martedì 22 gennaio 2008

l’Unità 22.1.08
Tengo famiglie
di Maria Novella Oppo


NON DUBITAVAMO che il Papa (e tanto meno il cardinal Ruini) fosse in grado di riempire Piazza San Pietro di fedeli, fedelissimi e perfino infedeli. La prova l’abbiamo avuta in televisione, mezzo quanto mai laico, in favore del quale è stata organizzata la grande adunata. Peccato che a rovinare l’immagine del popolo di Dio ci fossero alcuni ceffi come quello del leghista Borghezio, razzista e nemico di quasi tutto il genere umano. Ma c’era anche il bel Casini, che in serata, partecipando a Che tempo che fa, ha illustrato urlando e strepitando le ragioni della sua presenza, insieme - ha detto - a «tre amici ebrei». Ma pensa. I tg ce lo avevano mostrato, invece, insieme a una delle sue famiglie. Perché, come ha spiegato Rocco Buttiglione ad Omnibus (ma non ce n’era neanche bisogno), i cattolici non sono santi e comunque la Chiesa accoglie tutti i peccatori. Giustissimo. Dispiace solo che i cattolici peccatori (per i quali nutriamo la massima simpatia) pretendano di imporre, per legge!, ai laici i precetti che loro si guardano bene dall’osservare.

l’Unità 22.1.08
Rc vede il complotto-Cei: ha parlato Bagnasco e lui s’è sfilato
I «piccoli» in fibrillazione Ferrero: i vescovi si presentino alle elezioni. Diliberto: se si rompe voto subito
di Andrea Carugati


I PIÙ PREPARATI allo strappo di Mastella erano quelli di Rifondazione. Dopo aver letto le parole del presidente della Cei Bagnasco, avevano capito che era suonato il «liberi tutti». «È incredibile come l’intervento attivo delle gerarchie della Chiesa sulla politica trovi immediata rispondenza», dice Franco Giordano. Il problema è «la totale permeabilità delle forze centriste. Ora si capisce bene cosa significa il rischio di crisi per la laicità dello Stato». Così anche il capogruppo al Senato Russo Spena: «La perfetta sintonia tra l’attacco del cardinale Bagnasco e la scelta dell’Udeur di lasciare la maggioranza è di per sé eloquente». «Fantapolitica», replicano i vescovi. Ma il ministro Paolo Ferrero rincara: «Meglio che la Cei si presenti direttamente alle elezioni». Nel mirino del Prc non c’è solo la Cei: sia Giordano che Russo Spena notano come lo strappo dell’Udeur arrivi proprio alla vigilia di una possibile «svolta sul terreno della redistribuzione sociale». Secondo Rifondazione la crisi deve andare in Parlamento. «Bisogna costringere l’Udeur al voto, ad assumersi la responsabilità», dice Giordano. Un passo alla volta, è la linea del Prc. Prima di salire al Colle, ci vuole un voto del Parlamento. «Venga l’Udeur in aula a votare contro la relazione di Mastella sulla Giustizia...». E tuttavia, in caso di sfiducia, «credo che andremo alle elezioni anticipate, non penso ci siano pasticci possibili, non siamo disposti ad accettare il governo tecnico», dice Russo Spena. Che chiede ai partner della Cosa Rossa, nel caso, di presentarsi insieme alle elezioni. «Se ci sarà crisi, non c’è che una strada: il voto anticipato», dice Diliberto. Che dopo il vertice serale di maggioranza ammorbidisce la linea: «Giusto andare in Parlamento». Durante il vertice a palazzo Chigi, l’idea di parlamentarizzare la crisi si fa largo. Così Angius (Ps): «Le crisi si aprono in Parlamento. I governi si fanno e si disfano lì. Domani (oggi, ndr) Prodi parlerà e vediamo cosa succede». D’accordo Mussi (Sd), anche nel dire che le parole di Veltroni sul Pd pronto a correre da solo «non hanno aiutato». Per i Verdi la notizia della crisi arriva alla fine di una giornata durissima, tutta dedicata a fare fronte alla mozione di sfiducia contro il leader e ministro Pecoraro Scanio. Con la parole d’ordine: «La mozione è un atto contro il governo Prodi e il programma dell’Unione, non contro un singolo ministro. Di dimissioni di Pecoraro non si parla neppure». Così il capogruppo Bonelli, dopo aver incontrato Prodi a palazzo Chigi nel primo pomeriggio. E in serata: «Quella di Mastella è una scelta irresponsabile di chi ha cercato la solidarietà politica ma aveva l’obiettivo strumentale di far cadere Prodi». «Era già chiaro, l’obiettivo era Prodi, non noi», dice anche Paolo Cento.
Silenzio dalla file dell’Italia dei Valori. Dai diniani, arriva la richiesta di prendere atto della crisi e prepararsi ad un «governo di transizione per fare la legge elettorale» o consentire lo svolgimento del referendum «che è una buona soluzione». «Bisogna prendere atto che le maggioranza non c’è più. Prodi salga al Colle», dice il senatore Natale D’Amico. «Ma questa legislatura non vada perduta».

l’Unità 22.1.08
Shulamit Aloni, La leader di Peace Now: la comunità internazionale accolga l’appello del premier palestinese Fayyad per una forza di interposizione
«Da israeliana dico: nella Striscia la nostra vergogna»
di Umberto De Giovannangeli


«Da cittadina israeliana che ha a cuore la sicurezza del suo Paese dico: ciò che sta accadendo a Gaza è una vergogna per Israele. Le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile sono il prodotto di una impotenza politica mascherata malamente con l’uso della forza militare. In questo modo finiamo per alimentare rabbia, disperazione, sentimenti che spesso si trasformano in desiderio di vendetta». A denunciarlo è una delle figure storiche della sinistra pacifista israeliana: Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», più volte parlamentare e ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres. «La Comunità internazionale - afferma Aloni - deve raccogliere l’appello lanciato dalle colonne dell’Unità dal primo ministro palestinese Salam Fayyad: c’è bisogno di una forza internazionale d’interposizione a Gaza».
Le notizie che giungono da Gaza segnalano una drammatica emergenza umanitaria. Il governo israeliano ribatte che questa situazione è determinata dal lancio di razzi Qassam contro Sderot.
«Se anche così fosse, nulla giustifica lo strangolamento di una economia, la riduzione in miseria di migliaia di famiglie, i bombardamenti che provocano la morte di civili: tutto ciò non può essere rubricato sotto la voce "effetti collaterali" della guerra al terrorismo. No, non è così. Il primo ministro Olmert dica chiaramente se Israele ha deciso di muovere guerra a 1,5 milioni di palestinesi».
Resta la tragedia dei bambini israeliani di Sderot costretti a vivere con l’incubo dei Qassam palestinesi.
«Conosco bene la realtà di Sderot e faccio mio il dolore di quei bambini. Ma non si risolve quel dolore arrecando altro dolore ad altri bambini: quelli di Gaza. Questa non è buona politica, questo è spirito di vendetta che non fa onore a Israele né aiuta a riportare il sorriso sui volti dei bambini di Sderot».
Insisto: il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha ribadito che il blocco di Gaza finirebbe con il finire dei lanci di razzi su Sderot.
«Questa affermazione alimenta un circuito vizioso dal quale è impossibile uscire, visto che i miliziani palestinesi sostengono a loro volta che quei lanci sono la risposto all’assedio di Gaza e ai raid dell’esercito israeliano. Prima di ogni altra cosa va fatta una scelta morale, ancorché politica e militare, da parte israeliana».
E quale sarebbe questa scelta?
«Evitare le punizioni collettive. Escluderle a priori. Questo è per me un punto discriminante: l’esercizio del diritto di difesa non può finire per giustificare rappresaglie che investono pesantemente la popolazione civile».
C’è chi sostiene che la popolazione di Gaza farebbe bene a ribellarsi ai miliziani che continuano un lancio di razzi che, come sottolineato dal primo ministro palestine Fayyad nell’intervista a l’Unità, hanno prodotto catastrofi per i palestinesi.
«In altri termini, Barak pretenderebbe che donne, bambini e anziani di Gaza disarmassero i miliziani, riuscendo laddove neanche il nostro esercito è stato in grado di fare? E se questo non avviene, se questa rivolta non si scatena, la conclusione che ne dovremmo trarre è che tutti i palestinesi di Gaza sono complici dei lanciatori di razzi e quindi nemici di Israele, e come tali da colpire? Mi ribello a questa logica irresponsabile. Le punizioni collettive non indeboliscono Hamas, semmai lo rafforzano, perché quelle punizioni alimentano l’odio verso Israele».
Nel governo israeliano c’è chi invoca una massiccia azione militare nella Striscia.
«Sarebbe una tragedia che costerebbe migliaia di morti e finirebbe in un disastro, perché vorrebbe dire pensare di rioccupare stabilmente Gaza, con tutto ciò che una simile prospettiva comporterebbe, in termini di perdite di vite umane e non solo. Di nuovo, l’illusione che la forza possa supplire all’iniziativa politica. La strada da intraprendere è un’altra…».
Quale?
«Negoziare una tregua di lunga durata con Hamas. Perché se non la pace, almeno la tregua si negozia con il nemico».

l’Unità 22.1.08
Ragazze di Riad. Sotto il velo, tutto
di Maria Serena Palieri


RAJAA ALSANEA è la giovane autrice d’un romanzo diventato un manifesto in Arabia Saudita. Perché, in un Paese dove alle donne è proibito votare come guidare, rivendica il diritto più fondamentale, quello all’amore. L’abbiamo incontrata

Rajaa Alsanea ha un bel viso, accuratamente truccato, con sopracciglia all’ultima moda, scolpite di sicuro da un eyebrow designer, un viso fresco di ventisettenne incorniciato da un hijab, il velo islamico che copre i capelli e il collo, d’un rosa civettuolo e adorno di tulle. Indossa una giacca bianca e nera, pantaloni neri, scarpe col tacco, e, alle mani curate col french manicure, ostenta una pietra enorme e scintillante, forse un diamante alla Mille e una notte, più probabile sia un topazio dal taglio «briolet». Vedete quanti dettagli di stile sono necessari per descrivere la femminilità originale d’una ragazza musulmana che ha scelto di vivere in un luogo tutto proprio: sul piccolo ponte volante che, per lei, unisce l’Arabia Saudita, il suo paese di provenienza, e Chicago, Usa, dove frequenta il dottorato in odontoiatria. Rajaa Alsanea, aspirante dentista, è l’autrice di Ragazze di Riad, un romanzo che arriva oggi nelle nostre librerie (per Mondadori, nella traduzione di Valentina Colombo e Berthe Smiths-Jacob, pp. 332, euro 18) e che, dal 2005 quando è uscito nei paesi arabi, le è valso molti appellativi. Uno per tutti: Rajaa è, simbolicamente, la prima «ministro per le pari opportunità» dell’Arabia Saudita.
Qamra, Michelle, Lamis e Sadim sono le quattro ragazze di Riad, appartenenti a un’élite ricca e istruita, delle quali il libro racconta la vicenda: a narrarla è una misteriosa quinta ragazza che ne svela lo svolgersi, episodio dopo episodio, a una mailing list, seerehwenfadha7et, nome che tradotto suona come «vite messe a nudo». Tutto comincia col matrimonio di Qamra con lo sposo destinatole dalla famiglia, Rashid, al party per sole donne dove le altre ragazze possono, «con moooderazione» è il comando, sorridere, esibirsi, danzare, sperando, come giumente al mercato, di colpire l’attenzione delle invitate anziane dotate di figli maschi e patrimoni familiari cospicui, insomma le potenziali suocere. Perché Ragazze di Riad, con la spigliatezza della comunicazione internettistica, racconta attraverso quale filo spinato di veti patriarcali, religiosi, tribali, di casta, si svolga, nel terzo millennio, la vita amorosa delle giovani saudite, condannate a matrimoni combinati. Ragazze, queste, per il resto, iscritte a Medicina come a Informatica. Ragazze di Riad viene promosso come il Sex and the city saudita. A noi è apparso piuttosto come una tragedia narrata con una penna leggera, di piuma.
I diritti interdetti al genere femminile, in Arabia Saudita, sono molti: dal voto alla guida della macchina. Perché lei, Rajaa, ha scelto di concentrarsi sul diritto all’amore?
«I diritti preclusi a noi donne saudite sono diversi e cambiano a seconda dei gruppi sociali e delle classi. Io, per esempio, sono cresciuta in una famiglia disponibile, che non ha aggravato con divieti propri quelli già ufficiali. Così ho capito che ciò che conta universalmente, per tutte e per tutti, è il diritto all’amore. Tutti patiscono per questa negazione. È un tema delicato. E, se non siamo noi a parlarne, non sarà certo il governo a farlo. Alcuni diritti fondamentali sono già in discussione nel Paese. Ma altri, non tangibili, non ci verranno accordati, se non ci batteremo».
«Ragazze di Riad» è stato definito il primo esempio di «chick lit» arabo. Lei si sente vicina alla creatrice di «Bridget Jones» e alla «narrativa per gallinelle»?
«Da noi, di chick lit non ne abbiamo. Da noi, neanche i critici più sofisticati mi hanno appaiato a questo genere. Certo, ho usato un linguaggio vicino alla generazione più giovane. Non sono ricorsa a quello classico, metaforico, della nostra tradizione narrativa. Ho inaugurato uno stile. E, dal 2005, sono centinaia i romanzi che hanno seguito il nuovo filone».
Ha avuto problemi con la censura di Riad? E quali reazioni ha suscitato il libro nel pubblico saudita?
«Gli editori arabi si rivolgono a uno stesso mercato comune che usa una identica lingua. Perciò sono ricorsa all’espediente classico, mi sono rivolta a un editore in Libano, paese liberale, e ho bypassato, così, la censura ministeriale. A destra come a sinistra, nel rifiuto come nell’accoglienza positiva, mi sono imbattuta in reazioni forti. Sui giornali è nato un dibattito, nello stesso giorno sono apparsi anche dieci articoli, io stessa ho ricevuto decine di migliaia di e-mail. Per la prima volta un romanzo affrontava argomenti come l’amore, i matrimoni combinati, il rapporto tra sunniti e sciiti e questo è stato percepito come uno spiraglio di libertà».
Lei, per famiglia, appartiene alla stessa élite facoltosa cui appartengono le sue «ragazze»?
«Sono nata in Kuwait, dove mio padre lavorava come editore per il governo. Era un uomo con molti interessi culturali, specie il teatro. Non navigavamo nell’oro, perché eravamo sei figli. Ma la nostra famiglia era un ambiente stimolante. È stato mio padre a profetizzare “tu farai la scrittrice” quando mi vide per la prima volta, da bambina, con la penna in mano. Poi è morto, quando avevo otto anni. Oggi i miei fratelli sono diventati medici di successo e, si sa, un medico guadagna di più di un insegnante. Insomma, eccoci nella classe agiata. Ma per studio e passione, non perché siamo nati con la camicia».
Il suo romanzo è dedicato a sua sorella Rasha e a sua madre, le donne della famiglia. Com’è sua madre?
«È un’autodidatta che legge di tutto e divora film. È stata una bambina, poi una ragazza, cui il padre ha impedito di studiare, ma lo ha fatto da sola. È una persona fortissima che mi ha insegnato coraggio e indipendenza».
Studia a Chicago, ma eccola col velo. Con un romanzo ha contestato i costumi sauditi. Questo hijab, al contrario, è un modo di contestare i costumi americani?
«Fino a quattro o cinque anni fa ero come le protagoniste del mio romanzo. In Arabia Saudita portavo il velo e, appena salita sull’aereo per andare altrove, me lo toglievo. Il contrario al ritorno. Poi ho sentito che questa doppia faccia non mi corrispondeva. E ho letto il Corano per capire quali motivazioni si celino dietro questo copricapo. Ho capito che per una musulmana il velo è un dovere. Ho deciso che il messaggio che volevo inviare, col mio corpo, era questo: “Io sono la stessa, in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Questa del velo non è una questione di tradizione, è una questione di identità religiosa. E voi, americani, dovete capire che una ragazza musulmana può essere istruita, avere senso dell’umorismo, saper parlare dignitosamente”. Il fazzoletto copre i capelli, non la mente».
Rajaa Alsanea, personalmente, l’amore l’ha trovato?
«Di amore ci si ammala facilmente. Trovare e saper scegliere, liberamente, l’uomo giusto, questo è il problema».

l’Unità 22.1.08
Robin Lane Fox racconta come nascono e si sviluppano le costituzioni. Tirannia e democrazia, però, oggi non hanno più lo stesso significato
Il grande romanzo della civiltà classica: civiltà di pace e di leggi
di Folco Portinari


Quanti anni sono passati da quando a scuola traducevo Cornelio Nepote e la sua vita di Milziade: Miltiades…? Settant’anni ormai. E quanto tempo è passato da quando con l’amico Gigi Triveri combattemmo tutte le battaglie della Guerra del Peloponneso, sotto l’ala magistrale di Tucidide? Sessant’anni. E quanti anni sono passati dal primo viaggio in Grecia con Barberi e Corsini? Cinquanta e sembra ieri. Delfi Tebe Tanagra Maratona Atene Salamina Termopili Sparta Olimpia... Dare consistenza a dei suoni o a delle ipotesi di storia, ricostruendole nelle propria testa a nostra immagine e somiglianza, perché quella è la nostra storia, una questione genitoriale. Sempre più convinto di queste ascendenze genealogiche ora che sto leggendo Il mondo classico (pp. 702, euro 32, Einaudi) di Robin Lane Fox, professore di storia antica al New College di Oxford. Sempre più convinto di essere, intellettualmente e culturalmente, un greco, che lì sono le mie origini, i miei segni di riconoscimento.
Il libro di Fox è davvero esemplare. Di cosa? Di una facoltà che sembra essere, non da oggi, tipicamente anglosassone, la vocazione, il talento divulgativo. Certo la lingua ha contribuito non poco al raggiungimento di quei risultati, una lingua semplificatrice. Infatti la divulgazione è uno stile, che ha il supporto della lingua e della sintassi. Divulgare una letteratura «alta» allora è un poco come tradurre, passare cioè da una costituzione linguistica (che comprende una tradizione e una retorica dominante) ad una nuova e diversa, alla quale adattarsi. In questo caso specifico la tendenza si muove verso la discorsività, spogliata da ogni accademismo e da ogni oratoria, in una certa misura preteso dallo stesso argomento «eroico». Come dire meno aggettivi e più sostantivi. Più cose in quanto tali, più concetti funzionali. Insomma, rendere semplice, che non è vuol dire facile, ciò che è difficile. Per riuscirci è necessario innanzitutto avere le idee chiare e una buona dose di umiltà.
Il libro di Fox è l’analisi, sotto forma di racconto, della nascita, sviluppo, evoluzione, di un concetto e di una pratica che sopravvive da anni con vari nomi (tirannia-democrazia), un cardine della nostra cultura. È il mondo classico, così come si impone per un millennio almeno riproponendosi poi in varie vesti fino ai giorni nostri, un parametro irrinunciabile, nonostante i periodici rifiuti, le proposte e i proponimenti eversivi, gli sregolamenti. È l’avventura più affascinante che ci sia quella che Fox racconta perché si tratta della nostra biografia, tant’è che è diventata per noi non una storia, ma la Storia. Ed è una vicenda che ha le sue radici nella Grecia tra il IX e il III a.C. , e lì rimarranno se è sempre vera (e lo è) la sentenza delle Epistole di Orazio che «Graecia capta ferum victorem cepit», una conquista che dura da qualche millennio, fino a diventare un luogo comune proverbiale.
La storia come l’abbiamo studiata noi a scuola è un susseguirsi di guerre, battaglie, date che corrispondono a eventi tumultuosi. Devo far ricorso alla memoria che mi riporta il ricordo delle ore passate chino sui libri, a ripetermi come una filastrocca numeri e nomi, perché quella era la storia: 490 a.C. Maratona Milziade, 480 le Termopili Leonida, 480 Salamina Temistocle, 470 Platea Pausania, 418 Mantinea, 405 Egospostami Lisandro, 430-403 guerra del Peloponneso, 362 Mantinea Epaminonda... Tutto questo per meno di un secolo anche se si tratta di un secolo fondante. Ma l’attenzione di Fox tende a focalizzare altro, non gli interessano tanto le guerre, le battaglie, i generali, per importanti che siano. Si direbbe che egli dia per scontata la loro conoscenza da parte del suo lettore, che vuol portare altrove. Questa mi pare che sia la novità e l’originalità del suo racconto. Che parte da lontano, per puntare il suo occhio su quella che ritiene essere la peculiarità. All’origine il mondo era governato secondo un sistema istituzionale tirannico, monarchico assoluto. Piccole monarchie alle quali nello sviluppo successivo si vennero contrapponendo le città-stato. I due sistemi si concretarono nelle due potenze egemoni per statuti contrapposte, anche se a volte alleate, la tirannica Sparta e la democratica Atene, con le loro colonie e i loro alleati. L’intero discorso di Fox è un racconto che verte su quei due regimi, il tirannico e il democratico (non diversamente da quanto accadde nei millenni successivi nel mondo, quando si voglia semplificare o esemplificare la conflittualità degli stati: da questo punto di vista è un libro di grande attualità se forse nulla è cambiato da allora). Dunque la storia non è tanto una storia di guerre e battaglie, accidenti o incidenti, bensì una storia di leggi e costituzioni. Non a caso Platone e Aristotele hanno più spazio di Milziade o di Temistocle. Attenti però al significato delle parole che usiamo. Quando parliamo di democrazia ateniese, per esempio, dimentichiamo che in quella democrazia c’erano forse più schiavi che uomini liberi, le donne erano prive di ogni diritto, l’omosessualità era riconosciuta e ampiamente praticata. In compenso i cittadini potevano esiliare coloro che ritenevano, per votazione (gli ostracà) indegni o inadeguati. C’è un forte scarto semantico tra la democrazia ateniese di Pericle e le nostre attuali democrazie, anche se usiamo lo stesso segno per entrambe. Non diversamente accade con i Gracchi che non hanno alcun rapporto con la Cgil.
Il libro di Fox studia la nascita e lo sviluppo delle istituzioni di una cultura dalla preistoria fino a Traiano e Adriano, quella che noi oggi chiamiamo cultura classica, con le sue variazioni, attraverso Alessandro, la Repubblica, Augusto. Però in questo panorama di una storia più che millenaria mi pare che la parte essenziale sia quella centrale, la Grecia tra il V e il III secolo a.C. Certo anche Roma ha le sue specificità, soprattutto modali e giuridiche, i suoi contributi spesso decisivi, ma l’ombra di Atene si stende sull’Impero almeno fino a Adriano. Penso a Virgilio che muore a conclusione di un viaggio in Grecia, un po’ come il viaggio a Chiasso invocato e consigliato da Arbasino D’accordo, se dobbiamo inseguire riscontri o le analogie (le tentazioni sono molte) con la nostra cultura contemporanea, con la nostra esperienza, riconosciamo la persistenza di alcune costanti, due su tutte, la tirannia e la democrazia, anche se poi all’analisi emergono enormi differenze. La democrazia dell’impero ateniese di Pericle e la democrazia sovietica fino a che punto si respingono o si associano? Sì, usiamo la stessa parola per indicare oggetti e realtà inconciliabili. Il lavoro di Fox sembra dimostrare la debolezza delle nostre lingue. È un discorso che si complica ulteriormente se gli apporti greci e latini oggi aggiungiamo, come vuole la storia, gli apporti della cultura cristiana, mediatrice anche contraddittoria tra antico e moderno. La lingua che pronuncia rimane pur sempre la stessa, al punto che, a fine lettura del gran saggio, mi sorge il dubbio che si tratti proprio di una questione lessicale, se l’uomo ha sempre due gambe, un naso, due occhi.

l’Unità lettere 22.1.08
Questo Paese in cui i laici vengono insultati
Cara Unità,
ho partecipato alle primarie del Pd, però ci speravo che questo nuovo soggetto fosse, prima di tutto, un soggetto laico. Ciò che ho invece capito, tra questo marasma infernale è che coloro che si appellano alla laicità dello Stato vengono tacciati di essere, nell’ordine: cattivi maestri, cretini, intolleranti, ecc. Tutti nello stesso calderone, senza distinguo di sorta: professori, studenti e cittadini. Viva la libertà di espressione (forse la libertà vale solo per il papa). Se non ci fosse da piangere, potremmo riderne a crepapelle. Insomma, l’apertura dell’anno accademico è affidata al papa. Facciamo così, il papa potrà aprire l’anno alla Sapienza, in cambio l’università cattolica lo farà aprire, a scelta, a Napolitano oppure a Veltroni. Che ne dite?
Stefania Casadio

Ecco il ritratto dell’Italia se la legislazione si conformasse alla Curia
Cara Unità,
agli improvvisi, ed improvvisati, sostenitori della chiesa cattolica romana, ricordo come diverrebbe la nostra vita se accettassimo di conformare la legislazione del nostro paese ai suggerimenti avvelenati della curia romana: niente contraccezione, niente divorzio, niente aborto, niente sesso prematrimoniale, scarso utilizzo di terapie antidolorifiche negli ospedali, poca o nulla ricerca biotecnologica. In breve, l’Afghanistan europeo.
Antonio Occhiochiuso, Rivoli (To)

Repubblica 22.1.08
La laicità dopo il caso Sapienza
di Stefano Rodotà


L´analisi delle vicende complesse, dunque l´esercizio della virtù della riflessione e della distinzione, diviene sempre più difficile. Questa difficoltà è cresciuta nel caso della visita del Papa all´università "La Sapienza". Senza ricorrere alla parola "laicità", e ricordando anche argomentazioni già proposte, vorrei sottolineare quali dovrebbero essere i principi di un discorso pubblico in una società che vuol essere democratica.
Per cominciare. Il furore polemico ha abusato di due argomenti, che chiamerò volterriano e iran-americano. Ridotta a slogan o a giaculatoria, è stata ripetuta la nota massima di Voltaire – «non condivido le tue idee, ma mi batterò perché tu possa manifestarle» (su questo ha scritto bene Giovanni Valentini). Ma, se durante una delle settimanali udienze del Papa uno dei partecipanti alza la mano, pretende di tenere un discorso e viene giustamente invitato a tacere, il canone volterriano è violato? Se, all´apertura di un congresso di partito, subito dopo la relazione del segretario, il leader di un altro partito pretende di parlare e giustamente gli viene negata la parola, siamo di fronte alla censura, all´imposizione di un bavaglio? Faccio queste domande, retoriche, non per ridimensionare la portata del principio indicato da Voltaire, ma per ricordare che si deve sempre tenere conto del contesto e, soprattutto, che quel principio non può essere applicato selettivamente. Non ci si può battere per il diritto di parola di Benedetto XVI e negarlo a Marcello Cini e Carlo Bernardini. La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio di parità.
Veniamo all´altro argomento. Più d´uno, per mostrare l´inaccettabilità delle pretese dei critici dell´invito al Papa, ha voluto ricordare che la Columbia University ha addirittura invitato il Presidente iraniano Ahmadinejad. Si può invitare un dittatore, un negatore dell´Olocausto, e non il Pontefice? Vediamo come sono andati i fatti. All´annuncio della visita sono partite molte critiche accademiche e una forte protesta degli studenti. Prima di dar la parola ad Ahmadinejad il presidente dell´università, Lee Bollinger, ha criticato con estrema durezza, al limite della maleducazione, le sue idee e posizioni. Dopo il discorso del Presidente iraniano, i presenti gli hanno rivolto molte domande ed hanno commentato anche pesantemente le sue risposte. Quel che è accaduto a New York, dunque, prova esattamente il contrario di quel che sostenevano quanti hanno richiamato quel fatto. L´università si fonda, in ogni momento, sul confronto e sul dialogo. La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio della veritiera descrizione dei fatti.
Proprio in omaggio a questo principio, bisogna ricordare che, pur essendo vero che alcune decisioni universitarie sono di competenza del Rettore e del Senato accademico, questo non vuol dire affatto che queste decisioni non possano essere oggetto di pubblica critica da parte di ogni professore o studente, né che la loro libertà di critica sia limitata alla scelta di non partecipare all´evento sgradito. L´università non è una organizzazione rigidamente gerarchica, né il Rettore è assistito dal privilegio dell´infallibilità. Peraltro, proprio la storia recente delle inaugurazioni dell´anno accademico alla Sapienza conosce critiche e contestazioni, in qualche caso accolte, agli inviti che si aveva in mente di fare. Non è esclusa la possibilità di invitare qualcuno a parlare senza contraddittorio, ma è indispensabile valutare attentamente le conseguenze di questa scelta. La correttezza del discorso pubblico esige che ogni vicenda venga valutata nel preciso contesto in cui si è svolta.
È rivelatore, peraltro, il modo in cui sono stati giudicati i 67 professori firmatari della lettera al Rettore, con la quale veniva chiesta le revoca dell´invito a Benedetto XVI. Sono stati definiti "professorucoli", si è detto che «i ragli degli asini non arrivano in cielo». La libertà accademica e la libertà di manifestazione del pensiero, dunque, dovrebbero arrestarsi di fronte al principio di autorità? Quale "licenza de li superiori" sarebbe necessaria per ottenere il permesso di parlare di chi sta in alto? La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio che tutti possano parteciparvi.
La critica ai professori firmatari della lettera e alle posizioni estreme di alcuni gruppi di studenti ha poi assunto toni dichiaratamente politici ed ha determinato anche ulteriori travisamenti della realtà. Si è descritto quel che è accaduto con parole come "veto", "censura", "cacciata", "bavaglio". Non insisto sul dato formale, ma tutt´altro che irrilevante, di una decisione presa in assoluta autonomia dal Papa, di cui non discuto motivazioni e finalità. Ma non si può chiedere ai firmatari di uniformarsi ad un principio di "opportunità" che, come ben vediamo in molti settori a cominciare da quello dei mezzi d´informazione, può facilmente diventare autocensura. La democrazia si nutre di opinioni non solo diverse, ma anche sgradevoli, delle quali si può ben discutere il merito, ma di cui non si può negare la legittimità. E le posizioni degli studenti devono essere giudicate con lo stesso metro, eccezion fatta per gli aspetti di ordine pubblico, peraltro ritenuti tali da non provocare preoccupazioni, secondo le dichiarazioni del ministro dell´Interno. Comunque, gli aspetti politici della vicenda devono essere analizzati con criteri anch´essi politici. La correttezza del discorso pubblico esige che non si mescolino i piani delle valutazioni.
La politica, allora. È indubitabile, ormai, che non tanto la linea scelta dal Pontefice, quanto i concreti modi di attuarla, vadano ben al di là della dimensione pastorale e teologica. Il Pontefice si comporta ed è percepito come un leader politico. Questa non è una conclusione malevola. Basta ricordare una sola vicenda, quella legata al duro intervento del Papa sulle condizioni di Roma in occasione dell´udienza concessa ai rappresentanti degli enti locali del Lazio. Quelle dichiarazioni hanno determinato una trattativa "diplomatica" che, in linea con le peggiori abitudini della politica italiana, ha poi portato a denunciare le "strumentalizzazioni" e le "deformazioni" delle parole del Papa, entrate con prepotenza nel dibattito politico.
Questo porta ad una considerazione più generale. Si insiste nel dire che la religione deve essere riconosciuta anche nella sfera pubblica. Ma che cosa significa questa affermazione? Che nello spazio pubblico la religione ha uno statuto privilegiato o che, entrando in quello spazio, ogni religione partecipa al discorso pubblico con le proprie importanti caratteristiche, ma in condizioni di parità? Nel 1989 la Corte costituzionale ha scritto che «il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei principi della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica», sancendo così l´eguaglianza che accomuna tutte le religioni e, insieme, la loro sottoposizione a quel principio fondativo della convivenza democratica. Nella sfera pubblica tutti i soggetti devono accettare la logica del dialogo, della critica ed anche della contestazione.
Altrimenti l´insidia del temporalismo si fa concreta. Non a caso da studiosi autorevoli e da politici cattolici consapevoli dei rischi di questa deriva sono venute analisi rigorose del rischio di un ritorno del "Papa re" e di un vero uso strumentale della religione, simboleggiato da quella sorta di "chiamata alle armi" dei cattolici a manifestare in piazza San Pietro in una occasione squisitamente liturgica. La correttezza del discorso pubblico esige una presenza costante del canone della democrazia.
Ha fatto bene Alberto Asor Rosa a ricordare la feconda stagione di dialogo tra credenti e non credenti nella Cappella universitaria della Sapienza, dove ebbi la fortuna di discutere con un grande biblista, Luis Alonso Schoekel. Aggiungo il mio personale ricordo dell´invito che rivolsi a monsignor Clemente Riva perché venisse a parlare nel mio corso, e del suo emozionante dialogo con gli studenti. Altri tempi, altre persone, altra politica? Una stagione irripetibile? Spero e voglio credere di no, perché continuo ad avere molte occasioni di dialogo con un mondo cattolico che tuttavia fatica ad essere presente nella sfera pubblica. Altrimenti dovremmo tornare alle amare parole di Arturo Carlo Jemolo, che nel 1963 così scriveva: «Questa Italia non è quella che avevo sperato; questa società non è quella che vaticinavo... l´affermarsi e il dissolversi delle tavole del liberalismo; l´inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe».

Repubblica 22.1.08
Renato Poggioli. Una vittima illustre delle censure del Pci
di Mario Pirani


L´ostracismo all’antologia dello slavista Renato Poggioli
Quando il Pci censurò i poeti russi dell´Einaudi

Lo slavista fu attaccato per aver raccolto nell´antologia"Il fiore del verso russo" i poeti perseguitati da Stalin. Nel centenariodella nascita Harvard, dove ha insegnato, lo celebra, in Italia è dimenticato
L´emblematica vicenda va collocata nei primi anni del dopoguerra quando la guerra fredda si allarga a tutti i domini della cultura
Ebbe rapporti con numerosi editori italiani e con Einaudi l´avvìo è folgorante: "siamo incantati, gli scrive Cesare Pavese, della Sua proposta"
Dall´America dirigeva la rivista "Inventario" che ebbe un taglio internazionale con contributi di Eliot, Nabokov, Lowell, Ungaretti e Quasimodo
Quando esce il "Fiore" Einaudi cerca di prendere le distanze dall´antologia con una prefazione, ma ai comunisti questo non basta

Tre Università americane – Massachusetts, Brown ed Harvard – hanno organizzato nelle rispettive sedi per tre giorni consecutivi (25, 26, 27 ottobre) un simposio internazionale di studi su Renato Poggioli (1907-1963) nel primo centenario della nascita. Dal 1946 fino alla morte ricoprì ad Harvard la cattedra di letteratura comparata ma, pur essendo trascorsi oltre quarant´anni, resta un personaggio assai noto fra gli studiosi statunitensi interessati alla slavistica e all´italianistica (il suo libro più celebre, Il fiore del verso russo del 1949, viene ancor oggi ristampato). In Italia, per contro, ha subito una vera e propria damnatio memoriae, malgrado la sua figura sia stata di primo piano soprattutto per la cultura del nostro Paese. Non, però, la polvere inesorabile del tempo ha ricoperto le orme lasciate da Poggioli ma l´impalpabile rimozione ideologica indotta dalla guerra fredda e dagli effetti che la pavida osservanza dei dettami stalinisti ebbe in quella stagione su larga parte degli intellettuali, anche fra i migliori, e dell´editoria più prestigiosa.
Lo provano la corrispondenza fra Poggioli, Pavese, Giulio Einaudi, Vito Laterza, Eugenio Montale, Paolo Milano, Isaiah Berlin ed altri, fornitaci dalla figlia Sylvia, e gli esaurienti riscontri analizzati a suo tempo da Luisa Mangoni nella sua monumentale storia della casa editrice Einaudi (Pensare i libri, Torino 1999, Bollati Boringhieri). L´emblematica vicenda cultural-editoriale va collocata nei primissimi anni del dopoguerra, quando la guerra fredda si proietta anche nella battaglia delle idee e si allarga a tutti i domini della cultura, dalla letteratura alla musica, dalla biologia alla linguistica, dalle arti figurative alla storiografia.
Secondo i dettami di Stalin e di Zdanov, cui è affidata la gestione dell´ideologia, la produzione culturale deve essere rigidamente «realista nella forma, socialista nel contenuto». Se nell´Urss e nei paesi del «socialismo reale» la mancata osservanza di questo schema porterà a pesanti persecuzioni con conseguenze tragiche, lunghi internamenti nei gulag, spietate esecuzioni, disperati suicidi, in Occidente, soprattutto in Italia e Francia dove grande è la forza dei partiti comunisti, gli ukase di Zdanov si tradurranno in condanne ideologiche, rotture politiche, censure editoriali, velenose polemiche. Certo, in Italia l´ortodossia è stemperata dal filtro gramsciano, dalla duttilità togliattiana, dalla specificità originale del Pci, ma la radice persecutoria resta pur sempre di marchio stalinista e, soprattutto nella prima fase della guerra fredda, è saldamente coerente con quella impronta.
L´avventura letteraria di Renato Poggioli si colloca in quel contesto, pur se le premesse germogliano nel decennio precedente quando studia e si sposta per approfondire le conoscenze linguistico letterarie a Vienna, Praga e Varsavia. In quegli anni, però, punto di riferimento, per prolungati soggiorni, è Firenze, la città natìa. Così lo ricorderà molti anni dopo Carlo Bo in un articolo rievocativo della vita letteraria fiorentina negli anni Trenta: «All´epoca c´erano a Firenze due università, la prima la statale a piazza San Marco, le seconda che aveva tante succursali quanti erano i caffè di Firenze, dove a seconda dell´ora si riunivano scrittori, alcuni già famosi, la maggioranza principianti. Renato Poggioli era il Presidente di questa anonima università ed ogni giorno teneva lezione su una gamma di argomenti letterari». In un altro articolo, apparso nel ‘63 sull´Europeo, Bo definirà Poggioli come «il maestro dei nostri primi passi... conosceva letterature che noi ignoravamo e, infatti, è stato merito suo se già da allora abbiamo potuto affrontare poeti come Anna Achmatova e Pasternak.
Poggioli arrivava puntualmente tutte le mattine, verso mezzogiorno, con un nuovo libro sotto il braccio e teneva lezione: una lezione estremamente viva, poco o niente accademica... Molti anni dopo si seppe che aveva approdato in America e insegnava in una di quelle università. Oggi è un maestro di Harvard (era titolare di slavistica e letteratura comparata, ndr)». E, infatti Poggioli, che nel frattempo si era sposato con una allieva italiana di Ortega y Gasset, Renata Nordio, informato che le autorità fasciste diffidavano della sua attività e stavano per prendere misure contro di lui, era riuscito nel 1938 ad emigrare in America, anche grazie ai rapporti della moglie con Gaetano Salvemini, già esule negli Stati Uniti. E qui si legò politicamente con la Mazzini Society e con gli antifascisti che gravitavano, appunto, attorno a Salvemini. Se la guerra interruppe i rapporti con l´Italia, questi ripresero immediatamente con la Liberazione in due direzioni. La prima fu la fondazione, assieme ad un suo amico fiorentino, il poeta Luigi Berti, di una rivista unica nel suo genere che battezzò Inventario cui ambiva affidare il compito di sprovincializzare la cultura italiana. Usciva a Firenze – editore Parenti – ma Poggioli la dirigeva dall´America. Durò fino al 1963 – anno della morte quasi contemporanea dei due promotori – ed ebbe un taglio internazionale senza confronti, dovuto appunto al prestigio di Poggioli che era riuscito a far confluire nel comitato direttivo nomi come T. S. Eliot, Vladimir Nabokov, Jorge Guillen, Robert Lowell, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Pedro Salinas, Allen Tate ed altri. Tra i collaboratori, fin dal primo numero, Thomas Mann e St John Perse. Contemporaneamente Poggioli avviò una sua periodica collaborazione di critica letteraria con Il Mondo di Pannunzio.
Nello stesso tempo s´impegnò con uno slancio davvero straordinario nel tentativo di imprimere un profilo cosmopolita all´asfittica vita culturale italiana tessendo un carteggio imponente con gli editori americani perché scoprissero poeti e scrittori italiani ma, soprattutto, rivolto ai maggiori editori del nostro paese, da Einaudi, il suo preferito, a Bompiani, da Laterza a Guanda, da Mondadori a Neri Pozza, ecc. fornendo a tutti note, schede, proposte motivate, suggerimenti riguardanti romanzi, saggi critici e politici, poesie. Il carteggio è di grandissimo interesse. Montale scherzosamente si dichiara «un po´ vergognoso di scrivere a un full professor giunto tanto in alto», si dilunga sull´invio di testi, destinati ad editori americani, accenna a due suoi scritti che potrebbero venir tradotti per il pubblico d´Oltreoceano e spiega che sono «apparsi su Società, la rivista paracomunista che stampa Einaudi. Io, però, non ho trovato asilo nel p. c.; sono politicamente roofless (senza tetto, ndr) e tale mi manterrò se potrò, dopo molte delusioni». Tra gli editori vi è chi ringrazia come Valentino Bompiani che in data 7 settembre 1946 scrive: «Io penso che la sua attività sia di grande importanza per la letteratura e l´editoria italiana e per parte mia sarò lietissimo se in qualunque momento e in qualunque modo riuscirò a dimostrarle la mia gratitudine». E vi è chi declina, come Vito Laterza, che otto anni dopo, il 17 novembre 1954, avendo ricevuto da Poggioli alcune schede di segnalazione che comprendono il Diario parigino di Trotzkij e altri saggi storico-sociologici sull´Urss e sulla Cina di Mao, tutti curati dalla Harvard University Press, dichiara: «La situazione culturale e politica del nostro Paese è così tesa che affrontare certi argomenti comporta rischi notevoli, ma soprattutto fastidiosi. Un´opera sul comunismo o sulla Russia, anche se disinteressata e seria e obbiettiva, si presta a impensate critiche e a impensate lodi, e comunque sempre a reazioni assai poco pertinenti... se il libro critica alcuni aspetti negativi di quell´ideologia e di quella società, ci sarà sempre qualcuno che ne trarrà spunto per discorsi volgarmente anticomumisti e intimamente reazionari». Con Einaudi l´avvìo è folgorante: «Tanto io che Einaudi – gli scrive Cesare Pavese – siamo incantati della Sua proposta di collaborazione con noi». Sarà l´inizio di una corrispondenza fittissima che culminerà nel 1949 con la pubblicazione dell´opera che sta più a cuore a Poggioli, Il fiore del verso russo, una sua antologia critica e storica della poesia russa tra Ottocento e Novecento, con particolare riguardo alle correnti decadenti, simboliste e futuriste a cavallo della Rivoluzione di Ottobre «che pesa ancora – scriverà nel prologo – come una promessa e una minaccia sulla Russia, sull´Europa e sul mondo». Un ampio saggio, corredato da biografie e note, guida il lettore alla lettura di grandi lirici, in quel tempo quasi sconosciuti in Occidente, dalla Achmatova a Pasternak, da Mandelstam ad Essenin, da Block a Majakovskij alla Cvetaeva non tacendo della tragica fine di molti, perché «la nuova età, spietata come ogni cosa barbara e naturale, molti di loro anche uccise, o con le armi o con il solo suo avvento». A questo punto l´idillio con la Einaudi subisce gravi contraccolpi anche se le prime avvisaglie sembrano ancora amichevoli. Il 5 ottobre 1949 Pavese scrive a Poggioli: «Oggi il Fiore entra in stampa: suoni le campane. Einaudi che scorre i libri soltanto in ultime bozze ha deciso, per varie ragioni, di premettere al Fiore una sua avvertenza... La veda, mi pare piccante». Accenna poi in termini entusiastici ad un altro libro che Poggioli sta scrivendo per la casa editrice sulla cultura d´avanguardia e dichiara: «Ho letto l´altra puntata dell´Arte d´avanguardia e sono sempre più interessato e impaziente di averla tutta fra le mani per fare il libro». Ma cosa è questa inconsueta prefazione dell´editore ad un libro da lui pubblicato? Lo ha raccontato con dettagli strabilianti Luisa Mangoni (opera citata) riportando quale irritazione stesse montando nel gruppo dirigente del partito quando trapela che sta per essere pubblicato da un editore considerato amico un libro che cita le persecuzioni staliniste contro i maggiori poeti russi. Giulio Einaudi tenta, quindi, di prendere qualche distanza dal Fiore, pur senza sconfessarlo. «A noi preme osservare – scrive nella prefazione – che l´interpretazione che l´antologista dà dello sviluppo di questa poesia e l´asprezza di qualche suo giudizio sulle sue più recenti vicende, sono testimonianza, una fra le molte, della crisi della cultura contemporanea, della sua tragica mutilazione e fungibilità di valori».
Nel frattempo la discussione coinvolge tutto il gruppo di intellettuali che facevano capo all´Einaudi (oltre Pavese, Antonio Giolitti, Felice Balbo, Natalia Ginzburg, Carlo Muscetta, Francesco Jovine ed altri), che in una riunione apposita convengono sulla opportunità di orientare i recensori che scriveranno sui giornali comunisti perché la critiche siano almeno rispettose.
In proposito Carlo Muscetta scrive ad Einaudi che si atterrà a questa sollecitazione anche se giudica il testo «sostanzialmente schifoso». La Ginzburg, per contro, rivolgendosi a Jovine sostiene che sarebbe bene recensisse lui il «bellissimo volume... anzitutto perché altri difficilmente saprebbero apprezzare sia le finezze della traduzione che il commento, e poi perché trattandosi, come vedrai di un libro che non può non essere attaccato sull´Unità, avremmo caro fossi tu ad attaccarlo alla luce dell´intelligenza e dell´intendimento poetico, col criterio e il discernimento che meritano e Poggioli e il volume». Infine Antonio Giolitti, come ultima istanza, pensa a Togliatti e chiede di vederlo. Togliatti, però, è in viaggio e Giolitti, per saggiare il terreno, sottopone una delle prime copie a Felice Platone, molto vicino al capo del partito. La reazione è drastica e Giolitti, con una lettera ne informa Torino: «L´amico filosofo (per il nome, evidentemente, ndr) ha annusato il fiore e ne è rimasto disgustato: addirittura si è posto la domanda se Einaudi possa continuare ad essere l´editore di certe opere complete.
Ritiene – e in coscienza non so dargli torto – che quel libro superi ogni più largo limite consentito. La missione presso il principale si fa assai delicata». E, infatti, pochi giorni dopo Togliatti rientra a Roma e telegrafa ad Einaudi invitandolo a sospendere «edizione miei scritti da me non autorizzata». Mentre sul Corriere Montale recensisce il Fiore con un lungo articolo, ricco di lodi, sui giornali del Pci appaiono articoli in cui si accusa Poggioli di essere un agente al soldo degli Stati Uniti e si lasciano trasparire velate minacce all´Einaudi.
I rapporti tra Botteghe Oscure e la casa editrice minacciano di volgere al peggio. Non resta per ricomporli che sacrificare Poggioli sull´altare della ragion politica.
Pavese gli manda una lettera in data 16/2/1950 in cui rinnega l´impegno a pubblicare il secondo libro, Teoria dell´arte d´avanguardia, con questa parole: «Il libro non si fa... Si tratta di non liquidare l´unità del consiglio editoriale insistendo sul Suo nome: se Einaudi lo facesse, si troverebbe praticamente l´indomani senza i collaboratori, che, bene o male l´hanno fatto chi è, e si precluderebbe un largo nascente pubblico... Badi, però, che il Suo rifiuto – "né rosso né nero" – significa attualmente in Italia "sospeso tra cielo e terra", "né dentro né fuori", "né vestito né ignudo" – insomma una situazione quale soltanto Bertoldo seppe sostenere e con una facezia dopo tutto. In Italia, ripeto, non so altrove». Il libro verrà pubblicato dal Mulino nel 1962, ma, per quanto riguarda la pubblicistica di sinistra, il nome di Poggioli, che morirà in un incidente d´auto nel 1963, sarà totalmente bandito. Con effetti che andranno anche al di là dell´ambito culturale cosiddetto progressista. Nel ´98 Carlo Bo si rammarica del velo di silenzio caduto su un intellettuale benemerito per la cultura italiana «tanto che il suo nome non si trova neppure nella Treccanetta, dove di Poggioli c´è soltanto il regista». Del resto neppure l´ultima Garzantina ne fa cenno. La damnatio memoriae, infatti, si perpetua ancora oggi. Nel centenario della nascita di Pavese la Einaudi ha deciso infatti l´uscita di un volume sulla sua attività di editor della casa editrice e il curatore si è rivolto alla figlia di Poggioli, Sylvia, per ottenere l´assenso alla pubblicazione del carteggio tra i due, ben 59 lettere. In questi giorni marcia indietro: l´Einaudi ha informato che pubblicherà solo le lettere dei collaboratori regolarmente stipendiati dalla casa editrice.
Poggioli non era tra questi e lo scambio epistolare tra lui e Pavese resterà inedito. L´ombra di Zdanov si proietta ancora su via Biancamano?

Corriere della Sera 22.1.08
Anticipazione Christopher Hitchens ha scritto la prefazione alla nuova edizione di «Infedele», denuncia dell'integralismo religioso
La sfida di Ayaan al terrore islamico
Hirsi Ali, ragione laica contro potere clericale
di Christopher Hitchens


Ayaan Hirsi Ali è cresciuta in circostanze inimmaginabili per gran parte degli abitanti del mondo «sviluppato». Da piccola, Ayaan è stata soggetta alla rozza tortura della mutilazione genitale. Molti erano gli uomini (e le donne più anziane) che avevano il diritto di picchiarla e che esercitavano tale diritto con piacere. Dopo averle negato l'autonomia persino sulle proprie parti intime, ci si aspettava anche che acconsentisse a qualunque progetto di nozze deciso da altri per lei. Il tutto andava accettato con spirito fatalistico, perché volontà di un essere supremo. Ayaan credeva nell'esistenza di djinn e demoni, nei meccanismi di una cospirazione ebraica internazionale, nella verità della lettera di un solo libro e nella necessità che si dovessero coprire gli arti e i volti delle donne. È stimolante leggere la storia della sua graduale liberazione da simili illusioni e del suo rifiuto finale e definitivo di credere nel soprannaturale.
Nell'autunno del 2007, durante una conversazione, abbiamo parlato della triade di mentalità che, a mio avviso, costituiscono il fondamentalismo islamico: autocompiacimento, autocommiserazione e odio di sé. «Nel mondo musulmano l'io esiste a malapena», è stato il suo primo commento, «perché i veri momenti umani sono quelli rubati. Ciò produce ipocrisia, la causa prima dell'autocompiacimento ». Ayaan è convinta che la repressione sessuale sia la radice di tutti i problemi collegati, perché «senza libertà sessuale non c'è io». Ne consegue che chiunque voglia avere amor proprio dal punto di vista sessuale si ritrova in rotta di collisione con l'ortodossia religiosa. Il culto della verginità, uno dei vanti del Corano, impone in modo assoluto la supremazia maschile e l'infelicità femminile. Ayaan ha parlato con pacatezza e verecondia, ma in modo chiaro, di come questo culto renda insopportabile la vita delle donne, sia privandole del tutto di una vita sessuale, sia costringendole a ricorrere a espedienti (dolorosa penetrazione anale, ricucitura dell'imene) al contempo pericolosi, sgradevoli e degradanti. «Tra i primi segnali di allarme», mi ha detto Ayaan, «c'è stata la scoperta, quando avevo cinque o sei anni, di mia nonna che, con il sedere all'aria, parlava da sola e si rivolgeva a qualcuno. Pensai che fosse un gioco e cominciai a partecipare, ma lei mi disse che ero una bambina cattiva. Io avrei giurato che, sebbene lei parlasse con qualcuno, lì non c'era nessuno».
I culti religiosi spesso enfatizzano il ruolo dei bambini precoci che pronunciano parole di saggezza, ma è altrettanto vero che i bambini possono essere veloci a capire i meccanismi della religione. «L'Islam è molto crudo perché pretende rigorose routine di preghiera ed esercizi. Dovevo partecipare per forza, ma non riuscivo a concentrarmi e quindi mi sentivo in colpa». È proprio questa la sintesi del «sadomasochismo » della religione: fa richieste impossibili e poi condanna al peccato originale chi non riesce a tener loro fede. La paura della punizione eterna è una cattiveria da infliggere a un bambino. Ayaan mi ha detto di non essersi emancipata del tutto dalla sua educazione repressiva fino a quando non si è liberata del terrore dell'inferno. Soltanto dopo avere attraversato quel Rubicone, Ayaan ha potuto dichiarare la sua piena indipendenza. È impossibile essere solo un po' eretici o consentire solo un po' di eresia. La ruota, il rogo e lo schiacciapollici sono tutti infruttuosi contro questa realtà. Basta ammettere un solo dubbio e l'intero edificio minaccia di crollare.
Fin dall'aggressione alla società civile sferrata l'11 settembre 2001, gran parte del mondo «occidentale» si è lanciato nella caccia sfrenata di interlocutori del mondo islamico. Come possiamo «capire » le richieste e le emozioni musulmane? Che cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo odio? Come possiamo scendere a patti con una società che sembra prendere alla lettera i precetti religiosi? La causa dell'arretratezza e della miseria del mondo musulmano non è l'oppressione occidentale ma lo stesso Islam: una fede che proclama il disprezzo per l'Illuminismo e per i valori laici. Insegna l'odio ai bambini, promette una grottesca versione dell'aldilà, eleva il culto del «martirio», flirta con la folle idea della conversione forzata del mondo non islamico e priva le società del talento e dell'energia del cinquanta per cento dei loro membri: la metà femminile. Non occorre guardare più lontano per spiegare l'istupidimento di società come l'Afghanistan, l'Iran, il Sudan, il Pakistan e la Somalia. Il corollario regge con una certa precisione: le società musulmane relativamente aperte e prospere — per esempio l'Indonesia, la Turchia e la Tunisia — sono proprio quelle che limitano la religione. E la linea tra stato fallito e stato «canaglia» diventa sempre più difficile da tracciare, perché quando le società islamiste falliscono è proprio la loro fede a impedire qualsivoglia indagine autocritica.
Esaminiamo un aspetto del caso di Ayaan e cerchiamo di capire quanto stia in piedi l'interpretazione «moderata». Una ragione per cui è tanto odiata, e per cui la sua vita è ritenuta in pericolo, è che lei stessa è ciò che il titolo del suo libro proclama con orgoglio: un'apostata. Ayaan ha esercitato il diritto di abbandonare la religione in cui è stata cresciuta. Ma qui si presenta subito un problema. Le hadith musulmane, che insieme al Corano hanno uno status canonico, affermano in modo chiaro che la punizione per l'apostasia è la morte. Per le questioni testuali, imbarazzati revisionisti religiosi a volte si rifugiano nella metafora o nelle varianti della dottrina delle sacre scritture, ma nel presente caso non è disponibile neppure questa tattica ambigua. L'ingiunzione dice quel che dice, niente di più e niente di meno. In altri termini, i «fondamentalisti» hanno la legge religiosa dalla loro. Una volta ho chiesto a Tariq Ramadan che cosa ne pensasse a riguardo e lui ha risposto che l'uccisione degli apostati era «inattuabile». Inattuabile? Visto il numero sempre più alto di ex musulmani, sarà anche così. Ma questo termine moralmente pigro non sembra esprimere alcuna condanna C'è un altro punto di vista che va affermato senza ambiguità: se per migliorarsi i musulmani vogliono emigrare in società aperte e sviluppate, allora sta a loro adattarsi. È il prezzo dell'«inclusione », un prezzo assai ragionevole. La richiesta di un trattamento speciale per gli islamisti, che giunge sino alla censura della stampa laddove essi possano rivendicare l'«offesa» e alla segregazione scolastica per sesso laddove possano invocare la tradizione, è la richiesta di non ampliare la nostra civiltà multiculturale e multietnica, ma piuttosto quella di negarla. Il relativismo non ha il diritto di fare una richiesta tanto esorbitante.

Corriere della Sera 22.1.08
Iconologia. Torna, dopo cinquant'anni, il celebre saggio sulla pittura firmato da Enrico Castelli
C'è del demoniaco in quell'arte
Da Bosch e Bruegel a Bacon: quando il male genera capolavori
di Gillo Dorfles


Ma il diavolo esiste davvero? Lo si voglia chiamare — come Giovanni nell'Apocalisse — «Drákon mégas», «Diábolos» o «Satanàs» o, più confidenzialmente, Belzebù; o lo si voglia persino distinguere (stando a Rudolf Steiner) nelle due «entità» malefiche di Lucifero — l'angelo ribelle — e di Arimane — il promotore del materialismo più spinto... comunque sia, nei nostri tempi di diabolicità maligna e di fondamentalismi perniciosi, il diavolo non scherza. Sicché è il momento più propizio per la ristampa, dopo mezzo secolo, di un celebre testo come Il demoniaco nell'arte di Enrico Castelli (a cura di Enrico Castelli Gattinara; introduzione di Corrado Bologna). Quando Castelli — nel suo «Archivio di filosofia » (1931-1981) di cui era stato il fondatore, e nei famosi «Incontri dell'Epifania», svolti per più d'un decennio a Roma — aveva affrontato il vasto tema dei rapporti tra filosofia dell'arte, simbolismo e teologia, forse non si era del tutto reso conto di aver «precorso i tempi»: quei tempi che il nipote Enrico Castelli Gattinara nella premessa al volume ricorda come quelli che «non a caso seguirono la conclusione di quell'immenso e tremendo trionfo della morte che fu la Seconda guerra mondiale».
Castelli aveva dietro di sé una lunga serie di studi attorno ai problemi di un'interpretazione teologica-antropologica dell'arte e nel suo libro conduceva a fondo un'analisi rivolta soprattutto all'arte tra il XIV e il XVII secolo dei diversi artisti nordici e fiamminghi (da Bosch a Bruegel, da Cranach a Patinir, da Huys a Dürer), che nelle loro opere avevano illustrato i tenebrosi meandri del demoniaco, della kabala, dell'alchimia. Categorie come il «tremendum», il «celato» e il falso, lo «sdoppiato» invadono e circondano i personaggi di molte delle opere considerate e costituiscono la base di un'arte che nel compiacimento dell'orrido, del deforme, o del falso paradisiaco, riusciva a raggiungere spesso straordinarie atmosfere, di terrore e di subdolo fascino. Basti riflettere sul «Giardino delle delizie » di Bosch o sulle «Tentazioni di Sant'Antonio»; o al «Trionfo della Morte» di Bruegel.
Chi, come chi scrive, ricorda ancora con nostalgia l'atmosfera dei seminari (che ebbe la fortuna di poter seguire) non ha dimenticato il loro tenore davvero insolito per l'incontro di dottrina e fantasia e per la presenza di eccezionali studiosi come Ricoeur e Gadamer, Kerenyi e Chastel e di religiosi, non solo cattolici, Jean Daniélou o Raimundo Panikkar (il gesuita-buddista), ma anche protestanti, valdesi, nonché di psicologi e psicanalisti, come Minkowski, Starobinski. Persino di personaggi eterodossi come Jacques Lacan parteciparono agli incontri, e ricordo l'interesse un po' sospettoso, che provocò la sua presenza e soprattutto alcune sue spericolate argomentazioni. In effetti, uno dei grandi meriti di Castelli fu proprio quello di voler porre a confronto personaggi così antitetici come teologi di stretta osservanza e studiosi di indirizzo fenomenologico (Paci) o simbolico (come Kerény). Lo sottolinea anche — nella sua illuminante introduzione — Corrado Bologna: «Castelli lentamente elaborò la sua categoria del demoniaco e trovò una maniera per sublimarla dalla vita alla parola». E infatti il grande merito del libro è stato — ed è ancora — di aver conferito al concetto di demoniaco non solo una valenza teologica ma anche una rivolta all'attività artistica ed esistenziale: un fatto che anche l'arte degli ultimissimi tempi doveva confermare. In altre parole dimostrando come sia improprio, al giorno d'oggi, parlare di «brutto» e di «cattivo» nell'arte, perché il «cattivo » può essere più bello del «buono»: quanto spesso abbiamo visto che il cattivo ispira bellissime immagini e il buono soltanto episodi del peggior kitsch. Tanto più quando c'è di mezzo il diavolo è preferibile non identificare etica con estetica: la buona vecchia «kalokagathia» greca è ormai scomparsa. E basterebbe osservare quanto accade ed è accaduto a certa arte dei nostri giorni: da Beuys a Bacon, da Acconci a Stelarc, a Nitsch e compagni azionisti viennesi (meglio perderli che trovarli, di solito, salvo quando sono dei veri geni come Günter Brus). Ebbene, in molta di questa «arte degenerata» (non quella definita così dai nazisti, che comprendeva anche Klee e Kandinsky) l'aspetto estetico prevale su quello etico; il compiacimento dell'orrorifico, del lubrico, del deforme, come avveniva anche nel grande Bosch o in Patinir, è in grado di suscitare capolavori; mentre gli zuccherosi pensieri di un'ipocrita «bontà» non producono che sterili paesaggini e sbiadite nature morte. Ecco, dunque, come il demoniaco di Castelli, con l'esaltazione dei capolavori fiamminghi proprio nelle loro più allucinate invenzioni del malefico, dell'alchemico, dell'eretico, costituisce ancora un trattato affascinante dello spartiacque e insieme dell'indissolubile coabitazione del bello e del brutto, del buono e del cattivo nell'arte di tutti i tempi.

Corriere della Sera 22.1.08
Teologia. Un millennio di visioni e interpretazioni
Tutti i nomi per dire «Satana»
di Armando Torno


Renzo Lavatori ha esaminato la figura del diavolo attraverso i testi del primo millennio cristiano: in questo lasso di tempo erano già presenti quelle idee demoniache poi utilizzate dal mondo moderno. Ma anche nei secoli precedenti il diavolo era al lavoro: sotto forma di serpente tenta i progenitori, tormenta Giobbe, agita Saul e spinge David al male. Il libro della Sapienza gli attribuisce l'ingresso della morte nel mondo (2,24); nel Nuovo Testamento la sua opera malefica si perfeziona: arriva a insidiare Gesù e i Farisei gli attribuiscono i miracoli operati dal Signore.
Lavatori offre una serie di puntuali scelte per conoscere l'inquietante presenza. Dopo alcuni passi veterotestamentari, si concentra sul millennio ricordato, aprendo con i vangeli sinottici e apocrifi; quindi gli scritti della tradizione rabbinica, i Padri apostolici, la gnosi, i testi del primo cristianesimo sul male, i monaci, i bizantini, la stessa decadenza di Satana nell'Alto Medioevo. Già, Satana: è il cattivo, il diavolo appunto: di fatto i due termini coincidono e indicano la personificazione dello spirito maligno.
L'ebraico has-satan significa sostanzialmente «l'avversario» ed è tradotto nella Bibbia greca dei Settanta con ó diábolos; Gerolamo nella Vulgata sceglierà diabolus (traslittera soltanto 5 volte satan). Se diábolos è l'essere che disunisce, il verbo greco diaballo vale, in senso figurato, anche «ingannare», «rendere odioso». Oscillerà sino ad «accusare» (nel Vangelo di Luca, 16,1) o «calunniare»; Platone nell'Apologia e nell'Eutifrone lo utilizza in tale senso.
Inseguendo i suoi significati, il diavolo si trasforma in un'avventura linguistica che nasce in ebraico e si diffonde nel mondo parlando greco, infine si cristallizza con il latino della Vulgata.
Si conosce l'identità di Satana percorrendone l'evoluzione e delineandone la complessità della presenza. Del resto, tale figura saprà spiegare il male e la stessa problematica venuta dell'Anticristo.

Il Riformista 22.1.08
L'attacco mediatico subìto
La politica ha volutamente ignorato le ragioni dei 67 fisici della Sapienza
Tra i firmatari ci sono molti scienziati di prestigio


Essere uno dei docenti della Sapienza che avevano chiesto al Magnifico Rettore di organizzare l'apertura dell'anno accademico in modo diverso da quello proposto mi ha obbligato, negli ultimi giorni, a lunghe riflessioni. Alcune considerazioni possono aiutare a trarre da questa vicenda un insegnamento: voglio sintetizzarle qui, perché le sento ben inquadrate dal fondo con cui Paolo Franchi apriva il numero del 16 gennaio del Riformista .
L'atto fortemente negativo e inaccettabile della rinuncia del Vaticano alla visita alla Sapienza è nato da due fatti reali: una lettera interna in cui una parte tangibile di un gruppo "disciplinare" di docenti, i "fisici", chiedeva di non inaugurare l'anno accademico con il discorso di una suprema autorità religiosa (ma che, naturalmente, la riteneva ospite rispettato dal momento in cui l'invito era stato inviato), e una protesta con caratteri di forte irriverenza (ma in nessun momento, mi sembra, di violenza) di un piccolo gruppo di studenti.
A me non sembra che una possibile insipienza politica dei fisici sia la constatazione più importante da dedurre da quel che è successo, anche se personalmente, tanto per essere chiari, la ritengo possibile. In modo elegante Lucia Annunziata notava che avremmo potuto ben percepire che la parola "incongrua" avrebbe creato scalpore. In modo molto più diretto e molto meno condivisibile Massimo Cacciari, nostro collega accademico dotato di un vocabolario ovviamente preso in prestito da altri lidi, ci accusa di "cretinismo politico" (e capisce tanto poco del modo di pensare di un gruppo di scienziati di valore che dice di avere la sensazione che noi volessimo "spostare voti a sinistra": questa è ovviamente una considerazione assurda, e l'averla pronunciata denuncia un'ignoranza completa del nostro mondo).
Una chiave di lettura generale, invece, che sorpassa di gran lunga la vicenda specifica e ha riferimenti alla drammaticità di quel che sta succedendo in Italia, mi sembra sia contenuta soprattutto nell'atteggiamento che la politica ha assunto verso i "67 fisici". L'attacco è stato durissimo, e assolutamente sprezzante. Non si è mai distinto, per esempio, fra l'espressione di un dissenso accademico moderato e rispettoso, e manifestazioni studentesche che sono tutto un altro fenomeno. I 67 hanno sempre dichiarato di essere assolutamente contro ogni violenza, anche verbale, e contro ogni disturbo, ogni prevaricazione, ogni manifestazione che non fosse pienamente legittima e tollerante: ma tutto questo è stato sempre e del tutto ignorato. Sembra che la politica, individuando (probabilmente giustamente) una situazione difficile e pericolosa, abbia deciso che fosse necessario intervenire sull'immediato: questo si chiama in inglese "damage control", e ha previsto in questo caso il massacro mediatico dei 67, fra i quali molti scienziati di prestigio enorme.
Questa mi sembra la chiave di lettura forte: la politica italiana non è riuscita a mettersi in rapporto con una parte di eccellenza del paese. Era una parte che nel caso specifico forse sbagliava, ma certamente esprimendo in tutta onestà una visione del mondo. Questo fenomeno è molto diffuso, ed è alla radice di molti dei problemi del paese. È ovvio, inevitabile e appropriato che la politica debba risolvere i problemi dei prossimi quindici giorni. È grave invece se la visione di medio o lungo termine viene persa: questa mi sembra, purtroppo, la situazione oggi in Italia. Il disastro è già con noi, ha le sue basi anche nella delegittimazione di vari settori della "classe dirigente" (fra questi annovero i fisici ma anche i magistrati, per molti dei quali, indipendentemente dal valore dell'inchiesta in questione, deve esser ben triste assistere a certi pomeriggi di applausi entusiasti in cui il nostro Parlamento decide di indulgere). Un paese che non riesce a utilizzare le sue competenze è un paese che non ha speranze di tenere il passo con il resto del mondo.
Un primo esempio: i recenti casi di intercettazioni telefoniche, complessi certo, con tante questioni di attendibilità, mostrano però in modo inequivocabile che, in modo diffuso nel paese, i medici che dirigono la nostra sanità vengono scelti perché amici, cugini, sodali («ma non lo teniamo un neurochirurgo nostro?»). Mai perché bravi e competenti, mai perché i migliori. Eppure un medico bravo ti guarisce e un medico incompetente ti ammazza: è una questione, sul serio, di vita o di morte. Ma per molti politici questo problema non c'è, e di fronte all'ennesima esposizione di un costume non solo incivile ma sostanzialmente criminale si sceglie di applaudire l'invettiva contro chi questa situazione devastata e devastante ci presenta. L'esempio mi sembra vicino a quello dei "fisici" perché di nuovo i medici sono, sanno e possono essere "grandi scienziati", che migliorano il percorso dell'umanità e salvano le nostre vite. Ma in parte d'Italia il medico di grande valore non ha spazio e non può avere voce: il capo, scelto dai politici, è il sodale, e lui sceglierà i suoi sottoposti con gli stessi criteri. «Ma non lo teniamo un pediatra nostro?», e muoia il bambino, gettato via con tutta l'acqua calda. Se la "democrazia minima" descritta da Diamanti è certamente un problema per il paese, cos'è questa se non una "democrazia infinitesimale", in cui pochissimi detengono il potere di scelte che esercitano in modo devastante? Una democrazia tanto piccola da poter essere vista solo come il risultato di un processo di limite, tanto lontano da non avere, di democratico, quasi più nulla?
Conviene poi tornare al problema della tecnologia. L'approccio del nostro paese al problema energetico è il figlio malato della stessa impostazione, ed è devastato dal fatto che non si riesce a riconoscere settori di persone con competenze specifiche che siano ascoltate e riconosciute. Se si guardano i nomi dei 67 si trovano visioni diverse rispetto al problema dell'energia nucleare, ma si trovano certamente enormi competenze e rigore. Eppure la politica non riesce a congiurare con i 67, così come con i medici eccellenti, per dare al paese modo di crescere: sceglie invece la demagogia. Oggi il problema dell'energia si sta ponendo in tutto il mondo, e l'Europa sta cambiando alcune delle sue scelte. Anche in Italia il governo si muove: di nascosto, però (e questo, nell'avvitamento che sto cercando di descrivere, è anche necessario, o non si riuscirebbe a fare nemmeno un passetto), con piccoli atti che avranno il merito, forse, di non lasciarci proprio nei guai. Però questo modo di procedere non ci consentirà mai di essere innovatori, leader, ricercatori di avanguardia: questo non può essere fatto senza dibattito pubblico, senza sinergie oneste fra politica, industrie, ricerca, e senza una politica che serva a fare crescere e non a difendere una prassi disastrosa.
L'ultimo esempio, davvero drammatico, è quello dei rifiuti. Non devo dire molto per mostrare che siamo nella stessa categoria. Demagogia facile, in cui la gerarchia cattolica ha avuto responsabilità stranamente (ma non troppo) vicine a quelle di un ecologismo davvero d'accatto, competenze tradite, denari distribuiti con enorme abbondanza senza alcuna ricaduta vera. E qui il dramma è tanto forte che l'incapacità a risolverlo diventa insostenibile. Di nuovo, insomma, la politica non è riuscita, nel caso dei rifiuti, a finalizzare un progetto globale e a mettere in atto i mezzi che consentano di realizzare questo progetto. Di nuovo, si tratta di una questione vitale in cui è necessaria la sinergia fra conoscenze tecnologiche avanzate e coinvolgimento dei cittadini in un progetto credibile. Ovviamente, di nuovo, in Italia stiamo registrando un fallimento epocale.
Non so legare queste considerazioni a proposte concrete per cambiare: so però che le parole di Franchi sulla laicità mi hanno portato sin qui, e ho la netta impressione che questo corto circuito non sia stato casuale.
Professore di Fisica Teorica all'Università di Roma "La Sapienza"

Liberazione 22.1.08
L'ingerenza vaticana da culturale e spirituale, ora è politica
di Rina Gagliardi


Era prevedibile che il "caso Sapienza" non si sarebbe fermato lì - e infatti, the day after, il giorno dopo la manifestazione di piazza San Pietro, esso ha assunto la fisionomia di una vera e propria aggressione politico-diplomatica dello Stato Vaticano al Governo italiano

Era prevedibile che il "caso Sapienza" non si sarebbe fermato lì - e infatti, the day after , il giorno dopo la manifestazione di piazza San Pietro, esso ha assunto la fisionomia di una vera e propria aggressione politico-diplomatica dello Stato Vaticano al Governo italiano. Molto più pesante di un pur non consueto incidente diplomatico. Forse perchè non pienamente soddisfatte di com'è andato il raduno dell'"Angelo riparatore" (nutrito di folla, certo, ma non della folla straripante su cui puntava Ruini), o forse perché sentono aria di crisi dell'esecutivo (in Vaticano hanno odorato fine e orecchie attente: la sortita contro Prodi ha preceduto di poche ore l'annuncio con cui Clemente Mastella abbandonava la maggioranza), le alte gerarchie ecclesiastiche, Angelo Bagnasco, hanno prima di tutto accusato l'Italia di aver "sconsigliato" Benedetto XVI dal mantenere la sua visita alla Sapienza - e palazzo Chigi ha risposto per le rime, ancorchè cortesemente. Chiarissimo, comunque, il senso dell'accusa: per i vescovi, non solo Prodi e il suo governo si sono mostrati alquanto freddini nella condanna dei professori "intolleranti", ma hanno agito perchè il Pontefice se ne stesse a casa, o non hanno davvero garantito la sua sicurezza. Come se non bastasse, il cardinal Bagnasco ha utilizzato la circostanza del Consiglio permanente della Cei per lanciare un ben più sostanzioso castello di accuse e di minacce: indossando i panni di Montezemolo ha descritto un Paese in gravissimo declino, "sfilacciato" "a coriandoli", incapace di crescita economica; ma travestendosi soprattutto da capo politico, ha ribadito che i politici cristiani non "hanno alcun vincolo di mandato" nei confronti del popolo che li ha eletti, ma rispondono direttamente alla Chiesa cattolica e ai suoi dettami. Un concetto non nuovo, anzi del tutto premoderno e medioevale, ma questa volta formulato in termini particolarmente violenti: se una legge è "iniqua", ovvero se non va bene alla Chiesa - dice la Cei - il parlamentare cristiano non può votarla.
Un invito aperto all'eversione antidemocratica, al disconoscimento dello Stato italiano e della sua sovranità, che ricorda i tempi del non possumus . Ed è chiaro di che cosa si sta parlando: niente unioni civili e niente riconoscimento delle coppie di fatto; revisione della legge 194 in senso fortemente restrittivo; no al divorzio breve; no ai diritti civili degli omosessuali, delle lesbiche e di tutte le persone di orientamento sessuale difforme da quello ammesso dalla morale cattolica.
Un manifesto programmatico, non c'è che dire, che fa venire i brividi. Ispirato, per altro, da categorie culturali schiettamente reazionarie e apertamente oscurantiste. «La Chiesa.... è contraria all'equiparazione tra tendenze sessuali e differenze di sesso, razza ed età», dice tra l'altroi il cardinale in un passaggio alquanto sinistro: in un colpo solo, si riscoprono l'inferiorità mentale delle donne e dei "negri"?
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Ora, si può sperare che almeno qualcuno, tra i "pii laici" che hanno difeso il diritto "assoluto" del Papa ad inaugurare l'anno accademico romano, e che soprattutto hanno strapazzato i 67 docenti della Sapienza, rifletta autocriticamente su se stesso e le proprie scelte? Si può sperare che almeno uno o due, tra i tanti autorevoli opinionisti nazionali che hanno parlato di "laicità malata", che hanno accettato la vulgata di comodo (i docenti di Fisica rappresentati come un manipolo di faziosi, intolleranti, violenti, che negano al capo della religione più diffusa nel mondo perfino il diritto di parola o di ingresso nell'università di Roma), capisca adesso di che cosa effettivamente si è trattato? Non solo e non tanto di una partita simbolica, e di principio, ma di una sfida politica - e di civiltà. In Italia, sta nascendo un vero e proprio partito neoguelfo e neotemporalista, che sfrutta la crisi politica - ora acuita dalla crisi di governo - e istituzionale, per svolgere un ruolo esplicito, e anzi rivendicato, di ulteriore destabilizzazione, di saldatura di nuovi fronti e nuove frontiere reazionarie, di disordine. Da questo punto di vista, l'atto di dissenso "dei 67" è stata una scelta non solo coraggiosa, ma singolarmente avvertita e premonitrice: anche se il parallelo di Pannella con i dodici docenti che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo è forse esagerato, è ben vero che una tale rottura dell'unanimismo, del conformismo, dell'acquiescenza al potere si è rivelata, a pochi giorni di distanza, l'unica seria strada da percorrere. C'è qualcuno, dopo le parole di Bagnasco, pronto a giurare sulla Chiesa cattolica come campione della tolleranza e del dialogo?
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Naturalmente, tutta questa storia viene da lontano, ha radici lunghe, e meriterebbe una riflessione il meno possibile contingente. Perché i principali quotidiani hanno condannato i professori "disubbidienti"? Perché i politici hanno gridato, quasi in coro, che il Papa è stato offeso, aggredito e umiliato? Perché un intellettuale serio come Claudio Magris discetta così propriamente sulla laicità (come ha fatto domenica sul Corriere della sera ) per concluderne che chi mette in discussione il diritto del Pontefice a inaugurare l'anno accademico si comporta come chi "ammacca, per rivalsa, l'automobile del vicino"? Per le stesse ragioni che fanno sì che leggi come i Pacs, o i Dico o i Cus muoiano progressivamente in parlamento, e la più equilibrata delle proposte sul testamento biologico faccia la stessa fine. L'ingerenza vaticana - mi sembra incredibile che questo fatto banale sfugga a Magris - non è solo culturale, spirituale, mediatica: è politica. E' un potere di veto che si esercita sui partiti, e sul Parlamento repubblicano. E' la pretesa non di partecipare alla discussione, ma di dettarne i confini invalicabili. Quando si obietta su Darwin e il darwinismo, non si fa certo soltanto una discussione accademica: si pretende (prima o poi accadrà anche qui da noi) che i programmi scolastici mettano sullo stesso piano la teoria dell'evoluzione e il creazionismo. Quando si dibatte sui limiti della scienza, la sua "non univocità" e i suoi pericoli (che un grande epistemologo come Marcello Cini ha ben esplorato, ben prima di Joseph Ratzinger), se ne conclude che l'unica soluzione è quella di sottomettere la scienza medesima alle direttive della Chiesa, cioè delle gerarchie ecclesiastiche. E quando (quasi ogni giorno) si esalta la "famiglia naturale", si ribadisce la natura peccaminosa dell'omosessualità, del lesbismo e di tutti gli orientamenti sessuali diversi da quelli maggioritari, o si mette sotto accusa l'aborto. non si fa soltanto una predica: si bloccano leggi, si negano diritti e libertà, si criminalizzano vissuti. Tutto questo accade perché la Chiesa cattolica, questo papato, hanno scelto, per contrastare la secolarizzazione galoppante dell'occidente, la strada della forza politica neotemporale - la faccia laicista, simoniaca, "razionalistica" del cattolicesimo, quella che qualche secolo fa produsse la Riforma e spaccò il mondo cristiano, quella che ora punta a riempire di forza (e di prepotenza) il vuoto dei valori, quella che sfrutta la crisi dell'idea di progresso per voltare all'indietro l'orologio della storia. Quella che ha forse alla sua testa un ateo devoto.
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Tutto questo, dicevamo, non accade per caso. Mi capita di frequente di domandarmi, nei miei difficili risvegli mattutini, in che anno siamo? In che mondo siamo? E mi rispondo. Siamo nell'epoca più confusa, paradossale e disordinata in cui sia capitato di vivere. Il tempo in cui il cattolicissimo Governatore della Sicilia festeggia a suon di cannoli freschi e dolcetti alla mandorla la sua condanna a cinque anni per sostegno ai boss mafiosi - e spiega che non se ne va, perché non risponde né alle leggi né alla magistratura, ma al popolo che lo ha eletto. Il tempo in cui si continua a morire sul lavoro, ed anzi si è accusati di meritarlo, "per distrazione". Il tempo in cui monsignor Fisichella, in televisione, bolla i fisici della Sapienza come professori "mediocri" e spara addosso a Marco Pannella ("noi non abbiamo bisogno di digiunare per andare in Tv). Il tempo in cui molti arrivano perfino a sostenere che i cattolici, in questo Paese, sono perseguitati.
In realtà, più che di una crisi della laicità, quella che stiamo vivendo è una crisi della democrazia, dei fondamenti democratici che hanno retto per tanti decenni questa Repubblica: finite le grandi narrazioni della politica, il Pci e la Dc che, ciascuno a loro modo, hanno espresso visioni forti del mondo, aggregato e dato dignità a grandi masse, educato alla laicità democratica, è la politica che sta vivendo la sua fase più oscura. Non si comprendebbero altrimenti la potenza accumulata dal cardinal Ruini, e il cedimento di tanta parte dello schieramento democratico. Nel vuoto che avanza, nella crisi che per altro coinvolge tutto e tutti, anche le classi dirigenti, trono e altare tornano ad allearsi - nell'ansia di sopravvivere. La nuova Sacra Trinità è pronta ed operante: Potere, Danaro, Tv. Con una spruzzata di acqua benedetta…

Liberazione 22.1.08
Mastella e il papa aprono la crisi
di Piero Sansonetti


In mattinata requisitoria di Bagnasco (Cei) contro il governo. Nel pomeriggio Il leader Udeur annuncia la fine della maggioranza
Il Premier orientato a chiedere la fiducia oggi a Montecitorio. Giordano: «E' la crisi dei poteri forti contro laicità e redistribuzione»

Veramente è una brutta crisi. Piuttosto oscura. Veramente è difficile spiegarla pacatamente, cercando le cause reali alla luce del sole. Le cause della crisi non sono alla luce del sole: sono nascoste, un po' sordide. Il modo nel quale la crisi è maturata è orrendo. E apre in forma ormai palese e clamorosa la questione morale, o piuttosto potremmo dire la questione immorale. Una parte consistente del mondo politico - a destra e nel centro sinistra - è immorale ed è immorale l'intervento dei poteri forti, a partire dal Vaticano, nella politica italiana. Chi ha chiesto, ieri, la caduta del governo Prodi? E' incredibile ma è così: l'ha chiesta il cardinal Angelo Bagnasco, cioè il capo dei vescovi, l'ha chiesta in mattinata con un discorso da leader politico della destra, e chiamando a raccolta anche le forze ex Dc. Lo ha fatto dopo la prova di forza del giorno prima, domenica, a San Pietro (non molto riuscita perchè non c'è stata l'adunata oceanica che il Vaticano si aspettava) che tra l'altro aveva riunito sotto le finestre del papa, ad ascoltare il comizio, il gruppo dirigente della Casa della Libertà e una parte del gruppo dirigente del Pd. Bagnasco ha chiesto la crisi, sapendo di interpretare anche il parere e il volere dei principali potentati economici, a partire da Confindustria; e Clemente Mastella - l'uomo che sussurrava ai primari - l'ha proclamata, dopo essere stato lui stesso in pellegrinaggio a San Pietro ed essersi preso la solidarietà delle suore per le bricconate sue e di una parte della sua famiglia (le suore non sanno che Gesù non disse mai ai suoi apostoli di nominare i primari e i ginecologi...).
Ufficialmente Mastella ha proclamato la crisi con un argomento quasi surreale: perchè la maggioranza di governo non ha accettato l'umiliazione di votare compatta una mozione che approvasse i suoi comportamenti clientelari e inaccettabili di lottizzazione e devastazione di tutte le strutture civili della sua regione, a partire dagli ospedali, che in teoria sono stati costruiti per curare i malati e non per raccattare voti (e questo anche le suore dovrebbero saperlo...).
L'arrogante ed esplosiva decisione di Mastella peraltro viene proprio nei giorni nei quali nell'altro schieramento politico, cioè nel centrodestra, con altrettanta (o superiore) arroganza si brindava per la lieve condanna (solo 5 anni più interdizione perpetua dai pubblici uffici) subita dal presidente della regione Sicilia, Totò Cuffaro, riconosciuto colpevole di avere aiutato alcuni boss mafiosi.
Voi capite che in questa situazione davvero si configura una "emergenza morale", nel senso che dal mondo politico viene lanciato al paese un messaggio eversivo, un invito a vivere nell'illegalità e nella mascalzonaggine. Peraltro con la benedizione della Chiesa cattolica, la quale si dichiara sì contro il governo, ma non per le scorrerie dell'ex ministro della giustizia, ma perché non è riuscito a impedire ad un gruppetto di intellettuali - tra i quali un paio di candidati al premio Nobel - di parlare male del papa, e perchè vara leggi finanziarie che non distribuiscono abbastanza denaro alla Chiesa, e perchè è sostenuto da una maggioranza della quale fanno parte forze laiche, favorevoli all'aborto e alle unioni civili.
E tuttavia, se davvero vogliamo analizzare la cause della crisi, probabilmente non possiamo fermarci agli ordini impartiti dai Vescovi, né alla vendetta di Mastella. E' molto probabile che una parte consistente della borghesia italiana "vincente", non solo berlusconiana, abbia deciso che il centro-sinistra non serve più anzi è pericoloso. Perché? Non è da escludere che questa parte della borghesia temesse che davvero stesse per scattare il "secondo tempo" del governo Prodi. E cioè che dopo aver distribuito soldi e favori agli imprenditori, il governo passasse a realizzare almeno in parte il programma sociale. Cioè, seppure con qualche timidezza, si mettesse mano alla "redistribuzione delle ricchezze". La crisi è arrivata al momento giusto. Anche se non è ben chiaro quale possa essere la scelta politica di questo pezzo della borghesia, che da almeno 15 anni, da quando ha perduto la Dc, non sa bene cosa fare in politica.
Vedete che il tema che torna è quello lì: quello della Dc, la nostalgia della Dc. La Chiesa ha nostalgia della Dc, la borghesia ha nostalgia della Dc, Mastella ha nostalgia della Dc. Dov'è l'ostacolo? L'ostacolo sta nel Pd, che ha l'ambizione di assumersi lui il ruolo che nella prima repubblica era della Dc. Però non ne ha la forza, non ha la cultura politica, non ha un gruppo dirigente all'altezza. Per questo, suo malgrado, è diventato il principale fattore di instabilità nella politica italiana. Certamente gli ultimi movimenti del Pd sulla riforma elettorale, e la minaccia del referendum, sono tra i fattori che hanno spinto Mastella a cercare la crisi.
Ora è difficilissimo provare a immaginare quello che succederà. Siamo sul filo di un rasoio. Durissima per Prodi cercare un reincarico. Tutt'altro che semplice l'ipotesi di un governo istituzionale o di larghe intese. Molto problematica anche l'idea di elezioni anticipate con la vecchia legge. E sullo sfondo lo spettro di un referendum che rischia di portare il paese a una crisi drammaticissima di democrazia.

Liberazione 22.1.08
Giordano: «E' la crisi dei poteri forti contro laicità e redistribuzione». Berlusconi chiede il voto
di Davide Varì


Maggioranza in fermento dopo l'annuncio di Mastella. Rifondazione accusa e chiede chiarezza, Dini ci spera e punta Palazzo Chigi

Tante, varie e articolate le reazioni politiche alla decisione di Clemente Mastella di lasciare maggioranza e governo. Da Rifondazione, che parla di dimissioni a comando (comando Cei e confindustria); fino a Dini che a "cadavere" ancora caldo, profila l'ipotesi - ipotesi di certo poco disinteressata - di un nuovo governo tecnico che tuteli «il bene supremo della Nazione». Sulla vicenda è intervenuto addirittura Fiorello, ieri sera all'esordio su Raiuno: «Che dire? - ha confessato indiretta - Quando qualcosa cade dispiace sempre».
Il premio miglior battuta del giorno spetta però a Gianfranco Rotondi: «Caro Mastella, benvenuto all'opposizione». Tre parole tre che quantomeno hanno il pregio di sintetizzare la drammatica giornata di ieri. Ben più seria la reazione e la valutazione di Franco Giordano. Il segretario di Rifondazione ha infatti pochi dubbi sui "suggeritori" dell'ex guardasigilli: «È incredibile come l'intervento attivo delle gerarchie ecclesiastiche sulla politica trovi immediata rispondenza e la totale permeabilità delle forze centriste. Ora si capisce bene - prosegue - cosa significhi il rischio di una crisi di laicità dello Stato. E comunque è ormai evidente - sottolinea ancora - che dal centro moderato dell'Unione emerge l'intenzione di sottrarsi ad una possibile svolta sul terreno della redistribuzione sociale. È evidente - conclude Giordano - che oggi le forze di centro si fanno megafono di poteri forti». Ma il segretario di rifondazione non molla la presa e chiede chiarezza: «Senza il sostegno dell'Udeur il governo Prodi può andare avanti? Questo lo si può solo verificare con un voto e un libero dibattito parlamentare. Bisogna costringere l'Udeur al voto, ad assumersi le responsabilità».
Sulla giornata di ieri è intervenuto anche il ministro Paolo Ferrero: «L'ipotesi di una politica redistributiva era davvero a a portata di mano. Non possiamo non registrare la profonda insoddisfazione dei poteri forti - non ultima la chiusura del contratto dei metalmeccanici - e la tempestività di questa crisi di governo. Del resto - dice a Liberazione Ferrero - il quadro era del tutto favorevole ad una nuova stagione di redistribuzione: c'erano le risorse, la sponda del sindacato ed il timore di una recessione». E su Prodi Ferrero non ha dubbi: «Vada in Parlamento».
Insomma, secondo Rifondazione quelle di Mastella sono dimissioni che arrivano proprio nel momento in cui il governo Prodi aveva deciso di concedere qualcosa anche al mondo del lavoro attirando le ire preventive di Montezemolo. Non solo confindustria però. Il Prc rileva la strana vicinanza temporale tra l'uscita del Cardinal Bagnasco - no alle unioni di fatto, rivedere la 194, e il primato della coscienza per i politici cattolici - e l'annuncio del leader dell'Udeur.
In effetti la lettura di Giordano mette d'accordo e convince quasi tutta la sinistra. Titti di Salvo di Sinistra democratica parla infatti di «clamorosa responsabilità». E si pone qualche domanda: «Come mai Mastella ha deciso di far cadere il governo eletto dai cittadini nel momento in cui il governo si apprestava a compiere scelte di redistribuzione sociale?». Ed ancora: «Lo fa cadere per una sua vicenda personale, dopo aver annunciato appoggio esterno. Perchè ha cambiato idea? E chi gliel'ha fatta cambiare?».
Ma dietro le dimissioni di Mastella qualcosa già si muove. L'ipotesi, e la speranza, di un nuovo governo istituzionale la butta lì, per primo, Lamberto Dini: «Questa legislatura - ha annunciato a caldo - non vada perduta». Ma Dini ha il pregio della chiarezza e della schiettezza: «Occorre lavorare - ha infatti aggiunto - per la costruzione di un governo di sospensione della competizione bipolare, che affronti alcune emergenze del Paese; che renda possibile la tenuta del referendum elettorale, ovvero una riforma dell'attuale legge in una direzione che faciliti la formazione di governi stabili, efficaci, scelti dagli elettori». Il tutto, ovviamente «per il supremo interesse della Nazione».
Insomma, l'ipotesi di Dini è chiara: un governo istituzionale, magari guidato da lui, che duri il tempo di una riforma, poi si vedrà.
Pronta e netta, al riguardo, la replica della sinistra: «Io credo che andremo alle elezione anticipate - ha fatto sapere il capogruppo al senato di rifondazione Giovanni Russo Spena - Penso che non vi siano pasticci possibili. Non siamo disposti ad accettare il governo tecnico».
Univoca la voce che sale da destra. Tutti vogliono lo scalpo di Prodi. Da Berlusconi che chiede «elezioni», a Casini che non parla di elezioni, forse preferisce aspettare, ma invita Prodi ad andare dal capo dello Stato: «La crisi è inevitabile per un governo che in questi due anni ha paralizzato il paese a causa dei suoi contrasti interni». Scettico il leghista Castelli: «Finchè non vedo non ci credo. Dini, Mastella e compagnia cantante ci hanno abituato a troppi proclami. Li aspettiamo al voto in Senato». Spetta invece a Tabacci esplicitare il non detto di Pierferdinando Casini: «Niente elezioni, il capo dello Stato incarichi una personalità per arrivare alla riforma elettorale».
Nel frattempo da Palazzo Chigi arriva uno scarno comunicato che annuncia la discussione di oggi alla camera. Le voci di corridoio parlano di un premier orientato a chiedere la fiducia alle Camere. In questo modo il Professore si rimetterebbe al Parlamento e aprirebbe la crisi. Ma prima di andare in aula, salirà al Quirinale per riferire il suo orientamento al Capo dello Stato.

Liberazione 22.1.08
Embrioni ibridi via libera alla ricerca
di Luca Tancredi Barone


La settimana si è chiusa con tre notizie provenienti dal fronte della ricerca sulle cellule staminali, a conferma che gli sforzi degli scienziati in questo campo non conoscono battute di arresto.
La prima proviene dal Regno Unito. La Hfea (Human Fertilisation and Embryology Authority), l'autorità preposta al controllo e all'autorizzazione di ogni tipo di ricerca che ha a che fare con embrioni e procreazione assistita, ha finalmente dato il via libera alle contestate ricerche (un gruppo al King's College di Londra e l'altro all'università di Newcastle) per la creazione dei cosiddetti "embrioni ibridi". In sostanza si tratta di utilizzare un ovocita di mucca privato del materiale genetico (il nucleo) in cui inserire il materiale genetico e il citoplasma di una cellula umana. Il risultato sarebbe una cellula, secondo gli autori, umana al 99%. E' una rivisitazione di una tecnica nota come "trasferimento nucleare", con la differenza che il materiale genetico umano verrebbe trasferito in un ovocita di animale e non in cellule uovo umane, che peraltro presentano il non indifferente problema di essere difficilmente reperibili, e comunque al costo di non trascurabile di fastidi inflitti alle eventuali volontarie. In ogni caso il trasferimento nucleare con cellule umane è un campo minato e i risultati sono ancora poco solidi. Ecco perché gli scienziati britannici cercano di saperne di più, e per farlo utilizzano come "contenitore" per il materiale genetico umano cellule animali, molto più facilmente disponibili e che dovrebbero funzionare in maniera biologicamente analoga.
Una risposta sul permesso era attesa già da novembre, come aveva spiegato il 18 ottobre scorso su Liberazione Emily Jackson, a capo della commissione preposta della Hfea. Per un anno l'ente aveva messo in piedi una consultazione pubblica per sondare i sentimenti dei cittadini britannici su decisioni tanto eticamente sensibili, ed era giunta alla conclusione che il tipo di richieste fatte dai due gruppi di ricercatori erano "ammissibili". Si trattava a quel punto di capire se le due ricerche proposte rispettavano i rigidi criteri dell'Authority. La ricerca deve aumentare la conoscenza scientifica in maniera significativa, non deve essere effettuabile su cellule staminali adulte o con modelli animali, gli embrioni non possono in nessun caso superare il quattordicesimo giorno di sviluppo e i donatori devono dare il loro esplicito consenso all'impiego per cui si chiede l'autorizzazione. Per verificare tutte queste condizioni a un anno di distanza dalla richiesta originale di autorizzazione la decisione è slittata a gennaio.
La seconda notizia arriva dal Giappone, quest'anno a capo del G8, che ha deciso di capitalizzare i risultati ottenuti da Shinya Yamanaka all'università di Kyoto. Lo scorso novembre Yamanaka aveva pubblicato una ricerca che Nature ha premiato come la ricerca più importante del 2007, in cui descriveva come era riuscito a riprogrammare alcune cellule adulte facendo in modo che riproducessero il comportamento pluripotente di una staminale: queste cellule (da lui battezzate induced pluripotent stem cells, ips cells ) sono in sostanza in grado di formare qualsiasi tipo di cellula del nostro organismo, esattamente come farebbe una cellula staminale doc. Ebbene, il Giappone ha deciso di decuplicare l'investimento nella ricerca sulle cellule ips per il 2008 (portandolo a 2,2 miliardi di yen - 14 milioni di euro). Non solo: nel 2009 aprirà all'università di Kyoto un grande centro dedicato alle ips , finanziato dal ministero della scienza, la cui direzione verrà affidata allo stesso Yamanaka. Un investimento che la stessa Nature definisce "raro per il governo giapponese", che tende a seguire più che ad anticipare la scienza Usa.
L'ultima notizia giunge proprio dagli Stati Uniti, dove la società privata Stemagen a La Jolla, in California, ha annunciato di essere riuscita a produrre "blastocisti (il primo stadio dello sviluppo di un embrione, ndr) clonati umani". Cioè, sostiene la Stemagen Corp, il primo stadio per la produzione di nuove linee cellulari staminali che possano sopravvivere da sole e risultare, dunque, identiche a quelle del donatore e utili per una eventuale terapia. In questo caso il donatore è un medico del centro per l'infertilità, Samuel Wood, che ha utilizzato cellule della propria pelle come fonti del materiale genetico poi inserito - con la tecnica del trasferimento nucleare - all'interno di cellule uovo ottenute dalle donne in cura presso il centro. Come scritto dai ricercatori sulla rivista Stem Cells , l'alta efficienza ottenuta per i loro 5 blastocisti, secondo loro, è dovuta alla qualità dei loro 20-30 ovociti. La tecnica in sé non è particolarmente innovativa, anche se più efficiente - e i ricercatori, scottati dal caso Hwang, hanno inviato a 5 laboratori diversi le blastocisti «per essere sicuri del Dna contenuto» e garantire l'autenticità del lavoro, come hanno scritto. Ma il vero "santo graal" per i ricercatori sarebbe riuscire a estrarre linee cellulari staminali dai blastocisti. Un risultato ancora molto al di là da venire.

Liberazione 22.1.08
Appello di solidarietà con il colleghi (e gli studenti) della Sapienza di Roma
Anche noi "cattivi maestri"


A proposito dei fatti relativi alla rinuncia di papa Benedetto XVI alla visita e al discorso all'Università Sapienza di Roma, in occasione della solenne inaugurazione dell'anno accademico, i sottoscritti, docenti, ricercatori e studiosi in formazione negli atenei italiani e nelle altre istituzioni scientifiche, esprimono la più ferma e convinta solidarietà ai colleghi sottoposti nelle ultime giornate a un linciaggio morale, intellettuale e persino politico, senza precedenti. Noi firmatari di questo Appello di solidarietà affermiamo che ci saremmo comportati come i 67 docenti della Sapienza, in nome della libertà della ricerca e della scienza. Se essi sono "cattivi maestri", come più d'uno li ha bollati, ebbene, lo siamo anche noi. L'invito al papa in occasione dell'apertura dell'anno accademico costituisce offesa al sapere scientifico, ovvero un esecrabile cedimento nei confronti di un preteso principio d'autorità.
I colleghi della Sapienza, lungi dall'"impedire al papa di parlare" hanno semplicemente contestato l'opportunità di far inaugurare l'anno accademico - ossia il momento più solenne nella vita di un ateneo - da un capo religioso, e nel contempo capo di Stato straniero, confessionale. Tanto più che trattasi di un papa che ha espresso in reiterate occasioni l'idea che la ragione non possa che essere subordinata alla fede, la scienza alla religione, e ha assunto gravi prese di posizione che, mentre smantellano la Chiesa del Concilio Vaticano II, costituiscono continue, pesanti ingerenze nella sfera delle istituzioni politiche nazionali, dalle quali non sono giunte, generalmente, le opportune risposte.
In ogni caso, la protesta dei colleghi non contro Benedetto XVI era diretta, ma innanzi tutto contro l'autorità accademica che ha commesso la leggerezza di invitare un'autorità religiosa a una cerimonia che deve essere rigorosamente laica; tanto più sbagliato, il gesto del rettore della Sapienza, in quanto ormai l'Italia è un Paese multietnico e multireligioso e ciò nonostante un regime concordatario, obsoleto anche nelle sue revisioni, che continua a privare le scuole pubbliche non universitarie della possibilità di un approccio comparativo al mondo delle religioni assegnando invece la priorità esclusiva all'insegnamento della religione cattolica. E il papa di Roma rappresenta soltanto una parte dell'opinione pubblica, anche di quella aderente a una fede religiosa.
Si aggiunga l'atteggiamento di vera e propria subalternità mostrata dalle autorità accademiche, di concerto con quelle ecclesiastiche, e dal coro mediatico che ne ha accompagnato le scelte: inaccettabile, ovviamente, era la pretesa che a Ratzinger fosse riservata una zona franca, in cui le espressioni di dissenso dovessero essere impedite, quasi forme di delitto di lesa maestà.
Noi sottoscritti, davanti alla campagna mediatica in atto, esprimiamo la più vibrata protesta e la più ferma preoccupazione per le parole che abbiamo letto e ascoltato in questi giorni, in un penoso unanimismo di testate giornalistiche e di forze politiche. Ci impegniamo, accanto ai colleghi della Sapienza e di tutti gli studiosi e gli studenti che con rigore e passione lavorano, e studiano, nelle istituzioni universitarie e scientifiche italiane, a lottare, con la fermezza e la costanza necessaria - ben oltre questo episodio - perché venga salvaguardato, in un Paese che sembra voler pericolosamente regredire all'epoca del "papa re", la libertà della ricerca scientifica, in ogni ambito, da ipoteche fideistiche e da nuovi e vecchi princìpi d'autorità.

Primi firmatari
Angelo d'Orsi (prof. Storia del pensiero politico, Università di Torino)
Lucia Delogu (prof. Diritto privato, Università Torino)
Prime adesioni:
Benedetto Abate (Ordinario di Geologia, Università di Palermo)
Angelo Abbondandolo (già Professore di Genetica, Università di Genova)
Luisa Accati (prof. Storia moderna, Università di Trieste)
Andrea Addobbati (Dipartimento di storia, Università di Pisa)
Daniela Adorni (Ricercatrice, Storia contemporanea, Università di Torino)
Aldo Agosti (prof. Storia contemporanea, Università di Torino)
Manuela Albertone (Prof. Storia Moderna, Università di Torino)
Alessandra Algostino (prof. Diritto costituzionale comparato, Università di Torino)
Luciano Allegra (prof. Storia Moderna, Università di Torino)
Corrado Agnes (Dipartimento di Fisica, Politecnico di Torino)
Christophe Allouis (Istituto di Ricerche sulla Combustione, CNR)
Pietro Amodeo (I Ricercatore, Chimica Computazionale, Istituto di Chimica Biomolecolare, CNR, Napoli)
Giovanna Angelini (prof. Storia delle dottrine politiche, Università di Pavia)
Luigi Aprile (prof. Psicologia dello sviluppo e Psicologia dell'educazione, Università di Firenze)
Giuseppe Aragno (prof. a contratto di Storia Contemporanea,Università "Federico II", Napoli)
Letizia Arcangeli (prof. Storia degli antichi Stati italiani, Università di Milano)
Fabrizio Arciprete (Ricercatore Dip. di Fisica - Università di Roma "Tor Vergata")
Palolo Ariano (Dottore di ricerca in Neuroscienze, Università di Torino)
Alessandro Arienzo (Storia delle dottrine politiche, Univ. Federico II, Napoli)
David Armando (Istituto per la Storia del pensiero filosofico e scientifico moderno - CNR)
Gianmichele Arrighetti (Biologo, Istituto Cristallografia, CNR)
Pier Francesco Asso (Ordinario di Storia del pensiero economico, Università di Palermo)
Donato Attanasio (Ricercatore, Istituto di Struttura della Materia, CNR)
Barbara Bacchelli (Ricercatore Matematica, Università di Milano Bicocca)
Franco Bacchelli (ricercatore Storia della Filosofia, Università di Bologna)
Valeria Bacchelli (prof. Analisi matematica, Politecnico di Milano)
Emma Baeri (già docente di Storia moderna, Università di Catania)
Marcello Balbo (prof. Urbanistica - Università IUAV di Venezia)
Elio Ballardini (ricercatore di Lingua e Traduzione francese, Università di Bologna).
Edoardo Ballo (prof. di Logica, Università di Milano)
Franca Balsamo (prof. Sociologia dei processi culturali, Università di Torino)
Antonio Banfi (Dipartimento di Diritto Privato e Storia del Diritto, Università di Milano)
Giorgio Baratta (già prof. di Storia della filosofia, Univ. di Urbino)
Donatella Barazzetti (Prof. associato, Centro di Women's Studies "Milly Villa", Facoltà di Scienze Politiche, università della Calabria)
Luisa Barba (Istituto di Cristallografia, CNR)
Roberto Bartolino (prof. Fisica, Università della Calabria)
Barbara Batetta (Ricercatrice, Patologia generale, Università di Cagliari)
Marco Battaglia (prof. Filologia germanica, Univ. di Pisa)
Paolo Bazzicalupo (Dirigente di ricerca, Istituto di Genetica e Biofisica, CNR Napoli)
Luciana Bellatalla (docente Storia della scuola, Università di Ferrara)
Silvano Belligni (prof. Scienza politica, Università di Torino)
Riccardo Bellofiore (prof. Economia monetaria, Università di Bergamo)
Tamara Bellone (prof. Topografia e cartografia, Politecnico di Torino)
Tito Bellunato (INFN-CNR, sezione di Milano Bicocca)
Paolo Benesperi (Politiche e programmazione della formazione, Università di Firenze)
Paolo Berdini (Ingegnere, Urbanista)
Aldo Bernardini (Ordinario di Diritto internazionale, Decano Università Teramo, già Rettore Università Chieti)
Silvia Bernardini (prof. Lingua e traduzione inglese, SSLMIT, Università di Bologna)
Mariella Berra (Prof. di Sociologia delle Reti Telematiche, Facoltà di Scienze Politiche Università di Torino)
Giuseppe Bertola (prof. Economia politica, Univ. di Torino)
Federico Bertoni (prof. Teoria della letteratura, Università di Bologna)
Carmen Betti (prof. Storia della pedagogia, Università di Firenze
Renato Betti (prof. Geometria, Politecnico di Milano)
Marco Berisso (Filologia Italiana, Università di Genova)
Piero Bevilacqua (prof. Storia Contemporanea, Univ. La Sapienza, Roma)
Alessandro Bianchi (ricercatore - Dipartimento di Informatica - Università di Bari)
Paolo Biscari (prof. Fisica Matematica, Politecnico di Milano)
Lorenzo Blini (prof. Lingua e Traduzione - Spagnolo, Libera Università degli Studi "S. Pio V", Roma)
Giuseppe Boatti (prof. Urbanistica, Politecnico di Milano)
Luigi Bobbio (prof. Scienza politica, Università di Torino)
Brigida Bochicchio (Ricercatrice di Chimica Organica dell' Università della Basilicata)
Luciano Boi (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Centre de Mathématiques, Paris)
Chiara Boldrini (Dottoranda in Ingegneria dell'Informazione, IIT-CNR)
Rosa Maria Bollettieri Bosinelli (Dipartimento Studi Interdisciplinari su Traduzione Lingue e Culture, Università di Bologna)
Stefania Bonatti (già Ricercatore CNR e Prof. a contratto Università di Genova)
Livio Boni (Chargé de recherche, Université de Paris VII Denis Diderot, Psychanalyse/Sciences Humaines)
Pier Carlo Bontempelli (prof. Letteratura Tedesca - Università "G. d'Annunzio" Chieti-Pescara).
Derek Boothman (prof. Lingua e traduzione inglese, SSLMIT, Università di Bologna)
Anna Borghi (prof. di Psicologia, Università di Bologna)
Gianfranco Borrelli (prof. Storia delle dottrine politiche, Università Federico II, Napoli)
Elia Bosco (Ricercatore Sociologia, Università Torino)
Donatella Bossi (già prof. di Patologia generale,Università di Roma, La Sapienza)
Alessandro Bottino (Dip. Fisica Teorica, Università di Torino)
Marina Bouché (Professore associato in Istologia, Dip. di Istologia ed Embr Medica, Univ. "La Sapienza", Roma)
Michelangelo Bovero (prof. Filosofia politica, Università di Torino)
Sergio Brasini (Ordinario di Statistica economica, Università di Bologna)
Anna Bravo (già prof. di Storia contemporanea, Università di Torino)
Gian Mario Bravo (prof. Storia del pensiero politico, Università di Torino)
Andrea Brazzoduro (dottorando, Storia contemporanea, Roma "La Sapienza" - Paris X)
Sergio Brenna (prof. Urbanistica, Politecnico di Milano)
Paola Bresso (ricerc., docente Storia regionale, Università di Torino)
Maria Antonia Brovelli (prof. Cartografia Numerica e Sistemi Informativi Terrioriali, Politecnico di Milano)
Linda Brodo (Informatica, Università di Sassari)
Aurelio Bruzzo (Prof. di Politica economica, Università di Ferrara)
Ugo Bruzzo (prof. Geometria, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Trieste)
Ovidio M. Bucci (prof. Campi Elettromagnetici, Università di Napoli Federico II)
Alberto Burgio (prof. Storia della filosofia moderna, Università di Bologna)
Giuseppe Cacciatore (prof. Storia della Filosofia, Università di Napoli Federico II)
Vincenzo Caglioti (Prof. Ingegneria Informatica, Politecnico di Milano)
Eugenio Calimani (prof. Fisica, Università di Padova)
Antonio Calvani (prof. Didattica, Università di Firenze)
Roberto Camagni (prof. Economia applicata, Politecnico di Milano)
Claudio Cancelli (prof. Fluidodinamica Ambientale, Politecnico di Torino
Patrizia Cancian (prof. Paleografia latina, Università di Torino)
Pietro Giuliano Cannata (Prof. di Geologia Pianificazione territoriale, Università di Siena)
Eva Cantarella (prof. Diritto greco, Università di Milano)
Pilar Capanaga (prof. Lingua e Linguistica spagnola - SSLMIT, Università di Bologna)
Aldo Capasso (prof. Tecnologia dell'Architettura, Università di Napoli Federico II)
Monica Capone (Politecnico di Torino)
Rita Caprini (prof. Glottologia,Università di Genova)
Oliviero Carboni (Facoltà di Economia, Univ. di Sassari)
Sandro Cardinali (prof. Storia della filosofia moderna, Univ. di Ferrara)
Mario Caricchio (docente Storia Moderna, Università di Firenze)
Diana Carminati (già prof. di Storia contemporanea, Università di Torino)
Gennaro Carotenuto (ricercatore Storia contemporanea, Univ. di Macerata)
Maria Carreras i Goicoechea (ricercatrice, docente di Traduzione dall'italiano in spagnolo, SSLMIT di Forlì- Università di Bologna)
Bruno Cartosio (prof. Storia dell'America del Nord, Univ. di Bergamo)
Sergio Caruso (prof. Filosofia delle scienze sociali, Università di Firenze)
Margherita Maria Caruso Galanti (Docente di Primo Soccorso e Educazione Sanitaria, Prato)
Paolo Casalegno (prof. Filosofia del Linguaggio, Università degli Studi di Milano)
Alessandro Casellato (ricerc. di Storia contemporanea, Univ. Ca' Foscari, Venezia)
Stefano Caserini (Ingegnere ambientale, Politecnico di Milano)
Elena Casetta (dottoranda in filosofia, Scuola Europea di studi avanzati,
Napoli)
Silvia Casilio (Dottore di ricerca in Storia contemporanea, Università di Macerata)
Alberto Cassetta (Istituto di Cristallografia, CNR, Trieste)
Cristina Cassina (ricercatrice Storia Contemporanea, Università di Pisa)
Leonardo Castellani (Fisica Teorica, Università del Piemonte Orientale)
Alberto Castelli (Ricercatore, Università di Cagliari)
Emilio Paolo Castelluccio (Istituto di Chimica Biomolecolare, CNR, Napoli)
Tullia Catalan (ricercatrice Storia contemporanea, Università di Trieste)
Gilda Catalano (Ricercatrice, Sociologia dell'ambiente e del territorio, Università della Calabria)
Carlo Catarsi (Prof. di Sociologia dei processi culturali, Università di Firenze)
Pietro Causarano (Ricercatore, Storia dell'educazione, Università di Firenze)
Marta Cavazza (Professore di Storia del pensiero scientifico, Università di Bologna)
Andrea Cavazzini (Dottore in Histoire et civilisations, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris; Scienze della cultura-sezione Filosofia, Scuola Alti Studi Fondazione San Carlo, Modena)
Giovanna Caviglione (ITD-CNR, Genova)
Paolo Ceccarelli (Facoltà di Architettura, Università di Ferrara)
Giovanna Ceccatelli (Prof. Sociologia dei processi culturali, Università di Firenze)
Paolo Cecchi (prof. Storia della Musica Moderna e Contemporanea, Univesità di Bologna)
Eva Cecchinato (Università di Venezia)
Gabriele Centineo (già Prof. di Chimica, Università di Catania)
Luigi Cerlienco (prof. Algebra, Università di Cagliari)
Giovanni Cerri (prof. di Letteratura greca, Università Roma Tre)
Daniele Ceschin (Università di Venezia)
Donatella Cherubini (prof. Storia contemporanea, Univ. di Siena)
Duccio Chiapello (Dottorando in Studi Politici, Università di Torino)
Giampaolo Chiappini (Primo ricercatore, ITD-CNR, Genova)
Anna Chiarloni (prof. Lett. Mod./Comp., Università di Torino)
Francesca Chiarotto (Dottoranda in Studi Politici. Storia e teoria, Università di Torino)
Maurizio Chiurazzi (1° Ricercatore dell'Istituto di Genetica e Biofisica A. Buzzati Traverso, CNR, Napoli)
Alessandra Ciattini (Antropologia religiosa, La Sapienza di Roma)
Maria Roberta Cimberle (Dirigente di ricerca, CNR-IMEM c/o Dipartimento di Fisica dell'Università di Genova)
Salvatore Cingari (prof. Storia delle dottrine politiche,Università per Stranieri di Perugia)
Giacomo Cives (Emerito di Storia della Pedagogia - Università "Sapienza", Roma)
Andrea Clematis (Dirigente di ricerca, IMATI CNR, Genova)
Marco Clementi (Ricercatore, Storia dell'Europa Orientale
Alessandro Efrem Colombi (Professore di Didattica, Libera Università di Bolzano)


il manifesto 22.1.08
E il papa «congela» il Cnr
La nomina di Luciano Maiani bloccata dopo il caso Sapienza
Il professore è tra i 67 firmatari dell'appello contro l'invito di Ratzinger all'università Contro di lui la destra
di Stefano Milani


Alla fine l'incarico arriverà. Probabilmente in questa settimana. Ma da quando il professore Luciano Maiani ha apposto la sua firma, insieme a quella di altri 66 suoi colleghi, in calce alla famosa lettera in cui si definiva «incongrua» la scelta di invitare il papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza, la sua nomina alla direzione del Cnr ha iniziato a scricchiolare pericolosamente.
Il ministro Mussi aveva individuato il suo nome già dallo scorso dicembre, scegliendolo tra una terna di studiosi di altissimo livello. Già direttore del Cern a Ginevra e dell'Infn, Maiani ha consensi pressoché unanimi nel mondo scientifico internazionale. E' bastata però una firma di dissenso su una lettera, che doveva rimanere all'interno dei confini accademici, a cancellare d'un colpo tutto. Mercoledì scorso, durante un'infuocata seduta in commissione per l'istruzione pubblica al Senato, l'intero il centrodestra, capitanato dal centrista Buttiglione, si è scagliato contro di lui bloccandone la nomina che comunque, fanno sapere dal Cnr, «non è assolutamente a rischio».
Su questa situazione ieri il professor Angelo d'Orsi, docente di storia del pensiero politico all'Università di Torino, ha voluto inserire una piccola postilla al suo appello pubblicato domenica sul manifesto: «Quello che è capitato in commissione è un fatto di una gravità inaudita che ci riporta ai tempi peggiori della storia non solo repubblicana, ma del regime mussoliniano». Un atto di ritorsione della destra, «per la quale il prof. Maiani è incompatibile con l'incarico essendo uno dei docenti dissidenti».
Nel frattempo, oltre 8mila persone, non solo universitari, hanno già firmato un'altra lettera indirizzata al presidente della Repubblica Napolitano e al rettore della Sapienza Guarini, in cui viene espresso «stupore e amarezza per la superficialità con cui esponenti politici e istituzionali di primo piano (tra questi anche il ministro Mussi, ndr) si sono uniti al linciaggio morale cui i firmatati dell'appello sono stati e sono tuttora sottoposti».