi a spingere in mare gli attori, la troupe, le maestranze del set di Senilità … Ma i palazzi e i caffè che guardano il golfo sembrano ancora sbucare dalle sequenze eleganti di Mauro Bolognini. «Non è cambiata, Trieste. Ricordo tutto perfettamente. Ricordo soprattutto il vento: dovevamo aggrapparci alle corde, per ripararci dalle raffiche», sorride Claudia Cardinale, ospite alla terza giornata del Trieste Film Festival dedicata a Italo Svevo. Nella Trieste del 2008, l'attualità irrompe dal mega striscione posizionato in bella vista sulla facciata del Comune: «Trieste con il Papa». Claudia Cardinale legge, valuta perplessa che «bisognerebbe imparare a tenere separate le cose», si rammarica di questo momento così difficile per l’immagine italiana nel mondo: «con la brutta storia dei rifiuti, a Napoli, il turismo conoscerà tempi difficili». È l'attrice più «letteraria» del cinema nazionale: dal Gattopardo a Gli indifferenti, da Svevo a Sciascia, da Pratolini a Cassola. E a Trieste Claudia Cardinale annuncia che lavorerà presto in un nuovo film tratto dal romanzo incompiuto di Albert Camus, Le premier Homme: «una pellicola in lingua francese, che sarà diretta da un grandissimo regista italiano. Anzi, il più grande del nostro cinema. Ma il nome non ve lo dico, devo ancora firmare il contratto»
Daniela Bianco

l'Unità 20.1.08
India, il lusso di leggere e il piacere di scrivere
di Maria Serena Palieri


IL CONVEGNO Un miliardo e centomila abitanti, ma, per un romanziere, vendere tremila copie è un successo. A Torino un drappello di autori del subcontinente illumina le contraddizioni del Paese di Salman Rushdie e Anita Desai

Sull’India, ecco una certezza: è un Paese nel quale di sola scrittura non si vive. Se sei poeta o romanziere, ti devi mantenere facendo lo psicanalista, come Sudhir Kakar, l’autore di romanzi come L’ascesi del desiderio o Mira e il Mahatma (da noi tradotti da Neri Pozza), o la responsabile di un programma di sviluppo urbano, come Lavanya Sankaran, autrice del Tappeto rosso (Marcos y Marcos), o il giornalista come Tarun j. Teipal, autore dell’Alchimia del desiderio (Garzanti), o l’altissimo funzionario Onu come Shashi Tharoor, autore di Luci su Bombay (Frassinelli) e Tumulto (e/o), ma anche più modestamente il tuttofare, cassiere, operatore di call center, portiere, come Altaf Tyrewala, il romanziere di Nessun Dio in vista (Feltrinelli). Perché in un Paese che conta un miliardo e centomila abitanti, ma dove il tasso di analfabetismo primario o di ritorno resta altissimo, se, di un tuo libro, vendi tremila copie, sei uno scrittore di successo. La cifra - tremila in rapporto a quel miliardo - a noi appare improbabile, ma ce la dice e ripete Wykas Swarup. E Swarup è uno che con la penna ha fatto bingo: perché il suo primo e fin qui unico romanzo, Q&A (in italiano per Guanda col titolo Le dodici domande), storia di un cameriere squattrinato che sbanca un gioco a quiz, è stato tradotto in 32 lingue, trasformato in serial per la tv, diventerà un film diretto da Danny Boyle (il regista di Trainspotting). E insomma, ride Swarup, «manca solo che McDonald’s lo alleghi come omaggio all’happy meal». Lui stesso ci spiega altri dettagli di queste misteriose bassissime tirature, con una mimica da napoletano, anche se è nato ad Allahabad: un romanzo al prezzo medio di nove-dieci euro (l’equivalente in rupie) è un lusso insostenibile per i più, quindi la stessa copia viene letta da quindici persone, del che, spiega, si è accorto di prima mano rinvenendo una copia di Q&A con note a margine in altrettante grafie; e la pirateria dei libri è diffusa in India quanto quella di cd e dvd, non c’è giornalaio che sotto i quotidiani non celi mucchi di romanzi fotocopiati.
Ecco, questa, data finora, è l’unica certezza sul subcontinente asiatico. Un Paese - insistono a dire i tredici autori arrivati a Torino per il convegno L’odore dell’India promosso dal premio Grinzane Cavour e organizzato da Claudio Gorlier - del quale puoi dire tutto e il suo contrario. E riguardo al quale, aggiungono, il tentativo di definirlo equivale allo sforzo del cieco della storiella, che cerca di capire cosa sia l’elefante che ha di fronte tastandogli a pezzi la coda, poi la zampa, poi la proboscide. Un esempio? Ecco due possibili estremi: Taroor, cinquantaduenne nato a Londra, cresciuto in India e negli Usa, che per un pelo ha mancato la nomina a successore di Kofi Annan, si sente «un indiano di lingua inglese che ha in comune con gli altri un background metropolitano e una mitologia popolare che deriva da Bollywood anziché dai testi antichi»; Bhagwan Dass Morwal, quarantottenne del Mewat, la terra chiamata anche Kala Pani, cioè Acque Nere, scrive in hindi romanzi ancora da noi non tradotti, che parlano dei «dalit», i contadini senza terra, quelli di cui i giornali scrivono per l’epidemia di suicidi o perché la costruzione di una nuova diga li scaccia dai villaggi. E Morwal è convinto che questa, non la «Shining India» che dilapida le ricchezze accumulate al Sensex, la Borsa di Mumbai, sia l’India vera: «Il sancta sanctorum dei valori umani» la definisce, dove, però, avverte, la percezione della differenza che sempre più allarga con i ricchissimi, comincia a far divampare odi di casta e di classe.
Ventitré lingue ufficiali, ma duecento parlate davvero, un miliardo e centomila abitanti, il quaranta per cento sotto i 25 anni (dato che gli ottimisti definiscono «il dividendo demografico», i pessimisti «il potenziale disastro»), un coacervo di culti politeisti e monoteisti. E un Islam indiano - 150 milioni di fedeli - che, su questo sono tutti d’accordo, «è il solo Islam che da sessant’anni vive in democrazia e che non ha regalato un solo militante ad Al Qaeda». È l’India che, dopo aver accolto da colonizzata esploratori in cerca di esotismo nella «cuna del mondo» come la definì il proto-viaggiatore Guido Gozzano, e da repubblica indipendente hippies in cerca di illuminazione, oggi emana nel pianeta il suo «potere soffice», fatto di informatica e yoga. Fatto anche di narrazioni: la fioritura splendida del racconto e del romanzo avvenuta negli ultimi trent’anni. In realtà, il romanzo indiano esiste da sempre, con i suoi grandi, come Narayan, ma c’è una data che segna l’inizio della sua diffusione planetaria: 1981, I figli della mezzanotte di Salman Rushdie. Da allora hanno fatto in tempo a emergere classici come Anita Desai, Vikram Seth, Amitav Ghosh, a nascere e spegnersi polemiche su chi sia vero «indiano», chi scrive in hindi o bengali o anche chi scrive in inglese, chi vive nella terra madre o anche chi a Londra o Los Angeles, figlio dell’emigrazione povera o della diaspora aristocratico-intellettuale, e, come avviene quando una cultura diventa compiutamente matura, hanno fatto in tempo a concretizzarsi anche filoni di buona rendita, scrittori e scrittrici che hanno fiutato il vento e vendono paccottiglia esotica, un po’ di speziato «odore dell’India».
Ma loro, gli scrittori, perché scrivono? Domanda sciocca. Per dirla con Taroor «come Bernard Shaw scrivo come una mucca produce latte: è naturale, ne ho bisogno». Però, con Lavanya Sankaran, la domanda trova una risposta storica: la colonizzazione britannica usò, rispetto ad altre, uno strumento tutto proprio, il famoso scaffale con Jane Austen e Charles Dickens spedito in ogni villaggio, romanzi su cui i colonizzati, si educavano vedendosi dipinti come «barbari infantili» e dunque eccoli nella necessità di riscrivere se stessi. Di contrapporre al forsteriano Passaggio in India la propria India. Magari, la nemesi, usando e rinnovando l’inglese dei «civilizzatori». Per scoprire il valore di esperienze proprie, come il laicismo di Gandhi, «un alchimista che cancellò l’era della colonizzazione con un sorriso sdentato» lo definisce Akbar, per il quale laicità non era «assenza di fede, ma spazio per tutte le fedi». O, osserva Anita Nair, autrice del fortunato Cuccette per signora (Neri Pozza) scoprire la potenza culturale, oggi, di un Paese che è «maestro nelle manifestazioni emotive pubbliche». Fuor di retorica, c’è chi avanza un timore. Sunil Deepak, medico, da una ventina d’anni risiede a Bologna e ha visto coi suoi occhi cosa può succedere a un Paese quando si berlusconizza. Avverte: in India al monopolio della tv pubblica, stanno affiancandosi le tv commerciali. Saprà la «cuna del mondo» resistere all’ondata di trash che, fatalmente, sta per abbattersi anche su di essa?

l'Unità 20.1.08
INTERVISTA AD ADONIS ll poeta siriano, tra i premiati, parla di pace e guerra e di Palestina. Ma anche del Papa e di monoteismi
«Gli integralismi sono tre: islamico, ebreo e cristiano»
di m.s.p


«I media occidentali parlano solo del fondamentalismo islamico. E ignorano il fondamentalismo ebreo come quello cristiano. Il problema, alla radice, è quello dei monoteismi. Per capire la nostra epoca dobbiamo andare oltre, chiederci quale visione dell’essere umano e della verità essi suggeriscano. È il monoteismo che va rimesso in questione». Ali Ahmad Said Isbir, è lui che parla, il poeta e saggista noto piuttosto come Adonis, si professa «a-religioso». Ma alla questione dell’integralismo, così come alla guerra in Iraq, alla politica estera americana, all’esportazione del capitalismo tecnologico, al terrorismo e al significato del velo nel mondo islamico, ha dedicato i saggi di Oceano nero, usciti per Guanda nel 2006. Uomo garbatissimo (oltre che sempre di ricercata eleganza), il settantottenne siriano Adonis è tra i premiati dal Grinzane. Da Parigi, dove vive da anni - dopo gli studi a Damasco, la prigionia per la militanza nel locale partito socialista, i decenni in Libano - eccolo a Torino, tra gli argenti e i cristalli ottocenteschi e scintillanti del ristorante «Il Cambio». Qui entra con scrupolo in una vicenda che, dice «è vostra e io sono ospite in casa vostra», insomma la questione di Benedetto XVI alla Sapienza. «Lo dico da intellettuale lettore di giornali. Io sono per il dialogo. Quindi, penso si debba dialogare anche con i rappresentanti delle religioni. Però a rispetto deve corrispondere rispetto. Ci vuole reciprocità. Se il pontefice accettasse di ricevere dei laici, degli atei, degli a-religiosi in Vaticano, per discutere davvero, confrontandosi, con loro di etica come di scienza, ecco, assumerebbe un altro aspetto l’invito per lui in un’università laica».
L’Adonis di Cento poesie d’amore, il poeta che ha fatto fare il suo ingresso al verso libero nella poesia araba, e che, da qualche lustro regolarmente candidato al Nobel, cuce il suo filo tra Oriente e Occidente, tra Rilke e Abu Nawas, non rifugge affatto dal dire la sua sull’attualità politica. Il «Nonino», della cui giuria è membro, premia in questi giorni tra gli altri la palestinese Leila Shahid. Adonis commenta: «La Palestina è la questione cruciale, oggi. È la questione che coinvolge tutto il mondo. Ora, gli arabi per la pace hanno dato tutto. E ha dato tutto anche la grande maggioranza dei palestinesi. Adesso sta a Israele dare qualcosa di concreto. Non si può arrivare alla pace dialogando con una parte dei palestinesi e, in contemporanea, attaccando gli altri. Oggi la pace è un problema politico di Israele, non degli arabi»..

l'Unità 20.1.08
Paolina, due secoli da Venere Vincitrice
di Renato Barilli


CAPOLAVORI di Antonio Canova in mostra presso la Galleria Borghese. Tra i più venerati il ritratto della sorella minore di Napoleone, presentato al pubblico per la prima volta nel 1808

La Galleria Borghese di Roma è uno scrigno prezioso che raccoglie, nei due piani della collezione permanente, un tale numero di capolavori da far invidia a qualsiasi altro grande museo del mondo. Lo sanno bene i visitatori che si accalcano in quelle sale non vastissime intralciandosi il passo alle porte o lungo le scale elicoidali. Tra i tanti capolavori, uno dei più venerati è senza dubbio il ritratto di Paolina Bonaparte, stesa seminuda su un divano in sembianza di Venere Vincitrice, realizzato da Antonio Canova (1757-1822) e da lui presentato al pubblico romano nel suo atelier esattamente nel 1808, dopo circa quattro anni di lavoro. Giusto pertanto celebrare i due secoli da una simile epifania, come avviene in questo momento. Giusto anche che l’opera non sia stata allontanata dal sito in cui trova splendido e tradizionale ricetto, e che inoltre venga accompagnata da un florilegio di altri aspetti in cui si è prodotta l’attività di questo artista, assai più complesso e dialettico di quanto usualmente si pensi. Ma a questo punto sorgono due problemi. In primo luogo, dato che le stanze Borghese sono piene come un uovo, questi diversi esempi del percorso canoviano hanno dovuto esservi ficcati dentro quasi con la forza, in confusa coabitazione con i capolavori, diciamo così, stanziali. C’è un ottimo sistema di freccette a indicare l’itinerario di visita, ma prende l’aria della mappa per una caccia al tesoro, e non so quanto il pubblico normale sia in grado di andare a scovare quei lacerti così sparpagliati dello stile canoviano, e soprattutto di ricucirli tra loro. Ma c’è un disagio ben più grave, in quanto la Paolina, e l’opera tutta del maestro di Possagno, non sono affatto la ciliegina che viene a consacrate la lauta torta Borghese, una succosa abbuffata del meglio che l’Occidente abbia partorito, dall’antichità greco-romana ai secoli d’oro del naturalismo moderno, con Raffaello, Tiziano e Bernini in prima linea. L’arte del Canova inaugura quell’epoca assolutamente di segno contrario che indichiamo, in mancanza di meglio, col termine di contemporaneo, e che comunque si pone in fiera opposizione al moderno. Basti andare a vedere i dipinti canoviani, qui opportunamente esposti, in cui fa la sua comparsa sua maestà la deformazione quasi espressionista, con quei nudi di donna che si gonfiano come otri, viscidi come lontre, con testine piccole, animate da occhietti indemoniati. Del resto, non diversamente consuonano i disegni che offrono membra allungate, tese, nel caso degli atleti, in modi forzosi e artificiali. Insomma, ovunque abbiamo un artista che prende a schiaffoni i sacri canoni del naturalismo, la superficie ispecchiante non è più piana, bensì flessa, parabolica, comunque mostruosamente deformante. Si ricorre allora all’ipotesi di un Canova schizofrenico, diviso tra le avventure notturne di un Mr. Hyde che fa il verso alle soluzioni «inglesi» di Füssli e Blake, o a quelle di un altro indemoniato e visitato da spettri notturni quale fu Goya. Ma, si dirà, se Dio vuole rispunta la luce diurna e Canova rientra nei panni di un compassato e perbenista Dr Jeckyll. Intanto, non è così nella produzione bozzettistica, in cui egli affronta la creta con pollice furioso, ungulandone gli ammassi, spezzando le membra delle figure, facendole crollare su se stesse, e così aprendo la via a un Arturo Martini, o addirittura a un Lucio Fontana. Ma ancora una volta i benpensanti hanno una carta nella manica per riportare l’artista un’immagine di compunto conformismo, si sa che la fase del bozzetto è consegnata al «far presto», alle soluzioni provvisorie, poi viene il «finito», e a quel punto Canova diventa il campione di quelle perfezioni levigate, irreprensibili che ne fanno appunto il rappresentante insuperato del Neoclassicismo. Un movimento che i «moderni» hanno sempre detestato, per esempio, un grande storico dell’arte con tutti gli strumenti tarati sul naturalismo caravaggesco e simili come Roberto Longhi ha sinceramente detestato il Canova, mentre i suoi allievi, più ipocriti, si arrampicano sugli specchi per salvare capra e cavoli e mandar giù il boccone amaro costituito da quei marmi francamente insopportabili, per chi abbia in mente canoni di freschezza, di brivido atmosferico e simili. Il fatto è che, di fronte ad essi, bisogna cambiare pedale, accogliere alcuni dei presupposti del contemporaneo, secondo cui non si deve più rappresentare fedelmente, bensì presentare, magari il già fatto, e per esempio andare a prelevare da una sorta di banca dati museali delle forme appunto già confezionate. Non è affatto estraneo al Canova il concetto, poi messo in campo da Duchamp, del ready-made. E così, la nostra Paolina vuole essere una citazione dalle bellezze stereotipate dei monumenti funebri romani dove le illustri estinte si presentano stese nel triclinio destinato a un finale ed eterno banchetto funebre. Lo ha ben capito Jeff Koons, nei nostri anni, che ha immortalato se stesso e Cicciolina in pose analoghe. E si veda soprattutto il divano-triclinio su cui giace Paolina, quello sì è un ready-made, anche se rifatto, ma avendo cura di mantenere il polimaterismo delle borchie, delle dorature, dei drappi pendenti.

l'Unità lettere 20.1.08
Perché Ruini non invita Odifreddi?
Cara Unità,
credo che l’iniziativa del Cardinal Ruini di convocare domenica i superfedeli in Piazza San Pietro sia sbagliata. Perché s’inserisce nella stessa linea di contrapposizione tra non credenti e cattolici, innescata dal maldestro rettore Guarini. Invece, il cardinal Ruini avrebbe colpito favorevolmente l’opinione pubblica, se avesse invitato il Prof. Odifreddi a tenere una lezione su «Ragione e Fede» alla Pontificia Accademia delle Scienze.
Massimo Marnetto, Roma

Corriere della Sera 20.1.08
Ipotesi Da Bernd Roeck una nuova interpretazione della «Flagellazione». Replica Silvia Ronchey
Il delitto di Piero della Francesca
«Nella tavola Federico da Montefeltro uccide il fratellastro»
di Pierluigi Panza


Da quando La Flagellazione di Piero della Francesca fu notata dallo storico dell'arte David Passavant a inizio Ottocento nella sacrestia del Duomo di Urbino, le interpretazioni sulla tavola non si sono mai fermate (lo storico Marilyn Aronberg Lavin ne ha contate 35). Il motivo è semplice: di per sé questa tavola, realizzata tra il 1444 e il 1478 e ora custodita alla Galleria delle Marche di Urbino, non «parla»; in assenza di un codice che decifri le «due scene» dipinte — la flagellazione di Cristo, a sinistra, e tre uomini in primo piano a destra — lascia attoniti gli osservatori.
Desta tuttavia interesse che, nel giro di poco più di un anno, siano uscite due letture dell'opera completamente diverse. La prima, espressa in L'enigma di Piero
(Rizzoli), è della bizantinista Silvia Ronchey (il Corriere ne ha dato notizia il 13 aprile del 2006); la sua tesi è che la tavola simboleggi la caduta di Bisanzio del 1453 in mano ai turchi. E i personaggi dipinti sarebbero (da sinistra), l'imperatore Giovanni Paleologo seduto come Ponzio Pilato che assiste inerme alla flagellazione di Cristo-Bisanzio da parte del sultano turco (di spalle) mentre — nella parte destra— il cardinal Bessarione accompagna al Concilio del 1438 l'erede al trono di Bisanzio, Tommaso Paleologo (biondo in tunica rossa) per chiedere aiuto ai principi latini d'Europa, rappresentati da Niccolò d'Este (primo a destra).
La seconda interpretazione esce invece ora a firma dello storico tedesco Bernd Roeck e si intitola Piero della Francesca e l'assassino (Bollati Boringhieri, pp. 260 e
22). La tesi di Roeck è che La Flagellazione
raffiguri un crimine consumatosi cinque secoli fa. E ne rivela il mandante. Anche per Roeck, la figura chiave dell'opera è il giovane biondo scalzo in «camixa» (da notte) rossa al centro della parte destra della tavola che corrisponderebbe però, non a Tommaso Paleologo, bensì a Oddantonio da Montefeltro, duca di Urbino, svegliato di soprassalto e assassinato nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1444 da alcuni sicari mentre era scalzo e in camicia rossa da letto, divenuta poi rossa per il sangue.
Chi fu il mandante di questo omicidio? Piero della Francesca lo rivelerebbe per Roeck attraverso le altre figure. Intanto, parte destra e sinistra del quadro hanno dei corrispettivi: a sinistra è simboleggiato l'omicidio di Oddantonio con i protagonisti allegorizzati; a destra, invece, ci sono i protagonisti stessi. La figura di Oddantonio è rappresentata a destra nel giovane in camicia rossa e, a sinistra, nel Cristo flagellato e messo a morte dai sicari (i personaggi intorno a lui). Sulla base della Legenda aurea di Jacopo da Varagine (nota anche a Piero), Roeck identifica nella figura di Ponzio Pilato (il primo seduto a sinistra) quella di Federico da Montefeltro (il «bastardo legittimato», si diceva allora), che dopo l'omicidio di Oddantonio giunse da Pesaro sotto le mura di Urbino, e prese possesso della città. Per lo studioso tedesco, sulla base degli osservatori del XV secolo (Pio II compreso) non c'è dubbio che sia stato lui il mandante dell'omicidio. E lo spiega con riferimenti storici. La figura di Pilato lo rappresenta mentre osserva, come mandante, l'assassinio del fratellastro (Cristo-Oddantonio).
Federico, il fratricida, sarebbe raffigurato anche a destra. Sempre sulla base di Jacopo da Varagine, andrebbe identificato nella figura barbuta, facilmente riconoscibile come quella di Giuda il traditore del «fratello» Cristo, perché è una delle rare figure che venivano allora ritratte con la barba. Seguendo la stessa fonte, il terzo uomo di destra, con il vestito di broccato, sarebbe Ruben, padre di Giuda, ovvero Bernardino Ubaldini della Carda, padre naturale di Federico (che non era vero figlio di Guidantonio da Montefeltro e, pertanto, non destinato a regnare se non avesse commesso un fratricidio). La tavola, dunque, simbolizzerebbe l'omicidio di Oddantonio per mano di Federico da Montefeltro. Sulla base di osservazioni sull'uso del gesso e dell'olio, Roeck tende a datare la tavola agli anni Sessanta.
Lo storico tedesco individua anche alcune fonti dell'architettura del dipinto, ispirata a Leon Battista Alberti. Le riprese iconografiche (palmette e cassettoni) indicherebbero la presenza di Piero a Roma, poiché vengono fatte risalire a decorazioni del Settizonio e dell'Arco di Settimio Severo. Ma la colonna alla quale è legato Cristo ha anche un significato che allude all'omicidio: Oddantonio era figlio di Caterina Colonna, e una colonna ovviamente ornava lo stemma familiare. Per altro, un antenato di Oddantonio, Giovanni Colonna (post 1175-1245) aveva portato da Gerusalemme a Roma un frammento di marmo africano noto per essere la colonna della flagellazione di Cristo. Per Roeck, dunque, la tavola fu commissionata a Piero proprio da un membro di questa famiglia, e non certamente dal Montefeltro, come da tradizione si credeva, raffigurato qui come assassino.
Si tratta di una ricostruzione affascinante, non da tutti gli studiosi condivisa: si veda, ad esempio, la recensione uscita sul Journal für Kunstgeschichte dove si parla di Roeck come di un «secondo Dan Brown che vuole rivolgersi a un pubblico voglioso di sensazioni con un Della Francesca Code ».
Storicamente, dopo la morte di Oddantonio, nel carnevale 1446, a Urbino scoppiarono tumulti, e Federico fece decapitare alcuni oppositori che avevano tentato un agguato contro di lui. Salvò solo due parenti, Battista e Antonio Niccolò del Conte, che erano stati fedelissimi di Oddantonio, e si rifugiarono a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta, altro fratricida e antagonista di Federico.
La bizantinista Silvia Ronchey, autrice di «L'enigma di Piero» (Rizzoli). L'altra interpretazione è «Piero della Francesca e l'assassino» di Bernd Roeck (Bollati Boringhieri)

Controcanto
«No, qui si racconta la caduta di Bisanzio»

Per sapere da che parte pende la bilancia dell'interpretazione tra Silvia Ronchey e Bernd Roeck si dovrà attendere il 23 giugno, quando i due s'incontreranno in «singolar tenzone» all'Istituto tedesco di studi veneziani di Palazzo Barbarigo (Venezia).
«Siamo su due registri diversi perché siamo studiosi diversi; io continuo a credere che la mia visione da bizantinista resti più ampia e appropriata», racconta la Ronchey, che attribuisce le tante interpretazioni contemporanee della
Flagellazione proprio al fatto che «questa tavola è vicina al nostro spirito del tempo, al rapporto critico tra Oriente e Occidente».
Quanto al ritorno d'interesse per il metodo waburghiano (secondo il quale le immagini allegorizzano altri significati) è determinato dalla volontà «di comprendere ciò che in passato era chiaro e oggi non più. Ci rendiamo conto che personaggi ritratti, costumi e architetture erano dipinti secondo un codice che abbiamo perso.
Queste letture ci fanno accorgere che la cultura di oggi è più povera».
Ma cosa pensa della tesi di Roeck? «Già nel Rinascimento si davano una pluralità d'interpretazioni. Io non credo alla tesi di un assassinio. Trovandomi nella posizione di chi guarda il Quattrocento a 360 gradi, ritengo di avere una visione più completa. E pertanto penso che la tavola allegorizzi la caduta di Bisanzio».
P.P.

Corriere della Sera 20.1.08
Angoscia e oblio dinanzi al Cosmo
Leopardi Nietzsche e l'umile gregge
di Natalino Irti


La percezione della temporalità distingue l'uomo dagli animali e lo rende inquieto

La gregge: tema davvero inconsueto e curioso per un elzeviro: sì, la gregge, che di rado scorgiamo, quasi immagine di favole antiche, nella campagna romana, e che ormai invano cercheremmo per i tratturi che dall'Abruzzo scendono al mare e alle tiepide distese di Puglia. Ma proprio l'umile gregge, col suo vagare per i campi, con la lieve e ignara felicità, con il vivere ritornante e ripetitivo, ha mosso la fantasia di poeti e il pensiero di filosofi. Qui s'intrecciano i nomi di Giacomo Leopardi e di Federico Nietzsche.
Il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
nasce in Leopardi fra l'autunno 1829 e la primavera 1830. Poesia somma, che ascolta le parole pure e originarie, dette dal pastore nell'Asia lunare e deserta, e così raccoglie il senso della vita umana e dell'intero universo. La greggia vi appare, nella penultima strofa, come oggetto d'invidia: «Non sol perché d'affanno / quasi libera vai; / ch'ogni stento, ogni danno, / ogni estremo timor subito scordi: / ma più perché giammai tedio non provi». La gregge «scorda», non ha memoria neppure del timore estremo, dell'imminente pericolo di morte. Il vivere della gregge come non ha durata, poiché si identifica ed esaurisce in singoli e puntuali episodi, così è al riparo dalla noia: non è veramente un vivere, ma un «posare», un consumare il tempo in uno stato di quieta incoscienza.
L'immagine della gregge giungerà, di lì a qualche decennio (inverno fra il 1873 e il 1874), nella seconda «inattuale» di Federico Nietzsche: Dell'utile e del danno della storia per la vita.
Ancora la gregge, che «non sa nulla dell'ieri e dell'oggi, salta qua e là, mangia, riposa, digerisce e poi torna a saltellare». Legata all'istante che passa, senza malinconia e senza tedio. Mentre l'uomo porta sempre con sé la catena del passato, e non può imparare a dimenticare, «l'animale vive in modo non storico ( unhistorisch) perché si dissolve nel presente …».
Se l'ammirazione di Nietzsche per Leopardi fu discontinua, sempre intrinseco e profondo rimase il nesso fra poeta e filosofo (meglio dovrebbe dirsi, fra i due grandi pensatori). Giuseppe Gabetti ed Emanuele Severino vi hanno scritto pagine fra le più illuminanti e perspicue. La gregge leopardiana «scorda »: che non è un dimenticare, ma propriamente un non trattenere dentro di sé, un'assenza di memoria, un posarsi ed esaurirsi nell'istante del piacere e del dolore. È uno stare senza durare; non c'è né ieri né oggi; e nulla giunge dal passato ad assalire la gregge «quieta e contenta».
Il tema ritorna tutto in Nietzsche, ma come utilizzato e messo al servizio di una dimostrazione filosofica. Non più il dolore cosmico di Leopardi, che chiude la poesia con gravità di sentenza: «Forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale »; ma l'antitesi argomentativa fra il vivere non storico dell'animale e il vivere storico dell'uomo. Il cosmo, diviso in natura e storia, perde la propria dolorosa unità.
I versi di Leopardi dischiudono profondità abissali, e sollevano le ultime domande sul nostro destino. Il quale si racchiude nel tempo: è tempo la memoria, che risale all'ieri, e a mano a mano s'appropria del domani; è tempo il divenire, in cui le cose sorgono dal nulla e tornano nel nulla; è tempo la morte, dove si fa chiara la finitezza e precarietà della vita. L'animale — scrive Nietzsche — sta «nell'ambito di un orizzonte che potremmo quasi dire puntuale », esperisce il puro attimo, e lo vede morire e spegnersi per sempre: così il filosofo raccoglie la favolosa nenia del pastore leopardiano, e se ne fa portatore nell'anima più profonda della filosofia moderna. Soltanto l'uomo è temporalità e storicità, e perciò in grado di anticipare nella propria angoscia l'evento estremo della morte.

Corriere della Sera 20.1.08
'800 Parigi: Hodler al d'Orsay
Tutti i colori dell'angoscia
di Pierre Rosenberg


Com'è possibile affermarsi inequivocabilmente pittore svizzero, profondamente svizzero, legato alla storia del proprio Paese ( La battaglia di Morat), ai suoi laghi e montagne, ed essere un pittore universale, senza tempo? Allo stesso modo della Montagne Sainte- Victoire di Cézanne, provenzale ed eterna, l'Eiger, la Mönch ela Jungfrau al chiaro di luna di Ferdinand Hodler sono l'essenza stessa della Svizzera e contemporaneamente un'immagine potente della natura, totalmente rinnovata nella sua eternità. Volutamente ho associato i nomi di Cézanne e Hodler. Certo le loro ambizioni sono diverse e anche la carriera. Hodler, nato nel 1853, più giovane di Cézanne nato nel 1839, gli sopravviverà per altri dodici anni, ma la rivoluzione pittorica voluta dai due artisti è direttamente comparabile. Tanto quella di Cézanne è oggi universalmente accettata e in qualche modo santificata, quanto l'opera di Hodler, meno in Francia e in Italia, è ancora in gran parte da scoprire. Pur essendo tra i più grandi pittori della sua generazione, Hodler resta ancora oggi fra i meno noti. Questa mostra — la seconda a Parigi dalla morte dell'artista nel 1918 — dà la possibilità di scoprire finalmente o di riscoprire l'arte vigorosa ed emozionante, grave e di una stupefacente onestà, del grande pittore svizzero.
Qualche informazione: nato a Berna ma ginevrino di adozione e di formazione, Hodler lotta tutta la vita con una doppia ambizione, a prima vista contraddittoria, l'essere pittore realista e simbolista. La terminologia merita qualche spiegazione. Il realismo di Hodler si fonda essenzialmente sulla volontà dell'artista di descrivere in modo obiettivo i tratti del suo modello, le rive del lago Lemano viste a strapiombo. Ma presto, alla maniera di Puvis de Chavanne, un Puvis de Chavanne totalmente rinnovato, ma di cui condivide il gusto per i grandi scenari, a questo realismo aggiunge il desiderio pressante di dare un significato a ciò che si vede: quello che dicono i fiori, il Ragazzo incantato, la Verità, il
Giorno, questi titoli da soli sono una testimonianza di questo ricorrente desiderio. La sua carriera è stata una successione di scandali, legati all'audacia dei soggetti per quell'erotismo sano e schietto, di disturbo per l'epoca ( Amore), e di trionfi, dapprima in Svizzera e poi in Francia, in Germania e in Austria, soprattutto, che credette di vedere in Hodler uno dei suoi, una specie di Klimt svizzero, dimenticando però le radici della sua arte.
Parigi rivela il disegnatore al servizio del pittore. C'è il pittore paesaggista con le indimenticabili sfumature di blu inconfondibili, diverse da quelle di Monet; il pittore delle foreste e della neve, dei picchi e delle vallate a primavera, delle cascate e dei ghiacciai. Ed anche il ritrattista, quasi mai sorridente, la cui angoscia ricade sui modelli, ripresi sempre di fronte; il pittore dei ritmi, dell'armonia e della danza che osserva i gesti, scruta gli atteggiamenti e sintetizza i movimenti. E, soprattutto, il pittore della morte. Due delle compagne della sua vita, Augustine Dupin e Valentine Godé-Dorel, morirono tragicamente di cancro. Hodler dipinge la loro agonia e i suoi quadri, in particolare la serie dedicata a Valentine, sono da considerarsi senza alcun dubbio tra le opere più toccanti della pittura europea dei primi decenni del XX secolo, quello della «Belle époque».
Traduzione di Elena Fontana
FERDINAND HODLER Parigi, Museo d'Orsay, sino al 3 febbraio. Tel. 00331/40494814

Repubblica 20.1.08
Atei devoti nel giardino del Papa
di Eugenio Scalfari


NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull'agitato rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e spazio privato.

Questi e altri temi strettamente connessi sono infatti della massima importanza per il rafforzamento delle regole di convivenza sociale in uno Stato democratico, ma si evolvono e maturano con il passo lento dei processi storici. È quindi, o almeno così sembra a me, inutile e forse dannoso dibattere quotidianamente temi che sono già chiari alla coscienza di molti anche se le risposte di una società complessa non sono univoche ma plurime.

Capisco la voglia di farle convergere, capisco anche il legittimo desiderio dei credenti e di chi li guida a spingere i non credenti verso le loro convinzioni di fede per guadagnar loro la salvezza, ma capisco meno la petulanza ripetitiva che talvolta accoppia lo slancio missionario con un'attività pedagogica fondata sulla ferma credenza di chi depositario della verità considera come inferiori intellettualmente e spiritualmente quanti dissentono dal suo zelo religioso o ne accettano alcuni principi ispiratori respingendone la precettistica che l'accompagna.

Il dibattito sulla presenza-assenza del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza ha rinfocolato alcune differenze sui modi di pensare e sui comportamenti pratici che ne derivano.
Il Vicario di Roma, cardinal Camillo Ruini, ha lanciato da giorni l'appello ad un'adunata di massa all'"Angelus" di oggi in piazza San Pietro. L'adunata ha preso inevitabilmente la forma politica che è propria delle manifestazioni di massa, dove è più il numero che la qualità a determinare gli esiti di una politica "muscolare".

Così bisogna di nuovo affrontare quei temi, precisare il significato di gesti e di parole, capire, se possibile, il senso di ciò che accade. La storia dello Stato italiano è fortemente intrecciata con quella della Chiesa. In nessun altro Paese questo intreccio è stato tanto condizionante e la ragione è evidente: siamo il luogo ospitante del Capo della cattolicità. Siamo stati e siamo il "giardino del Papa", ci piaccia o no. Questa condizione ha determinato in larga misura la nostra storia sociale e nazionale. Nel positivo e nel negativo, nelle azioni degli uni e nelle reazioni degli altri. Le persone ragionevoli non dovrebbero mai dimenticare queste condizioni di partenza, ma spesso purtroppo accade il contrario.
* * *
Metto al primo posto del mio ragionare l'incidente della Sapienza. Su di esso si è già espresso il nostro direttore ed io concordo interamente con lui: una laicità malata ha suggerito ad un gruppo di docenti e di studenti comportamenti di contestazione in sé legittimi ma divenuti oggettivamente provocatori. Di qui la necessità di garantire la sicurezza dell'insigne ospite, di qui la possibilità di tumulto tra opposte fazioni, di qui infine il fondato timore che Benedetto XVI dovesse parlare nell'aula magna mentre sotto a quelle finestre i lacrimogeni e i manganelli avrebbero potuto esser necessari: spettacolo certamente insopportabile per il "Pastor Angelicus" che predica pace e carità.

La contestazione "stupida", tuttavia, non è nata dal nulla ed è l'effetto di varie cause, anch'esse ricordate nell'articolo di Ezio Mauro: l'invito incauto del Rettore nel giorno, nell'ora e nel luogo dell'inaugurazione dell'anno accademico. Non dovrebbe essere un evento mondano e mediatico bensì l'indicazione delle linee-guida culturali e dei problemi concreti della docenza e degli studenti.

Il Rettore, evidentemente, ha un altro concetto, voleva l'evento. E l'ha avuto col risultato di dividere l'Università, la società, la cultura, le forze politiche, in una fase estremamente delicata della nostra vita pubblica.

Un esito catastrofico da ogni punto di vista, di cui il Rettore dovrebbe esser consapevole e trarne le conseguenze per quanto lo riguarda. Ci saranno tra breve le elezioni del nuovo Rettore. Quello attuale vinse la precedente tornata per una manciata di voti. Questa volta si presenterà come quello che voleva che il Papa parlasse alla Sapienza e ne è stato impedito. Un "asset" elettorale di notevole effetto.

Mi auguro che il Rettore non se ne renda conto, ma in tal caso la sua intelligenza risulterebbe assai modesta. Se se ne rende conto, il sospetto di un invito con motivazioni elettoralistiche acquisterebbe fondatezza.
Per fugarlo non c'è che un rimedio: protestare la sua ingenuità e non presentarsi in gara. I guelfi e i ghibellini nacquero anche così.
* * *
La risposta della gerarchia, guidata ancora da Ruini, è stata l'adunata di stamattina. Mentre scrivo non so ancora quale sarà l'esito quantitativo ma prevedo una piazza gremita e un mare di folla fino al bordo del Tevere. È un evento da salutare con piena soddisfazione? È una "serena manifestazione di affetto e di preghiera" per testimoniare l'amore dei fedeli al Santo Padre? Certamente è una manifestazione più che legittima.

Certamente le presenze spontanee saranno robustamente rinforzate dalle presenze organizzate, treni e pullman sono stati ampiamente mobilitati senza risparmio di mezzi dal Vicario del Vicario. La motivazione è esplicita: dimostrare al Papa l'amore del suo gregge dopo l'offesa subita.

Se questa non è una motivazione politica domando al Vicario del Vicario che cosa è. Se questo non avrà come effetto di acuire la tensione degli animi, la lacerazione d'un tessuto già usurato e logoro, ne deduco che il Vicario è privo di intelligenza politica. Ma siccome sappiamo che invece ne è ampiamente provvisto, ne consegue che il Vicariato di Roma si prefigge di accrescere la tensione degli animi e di annunciare venuta l'ora di rilanciare il partito guelfo che ha sempre avuto in cuore.

La Segreteria di Stato vaticana è dello stesso avviso? La Chiesa è unanime in questo obiettivo?
* * *
Abbiamo celebrato giovedì scorso in Senato il senatore, lo storico, il fervido credente Pietro Scoppola, da poco scomparso, alla presenza di molti cattolici che hanno condiviso il suo pensiero e la sua fede e si propongono di continuare nell'impegno da lui auspicato.

Scoppola aveva scavato a fondo nella storia dei cattolici italiani e nell'atteggiamento di volta in volta assunto dalla gerarchia e dal magistero papale. Distingueva il popolo di Dio dalla gerarchia; sosteneva che la gerarchia è al servizio del popolo di Dio e non viceversa.

Mi ha fatto molto senso vedere, proprio alla vigilia del mancato intervento del Papa alla Sapienza, la messa celebrata da Benedetto XVI nella Sistina col vecchio rito liturgico rinverdito a testimoniare la curva ad U rispetto al Concilio Vaticano II: il Papa con la schiena rivolta ai fedeli e la messa celebrata in latino.
Qual è il senso di questa scelta regressiva se non quello di ribadire che il mistero della trasformazione del vino e del pane in sangue e carne di Gesù Cristo viene amministrato dal celebrante senza che i fedeli possano seguire con gli occhi e in una lingua sconosciuta ai più? Il senso è chiarissimo: l'intermediazione dei sacerdoti non può essere sorpassata da un rapporto diretto tra i fedeli e Dio. Il laicato cattolico è agli ordini della gerarchia e non viceversa. Lo spazio pubblico è fruito dalla gerarchia e - paradosso dei paradossi - dagli atei devoti che hanno come fine dichiarato quello di utilizzare politicamente la Chiesa.
* * *
Si continua a dire, da parte della gerarchia e degli atei devoti, che i laici-laici (come vengono chiamati i credenti veramente laici e i non credenti che praticano la laicità democratica) vogliono relegare la religione nello spazio privato delle coscienze.

Questa affermazione è falsa. Chi pratica la laicità democratica sostiene che tutte le opinioni dispongono legittimamente di uno spazio pubblico per esporre e sostenere i loro modi di pensare.

La libertà religiosa è una, e direi la più importante, da tutelare sia nel foro della coscienza che in quello pubblico. Non mi pare che difetti quello spazio, mi sembra anzi che la gerarchia lo utilizzi pienamente anche a scapito di altre religioni e massimamente di chi non crede e potrebbe in teoria reclamare uno spazio più confacente.

Ma noi non abbiamo obiettivi di proselitismo. Facciamo, come si dice, quel che riteniamo di dover fare, accada quel che può. Tra l'altro cerchiamo di amare il prossimo e riteniamo che la predicazione evangelica contenga grande ricchezza pastorale quando non venga stravolta in strumento di potere, il che è accaduto purtroppo per gran parte della storia del Cristianesimo da parte non del popolo di Dio ma della gerarchia che l'ha guidato con l'obiettivo del temporalismo e del neo-temporalismo.

La lettura della storia dei Papi insegna molte cose e, quella sì, andrebbe fatta nelle scuole pubbliche. Papa Wojtyla ha chiesto perdono per alcuni di quegli episodi, ma non poteva certo chiederlo per tutti: avrebbe certificato che per secoli e secoli la gerarchia si è messa sul terreno della politica, della guerra ed anche purtroppo della simonia piuttosto che praticare nello specifico il messaggio di pace e di povertà della predicazione evangelica.
* * *
Ci saranno modi e occasioni per riprendere questo discorso che tende a chiarire ciò che non sempre è chiaro.

Mi restano due osservazioni da fare. Giornali di antica tradizione laica sembrano aver perso la bussola e si schierano apertamente accanto agli atei devoti.
Di atei devoti la storia d'Italia è purtroppo gremita.
L'ultimo nella fase dell'Italia monarchica fu Benito Mussolini. In tempi di storia repubblicana gli atei devoti fanno ressa e la faranno anche oggi alle transenne di piazza San Pietro.

Questa prima osservazione mi conduce alla seconda.
L'onorevole Mastella nella sua conferenza stampa di Benevento, mentre gli grandinavano addosso pesanti provvedimenti giudiziari, ha fatto come prima affermazione quella relativa alla sua presenza oggi a piazza San Pietro.

Dopo averla fatta si è guardato fieramente intorno con sguardo lampeggiante e ha scandito: "Io sono con il Papa e andrò a testimoniarlo in piazza".
Ne ha pieno diritto. Personalmente mi auguro che i pretesi reati di Mastella, di sua moglie, del suo clan, si rivelino per una montatura. Ma il problema è sul comportamento politico e morale di Mastella, di sua moglie del suo clan.

Un comportamento clientelare e ricattatorio che non ha scuse di sorta, rappresenta una deviazione molto grave dalla democrazia. Non è assolutamente valida la giustificazione proveniente dal fatto che si tratta di un male diffuso.

Negli stessi giorni della "mastelleide" abbiamo assistito anche alla "cuffareide": il popolo non di Dio ma di Totò Cuffaro si è radunato in preghiera nelle chiese della Sicilia; il "governatore" ha pianto di gioia e si è fatto il segno della croce quando ha ascoltato la lettura della sentenza dalla quale è stato condannato a cinque anni di reclusione (che non farà) e all'interdizione dai pubblici uffici che non rispetterà.

Il capo del suo partito, Casini, e il capo della coalizione di centrodestra, Berlusconi, si sono immediatamente complimentati con lui.

Che cos'ha di cattolico il comportamento di Clemente Mastella e di Totò Cuffaro? Nulla. Anzi è il contrario dello spirito cristiano.

Fossi nei panni del Vicario del Vicario farei discretamente e con mitezza sapere a Mastella, a Cuffaro, a Berlusconi, a Casini, che i loro comportamenti sono a dir poco imbarazzanti per la Chiesa e forse farebbero bene a non presenziare manifestazioni di testimonianza cristiana. Ma se poi si venisse a sapere che anche Camillo Ruini è un ateo devoto? Del resto sarebbe l'ultimo in ordine di tempo di un'interminabile sfilata di papi, cardinali, vescovi, abati, che tradirono - devotamente - il messaggio celeste del Figlio dell'uomo, da essi rappresentato.

Repubblica 20.1.08
Il leader radicale: è come dire che Mussolini parlava poco
Pannella conta le presenze tv "Fandonie la Chiesa zittita"
"Al Tg1 gli spazi riservati ai capi cattolici superano quelli del capo del governo"
di Alberto Custodero


ROMA - «La censura al Vaticano è una bufala, il Papa parla agli italiani attraverso la televisione più del capo dello Stato e del presidente della Repubblica». Dopo le polemiche sulla mancata partecipazione di Benedetto XVI all´inaugurazione dell´anno accademico della Sapienza, i radicali Marco Pannella, Emma Bonino, Rita Bernardini e Sergio D´Elia hanno presentato la classifica delle presenze nelle edizioni principali dei Tg di Giorgio Napolitano, di Romano Prodi, dei ministri del governo, e, infine, della Santa Sede. Secondo questi dati, il Papa e gli esponenti della chiesa cattolica sono stati presenti al Tg1 per 26 ore e 35 minuti dal 19 aprile 2005 (elezione di Benedetto XVI), al 14 gennaio scorso, per una percentuale del 29,13 per cento, superiore a quella registrata dalle presenze del presidente del Consiglio (18 ore e 32 minuti, 20,31 per cento), e del presidente della Repubblica (13 ore e 47 minuti, 15,1 per cento). Stessa classifica di presenze al Tg2, con il Papa e gli esponenti della Chiesa al 32,1 per cento, mentre al Tg3 il pontefice scende al terzo posto (20 per cento), dietro al presidente del consiglio (24,7 per cento).
Per Pannella, l´Italia è un «Paese dove il capo di una chiesa si esprime in quantità e qualità senza precedenti al mondo». Il leader radicale ha sottolineato questa "invasione" richiamando l´epoca fascista: «Il giochetto di dire "non s´è fatto parlare il povero papa" non sta in piedi. Sarebbe come voler raccontare che nell´Italia degli anni ´30 si toglieva la parola a Mussolini».
Per elencare le cifre che testimoniano la «presenza pervasiva del Vaticano nelle case degli italiani» attraverso il mezzo televisivo, i Radicali hanno scelto la piazza di fronte al colonnato di San Pietro. L´iniziativa si è svolta ieri perché la manifestazione programmata per oggi - distribuire volantini con i dati delle presenze-tv in piazza San Pietro - è stata vietata dalla Questura.

Repubblica 20.1.08
Flores d´Arcais: "Immotivate le scuse di Napolitano al Pontefice"


ROMA - «Dissenso», anzi «stupore e amarezza». Sono i sentimenti espressi dal direttore di MicroMega Paolo Flores D´Arcais riguardo «la lettera di scuse» che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato al papa a proposito della sua mancata visita alla Sapienza. In una lettera aperta pubblicata oggi su Liberazione, il filosofo afferma che «di tali azioni di intolleranza, di cui s´è tanto parlato, non c´è traccia alcuna nei fatti».

Repubblica 20.1.08
Auschwitz mai vista
Una giornata nel lager Per la prima volta viene pubblicato in Italia uno straordinario documento fotografico: l´arrivo e l´eliminazione degli ebrei, le ultime immagini prima del buio
di Simonetta Fiori


È la primavera del 1944. Due ufficiali nazisti scattano centinaia di foto agli ebrei sottoposti alla "Selektion" per documentare l´efficienza della loro macchina di morte Ora l´"Album Auschwitz", dopo una storia rocambolesca, viene pubblicato in Italia da Einaudi. E svela i volti e i gesti di uomini, donne e bambini sull´orlo dell´abisso
Lili Jacob cercava una coperta e trovò le immagini di gente che conosceva bene
Solo nel 1980 Lili si decise a separarsi dall´album per darlo allo Yad Vashem

Cercava una coperta per riscaldarsi, ma nel vecchio armadio dell´infermeria Lili Jacob trovò un album spiegazzato. Non era il momento per guardare le fotografie - nel campo di concentramento di Dora erano appena arrivati gli alleati - ma alla giovane deportata bastò un attimo per capire che quelle immagini le appartenevano. C´erano i suoi fratellini là dentro, Sril e Zelig, nei loro cappottini impreziositi dagli alamari, e il nonno Abraham con la nonna Sheindele leggermente ricurvi sui bastoni, guarda c´è anche il cugino Mendel con quella sua aria da signorino, e la zia dall´espressione un po´ corrucciata. Erano foto di famiglia, anzi di famiglie, con il rabbino e suo fratello, l´avvocato Hegedush in doppiopetto e borsalino, la signora Falkovics nel suo tailleur impeccabile nonostante il viaggio sul carro bestiame, e tutti quei bambini accalcati lungo i binari, le manine intrecciate a quelle dei grandi, lo sguardo perso tra incredulità e timore. E le gigantesche stelle gialle, ingombranti e fuori misura, surreali come tutto il resto.
Lili ricordava bene quella giornata di maggio ad Auschwitz, il loro arrivo nel campo di Birkenau nella primavera del 1944. Erano le ultime ore trascorse con i suoi. Avevano viaggiato per giorni stipati in soffocanti vagoni dalla Rutenia carpatica, una regione dell´Ungheria. Sulla banchina centrale, affollata di gente e bagagli, tutto sembrava incomprensibile e folle. Ma era ancora vita, pur nei suoi ultimi residui di dignità.
I gesti premurosi delle madri, la complicità tra le donne, i sorrisi incerti dei più vecchi, anche la curiosità verso quell´obiettivo che li riprendeva. Vite sospese, non ancora sfigurate dallo sterminio. Una marcia inconsapevole verso le camere a gas. Lei no, Lili s´era salvata, unica sopravvissuta della sua famiglia. «Abile al lavoro», aveva decretato il Caronte in divisa, con la pacata sicurezza di chi svolge il suo ufficio di ogni giorno. Il braccio elevato verso sinistra significava la Lagerstrasse e la Zentralsauna, ossia i campi di lavoro. Il gesto contrario indicava i forni crematori. Prima però c´era la sosta nel bosco di betulle, l´ultimo inganno. Ecco tra le fotografie scattate nel verde del Birkenwald la piccola Gertel Mermelstein, la bambina infiocchettata, che fa le polpettine con la terra. Un momento di sollievo all´aria aperta, pensò Lili mentre sfogliava le pagine, una "scampagnata" proprio davanti alle "docce". La giovane donna strinse a sé quell´album e il segreto che custodiva. Gli ultimi istanti prima del buio.
Mostra la vita, non la morte, questa testimonianza visiva senza precedenti sullo sterminio, quasi duecento fotografie pubblicate ora per la prima volta in Italia. Ed è forse questo slittamento a toccare le corde più profonde. «Un senso di disagio interiore molto forte», confessa Marcello Pezzetti, curatore dell´Album Auschwitz e direttore del nuovo Museo della Shoah in allestimento a Roma. Non più volti scarnificati, cumuli di scarpe ed occhiali, uomini senza capelli e senza nome da cui ci si ritrae perché altro da sé. Non più il disumano di Primo Levi o l´Urlo di Munch. Sotto l´obiettivo professionale di due ufficiali nazisti, incaricati del reportage dalla fabbrica della Shoah, scorrono scene di vita quotidiana. Cittadini europei che marciano ignari verso i forni crematori. «Ci appartengono, sono parte di noi», dice Pezzetti. In loro riconosciamo i nostri gesti più ordinari, espressioni d´amore o d´angoscia, anche inattese solidarietà, i figli più grandi che badano ai più piccoli, i bambini con le mani in bocca, le nonne che vegliano. E soprattutto gli sguardi: occhi pieni di stupore e innocenza, occhi che interrogano, occhi che non sanno - commenta con sottigliezza Simone Veil - e dunque non possono comprendere le lacrime di noi che li guardiamo, testimoni muti e consapevoli. Nato per documentare la straordinaria efficienza della macchina della morte, l´Album Auschwitz finisce per ritrarre la vita. Quei momenti preziosi a un passo dall´inferno.
Della "Selektion" è documentata ogni fase, dall´arrivo sulla rampa alla confisca dei beni e alla condanna finale, ma la macchina fotografica degli ufficiali Bernhard Walter ed Ernst Hofmann si ferma davanti al cancello del crematorio. No, lì non si entra, è meglio non mostrare. Si fa finta che sia una doccia di disinfestazione, e anche gli ebrei si illudono. «Ricordatevi il numero dell´appendiabito», suggerisce gentile il medico nazista, lo stesso che li ha selezionati, «così dopo ritroverete la vostra roba». In dieci minuti è finito tutto. Le macchine della Top & Söhne di Erfurt fanno il resto. Ma quello nell´album non si vede, non è buona propaganda.
Non traspare violenza né aggressività in queste foto. Le Ss hanno messo via fruste ed armi, non urlano più, anche i loro corpi appaiono distesi. «Siamo nella fase più alta e perfetta della soluzione finale», dice Pezzetti. «I nazisti avevano capito che, per uccidere il maggior numero di ebrei nel minor tempo possibile, c´era bisogno d´ordine. E l´ordine si otteneva non con la forza ma con la finzione, con le parole ingannevoli». È la filosofia espressa da Maximilien Aue, il ripugnante ufficiale delle Einsatzgruppen ritratto da Jonathan Littell in Le Benevole. «Una donna vedendomi mi domandò indicandomi suo figlio "Herr Offizier! Potremo restare insieme?". "Non si preoccupi signora, non sarete separati". L´importante era rasserenarli, non suscitare reazioni agitate». E infatti non c´è disperazione nei volti di questi deportati, solo occhi che chiedono una risposta.
Non sarà facile, nel dopoguerra, persuadere Lili a cedere l´album avventurosamente ritrovato. Era la sua storia, e quella della sua famiglia. Era la storia della sua comunità, un gruppo di ebrei ungheresi cresciuti nelle campagne, piccoli artigiani e commercianti, ma anche avvocati, medici, farmacisti, cantanti riconoscibili dagli spolverini eleganti, una comunità catapultata un giorno di primavera nell´anticamera dell´inferno. Solo col tempo Lili comprenderà il valore pubblico di quelle immagini, grazie alle quali nel 1964 una ventina di carnefici fu condannata all´ergastolo. Ma anche lì, sul banco dei testimoni al processo di Francoforte, Lili si oppose alla richiesta del presidente di separarsi dall´album: era un pezzo della sua vita. Fu Serge Klarsfeld, celebre cacciatore di nazisti, a convincerla a regalare le foto allo Yad Vashem di Gerusalemme. Nell´agosto del 1980 Lili si decise a fare il gran passo. «Mi sono tolta un peso dal cuore», disse la donna mentre con le mani tremanti consegnava l´album al museo della Shoah. Il "documento sacro" di Auschwitz non era più solo una storia sua, era storia di tutti.

Repubblica 20.1.08
"Io, per sempre dentro quel lager"
di Shlomo Venezia


Ero ad Auschwitz-Birkenau già da un mese quando nel maggio del 1944 arrivarono gli ebrei ungheresi dalla Rutenia carpatica. Lavoravo nel Crematorio III, un grande edificio che in queste fotografie s´intravede sul fondo, una torretta alta sulla destra rispetto alla rampa d´arrivo. Facevo parte del Sonderkommando, la squadra speciale addetta ai forni, e sono stato uno dei pochissimi deportati ebrei a essere uscito vivo da lì. Ho visto l´inferno, ma per cinquant´anni me lo sono tenuto dentro, anche per paura di non essere creduto.
L´ Album Auschwitz ha il potere di riportarmi là dentro, tra i gironi dell´Ade, anche se in fondo non ne sono mai venuto via. Tento di proteggermi da queste immagini sfiorandole appena con gli occhi, però riconosco ogni dettaglio, anche il più minuto, perfino i bastoni degli anziani, che tra le nostre mani divennero macabri utensili di lavoro. Ritrovo i volti ignari di quella gente, gli sguardi innocenti di chi va alla morte senza saperlo. Riconosco i loro poveri sacchi, preparati con l´illusione di trovare a Birkenau una nuova casa. Sento le loro voci lontane, un chiacchiericcio indistinto che mi sorprese, nei primi giorni di lavoro nel campo, tra le foglie d´argento del bosco di betulle.
Avevo vent´anni, quando arrivai ad Auschwitz dalla Grecia. Fui selezionato per il lavoro nel Crematorio, il peggiore che mi potesse capitare.
Naturalmente non avevo idea di cosa mi aspettasse, finché non ebbi la curiosità di dare un´occhiata all´interno del fabbricato: rimasi come paralizzato, e ancora quell´immagine di morte mi tormenta. Il primo giorno mi chiesero di ramazzare fuori dall´edificio, togliere le erbacce e pulire un po´ il terreno, forse per tenermi ancora distante dall´orrore. L´indomani mi fu consentito di varcare il cancello, per poi scendere nel sottosuolo. Là, nello spogliatoio, una sorta di anticamera della camera a gas, erano ammucchiati i panni dei deportati, che dovevano essere consegnati agli uomini del Kanada Kommando.
Finito il turno, verso le prime ore del pomeriggio, fummo condotti in un boschetto di betulle, lo stesso che fa da sfondo ad alcune di queste foto. Ricordo ancora la sensazione di sollievo, il profumo del verde e uno strano silenzio interrotto appena dal fruscio delle foglie: era come una pausa nella devastazione interiore prodotta dalla mia recente scoperta. D´improvviso, alle nostre spalle, avvertimmo un gran vociare. Erano i nuovi deportati, centinaia di vecchi, donne e bambini che erano stati portati tra gli alberi in attesa della "doccia". Il Kapo ci costrinse in un angolo, bisognava evitare qualsiasi contatto. Ma io mi sporsi di lato e vidi intere famiglie mettersi in coda davanti a un piccolo bunker, le prime camere a gas di Auschwitz. Un serpente umano animato da un fervore bizzarro. Era stato loro promesso che, dopo la "disinfestazione", sarebbero stati trasferiti in un campo per famiglie e che lì avrebbero ritrovato i loro cari al rientro dal lavoro. Di conseguenza si fidavano, anzi avevano fretta di entrare per poter riabbracciare prima i loro affetti. Qualcuno ha scritto che non ci sarà mai nessuno tanto innocente quanto le vittime sulla soglia delle camere a gas. Questo fu Auschwitz-Birkenau, e l´Album ne è la più straordinaria testimonianza visiva: una gigantesca e atroce finzione, il più grande inganno della storia.
Ho lavorato per quasi un anno dentro la macchina dello sterminio, chissà quante volte ho chiuso la pesante botola di cemento sulle camere a gas invase dal micidiale Zyklon B, e c´è ancora chi mi chiede se ho sensi colpa. Bisogna esserci stati là dentro, per comprendere. Non avevamo scelta, al primo rifiuto i tedeschi erano pronti a sopprimerci. Talvolta m´illudevo di portare conforto ai condannati, anche con semplici gesti. Non posso dimenticare lo sguardo mortificato d´una giovane donna, scesa giù nello spogliatoio insieme ai suoi due bambini. Una signora elegante, dai modi ricercati, come se ne scorgono anche nelle fotografie dell´Album. Sembrava una statua di cera nella gran confusione dei dannati. Non accennava un gesto, tanto meno quello di togliersi il vestito. Prima che intervenisse una Ss con la frusta, mi avvicinai con garbo e in francese le dissi di affrettarsi. Se provava vergogna, avrei fatto io da paravento. Mi scrutò incerta tra umiliazione e gratitudine, poi scivolò silenziosa dentro la camera a gas.
Anche i prigionieri del Kanada Kommando, riconoscibili per la divisa a righe, suggerivano parole rasserenanti, anche consigli di sopravvivenza. Talvolta, prima della selezione, riuscivano a salvare qualche vita. «Quanti anni hai?», chiedevano non visti ai più giovani. «Quattordici». «No, ne hai diciotto. Capito, devi dire diciotto…». Nell´anagrafe poteva esserci condanna o salvezza. Sempre loro, gli uomini del Kanada Kommando, toglievano i figli dalle braccia delle donne, per affidarli premurosamente alle nonne: era un modo per salvare la vita delle madri. Ne avevano il diritto? Per decenni hanno continuato a chiederselo.
Sfoglio l´Album e mi ballano in testa mille ricordi. Quando arrivarono gli ebrei ungheresi, sul finire di maggio, i binari entravano fin dentro il campo: i deportati, in questo modo, potevano raggiungere ordinatamente a piedi i loro patiboli. Io invece ero sceso un po´ prima, sulla Judenrampe, a qualche centinaio di metri dall´ingresso di Birkenau. I nazisti non avevano ancora terminato i lavori ferroviari, progettati per rendere il più efficiente possibile la fabbrica dello sterminio. C´era una gran confusione sulla rampa, cumuli di bagagli abbandonati. «Alle runte! Alle runte! Tutti giù, tutti giù», urlavano i nazisti, ma non era facile saltare dai vagoni sulla piattaforma. M´ero voltato per aiutare mia madre, quando la vista improvvisamente s´annebbiò: il manganello d´una Ss era piombato violentemente sulla mia testa. Bastò un attimo per perdersi. Mia madre non l´avrei più rivista, né lei né due sorelline.
Se penso ad Auschwitz, risento l´odore della morte. Per tanto tempo l´ho trattenuto tra le mani. Al fetore della carne bruciata che ti avvolgeva appena arrivato a Birkenau si mescolarono ben presto i miasmi delle camere a gas. In tanti anni non me ne sono liberato. Qualsiasi cosa faccia e qualsiasi cosa veda, tutto mi riporta nel campo. Lo dico sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole: non si esce mai davvero dal Crematorio. Quella torretta in fondo a destra, nelle prime pagine dell´Album: là è rimasta la mia anima.
(L´autore nel 2007 ha scritto un libro di memorie, Sonderkommando Auschwitz. La verità sulle camere a gas. Una testimonianza unica, 238 pagine, 17,50 euro, pubblicato da Rizzoli)

Repubblica 20.1.08
I figli delatori
Inferno di famiglia nell'era Stalin
di Sandro Viola


"Io, Nikolaj Ivanov, rinuncio a mio padre, perché per molti anni egli ha ingannato il popolo..." Dichiarazioni come questa venivano regolarmente pubblicate dai giornali sovietici durante il Terrore. Denunciare un genitore - e condannarlo così a morte - fu per molti l´unico modo di salvarsi, dimostrando la propria fedeltà al partito Il libro di uno storico ricostruisce questa tragedia privata e collettiva
Il quindicenne Pavel Morozov, ucciso a bastonate probabilmente dai parenti del papà che aveva fatto arrestare e fucilare, fu dato a modello a un´intera generazione

Nel settembre 1932, quando il potere di Stalin sul partito e sulla Russia era ormai consolidato, in un villaggio della Siberia occidentale, Gerasimovka, venne scoperto il cadavere d´un ragazzo di quindici anni, Pavel Morozov, ucciso a bastonate. In paese Pavel era conosciuto per aver denunciato suo padre Trofimov con l´accusa d´essere un oppositore del partito e d´aver cercato di proteggere alcuni kulaki, i contadini che s´erano opposti alla collettivizzazione finendo (quando la polizia politica, la Nkvd, non li aveva messi al muro già nei loro villaggi) nei campi di lavoro del Gulag.
Durante il processo contro il padre, Pavel aveva affermato di non riconoscerlo più come tale. «Non sono più suo figlio», aveva detto: «Adesso io sono un Pioniere, e la mia famiglia è il partito». Il ragazzo si riferiva all´organizzazione giovanile dei Pionieri, i Balilla della Russia staliniana, che in quegli anni era divenuta uno degli strumenti più invasivi con cui il partito esercitava il suo controllo sulla società sovietica. I giornali della regione dettero subito un enorme risalto all´episodio, descrivendolo come un contributo essenziale a quella costruzione dell´«uomo nuovo» su cui si concentrava da tempo la propaganda comunista. E infatti il processo terminò senza sorprese. Il padre di Morozov venne prima spedito in un campo di lavoro, e più tardi fucilato.
Così, quando alcuni mesi dopo il ragazzo venne ucciso (probabilmente dai parenti del padre) nacque nei giornali della gioventù, nelle scuole, al cinema e in teatro, il culto di Pavel Morozov. Da un capo all´altro dell´Urss si celebrò il suo eroismo. Venne plasmato il modello del Pioniere pronto a mandare i genitori o i fratelli dinanzi al plotone d´esecuzione, pur di ribadire la sua fedeltà al partito. La delazione contro i familiari venne incensata come il massimo del patriottismo, la prova decisiva dell´attaccamento all´ideale comunista e a Stalin. Maxim Gorki (che era da poco rientrato in Russia dopo l´esilio italiano) propose di erigere un monumento al martire Morozov. Vennero composte canzoni, girati film, messi in scena drammi, tutti inneggianti al «perfetto Pioniere» che aveva perso la vita per non tradire gli ideali del comunismo.
Il culto si diffuse rapidamente, ingenerando l´emulazione: nei tre o quattro anni successivi, i casi di figli che denunciavano i padri per motivi politico-ideologici si moltiplicarono, l´uno più atroce dell´altro. Un Pioniere di nome Sorokin denunciò il padre che aveva sottratto qualche chilo di grano dai depositi del kolchoz. Un altro, Seriozha Fadeev, si levò in piedi a scuola dichiarando che suo padre aveva nascosto un sacco di patate invece di consegnarlo, come avrebbe dovuto, all´ammasso. Un tredicenne - Pronia Kolibin - fece arrestare sua madre, colpevole d´avere anch´essa portato in casa un po´ di grano del raccolto del kolchoz. Pronia venne premiato con una vacanza nel campo dei Pionieri in Crimea, la madre sparì nel Gulag.
La Pionerskaia Pravda pubblicava regolarmente i nomi dei giovanissimi delatori con tutti i dettagli sulle loro imprese. Nel pieno del culto di Pavel Morozov, verso la metà dei Trenta, la prova dei sentimenti patriottici e della corretta formazione politica d´un Pioniere finì quasi con l´identificarsi nella disponibilità a denunciare i propri parenti. Non solo: un foglio provinciale della gioventù comunista giunse a teorizzare che un Pioniere il quale non si fosse mostrato zelante nel dare informazioni sulla sua famiglia, avrebbe dovuto essere visto lui stesso come un elemento sospetto.
In molti casi, la denuncia non scaturiva dalle convinzioni ideologiche del Pioniere (o dai suoi fantasmi), bensì da motivi più concreti. Bastava infatti il timore che un familiare già sorvegliato dalla Nkvd potesse rappresentare un ostacolo ai programmi dell´adolescente, costargli l´espulsione dal Komsomol o addirittura dalla scuola, ed ecco la delazione. In questi casi non si trattava propriamente di denunce quanto d´una pubblica rottura dei rapporti familiari. Il Pioniere s´affrettava a dichiarare di non considerarsi più legato a tale o tal´altro membro della famiglia, a causa delle loro idee e comportamenti anti-partito. C´erano perciò degli appositi formulari da riempire, che venivano poi pubblicati dai giornali. Per esempio: «Io, Nikolaj Ivanov, rinuncio a mio padre, un ex prete, perché per molti anni egli ha ingannato il popolo sostenendo che dio esiste, e questa è la ragione per cui io rompo ogni rapporto con lui». Tali atti di separazione, di distacco legale dal gruppo familiare davano così luogo a due destini diversi. Il figlio delatore s´avviava verso una normalità di "homo sovieticus", un lavoro, una carriera, mentre i parenti denunciati scomparivano dietro i reticolati del Gulag.
Queste vicende al limite dell´inverosimile, forse mai accadute nella storia se non nella Russia sovietica, si leggono nelle settecento pagine dell´ultimo libro di Orlando Figes, The whisperers, i sussurranti. Docente di storia all´Università di Londra, Figes aveva già scritto due bellissimi libri d´argomento russo. Uno, La tragedia d´un popolo, sulla rivoluzione bolscevica; e l´altro, La danza di Natascia, sugli intrecci tra cultura popolare e cultura "alta" nella Russia dell´Otto-Novecento. Mentre The whisperers è un grande affresco della vita familiare nella «patria del comunismo». L´impressionante descrizione dei timori, dei silenzi obbligati, delle avversioni e dei traumi affettivi che lacerarono le famiglie negli anni della tirannia di Stalin, e poi ancora sin quasi all´agonia dell´Urss.
Partendo dagli anni immediatamente post-rivoluzionari, il libro racconta come la voce dei russi finì ridotta, per il terrore che incuteva la polizia politica, ad un sussurro, un bisbiglio, un linguaggio cifrato. Qualsiasi frase o commento poteva divenire infatti la materia d´una denuncia alla Ceka prima, alla Ghepeù dopo, quindi alla Nkvd e infine al Kgb, gli organi della sicurezza statale che per decenni, con le loro diverse sigle, ebbero potere di vita e di morte nella Russia sovietica. La paura s´estese anche a persone mature, colte, e ormai uscite dall´ambito familiare. Nel 1931 il poeta e critico letterario Alexandr Tvardovskij, per esempio, che molti di noi giornalisti incontrarono a Mosca, nei primi Sessanta, come segretario della potente Unione degli scrittori, rispose con parole agghiaccianti ad una lettera inviatagli dalla famiglia esiliata per motivi politici negli Urali: «Io non posso scrivervi, e voi non scrivetemi».
Il pericolo del parlare con voce udibile dipendeva dalla quantità e dallo zelo dei delatori. Qualcuno poteva riferire un mugugno, una lamentela, un´imprecazione realmente uditi, per fanatismo ideologico. Convinto cioè di lottare contro i «nemici del popolo». Ma la delazione poteva avere ben altro scopo: liberarsi d´un rivale in amore, per esempio; ottenere una promozione; assicurarsi qualche metro quadrato in più nelle kommunalki, gli appartamenti in coabitazione dove vissero sino agli anni Settanta milioni di famiglie russe.
Un altro caso molto comune era quello del ricatto con cui le polizie obbligavano a trasformarsi in delatori persone incorse in un´infrazione, o loro stesse già denunciate per aver sparlato del regime, che divenivano così i sorveglianti dei colleghi, degli amici, del coniuge. Costoro potevano pensare per un momento d´essersi messi in salvo, al riparo dagli arbitri polizieschi. In realtà la loro sicurezza restava relativa, precaria, condizionale, affidata agli umori dell´agente che li aveva reclutati, il quale poteva sempre, un giorno o l´altro, rispolverare il dossier delle colpe e infrazioni del delatore decidendone l´invio in un campo di lavoro.
L´originalità e l´interesse storico del libro di Figes sta nel fatto che esso non è una nuova denuncia dei crimini stalinisti, o più in generale del sistema poliziesco dell´Urss. Ricavato da centinaia d´interviste, diari tenuti accuratamente nascosti, giornali dell´epoca, The whisperers cerca di spiegare in che modo lo stato di polizia mise radici tanto robuste in quello che secondo la propaganda comunista era il «paradiso dei lavoratori», coinvolgendo nella gigantesca macchina della delazione milioni di persone comuni. Le quali potevano scegliere soltanto tra due ruoli: o assistere in assoluto silenzio alla terribile repressione in atto, o collaborare con i persecutori.
Emerge così un inventario di centinaia di vite private nella Russia comunista, e da esse vengono molte risposte alle domande che gli storici si fanno da quando gli archivi dell´Urss hanno cominciato ad aprirsi. Come fecero i russi a gestire i loro più intimi rapporti, vale a dire quelli familiari, in un sistema governato dal terrore. Che cosa provavano e pensavano quando un marito o una moglie, un padre o una madre venivano improvvisamente arrestati come «nemici del popolo». La «doppia vita» cui essi furono costretti, dice Figes nell´introduzione al suo libro, angosciosamente divisi tra le norme della condotta pubblica nel paese dei Soviet e i valori, gli affetti, le tradizioni della famiglia d´origine. Come fecero a trovare un minimo di equilibrio tra il loro naturale, inevitabile senso d´ingiustizia e alienazione nei confronti del sistema, e la loro stringente necessità di sopravvivere ritagliandosi un posto all´interno di esso.
«Attento alla tua lingua», «I muri hanno le orecchie»: queste erano le frasi che i genitori ripetevano ininterrottamente ai figli. E una donna il cui padre venne arrestato nel ‘36, ricorda: «Fummo cresciuti con la consegna di tenere la bocca chiusa. Finirai con l´avere dei guai per colpa della tua lingua, era l´usuale rimbrotto che ci veniva rivolto. Così, entrammo nella vita con la paura di parlare. Mia madre ci diceva continuamente che eravamo circondati dagli informatori della polizia. E infatti eravamo sospettosi di tutti, a cominciare dai vicini». Non bisogna d´altronde dimenticare, spiega ancora Figes, che furono poche le famiglie non investite dal Terrore staliniano. Secondo stime prudenti, tra il 1928, l´anno in cui Stalin assunse il pieno controllo del partito, e la sua morte nel ‘53, i russi finiti negli artigli della polizia politica e poi destinati alla fucilazione o al Gulag, furono venticinque milioni.
La «doppia vita», vale a dire la scissione tra sentimenti personali e bisogno (cosciente o incosciente) di mimetizzarsi nell´universo sovietico, s´incarna al meglio in uno dei personaggi centrali del libro, Konstantin Simonov. Nato nel 1915 in una famiglia della piccola aristocrazia travolta dalla rivoluzione, facendo quindi parte della prima generazione comunista educata nel mito della Guerra civile e del trionfo bolscevico, Simonov è già da adolescente un fervido seguace del regime. Riesce ad occultare totalmente, anzi a rimuovere, la sua origine sociale, e si trasforma in un devoto del culto di Stalin. Il suo zelo politico-ideologico e le sue doti gli consentono una rapida ascesa nelle organizzazioni culturali del partito. Ma il giovane è dominato dal timore che la sua fedeltà al partito possa esser messa in dubbio, e questo lo porterà ad attaccare duramente un paio di colleghi con l´accusa di scarsa convinzione nei principi marxisti.
Con l´invasione nazista del ‘41, Simonov diventa un bravo e coraggioso corrispondente di guerra. Ma il grande successo verrà con una sua poesia, Aspettami, in cui un uomo al fronte assicura la donna amata che prima o dopo ritornerà a lei. Stampata in milioni di copie, messa in musica, Aspettami diventa il talismano dei soldati in battaglia, commuove le famiglie in attesa, entusiasma persino Stalin. La carriera e la fortuna di Simonov toccano così l´apice, e intanto lievita senza sosta, si fa fanatica, la sua devozione per il tiranno. Eppure l´uomo è a suo modo onesto. Adesso che è divenuto un personaggio influente, quando può dà una mano per togliere un amico dai guai. Ma sarà solo alla metà dei Cinquanta, con la morte di Stalin, che comincerà a riflettere sulla sua «doppia vita»: su quanto fosse dissennato il suo sforzo d´apparire un comunista senza macchia, sull´aver vissuto come un automa della propaganda sovietica.
Niente di simile alle storie raccolte da Figes s´era finora letto, se non forse (anche se in misura infinitamente più ridotta) nelle pagine di Vita e destino, il grande romanzo di Vasilij Grossman. Un filone letterario che in Russia, dopo Vita e destino uscito nell´88, non ha avuto più seguito. Sicché toccherà ancora agli storici, e probabilmente agli storici stranieri, descrivere che cosa fu la vita dei russi nel tragico settantennio comunista.

Repubblica 20.1.08
La nave delle donne spedite come pacchi
Schiave e padroni
di Albert Londres


il libro
Si intitola Buenos Aires le strade del vizio (304 pagine, 14,50 euro) il libro di Albert Londres che excelsior 1881 pubblica in questi giorni Londres, famoso per il premio a lui intitolato (il Pulitzer francese) è uno dei più grandi reporter di tutti i tempi. Nel 1920 fu tra i primi a intervistare Lenin e Trockij dopo la rivoluzione bolscevica; documentò gli orrori della Caienna francese; la tratta degli schiavi neri e delle schiave bianche come si legge nell'estratto pubblicato in queste pagine

Alla fine degli anni Venti il grande giornalista Albert Londres si imbarcò verso il Sudamerica per documentare la tratta delle bianche dalla Francia fino alle strade del vizio di Buenos Aires Ora quel viaggio tra protettori, sbarcatori e bordelli viene tradotto in Italia per la prima volta
Non vedono mai la luce del giorno durante il viaggio e si concede loro solo l´aria della notte
Quando le ragazze vengono scoperte e non sono abbastanza "carine", le reimbarcano

I"pacchi" scendono a Montevideo. È la piccola e graziosa capitale, ricca e tranquilla, della Repubblica Orientale dell´Uruguay. I pacchi, cioè le donne. Questo è il gergo delle persone dell´ambiente. Ci sono pacchi da diciassette a venti chili, cioè ragazze da diciassette a vent´anni. Quei pacchi non hanno peso. Hanno bisogno di documenti falsi e vengono imbarcati clandestinamente. Gli uomini dell´ambiente hanno complici su tutte le navi. Quando non si tratta di personale sottoposto, sono ufficiali. So bene quello che dico. Ai miei amici ufficiali di lungo corso della Marina, che rabbrividirebbero davanti a questa affermazione, potrei rispondere che non mi scandalizzo più di quando viene arrestato un giornalista corrotto che tributa onori o ricatta questi uomini di mondo o della finanza.
I "pacchi" clandestini viaggiano a modo loro. Se ne trovano nel fondo delle navi, camuffati da fuochisti. Durante le ispezioni, i complici li nascondono in una caldaia spenta, in una presa d´aria, in un cassone per le boe, nella sala macchine. Questi pacchi sono fragili, non vedono mai la luce del giorno durante il viaggio e si concede loro solo l´aria della notte, quando le luci sono basse e le stelle alte nel cielo.
Questi pacchi senza peso, senza passaporto e senza biglietto, non sempre si fermano a Montevideo, ma proseguono fino a Buenos Aires. Lì la nave sosta otto giorni, il tempo di farle filare via. Quando le ragazze vengono scoperte e non sono abbastanza "carine", le autorità sudamericane le reimbarcano sullo stesso vapore. Ma non si è mai sentito che una bella Franchucha venisse ricondotta a bordo. E capisco bene il perché.
Al di fuori di questi casi, lo sbarco avviene a Montevideo.
Non direi che l´Uruguay sia un Paese francofilo. Non ci sono Paesi francofili, e va bene così. Il giorno in cui i nostri governanti lo avranno capito, la nostra diplomazia avrà fatto un grande passo avanti nella scienza delle relazioni internazionali. Ma non è questo il punto.
L´Uruguay si fa molti riguardi nei nostri confronti. Così, per sbarcarvi, il francese non ha bisogno di visti. Inoltre i suoi funzionari non sono così animali come nel resto dell´America, dal Nord al Sud. Così animali o così mascalzoni. Non vi si avvicinano con un coltello per sventrarvi e controllare se la vostra appendice sia conforme alla lunghezza regolamentare, in mancanza della quale non potreste calcare, senza sporcarla, la terra delicata che oggi è diventata nazione dove i loro nonni, con mani e piedi sudici, sbarcarono un tempo come bovari.
L´Uruguay offre anche un altro vantaggio: i Mihanovitch.
Il signor Mihanovitch era polacco, ed era giunto molti anni prima in quelle regioni del Sud. Aveva fatto fortuna e poi era morto, lasciando dei battelli fluviali illuminati come casinò che vanno e vengono sul Rio de la Plata. Partono tutte le sere che il Creatore manda sulla terra, alle dieci, da Montevideo e da Buenos Aires, e tutte le mattine, che sempre il Creatore dovrebbe mandare sulla terra, arrivano alle otto a Buenos Aires e a Montevideo.
Sui Mihanovitch non si ha l´aria di grandi viaggiatori, ma quella di chi fa visita a un vicino. E la polizia vi lascia in pace. Così le donnine di quei signori vanno dall´Uruguay all´Argentina.
Il Malta entrò a Montevideo. Quella mattina Lucien Carlet non parlava più a Blanche Tuman. Le passava davanti come se non la conoscesse.
«È una cosa stupida, tutti sanno che lei sta con la ragazza!».
Mi rispose che sapeva quello che faceva.
«Le ho insegnato la lezione», mi disse. «Vada da lei e mi dica se l´ha imparata bene».
«Quale lezione?».
«Quello che deve dire ai poliziotti e che cosa deve fare».
La Gallina era in divisa. Copricapo nero, vestito nero, valigia al fianco. Per santa Maria Maddalena sua patrona, non aveva affatto un´aria fiera! Le feci coraggio. Mi disse che aveva molta paura.
«Allora, che cosa dirà ai poliziotti che la chiameranno nel bar per controllare i suoi documenti?».
«Non dirò niente. Se mi parleranno, dirò che vado da mia zia, che è sarta e abita… Ecco! Non lo so più. Ho dimenticato quello che mi ha detto. Non mi piace mentire. Che cosa farò?».
Feci un segno a Lu-lu, che si avvicinò subito.
«Dove abita mia zia? L´ho scordato».
«Posito. A Po-si-to. Capito? Ripetilo, su. È una spiaggia qui vicino. Ripetilo».
«Mi viene da piangere!».
«In nome di Dio!», disse Lu-lu, e se ne andò.
La nave stava accostando. Sul molo c´erano alcuni protettori francesi. Quel giorno se ne sarebbero andati a mani vuote: niente pacchi per loro. Dovevano saperlo, ma venivano in ogni caso, per abitudine. Lu-lu fece un cenno amichevole e loro risposero con discrezione. La faccenda era ben organizzata.
La polizia si era già installata nel bar della prima classe. Lì c´erano anche i passeggeri che scendevano a Montevideo. E dal ponte, attraverso una finestra, Lu-lu sorvegliava la sua mercanzia. Venne il turno della povera Gallina. I poliziotti le presero il passaporto. La ragazza tremava. Lu-lu, disgustato dalla debolezza delle donne, guardava la scena mordendosi le labbra. Un poliziotto interrogò la giovane. Fu una bella scena! Lei parlò di sua zia, di una spiaggia che era là… Ah, l´innocente!
Fu a questo punto che vidi una cosa che somigliava alla decisione suprema di un generale in capo davanti al nemico. Lucien Carlet, che aveva capito tutto, lasciò la sua postazione, entrò nel bar, si diresse verso i poliziotti e disse: «Perché fate delle difficoltà a questa ragazza? Mi sono incaricato io di aiutarla durante il viaggio. È timida, non sa rispondervi. È la prima volta che si allontana dalla sua famiglia. Viene qui da sua zia che fa la sarta a Posito».
«Come si chiama questa zia?», domandò il poliziotto.
«Come si chiama sua zia?», chiese Lu-lu. «Signora Beaumartin, mi pare».
«Sì, signora Beaumartin».
«Allora bisogna dirlo quando questi signori la interrogano. Non lo domandano per farle del male. Il suo passaporto non è in regola?».
E avanzando verso il funzionario che aveva in mano i documenti: «È in regola».
Poi, voltandosi verso la ragazza, chiese: «Non ha anche il certificato di buona condotta? Dov´è? Bisogna mostrarlo, su! Ah, benedetta ragazza!».
La giovane prese dalla sua borsa il certificato. L´aveva ottenuto grazie ai documenti della sorella della San Vincenzo de Paoli!
«E qual è l´indirizzo esatto di sua zia?».
«Anche quello è nella borsa», disse Lu-lu. «Me l´ha mostrato insieme alla lettera. Si calmi e cerchi tranquillamente».
La ragazza trovò la lettera sulla quale veniva chiamata "Mia cara nipotina": «Se non sarò al molo», vi si leggeva, «è perché non sarò riuscita ad arrivare in tempo da Posito, dove ho molte faccende da sbrigare. Fatti portare all´Hotel Solis. Verrò a cercarti lì in giornata».
Provai una grande ammirazione per Lucien Carlet e i suoi colleghi: ecco dei veri organizzatori!
I poliziotti avevano fatto il loro dovere, il "pacco" aveva i timbri di legge, e le autorità apposero il visto di sbarco.
La sera, in partenza da Montevideo, Lucien Carlet non era a bordo, anche se i suoi bagagli occupavano ancora la sua cabina.
«Si è fatto arrestare», dissero alcune persone che non conoscevano niente della vita. E aggiunsero: «Ben fatto!».
L´indomani, alle quattro del pomeriggio, il Malta, vapore francese di quindicimila tonnellate, capitanato da Emile Gaultier Du Marache, appartenente alla flotta dei Caricatori Riuniti e proveniente da Amburgo attraverso Anversa, Le Havre, La Pallice, Bilbao, Vigo, Oporto, Tenerife, Dakar, Rio, Santos, Montevideo, entrava nella bocca destra del porto di Buenos Aires, trentasei gradi sud di latitudine.
Lucien Carlet era sul molo e ci aspettava, insieme a una donna. «Non è la stessa!», gridarono alcuni passeggeri. «Com´è astuto!». I viaggiatori approfittarono dell´occasione per chiedermi quale piacere avessi tratto nel frequentare un individuo simile. Quando risposi che ero andato in Argentina unicamente per vivere con lui e i suoi pari, se ne andarono vicino ai loro bagagli.
Dopo avere esaminato i miei documenti, le autorità della Repubblica Latina e Argentina mi giudicarono indesiderabile. Risposi che non avevo mai avuto la pretesa di ispirare loro simpatia. Non mi capirono. Mi mancavano un sacco di documenti. Tanto per cominciare, non avevo intinto le mie quattro dita e il pollice nel tampone d´inchiostro ed ero così arrivato senza le impronte digitali. Feci notare che le impronte le avevo comunque, ma che invece di depositarle su un foglio me le ero conservate sulla punta delle dita, per essere più sicuro, aggiunsi, di non perderle. Non gradirono la mia spiegazione. In più, avevo osato viaggiare senza l´estratto della mia casella giudiziaria, il che dimostrava in modo eclatante che non ne avevo una.
Infine vollero sapere se conoscessi qualcuno a Buenos Aires che potesse garantire per me.
«No», risposi. «Non ho zie!».
La presero come un´offesa personale e si incattivirono.
«Che cosa viene a fare a Buenos Aires?».
Risposi che in verità ero lì per vedere i magnaccia.
Mi chiesero di ripetere quello che avevo detto.
Allora dissi: «Sono qui per vedere i magnaccia».
Seguì un rapido consulto. Misero il mio passaporto in una grande cartella nera come la loro anima, le loro unghie e i loro capelli.
Feci notare che mancavano di logica. «Mi rimproverate di non avere abbastanza documenti», dissi, «e poi mi sottraete l´unico che ho». Mi risposero che era loro diritto. Ribattei che se era loro diritto anche prendermi la camicia, gliel´avrei consegnata con colletto e bottoni.
«In ogni caso», fecero quelli, «lei non sbarcherà».
Mandarono a cercare una guardia, e poiché suo padre era tedesco, la madre francese, i nonni uno italiano e l´altro siriano, le nonne una portoghese e l´altra polacca, il mio carceriere era un perfetto argentino.
Ero prigioniero, e loro se ne andarono.
Devo riconoscere che la mia anima non era particolarmente scossa. Non sarebbero stati quei barbari pedanti a impedirmi di fare il mio mestiere. Mi appello a voi tutti, vecchi compagni di viaggio, non abbiamo forse imparato grandi cose nel corso di una vita che poteva essere impiegata meglio?
Sulla nave i cocktail venivano serviti freschi. E sulla nave ho imparato che la Compagnia dei Caricatori Riuniti era responsabile per me. Avrebbe pagato allo Stato argentino duemila pesos d´oro di ammenda se non mi avessero più trovato sul vapore. Duemila pesos d´oro: sessantamila franchi! Non valevo tanto! Dopo tutto non ero l´erede della Compagnia dei Caricatori Riuniti.
Lucien Carlet salì a bordo per cercare i bagagli. «È uno scherzo!», disse. «Non la lasciano sbarcare?».
«No!».
Allora il trafficante di donne, che calpestava liberamente il suolo argentino, mi disse: «Lei non si muova. Vado io a risolvere la faccenda».
Scese a terra per domandare la grazia per me. E la ottenne.
Traduzione Anna Benucci Serva (© 2008 excelsior 1881, Milano)

Repubblica 20.1.08
Il metodo Orson Welles
Fare cinema per caso
di Irene Bignardi


Ha lasciato dietro di sé un capolavoro indiscusso, una trasmissione radiofonica che sconvolse l´America, quattordici film e un´infinità di materiale girato e incompiuto sparso negli archivi di tutto il mondo. E copioni, lettere, appunti scritti ovunque. Che ora vengono raccolti in un libro che svela i segreti della più grande macchina da scena della storia
Negli ultimi anni utilizzava un montaggio incomprensibile a chi non avesse in testa l´intera costruzione dell´opera. Questo spiega, quanto i problemi legali, l´impossibilità di ridare forma al puzzle dei suoi meravigliosi frammenti

Di solito si cominciano le storie dal principio. Lo raccomanda anche l´Alice di Lewis Carroll. Invece, per una volta, vale la pena di cominciare dalla fine. Perché, per una volta, la fine non è nota, o almeno solo ai super-appassionati. Perché tutti conoscono la storia del genio bambino e poi ragazzo e poi giovanissimo uomo che stupisce l´America con la sua bravura teatrale, la seduce con i suoi personaggi elisabettiani, la terrorizza via radio con La guerra dei mondi, la conquista (e ne viene, parallelamente, respinto) con un film che resta un caposaldo del cinema, il capolavoro più votato dalla critica e dalla stampa e per più anni, il prototipo e il contenitore di modelli e di modi, insomma, con Quarto potere.
Ma è meno noto il finale della sua affannata, meravigliosa, difficilissima vita sempre in corsa, sempre scansando le trivialità quotidiane, sempre in una fuga in avanti e in un perenne debito con se stesso e con il proprio genio, sempre senza gli strumenti necessari per esprimersi con l´agio che lui, Orson Welles, avrebbe meritato. È meno noto il finale del "non finito" wellesiano: non la scelta radicale di Michelangelo, ma un destino, una maledizione, una impossibilità, che, accanto a tredici grandi film compiuti, ha generato un patrimonio di incompiuti su cui critici, studiosi e pubblico possono sognare e studiare pensando all´altro, possibile Welles.
È la parte più affascinante del grande e bel volume dedicato a Orson Welles da due suoi assidui e sapienti studiosi, Jean-Pierre Berthomé e François Thomas, Orson Welles at Work (che è l´edizione inglese dello studio pubblicato due anni fa dalle edizioni dei Cahiers du Cinéma). Un libro che percorre tutta la vita e la carriera di Welles, i suoi molti metodi di lavoro («non esiste un metodo Welles, scrivono i curatori, ma quasi altrettanti metodi quanti sono i suoi film», che non sono stati fatti «secondo uno schema logico e regolare ma sono stati spesso il prodotto del caso e di imprevedibili circostanze»), i suoi film compiuti (quattordici, secondo i due studiosi francesi che mettono nel conto anche Terrore sul Mar Nero, scritto sì e prodotto da Welles ma diretto in effetti da Norman Foster, salvo alcuni interventi del nostro) e i molti non finiti, o dispersi tra cento sedi misteriose, o in depositi diversi, o una pizza qui e dieci là, o senza il sonoro, o un rullo soltanto e via, riflesso di un modo di lavorare e di una creatività perennemente in azione, di un´incapacità di essere normale e di fare i conti come ogni bravo produttore dovrebbe fare.
Di alcuni film wellesiani incompiuti si è tentato l´assemblaggio. Come è successo, tra le critiche indignate ma anche parzialmente giustificate dei puristi, per il Don Quixote girato a pezzi e bocconi da Welles in Messico, Italia e Spagna tra il 1957 e il 1972, un film che lo spagnolo Jesus Franco ha montato in maniera per forza arbitraria con i soli materiali in possesso di Oja Kodar, la scultrice, sceneggiatrice e attrice che fu la compagna di Welles negli ultimi venti anni della sua vita. E, tuttavia, un film che ci consente di vedere alcune sequenze meravigliose che il grande Orson girò, come faceva spesso, senza sceneggiatura, reinventando il suo progetto mentre lo girava. Di molti "non finiti" si possono vedere i fantasmi, quasi le sinopie, solo nelle retrospettive (Locarno ne ha dedicata a Welles una, ricchissima, nel 2005) o nelle cineteche, in particolare quella di Monaco dove gran parte degli incompiuti di Welles sono conservati.
Ecco dunque, per esempio, i ventidue minuti di Moby Dick, in cui Welles legge brani del capolavoro melvilliano recitando lui stesso tutte le parti. Ecco il "pilota" di The Orson Welles Show. Ecco i frammenti di The Merchant of Venice. Ecco il suo King Lear, dove si vede semplicemente Welles che legge parti del testo shakespeariano. Ecco i ventiquattro minuti di The Dreamers, un abbozzo di film girato nel cortile della sua casa di Hollywood tra il 1980 e l´anno della sua morte, il 1985: tratto da un racconto di Isak Dinesen (a cui Welles già si era ispirato per il suo meraviglioso Histoire Immortelle), il film doveva raccontare la storia di tre uomini di tre paesi diversi che parlano ciascuno di un antico amore - salvo scoprire che stanno ricordando tutti la stessa donna, la bellissima Oja Kodar (per cui Welles stesso, in una delle sue mille reincarnazioni, disegnò i costumi ottocenteschi).
E, retrocedendo ancora nel tempo, ecco, intrecciati negli anni tra il 1967 e il 1975, i resti di The Deep, un film con Jeanne Moreau, Oja Kodar, Michael Bryant e Laurence Harvey, da un thriller di Charles Williams, che sarebbe poi diventato, venticinque anni dopo, Dead Calm, con la giovanissima Nicole Kidman. Ed ecco il film che sarebbe dovuto essere, e in parte è, il testamento e la confessione in pubblico della difficoltà creativa e umana in cui versava in quegli anni Orson Welles, The Other Side of the Wind. Che in effetti venne girato quasi del tutto, protagonista John Huston nel ruolo dell´amico Welles, ma che, per ragioni legali, confusione, debiti, Welles non poté mai finire di montare - e di cui i Cahiers du Cinéma e il Festival di Locarno hanno pubblicato il testo completo: la storia di un film nel film, delle ultime ventiquattro ore della vita di un grande regista, di un´impotenza creativa, di una disperazione umana.
Ma non poté mai montarlo, Welles, o non volle? Se lo chiedono, Berthomé e Thomas, e non solo loro: e sanno solo rispondere che la passione di Welles, negli ultimi anni della sua vita, per un montaggio complesso, frammentato, incomprensibile a chi non avesse in testa l´intera costruzione dell´opera, spiega, quanto i problemi legali, l´impossibilità di ridare forma al puzzle dei suoi meravigliosi frammenti.
Certo, ripercorrendo a ritroso le pagine e la vita di Welles, si capiscono le origini del suo complesso rapporto con il montaggio. Il montaggio che gli ha permesso di costruire e ricostruire - tra mancanza di soldi, fughe di attrici terrorizzate, sparizioni dello stesso regista che andava a caccia di fondi sui set altrui (nel caso specifico, quello di Il terzo uomo) - un capolavoro come Othello: dove basterebbe il puzzle delle location (Venezia e Viterbo, Essaouira in Marocco e Tuscania) a dire la complessità della costruzione intellettuale e fisica che era nella testa di Welles. Il montaggio che Welles ha snobbato a favore del meraviglioso, stupefacente piano sequenza che apre L´infernale Quinlan. Il montaggio (affidato ad altri) che mentre Welles viveva la travagliata e a momenti tragica lavorazione di It´s All True in Brasile, nel 1942, sconvolgeva L´orgoglio degli Amberson e sanciva la sua separazione da Hollywood, dove pure era stato accolto solo un anno prima come il ragazzo prodigio che conquistava a passo di corsa il mondo del cinema con lo stupefacente monumento all´invenzione che è Quarto potere. E il montaggio che, nel suo film più fantasioso e più folle, F for Fake, consente all´autore, narratore, demiurgo Orson Welles di incantare lo spettatore con magie, imbrogli, frodi, menzogne, divertimento: un film in cui, sotto il segno dell´ironia, ricama sul tema del rapporto tra l´arte e la creazione artistica, tra il vero e il falso, tra la realtà e l´invenzione - che nel mondo di Orson Welles si confondono e intrecciano nel più straordinario corpus cinematografico della storia.

AGI Sabato 19 Gennaio 2008
LAVORO: PER MAURO SOTTOVALUTATO E PER BERTINOTTI DERUBRICATO

(AGI) - Roma, 19 gen. - Un tempo, quasi trent'anni fa, non se ne poteva prescindere: il lavoro e con esso l'operaio stava al primo posto in cima alle strategie e progetti politici e partitici come ai pensieri del mondo intellettuale: oggi invece e' sottovalutato e addirittura derubricato dall'agenda politico-culturale. A fare questa diagnosi impietosa sono Ezio Mauro direttore de 'la Repubblica' che, proprio di recente, ha dedicato approfonditi e ampi servizi alla morte bianca di sette ragazzi nell'acciaieria Thyssenkrupp ed il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti: i due sono stati protagonisti del dibattito seguito alla proiezione del film di Wilma Labate 'Signorinaeffe', tenutasi stamane a Roma per iniziativa del mensile 'Aprile' e del settimane 'Left'. "Un film bello, serio, solido che ci restituisce - attacca il direttore de 'la Repubblica' - una storia vera (la vertenza piu' lunga del movimento operaio, i 35 giorni alla Fiat conclusasi con la vittoriosa marcia dei 40 mila quadri ed impiegati) raccontata da attori davvero bravi: s'impone oggi una riflessione sul lavoro perche' e' sottovalutato". Ed i salari da fame, ma soprattutto le continue morti bianche, la vita che se ne va via in fumo e senza un responsabile, le condizioni stesse di vita sul lavoro, tutto concorre a riportare il lavoro al centro dell'interesse politico e sociale. "La vicenda, la tragedia Thyssenkrupp - nota Mauro - obbliga a rimettere in primo piano la questione del lavoro e non solo dal punto vista politico ma anche culturale".
E Labate ci rida' nel film sceneggiato da Domenico Starnone l'ambiente, il clima di quei 35 giorni vissuti davanti ai cancelli Fiat dove vigevano i presidi, sola modalita' di lotta, per non far entrare la gente al lavoro. E li' davanti ai cancelli arrivo' lo stesso leader del Pci, Enrico Berlinguer ad assicurare l'appoggio del Partito agli operai. "E quella fu la fine della scalata al cielo" ha detto Bertinotti per il movimento operaio. "Quello e' stato scontro dalla valenza universale e non un semplice conflitto: la posta in gioco era altissima riguardava due impostazioni diverse", ha proseguito Bertinotti. E quella per i lavoratori ed il sindacato era la democrazia partecipativa, era la prosecuzione delle conquiste realizzate sull'onda del '68-'69 come lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Dalla storia vera, alla storia d'amore tra Sergio ed Emma che passando dall'attrazione alla repulsione per l'operaio impegnato politicamente evidenzia le paure ma, al tempo stesso, l'interesse ed il coinvolgimento che una persona esterna alla lotta politica poteva provare, ma nel 1980, per il movimento operaio. Tanto che la scoperta che Emma fa dell'ideologia subito si mescola fino a confondersi coi sentimenti: e la giovane rimette in discussione la sua vita e le sue aspirazioni borghesi. Se sullo sfondo puo' esserci il dramma di quei 35 giorni, il realta' il dramma vero e' tutto femminile ed e' rappresentato dal corpo nervoso e allo stesso tempo delicato di Emma, l'attrice Valeria Solarino. Perche' la sua lotta e' prima di ogni cosa interiore emotiva essendo lei divisa tra il legame sicuro e protetto con Silvio e la propria famiglia da cui cerca di emanciparsi e la passione per Sergio. "Tornare a parlare di operai e del lavoro in fabbrica in un momento in cui il lavoro precario sembra - e' la tesi della regista - l'unica realta' possibile significa fare i conti con la propria storia". E cosi' Labate sceglie un registro narrativo a meta' strada tra la fiction e il documentario inserendo materiale d'archivio originale (servizi del tg, immagini di Berlinguer) nel tessuto finzionale del racconto. La ricostruzione dell'epoca e' quindi molta attenta e filologica, quasi un'altra protagonista in costante rapporto dialettico con il personaggio di Emma, che la rappresenta, ad un livello umano, con le sue contraddizioni e i suoi dubbi. Insomma, 'Signorinaeffe' e' piaciuto al numeroso pubblico che ha risposto entusiasta all'iniziativa dei direttori di 'Aprile' e 'Left' (Massimo Serafini e Luca Bonaccorsi) per il coraggio ed il rischio di muoversi controcorrente rispetto al revival degli anni '80 che ci mostrano spesso la faccia arrabbiata, contestatrice. E "i due sono i superstiti di quell'epoca che fu una sconfitta per il movimento operaio", ha chiosato il Presidente della Camera. Un film fatto di corpi e voci, di affetti e passioni che chiedono un cambiamento e che ci ricordano le lotte di un'intera generazione per non farsi fagocitare da quell'organismo divoratore che e' la fabbrica stessa. (AGI) Pat

Liberazione 20.1.08
Intervista al segretario del Prc. C'è bisogno di una nuova legge elettorale e bisogna accelerare la formazione della Sinistra l'Arcobaleno
La risposta a Veltroni che annuncia che in caso di elezioni non farà coalizione. Il caso Mastella e la questione morale. L'affare Napoli.
Giordano: «Sinistra svegliati e non pensare solo al governo»
di Rina Gagliardi


In questo momento, nei palazzi della politica, nessuno scommetterebbe un euro sulla tenuta del governo Prodi - e sono in molti, i più, a ragionare, già in queste ore, sugli scenari "post" (elezioni anticipate entro giugno, oppure un governo istituzionale). Troppe le emergenze che si affollano nello stesso punto: rifiuti campani, vicenda Mastella, riforma elettorale, referendum che si avvicina, verifica di governo, conflitti tra (e nei) partiti di maggioranza e, non ultima, la minaccia di sciopero generale dei sindacati. Troppe, ancora, le occasioni "propizie": basti quella del 23 gennaio, mercoledì della prossima settimana, in cui nello stesso giorno va in aula la mozione di sfiducia al ministro Pecoraro Scanio (con diverse defezioni annunciate) e in Commissione Affari Costituzionali si vota la "bozza Bianco". In una situazione così difficile - e così per molti versi impantanata - un partito come Rifondazione comunista ha certo una responsabilità politica particolare: quale? Dice Franco Giordano: "Di fronte a messaggi inquietanti che vengono, appunto, dai palazzi della politica, bisogna disinvestire dal governo e tornare a investire nel progetto di alternativa di società. Bisogna rimettere al centro la questione morale, la rigenerazione della politica. E bisogna accelerare al massimo la costruzione del nuovo soggetto unitario e plurale della sinistra". Al segretario del Prc non sfugge certo la durezza, chiamiamola così, della congiuntura tattica, nella quale il Prc si adopererà fino in fondo per "strappare" al governo un cambio di passo nella politica sociale (che rischia oggi di passare in secondo piano, sovrastata da altre emergenze): "Una svolta netta è oramai urgente" dice, "nella direzione della redistribuzione della ricchezza, del contrasto alla precarietà, delle detrazioni fiscali al salario.
Così come è urgente la chiusura del contratto metalmeccanico, di fronte all'arroganza della Fiat: la quale non solo tende a cancellare il contratto nazionale, non solo aspetta la caduta del governo, ma pregusta la possibilità di fare, ancora una volta, la parte nel leone in tema di redistribuzione del surplus". Al tempo stesso, Giordano è ben consapevole che, nella stagione oscura che rischia di aprirsi, è essenziale sottrarsi al pericolo di "morire di tattica" - perciò, in questa intervista, risuona spesso una parola come "sfida". Sfida strategica, sfida per l'egemonia, sfida per la rinascita di una sinistra all'altezza dei tempi. Intanto, certo, è bene aver chiara la bussola da cui non separarsi, per questo scorcio di "gennaio di fuoco" che ci aspetta.

Veltroni ora dice che il suo partito, il Pd, alle prossime elezioni si presenterà da solo, qualunque sia il sistema elettorale in vigore in quel momento, e invita Berlusconi, Forza Italia, a fare altrettanto. Non è la prima volta che lo dice, ma in questo momento l'annuncio suona un po' minaccioso - sia per le forze minori dell'Unione, sia, in conseguenza, per la stabilità di un governo che molti considerano già appeso a un filo. Tu che ne pensi?
La proposta di Veltroni, in sè e per sè, non mi spaventa: anche dal nostro punto di vista, è finito il tempo delle coalizioni coatte e degli schieramenti forzati che producono effetti assolutamente perversi - come il potere di ricatto di micropartiti se non di singoli parlamentari. In sè e per sè; oltretutto, la posizione veltroniana "chiamerebbe" un sistema elettorale proporzionale, un tedesco puro, nel quale ogni partito si presenta agli elettori con la sua fisionomia, insomma con la sua autonomia politica e programmatica, e chiede il consenso necessario per accedere alla rappresentanza istituzionale. Dunque, mi si rafforza la convinzione che l'attuale proposta di riforma elettorale - la bozza Bianco, che proporzionale pura certo non è, ma che rappresenta la mediazione più avanzata possibile nel parlamento attuale - vada approvata al più presto: non nell'interesse di qualcuno, ma di tutta la sinistra. Lo dico a coloro che, anche a sinistra, sono apparsi critici o recalcitranti: Veltroni ci ripropone una sfida per l'egemonia, che concerne la società, l'idea di politica, la concezione di governo e che passa, per forza, anche attraverso la meccanica elettorale. Vogliamo accettarla o no, questa sfida? Siamo pronti a misurarci limpidamente con essa, con le forze di cui disponiamo, senza pensare alle solite ciambelle di salvataggio, senza confidare nell'alleanza con noi a cui alla fine Veltroni e il Pd sarebbero costretti? Noi siamo pronti. Ed è evidente che la condizione politica minima, per noi, è quella di accelerare la costruzione del soggetto unitario e plurale della sinistra. Oggi, non domani. Ora, non chissà quando. Non c'è tempo da perdere.

A proposito di tempi, il cumulo delle emergenze di questa fase rischia di far saltare il governo. O no?

Io credo che, di fronte ai messaggi inquietanti che vengono in questi giorni dai palazzi della politica, sia essenziale per noi disinvestire dal governo e tornare a investire nel progetto di un'alternativa di società. Bada bene: "disinvestire" non vuol dire, nient'affatto, uscire ora o domani dal governo. Vuol dire un'altra cosa: concentrare le nostre energie nella società, nel rapporto con i movimenti, nella politica vera, quella ingraianamente "diffusa". L'unità delle sinistre come fa ad avanzare davvero, se non riprende in mano questa centralità? Se non si misura, fino in fondo, con la crisi della politica e dunque con il tema gramsciano della sua Riforma? Tutto ciò di cui si discute in questi giorni concitati - la monnezza in Campania, la bufera giudiziaria su Mastella, la sentenza di condanna del governatore Cuffaro - ci riportano alla "priorità delle priorità": rompere la separatezza tra la politica e la società, fare uno scatto sul terreno della democrazia, del protagonismo popolare, della partecipazione, del ruolo dei movimenti. Torna in campo la natura politica profonda di ciò che un tempo è stato chiamato "questione morale" e che troppo presto abbiamo sostanzialmente archiviato. Solo un esempio. E' possibile tollerare che il presidente della regione Sicilia, condannato per aver favorito boss mafiosi, plauda allo scampato pericolo e annunci sfrontatamente l'intenzione di rimanere al suo posto? No, che non è tollerabile - c'è dentro un'autoassoluzione della politica potente, un'affermazione di impunità, che fa spavento. E non è certo una questione "locale".

Neanche la vicenda campana - ovviamente l'analogia è solo "geografica" - può esser circoscritta nei confini di quella regione. Anche lì, non solo a Roma, c'è una crisi "di sistema" nella quale ci sono, per forza, responsabilità politiche della sinistra e della sua capacità di governo. Una parte della sinistra, anche nel Prc, ritiene che sia giunto il momento di chiudere con l'esperienza della giunta Bassolino e di dare la parola al popolo. Qual è il tuo orientamento?
Decideremo domani sera, con i compagni del comitato regionale campano, la nostra posizione e le nostre scelte. E' evidente che tra la giunta Bassolino e la società campana si è prodotta una frattura profonda, legata non solo all'emergenza rifiuti, ma anche ai metodi di gestione praticati in questi anni - ed è evidente che soltanto una consultazione popolare, il voto, potrà sanarla. In questa fase, come ha detto il segretario regionale De Cristofaro, bisogna però puntare su un'altra via: al governo della regione va chiesta, con grande determinazione, una discontinuità riconoscibile , nella sua fisionomia programmatica, nella sua capacità di confronto con le forze sociali, nei suoi assetti concreti di governo. E' chiaro, insomma, che a Napoli un ciclo politico si è chiuso, e che ne dobbiamo trarre tutte le conseguenze. Ma è chiaro anche che la crisi si fronteggia con un percorso politico chiaro e trasparente, che vedrà impegnato il Prc insieme a tutte le altre forze della sinistra. L'approdo di questo percorso non potrà essere - lo dico senza alcuna enfasi retorica - che una nuova moralità della politica. Una vera e propria rigenerazione della politica, senza la quale il rischio è di uscirne comunque sconfitti.

L'ex-ministro della giustizia, Clemente Mastella, pretende dalla maggioranza, nessuno escluso, un sostegno e una solidarietà piene alla sua azione - pena l'uscita dell'Udeur dalla maggioranza stessa, e la caduta del governo. Rifondazione che farà?
Se si tratta della relazione sulla giustizia, che Mastella ha poi consegnato nelle mani di Prodi, siamo pronti alla discussione e al confronto: da parte nostra, non ci sono e non ci possono essere, ovviamente, pregiudizi o posizioni precostituite di non rispetto del lavoro fatto in questi mesi. Tutt'altra cosa, però, è la pretesa, inaccettabile, di una sorta di "giuramento" sulle posizioni o le affermazioni del Guardasigilli. Voglio essere chiaro: non siamo disposti ad accettare nessuna interferenza sul principio dell'autonomia e della indipendenza della magistratura. Esso è un caposaldo del nostro ordinamento costituzionale, dal quale non si può derogare.

Ultimo tema, si fa per dire, la riforma elettorale. Se essa salterà, come pare, e se si andrà al referendum Guzzetta, il governo Prodi potrebbe farne le spese: così tu hai detto, in questi giorni. Perchè? In fondo, non abbiamo sempre detto che il sistema elettorale concerne il parlamento e non coinvolge l'esecutivo?
Su questa spinosa e decisiva partita (di cui, legittimamente, la gente normale fatica a capire l'importanza), concordo con quello che ha detto ieri D'Alema al «Corriere della sera»: la bozza Bianco è a tutt'oggi la base più seria di lavoro, per il Parlamento, al fine di costruire una legge il più possibile condivisa. Non "privatistica", insomma, non dettata dai propri interessi di bottega, secondo la cultura diffusa da tempo dalla destra. In alternativa, c'è il rischio del referendum che io considero drammatico: perchè - vado alla sostanza - cancella nei fatti ogni forma di soggettività politica autonoma e costruisce il sistema americano. In più, incentiva la frammentazione, la nascita di nuovi partiti personali, insomma tutto ciò che ben conosciamo dei sistemi bipartitici, che sostituiscono la rappresentanza con le lobbies, i gruppi di interesse, le subaggregazioni spurie, e così via. Di fronte a un pericolo così grande, tutti coloro che si sentono minacciati, tutti i partiti che si sentono tendenzialmente cancellati - e sono più d'uno - potrebbero, umanamente, far prevalere la logica dell'autodifesa - mors tua, vita mea, come dicevano i classici. La caduta di Prodi e le elezioni anticipate potrebbero essere, in questo senso, l'unica strada percorribile: un disastro immediato per evitare un disastro, maggiore, del prossimo avvenire. Sarebbe bene che tutti fossero avvertiti di qual è, davvero, la posta in palio nei prossimi giorni.

Liberazione 20.1.08
Lettera aperta al Presidente della Repubblica
Caro Napolitano, Perché ti sei scusato col papa? Dovevi scusarti col prof Cini
di Paolo Flores D'Arcais


Caro Presidente,
tempo fa, dovendo scriverti per invitarti ad una iniziativa di MicroMega, chiesi tramite il tuo addetto stampa se dovevo continuare ad usare il "tu" della consuetudine precedente la tua elezione, o se era più consono che usassi il "lei", per rispetto alla carica istituzionale. Poiché, tramite il tuo addetto stampa, mi facesti sapere che preferivi che continuassi a scriverti con il "tu", è in questo modo che mi rivolgo a te in questa lettera aperta, tanto più che, essendo una lettera critica, mi sembrerebbe ipocrisia inzuccherare la critica con la deferenza del "lei".
Il mio dissenso, ma si tratta piuttosto di stupore e di amarezza, riguarda la lettera di scuse che in qualità di Presidente, dunque di rappresentante dell'unità della nazione, hai inviato al Sommo Pontefice per l'intolleranza di cui sarebbe stato vittima. E' verissimo che di tale intolleranza, di una azione che avrebbe addirittura impedito al Papa di parlare nell'aula magna della Sapienza, anzi perfino di muoversi liberamente nella sua città, hanno vociato e scritto tutti i media, spesso con toni parossistici.
Ma è altrettanto vero che di tali azioni non c'è traccia alcuna nei fatti. La modesta verità dei fatti è che il magnifico rettore (senza consultare preventivamente il senato accademico, ma mettendolo di fronte al fatto compiuto, come riconosciuto dallo stesso ex-portavoce della Santa Sede Navarro-Vals in un articolo su Repubblica) ha invitato il Papa come ospite unico in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico (a cui partecipano in nome della Repubblica italiana il ministro dell'università e il sindaco di Roma), e che, avutane notizia dalla agenzia Apcom il professor Marcello Cini (già dallo scorso novembre) e alcune decine di suoi colleghi (più di recente) hanno espresso per lettera al rettore un loro civilissimo dissenso.
Quanto agli studenti, nell'approssimarsi della visita alcuni di loro hanno espresso l'intenzione di manifestare in modo assolutamente pacifico un analogo dissenso, nella forma di ironici happening.
Il rettore Guarini ha comunque rinnovato al Papa l'invito, e tanto il Presidente del Consiglio Romano Prodi quanto il ministro degli Interni Giuliano Amato hanno esplicitamente escluso che si profilasse il benché minimo problema di ordine pubblico (malgrado la campagna allarmistica montata dal quotidiano dei vescovi italiani, "L'Avvenire", rispetto a cui le dichiarazioni di Prodi e Amato suonavano esplicita smentita). Nulla, insomma, impediva a Joseph Ratzinger di recarsi alla Sapienza e pronunciare nell'aula magna la sua allocuzione.
Di pronunciare, sia detto en passant e per amore di verità, il suo monologo, visto che nessun altro ospite contraddittore o "discussant" era previsto, e un monologo resta a tutt'oggi nella lingua italiana l'opposto di un dialogo, checchè ne abbia mentito l'unanime coro mediatico-politico (che di rifiuto laicista del dialogo continua a parlare), a meno di non ritenere che tale opposizione, presente ancora in tutti i dizionari in uso nelle scuole, sia il frutto avvelenato del già stigmatizzato complotto laicista.
Tutto dunque lasciava prevedere che la giornata si sarebbe svolta così: mentre Benedetto XVI pronunciava il suo monologo nell'aula magna, tra il plauso deferente dei presenti (e in primo luogo del ministro Mussi e del sindaco Veltroni), ad alcune centinaia di metri di distanza alcuni professori di fisica avrebbero tenuto un dibattito sui rapporti tra scienza e fede esprimendo opinioni decisamente diverse da quelle del regnante Pontefice, e ad altrettanta debita distanza qualche centinaio di studenti avrebbe innalzato cartelli di protesta e maschere ironiche. Ironia che può piacere o infastidire, esattamente come le vignette contro il profeta Maometto, ma che costituisce irrinunciabile conquista liberale.
Dove sta, in tutto ciò, l'intolleranza? E addirittura la prevaricazione con cui si sarebbe messa al Papa la mordacchia (secondo l'happening inscenato in aula magna dagli studenti di Comunione e liberazione)?
A me sembra che intolleranza - vera e anzi inaudita - sarebbe stato vietare ad un gruppo di docenti di discutere in termini sgraditi ai dogmi di Santa Romana Chiesa, e ad un gruppo di studenti di manifestare pacificamente le loro opinioni, ancorché in forme satiricamente irridenti. Se anzi di tali divieti si fosse solo fatto accenno da parte di qualche autorità, credo che un numero altissimo di cittadini si sarebbe sentito in dovere di rivolgersi a te quale custode della Costituzione, con toni di angosciata preoccupazione per libertà fondamentali messe così platealmente a repentaglio. Ma, per fortuna (della nostra democrazia), nessun accenno del genere è stato fatto.
Il Sommo Pontefice non era di fronte ad alcun impedimento, dunque. Ha scelto di non partecipare perché evidentemente non tollerava che, pur avendo garanzia di poter pronunciare quale ospite unico il suo monologo in aula magna, nel resto della città universitaria fossero consentite voci di dissenso, anziché risuonare un plauso unanime.
Non è, questa, una mia malevola interpretazione, visto che sono proprio gli ambienti vaticani ad aver riferito che il Papa preferiva rinunciare a recarsi in visita presso una "famiglia divisa" (cioè il mondo accademico e studentesco della Universitas studiorum, la cui quintessenza istituzionale è però proprio il pluralismo delle opinioni). Ma pretendere quale conditio sine qua non per la propria partecipazione un plauso unanime non mi sembra indice di propensione al dialogo bensì, piuttosto, di vocazione totalitaria.
Non vedo dunque per quale ragione tu abbia ritenuto indispensabile, a nome di tutta la nazione di cui rappresenti l'unità, porgere al Papa quelle solenni scuse. Che ovviamente, data la tua autorità, hanno fatto il giro del mondo. Se c'è qualcuno che aveva diritto a delle scuse, semmai, è il gruppo di illustri docenti, tutti nomi di riconosciuta statura internazionale nel mondo scientifico, e che tengono alto il prestigio italiano nel mondo, a contrappeso dell'immagine di "mondezza" e politica corrotta ormai prevalente all'estero per quanto riguarda il nostro paese. Questi studiosi sono stati infatti accusati di fatti mai avvenuti, e insolentiti con tutte le ingiurie possibili ("cretini" è stato il termine più gentile usato dai maestri di tolleranza che si sono scagliati contro il diritto di critica di questi studiosi).
Né si può passare sotto silenzio il contesto in cui il monologo di Benedetto XVI si sarebbe svolto, contesto caratterizzato da due aggressive campagne scatenate dalle sue gerarchie cattoliche. Trascuriamo pure la prima, cioè i rinnovati e sistematici attacchi al cuore della scienza contemporanea, l'evoluzionismo darwiniano (bollato di "scientificità non provata" da un recente volume ratzingeriano uscito in Germania), benché il rifiuto della scienza non sia cosa irrilevante per chi dovrebbe aprire l'anno accademico della più importante università del paese.
Infinitamente più grave mi sembra la seconda, la qualifica di assassine scagliata dal Papa e dalle sue gerarchie, in un crescendo di veemenza e fanatismo, contro le donne che dolorosamente abbiano scelto di abortire. Questo sì dovrebbe risultare intollerabile. Se un gruppo di scienziati accusasse Papa Ratzinger, o solo anche il cardinal Ruini, il cardinal Bertone, il cardinal Bagnasco, di essere degli assassini, altro che lettere di scuse! E perché mai, invece, ciascuno di loro può consentirsi di calunniare come assassina, nel silenzio complice dei media e delle istituzioni, ogni donna che abbia deciso di utilizzare una legge dello Stato confermata da un referendum popolare? Se vogliono rivolgersi alle donne del loro gregge ricordando che l'aborto, anche un giorno dopo il concepimento, è un peccato mortale, e che quindi andranno all'inferno, facciano pure, proprio in base a quel "libera Chiesa in libero Stato" che il Risorgimento liberale e moderato di Cavour ci ha lasciato in eredità. Ma diffamare come assassine cittadine italiane che nessun reato hanno commesso è una enormità che non può essere passata sotto silenzio, e non sono certo il solo ad essermi domandato con amarezza perché, in quanto custode dell'unità della nazione e dunque anche delle sue radici risorgimentali, tu non abbia fatto risuonare la protesta dello Stato repubblicano.
La canea di accuse e di menzogne di questi giorni mi ha portato irresistibilmente alla memoria una piccola esperienza di oltre quarant'anni fa, nel 1966, quando - giovane universitario iscritto al Partito comunista da meno di tre anni - vissi incredulo l'esperienza di un congresso (l'XI, se non ricordo male) di un Partito che si vantava di essere sostanzialmente più libero e democratico degli altri (per questo, del resto, vi ero entrato, come milioni di italiani), in cui Pietro Ingrao, per aver moderatissimamente avanzato l'idea di un "diritto al dissenso" fu investito da una esondazione di critiche e vituperi, compresa l'accusa di essere proprio lui un intollerante!
Con una differenza sostanziale e preoccupante: che allora tale capovolgimento della realtà, versione soft ma non indolore dell'incubo orwelliano, riguardava solo un partito. Oggi investe l'intero paese, la sua intera classe politica, la quasi totalità dei suoi mass-media.
Ecco perché spero che tu voglia prestare attenzione anche all'angosciata preoccupazione di quei segmenti laici (o laicisti, come preferisce la polemica corrente) del paese, non so se maggioritari o minoritari (ma la democrazia liberale, a cui ci hai più volte richiamato, è garanzia di parola e ascolto anche per il dissenso più sparuto, fino al singolo dissidente), che ormai vengono emarginati o addirittura cancellati dalla televisione, cioè dallo strumento dominante dell'informazione, e il cui diritto alla libertà d'opinione viene di conseguenza vanificato, mentre ogni tesi oscurantista può dilagare e spadroneggiare.
Con stima, con speranza, con affetto, credimi,
tuo Paolo Flores d'Arcais.

Liberazione 20.1.08
Il Papa alla Sapienza A 60 anni dalla Costituzione: laicità vo cercando…


Cara "Liberazione", laicità: parola caduta in disuso, vista con sospetto dal nuovo che avanza. Laicità, parola che sembra un fossile maleodorante che nessuno più vuole ospitare nemmeno nei paraggi della propria casa. Gli ultimi sviluppi della vicenda Pontefice-Università hanno reso davvero l'idea di cosa ci separi, in termini di anni luce, come nei film, dall'Europa. L'Europa laica, l'Europa che professa diverse fedi… Constato che noi, tutti, viviamo in una costante posizione di excusatio non petita nei confronti della Chiesa. Mi chiedo, e domando, perché i 60 docenti che hanno osato dire qualcosa (dibattere, dialettizzare) sulla presenza del Papa all'Università, hanno da sentirsi degli animali strani, isolati e da subito messi in quarantena? Cosa mai è successo al mio Paese perché uno sparuto gruppo di teste pensanti (bene o male, non so) abbia dovuto subire un fuoco di fila delle teste d'uovo, dei politici, dei giornalisti dei giornali laici?… I 60 docenti si sono permessi di affermare che (forse) il rappresentatnte di una Chiesa che in un passato non remoto non se la sentì di censurare del tutto la condanna di Galileo qualche obiezione avrebbe potuto accoglierla. Serenamente ed umanamente. Forse, ma dico forse, non hanno del tutto torto a pensare che quell'uomo può sì entrare nel luogo del sapere (guai a chi sbarra le porte!), non senza che memoria umana rechi traccia di quel che è stato. Funziona così nel mondo duro, sporco e quotidiano della dialettica. Tu affermi, io registro. Nel momento dell'incontro, ti chiedo ragione delle tue affermazioni. Mi chiedo se 60 non sian pochi, a difendere indirettamente la posizione di migliaia di donne che, a detta della Chiesa, non expedit che abortiscano. Poco importa che l'aborto sia oggi un dramma calante, grazie al fatto che lo si fa come Dio comanda, nelle strutture sanitarie. E che molte di loro si alzino in piedi e non restino morte sul lettino. Mi domando se 60 son pochi, io lo credo, costretti a dover difendere il fatto di un'evidenza incancellabile: ci leghiamo in modo diverso… E' falso, ma i media non ne hanno fatto cenno, che il Papa sia stato censurato, o respinto, o atteso da molotv con lo straccio fumante. E' vero invece che Ratzinger ha scelto di non andare. Di non andare laddove qualcuno gli avrebbe chiesto del perché di tante sue affermazioni. E magari qualche mormorio… Avrei amato, sinceramente, vedere il Pontefice dialogare con gli studenti, o con i docenti Univertsitari. Avrei con piacere apprezzato le profondità teologiche delle quali, lo sappiamo bene, egli è capace. Così come avrei ascoltato, con sincera curiosità, il suo argomentare di fronte ad eventuali obiezioni… Ma non è andata così. Ecco perché, di fronte al coro impressionante di mea culpa che i nostri politici, i nostri media, stanno ora recitando, mi chiedo se 60 non sian pochi. Proprio nel 60° della nostra Costituzione.
Maurizio Montanari Modena

Liberazione 20.1.08
Zero in condotta a Renato Guarini e Fabio Mussi


Q ui alla redazione del Settimanale sono categoriche: lo Zero in condotta vuole una foto, una faccia, magari due, ma ci vuole. Così, non possiamo dare zero in condotta ad una generica Università La Sapienza perché non ha una faccia. E dopo il fatto del papa, se ne aveva una, l'ha persa. E non perché Benedetto XVI ha dato forfait (sant'uomo che ha fatto solo il suo dovere), ma perché ha pensato la genialata di invitarlo all'inaugurazione dell'anno accademico. Quindi la troviamo noi una faccia, anzi due, simboliche ed evocative: il ministro Mussi e il rettore Guarini. La faccia delle istituzioni.
Ora tutta questa faccenda, avviata dal rettore e pilotata dal Vaticano che ha anche deciso quando e come spegnere il motore, poteva essere facilmente evitata se, ad inaugurare l'anno accademico, fossero stati chiamtai i rappresentanti delle istituzioni laiche di questo nostro Stato laico. Invece Guarini voleva fare lo "scoop" e probabilmente far dimenticare, con l'acqua santa del papa, il diavolo che sta indagando su di lui, sulle sue figlie, sul genero riguardo a lavori e contratti universitari piuttosto controversi. Così, dopo che l'8 gennaio finisce sui giornali la storia dell'inchiesta sulla Sapienza e il suo rettore, ecco che si comincia a parlare dell'arrivo del Papa e della famosa lettera dei professori universitari (datata novembre) che chiedeva a Guarini di non invitare il pontefice per l'occasione. Ad onor del vero, i tempi non coincidono, non possiamo certo dire che Guarini ha invitato sua santità apposta, ma la congiunzione astrale ha grandemente favorito l'operazione Ratzinger. Guarini non ha nessuna finezza politica, né tatto istituzionale. In un clima piuttosto agitato e non da ora tra Stato e Chiesa, intelligenza avrebbe voluto che l'invito non fosse rivolto. Se proprio Guarini voleva fare il democratico, e spingere il sapere al confronto con la religione, poteva invitare un rappresentante per ogni confessione presente in Italia, un personaggio importante, un cardinale, un rabbino, un imam. Ecco, questa sarebbe stata un'operazione degna di uno stato non confessionale del quale, invece il magnifico rettore ha dimostrato di non sentirsi parte.
Per altri motivi lo zero al ministro dell'Università che dell'Università ha difeso qualche banale luogo comune. Un discorso veramente privo di interesse, in cui ha detto che il papa aveva diritto di parlare (e chi glielo ha mai negato, signor ministro?), ha detto le solite cose sul valore del sapere e delle scienze. Eppoi ha parlato di tolleranza. Purtoppo una tolleranza a senso unico, visto che si è intruppato nel lamentoso e stucchevole coro mediatik-politik che ha criminalizzato i professori prima, e gli studenti poi, colpevoli di non considerare "confronto", l'ennesimo discorso papale. Criminalizzati e buttati in "pasto" alle masse di devoti isterici, tipo Formigoni, e di atei devoti, tipo tanti tantissimi altri, che si sono sentiti più indignati per questa cazzata che per i morti in fabbrica.
E' vero come ha scritto il mitico Altan: non si censura il papa che ha il diritto di ripetersi quando e come vuole. L'inaugurazione è stata protetta da centinaia di poliziotti che hanno invaso l'Università impedendo agli studenti di entrare se non muniti di tesserino. Neanche negli anni caldi delle rivolte (quelle vere!) si era arrivati a tanto. Il papa non c'era, giovedì scorso alla Sapienza. Ma neanche lo stato italiano, ce n'era una pallida, fantasmatica (e repressiva) copia.