lunedì 21 gennaio 2008

Repubblica 21.1.08
L'intervista. Cini, lo scienziato ispiratore della protesta contro il Papa alla Sapienza
"Linciati dalla nostra sinistra era giusto scrivere quella lettera"
di Elena Dusi


ROMA - «Una palla di neve diventata valanga». Mentre gli ultimi fedeli lasciano piazza San Pietro, Marcello Cini affida a questa immagine l´incipit delle sue parole. A lanciare la "palla di neve" fu lui - professore emerito di Fisica della Sapienza - con la lettera di "indignazione" per la lectio magistralis affidata a Benedetto XVI. Era il 14 novembre. Alla sua protesta si unirono i 67 firmatari del secondo appello al rettore contro "l´incongruo invito".
Ha seguito l´Angelus?
«No, ma mi sembra inaudito il linciaggio che abbiamo subito. Io ho scritto una lettera al rettore in cui sostenevo con molta chiarezza che è inammissibile affidare a un pontefice l´inaugurazione di un anno accademico. Nessuno vuole imbavagliare il Papa, ma il contesto "inaugurazione dell´anno accademico" è incompatibile con l´intervento di un pontefice. È tanto difficile da capire? Io non credo. Mi sembra piuttosto che il sistema politico si sia comportato in maniera ipocrita».
È deluso per il mancato sostegno?
«Presidente della Repubblica, ministro dell´Università, presidente del Consiglio. Tutti ci hanno attaccati. Siamo stati definiti "intolleranti", "cretini", "cattivi maestri", "laici malati" per una lettera al nostro rettore che avevamo tutto il diritto di scrivere e che è stata travisata in modo ignobile. Oggi per tutti noi siamo "quelli che vogliono imbavagliare il Papa"».
Ma perché la palla di neve è diventata valanga?
«Per l´estrema instabilità del teatro politico italiano, che è tutto un annaspare frenetico e caotico. In un sistema complesso e instabile, gesti piccoli e isolati producono conseguenze imprevedibili e sproporzionate. È il famoso battito d´ali di una farfalla che provoca un uragano».
Avete ricevuto messaggi di solidarietà?
«Sì, dalle persone più impensate. È l´unica nostra consolazione. Certo, non siamo arrivati a 200mila simpatizzanti».
Avete in mente iniziative future?
«Io sono un professore in pensione, non ho in mente nulla. Però scriverò una lettera al ministro dell´università Mussi. Per tutta la vita sono stato un uomo di sinistra, e la sua presa di posizione mi ha molto deluso. I miei colleghi pensano a un´iniziativa che riprenda la questione, ma in maniera distesa e pacata. Un´iniziativa di dialogo, invece di accettare questa caccia alle streghe senza reagire».

Corriere della Sera 21.1.08
Dalla «Sapienza». Il primo firmatario della missiva contro Benedetto XVI: in questa domenica di sole meglio se la gente andava in bici
Bernardini, il docente anti-Ratzinger: è una provocazione
di Paolo Conti


Primo firmatario. Carlo Bernardini, ex preside di Fisica alla Sapienza, si è opposto alla visita del Papa

ROMA — «Una provocazione, questa di Benedetto XVI, travestita da captatio benevolentiae di fronte a una esibizione di forza muscolare organizzata da Camillo Ruini». Casa del professor Carlo Bernardini, ex docente di metodi matematici al dipartimento di Fisica della facoltà di Scienze de «La Sapienza», di cui è stato preside, direttore della rivista «Sapere», ex senatore indipendente del Pci nel 1976. E primo firmatario («per motivi alfabetici… ») della lettera indirizzata al rettore Guarini per chiedere di annullare «l'incongruo evento» del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico. La miccia della bomba «La Sapienza»-Benedetto XVI.
La tv dei Bernardini (c'è anche sua moglie Silvia Tamburini, altra ex docente di Fisica, fu lei il 28 giugno 2007 a investire Clio Napolitano accanto al Quirinale, ma questa è un'altra storia) è semisepolta da centinaia di libri. Il Pontefice nel dopo- Angelus parla della mancata visita. «Ratzinger sa benissimo che questa mattinata avrà una rilevanza politica enorme. Nel Pd, c'è da scommetterci, le Binetti si moltiplicheranno». Compare monsignor Rino Fisichella che parla di mancato confronto, di ricerca della verità: «Per loro c'è una sola verità». E punta l'indice verso l'alto. «Noi parliamo di plausibilità. Mai di verità assoluta». Fisichella accenna alla facoltà di Fisica: «Eh, caro rettore della Lateranense… Fisica è un dipartimento, la facoltà è Scienze. Dovrebbe saperlo ». Poi, nella trasmissione «A sua immagine », Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio e docente di storia contemporanea, ricorda che Benedetto XVI è «collega professore». Bernardini non si tiene: «Collega di chi? Non abbiamo cattedre di teologia, per buoni motivi. Che parlino per l'università San Pio V».
Ma non è pentito di aver contribuito ad avviare un meccanismo così gigantesco? «Assolutamente no. La presenza di un capo religioso all'inaugurazione dell'università per me resta impropria. Un capo religioso, come si vede, trascina una immensa struttura organizzativa. Quando mai noi non credenti potremo organizzare qualcosa del genere? Non abbiamo un Angelus né un capo spirituale. E per fortuna». Nemmeno imbarazzato dal ruolo che ha avuto? «Un po' sì. Penso che tutta questa gente a San Pietro avrebbe potuto dedicare la domenica di sole a una passeggiata in bicicletta. E invece… ».
Invece, professore, avete fatto infuriare Veltroni e Mussi. «I loro discorsi all'università mi hanno deluso molto. Non ho condiviso nulla di quanto hanno detto. Disgraziatamente in Italia l'elettorato cattolico resta numeroso. E capisco che un politico scenda a compromessi per non allontanarsi da chi ha mille motivi per non condividere la politica della destra». Non pensa che anche a destra ci siano buoni cattolici? «Ma basta guardarli in faccia. Del-l'Utri, La Russa, Gasparri che chiede la cacciata dall'università dei firmatari della lettera, sono cristiani? Roba da far ridere i polli. E che dire di quel mistificatore di Pier Ferdinando Casini». Perché mistificatore? «Penso al suo curriculum matrimoniale. E dico che non ha nulla a che vedere con i precetti della Chiesa. Non dovrei essere io a dirlo. Però è in piazza». Meglio la posizione di Rosy Bindi e di Arturo Parisi, che non sono andati a San Pietro? «Certo. Non aumentano questa inutile confusione mediatica». La diretta finisce, il professore va a pranzo: «E dire che Cristo era un bel tipo di sessantottino. Gli hanno creato intorno tutto quest'apparato di potere. Chissà che direbbe».

l'Unità 21.1.08
La leggenda del dittatore buono
di Nicola Tranfaglia


Nelle ultime settimane ha ricominciato a circolare su quotidiani italiani, e in particolare sul Corriere della Sera, che mostra (con la rinnovata direzione di Paolo Mieli) una forte voglia, a stento frenata, di protagonismo politico, la vecchia leggenda del “dittatore buono”.
È un motivo evocato fin dall’inizio della lunga transizione italiana. Vi hanno concorso le critiche, anche condivisibili, sullo spirito bizantino che sembra governare ancora le procedure parlamentari e del sistema dei partiti, la debolezza della leadership del presidente del consiglio che, a volte, non appare espressione né di una singola forza politica né di uno spirito di coalizione. Ma, fino a poco tempo fa, non si andava oltre la constatazione del problema.
Oggi, invece (è questa la novità per molti aspetti inquietante) si parla apertamente dei costi crescenti che nascono dalla velocità sempre maggiore che caratterizza i tempi attuali e dalla capacità di decidere in fretta che mostrano altri stati e altri governi democratici, come quello statunitense o quello francese.
In particolare due editoriali apparsi sul quotidiano di via Solferino, a distanza di poco più di una settimana, il primo dell’economista Michele Salvati, vicino al Partito democratico, e il secondo dello storico Ernesto Galli della Loggia, oscillante da anni tra il centro-destra e il centro-sinistra, hanno riproposto quel tema con accenti diversi.
Salvati si è chiesto se non fosse auspicabile e decisivo l’avvento di un dittatore più o meno democratico che fosse in grado di risolvere, con atti di autorità, i problemi antichi e recenti del nostro Paese che ne impediscono una compiuta modernizzazione.
Nei giorni scorsi Galli della Loggia ha insistito a sua volta sulla difficoltà, tuttora esistente, di consolidare l’autorità di un leader nella politica italiana, portando l’esempio di Walter Veltroni che, dopo aver ricevuto tre milioni e mezzo di voti nella corsa delle “primarie all’italiana” , mostra ora di aver già perduto lo smalto del vincitore o comunque di rischiare di perderlo se non si andrà presto alle elezioni.
Si intravede, nell’uno come nell’altro intervento, una singolare nostalgia per un leader autorevole che risolva la crisi politica italiana e conduca il paese al più presto alla conclusione della transizione italiana.
Il fallimento di Berlusconi come “homo novus” in grado di compiere una simile operazione è comune ormai a gran parte degli osservatori stranieri e italiani e fa parte allo stesso modo della prospettiva dei due articolisti e presumibilmente del giornale che li ospita.
Quel che, tuttavia, può preoccupare il lettore è il recupero della leggenda del dittatore buono che, applicata all’Italia, fa decisamente a pugni con tutta la storia del nostro Paese. E non soltanto per il significato dell’avventura fascista per la quale gli italiani hanno pagato un prezzo assai alto sul piano economico e di sofferenze della popolazione in ogni strato sociale e culturale. Quell’avventura ci pose, sul piano culturale, fuori delle correnti più moderne e progressive del continente europeo e ostacolò la competizione economica e civile negli anni successivi al conflitto mondiale. Ma anche per i tentativi che nell’Italia liberale (si pensi all’avventura coloniale ed espansiva di Crispi finita ad Adua) e in quella repubblicana (con i maldestri tentativi di golpe o di strette autoritarie che portano i nomi di De Lorenzo, Sogno ed altri negli anni sessanta, settanta e ottanta) in cui uomini politici e militari (alleati della Cia o di altri centrali straniere) si illusero di poter intervenire di autorità per risolvere rapidamente nodi e problemi dell’Italia contemporanea.
C’è stato, in quella storia, pre e post-fascista, il succedersi di frequenti pulsioni antidemocratiche che ebbero, senza dubbio alcuno, conseguenze negative sul funzionamento delle istituzioni e sulla fiducia degli italiani verso di esse.
Oggi a ragione si lamenta un civismo insufficiente da parte della classe politica. come degli italiani più in generale, che nasce dalla impossibilità di fare i cambiamenti necessari per concludere la transizione repubblicana ma illudersi, evocando il mitico “dittatore buono”, è peggio di un’illusione.
Rischia piuttosto di rivelarsi una sorta di desiderio di semplificazione pericoloso di fronte a un tasso insufficiente di tradizione democratica proprio dell’Italia contemporanea. È un tentativo che si lega alla storia della destra italiana prima e dopo il fascismo. Non certo allo spirito della Costituzione repubblicana.

l'Unità 21.1.08
Staminali embrionali umane: la ricerca al bivio
di Pietro Greco


La clonazione con trasferimento del nucleo era stata annunciata già nel passato ma era una truffa
La tecnica sviluppata dai giapponesi non passa per la formazione dell’embrione

DUE NUOVE ricerche ottengono risultati molto interessanti per la produzione di cellule pluripotenti e totipotenti. Però, la via che elimina il dilemma etico, apre il rischio di creare cellule malate

Con i risultati resi pubblici la settimana scorsa su Stem Cells da Andrew French e un gruppo di suoi collaboratori della società privata Stemagen di La Jolla, in California, la ricerca sulle staminali embrionali umane a partire da cellule adulte (con possibilità future di cure personalizzate) si ritrova ad avere, in pochi mesi, due diverse strade praticabili di sviluppo.
La prima è quella iPS, o delle «cellule staminali pluripotenti indotte», proposta a novembre scorso dal giapponese Shinya Yamanaka. La seconda è quella della clonazione per trasferimento di nucleo, proposta giovedì scorso dal californiano Andrew French.
Da un punto di vista strettamente scientifico, le due strade non sono alternative, ma complementari. Da un punto di vista bioetico le due strade sono invece molto diverse, perché quella proposta da Shinya Yamanaka (e, in maniera indipendente, da Junying Yu, del Genome Center della Wisconsin-Madison University) non passa attraverso la formazione di embrioni, mentre la strada proposta da Andrew French passa attraverso la formazione di embrioni.
Per cercare di capire perché, da un punto di vista scientifico, le due strade non sono alternative, dobbiamo ripercorrere in breve la storia della ricerca sulle cellule staminali umane. Le cellule staminali sono cellule non specializzate. Che, all’occorrenza, possono trasformarsi in una dei 200 e più tipi di cellule del nostro organismo. Il fatto è che le cellule staminali presenti nei nostri organismi adulti sono in grado di trasformarsi solo in alcuni tipi di cellule. Mentre le staminali presenti negli embrioni sono, si dice, totipotenti: si possono trasformare in tutti e ciascun tipo di cellula specializzata. Da un punto di vista scientifico lo studio di tutte le staminali è utile, per capire i meccanismi dell’evoluzione cellulare. Da un punto di vista medico, le cellule staminali adulte consentono già da tempo un impiego clinico, mentre le staminali embrionali promettono di più (anche se a tutt’oggi non c’è alcun loro impiego clinico). Da un punto di vista etico, le embrionali pongono dei problemi perché, per studiarle e utilizzarle si passa traverso la distruzione dell’embrione.
Per questo tutti hanno salutato con grande entusiasmo l’annuncio di Shinya Yamanaka, che lo scorso mese di novembre ha annunciato sulla rivista Cell di essere riuscito a indurre una cellula umana adulta prelevata dalla pelle a «regredire» fino allo stadio di staminale pluripotente. Un’autentica svolta. Sia perché offre una fonte di staminali simili alle embrionali. Sia perché non comporta la creazione di embrioni. Con qualche limite, però.
Il primo è che, appunto, le staminali indotte sono simili alle embrionali. Ma non abbiamo garanzia che siano analoghe alle embrionali. Sappiamo che sono pluripotenti, ma non sappiamo se sono totipotenti. Né sappiamo, a tutt’oggi, se in un qualche stadio della loro vita riprogrammate non manifestino comportamenti diversi dalle staminali tratte da embrioni. Il secondo limite è costituito dal fatto che, per indurle a ritornare bambine, Yamanaka introduce nelle cellule adulte quattro fattori (per i più curiosi diciamo che sono chiamati Oct3/4, Sox2, c-Myc e Klf4). Il guaio è che alcuni di questi fattori sono patogeni. Possono, per esempio, causare una crescita tumorale. Uno degli sforzi principali dei biologi sarà quello o di ottenere staminali embrionali indotte senza l’uso di fattori pericolosi o trovare il modo di estrarlo dalle cellule in modo sicuro una volta avvenuta l’induzione.
A questo punto ecco la seconda pista, quella per clonazione con trasferimento di nucleo. In realtà è la prima pista in assoluto: perché è quella usata per la clonazione della pecora Dolly. In passato molti hanno annunciato di aver clonato cellule umane. L’ultimo è stato il coreano Hwang. Ma si trattava di annunci o falsi o non dimostrabili. French sembra essere il primo ad aver ottenuto embrioni umani per clonazione con trasferimento di nucleo. Su 29 ovociti usati, i successi (ovvero gli embrioni nati) sono stati cinque: un’efficienza molto alta. L’annuncio, ovviamente, va confermato. Tuttavia se dovesse rivelarsi fondato, avremmo una fonte di staminali embrionali certamente totipotenti e, allo stato delle conoscenze più «pulita» della fonte di Yamanaka.
Ecco perché le due piste (come riconosce lo stesso Yanamaka) sono complementari e non alternative. Da un punto di strettamente scientifico occorrerebbe utilizzare entrambe sia per saperne di più sullo sviluppo cellulare, sia per ottenere nuove fonti di staminali embrionali e/o simili a embrionali.
Resta il problema etico. Dobbiamo puntare tutto sulla pista Yanamaka perché, pur avendo qualche limite in più, non passa attraverso la creazione di embrioni o dobbiamo puntare anche sulla pista French, perché è l’unica che garantisce cellule staminali embrionali e (a quanto ne sappiamo) sane? Non è un dilemma da poco. Occorrerebbe affrontarlo senza furori ideologici. Tenendo conto di due fattori divergenti: se è vero che non per tutti l’embrione «è uno di noi», è vero che quasi per nessuno è un «mero grumo di cellule». Se, quindi, se ne può minimizzare o addirittura evitare la distruzione è un bene. Dall’altra c’è il fatto che lo studio delle staminali tratte da embrioni finora ha contribuito in maniera non banale alla crescita delle conoscenze e le staminali embrionali continuano a essere considerate una promessa per la cura di svariate e gravi malattie che affliggono milioni di persone già nate. La scelta non è facile. E nessuno può pensare di tagliare il nodo con un colpo di accetta.

l'Unità 21.1.08
Vandana Shiva: «In India cresce la tecnologia
Ma i contadini si suicidano per la fame»
di Cristiana Pulcinelli


FESTIVAL DELLA SCIENZA A Roma ieri una conferenza congiunta di due rappresentanti di Cindia

All’auditorium di Roma ieri era di scena Cindia, ovvero l’aggregato di Cina e India. Le due nazioni più popolose del mondo stanno diventando protagoniste del mondo della ricerca scientifica e il festival della scienza della capitale ha dedicato l’ultima giornata ad analizzare questo fenomeno attraverso la conferenza di due donne: la neuroscienziata cinese Nancy Ip e l’indiana Vandana Shiva, fisica, economista e una delle più famose rappresentanti del mondo ecologista.
Nancy Ip ha fornito alcuni dati che indicano in modo chiaro come la Cina stia procedendo a passi da gigante verso l’obiettivo di uno sviluppo basato sull’innovazione. Basti pensare che nel giro di pochi anni l’investimento complessivo in ricerca e sviluppo è cresciuto tanto che nel 2005 è arrivato al secondo posto dopo gli Stati Uniti. E sempre al secondo posto, i cinesi si sono piazzati per numero di ricercatori, molti dei quali, peraltro, sono cervelli rientrati in patria dopo essere fuggiti in occidente. Secondo alcune previsioni, entro pochi anni il 90 % degli scienziati del mondo verranno dall’Asia. Certo, in Cina rimangono aperti numerosi problemi, a cominciare da una istruzione di base pubblica sempre meno di qualità. Poi c’è il problema della responsabilità sociale degli scienziati e l’impatto dello sviluppo di un paese tanto densamente abitato sulle risorse del pianeta. E ancora, il problema della tutela della proprietà intellettuale che, secondo i parametri occidentali, non è sufficientemente garantita.
E proprio da quest’ultimo punto prende le mosse il discorso di Vandana Shiva. I brevetti sono spesso frutto di atti di pirateria, dice la scienziata indiana: «La Monsanto ha preso i semi di una varietà di grano indiano a basso contenuto di glutine e li ha brevettati: ha detto questi sono mia proprietà. Si sa che le allergie al glutine sono molto diffuse in occidente e quindi questo grano è interessante da un punto di vista commerciale. Lo stesso è stato fatto con i semi di una varietà di cotone. Così i profitti della Monsanto crescono, mentre i contadini, che prima avevano i semi da piantare, oggi devono comprarli: negli ultimi anni 200mila contadini si sono suicidati in India».
Ma non è solo l’industria alimentare che si comporta in modo insostenibile. «Si è molto parlato dell’automobile Nano della Tata, quella da 1700 euro. Si è detto che è frutto dell’innovazione scientifica. In realtà è solo un’auto più piccola, ma che funziona come tutti gli altri veicoli, a benzina. Cosa c’entra quindi la scienza? Si tratta solo di un problema di design. Si è detto anche che l’auto costerà poco, ma è già costata troppo: terre fertili sono state espropriate ai contadini per darle all’industria che la costruirà. Si è detto che sarà un’auto per il popolo. Falso: se la potrà permettere solo il 5% della popolazione indiana». Il fatto è che la crescita economica in India sta rafforzando una classe di nuovi ricchi, ma la povertà è sempre più diffusa, sostiene Vandana Shiva. Qual è allora il metro per giudcare la buona scienza? «Usare al minimo le risorse della Terra e sostenere la creatività umana».

l'Unità 21.1.08
Archeologia. Il colpevole sarebbe il vulcano Santorini, ma c’è chi dice che fu l’Etna
Lo tsunami che distrusse i minoici
di Davide Ludovisi


Folate di vento colmo di cenere preannunciano la catastrofe. Poi un muro d’acqua alto nove metri si abbatte sui ricchi palazzi e villaggi. Questa potrebbe essere stata la visione tragica e apocalittica degli ultimi Minoici, 3.500 anni fa.
L’improvviso declino della civiltà minoica, all’apice di un periodo particolarmente fiorente, ha tolto il sonno a molti storici e archeologi, che hanno ipotizzato molteplici cause e concause, senza mai arrivare a una spiegazione definitiva. Creta, l’isola nel Mar Egeo dove i Minoici costruirono imponenti palazzi che ispirarono la leggenda del Minotauro, si trova a poca distanza dall’isola di Santorini; l’esplosione dell’omonimo vulcano è stata più volte indicata come l’avvenimento decisivo per la fine della civiltà minoica. Lo studio più recente ad abbracciare questa ipotesi è quello condotto da un team composto da ricercatori provenienti da cinque nazioni (Israele, Grecia, Stati Uniti, Germania e Olanda), pubblicato sul Journal of Archeological Science.
L’eruzione esplosiva del vulcano, secondo i ricercatori, avrebbe causato uno tsunami la cui lunghezza della cresta d’onda iniziale doveva raggiungere i 15 km. «Non sappiamo quante vittime provocò la catastrofe», racconta il Professor Hendrik Bruins della Ben-Gurion University of the Negev che ha condotto lo studio. «Non siamo sicuri che questo sia stato l’unico tsunami che ha coinvolto le coste di Creta, ma questa sembra essere l’unica prova di eventi del genere nel periodo minoico», afferma Bruins. Le ricerche hanno portato alla scoperta di estesi depositi nel Nord-Est di Creta. Questi depositi sono caratterizzati da un mix caotico di materiale geologico, inclusa cenere vulcanica di Santorini, macerie archeologiche, materiale ceramico, micro-fauna marina e anche ossa.
Di altro avviso è invece il Professor Enzo Boschi, presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, che ha studiato assieme ai suoi colleghi i possibili effetti di uno tsunami a Creta provocato dal vulcano Santorini attraverso le simulazioni. «In realtà alcuni depositi sottomarini del Mediterraneo Orientale attribuiti all’eruzione del vulcano Santorini sarebbero stati confusi con quelli derivati dal collasso di una parte dell’Etna avvenuto circa 8.000 anni fa», spiega Boschi. Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Geophysical Research Letters, infatti, molto prima dell’esplosione di Santorini, una gigantesca frana di circa 35 km cubici si staccò dall’Etna, inabissandosi nel Mar Ionio. «Questo ha provocato onde di maremoto che hanno colpito tutti i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo», continua Boschi. «Secondo le nostre simulazioni l’onda, una volta arrivata sulle spiagge, sarebbe stata in grado di raggiungere un’altezza di circa quindici metri».

l'Unità 21.1.08
Regole chiare per la psicoterapia
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
perché ha deluso così profondamente tutti gli psicoterapeuti familiari, ma anche tanti altri suoi lettori ed estimatori che si sono nutriti delle sue idee e adesso si vedono traditi come professionisti e come persone che lottano contro le lobby di potere? Perché ha voluto declassare, con una sua modifica alla sua stessa proposta di legge, lo psicoterapeuta a mero esecutore delle indicazioni dello psichiatra che effettua la diagnosi? Perché conformarsi a questa logica che porterà alla morte della sua e anche della mia professione?
Da lei vorrei solo avere dei perché chiari e onesti, credo che lo debba a tutti, io non mi permetto neppure di giudicare chi è dentro un meccanismo così complesso come quello della politica, a me, a tutti i suoi allievi, alle scuole nate dalla sua esperienza e a tutti gli spiriti liberi; vorrei un moto di ribellione tale da obbligare il parlamento a modificare questo obbrobrio, peraltro mi pare votato all’unanimità, destra e sinistra, cattolici e comunisti, reazionari e rivoluzionari come il no-global, moderati e radicali.
Paolo Mengani

Come prevedibile, le vicende dell’emendamento hanno messo in moto una discussione molto articolata e molto accesa. La tua lettera, caro Paolo, mi permette di esporre qui il mio pensiero partendo da una analisi del meccanismo che la legge metterà in moto nel caso in cui dovesse essere approvata così come è oggi. 1) La richiesta di prestazione psicoterapeutica parte dal medico di base, dal pediatra di base o dal medico attivo nelle istituzioni, incluse quelle carcerarie: la procedura è perfettamente analoga a quella richiesta per una prescrizione di aspirina, per un esame della glicemia o per una radiografia.
2) Il Servizio a cui la richiesta perviene è un servizio in cui operano professionalità diverse e che è in grado di dare risposte di tipo psicofarmacologico, psicoterapeutico e/o riabilitativo. I diversi tipi di intervento vengono messi in opera, in modo singolo o associato, da professionisti con competenze, titoli e curricula diversi. Quella di cui c’è bisogno in questa fase secondo il parere della Commissione è una operazione diagnostica che esclude l’origine internistica o neurologica del disturbo per il quale è giunta la richiesta di un intervento psicoterapeutico. Scegliendo il più classico degli esempi, quello di un paziente che presenta un quadro depressivo improvviso, importante e non facilmente relazionabile a situazione traumatiche, il Servizio cui è pervenuta la richiesta di psicoterapia dovrà porsi un problema di diagnosi differenziale tra: a) un disturbo depressivo, b) un disturbo depressivo reattivo, c) un disturbo sintomatico di un processo che si sviluppa a livello cerebrale (per esempio tumore del lobo frontale).
La psicoterapia è sicuramente il rimedio di scelta per l’eventualità b), può essere ed è ritenuto da alcuni il rimedio di scelta e/o un rimedio da associare ad altri (psicofarmaci) nel caso a); non avrebbe senso nel caso c) in cui le competenze mediche e neurochirurgiche debbono essere messe in primo piano al più presto. L’idea che questo tipo di operazione diagnostica sia affidata ad uno psichiatra o ad un neuropsichiatria infantile non è irragionevole né offensiva, a mio avviso, per le altre categorie professionali ma una precisazione si può fare aggiungendo come da me già proposto alla Commissione che «la diagnosi di cui al comma 2 è volta ad escludere l’origine internistica o neurologica del disturbo per il quale si richiede il trattamento psicoterapeutico». Nella mia idea originale tutte queste preoccupazioni potevano essere risolte affidandosi ad un processo diagnostico del Servizio inteso come il luogo d’incontro delle diverse professionalità; ora che la Commissione ha deciso in altro modo, tuttavia, credo che valga la pena di riflettere seriamente sulla portata e sulle conseguenze reali di questo emendamento. I passaggi più importanti dal punto di vista della diagnosi psicoterapeutica sono quelli che si sviluppano infatti nella fase di formulazione del progetto: è lì che le competenze dello psicologo diventano naturalmente fondamentali.
3) Una volta formulato il progetto, il paziente, la coppia o la famiglia arriveranno allo psicoterapeuta esterno al servizio. Quello che nella legge mi sembra chiarissimo è che questo psicoterapeuta agirà in piena autonomia. Le relazioni andranno inviate agli operatori che hanno formulato il progetto e il monitoraggio sarà svolto da questi ultimi. Da questo punto di vista la paura che lo psicoterapeuta stia sotto la longa manus dello psichiatra non ha motivo di esistere. 4) Il problema di un finanziamento ad hoc per la legge, che lei non solleva ma che altri hanno sollevato, sulla psicoterapia è stato a lungo valutato in Commissione. Quello che vorrei dire subito con chiarezza, tuttavia, è che io ho difeso la posizione di chi non lo ritiene necessario. Per più di un motivo. Il ministero della Salute ha segnalato da subito le difficoltà di quantificare la spesa e di vincolarne l’uso interferendo con la discrezionalità delle Regioni. Se davvero ci crediamo, d’altra parte, le psicoterapie debbano essere considerate alternative ad altre forme di intervento, più costose e meno efficaci, di tipo farmacologico e/o residenziale. L’effetto massa che io penso si determinerà a livello dei servizi sarà quello legato alle richieste di una utenza che non accetta più le risposte riduttive di tipo sostanzialmente solo medico o “pacca sulle spalle”. Sarà interesse comune dei servizi di salute mentale o di oncologia, delle dipendenze o del materno-infantile, quello di destinare dei fondi ai progetti psicoterapeutici. Seguire un paziente schizofrenico con un lavoro psicoterapeutico che riguarda lui e i membri della sua famiglia rende possibile una diminuzione molto marcata dei ricoveri, degli interventi domiciliari e delle dosi di neurolettici e il risparmio calcolato sui cinque anni può essere considerato di grande rilievo per il Csm che lo mette in opera. Ricoveri e sovradosaggi possono essere evitati, ugualmente, per tanti altri pazienti (bipolari o oncologici, in dialisi o in riabilitazione) se li si farà seguire in modo professionalmente adeguato da uno psicoterapeuta. Nel caso dei bambini diagnosticati come “iperattivi”, infine, gli interventi di terapia familiare possono evitare l’uso protratto, a volte pericoloso, di psicofarmaci funzionando come un potente fattore di prevenzione per lo sviluppo di forme psicopatologiche dell’adolescente e dell’adulto.
È per tutti questi motivi, credo, che questa legge deve essere approvata al più presto. Anche se non corrisponde completamente alle aspettative mie o degli psicologi.
Nessuno mai ha ragione del tutto e tutti hanno sempre le loro ragioni. Nella vita e nel Parlamento dove si è presa una decisione che non è piaciuta a te, caro Paolo, a molti altri. Senza fare però (in questo io dissento da te) nessun obbrobrio e senza decretare la morte di nessuna professione.

Repubblica 21.1.08
Gaffe della Smith, prima donna ministro dell'Interno: "La capitale è pericolosa, ho paura ad uscire da sola di notte"
Scuole inglesi violente, arriva il metal-detector
di e.f.


LONDRA - Per i milioni di turisti stranieri che la visitano ogni anno, la capitale del Regno Unito non sembra una città particolarmente pericolosa: ma forse dovrebbero essere più prudenti, se il ministro degli Interni britannico ammette di avere talmente paura a circolare per le strade della metropoli di notte, anche quelle del centro, da non farlo mai. Jacqui Smith è la prima donna ad avere il portafoglio degli Interni nella storia di questo paese: era un posto tradizionalmente riservato agli uomini, e per questo le sue parole sono state subito interpretate come un consiglio a tutte le donne: non girate da sole per le vie di Londra. Lei ha cercato di rimangiarsela, sostenendo che è stata almeno in parte fraintesa e che comunque la sicurezza dei cittadini è nettamente aumentata negli oltre dieci anni da quando i laburisti, prima con Blair, ora con Brown, sono al potere: ma ormai la gaffe era fatta. E a confermare la sensazione di una città e di un paese minacciato dalla violenza è giunta un´altra notizia: la decisione, anche questa autorizzata dal ministro Smith, di installare metal-detector nelle scuole come risposta alla crescente ondata di aggressioni, ferimenti e talvolta omicidi tra gli studenti. Ogni giorno a Londra una media di cinque adolescenti vengono aggrediti e feriti a coltellate o pistolettate a scuola. Al Sunday Times il ministro Smith ha detto che non si avventura mai da sola per le strade di Londra quando è notte fonda.
(e.f.)

Repubblica 21.1.08
La Cina teme il contagio Usa "La crisi colpirà anche noi"
L'economista He Fan: il caro petrolio frena l'export
di Federico Rampini


La rivalutazione monetaria. Sull´orlo della recessione
La risposta giusta per contenere l´inflazione è una stretta monetaria più severa e una più veloce rivalutazione della nostra moneta

Direttore del prestigioso Istituto di economia e politica internazionale presso l´Accademia delle scienze sociali di Pechino, il professor He Fan è uno dei più autorevoli economisti della Repubblica popolare. E´ anche uno dei più spregiudicati: parla senza tabù dei pericoli della crisi americana, denuncia l´effetto destabilizzante dell´inflazione sul consenso sociale in Cina, invoca una rivalutazione del renminbi, e ammonisce l´Europa a prendere atto che l´ascesa della Cina come superpotenza è ineluttabile.
Come andrà la crescita cinese nel 2008? Resisterete al contagio americano e sostituirete gli Stati Uniti nel ruolo di locomotiva mondiale? Oppure la vostra dipendenza dalle esportazioni vi rende vulnerabili?
«La Cina manterrà una crescita robusta ma meno vigorosa dell´anno scorso. Nel 2007 il Pil è aumentato dell´11,6% secondo i dati ufficiali, e forse di più nella realtà. Nel 2008 scommetterei su un risultato fra il 10% e il 10,5%. Di recente si è fatta strada l´idea che la Cina e altre economie asiatiche possano sganciarsi dall´andamento dell´economia americana. E´ vero che negli ultimi anni la crescita Usa non è stata brillante e invece quella cinese è stata formidabile. Ma io escludo che la Cina possa isolarsi del tutto da un contagio americano. Il nostro meccanismo di sviluppo è intimamente collegato alla globalizzazione. Nessuna economia è un´isola e noi non facciamo eccezione. Le esportazioni contribuiscono per un terzo alla crescita del Pil cinese. Se c´è una grave recessione negli Stati Uniti, la Cina soffrirà parecchio. Anche se il rallentamento americano dovesse essere "soft" io prevedo che le nostre esportazioni diminuiranno. Vi contribuiscono dei fattori interni: sta aumentando il nostro costo del lavoro, insieme con i costi dell´energia e delle materie prime che dobbiamo importare. Inoltre il governo cinese investe di più nella protezione dell´ambiente e anche questo ha dei costi. Infine sono convinto che è in arrivo un´ondata protezionista contro di noi».
Quanto è serio per voi il problema dell´inflazione? Il potere d´acquisto del lavoratore cinese perde quota?
«Il rincaro dei prezzi è il problema numero uno per il governo cinese in questo momento. Per molti anni l´inflazione era rimasta sotto controllo. Dal 2006 e soprattutto nel 2007 è ripartita al rialzo. L´effetto più grave è che si allarga ulteriormente il divario tra i ricchi e i poveri. Chi ha solo il salario per vivere sarà più colpito. La maggioranza della popolazione soffre per il carovita nei beni alimentari e nell´energia. La storia ci insegna che l´inflazione può minacciare la stabilità sociale. L´ultimo esempio fu alla fine degli anni 80: una delle cause dei disordini di Piazza Tienanmen fu l´inflazione a due cifre che imperversava a quell´epoca. Perciò il governo è molto preoccupato. Un altro timore: l´inflazione alimenta la bolla speculativa del mercato immobiliare che prima o poi scoppierà provocando a sua volta tensioni sociali. Alcune categorie di lavoratori sono relativamente protette grazie ai recenti aumenti salariali ma questo a sua volta può accelerare l´inflazione. La risposta giusta secondo me è una stretta monetaria più severa, e una più veloce rivalutazione della nostra moneta, il renmimbi».
Questa è "musica" per le orecchie occidentali. Americani ed europei chiedono da tempo che il renmimbi diventi più forte. Perché lei è favorevole?
«Una delle cause dell´inflazione è che importiamo petrolio e materie prime i cui prezzi in dollari sono rincarati vertiginosamente. Se il renmimbi si apprezza pagheremo meno le importazioni e la pressione sul costo della vita verrà calmierata. Credo che il governo sia più aperto oggi su questo terreno. In passato i dirigenti cinesi temevano che una moneta più forte avrebbe penalizzato le nostre esportazioni creando disoccupazione. Ma dalla fine del 2005 alla fine del 2007 si è lasciato che il renmimbi si apprezzasse lentamente sul dollaro, circa del 10%, eppure il nostro attivo commerciale con gli Stati Uniti è aumentato. Ho fatto ricerche mirate sui settori industriali esportatori in regioni come il Guangdong, arrivando alla conclusione che anche se dovessero fallire alcune piccole e medie aziende esportatrici non vi saranno effetti consistenti sulla disoccupazione. In quelle aree ormai ci sono fenomeni di penuria di manodopera e i lavoratori licenziati troverebbero facilmente un posto. Credo che nei prossimi tre anni vedrete una rivalutazione del renmimbi molto più pronunciata».
Cosa vuol dire per noi? Diminuirà l´invasione del made in China sui mercati europei?
«Non fatevi illusioni, non sarà il renminbi più forte a correggere gli squilibri commerciali. Le esportazioni cinesi non sono molto sensibili al tasso di cambio. Perfino se rivalutassimo il renminbi del 20% o addirittura del 50% continueremmo ad avere un attivo commerciale. La ragione va cercata nei cambiamenti strutturali dell´economia mondiale e del commercio fra nazioni. Non bisogna ragionare secondo i vecchi schemi per cui noi ci specializzavamo nei prodotti ad alta intensità di lavoro come le scarpe e i vestiti, e in cambio importavamo alta tecnologia come gli Airbus. Il vero carattere distintivo della globalizzazione è l´immensa dimensione della delocalizzazione e dell´outsourcing in ogni settore industriale. Le multinazionali europee e americane devono reagire alla concorrenza riducendo i costi e quindi spostano continuamente interi processi produttivi in Cina e in altri paesi emergenti. Gran parte delle nostre esportazioni fanno parte di questo fenomeno: importiamo materie prime e semilavorati, li trasformiamo, creiamo valore aggiunto e riesportiamo, spesso per conto di multinazionali occidentali. Per quanto si rivaluti la nostra moneta, molte produzioni di computer o di scarpe non torneranno mai più in Europa. Una rivalutazione del renmimbi spingerà le nostre imprese a diventare più efficienti com´è accaduto in Giappone. Rispetto agli anni 70 lo yen giapponese si è rivalutato eppure il Giappone continua ad avere un grosso attivo commerciale con l´Occidente».
Gli europei sono angosciati dall´effetto dello sviluppo cinese sull´ambiente. State cercando seriamente di ridurre le emissioni carboniche?
«Cominciamo a vedere i primi effetti delle misure in favore dell´ambiente. Nelle mie indagini più recenti nella provincia industrializzata del Guangdong ho individuato molte piccole aziende che sono state costrette a chiudere per via delle nuove normative contro l´inquinamento. Stiamo anche introducendo incentivi di mercato che rendano redditizio tagliare le emissioni carboniche per vendere i propri diritti sul mercato, secondo il modello di Kyoto. L´Europa può aiutarci accelerando il trasferimento di tecnologie "verdi". E´ nel vostro interesse ed è anche una grande opportunità di mercato».
Di fronte all´ascesa della Cina come superpotenza ci interroghiamo: in che modo segnerà il XXI secolo? Quale sarà l´impronta cinese sul nuovo ordine mondiale?
«E´ evidente che eserciteremo un ruolo sempre più decisivo non solo nell´economia globale ma anche sulla scena politica. Io non credo che saremo una forza destabilizzante, al contrario. Siamo talmente interessati al buon funzionamento dell´economia globale, che c´è un´evidente convergenza d´interessi con gli Stati Uniti. Guardate com´è cambiata negli ultimi anni la percezione che i nostri vicini asiatici avevano di noi: ancora dieci anni fa i paesi confinanti vedevano la Cina come una minaccia, oggi hanno cambiato completamente parere. Vedo semmai più occasioni di tensione con l´Europa, dove alcune nazioni meno sviluppate si sentono più direttamente minacciate dalle esportazioni cinesi. Se si aggiunge il fatto che avete economie e mercati del lavoro meno flessibili degli Stati Uniti, è in Europa che vedo venire più tensioni protezionistiche. Ma dovete essere consapevoli che l´ascesa della Cina è inesorabile. E´ urgente costruire nuove istituzioni per il dialogo e la governance globale: quelle esistenti come il G8 o il Wto non sono riuscite a integrare in modo soddisfacente il nuovo peso politico delle nazioni emergenti».

Repubblica 21.1.08
Kawabata. L'ultimo segreto dell'eros
di Pietro Citati


La bellezza femminile, la natura, la morte e il peso del passato nei cinque racconti di "Immagini di cristallo" del grande scrittore giapponese
Sensazioni lievi che si intrecciano Al narratore importa solo ascoltare e odorare la grande analogia dell´universo
Come Proust sa penetrare il dolcissimo e tremendo mistero del sonno, l´abisso che custodisce la profondità della vita

Quando leggiamo un libro di Kawabata, (Immagini di cristallo, a cura di Lydia Origlia, Einaudi, pagg. 128, euro 8,50) abbiamo la continua impressione che noi, esseri umani, occupiamo una parte piccolissima dell´universo. Siamo soltanto un dubbio prolungamento della natura: forse il nostro unico compito è quello di guardarla: non solo a Kyoto, dove raggiunge la sua forma suprema, ma dovunque o almeno in tutti i luoghi di quel paese felice che è il Giappone. Scrivere romanzi è un´arte secondaria, rispetto alla vera arte - la contemplazione della natura.
Quasi sempre, conosciamo la parte più lieve e gracile della natura. Fiori di girasole dallo stelo spezzato, fiori di ciliegio, fiori bianchi di susino, fiori rossi di pesco, bianche e fluttuanti azalee, fiori di loto con un passato di migliaia di anni, piccoli, anonimi fiori azzurri, le foglie rosse dell´acero: tre farfalle che appaiono e scompaiono tra le foglie nerazzurre di un cespuglio, libellule che volano in sciame temendo di essere inghiottite dalla notte: alberi di nespolo che estendono i rami in ogni direzione: gocce di pioggia sulle punte degli aghi dei pini, simili a fiori di rugiada improvvisamente sbocciati; e iris disegnate sulle fasce dei vestiti femminili. Non c´è mai quella grandiosa metamorfosi delle donne in fiore e degli alberi in donne, che incontriamo nella Recherche di Proust. Sia che contempli un tramonto sia che ammiri i giardini di Kyoto, Kawabata non si identifica o si trasforma in natura: è natura.
Tutti i romanzi di Kawabata sono imbevuti di un intensissimo sentimento erotico: davanti al grembo armonioso di una ragazza, il vecchio Eguchi «ne ha il fiato mozzo e le lacrime agli occhi», tanto la bellezza femminile lo sconvolge. Questo sentimento non ha quasi bisogno di venire tradotto in atti sessuali, perché pervade l´universo: l´amore per una donna comprende in sé il volo di due farfalle, il fogliame di un bosco, un vaso da fiori o un bricco di tè che conservano tracce umane, e persino un punto lontanissimo della via Lattea. Tutto odora di eros, finché l´eros si trasforma in ogni senso: - sguardo, suono, profumo, colore. Le sensazioni tenui e lievi si intrecciano. Qualche volta, Kawabata dimentica di raccontare. Gli importa soltanto vedere, ascoltare, odorare, toccare la grande analogia dell´universo: la tessitura delicatissima e compatta, che ci salva e ci imprigiona.
Quando «le piccole e fioche lanterne» dei morti brillano nella notte, ci ricordano che niente dura, la vita è caduca, e la morte abita dentro la vita. Nei romanzi di Kawabata la morte è sempre prossima, e ogni momento vecchi stanchi e giovani coppie si uccidono, in primo luogo perché il passaggio di là è così facile. Ogni istante è pieno di passato. Se afferriamo una semplice tazza da tè, ricordiamo che molte persone l´hanno conservata gelosamente, l´hanno portata con sé in viaggio e hanno lasciata sopra di lei la propria traccia: la tazza vibra, emana luce, ci comunica l´ebbrezza erotica che uno di questi morti ci ha dato durante l´esistenza. Qualche personaggio aspetta il passato: il passato fiorisce nel presente, nascondendosi dappertutto, finché forma nell´oggi come un bianco fiore di loto; e calma, placa, cancella ciò che è effimero. Ma il tempo non lascia polvere né squallore né vecchiaia né peso, come noi europei siamo abituati a credere. Se viene immersa in un vaso vecchio di trecento anni, una campanula di colore blu suscita «una sensazione di viva freschezza». La freschezza è uno dei valori supremi nei libri di Kawabata: egli ripete di continuo questa parola; e sa che può essere evocata anche da ciò che odora di tempo.
* * *
Come scriveva Mishima, nessuno scrittore giapponese ha mai rappresentato con tanta attenzione e tenerezza l´anima femminile del Giappone. Quanti visi e corpi di donne incontriamo nei romanzi di Kawabata: grandi occhi dalle iridi nere e lucenti, palpebre leggiadrissime, carnagioni luminose, pelli delicate e soavi, capezzoli rosa, orecchi minuscoli. Il puro fascino della vita sembra non avere altro luogo dove posarsi. La volontà e la violenza dei maschi si scagliano contro questi visi e questi corpi: le donne li assecondano «con un´arrendevolezza flessuosa», sembrano cedere; eppure, alla fine, tutto, uomini, case, alberi, fiori, giochi del go, tazze di tè, è imbevuto da onde di caldo profumo femminile. L´ultimo segreto della bellezza femminile è la tristezza: le donne, diceva Mishima, sono «avvolte dalla tristezza, come da una lieve foschia», che respira silenziosamente nei corpi. Quando gli occhi e le carnagioni si tingono di malinconia, un soffio celeste pervade il Giappone.
Anche la neve è femminile. Nel Paese delle nevi, tutto è bianco, gelido e diafano: la neve dell´alto paese di montagna imbeve il racconto, finché leggendo sentiamo di respirare soltanto neve. Quando è inverno, le ragazze preparano il lino chijim, impiegato per i freschissimi kimono estivi. «Il filo viene filato nella neve, la tela tessuta nella neve, lavata in acqua di neve e lasciata a sbiancare nella neve». I lini sono abbandonati sulla neve alta e, ogni mattina, colpiti dal sole nascente, si tingono di una sfumatura scarlatta. Allora la scena, dicono gli appassionati giunti da ogni parte del Giappone, è «di una bellezza incomparabile». Nessun maschio prepara i lini: solo ragazze tra i quattordici e i ventiquattro anni che hanno imparato l´arte fin da bambine; se superano i ventiquattro anni, il tessuto perde la sua lucentezza e freschezza, che si prolungano nell´estate. La neve bianca, i lini bianchi: tutto ciò allude alla purezza, alla verginità e alla morte (il bianco, in Giappone, è anche il segno del lutto), che accompagnano il mondo femminile.
Nel libro più famoso di Kawabata, La casa delle belle addormentate, il vecchio Eguchi penetra, la sera, in una strana casa di appuntamenti, dove tutto è vuoto e silenzioso. In una stanza dalle rosse tende di velluto, una ragazza ha assorbito un potente sonnifero e dorme: nelle sere successive, verrà sostituita da altre ragazze. Tutte le ragazze dormono con un respiro profondo: la mano destra sfiora il volto addormentato: le dita, nell´abbandono del sonno, si incurvano appena; la mano è bianca e morbida, ma il rosso del sangue si fa più intenso verso le punte delle dita. Nel sonno, le ragazze fanno piccoli gesti: voltano il viso, muovono le spalle, sollevano la mano sinistra e la portano alle labbra, lasciano intravedere i denti; le labbra dischiuse e le guance paiono, a volte, attraversate da un sorriso. Qualcuna profuma di peonia o di glicine. Sebbene le ragazze siano prezzolate, sono vergini. Conservano il chiuso, il difeso, il protetto, l´inconscio dell´anima femminile: quel bianco che avevamo intravisto nei lini dei kimono distesi sulla neve.
Credo che solo Proust abbia rappresentato, come Kawabata, il dolcissimo e tremendo mistero del sonno: questo luogo sconosciuto, che esiste accanto a quello diurno; quest´abisso che costeggia la nostra vita, straniero alla vita, e che pure sembra custodire la profondità della vita. Nella Recherche, Marcel penetra nel sonno di Albertine: ne possiede la mente e le sensazioni come non li possiede nel giorno; mentre Eguchi contempla soltanto dall´esterno le ragazze che dormono. Il suo è un lungo assedio. Ausculta il respiro delle ragazze, odora i profumi, sfiora i denti, respira i capelli, appoggia una guancia e passa le labbra sul dorso di una mano, sfiora, accarezza, bacia: una volta vorrebbe violare una delle ragazze. Poi rinuncia, perché capisce che nessuna violazione gli permetterà di penetrare nei corpi e nelle menti addormentate. Non saprà mai quali pensieri e sensazioni li attraversano: il sonno resta, sino alla fine, inespugnabile, - la cosa più inespugnabile dell´universo. Eppure, mentre ausculta i respiri e odora i profumi, capisce di intravedere un altro spazio, superiore al nostro: il suo è un rapporto esoterico, gli dice un amico, come se dormisse accanto a un Buddha. Contemplando il sonno delle ragazze, contempla la sorella del sonno, la morte - una morte candida, innocente, verginale -, che è l´ultimo segreto dell´anima femminile.

Corriere della Sera 21.1.08
Stati generali anti-legge 40 Pronta una pioggia di ricorsi
Fecondazione, 50 coppie si rivolgono ai tribunali
Un pacchetto di iniziative, dopo che i tribunali di Cagliari e Firenze hanno dato ragione a coniugi con malattie genetiche
di Margherita De Bac


Enna. Sarà anche chiesto alle Asl il rimborso dei viaggi all'estero

I cinquanta ricorsi
Contro la legge 40 sulla fecondazione assistita l'associazione Hera ha già preparato cinquanta ricorsi in diversi tribunali d'Italia. Si procederà con la formula dell'urgenza in base all'ex articolo 700. Per le coppie l'associazione ha preparato un vademecum giurisprudenziale
I danni psicologici
Nel pacchetto di iniziative contro la legge 40 è compresa anche la richiesta di un risarcimento per danni psicologici e fisici da parte di donne che hanno avuto tre gemelli. Questo perché in Italia è obbligatorio per le donne che chiedono la fecondazione assistita impiantare tutti gli embrioni fecondati
I rimborsi dalle Asl
Le coppie che pur di superare gli ostacoli dell'Italia hanno preso la via dei centri esteri, soprattutto cercando aiuto in Spagna e in Turchia, cercheranno di ottenere dalle Asl il rimborso delle cure. In questo senso saranno promosse azioni legali su tutto il territorio nazionale. Le associazioni mettono a disposizione i loro legali

Sulla procreazione medicalmente assistita in Italia si discute da anni. Troppi. Siamo stati il Paese scientificamente all'avanguardia in questo campo, siamo il Paese che ha deciso di mettere «paletti» normativi. La paura del Far West ha portato a una legge, dopo anni di dibattiti, nel 2004. Immediato il referendum, nel 2005, con il quorum non raggiunto, seguito dalle promesse di linee guida che sanassero le possibili incongruenze. Linee guida non ancora arrivate. Il tema è troppo importante perché le persone siano lasciate senza risposta.
Il ministro Livia Turco ha annunciato a breve la modifica delle linee guida della normativa Manifesti Cartelloni elettorali per il referendum sulla fecondazione assistita nel giugno 2005

ENNA — «Il nostro problema non è scegliere tra un figlio sano e l'altro malato. Il nostro problema è scegliere tra un figlio vivo e un figlio morto », dice Francesco, 35 anni, siracusano come la moglie Grazia. Ieri erano a Villa Gussio Nicoletti, vicino a Enna, per unirsi alle mille voci di coppie rese infelici dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita e dalle sue rigorosissime linee guida applicative. Grazia e Francesco non hanno alternativa. A causa di un'anomalia genetica della donna (traslocazione cromosomica robertsoniana), anomalia che nel 75 per cento delle gravidanze porta ad un aborto entro il terzo mese. In due anni, da quando provano ad allargare la famiglia, a loro è successo tre volte: «Sono arrivata appena a sentire il battito di uno dei tre bambini e poi più nulla», racconta lei. Ora andranno in Turchia per provare con la diagnosi preimpianto degli embrioni, tecnica vietata in Italia. Ma non rinunciano a tentare anche attraverso una seconda strada. Un ricorso contro le linee guida. Due tribunali, a Cagliari e Firenze, hanno dato ragione a coniugi con malattie genetiche.
Ed è proprio a Villa Gussio, dove l'associazione Hera ha organizzato una sorta di stati generali dei pazienti, è stata dichiarata guerra alla legge 40. Guerra di iniziative legali. «Sono già pronti almeno 50 ricorsi in diversi tribunali, procederemo d'urgenza in base all'ex articolo 700», — li conta Maria Paola Costantini, avvocato di Cittadinanza attiva, che ha preparato un vademecum giurisprudenziale per i genitori.
Il pacchetto di iniziative contenute nel documento approvato ieri, sotto il coordinamento del ginecologo Nino Guglielmino, comprende altri tipi di controffensive, come la richiesta di risarcimento per danni psicologici e fisici da parte di donne che hanno avuto tre gemelli in conseguenza di una delle norme (obbligo di impiantare tutti gli embrioni fecondati). I genitori che per superare gli ostacoli del-l'Italia hanno preso la via dei centri esteri, soprattutto Spagna e Turchia, cercheranno invece di ottenere dalle Asl il rimborso delle cure. «Intendiamo procedere con un appello per la promozione di azioni legali su tutto il territorio nazionale. Le associazioni mettono a disposizione un collegio di difesa». Escluso invece il ricorso alla class action. Si è visto che non può essere applicata a questi casi. I problemi della migrazione sono evidenti anche in Italia. Le coppie si muovono dal Sud al Nord, più organizzato per numero di strutture pubbliche di fecondazione assistita. Lo scorso anno in Lombardia sono stati effettuati quasi il doppio dei cicli rispetto della Sicilia. Ciò comporta tra l'altro una spesa maggiorata per la regione di origine dei pazienti, che deve provvedere ai rimborsi.
«Non vogliamo tornare in Turchia — incalza dal pubblico Miriam —. Ma ci costringono a farlo. Pendiamo dalle labbra di chi deve decidere se riaprire le porte alla diagnosi dell'embrione.
Stiamo aspettando che da noi cambi qualcosa. All'estero abbiamo provato già una volta con la tecnica della selezione, è stata oltre che inutile molto impegnativa dal punto di vista psicologico. Mio marito ha una grave malattia ereditaria agli occhi, non possiamo rischiare che l'abbiano i nostri figli».
La modifica delle linee guida è stata annunciata dal ministro Livia Turco come imminente. Ma i tempi continuano a slittare. Potrebbe essere ammorbidito il divieto di diagnosi pre impianto, tra l'altro non contenuto nella legge ma aggiunto dalla commissione che sotto il governo Berlusconi lavorò al documento. Giovedì alcune parlamentari tra cui Katya Zanotti, Daniela Dioguardi e Donatella Poretti chiederanno al ministro in un question time quando intende presentare le eventuali modifiche e se, nel formularle, ha tenuto conto delle due sentenze di Cagliari e Firenze.

Corriere della Sera 21.1.08
Scuse Dopo le proteste di Washington sarà rivisto il testo che insegna come soccorrere i propri cittadini soggetti a sevizie
«Usa e Israele torturatori»: bufera sul manuale diplomatico canadese
di Ennio Caretto


Il segreto svelato. Il dossier doveva restare segreto. E' venuto alla luce quando il ministero degli Esteri di Ottawa l'ha consegnato per sbaglio ad Amnesty International

WASHINGTON — Un manuale di 89 pagine per i diplomatici canadesi, con disegni e diapositive, che includeva gli Stati Uniti e Israele tra i Paesi che praticano la tortura, sarà «rivisto e riscritto». Lo ha annunciato a Ottawa il ministro degli Esteri Maxime Bernier, chiedendo scusa a Washington e Gerusalemme. Il manuale, che descriveva come sevizie alcune tecniche d'interrogatorio americane, ha rischiato di causare una rottura tra il premier Stephen Harper e George Bush, entrambi conservatori. «Mi rammarico molto che abbia messo in imbarazzo alcuni dei nostri più stretti alleati — ha aggiunto Bernier —. I loro nomi non dovevano figurarvi». Il manuale era venuto alla luce accidentalmente: il ministero degli Esteri canadese lo aveva consegnato per sbaglio ad Amnesty International dopo essere stato querelato per violazione dei diritti umani nella guerra al terrorismo.
Il manuale, sembra in uso da anni e sinora rimasto segreto, insegna ai diplomatici come soccorrere i cittadini canadesi torturati in altre nazioni. Gli Stati Uniti e Israele vi compaiono — indipendentemente da Guantanamo — assieme all'Afghanistan, l'Iran, l'Arabia Saudita, la Siria, l'Egitto, la Cina e così via, nel capitolo «Possibili torture e casi di abuso». Il manuale condanna le tecniche d'interrogatorio che secondo Washington non costituirebbero sevizie «perché a lungo termine producono gli stessi effetti delle torture», e cita l'incappucciamento dei detenuti, la loro nudità forzata a temperature glaciali, la privazione del sonno e l'assunzione di posizioni molte dolorose. Il campo di detenzione di Guantanamo è oggetto di un capitolo a parte perché dal 2002 ospita un musulmano con cittadinanza canadese, Omar Khadr, 21 anni, di cui Amnesty international, ma non il premier Harper, ha chiesto la restituzione a Ottawa. In una breve dichiarazione, Bernier ha precisato che il manuale «non è una direttiva politica, e non riflette perciò la dottrina del governo». E la sua portavoce Marina Wilson ha sostenuto che «lo scopo del corso per i diplomatici è di stimolare il confronto delle idee e prepararli a situazioni imprevedibili».
Ma la scoperta del manuale aveva destato scandalo nei Paesi confinanti, spingendo l'ambasciatore statunitense a Ottawa, David Wilkins, a intervenire in maniera pesante. «E' offensivo che un alleato ci accosti a Paesi come l'Iran e come la Siria — aveva protestato Wilkins —. Noi non abbiamo torturato e non torturiamo nessuno. Lo abbiamo ribadito molto vigorosamente ». Bernier ha accettato le rassicurazioni americane, pur senza dire in che misura il manuale verrà modificato: certo è che scompariranno i nomi degli Stati Uniti e di Israele. Al pari degli altri Paesi elencati dal manuale, dall'Afghanistan alla Cina, Israele non ha fatto commenti.
Per Amnesty International, l'annuncio di Ottawa è «una resa» a Washington e Gerusalemme. Alex Neve, il suo segretario nazionale, ha definito il manuale «uno strumento importante per i diritti umani» e deprecato che il governo canadese abbia loro anteposto l'interesse degli alleati. La sua associazione sta tentando di impedire a Ottawa di continuare a consegnare a Kabul i talebani catturati nel conflitto in Afghanistan dalle truppe canadesi ma Ottawa risponde che il governo afghano garantisce che non saranno torturati.

Corriere della Sera 21.1.08
Dimenticare Pol Pot
di Ettore Mo


Processo alle porte per l'ex regime Ma in Cambogia nessuno lo vuole

Vecchie ferite. A partire dal primo ministro Hun Sen molti in Cambogia non caldeggiano il processo ai Khmer rossi, temendo la riapertura di vecchie ferite Ieri e oggi
Un'immagine della Phnom Penh di oggi La capitale fu fondata nel XIV secolo ed era soprannominata la «perla d'Asia»: attualmente conta oltre 2 milioni di abitanti

PHNOM PENH — Questo processo non s'ha da fare. Può venire in mente il perentorio avvertimento dei «bravi» di Don Rodrigo a Don Abbondio circa il matrimonio di Renzo e Lucia ogni volta si torna a parlare, qui in Cambogia, del Tribunale speciale che ancora non è riuscito a portare alla sbarra i leader dei Khmer rossi, responsabili del massacro, negli anni Settanta, di un milione e settecento mila persone. Un genocidio. Il progetto di un Tribunale straordinario che si occupasse dei crimini attribuiti al regime di Pol Pot venne lanciato dal Parlamento di Phnom Penh nel gennaio del 2001 e nel giro di tre anni l'Onu adottò una risoluzione che ne definiva le regole, la composizione mista di giudici cambogiani e stranieri, le pene previste, i finanziamenti da ripartire tra i Paesi coinvolti. Dopo tanti rinvii, l'ultima promessa è che dovrebbe entrare in funzione nei primi mesi di quest'anno.
Ma chi finirà sotto processo? Ad uno ad uno, i protagonisti dalla cricca di Pol Pot (morto nel '98, per attacco cardiaco) se ne sono andati, esausti e quasi dimenticati. Ta Mok, braccio destro del Capo e definito «il macellaio della Cambogia» morì l'anno scorso in prigione, suscitando pure, in qualcuno, sentimenti di pietà. «Era un uomo vecchio e malato — mi dice Kong Sanguar, uomo di cultura che gode di prestigio anche in ambiente politico —, aveva diritto di morire in casa, con la famiglia». È stato tumulato a Pailin, vicino al confine con la Thailandia dove sono concentrati i Khmer rossi, che hanno seguito il corteo funebre in lacrime, tra le preghiere di una settantina di bonzi. Ancora in carcere è Kaing Guek Eav, conosciuto come «camerata Duich», ex insegnante di matematica che divenne direttore del Centro di tortura di Toul Sleng (la collina degli alberi velenosi), trasformata poi in un tetro museo dove si conservano migliaia di teschi delle vittime. Altro «grande» superstite in attesa del processo è Nuon Chea, 82 anni, arrestato l'anno scorso nella sua casa-palafitta di Pailin, con vista sul canale, e portato in elicottero a Phnom Penh, con vista cielo tra le sbarre. Se Duch era manovale della tortura, Chea ne era la mente.
Altri due anziani gerarchi della «cricca» sopravvissuti finora impunemente dovrebbero salire (ma non è sicuro) sul banco degli impu-tati: Khieu Sampan, 76 anni, ex capo di Stato e ministro degli Esteri che nel '98 si è «riallineato » col governo di Phnom Penh; e Ieng Sary, alla soglia degli ottanta, che, ottenuto nel '96 «il perdono reale» da Sihanouk, promosse la defezione delle unità militari dei Khmer rossi, inglobandole nell'esercito. È comunque diffusa la sensazione, al vertice del potere e nella popolazione, che la Kampuchea Democratica, nata il 17 aprile '75 quando i Khmer entrarono a Phnom Penh e durata 3 anni, 8 mesi e 20 giorni, debba scomparire definitivamente dalla memoria dei cambogiani.
Kong Sanguar, quando gli chiedo cosa pensa la gente dell'imminente megaprocesso contro gli ex capi dei Khmer rossi, risponde secco: «Intanto che verrà a costare 84 milioni di dollari: soldi sprecati, che sarebbe meglio dare ai contadini e al proletariato rurale che vive di stenti. Oggi, l'uomo forte è Hun Sen, figlio di contadini, che parla e pensa come loro. Nato nel '52, a 18 anni obbedisce all'ordine di Sihanouk e va a combattere in campagna, dove perde un occhio. È stato uno dei primi a consegnarsi nel '77 ai vietnamiti per sfuggire a Pol Pot e due anni dopo rientra in Cambogia. Oggi, il nostro esercito, che è il più grande del mondo rispetto alla popolazione (13 milioni di abitanti ndr), è nelle sue mani ».
Tra coloro che non hanno mai caldeggiato l'idea del megaprocesso e non ne attendono con ansia l'apertura c'è Hun Sen, da oltre vent'anni al timone della Cambogia, per il quale l'azione giudiziaria potrebbe riaprire «vecchie ferite» e perfino sfociare in una nuova «guerra civile». Atteggiamento, suggeriscono i suoi avversari, che va interpretato come un debito di riconoscenza verso Khiou Sampan e Noun Chea, fidatissimi alleati e sostenitori di Pol Pot, che ebbero un ruolo determinante nella sua scalata al potere.
«Dovete rendervi conto — insiste il nostro accompagnatore Claudio Bussolino, trapiantato qui da anni e felicemente sposato con una cambogiana — che in questo Paese la gente vive nel presente e fa di tutto per ignorare il passato. Non è nella loro cultura né nella loro indole rivangare tempi remoti, comunque già congelati per l'eternità nei libri di storia. Potrà sembrare strano, ma il nome di Pol Pot lo sento fare solo in Italia, quando ci rimetto piede una o due volte l'anno: ma è così ».
La cautela e determinazione di Phnom Penh nel tentativo di impedire che, con il processo, la catastrofica avventura dei Khmer rossi venga riesumata, trova il consenso delle grandi Potenze: di Pechino che, avendo sostenuto Pol Pot, dovrebbe ammettere la propria corresponsabilità nei massacri commessi; e di Washington, che nel '69 scaricò più di 500 mila tonnellate di bombe per far piazza pulita dei Vietcong lungo il sentiero di Ho Chi Min e poi diede manforte ai Khmer in lotta contro il regime di Hanoi. In definitiva, oggi in Cambogia tutti sembrano d'accordo che è necessario scoraggiare turisti e visitatori stranieri dal ripercorrere le tappe del martirio sofferto dalla popolazione negli ultimi cinquant'anni, come il sacrario di Toul Seng, dove sono esposte le foto in bianco e nero dei prigionieri scattate da un giovanissimo fotografo, Nhem En, che con tanti altri superstiti sta ora affrontando le udienze preliminari del processo; o di recarsi in pellegrinaggio all'abitazione del pittore sessantenne Vann Nath, uno dei pochi usciti vivi da Toul Seng, perché potesse ultimare in carcere il ritratto di Pol Pot che gli era stato commissionato: esperienza che ha raccontato in un suo libro di memorie, dove scrive che il maggior supplizio era «ascoltare gli urli di dolore provenienti da ogni angolo della prigione».
Non può sorprendere che il Presidente americano Jimmy Carter abbia definito il regime di Phnom Penh «il peggior nemico dei diritti dell'uomo». È infatti catastrofico il programma in otto punti stilato nel maggio del '75 subito dopo l'insediamento dei Khmer rossi nella capitale: «Un progetto politico aberrante — dice Bussolino, riassumendo il giudizio degli storici — che prevedeva anzitutto la collettivizzazione forzata dell'agricoltura ». Circa tre milioni di persone sono costrette ad abbandonare le città per andare a lavorare nei campi. Vengono applicate tutte le misure coercitive per costruire una società nuova, basata sui principi rigidi del marxismo: chiusura dei mercati, abolizione del denaro, secolarizzazione dei bonzi, eliminazione dei quadri del passato regime, instaurazione di comuni agricole, espulsione dei vietnamiti, il nemico di sempre. Ma dovranno passare 14 anni prima del ritiro totale dei loro reparti dalla Cambogia.
All'evacuazione nelle campagne (strazianti le testimonianze che si possono tuttora raccogliere fra gli anziani sopravvissuti) sono seguite, tra il '76 ed il '77, le purghe di Pol Pot all'interno del partito comunista e dell'esercito contro tutti i sospetti «agenti del Kgb». L'agghiacciante «Direttiva delle tre estirpazioni » prevedeva l'eliminazione totale dei vietnamiti residenti in Cambogia, dei Khmer che parlano vietnamita, dei Khmer con relazioni di famiglia, amicizia o lavoro con vietnamiti. In sostanza, devono essere soppressi quegli individui che hanno «cuore vietnamita in un corpo Khmer». Quasi impossibile un computo preciso delle vittime in quel periodo: ma alla fine Pol Pot venne messo sotto accusa dai suoi stessi uomini ed emarginato. Tirò le cuoia il 15 aprile del '98 per «gravi disturbi cardiaci», ma il mistero attorno alla sua morte non è stato ancora chiarito. Il governo di Phnom Penh sottopose le sue ceneri al test sul Dna per confermare che appartenessero veramente al signor Saloth Sar (questo il suo vero nome). Fosse vivo, avrebbe oggi 80 anni: ma credo siano pochi i cambogiani che gradirebbero trovarselo davanti per strada, col berretto verde della guardia rossa di Mao e il sorriso smagliante.
«Chi si preoccupa che l'imminente processo agli ultimi, estenuati superstiti del defunto partito — interviene l'editorialista di un quotidiano locale — possa riattizzare antichi rancori e sfociare in un nuovo conflitto è fuori strada. Noi siamo gente che quando ha chiuso il libro non lo riapre più. Pol Pot è morto e se la vedrà coi suoi demoni. Finito e sepolto il regime da lui creato. La Cambogia odierna, come avrà potuto constatare, è ben altra cosa». «Ciò che vedi in questo minuscolo ristorante dove stiamo pranzando — dice l'amico e interprete Kong Sanguar — non offre l'immagine complessiva del mio Paese. Una famiglia normale non potrebbe consumare un pasto su questo tavolo, perché le costerebbe quanto mangiare in casa per due settimane. Ma non è neanche alla portata di ingegneri, medici, docenti universitari. Qui ci trovi solo stranieri, il personale delle ambasciate, i turisti di lusso». E aggiunge: «Per noi rivangare il passato è una perdita di tempo. Non ci sono in noi sentimenti di vendetta, nè vogliamo risarcimenti materiali e morali per i soprusi e le violenze inflittici negli ultimi cinquant'anni. Il problema oggi non è Pol Pot, ma mangiare, tirare avanti. Un pensionato dello Stato prende 10 dollari al mese. E tuttavia, non parliamo di fame, perché qui, grazie al cielo, c'è riso in abbondanza. Ma non si vive di solo riso ».
Siamo al dolce, ma la litania delle frustrazioni economiche continua: «È aumentato il prezzo della benzina, più di un dollaro al litro. Due anni fa la carne di maiale costava un 1,5 dollari al chilo, ora il prezzo è salito a 4,5. La bombola del gas in un anno è passata da 7 dollari a 19,5. La benzina è più cara in Cambogia che nei Paesi vicini. In questo caso, però, il prezzo è stabilito dalle cinque grandi compagnie petrolifere, come Total e Shell, che fanno il buono e il cattivo tempo, avendo il monopolio... ». E come reagisce il governo? Come affronta una situazione economica così precaria? «Abbiamo un governo debole in un Paese che è debole e povero».
Ma se la Cambogia ha voltato definitivamente pagina, il comportamento di alcuni leader di quegli anni tumultuosi e cruenti continua ad essere oggetto di speculazioni, polemiche, controversie. Un vortice verbale che avvolge soprattutto la figura del Re Sihanouk, ormai inaccessibile nel suo aureo palazzo, da cui esce raramente e sempre sotto scorta.
Rimane tuttora grande perplessità su una sua visita lampo a Phnom Penh il 9 settembre del '75, da cui sarebbe ripartito pochi giorni dopo per recarsi all'Onu e in 12 Paesi occidentali in visita ufficiali. È sorprendente che nei suoi colloqui alle Nazioni Unite e negli incontri coi diplomatici stranieri non abbia mai accennato al fatto d'aver trovata la propria capitale completamente vuota, in un'atmosfera spettrale. Non era comunque possibile — questo il commento più ovvio — che egli fosse all'oscuro dello sterminio appena compiuto dai Khmer rossi. Si trattava dopotutto di un genocidio, come sarebbe emerso dalla denuncia di un gruppo di profughi cambogiani presentata il 7 aprile 1976 all'Onu, all'Unesco, alla Lega dei Diritti dell'Uomo e ad Amnesty International.
Sarebbe ingenuo attendersi nuove rivelazioni dal processo che dovrebbe iniziare a giorni nel Tribunale di Phnom Penh. Questo processo, comunque, non s'ha da fare, intima il Don Rodrigo di turno. L'Associazione cambogiana degli avvocati pretende infatti che ciascun legale straniero paghi 4900 dollari per far parte del collegio di difesa contro i crimini di Pol Pot, anche se sono stati raccolti 60 milioni di dollari dall'Onu e dalle comunità internazionali
per portare alla sbarra i responsabili del massacro.

I due precedenti reportage di Ettore Mo dalla Cambogia su www.corriere.it

Il giudizio. Il progetto di un Tribunale speciale per i crimini del regime di Pol Pot fu lanciato da Phnom Penh nel 2001 e adottato dall'Onu tre anni dopo. Dopo molti rinvii dovrebbe entrare in funzione nei primi mesi di quest'anno
Memoria
Il sacrario dell'Olocausto di Toul Seng, dove sono esposte le foto dei prigionieri: nel centro di tortura ora diventato museo entrarono 14 mila persone e ne uscirono vive solo sette

Corriere della Sera 21.1.08
Memoria. Centinaia di prigionieri morirono di stenti nel campo di Giado tra il 1942 e il '43
Libia, l'orrore nel lager italiano
L'ordine: sterminate i deportati ebrei. All'ultimo momento la revoca
di Dario Fertilio


Giado, centottanta chilometri a sud di Tripoli, praticamente il nulla nel nulla. Era un campo di concentramento italiano costruito nel 1942 e riservato agli ebrei libici, un nome taciuto per anni e invece ora da sottolineare con l'inchiostro nero. Perché fu là, dove oggi spuntano solo rovine e filo spinato mezzo inghiottiti dal deserto, che l'esercito del Duce si macchiò del delitto più grave in termini numerici, una violenza gratuita sui prigionieri: almeno 560 uomini, donne e bambini morti di fame, di malattie, di stenti e brutalità. Gente colpevole soltanto di essere ebrea.
Nessun altro luogo, includendo l'isola di Arbe nel Quarnero, fu teatro di stragi «italiane» numericamente più rilevanti. E avrebbe potuto andare ancor peggio se l'ordine estremo, annunciato e sul punto d'essere eseguito, fosse stato confermato. Invece una revoca, letteralmente dell'ultima ora, evitò ai circa duemila prigionieri maschi del campo, già in fila per l'esecuzione, una soluzione finale alla nazista.
Proprio quella agghiacciante disposizione, Uccideteli tutti, dà il titolo al saggio dello storico- giornalista Eric Salerno, appena uscito dal Saggiatore. Già autore di reportage sulle guerre coloniali italiane, e corrispondente dal Medio Oriente, Eric Salerno punta questa volta sui rari superstiti, spesso testimoni oculari, di quei tempi ormai lontani, sforzandosi di confrontare i racconti, svelare le connivenze, soffiare via dai nomi delle vittime la polvere dell'oblio. Non tutti gli obiettivi sono raggiunti: le testimonianze orali non compensano la scarsità dei documenti; le date degli eventi sono approssimative; i nomi degli aguzzini in divisa italiana restano sconosciuti. Anche quello del comandante del campo — un ufficiale dell'esercito — è disperso negli archivi oppure (come ipotizza l'autore) forse in passato è stato fatto sparire per sviare le ricerche. E soprattutto manca il nome di chi diede quell'ordine di uccidere.
Eppure, nonostante tanti lati oscuri, il racconto di Eric Salerno prende alla gola, soprattutto per le vivide testimonianze. La scena culminante è del 1943, «una ventina di giorni prima della vittoria britannica», quando a Giado gli italiani hanno i nervi a fior di pelle perché sanno che presto arriveranno gli inglesi, e forse toccherà a loro stessi finire in prigionia. Temono che, rovesciati i ruoli, gli ebrei siano destinati a trasformarsi in accusatori? Meditano di far terra bruciata preventiva per salvarsi? È possibile: così si spiegherebbe perché decidano di radunare sotto la bandiera tutti gli ebrei maschi; ecco perché il comandante italiano «in tono tranquillo» annuncia ai prigionieri «una cattiva giornata», aggiungendo sadicamente «abbiamo ricevuto l'ordine di uccidervi tutti». Per non parlare dell'avviso: i 480 malati ricoverati nell'ospedale del campo «saranno fatti scendere nello scantinato e bruciati ». I racconti abbondano di altri particolari drammatici: gente che si getta a terra invocando Dio; il rabbino Yosef, avvolto nel suo scialle per la preghiera, trascinato nel centro del campo da un militare imbestialito («questo è il momento per uccidere, non per pregare!»). E tre ore di attesa mortale, fra le otto e le undici del mattino, con i reclusi affamati e assetati in attesa dell'ordine di esecuzione. Infine, alle undici e mezzo, il telefono squilla. Una voce annuncia che la disposizione è annullata: liberi tutti i prigionieri. Il che non evita episodi di sadismo gratuito: uno dei rabbini è costretto a spazzare il recinto del campo con la barba.
Resta il dubbio: quell'ordine di liquidazione risaliva davvero a Mussolini? Avrebbe potuto macchiarsi di un simile delitto quello stesso Duce che nel marzo 1937, un anno e mezzo prima della promulgazione delle leggi razziali, era stato accolto dalla comunità israelita di Tripoli con fiori, ovazioni e benedizioni, constatando che i commercianti ebrei italiani si erano dimostrati il vero, prezioso tessuto connettivo delle colonie africane? Per quei meriti avevano ricevuto in realtà una terribile ricompensa: deportati dalla Cirenaica in Tripolitania, costretti ai lavori pesanti, infine rinchiusi a migliaia a Giado. Il cinismo di Mussolini, del resto, è testimoniato dallo scambio di messaggi con il governatore della Libia Italo Balbo: quest'ultimo, ancora nel gennaio del '39, si sforzava di indurlo a «non infierire», dal momento che «gli ebrei erano già morti». Ma la risposta del capo del fascismo era stata: «Ti autorizzo all'applicazione delle leggi razziali», «ricordandoti che gli ebrei sembrano ma non sono mai definitivamente morti». Restano, oggi, pallidi ricordi di quelle vittime, ancora più struggenti perché anonimi (di soli ottanta scomparsi a Giado Eric Salerno ha potuto ritrovare le generalità). Con un risvolto amaramente ironico: tutta la vicenda anche in Israele è poco conosciuta. Forse perché, come ricorda Salerno, «per decenni venne insegnato che l'Olocausto era patrimonio degli ebrei europei, soprattutto ashkenaziti».
Su quel che accadde in Libia, e sugli aguzzini italiani, dovunque calò un silenzio piuttosto assordante. «I non pochi criminali di guerra italiani, per volontà degli Alleati, non sono mai stati processati o puniti».

Corriere della Sera 21.1.08
L'interpretazione della Cappella degli Scrovegni di Giuliano Pisani rivela un «segreto»
Giotto conosceva la teoria della visione
di Arturo Carlo Quintavalle


Lo aveva scritto Roberto Longhi in un saggio rimasto famoso, Giotto spazioso, e lo confermano altri studiosi: Giotto è il pittore che reinventa lo spazio dentro la pittura; e Assisi, ma soprattutto la cappella padovana, sono i luoghi dove questa ricerca si fa più evidente. Ora una scoperta, che si deve a Giuliano Pisani, sembra poter stabilire ancora qualcosa di più su questo tema: fissare la consapevole esperienza di Giotto delle più avanzate teorie della visione. Giotto conosceva le rappresentazioni dello spazio gotico sperimentate dalla scultura in Francia e aveva fatto attente ricerche sugli spazi di cicli affrescati fra IV e VI secolo nelle basiliche paleocristiane di Roma.
Ma torniamo a Padova: cosa raccontano, dall'alto al basso, i riquadri affrescati sulle pareti della cappella? Dall'alto le storie di Gioacchino ed Anna, di fronte storie di Maria, quindi quelle della infanzia e della vita pubblica di Cristo; sotto ancora le storie della Passione, Morte e Resurrezione del Cristo. Nel basamento, intervallate da lastre a finto marmo, le Virtù ed i Vizi. Sull'arco di trionfo verso l'abside ecco l'Annunciazione e, in alto, l'Eterno fra angeli. Nella parete d'ingresso, invece, Giotto dipinge il Giudizio Universale con dannati, beati e al culmine gli angeli che arrotolano i cieli alla fine dei tempi.
Questa è la macchina narrativa nel suo insieme; ma proprio qui le zone basse sembrano suggerire un particolare insegnamento: le figure affrontate sui due lati della cappella rappresentano nell'ordine Prudenza, Forza, Temperanza, Giustizia seguite da Fede Carità, Speranza. Di fronte stanno i vizi: Stoltezza, Incostanza, Ira, Ingiustizia, Infedeltà, Invidia, Disperazione. Le figure dipinte sembrano evocare le statue ai lati dei fori del mondo antico e suggeriscono una contrapposizione fra le virtù, che il fedele deve praticare, e i vizi, che deve aborrire. È in questo sistema di finte sculture monocrome che si inserisce l'archivolto sulla porta di uscita verso il palazzo. All'estremità di un tralcio all'antica vediamo due clipei, due tondi con figure: alla destra un uomo con bastone nodoso sulla spalla, corpetto di pelliccia, braccia nude; dal lato opposto una figura femminile vista di fronte che indica l'uomo con tre dita della mano destra. Essa reca in capo una corona e dagli occhi le escono due nodosi bastoni. La critica finora non ha saputo interpretare questo particolare.
Giuliano Pisani muove dalle teorie della visione dell'antichità per interpretarlo. I raggi partono dagli oggetti, suggerisce Platone nel Timeo; Euclide pensa a raggi visivi che si propagano dall'occhio alle cose e sondano gli oggetti, Alessandro di Afrodisia ritiene la vista un duplice cono e i raggi visivi come bastoni che sondano lo spazio. Questa spiegazione viene ripresa da Avicenna, mentre Alhazen teorizza che i raggi vanno dalle cose all'occhio. Dunque i due bastoni aperti a 180 gradi negli occhi della figura femminile sono i raggi visivi. Il senso dei due clipei fa comprendere l'ammaestramento che gli affreschi dell'intera cappella intendono offrire: prima della conoscenza del messaggio di Cristo l'umanità era selvaggia e cieca come l'uomo alla destra, adesso è la luce della conoscenza, i bastoni cioè i raggi del vedere spirituale che fanno comprendere il vero. Ma la conoscenza è quella della prospettiva; dunque Giotto conosce Avicenna e Alhazen, il modo di proporre lo spazio dai romani al paleocristiano, e le ricerche elaborate dal mondo arabo agli inizi del secolo XI.

La ricerca. Il ciclo padovano per il mercante Enrico
Giuliano Pisani, professore di lettere classiche a Padova, è uno studioso della Cappella padovana, capolavoro di Giotto che la affrescò tra il 1303 e il 1305 per il mercante Enrico Scrovegni, sulla quale ha tenuto un convegno nello scorso novembre al Collegio Morgagni. La ricerca illustrata nell'articolo qui sopra è stata pubblicata in questi giorni sul «Bollettino del museo civico» padovano (annata XCV).

Repubblica 21.1.08
Venezia. L'ultimo Tiziano
Gallerie dell'Accademia. Dal 26 gennaio.


Intorno alla metà del Cinquecento, il maestro quasi sessantenne scopre un nuovo modo di dipingere, più teatrale e sensuale, caratterizzato dall'invenzione e dallo sviluppo della "pittura a macchia", secondo la brillante definizione del Vasari. A quest'ultima stagione è dedicata una mostra, già allestita con grande successo al Kunsthistorisches Museum di Vienna, che raccoglie ventotto capolavori, dipinti da Tiziano fra il 1550 e il 1576, l'anno della morte. Tra questi figura la Pietà , l'ultima opera del maestro, un grande ex voto contro l'epidemia, conservata nelle Gallerie dell'Accademia. Tra i prestiti, da segnalare Punizione di Marsia , proveniente da Kromeriz, nonché Ninfa e pastore , recentemente restaurato in occasione della mostra viennese.

Repubblica 21.1.08
Roma. Rosso pompeiano. La decorazione pittorica nelle collezioni del Museo Nazionale di Napoli e Pompei
Palazzo Massimo alle Terme. Fino al 30 marzo.


La pittura decorativa parietale romana viene comunemente detta stile pompeiano, con riferimento ai ritrovamenti effettuati nelle dimore della città vesuviana, distrutta nel 79 a. C. Questo stile si articola in quattro fasi: nella prima, imita un rivestimento a lastre marmoree, nella seconda, è caratterizzato da vedute architettoniche e paesaggistiche, da quadri con statue, figure umane e animali, nella terza, dalla predilezione per l'ornamentazione policroma, nella quarta, da un particolare impiego di materiali fantastici. A partire dal 1739 i Borboni fecero staccare alcuni frammenti dalle pareti affrescate delle case di Ercolano, Pompei, Stabia e Boscotrecase. Ora questi frammenti, incorniciati, sono esposti insieme a intere pareti dipinte di Moregine, della Casa del Bracciale d'oro, della villa di Livia, moglie di Augusto.

l'Unità lettere 21.1.08
Sapienza, noi studenti dalla parte dei (67) professori

Noi, studenti del dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza», esprimiamo la piú sincera e rinnovata stima e solidarietà verso il professor Marcello Cini e i 67 docenti firmatari della lettera al Rettore del 23 Novembre 2007.
Nonostante il tentativo, riuscito, di mezzi d’informazione, poteri politici e parti della società, di distorcere quella che è una difesa coerente delle basi e dei principi di un’università pubblica e libera, siamo felici e orgogliosi di studiare in una comunità scientifica seria, dinamica e indipendente.
Daniele Giovannini, Valerio Ippolito, Lorenzo Nocco, Alessandro Viale studenti del Dipartimento di Fisica. Università degli Studi di Roma «La Sapienza» seguono altre 257 firme

Il Papa e la favola della contestazione alla Sapienza
La cronaca di questi giorni è piena di bugie in merito alla vicenda del Papa all’Università. Sento dire ripetutamente che si è impedito al Papa di andare a tenere la lezione:
1) se non ho sentito male si tratta di 67 professori che hanno dissentito dall’iniziativa a novembre scorso e che hanno riconosciuto pienamente il diritto agli organi competenti di decidere sulla visita del Papa;
2) se ancora non ho sentito male gli studenti dissenzienti erano meno di cento e chiedevano uno spazio per manifestare fuori dell’Aula Magna (spazio che è stato concesso);
3) il 99% del mondo accademico era favorevole al Papa, il mondo politico in larga maggioranza era favorevole al Papa, i cattolici erano daccordo col Papa;
4) il ministro Amato ha dato garanzia sulla sicurezza ma non sul fatto che dopo (futuro eventuale probabile) vi sarebbe potuta essere qualche contestazione sonora (qualche fischio).
Ora mi chiedo: il Papa che non è venuto, è un Papa che non vuole nemmeno 100 persone che la pensano diversamente da lui? Sinceramente non ho parole per descrivere i miei sentimenti di cittadino italiano.
Antonino Scrimenti

A proposito di dialogo: perché i Radicali a San Pietro non hanno potuto volantinare?
Cara Unità,
che i Radicali non abbiano potuto fare volantinaggio a piazza San Pietro nella domenica del cosiddetto papa-day, mi sembra una mancata occasione di dialogo. Avrei voluto vedere in tv il nostro Presidente del Consiglio rammaricarsene con la stessa faccia scura che aveva il giorno in cui Joseph Ratzinger ha declinato l’invito del Rettore della Sapienza. Ma si sa, i radicali in politica non hanno gli stessi numeri dei cattolici... E Pannella non è Ratzinger. Anche se una cosa li accomuna: il primo ha condotto e vinto la battaglia per la moratoria contro le esecuzioni capitali, il secondo tenta di ascrivere alla sua Chiesa la paternità della stessa moratoria... A tal proposito non è superfluo ricordare come nel diritto canonico la pena di morte sia ancora prevista e anche come l’ultima enciclica che affronta l’argomento (la «Evangelium vitae» di Karol Wojtyla, 1995) si limiti a specificare che «i casi di assoluta necessità di pena di morte sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti». Perciò, se intanto il Vaticano si impegnasse a risolvere questa contraddizione, già saremmo al principio di un dialogo possibile: almeno sulla pena di morte.
Paolo Izzo, Roma

Il mondo accademico solidale con i 67 docenti della Sapienza
A proposito dei fatti relativi alla rinuncia di papa Benedetto XVI alla visita e al discorso all'Università Sapienza di Roma, in occasione della solenne inaugurazione dell'anno accademico, i sottoscritti, docenti e ricercatori degli atenei italiani, esprimono la più ferma e convinta solidarietà ai colleghi sottoposti nelle ultime giornate a un linciaggio morale, intellettuale e persino politico, senza precedenti. Noi firmatari di questo appello di solidarietà affermiamo che ci saremmo comportati come i 67 docenti della Sapienza, in nome della libertà della ricerca e della scienza. L'invito al papa in occasione dell'apertura dell'anno accademico costituisce offesa al sapere scientifico, ovvero un esecrabile cedimento nei confronti di un preteso principio d'autorità.
I colleghi della Sapienza, lungi dall'«impedire al papa di parlare» hanno semplicemente contestato l'opportunità di far inaugurare l'anno accademico - ossia il momento più solenne nella vita di un ateneo - da un capo religioso, e nel contempo capo di stato straniero. Tanto più che trattasi di un papa che ha espresso in reiterate occasioni l'idea che la ragione non possa che essere subordinata alla fede e ha assunto gravi prese di posizione che, mentre smantellano la Chiesa del Concilio Vaticano II, costituiscono gravi ingerenze nella sfera delle istituzioni politiche nazionali. In ogni caso, la protesta dei colleghi non contro Benedetto XVI era diretta, ma innanzi tutto contro l'autorità accademica che ha commesso la leggerezza di invitare un'autorità religiosa a una cerimonia che deve essere rigorosamente laica; tanto più grave, il gesto del rettore della Sapienza, in quanto ormai l'Italia è un paese multietnico e multireligioso e ciò nonostante un regime concordatario, obsoleto anche nelle sue revisioni, che continua a privare le scuole pubbliche non universitarie della possibilità di un approccio comparativo al mondo delle religioni assegnando invece la priorità esclusiva all'insegnamento della religione cattolica. E il papa di Roma rappresenta soltanto una parte dell'opinione pubblica, anche di quella provvista di fede religiosa. Si aggiunga altresì l'atteggiamento di vera e propria subalternità mostrata dalle autorità accademiche, di concerto con quelle ecclesiastiche, e dal coro mediatico che ne ha accompagnato le scelte, era la pretesa che a Ratzinger fosse riservata una zona franca, in cui le espressioni di dissenso dovessero essere impedite, quasi forme di delitto di lesa maestà. Noi sottoscritti, davanti alla campagna mediatica in atto, esprimiamo la più vibrata protesta e la piùferma preoccupazione per le parole che abbiamo letto e ascoltato in questi giorni, in un penoso unanimismo di testate giornalistiche e di forze politiche. Ci impegniamo, accanto ai colleghi della Sapienza e di tutti gli studiosi che con rigore e passione lavorano nelle istituzioni universitarie italiane, a lottare perché venga salvaguardato, in un paese che sembra voler pericolosamente regredire all'epoca del «papa re», la libertà della ricerca scientifica, in ogni ambito, da ipoteche fideistiche e da nuovi e vecchi principi autoritativi.

*** Angelo d'Orsi, prof. Storia del pensiero politico Univ. Torino; Lucia Delogu, prof. Diritto privato, Univ. Torino; Gianni Vattimo; Simon Levis Sullam; Luisa Accati, prof. Storia moderna, Univ. Trieste; Alessandra Algostino, prof. Diritto costituz. comparato, Univ. Torino; Giovanna Angelini, prof. Storia delle dottrine politiche, Univ. Pavia; Corrado Agnes, Politecnico Torino Dip. di Fisica; Christophe Allouis, Ist. Ricerche sulla Combustione-Cnr; Fabrizio Arciprete, ricerc. Dip. di Fisica Univ. Roma Tor Vergata; Franco Bacchelli, ricer. di Storia della Filosofia, Univ. Bologna; Barbara Bacchelli, ricerc. Matematica, Univ. di Milano Bicocca; Valeria Bacchelli, prof. Analisi matematica, Politecnico Milano; Roberto Bartolino, prof. di Fisica, Univ. della Calabria; Riccardo Bellofiore, prof. di Economia monetaria, Univ. Bergamo; Tamara Bellone, prof. Topografia e cartografia, Politecnico Torino; Paolo Biscari, prof. Fisica Matematica, Politecnico Milano; Luigi Bobbio, prof. di Scienza politica, Univ. Torino; Alberto Burgio, prof. Storia della filosofia moderna Univ. Bologna; Linda Brodo, Informatica, Univ. Sassari; Renato Betti, prof. Geometria, Politecnico Milano; Ugo Bruzzo, prof. Geometria, Scuola Intern. Superiore di Studi Avanzati, Trieste; Paolo Berdini, ingegnere, urbanista; Luciano Boi, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Centre de Mathématiques Paris; Ovidio M. Bucci, prof. Campi Elettromagnetici,Univ. Napoli Federico II; Alessandro Bianchi, ricerc. Dip. di Inform. Univ. Bari; Brigida Bochicchio, ricerc. di Chimica Organica Univ. Basilicata; Piero Bevilacqua, prof. di Storia Contemp La Sapienza, Roma; Marco Berisso, Filologia It. Univ. di Genova; Pier Carlo Bontempelli, prof. Letterat. Tedesca Univ. «G. d'Annunzio» Chieti-Pescara; Livio Boni, Chargé de recherche Univ. de Paris VII Denis Diderot, Psychanalyse/Sciences Humaines; Derek Boothman, prof. Lingua e traduz. inglese, SSLMIT Univ. Bologna; Sandro Cardinali, prof. di Storia della filosofia mo. Univ. Ferrara; Paolo Casalegno, prof. Filosofia del Linguaggio Univ. degli Studi Milano; Luigi Cerlienco, prof. Algebra, Univ. Cagliari; Salvatore Cingari, prof. Storia delle dottrine politiche Univ. per Stranieri di Perugia; Claudio Cancelli, prof. Fluidodinamica Ambientale, Politecnico Torino; Pilar Capanaga, prof. di Lingua e Linguistica spagnola SSLMIT Univ. Bologna; Sandro Cardinali, prof. Storia della filosofia mod. Univ. Ferrara; Pietro Giuliano Cannata, prof. di Geologia Pianif. territoriale Univ. di Siena; Andrea Clematis, dir. di ricerca IMATI Cnr Genova; Andrea Cavazzini, dottore in filosofia; Ines Crispini, Filosofia morale Univ. della Calabria; Rita Caprini, prof. Glottologia Univ. Genova; Alessandra Ciattini, Antrop. religiosa La Sapienza di Roma; Tullia Catalan, Storia contemp. Univ. Trieste; Leonardo Castellani, Fisica Teorica Univ. del Piemonte Orientale; Luca Di Mauro, Storia, Ecole Normale Superieure Paris; Filippo Del Lucchese, Marie Curie Fellow, UPJV - Amiens / ECLS - Occidental College Los Angeles, CA, Usa; Marco Antonio D'Arcengeli, prof. di Storia della pedagogia Univ. L'Aquila; Adele D'Arcangelo, ricerc. Univ. di Bologna; Elisabetta Donini, già docente di Fisica Univ. Torino; Paolo Ercolani, Filosofia Univ. di Urbino; Ezio Faccioli, Tecnica delle costruz. Politecnico Milano; Laura Fregolent, prof. Analisi della città e del territorio, Univ. IUAV Venezia; Paolo Favilli, prof. Storia Contemp. Univ. Genova; Federica Fontana, Dip. di Scienze dell'Antichità Univ. Trieste; Paolo Fernandes, drig. di ricerca, Cnr Ist. di Matematica Appl. Tecnologie Inform. Genova; Gian Luca Fruci, assegnista di ricerca dip. di Storia Univ. Pisa; Antioco Floris, Discipline cinematogr. Univ. Cagliari; Marcello Frixione, Scienze della Comunic. Univ. Salerno; Giorgio Forti, emerito Facoltà di Scienze MFN Univ. degli Studi Milano; Luciano Gallino, emerito, già prof. di Sociologia Univ. Torino; Germana Gandino, ricerc. Storia medievale Univ. del Piemonte Orientale; Angelo Guerraggio, prof. di Storia delle matematiche Univ. dell'Insubria di Varese /Università «Bocconi» Milano; Laura Gaffuri, prof. Storia delle Chiese Univ. Torino; Mariuccia (Giuseppina) Giacomini, Antropologia culturale Univ. Milano Bicocca; Francesco Indovina, prof. Analisi delle strutture urbanistiche e territoriali Ist. Univ. di Architettura Venezia; Donatella Izzo, prof. Letterat. Americana Univ. degli Studi di Napoli «L'Orientale»; Cristina Lavinio, prof. Linguistica educativa Univ. Cagliari; Salvatore Lupo, prof. di Storia contemp. Univ. Palermo; Laura Luche, Lingue e Letterature Ispanoamericane Univ. Sassari; Maria Grazia Meriggi, prof. Storia Contemp. Univ. Bergamo; Alberto Magnaghi, prof. Pianificaz. Territoriale Univ. Firenze; Fabio Nuti Giovanetti, Giurisprudenza Univ. Bologna; Guido Panìco, prof. di Storia contemp. Univ. Salerno; Giovanna Procacci, prof. Storia contemp. Univ. Modena e Reggio; Giuseppe Prestipino, già prof. di Filosofia, Univ. Siena; Enrico Pugliese, dir. Irpps-Cnr, Roma; Carlo Remino, ingegnere Meccanico, Dip. Ing. Mecc. e Ind. Univ. Brescia; Giorgio Rochat, già prof. Storia contemp. Univ. Torino; Monica Savoca, prof. a contratto di Letterat. Spagnola, SSLiMIT Forlì; Giovanni Semeraro, prof. Univ. Federale Fluminense, Niterói/Rio de Janeiro; Antonio Mario Tamburro, prof. di Chimica Organica, Rettore Magn. Univ. della Basilicata; Giuseppe Trebbi, prof. Storia moderna Univ. Trieste; Dario Trevese, prof. Astrofisica Roma «La Sapienza»; Maria Turchetto, prof. Dip. di Studi Storici Univ. Ca' Foscari di Venezia; Settimo Termini, prof. Cibernetica Univ. Palermo; Giovanna Vertova, ricerc. di Economia Politica Univ. Bergamo; Nadia Venturini, prof. Storia del Nord America, Univ.; Gabriella Valera, prof. Metod. e Storia della Storiogr. Univ. Trieste; Stefano Visentin, Storia delle dottrine politiche Univ. Urbino «Carlo Bo»; Claudio Venza, Storia della Spagna contemp. Univ. Trieste; Simonetta Ulivieri, prof. Pedagogia Gen. e Sociale Univ. Firenze; Mario Vadacchino, prof. Dip. Fisica Politecnico Torino; Pasquale Voza, prof. Letterat. italiana Univ. degli Studi di Bari; Franco Vazzoler, Letterat. teatrale it. Univ. Genova; Massimo Vallerani, prof. di Storia medievale Univ. Torino; Sergio Vessella, prof. di Analisi Matematica Univ. Firenze; Fausto Vagnetti, prof. di Astrofisica, Univ. di Roma Tor Vergata; Maria Zalambani, prof. Russian Literature Univ. Bologna; Alessandro Zucchi, prof. Semiotica, Dip. di Filosofia Univ. degli Studi di Milano; Massimo Zucchetti, prof. di Impianti Nucleari Politecnico Torino...

Diritto di critica, questa è vera Sapienza
17 gennaio 2008
Nei giorni scorsi in Italia c’è stata un’ardente discussione riguardo all’invito del Papa alla Sapienza. Due le questioni scottanti: la prima è una lettera inviata da 67 docenti di Fisica al magnifico rettore Guarini, la seconda l’occupazione del rettorato e del Senato Accademico de La Sapienza ad opera degli studenti della medesima. Come vedremo le due questioni si collegano in modi inaspettati.
Riassumiamo brevemente l’accaduto. Diversi mesi fa il rettore Guarini decide di invitare il papa a tenere una lectio magistralis in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico de La Sapienza.
Alcuni docenti scrivono al rettore dicendo di condividere il contenuto di una lettera pubblica del prof. Cini ad indirizzo del Guarini in cui si qualifica l’invito come incongruo e si richiede di annullarlo. Tra i motivi della discordia una frase citata dal pontefice in un discorso, in cui si giustifica il processo a Galileo. La richiesta viene respinta cosi come la possibilità di organizzare una contestazione. A questo punto i collettivi studenteschi, vistasi negata la possibilità di manifestare, occupano rettorato e Senato Accademico. Solo la mediazione del commissario Trevi che convince il rettore a consentire la manifestazione scioglie l’occupazione. Dopo il rimbalzare sugli organi di stampa della notizia dell’avvenuto via libera alla contestazione, arriva la rinuncia del papa: una contestazione in mondovisione nuocerebbe all’immagine del Pontefice. La condanna di quasi tutta la politica nei confronti di docenti e studenti è immediata e durissima, con l’accusa di aver impedito al pontefice di esprimersi. Si arriva a definirli cattivi maestri come i brigatisti, a chiederne l’allontamento, le massime cariche dello stato parlano di un’Italia umiliata. In primo luogo non si capisce in che modo
docenti e studenti avrebbero valicato i limiti della normale pratica democratica. Contro il papa non sono state formulate minacce di nessun tipo, a patto che non si intenda come minaccia la volont`a di contestare le sue parole. Lo stesso ministero degli interni escludeva qualsiasi problema di sicurezza e gli studenti avevano garantito la pacificità della manifestazione.
E' in mala fede o nell’ignoranza chi dice che al Papa è stato impedito di parlare, la frase completa è: “al Papa è stato impedito di parlare senza ricevere critiche”. Egli poteva infatti tranquillamente scegliere di recarsi in ogni caso a La Sapienza e fare il suo intervento, col corollario che come qualsiasi personaggio pubblico avrebbe corso il rischio di una contestazione. In secondo luogo la lettera firmata dai docenti non era indirizzata al papa bensì al rettore Guarini. Egli ha giocato, in questa vicenda, un ruolo chiave, e ha mostrato la propria incapacità nel gestire una situazione prevedibile. Infatti, nota l’eterogeneità di vedute degli studenti riguardo alla religione, non prevedere la presenza di contestatori agguerriti suona addirittura come una voluta provocazione. Da quando l’esercizio di un diritto fondamentale, vale a dire la libera espressione del dissenso, uno dei pilastri di ogni democrazia e forse ciò che più distingue democrazia da dittatura, è diventato in Italia qualcosa che non fa onore alle tradizioni di civiltà e di tolleranza dell’Italia? I politici che oggi con tono magniloquente stanno accusando gli studenti romani di aver censurato il Papa stanno implicitamente reintroducendo la lesa maestà, stanno sostenendo che nessuno può criticare pubblicamente il Papa perche se no poi lui non parla più. Stanno affermando che in nome della libertà di parola (senza contraddittorio) del Pontefice, tutti gli altri dovrebbero tacere quando parla lui. Noi vorremmo invece ribadire che la rinuncia ad un diritto come quello di manifestare non è mai tolleranza, è anzi un danno per la democrazia e che forse gli studenti e i docenti romani hanno della democrazia un’idea molto più precisa di molti parlamentari. Noi siamo (saremmo) orgogliosi di vivere in un paese in cui chiunque, anche il Papa, possa venire liberamente criticato per le posizioni che esprime.