mercoledì 23 gennaio 2008

l’Unità 23.1.08
Comandante Bulow, l’oro della libertà
di Wladimiro Settimelli


È MORTO IERI a Ravenna, all’età di 92 anni, Arrigo Boldrini, storico capo partigiano, membro della Costituente ed esponente del Pci nel dopoguerra. Nel 1945 gli venne consegnata la medaglia al valor militare

«Tè tat è da ciama Bulow» (ti devi chiamare Bulow), aveva detto in romagnolo purissimo, il barbiere Michele Pascoli, uno di quegli antifascisti e anarchici che sono sempre stati figure da leggenda in quel di Ravenna. Pascoli era un autodidatta e un appassionato di storia napoleonica e durante i quarantacinque giorni di Badoglio aveva avuto, a bottega, una lunga discussione con Arrigo Boldrini sulla battaglia di Waterloo. Arrigo, ad un certo momento, aveva tagliato corto e spiegato: «C’era von Bulow che comandava l’avanguardia dell’armata prussiana e allora addio Napoleone». Pascoli, poi fucilato dai fascisti, aveva pensato un attimo e poi aveva quasi gridato a Boldrini: «Quando sarete in montagna ti dovrai chiamare proprio Bulow. Promettilo».
Era nato così uno dei più noti e leggendari nomi di battaglia della Resistenza italiana e del partigiano più famoso del nostro Paese. Quello di Arrigo Boldrini, medaglia d’oro al valor militare, delegato alla Consulta, eletto all’Assemblea Costituente, parlamentare e senatore ininterrottamente fino al 1994, dirigente del Pci, Presidente nazionale dell’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia dal 1946 e poi presidente onorario (14° Congresso - marzo 2006), Presidente della Fondazione del Corpo Volontari della Libertà e autore di diverse centinaia di proposte di legge per i partigiani, i soldati, i carabinieri e tutti i combattenti della Libertà.
Raccontare la sua leggenda, la sua guerra e le sue battaglie politiche è difficilissimo perché con i suoi partigiani della 28ª «Gordini» ne aveva viste e fatte di tutti i colori, in guerra come nei giorni della Liberazione. Fu lui il 18 febbraio del 1945 a salire sul palco di Piazza del Popolo per celebrare, nel corso della prima grande manifestazione dell’Italia libera, la Giornata del partigiano e del soldato per rendere omaggio ai vivi e ai morti e a coloro che, a Nord, ancora combattevano. Era partito dal suo comando a Savana la mattina all’alba. Si era lavato il viso in un secchio d’acqua, poi si era vestito con la divisa, si era appuntato sul petto la medaglia d’oro ed era saltato su una jeep. La sera tardi era arrivato a Roma. In Piazza del Popolo, la mattina successiva, ecco il nereggiare della folla: cento duecentomila persone, con i partigiani ancora in armi, i rappresentanti degli alleati sparsi per tutta la piazza, insieme ai soldati americani, inglesi, australiani, neozelandesi, francesi, polacchi e italiani del nuovo esercito di Liberazione. Sul palco, oltre a Bulow, ci sono il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, il ministro della guerra Casati e Mauro Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata. È Bonomi che appunta la medaglia d’oro sulla bandiera tricolore del Corpo Volontari della Libertà. Quella bandiera aveva già una storia eroica: era stata cucita, durante l’occupazione tedesca, dalle donne di San Frediano, il popolare quartiere di Firenze e ricamata dalle suore del convento di Santa Croce. Poi era stata consegnata al comando della divisione «Arno» nelle ore della liberazione di Firenze. Pochi giorni dopo, era stata portata a Roma, dalla gappista Edda Occhini. Doveva essere consegnata ai partigiani del Nord. Ed è proprio la Occhini che porge a Bulow quella bandiera nella fredda domenica di febbraio del 1945 a Piazza del Popolo. Lui prende il drappo, scende nella piazza e si avvia, seguito da un corteo immenso, lungo via del Corso. In un silenzio pieno di commozione, quella fiumana di gente vede Boldrini che, a due passi dal balcone di Mussolini, appoggia la bandiera al sacello del Milite ignoto, per rendere omaggio a quel soldato sconosciuto morto chissà in quale trincea dimenticata del Grappa, del Montello o del Piave.
Anche questo era Bulow, un uomo dai forti sentimenti, piccolo, mite, ma sempre decisissimo, testardo, coraggiosissimo e con un forte senso dell’ironia. Era nato a Ravenna nel settembre 1915. Il padre, mezzo repubblicano e mezzo anarchico, faceva il vetturale. Cioè trasportava quel che capitava con il carro trainato dai cavalli. In casa, di soldi ne erano sempre entrati pochi. Da ragazzino, Arrigo, era un grande appassionato di calcio e nel campetto della parrocchia di Santa Maria in Porto giocava tutti i giorni. Faceva coppia con un attaccante bravissimo, un compagno di scuola che si chiamava Benigno Zaccagnini. Dopo le primarie si iscrisse all’Istituto agrario di Cesena perché voleva diventare perito agrario. Sapevano tutti di un’altra grande passione: l’opera. Stravedeva per Verdi e Rossini e appena i suoi raggranellavano qualche soldo scappava a teatro. Era anche un grande cacciatore di ragazze. Il padre, nei piccoli commerci, si era messo in società con il fratello, ma i soldi continuavano a non bastare. Era proprio nell’ambito della parrocchia che era nato un primo sommario antifascismo. Anche perché il parroco don Sangiorgi, era stato amico di don Minzioni, il sacerdote ucciso dai fascisti di Balbo. Nel 1938, Bulow aveva letto Il manifesto dei comunisti, su indicazione di un professore di scuola. Nel 1935, Boldrini aveva dovuto mollare le barbabietole da zucchero per il servizio militare nel 94° reggimento fanteria di Fano. Poi il trasferimento a Forlì e il ritorno a casa. L’8 settembre del 1939 venne di nuovo richiamato alle armi. Per evitare il fronte allo scoppio della guerra, si era arruolato nella 121ª legione della Milizia fascista. Il 29 settembre era riuscito a farsi congedare con l’aiuto del medico Andrea Zoli che poi diverrà uno straordinario combattente della libertà. Boldrini viene quindi assunto dall’Eridania zuccheri, poi trasferito a Napoli dove incontra Libero Bovio e altre personalità antifasciste. L’8 settembre è a Ravenna in convalescenza. Veniva dalla Jugoslavia dove era stato spedito come tenente di fanteria. Il giorno della caduta del fascismo è a casa. Nel frattempo si è già avvicinato al Pci e i suoi compagni vengono a prenderlo e lo fanno parlare alla folla in Piazza Garibaldi. «È la prima volta - racconterà poi - che dico apertamente a tutti come la penso. Ho anche spiegato che bisognava prepararsi a combattere». Quell’ufficiale così tanto comunista che aveva parlato in piazza venne subito ricercato dalla polizia. Bulow è costretto ad entrare in clandestinità e poi salire in montagna. Ha subito incarichi militari, data la sua esperienza di ufficiale. Ma non sa solo combattere è anche un teorico. Sostiene subito una strategia che desta stupore e allarme. Spiega ai suoi che la guerra di resistenza deve essere «pianurizzata» e cioè portata nei paesi, nelle città, verso il mare. Bisogna lasciare la montagna. Gli alleati stanno risalendo la Penisola e la zona di Ravenna, Alfonsine, Comacchio e quella verso le pianure venete, diventa fondamentale per gli inglesi, gli americani, gli australiani, i francesi e per i soldati del nuovo esercito italiano che stanno avviandosi verso nord: in direzione di Bolzano e poi verso la Germania, all’inseguimento dei tedeschi.
Da quel momento, gli scontri con i nazisti e i fascisti non si contano più. È guerra vera, dura, fatta di rastrellamenti, impiccagioni e fucilazioni. Ma i contadini della pianura non parlano neanche sotto tortura (e i torturati saranno tantissimi) e aiutano i partigiani. Le donne fanno le staffette, trasportano le armi e curano i feriti, insieme ai ragazzini. Anche i carabinieri di tante piccole stazioni, fanno finta di non vedere e spesso danno armi. Bulow organizza anche i Gap volanti, composti da due tre compagni che si spostano con grande rapidità tra le case contadine e i paesi. Lui, Arrigo Boldrini, è già un mito ovunque. Dicono tutti che è imprendibile e lo chiamano «pimpernel» (l’inafferrabile). I tedeschi pensano che un capo partigiano con il cognome Bulow, non possa essere altro che un disertore austriaco. Di quell’imprendibile combattente non riusciranno mai a sapere altro.
Il 7 giugno del 1944 a Piangipane, un piccolo paese di poche case, due capi partigiani si devono incontrare. Uno è Bulow e l’altro un certo «Tommaso Moro». All’ombra del campanile della chiesa, i due si ritrovano e si abbracciano in silenzio commossi: sono ancora Benigno Zaccagnini e Arrigo Boldrini, i meglio giocatori della parrocchietta.
Per Bulow la guerra di Liberazione dura ancora a lungo, tra mille traversie e tanti dolori. Ma anche tra tanti slanci di generosità, di partecipazione. Le amicizie nate sui monti e in guerra contro i nazisti e i fascisti, sono tenaci, grandi, senza mezze misure. In Romagna e nel resto d’Italia non c’è nessuno che non abbia sentito il nome di Bulow e delle sua capacità organizzative e politiche. Tutti ricordano anche un episodio celeberrimo, quando il principe Umberto volle passare in rassegna soldati e partigiani e in un paese del ravennate. Gli alti ufficiali che accompagnavano il Savoia, erano terrorizzati all’idea che i partigiani di Bulow avrebbero dovuto rendere gli onori militari insieme ai soldati. Ma furono proprio i partigiani a mostrare le armi «all’ospite», in assoluto silenzio e con compostezza. I soldati, invece, girarono i fucili in segno di protesta e lanciarono a lungo fischi e insulti al figlio di quel re che, con Mussolini, aveva portato l’Italia alla tragedia.
La medaglia d’oro? La cerimonia di consegna avvenne a Ravenna, in Piazza Garibaldi, il 4 febbraio del 1945, alle ore 10. Sul palco c’erano il generale inglese Richard Mc Creery che comandava l’ottava armata, il generale Keightley, comandante del V corpo d’armata britannico, il generale Foulkes, comandante del I corpo canadese, il prefetto, il sindaco e i rappresentanti del Cln. Nella piazza si erano sistemati tutta una serie di picchetti d’onore e gli uomini di Boldrini, quelli della 28ª Brigata Garibaldi. Ecco la banda canadese che suona qualche motivetto e anche quello dal titolo Passa il reggimento bella mia che tutti soldati alleati conoscevano. Poi ecco le note della marcia del Piave. Non si sente una voce. In quel momento, il generale Mc Creery, fissa sul giubbotto di Boldrini la medaglia d’oro. Poi parla di Garibaldi e dei garibaldini e saluta tutti a nome dei comandanti alleati e del re d’Inghilterra. Nella piazza i partigiani lanciano una salva di evviva, sventolano i fazzoletti rossi e si abbracciano. La cerimonia è finita.
Boldrini, da tempo e per motivi di salute, viveva in una casa di riposo. Nella sua stanza, nella sede nazionale dell’Anpi a Roma, le carte e i libri sono rimasti al loro posto. Ora, sul tavolo di lavoro, qualcuno ha appoggiato una rosa rossa.

l’Unità 23.1.08
Lo storico Crainz: «Inventò la geniale strategia di pianura»
di Marco Innocente Furina


L’INTERVISTA Lo studioso ricorda qualità e meriti del comandante: «La sua grandezza fu conquistare la fiducia del movimento bracciantile e contadino e portarvi la ribellione al fascismo»

Ha quasi pudore, Guido Crainz, docente di storia contemporanea alla facoltà di scienze della comunicazione all’Università di Teramo e autore de L’ombra della guerra, - un libro, uscito in questi giorni per l’editore Donzelli, che affronta senza stereotipi il passaggio dal fascismo all’Italia democratica -, nel ricordare la figura del comandante Bulow accostandola alla attualità.
Professor Crainz, ieri è morto il comandante partigiano Arrigo Boldrini, oggi il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano celebra i sessant’anni della Costituzione repubblicana, che in molti ormai considerano inadeguata e da riformare. Un’epoca sembra terminata...
«Io terrei distinte le cose. Non confonderei gli anni di Boldrini, e neanche quelli di Napolitano, con le miserie dell’oggi. Boldrini era la persona più lontana dalle scene che abbiamo visto in questi giorni in Parlamento... Era il rappresentante di un’altra Italia. Nulla a che vedere con le vicende a cui abbiamo assistito a Montecitorio».
Chi fu il partigiano Arrigo Boldrini?
«Boldrini significa essenzialmente due cose: l’idea che la Resistenza per essere vincente dovesse essere una Resistenza di popolo e la scelta conseguente di praticare la lotta armata in pianura. Militarmente sembrò un suicidio. Ma al contrario fu una scelta vincente, perché ebbe il merito storico di dare fiducia al mondo contadino, anche in questo innovando la tradizione classica del partito comunista. Una scelta che invece fu coronata da successo, con la liberazione di Ravenna insieme agli alleati il 4 dicembre del 1944».
Cosa voleva dire lasciare la montagna e combattere i tedeschi in pianura?
«Essenzialmente una cosa: avere e contare su un enorme sostegno popolare. Combattere in montagna è quasi naturale, ci si può nascondere...Il partigiano di pianura invece ha bisogno di un sostegno continuo, vive in mezzo alla popolazione, e vive solo se c’è una straordinaria solidarietà della gente. E attenzione: la fiducia del mondo contadino non è scontata nella tradizione comunista. La grandezza di Boldrini è proprio questa: conquistare la fiducia del movimento bracciantile e contadino, portarvi la ribellione al fascismo. Un’intuizione che si è rivelata una strategia vincente per la Resistenza, anche se all’inizio sembrava un’eresia. Ma che al contrario finì proprio col sottolineare il legame forte tra Resistenza e popolazione».
Una grande lotta di popolo quindi ma anche l’attesa di una rinascita...
«Sì. Soprattutto in Romagna, una terra in cui la guerra lasciò delle terribili distruzioni, ma dove rappresentò anche un grande momento di apertura, di speranze. Per comprendere appieno ciò che significò la lotta di liberazione per quelle terre e il valore e lo spirito della Resistenza di Bulow vorrei citare due frasi di un testimone di quegli eventi: “Non rimaneva nulla di umano, niente che non fosse da rifare” e “credevamo che le stelle fossero a portata di mano”. Ovvero il senso immane delle distruzioni operate dalla guerra, ma anche un’Italia che spera in un domani diverso. Tensioni e speranze che in Emilia Romagna all’indomani della guerra assunsero anche forme radicali. Ecco, Boldrini fa parte di quel grande esercito di quadri e di dirigenti che hanno saputo portare quelle tensioni dentro la democrazia. Credo che vada ricordato come un costruttore di una democrazia diversa rispetto a quello che purtroppo vediamo in questi giorni».
Con il comandante Bulow se ne va uno degli ultimi testimoni di quegli eventi. Teme che la memoria, la conoscenza di quel periodo sia in pericolo?
«È un passaggio inevitabile. Ma, come per la Shoah, gli istituti storici stanno facendo un grande lavoro sulla “costruzione della testimonianza”».
Ogni tanto riemerge il problema dei fondi da destinare agli Istituti che si occupano di Resistenza...
«È vero, ma devo dire che la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro dell’istituto nazionale per la stora del movimento di Liberazione in Italia sta dando i suoi frutti. Certo poi ci sono parti politiche più sensibili e altre meno...».
A proposito, le moltissime reazioni alla morte di Boldrini vengono in grandissima maggioranza dal centrosinistra. Un’altra prova che la Resistenza non è riuscita a divenire parte di una memoria condivisa.
«Forse si tratta anche di mancanza di sensibilità, di attenzione per chi ha costruito la democrazia. Non darei la colpa alla Resistenza».
Professore, a suo avviso, dei valori e degli ideali di quegli uomini è rimasto ancora qualcosa nell’Italia di oggi?
«Lo storico può notare soltanto grandi differenze e grandi mutamenti, ma come cittadino non nascondo di essere terribilmente pessimista, catastrofico quasi. La mia non è opinione consolante. E guardi, mi creda, delle vicende attuali non voglio parlare. Non insista».

l’Unità 23.1.08
Rifondazione si divide, Ferrero e Russo Spena: voto subito
Bertinotti resta sul governo istituzionale, contrari Verdi e Pdci. I «piccoli» tentati dalle elezioni
di Maria Zegarelli


SERPEGGIA una discreta preoccupazione, per usare un eufemismo, nella sinistra radicale rispetto ai conti frenetici che in queste ore sono in corso a Palazzo Mada-
ma. I numeri sono sul filo, la «puzza di bruciato» che il leghista Calderoli sente è un sospetto piuttosto fondato a sinistra. Può passare la fiducia, ma il punto politico è il dopo, si ragiona. Dopo il voto di domani, da dove si riparte? Oggi sul banco degli imputati, quali responsabili della crisi, per Sd, Pdci-Verdi, ci sono il Pd e Mastella. Ma anche Rc non sta messa bene: il Pdci ancora non manda giù le trattative sulla legge elettorale.
Adesso, la priorità è la fiducia e anche lì c’è poco da stare allegri. «Non credo ci siano i presupposti per sentirsi tranquilli sui numeri - dice Cesare Salvi, leader Sd- I dati sono quelli: stando ai numeri siamo sopra di un voto. Mi sembra davvero una votazione a rischio». Detto questo, se le cose dovessero andare come spera il Professore, «stavolta occorre rilanciare davvero l’azione di governo - ragiona Salvi - mettendo al primo posto la questione sociale». Insomma, non è che può passare il messaggio mastelliano che in politica «funziona così», come emerge dalle intercettazioni telefoniche che hanno coinvolto l’ex Guardasigilli, la moglie, il consuocero e gran parte dell’Udeur. Quanto a Veltroni, «nelle ultime settimane ha dichiarato la fine dell’alleanza di centrosinistra, ha cercato di imporre d’intesa con Berlusconi una legge elettorale con l’unico obiettivo di colpire tutti gli altri partiti rappresentati in parlamento». Se poi dovessero entrare in gioco le famose «subordinate», cioè elezioni anticipate, Salvi dice che la formula con cui presentarsi agli elettori dovrebbe essere la stessa, ma sotto il segno della discontinuità. E poi, da oggi, anzi da ieri, la Cosa rossa deve fare un passo in avanti, «si deve andare uniti anche davanti alla riforma elettorale, la sinistra deve rilanciare l’Italia». Katia Zanotti teme che se non si arriva entro breve ad un ricompattamento della Cosa rossa «la sinistra sparisca». «Molto buono il discorso di Prodi di oggi, chiaro, grintoso, combattente», commenta Alba Sasso convinta che se domani dovesse andare male le elezioni sarebbero l’unica strada. E se il Pd correrà da solo, «anche la Cosa rossa potrebbe fare altrettanto» per allearsi poi.
Manuela Palermi, capogruppo Pdci-Verdi frena. «Ci sono ferite ancora aperte. Il Pdci da sempre sostiene l’unità a sinistra ma la Cosa rossa o si fa decidendo con noi o noi restiamo fuori. Salvi e Russo Spena non possono incontrare Casini sulla legge elettorale senza consultarci». Quanto a Veltroni, secondo la senatrice, è l’altro responsabile, insieme al Vaticano, della crisi di governo. Le due «V» che incombono su Prodi. Un Prodi a cui invece Pdci e Verdi daranno la fiducia con convinzione, soprattutto «dopo le rassicurazioni del premier sull’abbassamento della pressione fiscale, del fiscal drag, e sulla possibilità di intervenire sul recupero automatico del salario sull’inflazione».
Giovanni Russo Spena stavolta è pessimista: «Credo senza ipocrisia che non ce la faremo ad avere la maggioranza». Il segretario Franco Giordano ieri ha riunito la segreteria per fare il punto, ma preferisce non fare previsioni a medio termine: «Siamo a crisi aperta, correttezza presume di parlarne con il presidente della Repubblica». Quel che è certo è che Prc è divisa: da una parte c’è chi come Giordano o il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore o il vicepresidente del Senato Milziade Caprili lascia la porta aperta all’ipotesi del governo istituzionale (caldeggiata anche da Bertinotti), dall’altra chi come il ministro Paolo Ferrero e il capogruppo Russo Spena non vuol prendere in considerazione altra strada che quella del voto.
Dalla Cosa rossa alla Cosa Bianca a cui punta Mastella. L’altra sera ospite di Porta a Porta, l’ex ministro ha chiamato all’appello i grandi della vecchia Dc, a cominciare da Ciriaco De Mita. Guarda a lui, per esempio, l’uomo di Ceppaloni. «Ma io guardo a sinistra - risponde col sorriso tirato De Mita - non guardo certo Mastella». Berlusconi immagina Casini e Mastella seduti fianco a fianco. Immagine che non piace a Giulio Andreotti che boccia senza appello la mossa dell’ex ministro.

l’Unità 23.1.08
Bagnasco fa politica. I vertici della Cei sapevano dello strappo Udeur
«I cattolici siano più coerenti e persuasivi». Ieri il cardinale ha smorzato i toni contro il nostro Paese
di Roberto Monteforte


UNA CRISI DI GOVERNO con tanto di benedizione del cardinale Bagnasco? C’è chi lo pensa e chi vuole farlo pensare. Non ha deciso per caso il politico cattolico di lungo corso Clemente Mastella, dimissionario Guardasigilli, di essere presente domenica all’Angelus del Papa, in cerca di solidarietà e appoggi oltre che per esprimere la sua di solidarietà al pontefice. Ai vertici della Cei qualcuno sapeva che il giorno dopo avrebbe ritirato la sua fiducia al governo Prodi. Quasi in contemporanea arriva la prolusione al Consiglio Permanente della Cei, del presidente dei vescovi, cardinale Angelo Bagnasco: un colpo durissimo per il governo di centrosinistra. A partire dalla polemica che si è voluta riaprire con Viminale e Palazzo Chigi sulle responsabilità per la mancata visita di Benedetto XVI alla Sapienza. Una ferita che brucia, che amareggia i palazzi apostolici quanto la mancata visita all’ateneo romano. Ma non è solo questo. È l’elenco dei no su coppie di fatto, divorzio breve, aborto, difesa degli omosessuali, è la polemica sulle politiche sociali, persino sulla sicurezza sul lavoro e sull’immondizia ribaditi con fermezza, senza mediazioni possibili, dal cardinale Bagnasco che pesa. Sono l’asprezza dei suoi toni a suonare come benzina che possono rendere ancora più difficili i rapporti tra la Chiesa e mondo laico e di sinistra.
Sono parole e toni che hanno sorpreso e preoccupato, anche Oltretevere. Ben diverse erano state le dichiarazioni del successore di Ruini dopo «l’incidente» della Sapienza di lunedì 17 gennaio e dopo l’appello alla mobilitazione, quel «Tutti all’Angelus del Papa» lanciato da Ruini. In piena sintonia con la segreteria di Stato, l’arcivescovo di Genova aveva invitato tutti a smussare i toni, ad evitare lo spirito della contrapposizione intollerante e delle divisioni. Una preoccupazione rilanciata dallo stesso pontefice nel suo messaggio di saluto all’Angelus di domenica scorsa. Lunedì, tutto cambia. Bagnasco apre il Consiglio permanente dei vescovi con un discorso polemico, di attacco, decisamente politico. Un discorso, assicurano fonti bene informate, non concordato con la segreteria di Stato, ma forse reso noto direttamente al Papa. «Ruiniano» nei contenuti, anche se più diretto e meno attento alle sfumature politiche rispetto a quelli pronunciati dal suo predecessore.
È il neo cardinale, presidente della Cei che si smarca? Un Bagnasco che si presenta «autonomo», che si emancipa dall’influenza del segretario di Stato, Bertone che ha in animo di indirizzare direttamente la politica della Chiesa in Italia. Ed anche da quella del suo autorevole predecessore, il cardinale Ruini a scadenza dal suo incarico di vicario del Papa per la diocesi di Roma. È personalità forte l’arcivescovo di Genova, dietro la sua mitezza si mostra determinato ad avere un peso proprio nella vita della Chiesa e non solo in Italia. Ma i suoi j’accuse a tutto campo portano ad una radicalizzazione dello scontro, in una fase complessa, con un Paese così «sfilacciato», «a pezzi» può risultare rischiosa. Un pericolo ben presente in segreteria di Stato di cui tiene conto l’Avvenire, il quotidiano dei vescovi, che nel resoconto sui lavori della Cei, la gira in positivo, smussa i toni della polemica. Infine arriva l’intervista dello stesso Bagnasco all’Osservatore romano. Puntualizza, smorza, chiarisce e ribadisce il cardinale. «Il rapporto tra Chiesa e società in Italia è un rapporto di grande stima e di estrema vicinanza popolare. Non sono episodi, pure gravi e incredibili, come quello della mancata visita del Papa alla Sapienza che possono pregiudicare un’intesa e una positiva collaborazione, che sono e restano nei fatti». Pare una dichiarazione di pace. Il dialogo continua e non può interrompersi. Ma i punti fermi sui temi eticamente sensibili, come pure sull’emergenza sociale, restano. E a chi ha contestato la visita del Papa non lo manda a dire: «È necessario recuperare una forte cultura della legalità e il senso vero del dialogo e della democrazia, per cui ognuno nel rispetto effettivo degli altri possa esprimere in modo sereno le proprie idee. I cattolici siano più coerenti e persuasivi».

l’Unità 23.1.08
Ogni giorno muoiono 26mila bambini, metà di fame
Nel 2006 per la prima volta la cifra delle vittime scende sotto i 10 milioni l’anno. L’Unicef: tre euro per salvare una vita
di Gabriel Bertinetto


OGNI ANNO 9 milioni e settecentomila bambini muoiono prima di avere raggiunto il quinto compleanno, per malattie che potrebbero essere prevenute e curate con rimedi semplici e non costosi, oppure (e questo vale per la metà del totale) per fame e malnutrizione. Questo significa una media quotidiana di 26000 decessi. Di quei 9,7 milioni, una gran parte (circa quattro) non arriva al trentesimo giorno di esistenza.
Lo dice l’ultimo rapporto annuale dell’Unicef, l’agenzia Onu che si occupa dei problemi dell’infanzia. Cifre così alte sono «assolutamente inaccettabili» secondo Ann Veneman, direttrice esecutiva dell’organizzazione. E tuttavia si rileva come per la prima volta nel 2006 si sia scesi sotto la soglia dei dieci milioni di decessi in età infantile. «C’è molto lavoro da fare, ma si vede come siano stati fatti progressi e si possa continuare a farne», aggiunge Veneman.
Il documento indica nell’Africa sub-sahariana la regione in cui si registra il più alto tasso di mortalità. Un bambino nato in quella parte del mondo ha una probabilità su sei di non arrivare a compiere 5 anni. Su scala mondiale quasi la metà dei piccoli che muoiono prematuramente provengono da questa parte del pianeta. L’Africa subsahariana comprende 46 Stati, metà dei quali dal 1990 in poi ha mostrato livelli di mortalità infantile stabili o addirittura in peggioramento. Solo tre, Eritrea, Seychelles e Capo verde sono avviate verso sensibili miglioramenti e potrebbero raggiungere entro il 2015 i traguardi di sopravvivenza infantile fissati dall’Onu. Forti progressi anche in Etiopia e Malawi, che hanno ridotto il tasso di mortalità infantile del 40% rispetto al 1990. Il Paese che sta peggio è la Sierra Leone, dove non sopravvive ai primi mesi o anni di vita addirittura il 27 per cento dei nuovi nati. Le malattie che mietono vittime tra i piccoli nelle aree meno sviluppate sono per lo più infezioni delle vie respiratorie o forme di diarrea facilmente curabili nei Paesi più ricchi. Fa strage anche il morbillo, che altrove grazie ai vaccini non rappresenta più un pericolo.
Il rapporto dell’Unicef sottolinea come la salute dei piccoli sia strettamente associata al tipo di esistenza condotta dai genitori e dalle madri in particolare. «Se vogliamo salvare la vita dei bambini, dobbiamo assicurare che siano sani fin dalla nascita», sostiene Veneman, e perciò è importante garantire l’assistenza medica di base alle donne già durante la gravidanza.
L’Unicef ha calcolato che con una spesa pro-capite di 2-3 dollari, si potrebbe fornire un pacchetto minimo di interventi essenziali, cher ridurrebbero la mortalità infantile del 30% e quella materna del 15%. Antonio Sclavi, presidente di Unicef Italia, aggiunge che una spesa di poco superiore, di 12-15 dollari pro-capite, permetterebbe un calo della mortalità, sia infantile che materna, del 60%.
Tra le misure contenute nei pacchetti proposti dall’Unicef sono la distribuzione di zanzariere trattate con insetticidi anti-malaria, vaccini, integratori vitaminici, campagne di promozione dell'allattamento al seno e di educazione all'igiene, visite mediche per le donne in gravidanza. «Condizione di base per il successo di questi interventi -sostiene Sclavi- è una politica sanitaria fortemente sostenuta e coordinata dall'alto, ma al contempo basata sull'impegno e il coinvolgimento consapevole e informato delle comunità locali».

l’Unità 23.1.08
Oslo, l’apartheid dei figli delle Ss nati per selezionare la razza
Migliaia di donne vennero inseminate dai migliori ufficiali nazisti. «Noi vittime incolpevoli pagammo con l’ostracismo»


LONDRA Ricorda Paul Hansen: «Avevo quattro anni, in quella casa eravamo in venti. Il governo mandò un medico, scoprii poi era uno psichiatra. Ci visitò, stabilì che, date le nostre origini, potevamo essere classificati come ritardati mentali. Non era una diagnosi, ma una supposizione. Ci chiusero tutti in un manicomio infantile». Rievoca Kikki Skjermo: «Mi hanno tirato su i miei nonni materni, senza un filo di affetto. A dieci anni un uomo del villaggio mi violentò. Mi avevano spiegato che aveva un vero e proprio odio per quelli come me. Gli urlai: “Perché?”. Rispose: “quelli come te sono stati messi al mondo per essere usati”». Infine Ellen Voie: «Fui data in adozione quando avevo due anni. I miei nuovi genitori erano letteralmene crudeli. Nella comunità in cui vivevo tutti sembravano sapere chi fossi in realtà. Tutti tranne me. Lo scoprii quando il prete mi chiese un certificato di battesimo per poter fare la cresima. Feci le miei ricerche, solo allora scoprii che mi avevano cambiato il nome».
Il loro nome in tedesco era «Lebensborn», «molla della vita», generati dalle Ss e dal loro tentativo di ricreare una razzia ariana che fosse ancora più pura di quella tedesca. Himmler li voleva figli dei migliori ufficiali e di donne di stirpe nordica incontaminata. Per questo, nel 1941, scelse la Norvegia occupata per l’inseminazione di circa 10.000 donne, trattate come giumente da affidare a qualche centinaio di stalloni. Il matrimonio, dopo l’incontro, non era obbligatorio. Se non altro perchè molti tra gli stalloni erano regolarmente coniugati, secondo il rito Ss, in Germania. Tant’è vero che, con la ritirata, tornarono praticamente tutti in patria, lasciando le donne e i loro bambini ad affrontare le durezze del dopoguerra e di una vera e propria apartheid. Anche la patria del Nobel e dei diritti civili ha il suo piccolo, sporco segreto. Lo svela ora un’inchiesta dell’Independent.
Il progetto «Lebensborn» venne messo a punto da Himmler nel dicembre 1935, subito dopo aver incorporato la Gestapo nelle Ss ed essere divenuto l’uomo più potente del Reich dopo lo stesso Hitler. In Norvegia divenne effettivo dal marzo del 1941, in uno scenario che sembra l’opposto di un romanzo di Steinbeck. Gli ufficiali inseminavano le donne, le madri venivano accolte in comunità create appositamente, il Reich se ne assumeva la cura se il padre biologico non intendeva sposarsi. Un esperimento di eugenetica con cui si intendeva anche ovviare al decrescere del tasso di natalità nella Germania nazista. Per ospitare i bambini, almeno 8.000, tutti registrati presso una speciale anagrafe, vennero requisiti alberghi e costruite almeno dieci strutture simili a case famiglie. Ad ogni bambino veniva assegnato un numero ed aveva una cartella clinica in cui venivano raccolti i suoi dati, per controllarne il sano sviluppo. Verso la fine della guerra, il governo norvegese in esilio fece sapere che la fraternizzazione con gli occupanti non sarebbe stata tollerata. «Certe donne sappiano che pagheranno il prezzo di quello che hanno fatto per tutto il resto della vita», avvertì tramite Radio Londra, «tutti i norvegesi avranno modo di manifestare il loro disprezzo per loro». Una promessa mantenuta.

Repubblica 23.1.08
Bandiere rosse e orgoglio di Romagna se ne va il partigiano di pianura
di Jenner Meletti


È morto Arrigo Boldrini, 92 anni, presidente onorario dell´Anpi uno degli ultimi testimoni della Resistenza, mitico comandante ravennate
Combattente con Zaccagnini, fu lui a pronunciare il discorso funebre per il leader Dc
Oggi aperta la camera ardente nel municipio di Ravenna per gli ultimi saluti

RAVENNA. Se n´è andato alle 8,50 del mattino, l´ora in cui, dopo la colazione («Per l´onorevole - era scritto su un cartello nella cucina della casa di riposo - caffè, biscotti, uova, marmellata») si avvicinava al tavolo per la prima partita della giornata. Giocava a beccaccino, una specie di briscola. Anche i suoi compagni di carte lo chiamavano onorevole, non più Bulow. Arrigo Boldrini, comandante partigiano, padre costituente, ha finito la sua vita ieri, all´ospedale di Ravenna. Il 6 settembre aveva compiuto 92 anni. «Nostro compito - ha scritto nel suo ultimo messaggio come presidente dell´Anpi - è raccontare la nostra esperienza partigiana, con le sue luci e le sue ombre. Perché possa essere di esempio e monito per fare comprendere il valore della libertà, il rischio di perderla, il sacrificio che occorre per riconquistarla».
Accompagnati da figli e nipoti, alla camera mortuaria della città arrivano gli ultimi suoi compagni di lotta, che combatterono nelle valli della Romagna. Arriva il sindaco Fabrizio Matteucci e dice che Ravenna «è orgogliosa di averlo avuto fra i suoi figli migliori». «Abbiamo perso un grande italiano. Quando ero ragazzo, i racconti dei partigiani si respiravano nell´aria: la Resistenza è stata la chiave che ci ha spinto all´impegno politico».
Domani alle 15 ci saranno i funerali in piazza del Popolo. In questa stessa piazza il 4 febbraio 1944 il generale Richard Mc Creery, comandante dell´VIII Armata inglese, gli consegnò la medaglia d´oro al valor militare per avere liberato la città di Ravenna quando il nord Italia ancora era occupato dai nazisti. Sempre in piazza del Popolo, nel novembre 1989, Arrigo Boldrini tenne l´orazione funebre per Benigno Zaccagnini. Avevano stretto un patto, lo studente di agraria diventato partigiano comunista e il pediatra che sarebbe diventato segretario nazionale della Dc. «Quando uno di noi se ne andrà - giurarono quando ancora erano in armi e si chiamavano Bulow e Tommaso Moro - l´altro parlerà al suo funerale».
Stamane verrà aperta una camera ardente in municipio. «In questo triste momento - ha scritto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - vorrei ricordare anzitutto l´amico sincero, dal tratto umano sensibile e aperto, con cui ho condiviso importanti momenti di comune impegno democratico. E rappresentare la gratitudine dell´intero Paese per il prezioso patrimonio di dedizione alla causa della libertà e dell´indipendenza nazionale».
Non era bravo a parlare, il comandante Bulow. «Me lo dissero - ha scritto nel libro "Corsari in jeep" Vladimir Peniakoff, comandante del reparto inglese che partecipò alla liberazione di Ravenna e salvò la basilica di Sant´Apollinare in Classe - i suoi stessi compagni. "Ha le qualità del capo, sa organizzare la guerriglia ma non sa parlare". In verità non era un oratore. Era un giovane piccolo di statura, vivacissimo. Era stato scelto da Luigi Longo, uno dei capi della Resistenza, perché aveva un´esperienza militare come ufficiale dell´esercito. Lo incontrai durante la liberazione della città. Noi entravamo da est, lui da nord. Bulow era ferito a un braccio, lo feci medicare e lo condussi nel mio alloggio. Era il giorno della vittoria ed egli era l´eroe ferito nella liberazione della sua città. Sarebbe rimasto a godersi il trionfo? Attivo e irrequieto come al solito, non ebbe pace finché non ripartì per le paludi, dove aveva vissuto tanto a lungo la vita di un ranocchio. Egli e i suoi vivevano in capanne di canne fangose, pochi centimetri sopra il livello dell´acqua. Ogni notte facevano una sortita contro i tedeschi, durante il giorno giacevano sul fango».
Finisce la guerra, Arrigo Boldrini resta per tutti Bulow. Non è facile scrollarsi di dosso i soprannomi in una terra romagnola dove i padri hanno il coraggio di chiamare i figli Rivo, Luzio e Nario, oppure Sole, Dello, Avvenire. «E´ stato un altro partigiano - raccontò Boldrini - a darmi questo soprannome. Si chiamava Michele Pascoli, era un barbiere comunista che sarebbe stato fucilato dai nazisti. Io spiego agli altri, in una riunione, che la guerra ai nazifascisti si può fare anche dove non ci sono montagne. Mi metto a parlare di "pianurizzazione". Il compagno Pascoli mi guarda e dice: "mo´ chi sit, Bulow?". Ma chi credi di essere, quel Bulow che ha sconfitto Napoleone?. Così quel nome mi è rimasto attaccato».
Subito dopo la guerra, il capo partigiano viene accusato dell´eccidio di Codevigo, in Veneto. Decine di militari e civili della Repubblica sociale furono uccisi. Arrigo Boldrini viene processato e assolto. Entra in Parlamento, diventa un padre della Costituzione. Diventa presidente dell´Associazione nazionale partigiani italiani. Scrive tutti i suoi discorsi, non parla mai a braccio, anche quando deve andare a celebrare il 25 Aprile nelle più piccole frazioni del ravennate. «Noi abbiamo combattuto - racconta - per quelli che c´erano, per quelli che non c´erano e anche per chi era contro…».
Arrivano gli anni del tramonto. Nell´aprile 2005 Bulow viene accompagnato dal figlio Carlo nella casa di riposo di un prete, don Ugo Salvatori, a Marina di Ravenna. Si guarda intorno stupito, assieme al sacerdote vede anche quattro suore. La sua mente non è più quella di un tempo ma qualche ricordo ritorna. «Ma lo sa - dice a don Ugo - che da piccolo, nella chiesa di Santa Maria del Porto, facevo il chierichetto? Il nostro capo chierico era Benigno Zaccagnini». Verso sera, nella nebbia ravennate, un´agenzia annuncia che «Bulow si era avvicinato alla fede». Lo avrebbe annunciato don Ugo, raccontando che «prima di Natale aveva partecipato alla Messa». Il sacerdote si affretta a smentire. «Io non ho mai parlato di conversione. Ho solo detto che prima di Natale l´onorevole era stato accompagnato alla Messa da suo figlio e che era gentile con me. Tutto qui». Anche nel 2005, nei primi giorni nella casa del prete, il vecchio comandante era andato a Messa. «Stavo giocando a carte e vedo che tutti vanno via. Dove andate? A Messa, mi dicono. Io non sono andato, perché nessuno mi aveva invitato. Ma a Pasqua il prete mi ha invitato, e allora anch´io sono entrato nella cappella». Una mente lucida per i conti della partita a beccaccino e per qualche ricordo lontano. Gli occhi alle carte e alla pineta, oltre la quale ci sono le valli con la palude e i canneti. Era qui che Bulow faceva «la vita del ranocchio», per la libertà dell´Italia.

Corriere della Sera 23.1.08
Metodo Marquard e Melloni: la conoscenza diventa giudice
Quando la storia assolve o condanna come un tribunale
di Marco Ventura


«Tu ricorderai» è l'imperativo biblico. Ricorderai che ti ho liberato dagli egiziani, che ti ho aperto il Mar Rosso. Che io sono il tuo Dio. E Israele dimenticava, adorava nuovi idoli. E Dio puniva, pazientemente; ed ogni volta si ricostruiva il ricordo. È difficile ricordare; bisogna sapere, sapere molto se non tutto. Può far male sapere, ricordare; può dar dolore. Può lacerarmi dentro e può lacerare la mia famiglia, la mia città, il mio popolo. Con Mosè e mille altre volte Dio ha fatto la memoria e la storia, sciogliendovi dentro dolori e lacerazioni. Mille volte l'uomo ha osato dimenticare, raccontarsi un'altra storia, chieder conto. Se vuoi che creda alla tua storia, Dio, devi convincermi che sia giusta, devi convincermi che sei giusto. La modernità è un tempo in cui l'uomo si fa più esigente, sospettoso. Incalza Dio, formula quesiti e scandaglia risposte. Il Dio dalla barba bianca non è più un giudice al di sopra di ogni sospetto. Troppo male nella storia, per credergli ancora. O troppi Prometei. Non è più Dio che giudica l'uomo, è l'uomo che pretende di giudicare Dio.
Leibniz, nel 1710, prende la cosa di petto: elabora una strenua difesa di Dio e lo giustifica con tutta la ragione che può. Chiama la propria difesa teodicea: Dio è buono perché ha fatto tutto ciò che poteva; la creazione è l'arte del meglio possibile. Leibniz assolve Dio, ma per farlo paga il prezzo estremo, assoggettare la giustificazione di Dio al tribunale dell'uomo. Nel processo sul male nel mondo l'uomo è l'accusatore e Dio l'imputato, l'imputato assoluto. Sforzo supremo, quello di Leibniz, ma inefficace. Ormai Dio è alla sbarra, i suoi giudici son sempre più audaci. Il catastrofico terremoto di Lisbona del 1755 suona come una confessione di colpevolezza divina. Stendhal è implacabile: «L'unica giustificazione di Dio è che non esiste». Se proprio vuol restare in qualche modo tra noi, Dio deve disfarsi della responsabilità della storia; deve cedere all'uomo lo scettro di creatore della storia. O Dio non c'è o è come se non ci fosse. La teodicea fallisce, la difesa di Dio nella storia alza le mani. Cosa viene dopo?
Il filosofo tedesco Odo Marquard ha una risposta: anche se la gabbia del tribunale della storia si è svuotata di Dio, il bisogno di fare i conti col male, di giudicare e condannare, è intatto. Ci vuole però un nuovo imputato al posto di Dio. Quell'imputato è fatalmente l'uomo stesso che deve ormai giocare entrambi i ruoli, quello dell'accusatore e quello dell'accusato, quello del giudice e quello del condannato. Marquard chiama tutto ciò «tribunalizzazione della storia». Tolto di mezzo Dio, il giudizio nella storia è tutto dell'uomo sull'uomo. Cambia per sempre il modo di rispondere al biblico «ti ricorderai». Cambia il modo di fare storia. L'inutile difesa di Dio nella teodicea e la tribunalizzazione della storia marcano il nostro ricordo, la nostra memoria, il nostro sapere.
Su questo dialogano il filosofo Odo Marquard e lo storico Alberto Melloni ( La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza). La tribunalizzazione della storia è il modo in cui ci siamo abituati a pensarci nel tempo. Uomini che giudicano uomini. Come dopo la seconda guerra mondiale, quando i grandi processi del Novecento hanno messo in scena il giudizio della storia, quando i media hanno riversato le masse ora sui banchi della giuria ora nella gabbia degli imputati. A Norimberga i vincitori hanno processato i vinti; a Gerusalemme nel 1962 le vittime hanno giudicato, e giustiziato, il boia Eichmann; a Francoforte pochi anni dopo i tedeschi hanno fatto i conti con se stessi. Più recentemente in Francia (i casi Papon e Touvier) e ancora in Germania (il caso Nolte), si è fatta storia processando, in tribunale o sulla stampa. Ma anche i non processi sono stati giudizi del tribunale della storia: i processi non celebrati per i silenzi delle chiese, i giudizi non pronunciati per i massacri comunisti.
L'uomo è insieme imputato e giudice. Il doppio ruolo rimescola il giudizio della storia e quello del tribunale; con Melloni, «l'insonnia dello studioso e la veglia del poliziotto». Questo è in gioco quando entrano in tribunale le immagini dei campi di sterminio; quando si manda in Tv la cronaca del processo; quando si trasforma lo storico in perito di parte. La tribunalizzazione della storia instaura, ancora Melloni, «un legame pericolosamente solido fra giudizio storico e giudizio penale».
Allora i tribunali fanno tutta la storia, il diritto dimentica i propri limiti. Lo storico prova a sottrarsi alla confusione; come scrive Melloni, a «disilludere chi chiede sentenza», a lavorare «come nelle vecchie botteghe, a pian terreno, con la porta in piazza». L'uomo ritrova la propria storia soltanto scansando scorciatoie e moralismi; prendendosi sulle spalle tutta la fatica e tutto il dolore di cui Dio non si fa più carico.

Corriere della Sera 23.1.08
Le ricerche di Christopher Browning
Questione ebraica e guerra all’Urss
di Frediano Sessi


Non fu la sconfitta di Mosca che spinse allo sterminio, bensì la prospettiva della vittoria finale

«Mentre ero ancora a tavola per il pranzo, ci si è messi a parlare della questione ebraica nel Governatorato Generale e nel mondo. Per me è molto interessante partecipare a simili conversazioni. Con mio grande stupore, tutti furono d'accordo nel dire che gli ebrei devono scomparire dalla faccia della terra (...) E perché gli ebrei scompaiano, dovranno essere eliminati tutti; il mondo avrebbe allora assai più possibilità». Così scrive alla moglie W.H, un caporale della Wehrmacht, il 28 maggio 1941. E questa lettera fa parte del fondo Reinhold Sterz che raccoglie oltre cinquantamila lettere finora inedite di soldati delle forze armate tedesche conservate alla Biblioteca del tempo presente di Stoccarda. Ne esce un'immagine lucida e terribile al tempo stesso del ruolo delle forze armate tedesche nella seconda guerra mondiale. L'altra faccia della Shoah, scrive in un libro recente Christopher R. Browning (Le origini della soluzione finale. L'evoluzione della politica antiebraica del nazismo, settembre 1939 - marzo 1942, Il Saggiatore, pagine 617, e 35).
Il suo lavoro di rilettura attenta della documentazione d'archivio lo porta a cominciare la sua indagine sullo sterminio a partire dall'invasione della Polonia nel settembre 1939 e ad allargarne la responsabilità a tutta la Wehrmacht che a differenza di quanto emerso fino a questo momento, non iniziò a fare il lavoro sporco su sollecitazione delle SS o a partire dalle iniziative di sterminio adottate dalle squadre speciali (gli Einsatzkommando) al seguito dell'esercito. La consapevolezza del veleno ebraico è diffusa in gran parte della truppa che ritiene assai giusto il trattamento disumano riservato alla marmaglia giudea, «sudicia e ladra», scrive un altro soldato ai suoi famigliari. Per oltre trenta mesi, saranno sperimentate diverse soluzioni, che prevedono l'emigrazione prima, e poi l'emarginazione e l'isolamento.
Ma tutto cambia con la guerra contro l'Urss nel giugno del 1941. In questa fase, il fallimento dei piani di espulsione progettati nel corso dell'invasione della Polonia, spinge l'esercito come le SS a una radicalizzazione della soluzione della questione ebraica. Comincia allora, ciò che Hilberg aveva già chiamato la «pulizia mortuaria». Ovunque, in ogni villaggio si ripeteranno le stesse scene terribili: ebrei che sono condotti verso luoghi isolati dove vengono fucilati o trattati con camion a gas. L'efficacia di questo metodo di assassinio di massa è indubbia: alla fine del 1941, sono stati assassinati tra i 500.000 e gli 800.000 ebrei. In questa fase, la politica antiebraica non seguiva ancora un piano preordinato e organizzato per portare allo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa. E Browning avanza l'idea che, a differenza di quel che si è pensato fino ad ora, la sconfitta dell'esercito tedesco alle porte di Mosca non spinse alla vendetta e quindi allo sterminio degli ebrei. Ma fu al contrario la prospettiva in ogni caso della vittoria finale che mobilitò tutta la Wehrmacht nello sforzo di rendere i territori conquistati «liberi dalla presenza ebraica».
Questo saggio, di grande importanza, che si inserisce in una raccolta di circa quindici volumi curati dal museo israeliano Yad Vashem, nell'intento di dare corpo a una sintesi sistematica della storia della Shoah, rilancia in modo assai documentato l'ipotesi storiografica che vede nella politica evolutiva dello sterminio, la causa di un processo che ebbe il suo culmine nel campo di Auschwitz; e il suo inizio assai più condiviso di quanto fino ad ora non si fosse pensato, se strati interi di popolazione e di soldati tedeschi aderirono cinicamente alla politica antisemita del regime e appoggiarono, oltre che eseguirono direttamente le azioni di sterminio.

Corriere della Sera 23.1.08
Barbari. Invasioni di civiltà
di Alessandro Barbero


Facevano carriera nell'esercito romano, compravano gioielli da siriani ed ebrei. L'impero non poteva più farne a meno.
Ma poi qualcosa andò storto...

Quando pensiamo alle invasioni barbariche, le immagini che ci vengono in mente sono ancor oggi quelle create dai pittori pompier dell'Ottocento: barbari in pelliccia ed elmo cornuto che vagano bramosi nei palazzi conquistati, valutando coll'occhio avido suppellettili preziose e branchi di schiave seminude; oppure, orde di nomadi irsuti che galoppano ululando nelle pianure, lasciando dietro di sé soltanto macerie fumanti. Che gli archeologi non abbiano mai trovato, da nessuna parte, un elmo cornuto e che tutti i re barbari di cui siamo a conoscenza fossero circondati da uno stuolo di segretari romani non basta per dissipare l'idea profondamente radicata di una contrapposizione fra due mondi irriducibili l'uno all'altro. E del resto, diciamolo, una certa dose di responsabilità spetta anche agli scrittori antichi: i quali amavano rappresentare l'impero romano come un'isola di civiltà in mezzo a un mare di barbarie, una fortezza assediata contro cui le steppe del Nord e i deserti del Sud vomitavano incessantemente orde di aggressori.
Senonché quella descrizione è interessata e le cose non stavano proprio così. Intanto, va detto che se il romano medio aveva una paura ancestrale dei barbari, il barbaro aveva molta più paura dei romani, e non a torto: perché alla minima provocazione l'imperatore scatenava fuori dai confini terrificanti spedizioni punitive, bruciando villaggi e raccolti, e trucidando gli indigeni, finché i capitribù non venivano in ginocchio a implorare la pace. In cambio offrivano tributi di grano e di bestiame, il lavoro gratuito dei loro uomini nei cantieri del limes o nei campi dei latifondisti romani, e giovani da arruolare nell'esercito imperiale. Giacché quest'impero immenso, che si estendeva dalla Scozia alla Mesopotamia, aveva sempre fame di uomini; le guerre incessanti, la miseria, la peste aprivano larghi vuoti fra i lavoratori della campagna e negli organici delle legioni; e per riempirli, l'unico modo era di accogliere immigrati barbari, e se necessario deportarli con la forza. Roma, dunque, non poteva vivere senza i barbari; e i barbari non potevano vivere senza Roma. I capi più accorti sapevano che fare la guerra all'impero non era la scelta più vantaggiosa. Conveniva molto di più mettersi d'accordo con l'imperatore, fare la guardia in suo nome, e in cambio d'oro sonante, alle zone di frontiera o alle piste carovaniere, come fecero per secoli le tribù saracene del deserto arabico o quelle berbere del Sahara. Quando Roma doveva fare la guerra, per esempio contro la Persia, il grande nemico d'Oriente, i principi barbari si facevano assumere, comandavano bande mercenarie, strappavano gradi e stipendi nell'esercito. Con quell'oro, una volta tornati a casa, si facevano costruire ville all'uso romano, compravano armi e gioielli dai mercanti siriani ed ebrei, e quando la loro gente faceva la fame per colpa d'un cattivo raccolto, imploravano l'imperatore di mandare grano per nutrirla. Nessuna delle tribù che vivevano a poca distanza dal limes avrebbe più saputo cavarsela se i rapporti coll'impero fossero stati improvvisamente interrotti.
Insieme ai mercanti con le loro merci preziose, passavano il confine i sacerdoti e i monaci cristiani, a portare anche ai barbari la buona novella. All'inizio i capitribù erano diffidenti, qualcuno di quei missionari ci lasciava la pelle, e i barbari convertiti rischiavano il rogo o l'affogamento, ultimi martiri in un mondo dove i cristiani ormai non erano più perseguitati, e anzi tendevano a comandare. Ma la forza del Cristianesimo, come quella dell'oro romano, vinceva tutte le diffidenze: all'epoca delle invasioni, i barbari erano ormai in gran parte cristiani, o sulla via di diventarlo.
Giacché le invasioni ci sono state davvero; ma si trattò d'una faccenda molto più complicata di quel che siamo soliti immaginare. Per secoli l'impero aveva assorbito i barbari, integrandoli a tutti i livelli della sua struttura sociale, fino al punto che una buona metà degli alti ufficiali dell'esercito erano immigrati. Questa cosiddetta barbarizzazione non indebolì affatto l'impero, anzi proprio i generali di origine barbara, come Stilicone, lo difesero con incrollabile fedeltà. Quello che venne meno, a un certo punto, fu la capacità del governo imperiale di gestire con successo le operazioni umanitarie, l'accoglienza di profughi, la sistemazione degli immigrati nelle nuove sedi.
Abusi e malversazioni nella gestione dei campi profughi, ribellioni violente di immigrati che non si riuscì a domare con la forza, accordi negoziati alla meno peggio che consentivano ai capi barbari di entrare sul suolo romano con la loro gente armata, provocarono un'insicurezza crescente, un degrado nel rapporto di fiducia fra i cittadini e il governo, e alla fine la rinuncia dell'imperatore a mantenere l'ordine pubblico e riscuotere le imposte in intere province dell'Italia, della Gallia, della Spagna, dell'Africa. Furono allora i capi barbari, stanziati lì a volte col permesso del governo e a volte abusivamente, a prendere in mano le cose.
I grandi latifondisti e i vescovi cattolici impararono presto a collaborare con loro, rendendo indispensabili le proprie competenze gestionali. Il degrado che subentrò lentamente, nelle infrastrutture, negli scambi, nell'istruzione pubblica, non fu tanto dovuto alla barbarie dei nuovi arrivati, quanto al venir meno dell'unità mediterranea, al crescente isolamento d'ogni provincia, al crollo del prelievo fiscale e degli investimenti. Ma in quei secoli dell'Alto Medioevo che produssero pochi testi scritti e pochi edifici imponenti, e che perciò a noi appaiono oscuri, l'eredità di fondo della civiltà mediterranea, grecoromana e cristiana, si mescolò con le forze nuove dei barbari venuti dal Nord, e da questo connubio faticoso cominciarono ad emergere nuove lingue, nuove identità nazionali, una nuova civiltà, quella dell'Occidente come lo conosciamo ancor oggi.

Corriere della Sera 23.1.08
La mostra Palazzo Grassi torna a esplorare le civiltà del passato
I tesori dei migranti che fecero l'Europa
Sarcofaghi, busti e il cofanetto di Teodorico A Venezia si svela un altro volto dei Barbari
di Paolo Conti


Un viaggio attraverso la mescolanza di culti e di tradizioni. Il curatore Aillagon: «L'esposizione vuole superare i luoghi comuni. E far riflettere sulla situazione odierna del nostro Continente»

Palazzo Grassi è certamente un punto di riferimento per l'arte contemporanea. Ma nello stesso tempo siamo tutti convinti che l'arte contemporanea abbia bisogno della storia, del passato, delle civiltà precedenti. Strumenti essenziali per comprendere il mondo che ci circonda». Monique Veaute, nuovo direttore e amministratore delegato di palazzo Grassi, debutta a Venezia senza il multicolore universo della straordinaria collezione contemporanea di François Pinault, presidente-padrone dell'istituzione culturale privata. Ovvero della carta da visita più nota al grande pubblico internazionale.
Stavolta la scommessa si chiama «Roma e i Barbari- La nascita di un nuovo mondo». Nella sua sobria solennità, il titolo rimanda alla tradizione di palazzo Grassi tracciata nella stagione Fiat: i Fenici, i Celti, gli Etruschi, i Faraoni che si alternavano a Balthus, Warhol, al Futurismo e a Picasso. Ancora Monique Veaute: «Il legame con quel retaggio è molto forte. E ciò dimostra come Pinault non abbia come interesse unico la propria collezione ma intenda seguire un discorso culturale più ampio e articolato».
Dunque, Roma e i Barbari. Il curatore della mostra Jean-Jacques Aillagon, ex direttore di palazzo Grassi e ora presidente della fondazione del castello di Versailles, ha detto giorni fa: «La nostra esposizione deve superare le due caricature». Ovvero le caricature semplificatrici di una nobile civiltà distrutta da un'orda di devastatori. C'è da raccontare, invece, come e perché proprio nel binomio Roma-Barbari affondino le radici dell'Europa. Con un rinvio all'oggi, alla cronaca più viva e spesso dolorosa della contemporaneità: la migrazione e la fusione etnica e culturale tra i popoli, un fenomeno (oggi come allora) fatto di forti e reciproche curiosità e di altrettanto forti ostilità. La mostra è già ricca sulla carta: mille anni di storia raccontata (la cronologia parte dalla sottomissione della Gallia da parte di Cesare tra il 58 e il 51 avanti Cristo e si conclude con l'incoronazione di Ottone I nel 962 quindi con la nascita del Sacro romano impero germanico) e 1.700 pezzi esposti provenienti da 24 Paesi, prestati da 200 tra musei ed esposizioni.
Scrive nell'introduzione Aillagon: «Il continente europeo troppo spesso celebra le radici greche, romane ed ebraico- cristiane dimenticando le proprie origini barbare peraltro così potenti e determinanti. La mostra invita a riflettere sulla situazione attuale dell'Europa, spazio politico e culturale che ha dominato il mondo o ha tentato di dominarlo, e che oggi si confronta con l'esigenza di imparare a convivere con un numero sempre più consistente di donne e uomini provenienti da altre parti del mondo».
Riecco il parallelo ieri-oggi. Così come Roma rappresentò un modello politico e di civiltà, anche nella vita quotidiana, oggi l'Europa incarna un riferimento universale di organizzazione e qualità della vita pubblica e privata. E così come i Barbari modificarono per sempre Roma con la loro cultura, anche oggi il fenomeno delle migrazioni sta regalando un volto definitivamente nuovo al Vecchio Continente: quello di una inedita ed eterogenea civiltà. L'arte può aiutarci a capire, scrive François Pinault: «Questo periodo complesso, segnato dall'incontro tra civiltà, dall'apertura, dalla mescolanza di culti e tradizioni, dalla diffusione delle conoscenze, dall'arricchimento reciproco e dalla diversità culturale, testimonia la forza senza tempo e universale dell'arte che trae origine nella notte dei tempi, prolungandosi nelle creazioni più contemporanee ». Tre i gioielli principali. Il sarcofago Ludovisi, prestato dal Museo nazionale romano di palazzo Altemps. Poi il busto di Marco Aurelio di Avenches (più di un chilo e mezzo d'oro a 22 carati): il suo immenso valore non sta solo nell'oro, si tratta di uno dei rari busti imperiali in metallo scampati alla fusione. E il Missorium d'argento (piatto d'Achille o piatto di Scipione) prestato dalla Bibliothèque Nationale de France e pesante più di dieci chilogrammi. È uno dei pezzi di argenteria antica di dimensioni maggiori arrivati fino a noi: ritrovato nel Rodano nel 1656, fu donato a Luigi XIV per il suo gabinetto delle Antichità. Ma bisogna citare anche il cofanetto di Teodorico che per la prima volta in 1400 anni lascerà l'abbazia di Saint-Maurice in Svizzera per raggiungere Venezia.
Altri arrivi sono considerati patrimoni nazionali nei Paesi che li prestano: per esempio il tesoro di Beja in Portogallo, l'evangelario di Notger in Belgio, il tesoro di Childerico conservato alla Biblioteca nazionale francese di Parigi. E, visto che una mostra aumenta di valore nel momento in cui presenta inediti e materiali nuovi, si segnalano debutti in un contesto espositivo di recenti scoperte: è il caso del tesoro della tomba della dama di Grez-Doiceau di Namur. Dopo Roma e i Barbari, palazzo Grassi pensa al progetto di punta della Dogana, del nuovo-antico spazio espositivo conquistato da Pinault. Lì si farà il punto su altre contaminazioni culturali. Quelle che concimano le idee del Terzo millennio e insieme attivano uno dei mercati più ricchi e intriganti della globalizzazione. Ovvero l'arte contemporanea.

il Riformista 23.1.08
Dopo Prodi Prc diviso tra elezioni e governo istituzionale
Fausto sfata l'ultimo tabù, i suoi frenano
di Alessandro De Angelis


Da un lato c'è Fausto Bertinotti che (non da ieri) pensa al dopo Prodi. Dall'altro c'è una buona parte del suo partito che (non da ieri) dallo schema dell'Unione non vuole uscire. E Rifondazione, finché non ci sarà l'evidenza dei numeri, si mette in attesa degli eventi. Ma, a quanto pare, il suo gruppo dirigente ancora non considera politicamente chiusa questa esperienza di governo. O meglio, anche se lo pensa, non lo dice apertamente rinunciando a tracciare nuovi scenari. E, al contrario di Bertinotti, non nomina in relazione al governo la parola «crisi», che, nei fatti, si aperta con l'uscita di Mastella dalla maggioranza. L'ultimo tabù del Prc ha oggi un solo nome: governo istituzionale. Bertinotti lo ha superato, i suoi meno, anzi per niente.
Il quadro di ieri, e non solo di ieri, è quello del grande disordine sotto il cielo, ma di cose eccellenti, per Rifondazione e per Prodi, proprio non se ne vedono. Per non parlare della Cosa rossa (a proposito: che fine ha fatto?) che si percepisce solo quando si divide. In questo contesto, in un'intervista alla Stampa alla vigilia dell'intervento di Prodi alla Camera, Bertinotti ha messo i suoi paletti. E, parlando apertamente di «crisi di governo», ha sbattuto la notizia (e la politica) sul tavolo: per lui il governo istituzionale non sarebbe un'ipotesi da respingere, anzi. E questa ipotesi non tradirebbe, a suo giudizio, nemmeno l'impostazione classica del suo partito (il primato del sociale sul politico). Ecco sfatato l'ultimo tabù, il governo istituzionale appunto. Dice Bertinotti: «Il Parlamento soffre di una specie di separatezza col paese. La soluzione non può essere che l'avvio di una puntuale risposta, con grandi riforme che sblocchino il sistema politico-istituzionale». E ha aggiunto: «Vorrei sottolineare che la riforma della legge elettorale, le modifiche costituzionali e dei regolamenti parlamentari non sono una deviazione dai grandi temi sociali ma il modo per poter affrontare e risolvere quei problemi». Messaggio, più o meno esplicito: un governo per le riforme non significherebbe rinunciare alla propria missione. Rispetto all'impostazione del grosso del suo partito la differenza di impostazione è palpabile: «Di fronte ai messaggi inquietanti che vengono dai palazzi della politica è essenziale per noi disinvestire dal governo e tornare a investire nel progetto di una alternativa di società…» aveva detto il segretario del Prc a Liberazione in un'intervista dal taglio molto social . Opposta l'impostazione dei bertinottiani puri. Afferma Alfonso Gianni, vicinissimo al presidente della Camera: «È arrivato il momento di farsi carico delle proprie responsabilità di fronte al paese. Serve un governo di transizione che affronti il tema della legge elettorale».
La linea attorno a cui si è attestato Giordano al termine della segreteria di ieri sembra, per ora, diversa rispetto a quella del presidente della Camera: «Noi non chiediamo elezioni anticipate e nemmeno disegniamo altri scenari», ha detto al termine della riunione. Tradotto: per ora dobbiamo provare a tirare a campare con Prodi, finché dura. E fino a che Prodi dura, l'ipotesi di governo istituzionale non è all'ordine del giorno. Anche altri pezzi di Rifondazione si sono attestati su questa posizione. Ferrero su tutti, che prima della segreteria aveva tagliato corto: «Io non vedo le condizioni per un governo istituzionale. Non capisco chi lo sosterrebbe». E se Prodi non dura? Il pendolo del "né né" («né elezioni né governo istituzionale») sembra, per ora, pendere più dalla parte delle elezioni. Il ragionamento che si fa in via del Policlinico suona più o meno così: innanzi tutto bisogna vedere come va giovedì al Senato; e fino a giovedì ci attestiamo sulla linea delle elezioni per puntellare, dal nostro punto di vista, Prodi. Tra l'altro tutta la Cosa rossa è contraria al governo istituzionale, quindi meglio non produrre ulteriori fibrillazioni in un'alleanza che rischia di saltare da un momento all'altro. Ma soprattutto, dicono a Rifondazione, l'idea di un governo istituzionale per l'elettorato rosso è indigeribile, dal momento che il popolo della sinistra-sinistra in un governo con pezzi di centrodestra vedrebbe un tradimento vero e proprio. A ciò si aggiunga un'altra considerazione: ammesso che si riesca a fare un governo per la legge elettorale, questo stesso governo che colore avrebbe sul resto? Riuscirebbe a realizzare quei punti del programma dell'Unione che Rifondazione sta provando a difendere in ogni modo (dalla Amato-Ferrero alla questione dei salari)? Fin qui la pretattica in vista della prova del fuoco di giovedì. Ma al fondo del "né né" c'è anche un'altra considerazione. Il porcellum non è, vista dal Prc, una cattiva legge per prendere voti, nel senso che si tratta pur sempre di una legge proporzionale. Quello che non va - e non è un dettaglio - sono le alleanze coatte che costringe a fare. Prima di aprire al governo istituzionale, dicono, occorre dunque cautela. Ma, paradossalmente ma non troppo, è proprio sulla questione del bipolarismo coatto che molti danno ragione a Fausto. E giovedì sera potrebbe cambiare musica. Anche sull'ultimo tabù.

il Riformista 23.1.08
Nei rapporti tra i Democrat e il Vaticano
Veltroni è in linea con la tradizione del Pci
di Giambattista Scirè


Caro direttore, premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere.
Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.

Liberazione 23.1.08
A 92 anni se ne va Arrigo Boldrini, capo della Resistenza
E' morto "Bulow". Inventò la guerra partigiana di pianura
di Aldo Tortorella


Arrigo Boldrini l'uomo del popolo della Resistenza
Simbolo e testimonianza della lotta di Liberazione durante e dopo
Il suo capolavoro fu politico e umano: la guerra partigiana di pianura

Per molto tempo, ormai più di mezzo secolo, il nome di Arrigo Boldrini è stato più di ogni altro simbolo e testimonianza della Resistenza italiana e, in particolare, della sua capacità militare. Certo, Boldrini è stato un grande comandante partigiano in una guerra spietata. Ma il suo capolavoro fu politico e umano prima che militare. Egli fu l'inventore di qualcosa che non si era mai visto prima: la guerra partigiana di pianura. Questa non fu la scoperta di uno stratega addottrinato in qualche accademia militare, ma di un uomo del popolo, cresciuto a quella speciale scuola che fu, prima sotto il fascismo e poi nella lotta aperta contro i nazisti e i loro servitori nostrani l'organizzazione del partito comunista italiano. Una scuola politica, non militare. Coloro di noi, allora giovani o adolescenti, che, animati dalla volontà di combattere il fascismo, incontrarono i comunisti ne ebbero anche lezioni pratiche per affrontare i rischi della clandestinità; ma il primo vero grande insegnamento fu quello di legarsi al popolo, di averne fiducia, di poggiare sulla volontà di riscatto che animava tante e tanti, dopo anni di tirannide e dopo una guerra che aveva procurato rovine e lutti indicibili. E questo fu il capolavoro di Boldrini.
In pianura non c'erano ripari naturali, asprezze e segreti della montagna che potessero fornire a chi la conoscesse un qualche vantaggio sulle organizzate e potenti forze nemiche. Ma c'era qualcosa di diverso e di più importante. C'erano le cascine con le braccianti, le contadine e quegli uomini che per età non erano stati chiamati alla guerra o alla guerra non avevano voluto tornare dopo l'8 settembre. C'era un popolo di antica tradizione socialista e repubblicana di credenti e di non credenti che aveva visto i fascisti vincere con la violenza, con gli incendi delle camere del lavoro, con l'assalto alle organizzazioni popolari, garantendo così il dominio padronale ed esercitando un potere arbitrario sfociato nella guerra.
E fu questo popolo che Boldrini e tanti altri con lui in Romagna e in Emilia seppero mobilitare compiendo anche azioni militarmente rilevanti, avvicinando la vittoria, infliggendo severe lezioni agli occupanti e ai loro subalterni fascisti.
Qualche storico volle polemizzare contro la Resistenza restringendola alla impresa di poche decine di migliaia di persone. Costoro non vedevano o non volevano vedere che quei partigiani combattenti non avrebbero potuto far nulla e sarebbero stati spazzati via in un lampo se si fosse trattato di una isolata esperienza militare: poiché, nella clandestinità, senza armi, senza mezzi, senza quei complessi supporti che reggono le truppe regolari ci sarebbe stato poco da fare. Ma c'era altro.
C'era che i partigiani sommariamente armati in Romagna, in Emilia e in tanta parte dell'Italia del Nord occupata in quella fine del 1943 e fino alla primavera del '45, erano come immersi in una straordinaria solidarietà popolare che li sosteneva materialmente e moralmente, che li confermava nella loro lotta e li sorreggeva nei momenti duri delle sconfitte e del sacrificio.
A questa impresa Boldrini restò fedele come massimo dirigente dell'Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani e come dirigente del Pci. Ai partigiani di una volta insegnò non a praticare la nostalgia dei reduci, ma a vivere nell'Italia rinnovata quei valori di libertà e di eguaglianza, di giustizia e di fraternità umana che stavano a fondamento della Resistenza. E, come dirigente comunista, membro del Comitato centrale del Pci, eletto in Parlamento, seppe continuare egli stesso nella lotta per quelle idealità in nome delle quali si era battuto insieme con tante e tanti della sua terra.
E a compagni come Boldrini, alla loro capacità di lettura della realtà e di comunanza profonda con i lavoratori e con il popolo che il Pci dovette i suoi successi. Non c'è futuro se ci si allontana da coloro che hanno bisogno di una lotta vera per i propri diritti. Non dimenticherò il suo abbraccio quando le nostre strade si divisero. E sono certo che la sua antica lezione non sarà dimenticata.

Liberazione 23.1.08
Il filosofo della politica. «E' in crisi il modello di società»
Tronti: «Sinistra, non temere di dichiararti minoranza»
di Angela Azzaro


Intervista all'intellettuale sulla crisi della politica e del governo. E sulle scelte strategiche: «Dobbiamo essere dove c'è il conflitto»

«La crisi di governo? Vediamo come si conclude ma sinceramente non sprecherei molto tempo nell'analizzarla, anche perché c'è poco da capire. Il punto per la Sinistra è avere il coraggio di presentarsi come tale senza avere paura di essere minoritari». Mario Tronti, padre dell'operaismo e ancora oggi figura intellettuale di spicco, non ci sta a una visuale troppo ristretta. Pensa in grande e in maniera complessiva al futuro. Al nostro futuro. Facendo una proposta che riporta al centro il conflitto, il lavoro, i diritti civili, l'egemonia di una cultura che non abbia paura a essere radicale.
Su quanto scritto ieri da Liberazione sulla crisi di questi giorni precisa: «Non credo che si possa parlare di questione morale, ma di una crisi della politica che è direttamente legata alla crisi della società. Non ci sono politici viziosi e cittadini virtuosi. In realtà è la società che è malata».

Dire minoritari è un modo per indicare che, per il processo a sinistra, è importante uscire dall'esperienza di governo?
Non starei all'immediato. Dobbiamo pensare a questi problemi in maniera strategica. Penso che una Sinistra, che voglia diventare maggioritaria, sia costretta a presentarsi come se non lo fosse. E' la strada che ha portato alla nascita del Pd: cioè la verifica realistica che se si vuole diventare maggioranza per arrivare al governo, ci si deve proporre con altre bandiere e altri nomi. Noi ci dobbiamo chiedere se ci convenga farlo o non sia più produttivo, per stare dalla parte degli interessi che difendiamo, presentarci per quello che siamo e esercitare il conflitto. Si può anche stare in una coalizione di governo avendo una forte caratterizzazione come è stato fatto. Ma la mia impressione è che queste esperienze vadano ad esaurirsi. Secondo me è arrivato il momento non solo di essere, ma anche di sentirsi minoranza.

Non si rischia però di diventare minoritari, cioè di non riuscire più a incidere nella politica e nella società?
E' proprio quello che si deve evitare. Si deve avere la forza di fare un grande discorso strategico, capace di esercitare egemonia, elaborazione culturale, per proporre nuovi modelli sociali che incidano nella vita del Paese e delle istituzioni. Serve una nuova cultura politica, un progetto in grado di mettere in difficoltà le altre posizioni politiche che hanno la loro debolezza nell'elaborazione. Per fare questo è necessario non cadere nei particolarismi, nei settarismi, ma avere l'ambizione di possedere intellettualmente il mondo e non solo il nostro Paese. E' nel mondo che si gioca oggi la grande partita per il futuro.

Facciamo un passo indietro, alla Costituzione che il primo gennaio ha festeggiato i 60 anni dall'entrata in vigore. Anche per le cose dette finora, secondo lei è una Carta obsoleta o rispetto al clima politico attuale è ancora elemento propulsivo e di garanzia?
La Carta va da una parte, la politica va dall'altra. Sono due percorsi divaricati. La politica è spesso in controtendenza rispetto ai valori, alla prospettiva e agli ideali espressi sessanta anni fa dai nostri costituenti. Ancora oggi, dopo molti anni, risalta la temperie politica in cui la Costituzione fu scritta. Si usciva dalla guerra, c'erano stati l'antifascismo e la Resistenza. Bisogna dare atto alla classe politica che la ha redatta di avere avuto una grande lungimiranza. Soprattutto i primi dodici articoli sono ancora oggi validi, a cominciare dall'enunciazione che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

E' un baluardo anche contro l'invadenza della Chiesa nei confronti dello Stato? "Liberazione" ma anche "il manifesto" interpretano la crisi di governo come una implosione voluta dal Vaticano.
Non sempre le mie idee coincidono con gli organi della sinistra radicale. Tornando alla Carta, penso che Togliatti fece bene a introdurre l'articolo 7 che chiariva i rapporti tra Stato e Chiesa, ognuno sovrano nel suo territorio, ma che non poneva la questione cattolica come tale. Oggi secondo me si sbaglia in questa contrapposizione tra laici e cattolici che sa un po' di cultura ottocentesca. Vorrei parlare d'altro, di questioni più importanti per la vita delle persone, persone vere.

Ma l'ingerenza della Chiesa sta avendo una ricaduta reale sulla vita di tanti e tante. Pensi solo a quanti, tra donne, gay, lesbiche e trans, si vedono negare diritti fondamentali.
Nella Costituzione questi diritti non compaiono. Non sono uno di quelli che è convinto che la Carta non vada toccata, che sia immodificabile. Bisogna intervenire non tanto nell'impianto, quanto nella parte ordinamentale inserendo i diritti civili nuovi. Se si trovassero direttamente scritti nella Costituzione sarebbe più facile ottenerli e difenderli dagli attacchi. La condizione e la coscienza collettiva cambiano e la classe politica deve essere in grado di cogliere le nuove esigenze e se è necessario anche di intervenire sulla Carta.

Molti commentatori politici leggono in questi giorni il riaffiorare di una questione morale che sta travolgendo il Paese. E' l'estrema conseguenza della crisi della rappresentanza?
Credo che vada messa al centro la crisi della politica. E' questo il punto vero. Si tratta di una crisi reale, strisciante, iniziata da molto tempo, che sembrava legata alla fine della Prima Repubblica e che, invece, ha attraversato la cosiddetta Seconda Repubblica per arrivare fino al Duemila, andando via via aggravandosi. Ma non perché ci sia una questione morale, ma perché c'è una crisi più di fondo della politica. Non credo, infatti, come si dice spesso, che ci sia uno scollamento tra politica e società. Politica e società si somigliano. La crisi della politica nasce dentro questa società: una società disgregata come racconta anche l'ultimo rapporto del Censis. Una società malata, atomizzata, particolarizzata. E' una società malata che produce una politica malata. Non ci sono elettori virtuosi e politici viziosi, il vizio consiste in una forma sociale che ha perduto il senso di un rapporto vero, solidale. Ognuno fa i fatti suoi, difende il proprio "corpo", i propri interessi, la propria famiglia, il proprio gruppo.

Per uscire da questa crisi da dove iniziare: dalla politica o dalla società?
Si deve mettere in discussione il modello sociale. E' un problema che riguarda tutti i Paesi, non solo l'Italia, ma altrove le regole sono migliori e le contraddizioni emergono con minore evidenza. Quando parlo di corpi, penso anche ai corpi dello Stato: alla magistratura, alle università, ma anche alle imprese che continuano a chiedere soldi al governo per esistere. Se questi sono i corpi, è urgente trovare in fretta degli anticorpi iniziando a denunciare questo tipo di società per pensare un nuovo modello.

Il movimento dei movimenti ci ha provato. In molti ci provano ancora nella società civile.
Hanno tentato e dobbiamo essere loro grati. Ma il movimento da solo non basta. Ci vuole la politica.

Una posizione che lei sosteneva negli anni Settanta. Non ha cambiato idea?
Per mettere in discussione il modello sociale, ci vuole una forte potenza politica. E' un passaggio che non si può saltare. Non bastano i simboli, le manifestazioni, le contestazioni senza una forza politica che organizzi le lotte e faccia perno su un conflitto duraturo, non effimero, quotidiano, capace di creare coscienza collettiva, militanza. E' probabile che la forma storica che si chiama partito non sia più adatta a svolgere questa funzione. La politica va cambiata, ma è comunque necessaria.

Dalla crisi della politica alla crisi della Sinistra. Come uscirne?
La Sinistra va ricostruita, anzi costruita. Il modello basato sul rapporto tra classe, partito, sindacato - che abbiamo ereditato dal movimento operaio - è saltato, non funziona più. Si deve ripartire da una fondazione culturale, da una nuova cultura politica adatta a questa forma sociale disgregata, capace di ricomporla e di darle le risposte che cerca. Una sinistra che riporti al centro la figura del lavoratore. Non il lavoratore che conoscevamo. Ma quello della società post industriale. Un lavoratore che ha tante facce, tante richieste che vanno interpretate e rappresentate. Serve insomma un'idea molto forte di Sinistra. Il concetto di per sé è debole e va rafforzato con il pensiero politico. Ma se si dice Sinistra arcobaleno, al contrario, la si indebolisce, non aiuta a capire le cose. Non serve colorare di molti colori una Sinistra che ne dovrebbe avere uno solo. Il rosso.

Lei dice: bisogna portare al centro il lavoro. Le femministe rispondono: finché la cultura principale della Sinistra resta quella lavorista e non si apre al conflitto uomo-donna e al tema dei diritti civili non va da nessuna parte.
Il tema del lavoro lo considero centrale ma non esclusivo. Lo si deve riportare al centro, perché è stato messo ai margini. Ma la Sinistra deve essere in ogni posto dove si agisce un conflitto. Questo vale per l'ambiente: il mondo del profitto non ha certo sensibilità ecologica. Per questa ragione oggi la questione ambientale è secondo me questione sociale di grande importanza. Ma lo sono ancora di più i diritti civili e in particolare il conflitto uomo-donna che non rientra nella questioni dei diritti, ma pone una domanda molto più di fondo, strategica per il futuro di tutti noi. Si è affermato, ad oggi, un paradigma emancipatorio che sta dentro la storia della borghesia moderna, ma non ha certo vinto il progetto liberatorio proprio della differenza. Ci sono battaglie da fare. La Sinistra deve essere il soggetto che le fa. Che non significa fare propria una politica delle quote, una logica che rientra nei marchingegni democraticisti. Così i problemi vengono nascosti, mentre a noi interessa falli esplodere. E' il grande tema delle libertà, a partire dalla libertà femminile.

Liberazione 23.1.08
La crisi di governo rischia di uccidere la politica
Attenti al paese che ci guarda
di Piero Sansonetti


Di questa crisi ci sono molte cose che non si capiscono e c'è una cosa che è chiarissima. Non si capisce chi l'ha aperta e perché (nessuno crede all'ipotesi che Mastella abbia agito da solo). Non si capisce quale sia il disegno di chi l'ha aperta. Non si capisce come possa concludersi
né quali siano i calcoli di Prodi. Non si capisce la posizione del partito Democratico. Non si capisce quale sia il progetto del Vaticano (vero e proprio e ormai dichiarato terzo polo dello schieramento politico parlamentare italiano). Non si capisce nemmeno cosa davvero vogliano i partiti che - per tattica o per opportunità - non dichiarano mai quello che pensano davvero (elezioni? Salvataggio di Prodi? Governo tecnico o istituzionale?).
Qual è invece la cosa chiarissima? Che questa crisi può portare ad una frattura definitiva tra la maggioranza degli italiani e la politica. E le conseguenze sarebbero molte, a partire dalla "morte della politica". Morte della politica vuol dire sostanzialmente scioglimento del meccanismo democratico, trasferimento di tutti i poteri alle grandi potenze esterne al popolo e alla democrazia, vuol dire rischio mortale per lo stato di diritto, per l'impianto dello stato sociale, per le strutture fondamentali che regolano oggi la convivenza civile, e garantiscono, seppure in forme blande, i più deboli, i più poveri.
Morte della politica vuol dire vittoria totale del capitalismo "feroce", vuol dire che il mercato e i padroni del mercato decideranno su ogni singolo minuto delle nostre vite, non ci lasceranno scelta, non ci lasceranno idee. Morte della politica vuol dire ridimensionamento delle libertà, cioè riduzione della libertà ad un diritto direttamente proporzionale alla ricchezza di ciascuno, e quindi alla negazione di se stessa.
Non sono esagerazioni. E' lo scenario che abbiamo davanti. E per cambiarlo abbiamo bisogno di una specie di rivoluzione. Che tipo di rivoluzione? Beh, diciamo così: avete presente il mastellismo, cioè l'idea che il potere politico sia il sale della vita e che chi lo detiene abbia il diritto di giocarselo come vuole e di dividerne le briciole con chi vuole e di invadere tutte le pieghe e le pieghette più nascoste della società e della vita civile, e dominarle, e dettare lì, ovunque, la propria legge? Ecco la rivoluzione della quale abbiamo bisogno è l'opposto del mastellismo. Bisogna prendere l'idea di politica che ha Mastella e rovesciarla completamente. E quindi bisogna che la politica faccia autocritica, faccia un passo indietro, accetti il ridimensionamento delle proprie aree di intervento, dei privilegi, dei diritti acquisiti, e torni invece a riprendersi i suoi compiti naturali: il governo e la distribuziuoine delle ricchezze, dei diritti, delle solidarietà. Solo così la politica può tornare ad "allearsi" col popolo e quindi a rilegittimarsi.
Credo che la sinistra o affronta da questo punto di vista la crisi di governo o è travolta. La crisi di governo e la crisi della politica per la prima volta coincidono pienamente. La crisi formalmente è stata aperta da una palese e clamorosa dichiarazione di "prepotenza" rilasciata da uno dei partiti (il più piccolo) della coalizione di governo. Che pretendeva non solo il riconoscimento della propria incondizionata discrezionalità nell'esercizio del potere, ma pretendeva impunità e la dichiarazione di complicità da parte di tutti i partiti della maggioranza. Questo pone la politica non in contrasto ma in contrapposizione completa con la società, con il "popolo" senza potere. La pone in una condizione di "inimicizia" proclamata: «Tu sei il popolo e io sono il potere, io ho il compito di dominarti». Questa idea mastelliana, se vince, completa la trasformazione della politica in attività non più democratica. La ingessa dentro un patto nel quale la politica rinuncia alla propria autonomia nei confronti dei grandi poteri esterni alla democrazia (l'economia, la religione...) e in cambio ottiene una sorta di delega amministrativa che le permette di sfuggire al controllo di massa e al dettato della morale.
Non è contro questo rischio che deve concentrarsi la parte essenziale della capacità di lotta della sinistra? Non è questo il cuore dello scontro che è aperto e che sarà decisivo per il futuro di questo paese, più ancora di quanto sarà decisiva la composizione del futuro governo?

Il Sole-24Ore 23.1.08
Lombardia, tempi ridotti all’aborto terapeutico


Sull’aborto terapeutico la Lombardia interviene in anticipo, facendo da battistrada all’attuazione innovativa della legge 194 (tutela della maternità e interruzione volontaria della gravidanza); non sarà più possibile dopo la ventiduesima settimana e tre giorni, a meno che le condizioni del feto siano incompatibili con la vita. E’ questo lo scopo dell’atto di indirizzo varato ieri mattina dal Pirellone. Due in particolare le iniziative: il potenziamento delle attività preventive e di accoglienza effettuate da Asl, consultori e servizi di ostetricia e ginecologia, su cui la giunta ha stanziato 8 milioni di risorse aggiuntive, passandosi dai 56 attuali a 64, con un aumento del 14%. E, come detto, l’individuazione del termine ultimo per le interruzioni volontarie di gravidanza (di cui all’art. 6b della legge 194, il cosiddetto aborto terapeutico) fissano non oltre la ventiduesima settimana più tre giorni, salvo eccezioni. “Non è una sfida al governo, seguiamo il progresso con pragmatismo” ha spiegato Roberto Formigoni. E nemmeno per il Pirellone c’ è contraddizione con l’adesione alla moratoria sull’aborto lanciata da Giuliano Ferrara. “La nostra è un’iniziativa basata su evidenze mediche. Quella di Ferrara è un’intelligenza richiesta a riflettere”. La posizione del Pirellone è dunque positiva perché “evita lo scontro a livello ideologico che infuria a livello nazionale”, apre il consigliere regionale Pd Carlo Porcari. “Riconosce la 194, potenzia i consultori, procede per linee di indirizzo, anticipando di fatto il parere del Consiglio superiore della sanità, invece che per linee guida che spettano al Parlamento”. Un passaggio che anche le donne del Pd lombardo in fondo riconoscono, pur segnalando l’incoerenza del Pirellone: “Formigoni, dopo anni di smantellamento dei consultori, ha finalmente dichiarato di volerli rilanciare con interventi consistenti. Se non avesse dato la sua tempestiva adesione alla moratoria sull’aborto, queste linee di indirizzo avrebbero rappresentato la volontà di applicare pienamente la 194. A questo punto chiediamo, di fronte ad una riduzione dei termini che si potenzino i centri diagnostici, perché tutte le donne possano effettuare gli esami prenatali più avanzati”. Firmato Maria Grazia Fabrizio, Ardesia Oriani e Sara Valmaggi.
Al netto del gioco delle parti, c’è un’implicita convergenza, sulla scia delle indicazioni del segretario pd Veltroni e del Ministro della Salute Turco. Come testimonia il forte apprezzamento al provvedimento di Alessandra Kustermann, responsabile del Sevizio diagnosi prenatale della Mangiagalli nonché presidente del comitato lombardo per Veltroni alle primarie Pd e membro autorevole della Costituente nazionale. “Oggi – spiega – è stato compiuto un passo avanti verso la piena attuazione della 194. In particolare dell’articolo 1 dove si dice che la vita va tutelata fin dal suo inizio”. Per il Vaticano l’aborto è e rimane un crimine, ha puntualizzato il presidente della Cei, Angelo Bagnasco. “In questo momento storico si auspica realisticamente almeno l’applicazione più incisiva di quelle parti della legge che tutelano la maternità e inoltre che si prendano in considerazione i risultati della ricerca scientifica sulla sopravvivenza del feto”.

il manifesto 23.1.08
Boldrini, il nostro generale «Bulow»
È morto Arrigo Boldrini, protagonista della Liberazione dal nazifascismo
Riassumeva in sé il mondo resistenziale. Era il capo laico di quell'«altra Repubblica», quella dei partigiani, con un forte ruolo di istituzionalità ufficiale, così come Giovanni Pesce, morto pochi mesi fa, ne costituiva una specie di alter ego militante ed extra-istituzionale
di Angelo d'Orsi


Lo incontrai una volta, Arrigo Boldrini, a un raduno della Federazione Internazionale dei Resistenti alla guerra. Era un uomo importante, in quel contesto; e fece una grande impressione, a me, che ero un ragazzo aspirante «giornalista-militante». Scambiammo qualche parola. Ero troppo giovane e inesperto di tutto per essere a mio agio, ma lui fu cordiale, pur in un'attitudine, che a me, pareva severa: era già un monumento vivente.
Il suo nome, all'epoca, risuonava, tra aule parlamentari, agenzie di stampa, e, naturalmente, di tanto in tanto, sull'Unità, l'organo di quello che fu sempre il suo partito. Partecipava a tutte le cerimonie pubbliche: tutte quelle che meritavano. Era, in buona sostanza, una sorta di Presidente della Repubblica ombra: quella Repubblica dei Partigiani, dei Resistenti e degli Antifascisti che non ha mai goduto buona stampa, nella Repubblica istituzionale, che pure nacque soprattutto grazie a loro: prima delle volgarità e delle bestialità mercantili dei Pansa di turno, che ripropongono diuturnamente, rivedute e corrette, le infamie dei «nostalgici» alla Pisanò, c'erano state le persecuzioni giudiziarie ai partigiani, l'emarginazione sociale di chi pareva aver fatto parte o sostenuto i banditen, e, dunque, nel maccartismo all'italiana, varie forme persecutorie verso tutti coloro che militavano o simpatizzavano con i «socialcomunisti», come allora si diceva.
Un mondo nella sua biografia
Un uomo come Boldrini rappresentava il capo laico di quell'altra Repubblica, con un forte ruolo di istituzionalità ufficiale; così come Giovanni Pesce, morto solo alcuni mesi prima di lui (che abbiamo commemorato su queste stesse colonne), ne costituiva una specie di alter ego militante ed extra-istituzionale. Erano la faccia politica, l'uno; militare, l'altro, della Resistenza. Il partigiano-politico Boldrini, che sapeva riassumere in sé, nella sua biografia e nelle sue doti personali, l'intero mondo resistenziale; e il guerrigliero romantico Pesce, che fu sino alla fine un giapponese pronto a continuare la battaglia nella giungla, fedele agli ideali sui quali, peraltro, anche Bulow, il comandante Boldrini, era rimasto fermo. Ma erano personalità diverse, che nella storia della lotta e in quella del dopoguerra avevano assunto fisionomie pubbliche e ruoli diversi. Accomunati, allora dagli ideali antifascisti, e comunisti; ora, a fine luglio scorso Pesce, in questa fine gennaio Boldrini, dalle loro uscite di scena, senza clamori. Chi può dare soverchio spazio a Boldrini (al di là delle frasi di circostanza, che stanno inondando le agenzie), davanti alle ultime news su Mastella e Cuffaro?
Eppure, Arrigo Boldrini, classe Grande guerra (era nato a Ravenna il 6 settembre 1915) è stato un autentico padre della patria. Nemmeno per lui, come già per Giovanni Pesce, si trovò un capo dello Stato disposto a riconoscergli con il laticlavio, quei meriti speciali che danno diritto ad entrare tra i senatori a vita: ma abbiamo avuto, in compenso, Andreotti, Colombo, Cossiga, e, per onorare la famosa «società civile», l'industriale Pininfarina. Ma lui quei meriti li aveva. E, quasi a confermare quello che potrebbe sembrare un cliché - in realtà, a onorare una professione di vita che non ha bisogno di tamburi né trombe (e men che meno, tromboni) -, il comandante Bulow, fu uomo che unì al massimo della presenza, il minimo del presenzialismo.
Passò alla storia come liberatore di Ravenna, la sua città - dove ieri è morto, in ospedale, dopo alcuni giorni di ricovero - era un figlio autentico della «generosa terra di Romagna». Di tradizione socialista, e internazionalista, fu un ribelle fin dalle prime esperienze scolastiche: espulso dal collegio della Scuola Agraria di Cesena, avendo poi acciuffato il diploma di perito agrario, fece regolarmente il servizio militare, come allievo ufficiale. E si trovò un modesto impiego nello zuccherificio Eridania, e poi a Napoli, in un centro per la lavorazione dei cereali. A Napoli, il che può apparire bizzarro per un romagnolo di tradizione rossa, entrato in rapporti di amicizia con Libero Bovio, semidimenticato poeta dialettale di grande valore, fu posto finalmente a contatto con ambienti antifascisti. Ma i tempi della lotta dovettero aspettare. Fu il richiamo alle armi (ne aveva avuto già uno, in precedenza), destinazione Jugoslavia e Albania, la sua guerra: una delle guerre più sporche degli italiani, che spiega in larga parte la questione foibe. Mentre era ospedalizzato, a Bari, convalescente, fu raggiunto dalla notizia della fatal notte del 25 Luglio '43: Mussolini arrestato per volere del Re (suo «cugino», che l'aveva onorato del «collare dell'Annunziata», massima onorificenza sabauda!), le sue statue che cominciavano ad essere abbattute, i fascisti volatilizzati, la Milizia per la Sicurezza dello Stato come se non fosse mai esistita... E, mentre il re cincischiava, e Badoglio assumeva la carica che era stata per vent'anni di Benito Mussolini, l'esercito cominciava a sbandare, paurosamente, pericolosamente. Come avrebbe di lì a poco dimostrato, in modo clamoroso quanto drammatico, l'8 Settembre.
Da quel contadino che era, Arrigo tornò subito alle sue terre: iscritto, fin dall'agosto, al Pci, fu tra i primissimi a organizzare un gruppo di combattenti; scelto da uno che di guerra se ne intendeva, Luigi Longo, Boldrini seppe imporsi, in modo del tutto naturale, come un vero capo, nel senso gramsciano. Nasceva il comandante Bulow. La leggenda, che ha fatto scuola, vuole che il nome gli sia stato dato da un barbiere appassionato di storia, tale Michele Pascoli, che davanti a una lezione di tattica e strategia di Boldrini, lo avrebbe scherzosamente apostrofato con un «Ma chi sei, Bulow?», riferendosi al vincitore di Napoleone a Waterloo, il generale von Bulow. E lo stesso Pascoli (poi fucilato dai nazifascisti), avrebbe poi per così dire imposto quel nome di battaglia al compagno. Che se lo meritò tutto.
Quel rischio calcolato
Non si contano gli episodi di eroismo, ma non all'insegna della temerarietà, piuttosto del rischio calcolato, che ne facevano davvero un generale di corpo d'armata. Quell'armata di straccioni che liberò, pezzo dopo pezzo, l'Italia, senza aspettare, inerte, la liberazione da recalcitranti e sospettosi «Alleati», ma, quando possibile, collaborando con loro. Scrisse Gian Carlo Pajetta, di Boldrini, che non era il soldato che «ha compiuto un giorno un atto disperato, supremo di valore»; non l'ufficiale che «ha avuto una idea geniale in una battaglia decisiva». Era, Bulow, uno stratega e una guida di uomini: il «compagno che ha fatto giorno per giorno il suo lavoro, il suo dovere». Era davvero il partigiano idealtipico, destinato a radunare sbandati, a trasformarli in combattenti consapevoli, e a condurli non allo sbaraglio, ma nella piena coscienza del rischio, alla guerra di liberazione. Il gruppo di uomini che ebbe intorno fu eccezionale, e molti persero la vita, a cominciare da Mario Gordini, a cui poi fu intitolata la Brigata di Bulow. Eroi, di cui anche nelle cerimonie del 25 aprile in questo Paese di smemorati avveduti e di memorialisti opportunisti, si è persa pressoché ogni traccia.
«In» Roma e poi costituente
Non a caso toccò a lui, il comandante Bulow, guidare quella che fu la prima grande manifestazione in quella parte del territorio liberato dagli occupanti tedeschi e dai repubblichini. Nella Roma del febbraio '45, Bulow (che aveva ricevuto la medaglia d'oro dal comandante dell'VIII Armata, generale britannico McCreery, a Ravenna, pochi giorni prima), guidò uno straripante corteo che passò sotto il fatale balcone di Palazzo Venezia. Sfrattato il suo inquilino - che, a Salò, si fingeva pateticamente ancora come «il duce» degli italiani - quella marcia «in» Roma, volle cancellare la marcia «su» Roma di ventitre anni prima. Finita la guerra, Bulow ne rappresentò, come meglio non si sarebbe potuto, gli ideali e la continuità nella linea dell'antifascismo e per l'affermazione e la difesa della nuova legalità repubblicana, poi, dal 1948, certificata da una Costituzione alla cui stesura, come membro dell'Assemblea Costituente, egli prese parte. Così, mentre guidava degnamente l'Anpi (da presidente prima, e presidente onorario, prima di ritirarsi, negli ultimissimi anni, in un centro di ricovero, sempre nella sua terra), difese i valori, da deputato e da senatore, di quella Carta, che ancora oggi, mentre la celebriamo sui manifesti affissi per il 60°, è un documento ignoto ai più, e, quel che è peggio, «vecchio», e da mandare al macero, per molti esponenti del ceto politico. I quali fingono di non ricordare quel che tutti loro, e noi, a quel vecchio documento, nato dall'azione - culturale, politica e militare - di «vecchi» come Arrigo Boldrini, dobbiamo.

il manifesto 23.1.08
Quando una vittima sopravvive alla propria morte
Alle conseguenze psicologiche indotte dalla violenza «astratta», la filosofa Catherine Malabou ha dedicato un saggio, titolato «Les nouveaux blessés». In cui critica Freud per la sua ostinazione nella ricerca di un significato anche di fronte a traumi che sarebbero pienamente spiegabili ricorrendo alla natura dello shock subìto
di Slavoj Zizek


George Soros è senza dubbio un onesto filantropo la cui fondazione Open Society ha, tra le altre cose, salvato più o meno da sola il pensiero critico sociale nei paesi post-comunisti. Eppure, una decina di anni fa lo stesso Soros speculava sui diversi tassi di cambio delle valute, guadagnando centinaia di milioni di dollari e causando così sofferenze inaudite, specialmente in Asia sud-orientale: centinaia di migliaia di persone persero il lavoro, con tutte le conseguenze del caso. Ecco un esempio di odierna violenza «astratta», al suo grado più puro: da un lato, la speculazione finanziaria che procede nella sua propria sfera, senza che vi siano legami evidenti con la realtà delle vite umane; dal lato opposto, una catastrofe pseudo-naturale (la perdita improvvisa e inattesa del posto di lavoro) che travolge migliaia di persone come uno tsunami, senza una ragione apparente. La violenza di oggi è come un «giudizio infinito» speculativo hegeliano, che presuppone l'identità di questi due opposti.
Il limite della psicoanalisi
Alle conseguenze psicologiche dell'insorgere di nuove forme di violenza «astratta» è dedicato un saggio di Catherine Malabou titolato Les nouveaux blessés (I nuovo feriti). Il suo punto di partenza è il limite fatale della psicoanalisi: per Freud e Lacan, l'effetto traumatico di shock esterni, intrusioni o incontri inaspettati e brutali è dovuto al modo in cui essi toccano una «realtà psichica» traumatica pre-esistente. (...) Anche nel caso delle irruzioni più violente del reale esterno - ad esempio, in guerra, l'effetto scioccante dei bombardamenti sulle vittime - l'effetto traumatico è dovuto alla risonanza che queste irruzioni del reale trovano nel masochismo perverso, nella pulsione di morte, nel senso di colpa inconscio.
Oggi, comunque, nella nostra realtà sociopolitica si contano in abbondanza molteplici versioni di intrusioni traumatiche: brutali quanto prive di significato, esse distruggono il tessuto simbolico dell'identità del soggetto. In primo luogo, c'è la violenza fisica esterna: gli attacchi terroristici come quello dell'11 settembre, i bombardamenti americani «shock and awe» («colpisci e terrorizza») in Iraq, la violenza nelle strade, gli stupri, ma anche le catastrofi naturali come i terremoti e gli tsunami. C'è poi la distruzione «irrazionale» (priva di significato) della base materiale della nostra realtà interna - tumori cerebrali, morbo di Alzheimer, lesioni cerebrali organiche - affezioni che possono modificare, e persino distruggere, la personalità della vittima. Infine, ci sono gli effetti distruttivi della violenza socio-simbolica (esclusione sociale, abusi familiari).
La critica fondamentale mossa da Catherine Malabou a Freud è che, di fronte a cose come queste, egli cede alla tentazione del significato: non è disposto ad accettare la capacità diretta degli shock esterni di distruggere la psiche della vittima (o, quantomeno, di ferirla in modo irrecuperabile) senza individuare una risonanza in un trauma psichico pre-esistente. Evidentemente sarebbe osceno collegare, ad esempio, la devastazione psichica del «musulmano» (il «morto vivente» del lager nazista) al suo masochismo, alla pulsione di morte, o a un senso di colpa: un «musulmano» (o la vittima di uno stupro multiplo, o di brutali torture) non è devastato da ansie inconsce, ma direttamente da uno shock esterno, «senza significato», che non può in alcun modo essere integrato dal punto di vista ermeneutico.
Per il cervello ferito, «non c'è possibilità di essere presente alla propria frammentazione o alla propria ferita. Contrariamente a quanto succede per la castrazione, non c'è rappresentazione, non c'è fenomeno, non c'è esempio di separazione che possa consentire ai soggetti di anticipare, di attendere, di fantasticare su cosa possa essere una lesione delle connessioni cerebrali. Non è possibile nemmeno sognarlo. Non c'è una scena per questa Cosa che non è una Cosa. Il cervello non anticipa in alcun modo la eventualità di propri danni. Quando questi si verificano, è un altro sé ad essere colpito, un «nuovo» sé che si fonda su un errato riconoscimento».
Per Freud, se la violenza esterna diventa troppo forte, semplicemente, usciamo dal dominio vero e proprio della psiche. La scelta è: «o lo shock viene reintegrato in una cornice libidinale pre-esistente, oppure distrugge la psiche senza che ne resti niente». Quello che Freud non riusciva a prevedere era che la vittima, per così dire, sopravvivesse alla propria morte: tutte le diverse forme di incontri traumatici, indipendentemente dalla loro natura specifica (sociale, naturale, biologica, simbolica), conducono allo stesso risultato - l'emergere di un nuovo soggetto che sopravvive alla cancellazione della sua identità simbolica. Non c'è continuità tra questo nuovo soggetto «post-traumatico» e la sua soggettività precedente. Le caratteristiche del soggetto che ha subìto un trauma sono ben note per essere state descritte innumerevoli volte: mancanza di partecipazione emotiva, profonda indifferenza e distacco - è un soggetto che non è più «nel mondo» nel senso heideggeriano di una esistenza incarnata partecipata.
Oltre l'interpretazione
Questo soggetto vive la morte come una forma di vita. La sua vita è incarnata nella pulsione di morte, una vita priva di coinvolgimenti erotici, e questo vale anche per i criminali: non meno che per le vittime. Se il XX secolo è stato il secolo di Freud, il secolo della libido, forse che il XXI secolo sarà il secolo di questi soggetti resi distaccati a seguito di un trauma? Questi individui la cui prima figura emblematica - quella del «musulmano» nei campi di concentramento - si sta ora moltiplicando sotto forma di profughi, vittime del terrorismo, sopravvissuti alle catastrofi naturali o alle violenze familiari? Tutte queste figure sono riguardate dal fatto che le cause della catastrofe restano prive di significato dal punto di vista libidico, resistendo dunque a qualsivoglia interpretazione: «le vittime di traumi socio-politici presentano oggi lo stesso profilo delle vittime delle catastrofi naturali (tsunami, terremoti, inondazioni) o di incidenti gravi (incidenti domestici gravi, esplosioni, incendi). Siamo entrati in una nuova era di violenza politica in cui la politica trae le sue risorse dalla rinuncia al senso politico della violenza» - scrive Malabou. E, ancora: «Questa cancellazione di senso non è discernibile solo nei paesi in guerra, è presente dappertutto, come il volto nuovo del sociale che testimonia di una patologia psichica inaudita, identica in tutti i casi e in tutti i contesti, globalizzata».
Il capitalismo globale genera così una nuova forma di malessere, esso stesso globale, indifferente alle più elementari distinzioni come quella tra natura e cultura.
I conflitti sociali sono privati della dialettica che è propria alla lotta politica vera e propria, e diventano anonimi quanto le catastrofi naturali: abbiamo così a che fare con un mix eterogeneo di natura e politica, dove «la politica cancella se stessa in quanto tale e assume le sembianze della natura, e la natura sparisce per indossare la maschera della politica. Questo mix eterogeneo globale di natura e politica è caratterizzato dall'uniformarsi globale delle reazioni psicologiche».
Scienziati troppo umanisti
Catherine Malabou esprime il meglio del suo pensiero con una fine osservazione critica su quei neuroscienziati - da Alexander Luria a Oliver Sacks - i quali insistono sulla necessità di aggiungere alla descrizione naturalistica delle lesioni cerebrali la descrizione soggettiva di come questa ferita biologica non solo incide sulle particolari caratteristiche del soggetto (perdita di memoria, incapacità di riconoscere i volti), ma ne modifica l'intera struttura psichica, il modo fondamentale in cui percepisce se stesso e il suo mondo. (Il primo, grande classico, a questo proposito, è l'insuperata opera di Luria La mente di un mnemonista, in cui descrive l'universo interno di un uomo condannato alla memoria assoluta perché incapace di dimenticare). Tutti questi neuroscienziati restano troppo «umanisti»: concentrano la loro attenzione sugli sforzi della vittima per fare fronte alla propria lesione, per costruire una forma-vita supplementare che consenta in qualche modo di reintegrarsi negli scambi sociali.
Nell'Uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Sacks stabilisce che la cura sta nella sensibilità musicale dell'uomo, non intaccata: anche se non sa riconoscere il viso di sua moglie o dei suoi compagni e amici, egli riesce a identificarli attraverso i loro suoni.
Quel che in ogni caso viene evitato è il pieno confronto con il vero nocciolo traumatico della questione: che non è il disperato sforzo del soggetto di compensare la sua perdita, ma è il soggetto stesso in quanto forma positiva assunta da questa perdita (il soggetto impassibile e distaccato). Questi autori la fanno facile passando direttamente dalla considerazione di questo danno cerebrale agli sforzi del soggetto per fare fronte alla perdita, eludendo quello che è il vero punto critico: la forma soggettiva di questa stessa devastazione.
L'inconscio cerebrale
Il soggetto diventato autistico a seguito di un trauma è la «prova vivente» del fatto che il soggetto non coincide pienamente con le «storie che racconta a se stesso su di sé», con la tessitura simbolica narrativa della sua vita: quando leviamo tutto ciò, resta qualcosa (o, piuttosto, nulla, se non la forma del nulla), e questo qualcosa è il puro soggetto della pulsione di morte. Se vogliamo avere un'idea della forma della soggettività elementare, al livello zero, dobbiamo guardare ai pazienti affetti da forme gravi di autismo.
Ci sono, naturalmente, numerosi problemi nel modo sbrigativo con cui Malabou liquida l'inconscio freudiano per sostituirlo con il nuovo «inconscio cerebrale». Ma prima di passare a un dialogo critico con il suo libro I nuovi feriti dobbiamo riconoscere pienamente l'impatto crudamente traumatico delle sue argomentazioni, oltre che il suo talento più propriamente dialettico nel collegare fenomeni sociali concreti alla più alta astrazione filosofica. Possiamo e dobbiamo criticare I nuovi feriti, ma non possiamo ignorarlo: è una autentica pietra miliare del pensiero contemporaneo.
Traduzione di Marina Impallomeni