Legge 40. Fecondazione, ecco la vera legge da rifare
Sentenze che ne decretano l’illegittimità, donne umiliate, meno figli. E una moratoria?
di Virginia Lori
Altro che 194: il vero fallimento è la fecondazione
Sentenze che ne decretano l’illegittimità donne umiliate, meno figli. E una moratoria?
EVITATE oltre 3 milioni e 300 mila interruzioni volontarie di gravidanza - di cui un milione di aborti clandestini. È questa il bilancio di 30 anni di legge 194. Meno bimbi e boom di viaggi della provetta all’estero, nonchè una sfilza di sentenze di tribunale che ne certi-
ficano il fallimento. Questo invece il «risultato» di quasi 4 anni di legge 40. Eppure, di moratoria sulla «legge medievale» sulla fecondazione assistita - la legge dei no: soprattutto quello alla diagnosi preimpianto - nessuno parla.
Due provvedimenti che riguardano direttamente la salute delle donne e la loro scelta di maternità. Due provvedimenti che funzionano in maniera «opposta». La 194 continua a far diminuire il numero di aborti - dai 235mila casi l’anno nel 1982 ai 20mila del 2006 - nonostante nei servizi pubblici, lo sottolina l’Istituto superiore di sanità, siano obiettori il 60% dei ginecologi, il 46% degli anestesisti e il 39% del personale non medico. E nonostante il problema consultori: 914 al nord, 428 nell’Italia centrale, 514 al sud e 207 nelle isole. La legge e la sua piena applicazione: per questo il ministro Turco tra l’altro ha proposto tre quesiti agli esperti per meglio definire i limiti dell’aborto terapeutico, ovvero dopo i primi 90 giorni di gravidanza. A rispondere sarà il Consiglio superiore di sanità a partire da una questione centrale: da quando inizia la possibilità di «vita autonoma» per il feto?.
Dall’altra parte il fallimento della legge 40. I giudici di Cagliari prima, quelli di Firenze poi e l’altro giorno quelli del Tar del Lazio hanno ribadito i limiti pesanti di quel provvedimento. Ribadendo soprattutto un punto: la prevalenza del diritto alla salute della donna così come sancito dalla Costituzione. È lecito ovvero rifiutare il numero obbligatorio di tre embrioni - come invece prescrive la 40 - se per esempio c’è il rischio di una gravidanza che può mettere a rischio la vita della madre. Salute, dunque. Ma anche dignità. I divieti della legge sulla fecondazione - da quello sull’eterologa, cioè al di fuori della coppia, a quello sulla sperimentazione e clonazione degli embrioni, passando per quello sulla diagnosi pre-impianto degli embrioni - hanno avuto conseguenza pesanti sulle coppie italiane. Dai rischi appunto legati all’impianto obbligatorio di tre embrioni alla questione dei viaggi all’estero, dove esistono leggi più avanzate ed umane. Le dimensioni del fenomeno, affermavano ieri Alessandro Di Gregorio, direttore del centro Artes di Torino che opera nel campo della riproduzione assistita dal 1982, e Luca Gianaroli, direttore scientifico del Centro Sismer sono impressionanti: «Le coppie che si recavano all’estero prima della legge 40 erano circa mille. Solo un anno dopo della sua entrata in vigore sono quadruplicate. Oggi, grazie a questa normativa, almeno 25 mila coppie si rivolgono all’estero, con una spesa media di ottomila euro per ciclo a cui vanno aggiunte spese di viaggio, pernottamento e sostentamento. E sono soldi in meno per le casse italiane».
Per non parlare della diminuzione delle gravidanze: nelle coppie con infertilità maschile nei passati 3 anni il numero di gravidanze a termine con successo si è ridotto dal 35,7 al 23,5% (oltre il 10% in meno sul totale). Nelle gravidanze in generale, il divieto di impiantare più di tre ovociti ha causato, per le donne con più di 35 anni, una riduzione del numero di gravidanze del 5-10%. Terzo effetto: nelle donne sotto i 28 anni il divieto di congelare gli embrioni ha costretto gli operatori, per avere più garanzie di successo, a impiantare insieme i tre consentiti dalla legge. Questo ha incrementato i parti gemellari dal 14 al 22% e i parti trigemellari dal 2 all’11%.
Ed ecco perchè - dopo l’ultima sentenza che «bocciava» le linee guida sulla fecondazione dichiarando di fatto legittima la diagnosi preimpianto - sono centinaia le telefonate di coppie che arrivano alle associazioni che hanno promosso il ricorso al Tar del Lazio. «A chiamare - spiega Filomena Gallo, legale di “Amica Cicogna onlus” e “L’altra cicogna onlus” - sono coppie che stanno già tentando di avere un bambino in qualche centro all’estero - ha aggiunto Gallo - e che ci chiedono se è possibile restare in Italia. Altre coppie, che non hanno i soldi per andare all’estero, ora vogliono sapere se le condizioni sono cambiate. Noi rispondiamo che i centri possono fare diagnosi preimpianto, non comporta nessun reato alla luce della legge 40».
l’Unità 25.1.08
Loretta Napoleoni: «Il Capitale ha mangiato la democrazia»
di Toni Fontana
«La mia è un’analisi marxista, nel capitalismo c’è un elemento canaglia»
«Il baricentro del pianeta si sta spostando, si affaccia una nuova Super-Cina»
L’INTERVISTA Parla Loretta Napoleoni autrice di un saggio sull’economia moderna: «Come ai tempi della Depressione del ‘29 il mondo è dominato da un meccanismo che produce nuovi schiavi».
Coi tempi che corrono, lo smarrimento che dilaga assieme alla paura della recessione americana e mondiale, le certezze che crollano, la politica che appare sempre più distante dalla vita dei cittadini, la lettura proposta da Loretta Napoleoni (Economia Canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, 17,00 euro) non risulta rassicurante o consolatoria. Ci dice anzi che le cose nel mondo stanno andando male, malissimo. Come ai tempi della Rivoluzione industriale e della Grande depressione del ‘29, torna il dominio dell’«economia canaglia» che produce schiavi (27 milioni), si «svuota il vecchio concetto di democrazia» e la politica non appare più in grado di dirigere i processi. Loretta Napoleoni, scrittrice ed editorialista, ha dedicato molti anni di studio al fenomeno del terrorismo del quale ha analizzato la natura e i piani (Al Zarqawi, storia e mito di un proletario giordano, Tropea, 2006) e la rete di finanziamenti e complicità. In Terrorismo SpA (Il Saggiatore) spiega che «1500 miliardi di dollari, il 5% del valore della produzione mondiale, rappresentano l’ammontare dei capitali su cui possono contare le organizzazioni eversive nel mondo».
«Studiando le economie del terrore - dice ora l’autrice - mi sono imbattuta nell’economia canaglia, ho capito che il terrorismo non rappresentava un’anomalia». Loretta Napoleoni ci tiene a ricordare che la sua è un’analisi marxista che le fa dire che «nel capitalismo vi è un elemento canaglia». Se ai tempi della Rivoluzione industriale era possibile «lo sfruttamento intenso della forza lavoro» oggi stiamo vivendo in un «lungo periodo di transizione» e, nell’era della globalizzazione, «la politica non controlla l’economia». Ciò deriva non tanto dai processi di globalizzazione, quanto «dallo svuotamento del concetto di democrazia». C’è democrazia in Iraq? Si chiede provocatoriamente la scrittrice convinta che dopo la caduta del Muro si è affacciata una nuova forma di schiavismo «e gli schiavisti - dice - sono i connazionali». Economia canaglia contiene una fotografia geopolitica del mondo nel quale viviamo, ma non è un trattato di geopolitica. Attraverso storie vere, prove, analisi e testimonianze dirette Loretta Napoleoni s’infila nelle maglie dei perversi meccanismi dell’economia e segue la «pista del denaro» fino negli angoli più remoti del pianeta. I nuovi schiavi sono nell’est dell’Europa, nel cuore dell’Africa, dal Congo all’Angola, nelle piantagioni della Florida e della California.
Lì, negli Stati Uniti, il «nuovo killer» si chiama obesità. I dati sono sconvolgenti: provoca 400mila morti all’anno, il 16% del totale dei decessi. «L’ossessione per il peso provoca la corsa ai cibi dietetici. Così invece di una “Diet Coke” ne beviamo cinque, ingrassiamo, incameriamo zuccheri. Il diabete uccide più del tabacco».
Dove porta un’analisi così cruda, tagliente e impietosa? Ad un nuovo pessimismo? «No - spiega l’autrice - noi dobbiamo essere consapevoli, capire quale realtà viviamo, che siamo protagonisti di una fase di trasformazione profondissima, forse la più profonda di tutti tempi». Loretta Napoleoni non individua un solo colpevole: «L’importante è aprire gli occhi. Questi processi ci sono sempre stati e sempre ci saranno, sono inarrestabili».
Guardando al futuro e al farsi e disfarsi delle grandi alleanze mondiali, l’autrice di Economia canaglia vede avanzare a grandi passi la Cina e la finanzia islamica. È convinta che saranno proprio questi due i principali attori nel futuro. «Il baricentro del pianeta si sta spostando - conclude - si affaccia una nuova super-Cina ed un asse che da Pechino raggiunge i ricchi paesi del Golfo e si spinge fino in Sudafrica». È questo nuovo asse che sostituisce quello nord-sud. «In quanto a noi - dice Loretta Napoleoni - non finiremo in miseria, ma diventeremo una forza di secondo piano».
l’Unità 25.1.08
Migliaia di persone ieri a Ravenna per l’ultimo saluto ad Arrigo Boldrini
Grazie comandante Bulow, non ti dimenticheremo mai
di Andrea Bonzi
«Grazie, Bulow». Non è un saluto che guarda solo al passato, quello che ieri migliaia di persone hanno porto alla salma di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow, scomparso martedì scorso a 92 anni. Riuniti nella centralissima piazza del Popolo di Ravenna, città natale del celebre partigiano, autorità e cittadini hanno reso omaggio alla vita di uno dei padri fondatori della Costituzione, mente e cuore dell’Anpi, nonché uno dei massimi esponenti del Pci-Pds. Lanciando un messaggio: l’eredità che Boldrini e i partigiani come lui hanno lasciato all’Italia è ancora attuale.
I valori della Resistenza e dell’antifascismo vanno rispolverati una volta di più oggi, «in un difficile momento politico italiano, nel quale bisognerebbe ritrovare quel senso di bene comune e quell’amore verso le istituzioni del Paese di cui la generazione di Boldrini è stata testimone per tanti anni», dice il vicepresidente del Consiglio, Massimo D’Alema nel suo discorso commemorativo. Il comandante Bulow D’Alema lo conosceva bene: «Mio padre era stato fra i primi giovani a partecipare alla formazione della 28/a Brigata Garibaldi, poi fu mandato da Boldrini a Ferrara per riorganizzare la Resistenza in città». Chiare le forze in campo, in quella sanguinosa stagione: «Al di là di ogni revisionismo - sottolinea D’Alema - i combattenti delle due parti non erano uguali, perché i partigiani combattevano per tutti», cioè anche per la libertà dei loro nemici, come amava ripetere lo stesso Bulow. Il ricordo dell’«eredità politica e morale» che Boldrini lascia all’Italia, spinge il sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, a dire «grazie» a chi, come Bulow, «ha deciso di sacrificare la propria giovinezza combattendo per la libertà. A loro ripeto: ne è valsa la pena, perché l’Italia è progredita in questi 60 anni».
La gente (pochi i giovani) applaude e si stringe attorno al figlio di Boldrini, Carlo. La bara, coperta del tricolore e trasportata da Carabinieri in alta uniforme, passa attraverso due ali di gonfaloni: da una parte, i simboli di Comuni ed enti locali, dall’altra i vessilli delle sezioni dell’Anpi listati a lutto. Sventolano bandiere di sindacati, e partiti: il Pd di Ravenna ha realizzato dei cartelloni con scritto «Grazie, Bulow». Per tutta la mattinata, il via vai alla camera ardente allestita nel palazzo comunale è stato ininterrotto. Con D’Alema c’è Piero Fassino («Il momento che striamo attraversando sollecita ad avere la stessa tensione morale delle generazioni precedenti») e in prima fila si riconosce, tra i tantissimi amministratori emiliano-romagnoli, il presidente della Regione Vasco Errani. Prende la parola Tino Casali, numero uno nazionale dell’Anpi che racconta come la Resistenza del compagno sia iniziata a pochi passi da lì, accanto alla statua di Garibaldi da cui la Brigata prese il nome. E spiega che l’arma vincente del comandante Bulow, nella sua tattica di battaglia in pianura, fu contare su braccianti e contadini: «Arrigo sapeva - osserva Casali - che la sua gente, che aveva strappato alle paludi la propria terra a fatica, avrebbe difeso la libertà con la vita. Credeva nella coralità della Resistenza, ed ebbe ragione». Per questo Boldrini fu decorato della medaglia d’oro dal generale dell’VIII armata inglese Mc Creery, che riconosceva così per la prima volta il valore militare di una brigata partigiana. «Il suo sorriso timido e allegro allo stesso tempo - chiosa Casali - trasmetteva forza e convincimento. Ciao, Bulow, non ti dimenticheremo». Dopo il silenzio militare, un lungo applauso saluta il feretro che esce dalla piazza. Le mani battono ritmicamente, la gente comincia a cantare Bella Ciao. E per un attimo sembra che Bulow - che gli inglesi chiamavo «l’inafferrabile» per la sua capacità di eludere i rastrellamenti dei fascisti - sia riuscito a sfuggire anche alla morte.
Repubblica 25.1.08
Se il fascismo rinasce con un volto nuovo
di Walter Laqueur
Quali sono le prospettive di fascismo, neofascismo e neonazismo nell´Europa e nell´America settentrionale del Duemila? Men che brillanti quanto più guardiamo avanti, esprimendo comunque alcune riserve a proposito di certi paesi, specie nell´Est Europa. Ma cosa succederà se i regimi democratici occidentali si dimostrassero incapaci di affrontare le sfide che li mettono alla prova? In numerosi paesi occidentali cresce la sfiducia verso i partiti e i professionisti della politica. Le realizzazioni del secondo dopoguerra, in particolare lo Stato assistenziale, vengono poste in discussione.
Però la gente è nel complesso troppo matura per credere che il neofascismo possa offrire soluzioni alternative. Pur essendo l´Europa in declino, i suoi cittadini non crederanno facilmente che i partiti che fanno appello al nazionalismo estremista siano in grado di salvarli.
In certi paesi europei, lo sviluppo di società parallele popolate da recenti immigrati sembra fornire terreno fertile alle ambizioni fasciste. In Scandinavia, Belgio e Olanda sono nati partiti antimmigrazione, ma sarebbe impreciso definirli fascisti o perfino di estrema destra: sono nazionalisti nella misura in cui vogliono tenere lontani gli stranieri indisponibili a integrarsi, ad accettare i valori tradizionali del paese.
Il destino di queste società parallele potrebbe rivelarsi una delle questioni politiche di rilievo dell´Europa dei prossimi anni. In certe nazioni questi ghetti sono piccoli e non sembrano costituire una minaccia per l´ordine esistente, specie se si ignora l´elevato tasso di nascite tra gli immigrati. In tal caso, è presto per mobilitare partiti antimmigrazione. Altrove, per esempio in Francia, l´elemento straniero è cresciuto in modo tale che non appare più praticabile uno scontro a livello politico: perfino chi è più ostile agli immigrati deve trovare la maniera di coesistere pacificamente, facendo dolorose concessioni. Ciò che rende ancor più arduo il compito dei sedicenti partiti fascisti europei è il fatto che essi non hanno più l´esclusiva delle rivendicazioni antimmigrazione. Nessun governo e nessun partito sono a favore di un´immigrazione illimitata: tutti sono consapevoli dell´urgenza e della gravità della questione. Questo non significa negare che il problema abbia prodotto un effetto notevole sulla politica europea, effetto che probabilmente crescerà negli anni a venire.
Parimenti difficile è presagire con convinzione il futuro del fascismo in Russia e in Europa orientale. La situazione economica e l ´influenza politica della Russia di Putin sono migliorate sensibilmente grazie al notevole aumento del prezzo di petrolio e gas naturale. Il paese è più stabile di quanto sia mai stato dalla caduta dell´Unione Sovietica. Ma se ne è pagato lo scotto sotto forma di erosione, e talora scomparsa, delle libertà concesse al tempo di Gorbacev. Alcuni osservatori occidentali sostengono che la Russia ha imboccato la strada verso il fascismo; tale giudizio appare prematuro ma un pericolo esiste realmente, visto che i partiti politici sembrano impotenti, mentre la maggioranza dei media e del potere giudiziario è strumento nelle mani del governo. Quindici anni fa vi era un grande sostegno alla democrazia, oggi pochi la appoggiano, anzi lo stato d´animo prevalente è nazionalista. I guru dell´estrema destra come Aleksandr Dugin, che una decina di anni fa erano al massimo considerati eccentrici e non venivano presi sul serio, sono diventati personaggi rispettabili, perfino sulla cresta dell´onda, ascoltati da ampi settori dell´intellighenzia e sostenuti dai militari.
Una rassegna della destra estremista dovrebbe includere il Partito comunista all´opposizione, che in questo senso non ha conti in sospeso con la destra ("La Russia ai russi"). La temperie prevalente sembra quella della situazione di Italia e Germania dopo la Prima guerra mondiale: una sensazione di umiliazione, di un paese che ha perso il suo status di potenza internazionale. Di qui la voglia di rivincita, l´impulso a punire gli ingrati, ovvero le repubbliche che hanno scelto di separarsi, e soprattutto il nemico tradizionale, l´America, col codazzo dei paesi occidentali che ne accettano l´influsso.
Finora i successi e le offensive dei neofascisti russi sono stati impediti dalla difficoltà di attaccare Putin da destra, vista la sua politica estera di affermazione nazionale. Inoltre, i gruppi destrorsi sono divisi in innumerevoli sette e fazioni. Né è facile stabilire quali siano superpatriottici in buona fede e quali vengono sponsorizzati o assistiti dall´Fsb, il successore del Kgb. Come accadde nell´ultimo decennio di regime zarista, la polizia segreta si è infiltrata nei gruppi estremisti e ne dirige in larga parte le operazioni.
In seguito al fallimento dei nazionalismi laici, nel mondo arabo è venuto il turno dei fondamentalismi religiosi. Fino a che punto può essere utile la definizione di "fascismo islamico" per far riferimento ai musulmani più radicali, siano essi al potere o all´opposizione? Alcune somiglianze col fascismo sono eccezionali: populismo, convinzione di possedere la verità assoluta ("La risposta è l´islam"), contrapposizione alla democrazia e al liberalismo, antisemitismo e carattere aggressivo, espansionista. Per questi estremisti, l´islam non è solo una religione, ma anche un sistema sociale e politico onnicomprensivo, da cui è vietato deviare e che non è possibile cambiare o riformare. Pur non avendo un Duce o Führer unico, esiste un leader spirituale (o una leadership collettiva), coi suoi aiutanti designati che svolgono ruoli simili. Non c´è un partito politico che abbia il monopolio del potere, ma la moschea incarna la medesima funzione per quanto attiene alla mobilitazione e all´indottrinamento ideologico delle masse. Allo stesso tempo ci sono però differenze che non vanno sottovalutate. Il fascismo era un fenomeno europeo e le moderne dittature extraeuropee si sviluppano secondo linee alquanto diverse, cioè obbedendo alle tradizioni storico-culturali e alle particolari condizioni locali.
Riassumiamo: il fascismo era il figlio bastardo di un determinato periodo storico e, siccome tale periodo appartiene al passato, le possibilità di un secondo avvento del movimento, o di movimenti analoghi, sono scarse, più che altro in Europa ma anche in altre parti del pianeta. Esso era però soltanto una forma moderna di dittatura aggressiva, che si serviva efficacemente del terrore e della propaganda; e possiamo certificare che le dittature non scompariranno dalla faccia della terra. Nel linguaggio popolare, il termine fascismo è diventato sinonimo di tirannia brutale e disumana, il nec plus ultra della barbarie.
Dire che il fascismo storico è una cosa del passato non significa sfortunatamente che regimi e movimenti barbarici di tal fatta, ma diversi per motivazione, ispirazione o apparenza, non possano ricomparire, né vuol dire che è prevalso il regno della libertà, della democrazia e dei diritti umani. Anzi, è del tutto possibile che forze micidiali, perfino peggiori e più pericolose del fascismo, possano sfidare l´umanità nel Ventunesimo secolo, magari usando armi di distruzione di massa. Per stanare e liquidare le loro vittime, i carnefici del nazismo dovevano spostarsi di villaggio in villaggio, di casa in casa. Nell´epoca delle armi di sterminio cadute in mano ai fanatici l´assassinio integrale è diventato molto più facile e, in futuro, il numero delle vittime potrebbe essere più consistente. La sopravvivenza della libertà e delle istituzioni democratiche in questa nuova era è in equilibrio precario come non mai.
Traduzione di Daniele Ballarini
Repubblica 25.1.08
Così vinse Hitler
Settantacinque anni fa saliva al potere, ne parliamo con lo storico Michael Stürmer
di Andrea Tarquini
"Tra il 1932 e il ´33 tutti i giornali borghesi pensavano ad una fine del nazismo"
"La prima guerra mondiale fu una rivoluzione e lo Stato divenne un tiranno collettivo"
BERLINO. «Hitler non era inevitabile, ma la caduta della Repubblica di Weimar sì. Il nazionalsocialismo non tornerà. Con le crisi attuali però le democrazie europee appaiono esposte al rischio populismo». E´ la diagnosi del professor Michael Stürmer, ex consigliere del cancelliere Helmut Kohl e tra i massimi storici tedeschi. Con lui facciamo il punto, mentre stanno per cadere i 75 anni dell´avvento di Hitler.
Professor Stürmer, al contrario del terrore bolscevico, il nazionalsocialismo vinse in un paese civile ed evoluto. Era davvero impossibile evitarlo?
«Guardiamo all´orizzonte storico di allora. Negli anni di crisi dal 1929 Hitler era evitabile, la caduta della repubblica di Weimar no. Infatti mutò in un sistema di dittatura presidenziale. Che avrebbe potuto sopravvivere».
Perché non fu così?
«Tra il 1932 e il ‘33 tutti i giornali borghesi, centristi, commentavano con ottimismo: Hitler e il suo movimento sono finiti.
Hitler era a un passo dal suicidio, nei suoi diari Göbbels narrò della disperazione del capo. Poi venne la svolta. Vinsero le elezioni, e valse da quel momento la parola di Göbbels stesso: "da qui nessuno ci farà più uscire vivi"».
Ma dove furono, nella civile Germania, le radici del nazionalsocialismo?
«Molti fattori furono necessari ma non sufficienti. Primo, il trauma della modernizzazione e quindi industrializzazione, urbanizzazione accelerata. Un processo con molti vincitori ma anche molti perdenti. Si smarrirono le cognizioni di limiti, confini e radici. La Germania del 1914 era ben diversa dalla Germania di Bismarck. Fu creativa in ogni campo, anche poi sotto Weimar: dall´arte, all´architettura, dal nuovo mondo dell´anima con Freud alle scienze sociali con Max Weber alle scienze con Einstein e Max Planck, alla tecnica. Ma fu innovativa anche nella Kriegsfuehrung, l´arte di fare la guerra».
In che senso?
«Cominciò a pensare la guerra a livello industriale, una dimensione inimmaginabile prima. Una condotta della guerra senza regole. Cadde un´altra frontiera. In un momento storico in cui i Lenin, gli Hitler, i Mussolini erano già presenti, ma ancora incatenati dalle strutture del passato, la prima guerra mondiale fu una rivoluzione. Lo Stato divenne un tiranno collettivo, espropriò, eliminò élites intere, distrusse ceto medio e piccole aziende, si comportò con un cinismo mai visto. Quello che oggi gli americani chiamano "post-battle trauma" per i reduci dal Vietnam o dall´Iraq allora colpì l´intera nazione».
Una rivoluzione non identificata come tale?
«Sì. Poi venne il trattato di pace, che fu una brutale messa in ginocchio e una spoliazione dell´economia tedesca, con la premessa che la Germania fosse l´unica colpevole della guerra. Le riparazioni di guerra fecero volare l´inflazione, mandarono in rovina milioni di persone. L´inflazione galoppante distrusse non solo i risparmi ma anche ogni idea di giustizia, responsabilità, rigore finanziario. E l´immagine della democrazia».
Poi la crisi del ‘29. La dittatura divenne allora inevitabile?
«Nel ‘29 la Germania, dovendo ancora riparazioni di guerra, non ebbe la forza di sganciarsi dall´oro e svalutare, a differenza di quanto fecero Usa e Regno Unito. Allora crebbe un piccolo partito marginale. Nessuno capì quanto fosse profonda la disperazione nella gente. La paura del crollo sociale univa borghesia e lavoratori, c´era la paura del bolscevismo, anche nella Spd, e arrivò Hitler: promise tutto e il contrario di tutto, era l´ambivalenza in persona. La disoccupazione era a 6 milioni, senza il welfare di oggi, più i figli dei contadini: quasi un terzo della forza lavoro. La borghesia e le sue espressioni politiche - rileggiamo Fest - erano sempre più deboli, lui non aveva antagonisti. Hindenburg era un vecchio scemo, non aveva capito il pericolo».
Solo lui non lo aveva capito?
«Il segreto del successo di Hitler fu la sua sottovalutazione da parte di tutti o quasi. I socialdemocratici dissero "vincemmo contro Bismarck, vinceremo anche contro questo guitto austriaco". Lo sottovalutarono l´esercito, la Chiesa, i governi britannico, francese, americano. Gli stessi ebrei! Un anno dopo le leggi razziali di Norimberga, vennero tutti alle Olimpiadi di Berlino come maschere di carnevale! Non avevano letto Mein Kampf, in cui i programmi erano chiari».
Perché lo sottovalutarono tutti?
«Parlava come un proletario, non sembrava un politico di successo. Non capirono che proprio l´uomo che viene dal nulla è svincolato da tutto, e può rivoluzionare il mondo. Il totale nichilismo della sua volontà di potere non fu preso sul serio. Non ci si chiese allora se il Male esiste. E poi, quanto era ancora civilizzata la Germania di allora dopo quell´erosione dei valori cominciata al Fronte nel ‘14? Lui sedusse i giovani. A 44 anni, fu e resta il più giovane tedesco eletto cancelliere. La maggioranza dei giovani era per lui; come l´architetto Albert Speer, e nelle Ss, Heydrich. I giovani subalterni passati con lui facevano paura ai loro superiori anziani: nelle forze armate - lo narra Enzensberger nella sua biografia di von Hammerstein - e in ogni campo».
Perché le voci contro di lui furono così deboli e rare?
«Ben presto divenne molto pericoloso parlarne male. La Gestapo fu creata in fretta. Il terrore era anche personale. I campi di concentramento furono aperti e pubblicizzati. Le leggi successive all´incendio del Reichstag abrogarono lo Stato borghese di diritto. E fu un misto di terrore e seduzione: la paura della polizia, e poi della polizia segreta, era reale nel quotidiano. E il regime seduceva con l´immagine di ordine, creando posti di lavoro, specie per il riarmo. Fu un totalitarismo ma non integrale. Convissero, narrò anche Sebastian Haffner, due vite, due Stati: la vita normale, il cinema, il jazz, divorzi e diritto civile in mano a magistrati ordinari. E lo Stato in mano alle Ss: arbitrio, tortura, minaccia di morte. Tutto ciò senza libera stampa, con le informazioni diffuse solo da Göbbels».
Troppo consenso, poca opposizione?
«L´opposizione era troppo debole e soprattutto divisa. I giovani non erano con lei. Il 1933 fu una rivoluzione giovanile, i vecchi difesero male una repubblica già caduta. Tutto ciò, insisto, in un paese in cui nei primi anni il Terrore coesisteva con cinema, cabaret, feste. Vita normale, diverso dalla Mosca di Stalin. Sembrava che il Terrore colpisse solo gli altri. Seduzione e violenza insieme, un totalitarismo che concedeva illusioni, furono la sua ricetta. Fino alla guerra».
La guerra sarebbe stata evitabile?
«Hitler era un astuto giocatore d´azzardo. Pensava a un´espansione, all´inizio, non al dominio d´Europa intera. Non a caso armò la Luftwaffe ma senza pensare a bombardieri a lungo raggio. Poi sottovalutò i russi e l´impatto delle forniture militari americane e britanniche a un´Urss enorme, dal gelido inverno e decisa a combattere. Fu il suo errore fatale».
Oggi il pericolo di demagoghi e populisti è di nuovo minaccioso?
«Il nazismo non tornerà. Però il potenziale di crisi, seduzione, prontezza alla violenza, mobilitazione esiste. Troppo a lungo abbiamo comprato il benessere e la pace sociale con un forte indebitamento pubblico. Una crisi è pensabile. Come negli Usa oggi, o con un altro volto. Un petrolio a 200 dollari al barile in futuro non è impensabile. S´intravvedono scenari di dure lotte sociali. Ci vogliono persone qualificate, e le nostre università ne sfornano troppo poche. Ogni anno 150mila giovani qualificati emigrano dalla Germania. Gli scenari peggiori sono una recessione e una guerra in Medio Oriente. Per non parlare della sfida della globalizzazione. I rischi esistono. Ma l´ho sentito dire solo da un politico, Helmut Kohl. Disse che bisognava rendere l´Europa unita irreversibile. Che cioè la Ue era reversibile! I populisti lo sanno. Ma riguardiamo indietro: Hitler era un giovane senza arte né parte, Himmler un allevatore di polli, Goering un ex pilota da caccia cocainomane. chi poteva temerli? Il Male è nel genere umano, solo che di solito non è scatenato».
Corriere della Sera 25.1.08
Il leader del centrodestra e le strategie per il dopo-Prodi
Ma l'asse tra Silvio e Walter non si spezza «Come me vuole le urne. O lo fanno a fette»
di Francesco Verderami
L'allarme di Pisanu
I poteri forti si faranno sentire per evitare il ricorso immediato alle elezioni ma non avranno alcun effetto su Silvio
ROMA — Vuole le elezioni Berlusconi, «e non sono il solo». Così diceva ieri mentre assisteva alla caduta del governo, alla fine della «parentesi» prodiana durata meno di due anni e vissuta come una cocente sconfitta. Vuole le urne il Cavaliere, «ma le vuole anche Veltroni», ha confidato prima di prepararsi al rito delle consultazioni. E il modo perentorio in cui ha spiegato la tesi fa capire che tra i due si sarà pure interrotto il dialogo per la riforma della legge elettorale, ma che l'asse politico resiste e non si spezza. C'è un motivo — secondo Berlusconi — per cui il leader del Pd mira al voto, «e al più presto»: «Lui per primo non ha interesse ad un governo che duri un anno, perché così non reggerebbe a lungo nel suo partito. Lo farebbero a fettine. Guardate come si sono organizzati per metterlo sotto. D'Alema e i popolari da una parte, Prodi dall'altra... La resa dei conti tra loro non è nemmeno iniziata».
Il Cavaliere sembrerebbe disinteressato nel tendere una mano a Veltroni, per salvarlo dall'assedio. In realtà è un modo per evitare di finire anche lui imbrigliato nelle alchimie di Palazzo, per impedire che tornino in gioco quanti al momento sono invece ai margini. «E vedrete — spiegava ieri il forzista Pisanu — che la gran cassa dei media proverà a forzare la mano per un governo di larghe intese o istituzionale o tecnico pur che sia. Vedrete che i poteri forti si faranno sentire pur di evitare il ritorno immediato alle urne. Quale effetto avranno su Berlusconi queste pressioni? Nessuno ». Infatti il capo di Forza Italia è lì che prepara la sua rivincita, riceve schede programmatiche dai suoi consiglieri e parla del governo che verrà: «Ci aspetta un duro lavoro. Bisogna cambiare tutto». Manco a dirlo, in cima alla lista dei suoi pensieri ancora ieri c'era «la riforma del sistema giudiziario »: «Questo sistema è una vergogna. Roba da terzo mondo».
Sono dettagli, certo, che tuttavia consentono di capire quale sia la strategia del Cavaliere, e al tempo stesso quanto sia robusto il rapporto con Veltroni. Perché non può essere solo una coincidenza il fatto che Berlusconi abbia svolto delle simulazioni di voto molto simili a quelle commissionate dal segretario del Pd. Il leader del Pdl prevede un «limite minimo garantito» alle urne per il centro- destra: «Prenderemo almeno il 55%», ha assicurato agli alleati. E tra questi ci sono anche Dini e Mastella, che prima di rompere con l'Unione ha chiesto e ottenuto rassicurazioni dal Cavaliere, perché si vada alle urne con questa legge elettorale. «Il Porcellum conviene a tutti, conviene anche a Veltroni», sorrideva ieri il leghista Calderoli: «Ah, se solo potessi parlare...».
Le elezioni sono il traguardo ambito da Berlusconi, conscio che — come dice Pisanu — «nemmeno Casini può ormai staccarsi troppo da lui». Resta il rito delle consultazioni, e restano le incognite che quel rito si porta appresso. Ma la mossa di Prodi, la sua volontà di cadere al Senato con un voto, ha ristretto i margini di azione del Quirinale. Il Cavaliere si aspetta che Napolitano incarichi il presidente del Senato Marini con un mandato esplorativo, ascolta senza cedimenti le sirene che lo lusingano promettendo un ruolo a Gianni Letta, e attende che Veltroni si muova in perfetta sintonia con lui. Come d'altronde sta già facendo, criticando l'ipotesi delle elezioni anticipate e parlando di un governo per le riforme, a cui il leader del Polo non darà mai l'assenso. Insomma, tutto secondo copione. Tutto secondo le regole bizantine della politica italiana.
E mentre la legislatura si prepara a tramontare, cambiano amicizie e abitudini. Ieri pomeriggio Mastella era attorniato dai polisti che andavano a salutarlo. C'era il centrista Baccini che si faceva largo tra i senatori: «Fatemi parlare con il mio alleato». E c'era il leghista Calderoli che confortava l'ex Guardasigilli — stressato per le vicende familiari — con sorrisi e strette di mano. «E dire che poco prima — ha raccontato il forzista Cantoni — D'Alema era passato accanto a Mastella, e malgrado lo avesse incrociato non lo aveva degnato nemmeno di un saluto. Clemente allora si è voltato verso alcuni suoi amici di partito e ha detto: "Avete visto chillu str..."».
Come cambiano i rapporti. E come cambiano le cose. Nel Pd sta per iniziare il redde rationem e già si intuisce che sarà una guerra senza quartiere. Berlusconi è convinto che Veltroni sia dalla sua parte, che anche lui preferisca le elezioni. Resta ancora da capire — e non è di poco conto — se sarà Prodi a traghettare il Paese alle urne. Il Cavaliere preferirebbe così e non è preoccupato di lasciarlo a palazzo Chigi, alla vigilia di un giro di nomine che vale più di una lista di governo. Guarda caso, la tesi di Berlusconi coincide con quella di un autorevolissimo ministro democratico: «Tra la possibilità di stabilire a chi assegnare quei posti di potere e il desiderio di affondare Veltroni, Prodi sceglierà sicuramente questa seconda opzione». Ecco perché il capo del Polo dice di non essere il solo a volere le urne.
Corriere della Sera 25.1.08
Uteri in affitto all'estero per far nascere bimbi italiani
di Monica Ricci Sargentini
I costi Le madri, in genere, sono due: quella che dona l'ovulo e quella che porta avanti la gravidanza. Tariffe più basse all'Est
Le regole Serve un certificato di nascita internazionale, poi la registrazione all'anagrafe del Comune di residenza è automatica
Preferiti gli Usa. Pacchetti «tutto compreso»
Le coppie gay
Risolti i problemi giuridici anche se i genitori sono omosessuali: agli atti risulta la rinuncia della madre ai suoi diritti
Francesca ha perso suo figlio all'ottavo mese di gravidanza a causa di una predisposizione, non diagnosticata, alla trombofilia. Il piccolo è nato morto e una grave emorragia le ha portato via anche l'utero. Barbara, invece, imputa la sua disgrazia a un errore medico in sala parto. «Se il cesareo fosse stato fatto subito — racconta — oggi Tommaso sarebbe ancora vivo». Anche lei, con l'intervento, ha perso per sempre la possibilità di costruirsi una famiglia in modo naturale. Diverso il caso di Sabina: rimasta incinta sette volte, non è mai andata oltre la dodicesima settimana. Sono loro le tipiche surromamme, quelle che per diventare madri hanno un'unica possibilità: ricorrere all'aiuto di un'altra donna che porti avanti la gravidanza al loro posto. Un percorso complicato, illegale in Italia ancor prima della legge 40, ma possibile all'estero dove fioriscono le agenzie che offrono pacchetti «tutto compreso», dall'assistenza legale alla ricerca della portatrice, come viene spesso chiamata la madre surrogata. E non sono poche le coppie italiane, eterosessuali e omosessuali, che si fanno tentare. «Il fenomeno è in crescita esponenziale — spiega Gail Taylor, 39 anni, fondatrice di Growing Generations, l'agenzia californiana nata nel 1996 e dedicata esclusivamente alla comunità gay —. Riceviamo richieste da tutto il mondo. Anche dal vostro Paese. Finora avremo aiutato decine di coppie omosessuali italiane. Per quelle etero, invece, abbiamo fondato nel 2002 Fertility Futures e anche lì i clienti non mancano».
Il costo però è quasi proibitivo: «Per uno straniero — spiega Taylor — si aggira tra i 150mila e i 170mila dollari. Il primo appuntamento è gratuito e senza lista d'attesa qui negli States. Altrimenti possiamo venire noi in Italia ma in quel caso bisogna aspettare».
Di problemi legali non ce ne sono. Gli accordi tra le parti vengono studiati nei minimi dettagli e in molti Stati americani, dalla California all'Illinois, è possibile stabilire ancor prima del parto la paternità e maternità dei genitori riceventi. Il nome della portatrice non appare sul certificato di nascita. Il che rende possibile tornare in Italia con un figlio proprio a tutti gli effetti. E senza nemmeno passare dal consolato. «Il bambino quando nasce ha la cittadinanza americana — spiega Richard B. Vaughn, avvocato al National Fertility Law Center di Los Angeles —, dopo dieci giorni si può chiedere il passaporto e lasciare il Paese. Più delicato il caso delle coppie gay. Qui in California è possibile registrare allo stato civile due padri ma per i Paesi che non lo permettono, consigliamo ai nostri clienti di far apparire la madre surrogata sul certificato di nascita, previa rinuncia alla patria potestà, oppure di lasciare solo il nome del padre.
Entrambi i casi sono stati accettati in Italia».
L'avvocato Ezio Menzione ha lo studio a Pisa e si occupa da anni di garantire le coppie dai trabocchetti giuridici: «È importante — spiega — l'aiuto di un legale per avere i documenti in regola per la trascrizione dell'atto di nascita in Italia. A volte gli stati civili pongono dei problemi perché hanno paura che ci sia sotto un'adozione. Proprio ieri sono dovuto intervenire presso lo stato civile di Roma ma ho risolto la cosa per telefono. L'importante è che il certificato di nascita abbia una validità internazionale, in termini legali si definisce apostille. Con questo documento non bisogna nemmeno passare dal consolato». Qualche complicazione in più se la coppia è omosessuale: «Nella maggior parte dei casi risulta una madre che ha rinunciato ai diritti genitoriali e che poi non comparirà nello stato civile. A meno che il padre non lo desideri».
Il percorso, comunque, è ormai collaudato per le nascite negli Stati Uniti e in Canada, un Paese che offre gli stessi standard americani a un prezzo minore: dai 40mila ai 50mila dollari. «So di coppie — aggiunge Menzione — che sono andate in Ucraina o in Russia. Anche lì è legalmente possibile. Ma io non me ne sono mai occupato. Bisogna conoscere molto bene il diritto del Paese in cui si opera per evitare che la piccola o il piccolo venga trattenuto alla frontiera una volta nato».
Alcuni italiani, per stare più tranquilli e anche per risparmiare, reclutano una parente. Stefania, per esempio, è tornata da Kiev proprio in questi giorni. Sarà la sorella a portare in grembo il suo bambino che sarà partorito in Ucraina. Il costo è di circa 10mila euro (25mila se la portatrice è fornita dalla clinica). «In questo caso — spiega Menzione — non dovrebbero esserci problemi perché sul certificato di nascita comparirà il nome della madre biologica, che ha donato gli ovuli, e non di quella surrogata». Lo stesso discorso vale per la Russia dove si pagano circa 42mila euro.
Molto delicata è la scelta della portatrice. Affidarsi a Internet per risparmiare non è mai una buona idea. Il rischio di una truffa o di un ripensamento è troppo alto. Le agenzie più serie sottopongono le loro candidate a uno screening psicologico molto attento. Due i requisiti base: avere già avuto un figlio ed essere indipendente economicamente. È importante anche che la famiglia della donna sia d'accordo. E che la gravidanza sia gestazionale cioè che la surrogata sia inseminata con l'ovulo della madre ricevente o di un'altra donatrice. In questo modo il bambino che nascerà non sarà biologicamente suo e l'attaccamento psicologico sarà minore. Ma cosa spinge le portatrici a candidarsi? «La maggior parte — spiega Gail Taylor — lo fa per amore, perché gli piace essere incinta e aiutare gli altri. Poi, ovviamente, c'è anche il lato economico».
Corriere della Sera 25.1.08
Feyerabend e Galileo: il testo mai letto in Italia
di Paul Feyerabend
Ecco il capitolo del filosofo citato dall'allora cardinale Ratzinger all'origine della rivolta di un gruppo di docenti universitari
L'obiettivo? Proteggere la gente comune dagli artifici degli specialisti
La Chiesa all'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione.
Nel XVII secolo vi furono molti processi. L'azione legale si avviava a seguito di accuse mosse da privati, o di un atto ufficiale di un funzionario pubblico, o di un'indagine, basata a volte su sospetti piuttosto vaghi. A seconda del luogo, delle competenze giurisdizionali e dell'equilibrio dei poteri, i crimini potevano essere investigati da tribunali laici, come quelli del re o di una libera città, da tribunali ecclesiastici annessi alle diocesi, per le questioni spirituali, o dai tribunali speciali dell'Inquisizione. A partire dalla metà del XII secolo, i tribunali episcopali si avvalsero in gran misura dello studio del diritto romano. Gli avvocati divennero così influenti che, anche in mancanza di una preparazione in diritto canonico e in teologia, venivano spesso preferiti ai teologi. I processi dell'Inquisizione non tenevano conto delle tutele previste dal diritto romano e diedero luogo ad alcuni eccessi, ampiamente divulgati. Una minore attenzione è stata tuttavia rivolta al fatto che gli eccessi dei tribunali laici erano spesso paragonabili a quelli dell'Inquisizione. Erano tempi duri e crudeli. Nel 1600 l'Inquisizione aveva perso molto del suo potere e della sua aggressività, soprattutto in Italia, e in particolare a Venezia.
I tribunali dell'Inquisizione punivano anche crimini che riguardavano la produzione e l'uso della conoscenza. Questo si spiega con la loro origine: dovevano sradicare l'eresia, cioè un insieme di azioni, idee e dibattiti che portavano le persone a propendere per un determinato credo. Il lettore stupito che si chiede che cosa abbia a che fare la conoscenza con la legge dovrebbe considerare i molti ostacoli legali, sociali e finanziari che devono affrontare oggi i progressi delle conoscenze. Galileo voleva che le sue idee rimpiazzassero la cosmologia del tempo, ma gli fu proibito di lavorare in quella direzione. Oggi la ben più modesta aspirazione dei creazionisti a veder insegnate le loro opinioni nelle scuole, affiancandole e mettendole in competizione con idee diverse, si scontra con leggi che stabiliscono la separazione tra Chiesa e Stato. Una quantità crescente di conoscenze e tecnologie è tenuta segreta per ragioni militari ed è pertanto esclusa dagli scambi internazionali. Gli interessi commerciali generano le stesse tendenze restrittive. Così la scoperta della superconduttività nella ceramica a temperature (relativamente) alte, frutto di una collaborazione internazionale, ha indotto il governo americano ad adottare misure protettive. Accordi finanziari possono rendere possibili o interrompere programmi di ricerca, e influire su un intero ambito professionale. Vi sono molti modi di mettere a tacere le persone, oltre a impedir loro di parlare, e oggi li vediamo usati tutti. Il processo della produzione e della distribuzione del sapere non è mai stato lo scambio libero, «oggettivo» e puramente intellettuale che i razionalisti dipingono.
Il processo a Galileo fu uno dei tanti. Non ebbe alcuna caratteristica speciale, se non forse il fatto che Galileo fu trattato con una certa moderazione, nonostante le sue bugie e i suoi sotterfugi. Ma una piccola conventicola di intellettuali, con l'aiuto di scrittori sempre alla ricerca dello scandalo, sono riusciti a montarlo enormemente, così quel che in fondo era solo un contrasto tra un esperto e un'istituzione che difendeva una visione più ampia delle cose ora sembra quasi una battaglia tra paradiso e inferno. È una posizione infantile e anche ingiusta nei confronti delle molte altre vittime della giustizia del XVII secolo. È particolarmente ingiusta nei confronti di Giordano Bruno, che fu mandato al rogo, ma che gli intellettuali di formazione scientifica preferiscono dimenticare. Non è l'interesse per l'umanità, sono piuttosto interessi di parte ad avere un ruolo importante nell'agiografia di Galileo. Ma esaminiamo la questione più da vicino.
Il cosiddetto processo di Galileo consistette di due procedimenti, o processi, separati. Il primo si tenne nel 1616. Fu esaminata e criticata la dottrina copernicana. Galileo ricevette un'ingiunzione, ma non fu punito. Il secondo processo si tenne nel 1632-33. Questa volta il punto principale non era più la dottrina copernicana. Fu invece esaminata la questione se Galileo avesse obbedito all'ordine che gli era stato impartito nel primo processo e se avesse ingannato gli inquisitori facendo loro credere che l'ordine non fosse mai stato promulgato. Gli atti di entrambi i processi sono stati pubblicati da Antonio Favaro nel vol. 19 dell'Edizione Nazionale delle opere di Galileo. L'idea, piuttosto diffusa nel XIX secolo, che gli atti contenessero documenti falsificati e che quindi il secondo processo fosse una farsa, non sembra più accettabile.
Il primo processo fu preceduto da voci e denunce in cui ebbero una parte avidità e invidia, come in molti altri processi. Si ordinò ad alcuni esperti di dare un parere su due enunciazioni che contenevano una descrizione più o meno corretta della dottrina copernicana. La loro conclusione toccava due punti: quel che oggi chiameremmo il contenuto scientifico della dottrina, e le sue implicazioni etiche (sociali).
Riguardo al primo punto, gli esperti definirono la dottrina «insensata e assurda in filosofia» o, usando termini moderni, la dichiararono non scientifica. Questo giudizio fu dato senza far riferimento alla fede o alla dottrina della Chiesa, ma fu basato esclusivamente sulla situazione scientifica del tempo. Fu condiviso da molti scienziati illustri — ed era corretto fondandosi sui fatti, le teorie e gli standard del tempo. Messa a confronto con quei fatti, teorie e standard, l'idea del movimento della Terra era assurda. Uno scienziato moderno non ha alternative in proposito. Non può attenersi ai suoi standard rigorosi e nello stesso tempo lodare Galileo per aver difeso Copernico. Deve o accettare la prima parte del giudizio degli esperti della Chiesa o ammettere che gli standard, i fatti e le leggi non decidano mai di un caso e che una dottrina non fondata, opaca e incoerente possa essere presentata come una verità fondamentale. Solo pochi ammiratori di Galileo si rendono conto di questa situazione.
La situazione diviene ancor più complessa quando si considera che i copernicani hanno cambiato non solo le idee, ma anche gli standard per giudicarle. Gli aristotelici, non diversi in questo dai moderni studiosi che insistono sulla necessità di esaminare vasti campioni statistici o di effettuare «precisi passi sperimentali», chiedevano una chiara conferma empirica, mentre i galileiani si accontentavano di teorie di vasta portata, non dimostrate e parzialmente confutate. Non li critico per questo, al contrario, condivido l'atteggiamento di Niels Bohr, «questo non è abbastanza folle». Voglio solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano Galileo e condannano la Chiesa, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo era la Chiesa ai tempi di Galileo.
Riguardo al secondo punto, le implicazioni sociali (etiche), gli esperti affermarono che la dottrina copernicana era «formalmente eretica». Questo significa che contraddiceva le Sacre Scritture così come erano interpretate dalla Chiesa, e lo faceva con piena consapevolezza della situazione, non involontariamente.
Il secondo punto si fonda su una serie di assunti, tra cui quello che le Scritture siano un'importante condizione limite dell'esistenza umana e, quindi, della ricerca. Questa tesi era condivisa da tutti i grandi scienziati, tra cui Copernico, Keplero e Newton. Secondo Newton la conoscenza scaturisce da due fonti: la parola di Dio, la Bibbia, e le opere di Dio, la Natura, ed egli postulò l'intervento divino nel sistema planetario.
La Chiesa romana sosteneva inoltre di possedere un diritto esclusivo sullo studio, l'interpretazione e la messa in atto delle Sacre Scritture. I laici, secondo la Chiesa, non avevano né le conoscenze né l'autorità per occuparsi delle Scritture ed era loro proibito farlo. Questa norma non dovrebbe sorprendere chi conosce i comportamenti delle istituzioni che esercitano un potere. L'atteggiamento dell'American Medical Association verso i professionisti che non ne fanno parte è rigido come quello della Chiesa verso gli esegeti laici — e ha la benedizione della legge. Esperti, o ignoranti che hanno acquisito il riconoscimento formale di una competenza, hanno sempre cercato, spesso con successo, di assicurarsi diritti esclusivi in ambiti particolari. Qualsiasi critica al rigore della Chiesa romana è valida anche nei confronti dei suoi moderni successori che hanno a che fare con la scienza.
Passando ora dalla forma e dai presupposti amministrativi dell'obiezione al suo contenuto, notiamo che esso riguarda un argomento che sta diventando sempre più importante nel nostro tempo — la qualità dell'esistenza umana. L'eresia, intesa in senso lato, denotava una deviazione da comportamenti, atteggiamenti e idee che garantivano una vita equilibrata e santificata. Questa deviazione poteva essere incoraggiata dalla ricerca scientifica, e a volte lo era. Di conseguenza, era necessario esaminare le implicazioni eretiche degli sviluppi della scienza.
In questo atteggiamento sono presenti due idee. Anzitutto, si dà per scontato che la qualità della vita possa essere definita indipendentemente dalla scienza, che essa possa trovarsi in conflitto con esigenze che gli scienziati considerano naturali componenti della loro attività, e che conseguentemente sia la scienza a dover essere modificata. In secondo luogo, si dà per scontato che le Sacre Scritture, così come interpretate dalla Chiesa, indichino una forma corretta di vita piena e santificata. Il secondo assunto può essere rifiutato senza negare che la Bibbia sia assai più ricca di lezioni per l'umanità di qualsiasi cosa la scienza possa produrre. I risultati scientifici e l'ethos scientifico (se esiste) sono fondamenta troppo esili per dare un senso alla vita. Molti scienziati condividono questa opinione.
Si trovano d'accordo sul fatto che la qualità della vita si possa definire indipendentemente dalla scienza — che è la prima parte del primo assunto. Ai tempi di Galileo vi era un'istituzione — la Chiesa romana — che soprintendeva a questa qualità nei modi che le erano propri. Dobbiamo concludere che il secondo punto — vale a dire che Copernico fosse «formalmente eretico» — aveva a che fare con idee di cui c'è molto bisogno oggi. La Chiesa era sulla strada giusta.
Ma si sbagliava, forse, rifiutando opinioni scientifiche in contrasto con la sua idea di Buona Vita? Ho sostenuto che la conoscenza ha bisogno di una pluralità di idee, che anche le teorie più radicate non sono mai così forti da determinare la scomparsa di metodi alternativi, e che la difesa di queste alternative (quasi l'unico modo di scoprire gli errori presenti in posizioni molto rispettate) è necessaria anche da parte di una filosofia limitata come l'empirismo. Se essa risultasse necessaria anche per ragioni etiche, allora avremmo una ragione in più, anziché un conflitto con la «scienza».
Inoltre la Chiesa era assai più moderata. Non diceva: quel che è in contraddizione con la Bibbia interpretata da noi deve scomparire, per quanto siano forti le ragioni scientifiche in suo favore. Una verità sostenuta da un ragionamento scientifico non era respinta. Era usata per rivedere l'interpretazione di passi della Bibbia apparentemente incoerenti con essa. Molti passi biblici sembrano suggerire che la Terra sia piatta. Tuttavia la Chiesa ha accettato senza problemi che la Terra sia sferica. Dall'altro lato la Chiesa non era pronta a cambiare solo perché qualcuno aveva fornito delle vaghe ipotesi. Voleva prove scientifiche. In questo agì in modo non dissimile dalle istituzioni scientifiche moderne, che di solito aspettano a lungo prima di incorporare nuove idee nei loro programmi. Ma allora non c'era ancora una dimostrazione convincente della dottrina copernicana. Per questo fu consigliato a Galileo di insegnare Copernico come ipotesi; gli fu proibito di insegnarlo come verità.
Questa distinzione è sopravvissuta fino a oggi. Ma mentre la Chiesa era preparata ad ammettere che certe teorie potessero essere vere e anche che Copernico potesse avere ragione, se sostenuto da prove adeguate, ci sono ora molti scienziati che considerano tutte le teorie strumenti predittivi e rifiutano le discussioni sulla verità degli assunti. La loro motivazione è che gli strumenti che usano sono così palesemente progettati a fini di calcolo e che i metodi teoretici dipendono in modo così evidente da considerazioni sull'eleganza e sulla facile applicabilità, che una tale generalizzazione sembra ragionevole. Inoltre, le proprietà formali delle «approssimazioni » differiscono spesso da quelle dei principi di base, molte teorie sono primi passi verso un nuovo punto di vista che in un qualche tempo futuro potrebbe renderle approssimazioni, e un'inferenza diretta dalla teoria alla realtà è, pertanto, piuttosto ingenua. Tutto questo era noto agli scienziati del XVI e XVII secolo. (...) Il punto di vista copernicano era interpretato dai più come un modello interessante, nuovo e piuttosto efficiente. La Chiesa chiedeva che Galileo accettasse questa interpretazione. Considerate le difficoltà che quel modello aveva a essere considerato una descrizione della realtà, dobbiamo ammettere che «la logica era dalla parte di... Bellarmino e non dalla parte di Galileo», come scriveva lo storico della scienza e fisico Pierre Duhem.
Riassumendo: il giudizio degli esperti della Chiesa era scientificamente corretto e aveva la giusta intenzione sociale, vale a dire proteggere la gente dalle macchinazioni degli specialisti. Voleva proteggere la gente dall'essere corrotta da un'ideologia ristretta che potesse funzionare in ambiti ristretti, ma che fosse incapace di contribuire a una vita armoniosa. Una revisione di quel giudizio potrebbe procurare alla Chiesa qualche amico tra gli scienziati, ma indebolirebbe gravemente la sua funzione di custode di importanti valori umani e superumani.
Corriere della Sera 25.1.08
L'epistemologo anarchico
L'affaire Sapienza lo avrebbe divertito
di Giulio Giorello
Nelle conversazioni con gli amici, tanto per «ammazzare il tempo» (come suona all'incirca il titolo della versione italiana della sua Autobiografia asuo tempo pubblicata presso Laterza), Paul Feyerabend amava riferirsi al suo Contro il metodo
come a quel «bastardo, dannatissimo libro» che lo aveva trascinato in polemiche a non finire. In Italia è nota soprattutto la versione pubblicata da Feltrinelli nel 1979 che non contiene il celebre passaggio sul processo a Galileo; Feyerabend era solito modificare i propri testi nelle nuove edizioni. E comunque, quella sua valutazione del «caso Galileo » è contenuta in un contributo successivo dal titolo «Galileo e la tirannia della Verità», che fa parte dei saggi di Addio alla Ragione, pubblicato da Armando.
Uno dei motivi del contendere è che il filosofo e fisico austriaco aveva osato prendersela con Galileo Galilei, «il fiorentino scopritore non di nuove terre, ma di non più vedute parti del cielo», come recita la dedica con cui gli Accademici Lincei presentavano Il Saggiatore (1623) a Maffeo Barberini, ovvero Papa Urbano VIII, passato alla storia per aver in seguito fatto processare e condannare lo stesso Galileo. Il quale aveva, per così dire, rotto l'impegno, a suo tempo concordato con alti prelati, tra cui il cardinal Roberto Bellarmino, di non sostenere la validità della concezione copernicana in assenza di prove convincenti. A Feyerabend sono sempre piaciuti contrasto e anticonformismo. Galileo aveva avuto l'audacia di violare i criteri della buona scienza invalsi alla sua epoca e si era comportato da «opportunista»! Le evidenze che portava dall'osservazione dello «splendore dei cieli» potevano trovare spiegazione anche nei sistemi di Tolomeo e di Tycho Brahe; quanto all'argomento fisico delle maree abbozzato nel Dialogo sopra i massimi sistemi
per «dimostrare» il moto della Terra… faceva tipicamente acqua.
Se mi è lecito un ricordo personale, una volta il fisico Edward Teller (proprio lui, il padre della bomba H) mi diceva che Urbano VIII avrebbe addirittura potuto «bruciare Galileo »! Feyerabend non si spingeva a questo punto; si limitava a trovare corrette («razionali e giuste») le procedure seguite dalla Chiesa nei confronti dello scienziato. Roberto Bellarmino prima, e Maffeo Barberini poi, avevano soprattutto preoccupazioni di tipo etico: temevano che Galileo turbasse le coscienze proponendo una teoria che andava contro l'interpretazione usuale della Scrittura e che non pareva (ancora) confermata dalle osservazioni.
Ma Galileo aveva dalla sua il coraggio di chi sapeva di star «sovvertendo» la concezione dell'uomo centro del mondo e l'orgoglio di chi rivendicava il diritto di sostenere un'opinione, anche se sembrava «far violenza ai nostri sensi». Che le sue motivazioni più profonde fossero quasi di ordine estetico e poco dotate di supporto empirico, agli occhi di Feyerabend non toglieva niente al fascino di colui che il nostro Carlo Emilio Gadda chiamava ironicamente «il maligno pisano». Bertolt Brecht ci ha narrato la vita di un Galileo che non aveva saputo essere «eroe» fino in fondo. Feyerabend, che aveva ben presente l'approccio del drammaturgo tedesco, a sua volta ha messo a fuoco come colui che aveva mandato in pezzi «la fabbrica dei cieli » di Aristotele e di Tolomeo non fosse così attento alle «regole del metodo», come tendono a credere i posteri — specie storici e filosofi della scienza.
Paul e sua moglie Grazia Borrini amavano scherzare anche sul (cauto) interesse del teologo Joseph Ratzinger, all'epoca successore di Bellarmino, per le tesi del «dannato libro ». Probabilmente, la recente disavventura della Sapienza (intesa come università romana) avrebbe divertito Feyerabend, questo grande «anarchico delle idee», che aveva soprattutto il dono della leggerezza. Tanto più che in Italia Contro il metodo venne accolto come un testo che poteva «corrompere i giovani »: guarda caso, la stessa locuzione, infelicemente usata da qualche professore di laicismo nei confronti di Benedetto XVI.
Repubblica 25.1.08
"È il frutto del mancato dialogo coi cattolici"
Prime valutazioni dalla Santa Sede: esito inevitabile, troppa litigiosità
di Orazio La Rocca
CITTÀ DEL VATICANO - «Inevitabile. Da una coalizione così frammentata non ci si poteva aspettare altro». «E´ il frutto di una mancanza di dialogo che ha penalizzato in modo particolare i valori cattolici». Prime valutazioni d´Oltretevere sulla caduta del governo Prodi. Ne parlano, a titolo personale, due cardinali di Curia, il portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, e Giovanni Cheli, presidente emerito del Pontificio consiglio dei migranti ed itineranti, che concordano nella mancanza di attenzione dei valori cattolici uno dei principali motivi che ha portato alla fine del governo. Come lo stesso Clemente Mastella ha più volte denunziato anche quando ha giustificato le sue dimissioni da ministro subito dopo la mancata visita del Papa alla Sapienza. «C´è stata troppa frammentarietà nel centrosinistra e l´esito non poteva essere diverso», commenta Cheli, che accusa pure l´ex maggioranza di «essere stata troppo litigiosa e di aver messo in difficoltà in particolare i rappresentanti dei cattolici. Spiace, ma alla fine saranno i cittadini a farne le spese».
«Sono da oltre 30 anni in Italia - premette il cardinale Saraiva Martins - e seguo con interesse anche le vicende politiche di questo paese che considero la mia seconda patria. Ma ho notato, negli ultimi tempi che non c´è stata una volontà di dialogo tra i partiti, specialmente sui valori cattolici come famiglia, scuole e difesa della vita. Senza dialogo non si va da nessuna parte. Gli scontri non portano a nulla». Questa mancanza di dialogo, per il cardinale Saraiva Martins, ha «toccato l´apice nella mancata visita del Santo Padre alla Sapienza a causa di una minoranza che, però, ha di fatto costretto le autorità a bloccare l´iniziativa». Ora, conclude il porporato, «è bene che tutti i partiti tornino a dialogare e a pensare alle vere esigenze della gente con spirito costruttivo».
Repubblica 25.1.08
I segreti di una festa. Sior Paròn e il carnevale di Venezia
di Simonetta Fiori
È un libro pensato per i bambini, Comandi, sior paròn!, raccolta di "storie e storielle" dedicate alla città-teatro per eccellenza, ma anche lettori non più giovani potranno accostarsi con leggerezza al mistero del carnevale veneziano. Fondatrice della prima libreria per ragazzi a Roma ed esperta di letteratura per l´infanzia, Gina Bellot ci guida nel multiforme mondo di maschere, mascherine e mascherette, non solo Arlecchini, Pulcinella, Colombine, Pantaloni, ma anche baùte con il mantellino di pizzo, vezzose morette di velluto nero, "gnaghe" e "mataccini" orlati di piume, zendali e spiriti folletti. Con scrupolo filologico, il Carnevale viene evocato nella sua filosofia e nei suoi rituali, dalla laboriosa attività degli artigiani "mascareri" al "passo lento del listòn", la studiata passeggiata delle maschere lungo piazza san Marco (Nuove Edizioni Romane, pagg. 106, euro 8.50: presentazione con burattini domenica a Roma, alle ore 16, alla libreria Rinascita).
Nella fantasiosa veste grafica di Claudio Saba, le immagini del Canaletto e di Francesco Guardi fanno il resto, proiettando il lettore tra dame e cavalieri mossi da un´irrefrenabile spinta libertaria. Perché il Carnevale è anche sospensione dell´ordine costituito, illusorio rovesciamento delle gerarchie, e l´euforia può sfociare in duello sanguinario o rissa violentissima. Per molti secoli dogi e autorità di governo tentarono con leggi e decreti di contenerne la forza dirompente, colpendo soprattutto le donne. Un´aristocratica che osò sfidare la regola, entrando a teatro San Luca senza maschera in viso, fu condannata a restare chiusa in casa per ventuno giorni consecutivi. Correva l´anno 1776. Probabilmente vecchi modi di dire in uso ancora oggi - come "andar in spadina", cioè uscire senza cappotto - nascono da quei codici, come il divieto di portare mantelli che possano nascondere spade, spadine, pugnali o altre lame. Dietro le maschere scorre la storia della Serenissima, narrata da una veneziana innamorata di Venezia.
La Provincia 25.1.08
Intervista a Wilma Labate regista di “Signorinaeffe” stasera all'Oxer di Latina
Quei 35 giorni alla Fiat nel 1980
di Licia Pastore
«Volevo fare un film sul mondo del lavoro, gli operai, la fabbrica. Non c’è niente di meglio della Fiat, la grande fabbrica d’Europa, non solo dell’Italia. Poi volevo raccontare una figura femminile».
Wilma Labate, regista romana, conosce bene Latina, tanto che in una recente intervista rilasciata durante l’incontro al cinema Quattro Fontane di Roma, nel corso della presentazione del suo ultimo film Signorinaeffe, la cita.
«La Fiat? E’ grande come Latina!». Un’occasione curiosa per capire quale sia il suo legame con il capoluogo.
«Nessuno in particolare – spiega – era un esempio, per dire che la fabbrica per antonomasia è come una città di provincia. Latina? Si, la conosco molto bene ed è una città che mi piace per diversi aspetti compresa la sua vicinanza a Sabaudia».
Superato l’impatto, legato anche alle condizioni di una intervista telefonica, si arriva subito al personaggio clou del film, Emma.
«Raccontare una donna era una urgenza sentita da sempre – spiega – e poi al cinema si devono raccontare storie controverse e complicate di cui si è parlato poco e che sono legate a ciò che viviamo oggi».
Emma la protagonista, così come è rappresentata nel film, è una figura femminile nuova. Una donna fuori dagli schemi comuni. Definita come una figura femminile «precaria per definizione».
Lei ha voluto puntare sul fascino di una identità «contradditoria e autentica», che mette in scena il desiderio di viversi una passione senza indecisioni sapendo anche affrontare le conseguenze. Quale percorso l’ha condotta a questa scelta?
«E’ stato assolutamente automatico. Nello specifico mi sono ispirata ad un documentario girato da Giovanna Boursier. Si racconta la storia di una impiegata che nel 1980 partecipò alla marcia dei 40 mila, schierandosi contro gli operai. Nel 94 fu licenziata malgrado la sua dichiarazione di fedeltà alla fabbrica espressa nella marcia. Solo allora capisce che nel 1980 gli operai avevano ragione. Questo documentario mi ha ispirato per il personaggio femminile che nel film è invece una donna a tutto tondo. Una figura contraddittoria, come molto spesso è l’identità femminile. Non lo dico come critica piuttosto come una ricchezza delle donne. Io avevo il desiderio di raccontare una donna non scontata».
Il 1980. Ultima occasione per il Pci. C’è chi parla rispetto al film di una sconfitta. Lei invece dice un «inizio di possibilità». Rispetto al comunismo ritiene che si possa parlare anche di una sconfitta legata ad una visione politica che si è sempre espressa nella sola considerazione degli aspetti economici, a cui è mancata la conoscenza più profonda dell’essere umano e che, quindi, non è riuscito a dare risposte a quelle esigenze più ampie specifiche solo degli esseri umani?
«Il Pci, la politica non si è mai occupata del personale. Dell’aspetto più intimo della persona, ma solo del collettivo, ignorando quindi il fatto che la collettività è fatta di persone con delle loro esigenze, sentimenti, emozioni. Questo deve corrispondere a un sentimento collettivo. Quindi il personale è politico.
Io ho fatto un film su questo. Ho raccontato una storia collettiva e il destino delle storia privata risente di quella pubblica collettiva, dove l’identità femminile si esprime in termini molto contradditori, ma non disonesti».
La scena finale: un ricordo sbiadito, passato o una possibilità di rapporto?
«Ognuno può leggerla come vuole. Sono trascorsi 27 anni, loro sono due sopravvissuti. Io ho raccontato questa storia. In quella scena ci sono due personaggi moderni. Quelli erano anni che regalavano una forte appartenenza. Loro sono due individui non più legati ad una collettività. Due persone sole che si incontrano per caso. Chi vuol leggere una possibilità, la può leggere».
Liberazione 25.1.08
Quindici anni da buttare
di Piero Sansonetti
Il governo Prodi è arrivato al capolinea, l'Unione è fallita, il Partito democratico fortemente indebolito. Ma se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che è arrivato al capolinea un intero quindicennio, quello iniziato dopo "Tangentopoli", fondato sul bipolarismo e sul nuovo corso leaderistico e spettacolare della politica italiana. E' stato un periodo che ha visto diverse coalizioni di destra e di centrosinistra alternarsi alla guida del paese, con fragore di spade e lance, con lotte feroci di ceti politici. Ma senza contrapposizione di idee. Sono state solo lotte di potere. Le ultime tre legislature, coi governi Prodi-D'Alema-Amato, e poi Berlusconi e poi di nuovo Prodi, hanno sancito un modo di governare debole e arrogante, basato sull'autoesaltazione, spesso ridicola, dei leader, e sulla delega delle grandi scelte ai centri di potere esterni. La Confindustria, il Vaticano. Il risultato è stato quello di un fortissimo spostamento di ricchezze verso l'alto - cioè dai poveri ai ricchi, dal lavoro dipendente ai profitti e alle rendite - una forte riduzione dei diritti sociali e civili, un rinsecchimento del dibattito culturale. E tutto questo è avvenuto al di fuori di un disegno politico, di un'idea del futuro.
Non è così? Non abbiamo registrato, nonostante l'alternarsi delle maggioranze, una degenerazione della politica, sempre più invadente verso la società e sempre meno interessata a governare, a respingere le ingerenze, ad assumersi le sue responsabilità?
Il risultato, quasi plasticamente, lo abbiamo avvertito ieri in Senato. Ascoltando quel senatore che insultava il collega di partito e gli diceva "merda e frocio", e poi l'on Mastella - che ha aperto la crisi per motivi personali e di sfida verso la magistratura - mescolare argomenti politici rozzi e impresentabili con gli splendidi versi di un gran poeta, Neruda, un uomo nobile e coraggioso che credeva nella politica come lotta di valori - lotta fino alla morte - e che oggi certo sentirebbe i brividi se scoprisse di essere stato citato per scopi così bassi.
Non è il fallimento solo di un ceto politico. E' il fallimento di tutta la classe dirigente. Chi esce a pezzi da questo quindicennio è la borghesia italiana, che oggi non riesce più a orientarsi, non sa dove cercare rappresentanza politica perché per tutti questi anni ha concepito la politica solo come un "abbeveratoio", una macchina dispensatrice di favori, di mance, di soldi, di leggi addomesticate. Oggi la borghesia italiana è divisa, e di fronte alla gravità della crisi economica internazionale rischia di dilaniarsi ancora di più, e di far pesare sulla democrazia italiana le sue divisioni e la sua strutturale debolezza culturale e anche economica.
La sinistra può salvarsi solo se riesce a tirarsi fuori da questa palude. Ha un compito titanico dinanzi a sé. Quello di gettarsi a corpo morto nella battaglia per la riforma della politica, cioè della democrazia. Guardate che se questo compito non lo assume la sinistra non lo assume nessuno. Di sicuro non Berlusconi, non il Pd. Non hanno le doti per farlo. Scriveva Pasolini all'inizio degli anni '70: «E' certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Pci è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante...».
Se la sinistra accetterà di sobbarcarsi l'impresa, se sarà a questa altezza, c'è ancora una speranza. Sennò è buio fitto.
Liberazione 25.1.08
Il Sessantotto in Italia sotto tiro il marxismo storicista
di Stefano Petrucciani
Nell'ultimo "Micromega", oggi in edicola, un articolo del filosofo fa una mappa del "68-pensiero" individuandone i tratti culturali più innovativi. Pubblichiamo qui una parte del saggio dove ricorda l'esperienza dell'operaismo e il pensiero negativo
Al di là delle semplificazioni giornalistiche che insistevano sulla triade "Marx Mao Marcuse" (che, sebbene un po' surreale, fu realmente presente in qualche cartellone e striscione dell'epoca), la cultura del movimento del '68 fu una costellazione ricchissima, variegata e anche piena di contraddizioni, nella quale confluirono molti filoni di pensiero critico che in parte risalivano indietro alle rivoluzioni novecentesche, e in parte erano il frutto delle elaborazioni delle frange di sinistra eterodossa e dissidente che si erano formate in Europa negli anni Cinquanta e, soprattutto, nei primi anni Sessanta. La vastità e l'articolazione del "68-pensiero" rende difficile tracciarne una mappa; è possibile però indicare alcuni filoni principali, attorno ai quali si raccolgono le esperienze culturali più innovative e importanti che nutrirono i movimenti e i loro leader, e che conobbero anche una straordinaria diffusione di massa. Quest'ultimo aspetto non sarebbe da trascurare in una sociologia della cultura sessantottina: nel '68, infatti, il pamphlet e il libro di saggistica, politica ma non solo, circolarono in modi e in quantità mai viste né prima né dopo. E divennero, anche quando non venivano effettivamente letti, una bandiera, un distintivo o un segno di riconoscimento, fino al caso limite del "libretto rosso" contenente le citazioni del presidente Mao.
Ma la di là del folklore e del simbolismo, i movimenti dei tardi anni Sessanta furono effettivamente uno straordinario veicolo di circolazione di idee, furono caratterizzati da una eccezionale "fame" di interpretazioni e di punti di vista critici sulla realtà. Se il movimento del '68 fu, diversamente da tanti altri, anche un'esperienza ad alta intensità culturale, questo non dipese soltanto dal fatto che era, almeno in partenza, un movimento di studenti o di élite intellettuali. Il punto è piuttosto, credo, che si trattò di un movimento i cui obiettivi polemici erano molto diversi da quelli con i quali si erano misurati i movimenti sociali e politici del dopoguerra europeo. Bersaglio del '68, infatti, era, da un lato, la società capitalistica nei tratti inediti che era venuta assumendo, come società non più della scarsità ma dei consumi e del benessere, dell'opulenza e della tolleranza (sia pure repressiva, come ricordava Marcuse); dall'altro lato, obiettivo polemico erano le forme e le istituzioni nelle quali si era depositata l'onda lunga della sinistra europea figlia della rivoluzione d'ottobre, e cioè tanto i partiti comunisti dell'Europa occidentale (che purtuttavia raccolsero i frutti del '68 in termini elettorali) quanto il sistema oppressivo che caratterizzava i paesi del blocco sovietico.
Se il tema dell'antimperialismo (e la mobilitazione contro la guerra del Vietnam) ancora in qualche modo univa la vecchia e la nuova sinistra, su tutto il resto esse erano profondamente divise; e dunque uno degli aspetti principali della cultura sessantottina fu proprio la ricerca di un pensiero politico che fosse capace di andare oltre le secche nelle quali si erano arenati tanto il materialismo dialettico di stampo sovietico quanto il marxismo scolastico dei comunisti occidentali. Si trattò di una elaborazione culturale fortemente segnata dalle diverse specificità nazionali, e nella quale si intrecciarono la proposta teorica innovativa e la riscoperta delle tradizioni eterodosse, libertarie e minoritarie, che il marxismo ufficiale aveva ridotto al silenzio o relegato ai margini.
In Italia, i presupposti di quelle nuove culture che poi si ritroveranno tutte nel crogiolo del '68 vengono elaborati già a partire dai primi anni Sessanta. In una sinistra che non aveva rimosso i traumi del 1956 (il XX congresso del Pcus dove Chruscëv aveva denunciato i crimini di Stalin e l'invasione sovietica dell'Ungheria) si affermavano sia l'esigenza di ripensare in modo nuovo e non ipotecato da esperienze passate una prospettiva rivoluzionaria o socialista, sia quella di aggiornare gli strumenti teorici di fronte a un capitalismo che, con il boom economico dei primi anni Sessanta e poi con le aperture politiche del centrosinistra, mostrava un dinamismo e una vitalità che sfuggivano alle analisi marxiste tradizionali. Nella sinistra socialista come in quella comunista gli anni Sessanta sono dunque un periodo di straordinario fermento: nascono le riviste che più tardi pubblicheranno i dibattiti e i documenti del '68, come Giovane critica di Giampiero Mughini e i Quaderni piacentini di Piergiorgio Bellocchio, che della cultura sessantottina saranno la testata più autorevole e più appassionatamente letta. Ma l'esperienza politica e teorica di più marcata innovazione è certamente, nel pre-1968, quella del filone cosiddetto "operaista". La scommessa su cui nasce, nel 1961, la rivista Quaderni rossi , è quella di tornare a praticare il marxismo come strumento di analisi dei modi in cui si rinnova il capitalismo nel suo cuore pulsante, le grandi fabbriche del Nord, di ripartire quindi dalla classe operaia e dal suo potenziale di conflitto, in netta rottura con quella che era stata l'impostazione culturale di fondo del movimento operaio e del Pci. A un marxismo che si era diluito in un generico storicismo progressista, imbevuto di Croce di Gramsci, e a una linea politica che puntava su una generica unità delle classi popolari, il gruppo di Quaderni rossi contrappone un ritorno alle intuizioni più avanzate di Marx ( il Capitale e ancor più i Grundrisse ) come strumento per leggere le dinamiche del "neocapitalismo" e la nuova composizione della classe operaia che si concentra nelle grandi fabbriche. Nei Quaderni rossi convivono due anime che nel giro di qualche anno andranno ognuna per la sua strada: c'è un gruppo torinese che fa capo a Raniero Panieri, che proviene dalla sinistra socialista e che ha più forti interessi sociologici. E accanto un gruppo romano di matrice comunista dove spiccano Alberto Asor Rosa e Mario Tronti. Le tesi principali di Panzieri e dei Quaderni rossi sono in totale controtendenza rispetto a quelle prevalenti nel movimento operaio ufficiale: rivendicano la centralità e il carattere già politico delle lotte di fabbrica; negano la neutralità della scienza e della tecnologia e le leggono come inestricabilmente intrecciate con il dispotismo del capitale; propongono di pensare lo sviluppo capitalistico come razionalizzazione e pianificazione, uscendo dallo schema tradizionale che pensava il capitalismo come piano nella produzione e anarchia nella società.
I duri conflitti operai che scoppiano a Torino nel 1962, mentre sembrano già verificare le ipotesi su cui i Quaderni rossi sono nati, innescano anche aspre contraddizioni al loro interno. Nel '64 Tronti, Asor Rosa, Negri e altri si raccolgono attorno a un nuovo giornale, Classe operaia : insistono sulla necessità di costruire un'autonoma organizzazione di classe, e saranno il luogo di incubazione da cui nasceranno le prime formazioni organizzate del movimento sessantottino, come il Potere operaio di Pisa e il Potere operaio veneto-emiliano. A Tronti e a Asor Rosa si devono due libri che diventeranno testi di culto per molti militanti del '68: il primo pubblica nel '64 per Einaudi Operai e capitale , il secondo nel '65 Scrittori e popolo , una polemica durissima contro il neorealismo, il populismo e il nazional-popolare di cui era imbevuta la cultura del Pci. Il libro di Asor Rosa esce da Samonà e Savelli, una casa editrice romana fondata nel '63 e impegnata nel rilancio di un altro filone di pensiero eterodosso, quello trotskista. Un apporto non secondario (nel bene e nel male) del filone operaista fu quello di far interagire il pensiero della sinistra con il "pensiero negativo" (come lo chiamava Massimo Cacciari) o nichilista degli intellettuali borghesi dell'Otto-Novecento, come Schopenhauer, Nietzsche, Mann (e più tardi Carl Schmitt); è un tema che caratterizza la fase ulteriore dell'operaismo di Asor Rosa e Tronti, quella che, proprio nel '68, si raccoglie attorno a una nuova rivista, Contropiano . Ma non fu solo il filone operaista a mettere sotto tiro polemico il marxismo storicista che era egemone nel Pci: ad alimentare variamente la cultura del '68 italiano contribuì anche il marxismo riletto scientificamente da Galvano Della Volpe e da Lucio Colletti.