venerdì 25 gennaio 2008

l’Unità 25.1.08
Legge 40. Fecondazione, ecco la vera legge da rifare
Sentenze che ne decretano l’illegittimità, donne umiliate, meno figli. E una moratoria?
di Virginia Lori


Altro che 194: il vero fallimento è la fecondazione
Sentenze che ne decretano l’illegittimità donne umiliate, meno figli. E una moratoria?

EVITATE oltre 3 milioni e 300 mila interruzioni volontarie di gravidanza - di cui un milione di aborti clandestini. È questa il bilancio di 30 anni di legge 194. Meno bimbi e boom di viaggi della provetta all’estero, nonchè una sfilza di sentenze di tribunale che ne certi-
ficano il fallimento. Questo invece il «risultato» di quasi 4 anni di legge 40. Eppure, di moratoria sulla «legge medievale» sulla fecondazione assistita - la legge dei no: soprattutto quello alla diagnosi preimpianto - nessuno parla.
Due provvedimenti che riguardano direttamente la salute delle donne e la loro scelta di maternità. Due provvedimenti che funzionano in maniera «opposta». La 194 continua a far diminuire il numero di aborti - dai 235mila casi l’anno nel 1982 ai 20mila del 2006 - nonostante nei servizi pubblici, lo sottolina l’Istituto superiore di sanità, siano obiettori il 60% dei ginecologi, il 46% degli anestesisti e il 39% del personale non medico. E nonostante il problema consultori: 914 al nord, 428 nell’Italia centrale, 514 al sud e 207 nelle isole. La legge e la sua piena applicazione: per questo il ministro Turco tra l’altro ha proposto tre quesiti agli esperti per meglio definire i limiti dell’aborto terapeutico, ovvero dopo i primi 90 giorni di gravidanza. A rispondere sarà il Consiglio superiore di sanità a partire da una questione centrale: da quando inizia la possibilità di «vita autonoma» per il feto?.
Dall’altra parte il fallimento della legge 40. I giudici di Cagliari prima, quelli di Firenze poi e l’altro giorno quelli del Tar del Lazio hanno ribadito i limiti pesanti di quel provvedimento. Ribadendo soprattutto un punto: la prevalenza del diritto alla salute della donna così come sancito dalla Costituzione. È lecito ovvero rifiutare il numero obbligatorio di tre embrioni - come invece prescrive la 40 - se per esempio c’è il rischio di una gravidanza che può mettere a rischio la vita della madre. Salute, dunque. Ma anche dignità. I divieti della legge sulla fecondazione - da quello sull’eterologa, cioè al di fuori della coppia, a quello sulla sperimentazione e clonazione degli embrioni, passando per quello sulla diagnosi pre-impianto degli embrioni - hanno avuto conseguenza pesanti sulle coppie italiane. Dai rischi appunto legati all’impianto obbligatorio di tre embrioni alla questione dei viaggi all’estero, dove esistono leggi più avanzate ed umane. Le dimensioni del fenomeno, affermavano ieri Alessandro Di Gregorio, direttore del centro Artes di Torino che opera nel campo della riproduzione assistita dal 1982, e Luca Gianaroli, direttore scientifico del Centro Sismer sono impressionanti: «Le coppie che si recavano all’estero prima della legge 40 erano circa mille. Solo un anno dopo della sua entrata in vigore sono quadruplicate. Oggi, grazie a questa normativa, almeno 25 mila coppie si rivolgono all’estero, con una spesa media di ottomila euro per ciclo a cui vanno aggiunte spese di viaggio, pernottamento e sostentamento. E sono soldi in meno per le casse italiane».
Per non parlare della diminuzione delle gravidanze: nelle coppie con infertilità maschile nei passati 3 anni il numero di gravidanze a termine con successo si è ridotto dal 35,7 al 23,5% (oltre il 10% in meno sul totale). Nelle gravidanze in generale, il divieto di impiantare più di tre ovociti ha causato, per le donne con più di 35 anni, una riduzione del numero di gravidanze del 5-10%. Terzo effetto: nelle donne sotto i 28 anni il divieto di congelare gli embrioni ha costretto gli operatori, per avere più garanzie di successo, a impiantare insieme i tre consentiti dalla legge. Questo ha incrementato i parti gemellari dal 14 al 22% e i parti trigemellari dal 2 all’11%.
Ed ecco perchè - dopo l’ultima sentenza che «bocciava» le linee guida sulla fecondazione dichiarando di fatto legittima la diagnosi preimpianto - sono centinaia le telefonate di coppie che arrivano alle associazioni che hanno promosso il ricorso al Tar del Lazio. «A chiamare - spiega Filomena Gallo, legale di “Amica Cicogna onlus” e “L’altra cicogna onlus” - sono coppie che stanno già tentando di avere un bambino in qualche centro all’estero - ha aggiunto Gallo - e che ci chiedono se è possibile restare in Italia. Altre coppie, che non hanno i soldi per andare all’estero, ora vogliono sapere se le condizioni sono cambiate. Noi rispondiamo che i centri possono fare diagnosi preimpianto, non comporta nessun reato alla luce della legge 40».

l’Unità 25.1.08
Loretta Napoleoni: «Il Capitale ha mangiato la democrazia»
di Toni Fontana


«La mia è un’analisi marxista, nel capitalismo c’è un elemento canaglia»
«Il baricentro del pianeta si sta spostando, si affaccia una nuova Super-Cina»

L’INTERVISTA Parla Loretta Napoleoni autrice di un saggio sull’economia moderna: «Come ai tempi della Depressione del ‘29 il mondo è dominato da un meccanismo che produce nuovi schiavi».

Coi tempi che corrono, lo smarrimento che dilaga assieme alla paura della recessione americana e mondiale, le certezze che crollano, la politica che appare sempre più distante dalla vita dei cittadini, la lettura proposta da Loretta Napoleoni (Economia Canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, 17,00 euro) non risulta rassicurante o consolatoria. Ci dice anzi che le cose nel mondo stanno andando male, malissimo. Come ai tempi della Rivoluzione industriale e della Grande depressione del ‘29, torna il dominio dell’«economia canaglia» che produce schiavi (27 milioni), si «svuota il vecchio concetto di democrazia» e la politica non appare più in grado di dirigere i processi. Loretta Napoleoni, scrittrice ed editorialista, ha dedicato molti anni di studio al fenomeno del terrorismo del quale ha analizzato la natura e i piani (Al Zarqawi, storia e mito di un proletario giordano, Tropea, 2006) e la rete di finanziamenti e complicità. In Terrorismo SpA (Il Saggiatore) spiega che «1500 miliardi di dollari, il 5% del valore della produzione mondiale, rappresentano l’ammontare dei capitali su cui possono contare le organizzazioni eversive nel mondo».
«Studiando le economie del terrore - dice ora l’autrice - mi sono imbattuta nell’economia canaglia, ho capito che il terrorismo non rappresentava un’anomalia». Loretta Napoleoni ci tiene a ricordare che la sua è un’analisi marxista che le fa dire che «nel capitalismo vi è un elemento canaglia». Se ai tempi della Rivoluzione industriale era possibile «lo sfruttamento intenso della forza lavoro» oggi stiamo vivendo in un «lungo periodo di transizione» e, nell’era della globalizzazione, «la politica non controlla l’economia». Ciò deriva non tanto dai processi di globalizzazione, quanto «dallo svuotamento del concetto di democrazia». C’è democrazia in Iraq? Si chiede provocatoriamente la scrittrice convinta che dopo la caduta del Muro si è affacciata una nuova forma di schiavismo «e gli schiavisti - dice - sono i connazionali». Economia canaglia contiene una fotografia geopolitica del mondo nel quale viviamo, ma non è un trattato di geopolitica. Attraverso storie vere, prove, analisi e testimonianze dirette Loretta Napoleoni s’infila nelle maglie dei perversi meccanismi dell’economia e segue la «pista del denaro» fino negli angoli più remoti del pianeta. I nuovi schiavi sono nell’est dell’Europa, nel cuore dell’Africa, dal Congo all’Angola, nelle piantagioni della Florida e della California.
Lì, negli Stati Uniti, il «nuovo killer» si chiama obesità. I dati sono sconvolgenti: provoca 400mila morti all’anno, il 16% del totale dei decessi. «L’ossessione per il peso provoca la corsa ai cibi dietetici. Così invece di una “Diet Coke” ne beviamo cinque, ingrassiamo, incameriamo zuccheri. Il diabete uccide più del tabacco».
Dove porta un’analisi così cruda, tagliente e impietosa? Ad un nuovo pessimismo? «No - spiega l’autrice - noi dobbiamo essere consapevoli, capire quale realtà viviamo, che siamo protagonisti di una fase di trasformazione profondissima, forse la più profonda di tutti tempi». Loretta Napoleoni non individua un solo colpevole: «L’importante è aprire gli occhi. Questi processi ci sono sempre stati e sempre ci saranno, sono inarrestabili».
Guardando al futuro e al farsi e disfarsi delle grandi alleanze mondiali, l’autrice di Economia canaglia vede avanzare a grandi passi la Cina e la finanzia islamica. È convinta che saranno proprio questi due i principali attori nel futuro. «Il baricentro del pianeta si sta spostando - conclude - si affaccia una nuova super-Cina ed un asse che da Pechino raggiunge i ricchi paesi del Golfo e si spinge fino in Sudafrica». È questo nuovo asse che sostituisce quello nord-sud. «In quanto a noi - dice Loretta Napoleoni - non finiremo in miseria, ma diventeremo una forza di secondo piano».

l’Unità 25.1.08
Migliaia di persone ieri a Ravenna per l’ultimo saluto ad Arrigo Boldrini
Grazie comandante Bulow, non ti dimenticheremo mai
di Andrea Bonzi


«Grazie, Bulow». Non è un saluto che guarda solo al passato, quello che ieri migliaia di persone hanno porto alla salma di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow, scomparso martedì scorso a 92 anni. Riuniti nella centralissima piazza del Popolo di Ravenna, città natale del celebre partigiano, autorità e cittadini hanno reso omaggio alla vita di uno dei padri fondatori della Costituzione, mente e cuore dell’Anpi, nonché uno dei massimi esponenti del Pci-Pds. Lanciando un messaggio: l’eredità che Boldrini e i partigiani come lui hanno lasciato all’Italia è ancora attuale.
I valori della Resistenza e dell’antifascismo vanno rispolverati una volta di più oggi, «in un difficile momento politico italiano, nel quale bisognerebbe ritrovare quel senso di bene comune e quell’amore verso le istituzioni del Paese di cui la generazione di Boldrini è stata testimone per tanti anni», dice il vicepresidente del Consiglio, Massimo D’Alema nel suo discorso commemorativo. Il comandante Bulow D’Alema lo conosceva bene: «Mio padre era stato fra i primi giovani a partecipare alla formazione della 28/a Brigata Garibaldi, poi fu mandato da Boldrini a Ferrara per riorganizzare la Resistenza in città». Chiare le forze in campo, in quella sanguinosa stagione: «Al di là di ogni revisionismo - sottolinea D’Alema - i combattenti delle due parti non erano uguali, perché i partigiani combattevano per tutti», cioè anche per la libertà dei loro nemici, come amava ripetere lo stesso Bulow. Il ricordo dell’«eredità politica e morale» che Boldrini lascia all’Italia, spinge il sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, a dire «grazie» a chi, come Bulow, «ha deciso di sacrificare la propria giovinezza combattendo per la libertà. A loro ripeto: ne è valsa la pena, perché l’Italia è progredita in questi 60 anni».
La gente (pochi i giovani) applaude e si stringe attorno al figlio di Boldrini, Carlo. La bara, coperta del tricolore e trasportata da Carabinieri in alta uniforme, passa attraverso due ali di gonfaloni: da una parte, i simboli di Comuni ed enti locali, dall’altra i vessilli delle sezioni dell’Anpi listati a lutto. Sventolano bandiere di sindacati, e partiti: il Pd di Ravenna ha realizzato dei cartelloni con scritto «Grazie, Bulow». Per tutta la mattinata, il via vai alla camera ardente allestita nel palazzo comunale è stato ininterrotto. Con D’Alema c’è Piero Fassino («Il momento che striamo attraversando sollecita ad avere la stessa tensione morale delle generazioni precedenti») e in prima fila si riconosce, tra i tantissimi amministratori emiliano-romagnoli, il presidente della Regione Vasco Errani. Prende la parola Tino Casali, numero uno nazionale dell’Anpi che racconta come la Resistenza del compagno sia iniziata a pochi passi da lì, accanto alla statua di Garibaldi da cui la Brigata prese il nome. E spiega che l’arma vincente del comandante Bulow, nella sua tattica di battaglia in pianura, fu contare su braccianti e contadini: «Arrigo sapeva - osserva Casali - che la sua gente, che aveva strappato alle paludi la propria terra a fatica, avrebbe difeso la libertà con la vita. Credeva nella coralità della Resistenza, ed ebbe ragione». Per questo Boldrini fu decorato della medaglia d’oro dal generale dell’VIII armata inglese Mc Creery, che riconosceva così per la prima volta il valore militare di una brigata partigiana. «Il suo sorriso timido e allegro allo stesso tempo - chiosa Casali - trasmetteva forza e convincimento. Ciao, Bulow, non ti dimenticheremo». Dopo il silenzio militare, un lungo applauso saluta il feretro che esce dalla piazza. Le mani battono ritmicamente, la gente comincia a cantare Bella Ciao. E per un attimo sembra che Bulow - che gli inglesi chiamavo «l’inafferrabile» per la sua capacità di eludere i rastrellamenti dei fascisti - sia riuscito a sfuggire anche alla morte.

Repubblica 25.1.08
Se il fascismo rinasce con un volto nuovo
di Walter Laqueur


Quali sono le prospettive di fascismo, neofascismo e neonazismo nell´Europa e nell´America settentrionale del Duemila? Men che brillanti quanto più guardiamo avanti, esprimendo comunque alcune riserve a proposito di certi paesi, specie nell´Est Europa. Ma cosa succederà se i regimi democratici occidentali si dimostrassero incapaci di affrontare le sfide che li mettono alla prova? In numerosi paesi occidentali cresce la sfiducia verso i partiti e i professionisti della politica. Le realizzazioni del secondo dopoguerra, in particolare lo Stato assistenziale, vengono poste in discussione.
Però la gente è nel complesso troppo matura per credere che il neofascismo possa offrire soluzioni alternative. Pur essendo l´Europa in declino, i suoi cittadini non crederanno facilmente che i partiti che fanno appello al nazionalismo estremista siano in grado di salvarli.
In certi paesi europei, lo sviluppo di società parallele popolate da recenti immigrati sembra fornire terreno fertile alle ambizioni fasciste. In Scandinavia, Belgio e Olanda sono nati partiti antimmigrazione, ma sarebbe impreciso definirli fascisti o perfino di estrema destra: sono nazionalisti nella misura in cui vogliono tenere lontani gli stranieri indisponibili a integrarsi, ad accettare i valori tradizionali del paese.
Il destino di queste società parallele potrebbe rivelarsi una delle questioni politiche di rilievo dell´Europa dei prossimi anni. In certe nazioni questi ghetti sono piccoli e non sembrano costituire una minaccia per l´ordine esistente, specie se si ignora l´elevato tasso di nascite tra gli immigrati. In tal caso, è presto per mobilitare partiti antimmigrazione. Altrove, per esempio in Francia, l´elemento straniero è cresciuto in modo tale che non appare più praticabile uno scontro a livello politico: perfino chi è più ostile agli immigrati deve trovare la maniera di coesistere pacificamente, facendo dolorose concessioni. Ciò che rende ancor più arduo il compito dei sedicenti partiti fascisti europei è il fatto che essi non hanno più l´esclusiva delle rivendicazioni antimmigrazione. Nessun governo e nessun partito sono a favore di un´immigrazione illimitata: tutti sono consapevoli dell´urgenza e della gravità della questione. Questo non significa negare che il problema abbia prodotto un effetto notevole sulla politica europea, effetto che probabilmente crescerà negli anni a venire.

Parimenti difficile è presagire con convinzione il futuro del fascismo in Russia e in Europa orientale. La situazione economica e l ´influenza politica della Russia di Putin sono migliorate sensibilmente grazie al notevole aumento del prezzo di petrolio e gas naturale. Il paese è più stabile di quanto sia mai stato dalla caduta dell´Unione Sovietica. Ma se ne è pagato lo scotto sotto forma di erosione, e talora scomparsa, delle libertà concesse al tempo di Gorbacev. Alcuni osservatori occidentali sostengono che la Russia ha imboccato la strada verso il fascismo; tale giudizio appare prematuro ma un pericolo esiste realmente, visto che i partiti politici sembrano impotenti, mentre la maggioranza dei media e del potere giudiziario è strumento nelle mani del governo. Quindici anni fa vi era un grande sostegno alla democrazia, oggi pochi la appoggiano, anzi lo stato d´animo prevalente è nazionalista. I guru dell´estrema destra come Aleksandr Dugin, che una decina di anni fa erano al massimo considerati eccentrici e non venivano presi sul serio, sono diventati personaggi rispettabili, perfino sulla cresta dell´onda, ascoltati da ampi settori dell´intellighenzia e sostenuti dai militari.
Una rassegna della destra estremista dovrebbe includere il Partito comunista all´opposizione, che in questo senso non ha conti in sospeso con la destra ("La Russia ai russi"). La temperie prevalente sembra quella della situazione di Italia e Germania dopo la Prima guerra mondiale: una sensazione di umiliazione, di un paese che ha perso il suo status di potenza internazionale. Di qui la voglia di rivincita, l´impulso a punire gli ingrati, ovvero le repubbliche che hanno scelto di separarsi, e soprattutto il nemico tradizionale, l´America, col codazzo dei paesi occidentali che ne accettano l´influsso.
Finora i successi e le offensive dei neofascisti russi sono stati impediti dalla difficoltà di attaccare Putin da destra, vista la sua politica estera di affermazione nazionale. Inoltre, i gruppi destrorsi sono divisi in innumerevoli sette e fazioni. Né è facile stabilire quali siano superpatriottici in buona fede e quali vengono sponsorizzati o assistiti dall´Fsb, il successore del Kgb. Come accadde nell´ultimo decennio di regime zarista, la polizia segreta si è infiltrata nei gruppi estremisti e ne dirige in larga parte le operazioni.

In seguito al fallimento dei nazionalismi laici, nel mondo arabo è venuto il turno dei fondamentalismi religiosi. Fino a che punto può essere utile la definizione di "fascismo islamico" per far riferimento ai musulmani più radicali, siano essi al potere o all´opposizione? Alcune somiglianze col fascismo sono eccezionali: populismo, convinzione di possedere la verità assoluta ("La risposta è l´islam"), contrapposizione alla democrazia e al liberalismo, antisemitismo e carattere aggressivo, espansionista. Per questi estremisti, l´islam non è solo una religione, ma anche un sistema sociale e politico onnicomprensivo, da cui è vietato deviare e che non è possibile cambiare o riformare. Pur non avendo un Duce o Führer unico, esiste un leader spirituale (o una leadership collettiva), coi suoi aiutanti designati che svolgono ruoli simili. Non c´è un partito politico che abbia il monopolio del potere, ma la moschea incarna la medesima funzione per quanto attiene alla mobilitazione e all´indottrinamento ideologico delle masse. Allo stesso tempo ci sono però differenze che non vanno sottovalutate. Il fascismo era un fenomeno europeo e le moderne dittature extraeuropee si sviluppano secondo linee alquanto diverse, cioè obbedendo alle tradizioni storico-culturali e alle particolari condizioni locali.

Riassumiamo: il fascismo era il figlio bastardo di un determinato periodo storico e, siccome tale periodo appartiene al passato, le possibilità di un secondo avvento del movimento, o di movimenti analoghi, sono scarse, più che altro in Europa ma anche in altre parti del pianeta. Esso era però soltanto una forma moderna di dittatura aggressiva, che si serviva efficacemente del terrore e della propaganda; e possiamo certificare che le dittature non scompariranno dalla faccia della terra. Nel linguaggio popolare, il termine fascismo è diventato sinonimo di tirannia brutale e disumana, il nec plus ultra della barbarie.
Dire che il fascismo storico è una cosa del passato non significa sfortunatamente che regimi e movimenti barbarici di tal fatta, ma diversi per motivazione, ispirazione o apparenza, non possano ricomparire, né vuol dire che è prevalso il regno della libertà, della democrazia e dei diritti umani. Anzi, è del tutto possibile che forze micidiali, perfino peggiori e più pericolose del fascismo, possano sfidare l´umanità nel Ventunesimo secolo, magari usando armi di distruzione di massa. Per stanare e liquidare le loro vittime, i carnefici del nazismo dovevano spostarsi di villaggio in villaggio, di casa in casa. Nell´epoca delle armi di sterminio cadute in mano ai fanatici l´assassinio integrale è diventato molto più facile e, in futuro, il numero delle vittime potrebbe essere più consistente. La sopravvivenza della libertà e delle istituzioni democratiche in questa nuova era è in equilibrio precario come non mai.
Traduzione di Daniele Ballarini

Repubblica 25.1.08
Così vinse Hitler
Settantacinque anni fa saliva al potere, ne parliamo con lo storico Michael Stürmer
di Andrea Tarquini


"Tra il 1932 e il ´33 tutti i giornali borghesi pensavano ad una fine del nazismo"
"La prima guerra mondiale fu una rivoluzione e lo Stato divenne un tiranno collettivo"

BERLINO. «Hitler non era inevitabile, ma la caduta della Repubblica di Weimar sì. Il nazionalsocialismo non tornerà. Con le crisi attuali però le democrazie europee appaiono esposte al rischio populismo». E´ la diagnosi del professor Michael Stürmer, ex consigliere del cancelliere Helmut Kohl e tra i massimi storici tedeschi. Con lui facciamo il punto, mentre stanno per cadere i 75 anni dell´avvento di Hitler.
Professor Stürmer, al contrario del terrore bolscevico, il nazionalsocialismo vinse in un paese civile ed evoluto. Era davvero impossibile evitarlo?
«Guardiamo all´orizzonte storico di allora. Negli anni di crisi dal 1929 Hitler era evitabile, la caduta della repubblica di Weimar no. Infatti mutò in un sistema di dittatura presidenziale. Che avrebbe potuto sopravvivere».
Perché non fu così?
«Tra il 1932 e il ‘33 tutti i giornali borghesi, centristi, commentavano con ottimismo: Hitler e il suo movimento sono finiti.
Hitler era a un passo dal suicidio, nei suoi diari Göbbels narrò della disperazione del capo. Poi venne la svolta. Vinsero le elezioni, e valse da quel momento la parola di Göbbels stesso: "da qui nessuno ci farà più uscire vivi"».
Ma dove furono, nella civile Germania, le radici del nazionalsocialismo?
«Molti fattori furono necessari ma non sufficienti. Primo, il trauma della modernizzazione e quindi industrializzazione, urbanizzazione accelerata. Un processo con molti vincitori ma anche molti perdenti. Si smarrirono le cognizioni di limiti, confini e radici. La Germania del 1914 era ben diversa dalla Germania di Bismarck. Fu creativa in ogni campo, anche poi sotto Weimar: dall´arte, all´architettura, dal nuovo mondo dell´anima con Freud alle scienze sociali con Max Weber alle scienze con Einstein e Max Planck, alla tecnica. Ma fu innovativa anche nella Kriegsfuehrung, l´arte di fare la guerra».
In che senso?
«Cominciò a pensare la guerra a livello industriale, una dimensione inimmaginabile prima. Una condotta della guerra senza regole. Cadde un´altra frontiera. In un momento storico in cui i Lenin, gli Hitler, i Mussolini erano già presenti, ma ancora incatenati dalle strutture del passato, la prima guerra mondiale fu una rivoluzione. Lo Stato divenne un tiranno collettivo, espropriò, eliminò élites intere, distrusse ceto medio e piccole aziende, si comportò con un cinismo mai visto. Quello che oggi gli americani chiamano "post-battle trauma" per i reduci dal Vietnam o dall´Iraq allora colpì l´intera nazione».
Una rivoluzione non identificata come tale?
«Sì. Poi venne il trattato di pace, che fu una brutale messa in ginocchio e una spoliazione dell´economia tedesca, con la premessa che la Germania fosse l´unica colpevole della guerra. Le riparazioni di guerra fecero volare l´inflazione, mandarono in rovina milioni di persone. L´inflazione galoppante distrusse non solo i risparmi ma anche ogni idea di giustizia, responsabilità, rigore finanziario. E l´immagine della democrazia».
Poi la crisi del ‘29. La dittatura divenne allora inevitabile?
«Nel ‘29 la Germania, dovendo ancora riparazioni di guerra, non ebbe la forza di sganciarsi dall´oro e svalutare, a differenza di quanto fecero Usa e Regno Unito. Allora crebbe un piccolo partito marginale. Nessuno capì quanto fosse profonda la disperazione nella gente. La paura del crollo sociale univa borghesia e lavoratori, c´era la paura del bolscevismo, anche nella Spd, e arrivò Hitler: promise tutto e il contrario di tutto, era l´ambivalenza in persona. La disoccupazione era a 6 milioni, senza il welfare di oggi, più i figli dei contadini: quasi un terzo della forza lavoro. La borghesia e le sue espressioni politiche - rileggiamo Fest - erano sempre più deboli, lui non aveva antagonisti. Hindenburg era un vecchio scemo, non aveva capito il pericolo».
Solo lui non lo aveva capito?
«Il segreto del successo di Hitler fu la sua sottovalutazione da parte di tutti o quasi. I socialdemocratici dissero "vincemmo contro Bismarck, vinceremo anche contro questo guitto austriaco". Lo sottovalutarono l´esercito, la Chiesa, i governi britannico, francese, americano. Gli stessi ebrei! Un anno dopo le leggi razziali di Norimberga, vennero tutti alle Olimpiadi di Berlino come maschere di carnevale! Non avevano letto Mein Kampf, in cui i programmi erano chiari».
Perché lo sottovalutarono tutti?
«Parlava come un proletario, non sembrava un politico di successo. Non capirono che proprio l´uomo che viene dal nulla è svincolato da tutto, e può rivoluzionare il mondo. Il totale nichilismo della sua volontà di potere non fu preso sul serio. Non ci si chiese allora se il Male esiste. E poi, quanto era ancora civilizzata la Germania di allora dopo quell´erosione dei valori cominciata al Fronte nel ‘14? Lui sedusse i giovani. A 44 anni, fu e resta il più giovane tedesco eletto cancelliere. La maggioranza dei giovani era per lui; come l´architetto Albert Speer, e nelle Ss, Heydrich. I giovani subalterni passati con lui facevano paura ai loro superiori anziani: nelle forze armate - lo narra Enzensberger nella sua biografia di von Hammerstein - e in ogni campo».
Perché le voci contro di lui furono così deboli e rare?
«Ben presto divenne molto pericoloso parlarne male. La Gestapo fu creata in fretta. Il terrore era anche personale. I campi di concentramento furono aperti e pubblicizzati. Le leggi successive all´incendio del Reichstag abrogarono lo Stato borghese di diritto. E fu un misto di terrore e seduzione: la paura della polizia, e poi della polizia segreta, era reale nel quotidiano. E il regime seduceva con l´immagine di ordine, creando posti di lavoro, specie per il riarmo. Fu un totalitarismo ma non integrale. Convissero, narrò anche Sebastian Haffner, due vite, due Stati: la vita normale, il cinema, il jazz, divorzi e diritto civile in mano a magistrati ordinari. E lo Stato in mano alle Ss: arbitrio, tortura, minaccia di morte. Tutto ciò senza libera stampa, con le informazioni diffuse solo da Göbbels».
Troppo consenso, poca opposizione?
«L´opposizione era troppo debole e soprattutto divisa. I giovani non erano con lei. Il 1933 fu una rivoluzione giovanile, i vecchi difesero male una repubblica già caduta. Tutto ciò, insisto, in un paese in cui nei primi anni il Terrore coesisteva con cinema, cabaret, feste. Vita normale, diverso dalla Mosca di Stalin. Sembrava che il Terrore colpisse solo gli altri. Seduzione e violenza insieme, un totalitarismo che concedeva illusioni, furono la sua ricetta. Fino alla guerra».
La guerra sarebbe stata evitabile?
«Hitler era un astuto giocatore d´azzardo. Pensava a un´espansione, all´inizio, non al dominio d´Europa intera. Non a caso armò la Luftwaffe ma senza pensare a bombardieri a lungo raggio. Poi sottovalutò i russi e l´impatto delle forniture militari americane e britanniche a un´Urss enorme, dal gelido inverno e decisa a combattere. Fu il suo errore fatale».
Oggi il pericolo di demagoghi e populisti è di nuovo minaccioso?
«Il nazismo non tornerà. Però il potenziale di crisi, seduzione, prontezza alla violenza, mobilitazione esiste. Troppo a lungo abbiamo comprato il benessere e la pace sociale con un forte indebitamento pubblico. Una crisi è pensabile. Come negli Usa oggi, o con un altro volto. Un petrolio a 200 dollari al barile in futuro non è impensabile. S´intravvedono scenari di dure lotte sociali. Ci vogliono persone qualificate, e le nostre università ne sfornano troppo poche. Ogni anno 150mila giovani qualificati emigrano dalla Germania. Gli scenari peggiori sono una recessione e una guerra in Medio Oriente. Per non parlare della sfida della globalizzazione. I rischi esistono. Ma l´ho sentito dire solo da un politico, Helmut Kohl. Disse che bisognava rendere l´Europa unita irreversibile. Che cioè la Ue era reversibile! I populisti lo sanno. Ma riguardiamo indietro: Hitler era un giovane senza arte né parte, Himmler un allevatore di polli, Goering un ex pilota da caccia cocainomane. chi poteva temerli? Il Male è nel genere umano, solo che di solito non è scatenato».

Corriere della Sera 25.1.08
Il leader del centrodestra e le strategie per il dopo-Prodi
Ma l'asse tra Silvio e Walter non si spezza «Come me vuole le urne. O lo fanno a fette»
di Francesco Verderami


L'allarme di Pisanu
I poteri forti si faranno sentire per evitare il ricorso immediato alle elezioni ma non avranno alcun effetto su Silvio

ROMA — Vuole le elezioni Berlusconi, «e non sono il solo». Così diceva ieri mentre assisteva alla caduta del governo, alla fine della «parentesi» prodiana durata meno di due anni e vissuta come una cocente sconfitta. Vuole le urne il Cavaliere, «ma le vuole anche Veltroni», ha confidato prima di prepararsi al rito delle consultazioni. E il modo perentorio in cui ha spiegato la tesi fa capire che tra i due si sarà pure interrotto il dialogo per la riforma della legge elettorale, ma che l'asse politico resiste e non si spezza. C'è un motivo — secondo Berlusconi — per cui il leader del Pd mira al voto, «e al più presto»: «Lui per primo non ha interesse ad un governo che duri un anno, perché così non reggerebbe a lungo nel suo partito. Lo farebbero a fettine. Guardate come si sono organizzati per metterlo sotto. D'Alema e i popolari da una parte, Prodi dall'altra... La resa dei conti tra loro non è nemmeno iniziata».
Il Cavaliere sembrerebbe disinteressato nel tendere una mano a Veltroni, per salvarlo dall'assedio. In realtà è un modo per evitare di finire anche lui imbrigliato nelle alchimie di Palazzo, per impedire che tornino in gioco quanti al momento sono invece ai margini. «E vedrete — spiegava ieri il forzista Pisanu — che la gran cassa dei media proverà a forzare la mano per un governo di larghe intese o istituzionale o tecnico pur che sia. Vedrete che i poteri forti si faranno sentire pur di evitare il ritorno immediato alle urne. Quale effetto avranno su Berlusconi queste pressioni? Nessuno ». Infatti il capo di Forza Italia è lì che prepara la sua rivincita, riceve schede programmatiche dai suoi consiglieri e parla del governo che verrà: «Ci aspetta un duro lavoro. Bisogna cambiare tutto». Manco a dirlo, in cima alla lista dei suoi pensieri ancora ieri c'era «la riforma del sistema giudiziario »: «Questo sistema è una vergogna. Roba da terzo mondo».
Sono dettagli, certo, che tuttavia consentono di capire quale sia la strategia del Cavaliere, e al tempo stesso quanto sia robusto il rapporto con Veltroni. Perché non può essere solo una coincidenza il fatto che Berlusconi abbia svolto delle simulazioni di voto molto simili a quelle commissionate dal segretario del Pd. Il leader del Pdl prevede un «limite minimo garantito» alle urne per il centro- destra: «Prenderemo almeno il 55%», ha assicurato agli alleati. E tra questi ci sono anche Dini e Mastella, che prima di rompere con l'Unione ha chiesto e ottenuto rassicurazioni dal Cavaliere, perché si vada alle urne con questa legge elettorale. «Il Porcellum conviene a tutti, conviene anche a Veltroni», sorrideva ieri il leghista Calderoli: «Ah, se solo potessi parlare...».
Le elezioni sono il traguardo ambito da Berlusconi, conscio che — come dice Pisanu — «nemmeno Casini può ormai staccarsi troppo da lui». Resta il rito delle consultazioni, e restano le incognite che quel rito si porta appresso. Ma la mossa di Prodi, la sua volontà di cadere al Senato con un voto, ha ristretto i margini di azione del Quirinale. Il Cavaliere si aspetta che Napolitano incarichi il presidente del Senato Marini con un mandato esplorativo, ascolta senza cedimenti le sirene che lo lusingano promettendo un ruolo a Gianni Letta, e attende che Veltroni si muova in perfetta sintonia con lui. Come d'altronde sta già facendo, criticando l'ipotesi delle elezioni anticipate e parlando di un governo per le riforme, a cui il leader del Polo non darà mai l'assenso. Insomma, tutto secondo copione. Tutto secondo le regole bizantine della politica italiana.
E mentre la legislatura si prepara a tramontare, cambiano amicizie e abitudini. Ieri pomeriggio Mastella era attorniato dai polisti che andavano a salutarlo. C'era il centrista Baccini che si faceva largo tra i senatori: «Fatemi parlare con il mio alleato». E c'era il leghista Calderoli che confortava l'ex Guardasigilli — stressato per le vicende familiari — con sorrisi e strette di mano. «E dire che poco prima — ha raccontato il forzista Cantoni — D'Alema era passato accanto a Mastella, e malgrado lo avesse incrociato non lo aveva degnato nemmeno di un saluto. Clemente allora si è voltato verso alcuni suoi amici di partito e ha detto: "Avete visto chillu str..."».
Come cambiano i rapporti. E come cambiano le cose. Nel Pd sta per iniziare il redde rationem e già si intuisce che sarà una guerra senza quartiere. Berlusconi è convinto che Veltroni sia dalla sua parte, che anche lui preferisca le elezioni. Resta ancora da capire — e non è di poco conto — se sarà Prodi a traghettare il Paese alle urne. Il Cavaliere preferirebbe così e non è preoccupato di lasciarlo a palazzo Chigi, alla vigilia di un giro di nomine che vale più di una lista di governo. Guarda caso, la tesi di Berlusconi coincide con quella di un autorevolissimo ministro democratico: «Tra la possibilità di stabilire a chi assegnare quei posti di potere e il desiderio di affondare Veltroni, Prodi sceglierà sicuramente questa seconda opzione». Ecco perché il capo del Polo dice di non essere il solo a volere le urne.

Corriere della Sera 25.1.08
Uteri in affitto all'estero per far nascere bimbi italiani
di Monica Ricci Sargentini


I costi Le madri, in genere, sono due: quella che dona l'ovulo e quella che porta avanti la gravidanza. Tariffe più basse all'Est
Le regole Serve un certificato di nascita internazionale, poi la registrazione all'anagrafe del Comune di residenza è automatica
Preferiti gli Usa. Pacchetti «tutto compreso»
Le coppie gay
Risolti i problemi giuridici anche se i genitori sono omosessuali: agli atti risulta la rinuncia della madre ai suoi diritti

Francesca ha perso suo figlio all'ottavo mese di gravidanza a causa di una predisposizione, non diagnosticata, alla trombofilia. Il piccolo è nato morto e una grave emorragia le ha portato via anche l'utero. Barbara, invece, imputa la sua disgrazia a un errore medico in sala parto. «Se il cesareo fosse stato fatto subito — racconta — oggi Tommaso sarebbe ancora vivo». Anche lei, con l'intervento, ha perso per sempre la possibilità di costruirsi una famiglia in modo naturale. Diverso il caso di Sabina: rimasta incinta sette volte, non è mai andata oltre la dodicesima settimana. Sono loro le tipiche surromamme, quelle che per diventare madri hanno un'unica possibilità: ricorrere all'aiuto di un'altra donna che porti avanti la gravidanza al loro posto. Un percorso complicato, illegale in Italia ancor prima della legge 40, ma possibile all'estero dove fioriscono le agenzie che offrono pacchetti «tutto compreso», dall'assistenza legale alla ricerca della portatrice, come viene spesso chiamata la madre surrogata. E non sono poche le coppie italiane, eterosessuali e omosessuali, che si fanno tentare. «Il fenomeno è in crescita esponenziale — spiega Gail Taylor, 39 anni, fondatrice di Growing Generations, l'agenzia californiana nata nel 1996 e dedicata esclusivamente alla comunità gay —. Riceviamo richieste da tutto il mondo. Anche dal vostro Paese. Finora avremo aiutato decine di coppie omosessuali italiane. Per quelle etero, invece, abbiamo fondato nel 2002 Fertility Futures e anche lì i clienti non mancano».
Il costo però è quasi proibitivo: «Per uno straniero — spiega Taylor — si aggira tra i 150mila e i 170mila dollari. Il primo appuntamento è gratuito e senza lista d'attesa qui negli States. Altrimenti possiamo venire noi in Italia ma in quel caso bisogna aspettare».
Di problemi legali non ce ne sono. Gli accordi tra le parti vengono studiati nei minimi dettagli e in molti Stati americani, dalla California all'Illinois, è possibile stabilire ancor prima del parto la paternità e maternità dei genitori riceventi. Il nome della portatrice non appare sul certificato di nascita. Il che rende possibile tornare in Italia con un figlio proprio a tutti gli effetti. E senza nemmeno passare dal consolato. «Il bambino quando nasce ha la cittadinanza americana — spiega Richard B. Vaughn, avvocato al National Fertility Law Center di Los Angeles —, dopo dieci giorni si può chiedere il passaporto e lasciare il Paese. Più delicato il caso delle coppie gay. Qui in California è possibile registrare allo stato civile due padri ma per i Paesi che non lo permettono, consigliamo ai nostri clienti di far apparire la madre surrogata sul certificato di nascita, previa rinuncia alla patria potestà, oppure di lasciare solo il nome del padre.
Entrambi i casi sono stati accettati in Italia».
L'avvocato Ezio Menzione ha lo studio a Pisa e si occupa da anni di garantire le coppie dai trabocchetti giuridici: «È importante — spiega — l'aiuto di un legale per avere i documenti in regola per la trascrizione dell'atto di nascita in Italia. A volte gli stati civili pongono dei problemi perché hanno paura che ci sia sotto un'adozione. Proprio ieri sono dovuto intervenire presso lo stato civile di Roma ma ho risolto la cosa per telefono. L'importante è che il certificato di nascita abbia una validità internazionale, in termini legali si definisce apostille. Con questo documento non bisogna nemmeno passare dal consolato». Qualche complicazione in più se la coppia è omosessuale: «Nella maggior parte dei casi risulta una madre che ha rinunciato ai diritti genitoriali e che poi non comparirà nello stato civile. A meno che il padre non lo desideri».
Il percorso, comunque, è ormai collaudato per le nascite negli Stati Uniti e in Canada, un Paese che offre gli stessi standard americani a un prezzo minore: dai 40mila ai 50mila dollari. «So di coppie — aggiunge Menzione — che sono andate in Ucraina o in Russia. Anche lì è legalmente possibile. Ma io non me ne sono mai occupato. Bisogna conoscere molto bene il diritto del Paese in cui si opera per evitare che la piccola o il piccolo venga trattenuto alla frontiera una volta nato».
Alcuni italiani, per stare più tranquilli e anche per risparmiare, reclutano una parente. Stefania, per esempio, è tornata da Kiev proprio in questi giorni. Sarà la sorella a portare in grembo il suo bambino che sarà partorito in Ucraina. Il costo è di circa 10mila euro (25mila se la portatrice è fornita dalla clinica). «In questo caso — spiega Menzione — non dovrebbero esserci problemi perché sul certificato di nascita comparirà il nome della madre biologica, che ha donato gli ovuli, e non di quella surrogata». Lo stesso discorso vale per la Russia dove si pagano circa 42mila euro.
Molto delicata è la scelta della portatrice. Affidarsi a Internet per risparmiare non è mai una buona idea. Il rischio di una truffa o di un ripensamento è troppo alto. Le agenzie più serie sottopongono le loro candidate a uno screening psicologico molto attento. Due i requisiti base: avere già avuto un figlio ed essere indipendente economicamente. È importante anche che la famiglia della donna sia d'accordo. E che la gravidanza sia gestazionale cioè che la surrogata sia inseminata con l'ovulo della madre ricevente o di un'altra donatrice. In questo modo il bambino che nascerà non sarà biologicamente suo e l'attaccamento psicologico sarà minore. Ma cosa spinge le portatrici a candidarsi? «La maggior parte — spiega Gail Taylor — lo fa per amore, perché gli piace essere incinta e aiutare gli altri. Poi, ovviamente, c'è anche il lato economico».

Corriere della Sera 25.1.08
Feyerabend e Galileo: il testo mai letto in Italia
di Paul Feyerabend


Ecco il capitolo del filosofo citato dall'allora cardinale Ratzinger all'origine della rivolta di un gruppo di docenti universitari
L'obiettivo? Proteggere la gente comune dagli artifici degli specialisti

La Chiesa all'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione.
Nel XVII secolo vi furono molti processi. L'azione legale si avviava a seguito di accuse mosse da privati, o di un atto ufficiale di un funzionario pubblico, o di un'indagine, basata a volte su sospetti piuttosto vaghi. A seconda del luogo, delle competenze giurisdizionali e dell'equilibrio dei poteri, i crimini potevano essere investigati da tribunali laici, come quelli del re o di una libera città, da tribunali ecclesiastici annessi alle diocesi, per le questioni spirituali, o dai tribunali speciali dell'Inquisizione. A partire dalla metà del XII secolo, i tribunali episcopali si avvalsero in gran misura dello studio del diritto romano. Gli avvocati divennero così influenti che, anche in mancanza di una preparazione in diritto canonico e in teologia, venivano spesso preferiti ai teologi. I processi dell'Inquisizione non tenevano conto delle tutele previste dal diritto romano e diedero luogo ad alcuni eccessi, ampiamente divulgati. Una minore attenzione è stata tuttavia rivolta al fatto che gli eccessi dei tribunali laici erano spesso paragonabili a quelli dell'Inquisizione. Erano tempi duri e crudeli. Nel 1600 l'Inquisizione aveva perso molto del suo potere e della sua aggressività, soprattutto in Italia, e in particolare a Venezia.
I tribunali dell'Inquisizione punivano anche crimini che riguardavano la produzione e l'uso della conoscenza. Questo si spiega con la loro origine: dovevano sradicare l'eresia, cioè un insieme di azioni, idee e dibattiti che portavano le persone a propendere per un determinato credo. Il lettore stupito che si chiede che cosa abbia a che fare la conoscenza con la legge dovrebbe considerare i molti ostacoli legali, sociali e finanziari che devono affrontare oggi i progressi delle conoscenze. Galileo voleva che le sue idee rimpiazzassero la cosmologia del tempo, ma gli fu proibito di lavorare in quella direzione. Oggi la ben più modesta aspirazione dei creazionisti a veder insegnate le loro opinioni nelle scuole, affiancandole e mettendole in competizione con idee diverse, si scontra con leggi che stabiliscono la separazione tra Chiesa e Stato. Una quantità crescente di conoscenze e tecnologie è tenuta segreta per ragioni militari ed è pertanto esclusa dagli scambi internazionali. Gli interessi commerciali generano le stesse tendenze restrittive. Così la scoperta della superconduttività nella ceramica a temperature (relativamente) alte, frutto di una collaborazione internazionale, ha indotto il governo americano ad adottare misure protettive. Accordi finanziari possono rendere possibili o interrompere programmi di ricerca, e influire su un intero ambito professionale. Vi sono molti modi di mettere a tacere le persone, oltre a impedir loro di parlare, e oggi li vediamo usati tutti. Il processo della produzione e della distribuzione del sapere non è mai stato lo scambio libero, «oggettivo» e puramente intellettuale che i razionalisti dipingono.
Il processo a Galileo fu uno dei tanti. Non ebbe alcuna caratteristica speciale, se non forse il fatto che Galileo fu trattato con una certa moderazione, nonostante le sue bugie e i suoi sotterfugi. Ma una piccola conventicola di intellettuali, con l'aiuto di scrittori sempre alla ricerca dello scandalo, sono riusciti a montarlo enormemente, così quel che in fondo era solo un contrasto tra un esperto e un'istituzione che difendeva una visione più ampia delle cose ora sembra quasi una battaglia tra paradiso e inferno. È una posizione infantile e anche ingiusta nei confronti delle molte altre vittime della giustizia del XVII secolo. È particolarmente ingiusta nei confronti di Giordano Bruno, che fu mandato al rogo, ma che gli intellettuali di formazione scientifica preferiscono dimenticare. Non è l'interesse per l'umanità, sono piuttosto interessi di parte ad avere un ruolo importante nell'agiografia di Galileo. Ma esaminiamo la questione più da vicino.
Il cosiddetto processo di Galileo consistette di due procedimenti, o processi, separati. Il primo si tenne nel 1616. Fu esaminata e criticata la dottrina copernicana. Galileo ricevette un'ingiunzione, ma non fu punito. Il secondo processo si tenne nel 1632-33. Questa volta il punto principale non era più la dottrina copernicana. Fu invece esaminata la questione se Galileo avesse obbedito all'ordine che gli era stato impartito nel primo processo e se avesse ingannato gli inquisitori facendo loro credere che l'ordine non fosse mai stato promulgato. Gli atti di entrambi i processi sono stati pubblicati da Antonio Favaro nel vol. 19 dell'Edizione Nazionale delle opere di Galileo. L'idea, piuttosto diffusa nel XIX secolo, che gli atti contenessero documenti falsificati e che quindi il secondo processo fosse una farsa, non sembra più accettabile.
Il primo processo fu preceduto da voci e denunce in cui ebbero una parte avidità e invidia, come in molti altri processi. Si ordinò ad alcuni esperti di dare un parere su due enunciazioni che contenevano una descrizione più o meno corretta della dottrina copernicana. La loro conclusione toccava due punti: quel che oggi chiameremmo il contenuto scientifico della dottrina, e le sue implicazioni etiche (sociali).
Riguardo al primo punto, gli esperti definirono la dottrina «insensata e assurda in filosofia» o, usando termini moderni, la dichiararono non scientifica. Questo giudizio fu dato senza far riferimento alla fede o alla dottrina della Chiesa, ma fu basato esclusivamente sulla situazione scientifica del tempo. Fu condiviso da molti scienziati illustri — ed era corretto fondandosi sui fatti, le teorie e gli standard del tempo. Messa a confronto con quei fatti, teorie e standard, l'idea del movimento della Terra era assurda. Uno scienziato moderno non ha alternative in proposito. Non può attenersi ai suoi standard rigorosi e nello stesso tempo lodare Galileo per aver difeso Copernico. Deve o accettare la prima parte del giudizio degli esperti della Chiesa o ammettere che gli standard, i fatti e le leggi non decidano mai di un caso e che una dottrina non fondata, opaca e incoerente possa essere presentata come una verità fondamentale. Solo pochi ammiratori di Galileo si rendono conto di questa situazione.
La situazione diviene ancor più complessa quando si considera che i copernicani hanno cambiato non solo le idee, ma anche gli standard per giudicarle. Gli aristotelici, non diversi in questo dai moderni studiosi che insistono sulla necessità di esaminare vasti campioni statistici o di effettuare «precisi passi sperimentali», chiedevano una chiara conferma empirica, mentre i galileiani si accontentavano di teorie di vasta portata, non dimostrate e parzialmente confutate. Non li critico per questo, al contrario, condivido l'atteggiamento di Niels Bohr, «questo non è abbastanza folle». Voglio solo mostrare la contraddizione di coloro che approvano Galileo e condannano la Chiesa, ma poi verso il lavoro dei loro contemporanei sono rigorosi come lo era la Chiesa ai tempi di Galileo.
Riguardo al secondo punto, le implicazioni sociali (etiche), gli esperti affermarono che la dottrina copernicana era «formalmente eretica». Questo significa che contraddiceva le Sacre Scritture così come erano interpretate dalla Chiesa, e lo faceva con piena consapevolezza della situazione, non involontariamente.
Il secondo punto si fonda su una serie di assunti, tra cui quello che le Scritture siano un'importante condizione limite dell'esistenza umana e, quindi, della ricerca. Questa tesi era condivisa da tutti i grandi scienziati, tra cui Copernico, Keplero e Newton. Secondo Newton la conoscenza scaturisce da due fonti: la parola di Dio, la Bibbia, e le opere di Dio, la Natura, ed egli postulò l'intervento divino nel sistema planetario.
La Chiesa romana sosteneva inoltre di possedere un diritto esclusivo sullo studio, l'interpretazione e la messa in atto delle Sacre Scritture. I laici, secondo la Chiesa, non avevano né le conoscenze né l'autorità per occuparsi delle Scritture ed era loro proibito farlo. Questa norma non dovrebbe sorprendere chi conosce i comportamenti delle istituzioni che esercitano un potere. L'atteggiamento dell'American Medical Association verso i professionisti che non ne fanno parte è rigido come quello della Chiesa verso gli esegeti laici — e ha la benedizione della legge. Esperti, o ignoranti che hanno acquisito il riconoscimento formale di una competenza, hanno sempre cercato, spesso con successo, di assicurarsi diritti esclusivi in ambiti particolari. Qualsiasi critica al rigore della Chiesa romana è valida anche nei confronti dei suoi moderni successori che hanno a che fare con la scienza.
Passando ora dalla forma e dai presupposti amministrativi dell'obiezione al suo contenuto, notiamo che esso riguarda un argomento che sta diventando sempre più importante nel nostro tempo — la qualità dell'esistenza umana. L'eresia, intesa in senso lato, denotava una deviazione da comportamenti, atteggiamenti e idee che garantivano una vita equilibrata e santificata. Questa deviazione poteva essere incoraggiata dalla ricerca scientifica, e a volte lo era. Di conseguenza, era necessario esaminare le implicazioni eretiche degli sviluppi della scienza.
In questo atteggiamento sono presenti due idee. Anzitutto, si dà per scontato che la qualità della vita possa essere definita indipendentemente dalla scienza, che essa possa trovarsi in conflitto con esigenze che gli scienziati considerano naturali componenti della loro attività, e che conseguentemente sia la scienza a dover essere modificata. In secondo luogo, si dà per scontato che le Sacre Scritture, così come interpretate dalla Chiesa, indichino una forma corretta di vita piena e santificata. Il secondo assunto può essere rifiutato senza negare che la Bibbia sia assai più ricca di lezioni per l'umanità di qualsiasi cosa la scienza possa produrre. I risultati scientifici e l'ethos scientifico (se esiste) sono fondamenta troppo esili per dare un senso alla vita. Molti scienziati condividono questa opinione.
Si trovano d'accordo sul fatto che la qualità della vita si possa definire indipendentemente dalla scienza — che è la prima parte del primo assunto. Ai tempi di Galileo vi era un'istituzione — la Chiesa romana — che soprintendeva a questa qualità nei modi che le erano propri. Dobbiamo concludere che il secondo punto — vale a dire che Copernico fosse «formalmente eretico» — aveva a che fare con idee di cui c'è molto bisogno oggi. La Chiesa era sulla strada giusta.
Ma si sbagliava, forse, rifiutando opinioni scientifiche in contrasto con la sua idea di Buona Vita? Ho sostenuto che la conoscenza ha bisogno di una pluralità di idee, che anche le teorie più radicate non sono mai così forti da determinare la scomparsa di metodi alternativi, e che la difesa di queste alternative (quasi l'unico modo di scoprire gli errori presenti in posizioni molto rispettate) è necessaria anche da parte di una filosofia limitata come l'empirismo. Se essa risultasse necessaria anche per ragioni etiche, allora avremmo una ragione in più, anziché un conflitto con la «scienza».
Inoltre la Chiesa era assai più moderata. Non diceva: quel che è in contraddizione con la Bibbia interpretata da noi deve scomparire, per quanto siano forti le ragioni scientifiche in suo favore. Una verità sostenuta da un ragionamento scientifico non era respinta. Era usata per rivedere l'interpretazione di passi della Bibbia apparentemente incoerenti con essa. Molti passi biblici sembrano suggerire che la Terra sia piatta. Tuttavia la Chiesa ha accettato senza problemi che la Terra sia sferica. Dall'altro lato la Chiesa non era pronta a cambiare solo perché qualcuno aveva fornito delle vaghe ipotesi. Voleva prove scientifiche. In questo agì in modo non dissimile dalle istituzioni scientifiche moderne, che di solito aspettano a lungo prima di incorporare nuove idee nei loro programmi. Ma allora non c'era ancora una dimostrazione convincente della dottrina copernicana. Per questo fu consigliato a Galileo di insegnare Copernico come ipotesi; gli fu proibito di insegnarlo come verità.
Questa distinzione è sopravvissuta fino a oggi. Ma mentre la Chiesa era preparata ad ammettere che certe teorie potessero essere vere e anche che Copernico potesse avere ragione, se sostenuto da prove adeguate, ci sono ora molti scienziati che considerano tutte le teorie strumenti predittivi e rifiutano le discussioni sulla verità degli assunti. La loro motivazione è che gli strumenti che usano sono così palesemente progettati a fini di calcolo e che i metodi teoretici dipendono in modo così evidente da considerazioni sull'eleganza e sulla facile applicabilità, che una tale generalizzazione sembra ragionevole. Inoltre, le proprietà formali delle «approssimazioni » differiscono spesso da quelle dei principi di base, molte teorie sono primi passi verso un nuovo punto di vista che in un qualche tempo futuro potrebbe renderle approssimazioni, e un'inferenza diretta dalla teoria alla realtà è, pertanto, piuttosto ingenua. Tutto questo era noto agli scienziati del XVI e XVII secolo. (...) Il punto di vista copernicano era interpretato dai più come un modello interessante, nuovo e piuttosto efficiente. La Chiesa chiedeva che Galileo accettasse questa interpretazione. Considerate le difficoltà che quel modello aveva a essere considerato una descrizione della realtà, dobbiamo ammettere che «la logica era dalla parte di... Bellarmino e non dalla parte di Galileo», come scriveva lo storico della scienza e fisico Pierre Duhem.
Riassumendo: il giudizio degli esperti della Chiesa era scientificamente corretto e aveva la giusta intenzione sociale, vale a dire proteggere la gente dalle macchinazioni degli specialisti. Voleva proteggere la gente dall'essere corrotta da un'ideologia ristretta che potesse funzionare in ambiti ristretti, ma che fosse incapace di contribuire a una vita armoniosa. Una revisione di quel giudizio potrebbe procurare alla Chiesa qualche amico tra gli scienziati, ma indebolirebbe gravemente la sua funzione di custode di importanti valori umani e superumani.

Corriere della Sera 25.1.08
L'epistemologo anarchico
L'affaire Sapienza lo avrebbe divertito
di Giulio Giorello


Nelle conversazioni con gli amici, tanto per «ammazzare il tempo» (come suona all'incirca il titolo della versione italiana della sua Autobiografia asuo tempo pubblicata presso Laterza), Paul Feyerabend amava riferirsi al suo Contro il metodo
come a quel «bastardo, dannatissimo libro» che lo aveva trascinato in polemiche a non finire. In Italia è nota soprattutto la versione pubblicata da Feltrinelli nel 1979 che non contiene il celebre passaggio sul processo a Galileo; Feyerabend era solito modificare i propri testi nelle nuove edizioni. E comunque, quella sua valutazione del «caso Galileo » è contenuta in un contributo successivo dal titolo «Galileo e la tirannia della Verità», che fa parte dei saggi di Addio alla Ragione, pubblicato da Armando.
Uno dei motivi del contendere è che il filosofo e fisico austriaco aveva osato prendersela con Galileo Galilei, «il fiorentino scopritore non di nuove terre, ma di non più vedute parti del cielo», come recita la dedica con cui gli Accademici Lincei presentavano Il Saggiatore (1623) a Maffeo Barberini, ovvero Papa Urbano VIII, passato alla storia per aver in seguito fatto processare e condannare lo stesso Galileo. Il quale aveva, per così dire, rotto l'impegno, a suo tempo concordato con alti prelati, tra cui il cardinal Roberto Bellarmino, di non sostenere la validità della concezione copernicana in assenza di prove convincenti. A Feyerabend sono sempre piaciuti contrasto e anticonformismo. Galileo aveva avuto l'audacia di violare i criteri della buona scienza invalsi alla sua epoca e si era comportato da «opportunista»! Le evidenze che portava dall'osservazione dello «splendore dei cieli» potevano trovare spiegazione anche nei sistemi di Tolomeo e di Tycho Brahe; quanto all'argomento fisico delle maree abbozzato nel Dialogo sopra i massimi sistemi
per «dimostrare» il moto della Terra… faceva tipicamente acqua.
Se mi è lecito un ricordo personale, una volta il fisico Edward Teller (proprio lui, il padre della bomba H) mi diceva che Urbano VIII avrebbe addirittura potuto «bruciare Galileo »! Feyerabend non si spingeva a questo punto; si limitava a trovare corrette («razionali e giuste») le procedure seguite dalla Chiesa nei confronti dello scienziato. Roberto Bellarmino prima, e Maffeo Barberini poi, avevano soprattutto preoccupazioni di tipo etico: temevano che Galileo turbasse le coscienze proponendo una teoria che andava contro l'interpretazione usuale della Scrittura e che non pareva (ancora) confermata dalle osservazioni.
Ma Galileo aveva dalla sua il coraggio di chi sapeva di star «sovvertendo» la concezione dell'uomo centro del mondo e l'orgoglio di chi rivendicava il diritto di sostenere un'opinione, anche se sembrava «far violenza ai nostri sensi». Che le sue motivazioni più profonde fossero quasi di ordine estetico e poco dotate di supporto empirico, agli occhi di Feyerabend non toglieva niente al fascino di colui che il nostro Carlo Emilio Gadda chiamava ironicamente «il maligno pisano». Bertolt Brecht ci ha narrato la vita di un Galileo che non aveva saputo essere «eroe» fino in fondo. Feyerabend, che aveva ben presente l'approccio del drammaturgo tedesco, a sua volta ha messo a fuoco come colui che aveva mandato in pezzi «la fabbrica dei cieli » di Aristotele e di Tolomeo non fosse così attento alle «regole del metodo», come tendono a credere i posteri — specie storici e filosofi della scienza.
Paul e sua moglie Grazia Borrini amavano scherzare anche sul (cauto) interesse del teologo Joseph Ratzinger, all'epoca successore di Bellarmino, per le tesi del «dannato libro ». Probabilmente, la recente disavventura della Sapienza (intesa come università romana) avrebbe divertito Feyerabend, questo grande «anarchico delle idee», che aveva soprattutto il dono della leggerezza. Tanto più che in Italia Contro il metodo venne accolto come un testo che poteva «corrompere i giovani »: guarda caso, la stessa locuzione, infelicemente usata da qualche professore di laicismo nei confronti di Benedetto XVI.

Repubblica 25.1.08
"È il frutto del mancato dialogo coi cattolici"
Prime valutazioni dalla Santa Sede: esito inevitabile, troppa litigiosità
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - «Inevitabile. Da una coalizione così frammentata non ci si poteva aspettare altro». «E´ il frutto di una mancanza di dialogo che ha penalizzato in modo particolare i valori cattolici». Prime valutazioni d´Oltretevere sulla caduta del governo Prodi. Ne parlano, a titolo personale, due cardinali di Curia, il portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, e Giovanni Cheli, presidente emerito del Pontificio consiglio dei migranti ed itineranti, che concordano nella mancanza di attenzione dei valori cattolici uno dei principali motivi che ha portato alla fine del governo. Come lo stesso Clemente Mastella ha più volte denunziato anche quando ha giustificato le sue dimissioni da ministro subito dopo la mancata visita del Papa alla Sapienza. «C´è stata troppa frammentarietà nel centrosinistra e l´esito non poteva essere diverso», commenta Cheli, che accusa pure l´ex maggioranza di «essere stata troppo litigiosa e di aver messo in difficoltà in particolare i rappresentanti dei cattolici. Spiace, ma alla fine saranno i cittadini a farne le spese».
«Sono da oltre 30 anni in Italia - premette il cardinale Saraiva Martins - e seguo con interesse anche le vicende politiche di questo paese che considero la mia seconda patria. Ma ho notato, negli ultimi tempi che non c´è stata una volontà di dialogo tra i partiti, specialmente sui valori cattolici come famiglia, scuole e difesa della vita. Senza dialogo non si va da nessuna parte. Gli scontri non portano a nulla». Questa mancanza di dialogo, per il cardinale Saraiva Martins, ha «toccato l´apice nella mancata visita del Santo Padre alla Sapienza a causa di una minoranza che, però, ha di fatto costretto le autorità a bloccare l´iniziativa». Ora, conclude il porporato, «è bene che tutti i partiti tornino a dialogare e a pensare alle vere esigenze della gente con spirito costruttivo».

Repubblica 25.1.08
I segreti di una festa. Sior Paròn e il carnevale di Venezia
di Simonetta Fiori


È un libro pensato per i bambini, Comandi, sior paròn!, raccolta di "storie e storielle" dedicate alla città-teatro per eccellenza, ma anche lettori non più giovani potranno accostarsi con leggerezza al mistero del carnevale veneziano. Fondatrice della prima libreria per ragazzi a Roma ed esperta di letteratura per l´infanzia, Gina Bellot ci guida nel multiforme mondo di maschere, mascherine e mascherette, non solo Arlecchini, Pulcinella, Colombine, Pantaloni, ma anche baùte con il mantellino di pizzo, vezzose morette di velluto nero, "gnaghe" e "mataccini" orlati di piume, zendali e spiriti folletti. Con scrupolo filologico, il Carnevale viene evocato nella sua filosofia e nei suoi rituali, dalla laboriosa attività degli artigiani "mascareri" al "passo lento del listòn", la studiata passeggiata delle maschere lungo piazza san Marco (Nuove Edizioni Romane, pagg. 106, euro 8.50: presentazione con burattini domenica a Roma, alle ore 16, alla libreria Rinascita).
Nella fantasiosa veste grafica di Claudio Saba, le immagini del Canaletto e di Francesco Guardi fanno il resto, proiettando il lettore tra dame e cavalieri mossi da un´irrefrenabile spinta libertaria. Perché il Carnevale è anche sospensione dell´ordine costituito, illusorio rovesciamento delle gerarchie, e l´euforia può sfociare in duello sanguinario o rissa violentissima. Per molti secoli dogi e autorità di governo tentarono con leggi e decreti di contenerne la forza dirompente, colpendo soprattutto le donne. Un´aristocratica che osò sfidare la regola, entrando a teatro San Luca senza maschera in viso, fu condannata a restare chiusa in casa per ventuno giorni consecutivi. Correva l´anno 1776. Probabilmente vecchi modi di dire in uso ancora oggi - come "andar in spadina", cioè uscire senza cappotto - nascono da quei codici, come il divieto di portare mantelli che possano nascondere spade, spadine, pugnali o altre lame. Dietro le maschere scorre la storia della Serenissima, narrata da una veneziana innamorata di Venezia.

La Provincia 25.1.08
Intervista a Wilma Labate regista di “Signorinaeffe” stasera all'Oxer di Latina
Quei 35 giorni alla Fiat nel 1980
di Licia Pastore


«Volevo fare un film sul mondo del lavoro, gli operai, la fabbrica. Non c’è niente di meglio della Fiat, la grande fabbrica d’Europa, non solo dell’Italia. Poi volevo raccontare una figura femminile».
Wilma Labate, regista romana, conosce bene Latina, tanto che in una recente intervista rilasciata durante l’incontro al cinema Quattro Fontane di Roma, nel corso della presentazione del suo ultimo film Signorinaeffe, la cita.
«La Fiat? E’ grande come Latina!». Un’occasione curiosa per capire quale sia il suo legame con il capoluogo.
«Nessuno in particolare – spiega – era un esempio, per dire che la fabbrica per antonomasia è come una città di provincia. Latina? Si, la conosco molto bene ed è una città che mi piace per diversi aspetti compresa la sua vicinanza a Sabaudia».
Superato l’impatto, legato anche alle condizioni di una intervista telefonica, si arriva subito al personaggio clou del film, Emma.
«Raccontare una donna era una urgenza sentita da sempre – spiega – e poi al cinema si devono raccontare storie controverse e complicate di cui si è parlato poco e che sono legate a ciò che viviamo oggi».
Emma la protagonista, così come è rappresentata nel film, è una figura femminile nuova. Una donna fuori dagli schemi comuni. Definita come una figura femminile «precaria per definizione».
Lei ha voluto puntare sul fascino di una identità «contradditoria e autentica», che mette in scena il desiderio di viversi una passione senza indecisioni sapendo anche affrontare le conseguenze. Quale percorso l’ha condotta a questa scelta?
«E’ stato assolutamente automatico. Nello specifico mi sono ispirata ad un documentario girato da Giovanna Boursier. Si racconta la storia di una impiegata che nel 1980 partecipò alla marcia dei 40 mila, schierandosi contro gli operai. Nel 94 fu licenziata malgrado la sua dichiarazione di fedeltà alla fabbrica espressa nella marcia. Solo allora capisce che nel 1980 gli operai avevano ragione. Questo documentario mi ha ispirato per il personaggio femminile che nel film è invece una donna a tutto tondo. Una figura contraddittoria, come molto spesso è l’identità femminile. Non lo dico come critica piuttosto come una ricchezza delle donne. Io avevo il desiderio di raccontare una donna non scontata».
Il 1980. Ultima occasione per il Pci. C’è chi parla rispetto al film di una sconfitta. Lei invece dice un «inizio di possibilità». Rispetto al comunismo ritiene che si possa parlare anche di una sconfitta legata ad una visione politica che si è sempre espressa nella sola considerazione degli aspetti economici, a cui è mancata la conoscenza più profonda dell’essere umano e che, quindi, non è riuscito a dare risposte a quelle esigenze più ampie specifiche solo degli esseri umani?
«Il Pci, la politica non si è mai occupata del personale. Dell’aspetto più intimo della persona, ma solo del collettivo, ignorando quindi il fatto che la collettività è fatta di persone con delle loro esigenze, sentimenti, emozioni. Questo deve corrispondere a un sentimento collettivo. Quindi il personale è politico.
Io ho fatto un film su questo. Ho raccontato una storia collettiva e il destino delle storia privata risente di quella pubblica collettiva, dove l’identità femminile si esprime in termini molto contradditori, ma non disonesti».
La scena finale: un ricordo sbiadito, passato o una possibilità di rapporto?
«Ognuno può leggerla come vuole. Sono trascorsi 27 anni, loro sono due sopravvissuti. Io ho raccontato questa storia. In quella scena ci sono due personaggi moderni. Quelli erano anni che regalavano una forte appartenenza. Loro sono due individui non più legati ad una collettività. Due persone sole che si incontrano per caso. Chi vuol leggere una possibilità, la può leggere».

Liberazione 25.1.08
Quindici anni da buttare

di Piero Sansonetti


Il governo Prodi è arrivato al capolinea, l'Unione è fallita, il Partito democratico fortemente indebolito. Ma se vogliamo essere onesti dobbiamo dire che è arrivato al capolinea un intero quindicennio, quello iniziato dopo "Tangentopoli", fondato sul bipolarismo e sul nuovo corso leaderistico e spettacolare della politica italiana. E' stato un periodo che ha visto diverse coalizioni di destra e di centrosinistra alternarsi alla guida del paese, con fragore di spade e lance, con lotte feroci di ceti politici. Ma senza contrapposizione di idee. Sono state solo lotte di potere. Le ultime tre legislature, coi governi Prodi-D'Alema-Amato, e poi Berlusconi e poi di nuovo Prodi, hanno sancito un modo di governare debole e arrogante, basato sull'autoesaltazione, spesso ridicola, dei leader, e sulla delega delle grandi scelte ai centri di potere esterni. La Confindustria, il Vaticano. Il risultato è stato quello di un fortissimo spostamento di ricchezze verso l'alto - cioè dai poveri ai ricchi, dal lavoro dipendente ai profitti e alle rendite - una forte riduzione dei diritti sociali e civili, un rinsecchimento del dibattito culturale. E tutto questo è avvenuto al di fuori di un disegno politico, di un'idea del futuro.
Non è così? Non abbiamo registrato, nonostante l'alternarsi delle maggioranze, una degenerazione della politica, sempre più invadente verso la società e sempre meno interessata a governare, a respingere le ingerenze, ad assumersi le sue responsabilità?
Il risultato, quasi plasticamente, lo abbiamo avvertito ieri in Senato. Ascoltando quel senatore che insultava il collega di partito e gli diceva "merda e frocio", e poi l'on Mastella - che ha aperto la crisi per motivi personali e di sfida verso la magistratura - mescolare argomenti politici rozzi e impresentabili con gli splendidi versi di un gran poeta, Neruda, un uomo nobile e coraggioso che credeva nella politica come lotta di valori - lotta fino alla morte - e che oggi certo sentirebbe i brividi se scoprisse di essere stato citato per scopi così bassi.
Non è il fallimento solo di un ceto politico. E' il fallimento di tutta la classe dirigente. Chi esce a pezzi da questo quindicennio è la borghesia italiana, che oggi non riesce più a orientarsi, non sa dove cercare rappresentanza politica perché per tutti questi anni ha concepito la politica solo come un "abbeveratoio", una macchina dispensatrice di favori, di mance, di soldi, di leggi addomesticate. Oggi la borghesia italiana è divisa, e di fronte alla gravità della crisi economica internazionale rischia di dilaniarsi ancora di più, e di far pesare sulla democrazia italiana le sue divisioni e la sua strutturale debolezza culturale e anche economica.
La sinistra può salvarsi solo se riesce a tirarsi fuori da questa palude. Ha un compito titanico dinanzi a sé. Quello di gettarsi a corpo morto nella battaglia per la riforma della politica, cioè della democrazia. Guardate che se questo compito non lo assume la sinistra non lo assume nessuno. Di sicuro non Berlusconi, non il Pd. Non hanno le doti per farlo. Scriveva Pasolini all'inizio degli anni '70: «E' certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Pci è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante...».
Se la sinistra accetterà di sobbarcarsi l'impresa, se sarà a questa altezza, c'è ancora una speranza. Sennò è buio fitto.

Liberazione 25.1.08
Il Sessantotto in Italia sotto tiro il marxismo storicista

di Stefano Petrucciani


Nell'ultimo "Micromega", oggi in edicola, un articolo del filosofo fa una mappa del "68-pensiero" individuandone i tratti culturali più innovativi. Pubblichiamo qui una parte del saggio dove ricorda l'esperienza dell'operaismo e il pensiero negativo

Al di là delle semplificazioni giornalistiche che insistevano sulla triade "Marx Mao Marcuse" (che, sebbene un po' surreale, fu realmente presente in qualche cartellone e striscione dell'epoca), la cultura del movimento del '68 fu una costellazione ricchissima, variegata e anche piena di contraddizioni, nella quale confluirono molti filoni di pensiero critico che in parte risalivano indietro alle rivoluzioni novecentesche, e in parte erano il frutto delle elaborazioni delle frange di sinistra eterodossa e dissidente che si erano formate in Europa negli anni Cinquanta e, soprattutto, nei primi anni Sessanta. La vastità e l'articolazione del "68-pensiero" rende difficile tracciarne una mappa; è possibile però indicare alcuni filoni principali, attorno ai quali si raccolgono le esperienze culturali più innovative e importanti che nutrirono i movimenti e i loro leader, e che conobbero anche una straordinaria diffusione di massa. Quest'ultimo aspetto non sarebbe da trascurare in una sociologia della cultura sessantottina: nel '68, infatti, il pamphlet e il libro di saggistica, politica ma non solo, circolarono in modi e in quantità mai viste né prima né dopo. E divennero, anche quando non venivano effettivamente letti, una bandiera, un distintivo o un segno di riconoscimento, fino al caso limite del "libretto rosso" contenente le citazioni del presidente Mao.
Ma la di là del folklore e del simbolismo, i movimenti dei tardi anni Sessanta furono effettivamente uno straordinario veicolo di circolazione di idee, furono caratterizzati da una eccezionale "fame" di interpretazioni e di punti di vista critici sulla realtà. Se il movimento del '68 fu, diversamente da tanti altri, anche un'esperienza ad alta intensità culturale, questo non dipese soltanto dal fatto che era, almeno in partenza, un movimento di studenti o di élite intellettuali. Il punto è piuttosto, credo, che si trattò di un movimento i cui obiettivi polemici erano molto diversi da quelli con i quali si erano misurati i movimenti sociali e politici del dopoguerra europeo. Bersaglio del '68, infatti, era, da un lato, la società capitalistica nei tratti inediti che era venuta assumendo, come società non più della scarsità ma dei consumi e del benessere, dell'opulenza e della tolleranza (sia pure repressiva, come ricordava Marcuse); dall'altro lato, obiettivo polemico erano le forme e le istituzioni nelle quali si era depositata l'onda lunga della sinistra europea figlia della rivoluzione d'ottobre, e cioè tanto i partiti comunisti dell'Europa occidentale (che purtuttavia raccolsero i frutti del '68 in termini elettorali) quanto il sistema oppressivo che caratterizzava i paesi del blocco sovietico.
Se il tema dell'antimperialismo (e la mobilitazione contro la guerra del Vietnam) ancora in qualche modo univa la vecchia e la nuova sinistra, su tutto il resto esse erano profondamente divise; e dunque uno degli aspetti principali della cultura sessantottina fu proprio la ricerca di un pensiero politico che fosse capace di andare oltre le secche nelle quali si erano arenati tanto il materialismo dialettico di stampo sovietico quanto il marxismo scolastico dei comunisti occidentali. Si trattò di una elaborazione culturale fortemente segnata dalle diverse specificità nazionali, e nella quale si intrecciarono la proposta teorica innovativa e la riscoperta delle tradizioni eterodosse, libertarie e minoritarie, che il marxismo ufficiale aveva ridotto al silenzio o relegato ai margini.
In Italia, i presupposti di quelle nuove culture che poi si ritroveranno tutte nel crogiolo del '68 vengono elaborati già a partire dai primi anni Sessanta. In una sinistra che non aveva rimosso i traumi del 1956 (il XX congresso del Pcus dove Chruscëv aveva denunciato i crimini di Stalin e l'invasione sovietica dell'Ungheria) si affermavano sia l'esigenza di ripensare in modo nuovo e non ipotecato da esperienze passate una prospettiva rivoluzionaria o socialista, sia quella di aggiornare gli strumenti teorici di fronte a un capitalismo che, con il boom economico dei primi anni Sessanta e poi con le aperture politiche del centrosinistra, mostrava un dinamismo e una vitalità che sfuggivano alle analisi marxiste tradizionali. Nella sinistra socialista come in quella comunista gli anni Sessanta sono dunque un periodo di straordinario fermento: nascono le riviste che più tardi pubblicheranno i dibattiti e i documenti del '68, come Giovane critica di Giampiero Mughini e i Quaderni piacentini di Piergiorgio Bellocchio, che della cultura sessantottina saranno la testata più autorevole e più appassionatamente letta. Ma l'esperienza politica e teorica di più marcata innovazione è certamente, nel pre-1968, quella del filone cosiddetto "operaista". La scommessa su cui nasce, nel 1961, la rivista Quaderni rossi , è quella di tornare a praticare il marxismo come strumento di analisi dei modi in cui si rinnova il capitalismo nel suo cuore pulsante, le grandi fabbriche del Nord, di ripartire quindi dalla classe operaia e dal suo potenziale di conflitto, in netta rottura con quella che era stata l'impostazione culturale di fondo del movimento operaio e del Pci. A un marxismo che si era diluito in un generico storicismo progressista, imbevuto di Croce di Gramsci, e a una linea politica che puntava su una generica unità delle classi popolari, il gruppo di Quaderni rossi contrappone un ritorno alle intuizioni più avanzate di Marx ( il Capitale e ancor più i Grundrisse ) come strumento per leggere le dinamiche del "neocapitalismo" e la nuova composizione della classe operaia che si concentra nelle grandi fabbriche. Nei Quaderni rossi convivono due anime che nel giro di qualche anno andranno ognuna per la sua strada: c'è un gruppo torinese che fa capo a Raniero Panieri, che proviene dalla sinistra socialista e che ha più forti interessi sociologici. E accanto un gruppo romano di matrice comunista dove spiccano Alberto Asor Rosa e Mario Tronti. Le tesi principali di Panzieri e dei Quaderni rossi sono in totale controtendenza rispetto a quelle prevalenti nel movimento operaio ufficiale: rivendicano la centralità e il carattere già politico delle lotte di fabbrica; negano la neutralità della scienza e della tecnologia e le leggono come inestricabilmente intrecciate con il dispotismo del capitale; propongono di pensare lo sviluppo capitalistico come razionalizzazione e pianificazione, uscendo dallo schema tradizionale che pensava il capitalismo come piano nella produzione e anarchia nella società.
I duri conflitti operai che scoppiano a Torino nel 1962, mentre sembrano già verificare le ipotesi su cui i Quaderni rossi sono nati, innescano anche aspre contraddizioni al loro interno. Nel '64 Tronti, Asor Rosa, Negri e altri si raccolgono attorno a un nuovo giornale, Classe operaia : insistono sulla necessità di costruire un'autonoma organizzazione di classe, e saranno il luogo di incubazione da cui nasceranno le prime formazioni organizzate del movimento sessantottino, come il Potere operaio di Pisa e il Potere operaio veneto-emiliano. A Tronti e a Asor Rosa si devono due libri che diventeranno testi di culto per molti militanti del '68: il primo pubblica nel '64 per Einaudi Operai e capitale , il secondo nel '65 Scrittori e popolo , una polemica durissima contro il neorealismo, il populismo e il nazional-popolare di cui era imbevuta la cultura del Pci. Il libro di Asor Rosa esce da Samonà e Savelli, una casa editrice romana fondata nel '63 e impegnata nel rilancio di un altro filone di pensiero eterodosso, quello trotskista. Un apporto non secondario (nel bene e nel male) del filone operaista fu quello di far interagire il pensiero della sinistra con il "pensiero negativo" (come lo chiamava Massimo Cacciari) o nichilista degli intellettuali borghesi dell'Otto-Novecento, come Schopenhauer, Nietzsche, Mann (e più tardi Carl Schmitt); è un tema che caratterizza la fase ulteriore dell'operaismo di Asor Rosa e Tronti, quella che, proprio nel '68, si raccoglie attorno a una nuova rivista, Contropiano . Ma non fu solo il filone operaista a mettere sotto tiro polemico il marxismo storicista che era egemone nel Pci: ad alimentare variamente la cultura del '68 italiano contribuì anche il marxismo riletto scientificamente da Galvano Della Volpe e da Lucio Colletti.

giovedì 24 gennaio 2008

Repubblica 24.1.08
Il carcere e la speranza
di Pietro Ingrao


Caro direttore, in questi giorni un gruppo di ergastolani – cioè di esseri umani condannati a stare in carcere per tutta la durata della loro vita, fino alla morte – si è rivolto al Paese e alle autorità della nostra Repubblica per sollevare il problema della loro condizione esistenziale.
Chi sono? Che chiedono questi reclusi così distanti da noi? Attualmente essi vivono in una condizione che a me sembra terribile. Sono segregati in un luogo di detenzione per una decisione pubblica, che – a punizione dei loro crimini – li condanna a stare rinchiusi in una galera sino alla loro scomparsa dalla Terra. È dunque azione dello Stato che muta tragicamente tutto il loro esistere. È la prigione che dura fino allo spegnersi della vita.
Spesso, nelle vicende tempestose che ho attraversato e dinanzi alla sorte di tanti miei compagni finiti nella galera, mi sono trovato a riflettere sulla durezza rovinosa del carcere: dell´essere costretti dallo Stato a vivere rinchiusi come in una tana. E nonostante la gravità dei loro crimini, che avevano motivato quella decisione, essa mi appariva grave e devastante.
Eppure in quella reclusione agiva pur sempre la speranza che la gabbia del carcere si aprisse e il prigioniero potesse tornare nel fluttuare vasto e mutante del mondo libero. Questa speranza del detenuto – con la condanna all´ergastolo – viene stroncata alla radice.
È come il morire? No. È l´esistere, l´esperire umano nel vasto mondo che si restringe paurosamente: nel suo potere di cognizione e di relazione. Vengono mozzati l´azione e l´ascolto dell´essere umano: e il conoscere. E l´amare: non solo per il presente, ma per il domani, e per il domani ancora, fino alla morte, alla scomparsa dal vivere umano.
Perché ricorriamo a questa mutilazione così grave, così distruttiva e che incide su tutta la vita? Per fermare il crimine? Come questa motivazione mi ricorda l´illusione – così fragile – di realizzare l´innocenza con la paura… Sento che qui si apre il discorso così grave sulla punizione, e a che essa serva: se soltanto a fermare chi delinque o a riconquistarlo a una fratellanza. E s´allarga il pensiero sull´uso così largo che, ancora oggi, si fa della condanna a morte e che è come il segno della nostra incapacità o non volontà di salvare i nostri simili. Tornano tutte le aspre, complesse domande sulla funzione della pena: e se essa punti a punire, o anche a recuperare chi è caduto nel delinquere.
Quando mi unisco alla schiera che invoca una riflessione nuova sulla pena, e sul punire, scelgo la schiera della speranza. Non faccio opera di misericordia verso il peccatore. Lavoro per i miei fratelli viventi, per una dilatazione dell´umano. Tento un recupero dell´umano anche in chi ha ucciso.
È tutta l´idea della carcerazione e del punire che entra in discussione. Non rinuncio a punire. Ma mi interrogo cosa è e a che valga quella decisione del giudice: la punizione; e se essa è solo vendetta o misura di protezione, o vuole, tenta di aprire un dialogo con il reo, e non vuole mai dimenticare che anche il reo è un essere umano. E tento un recupero dell´umano anche in chi ha ucciso. E qui il discorso si dilata. Va all´uso risorto, fiorente dell´uccidere "statale", se è vero che oggi nelle diverse plaghe del globo hanno ritrovato spazio e legittimazione gli stermini delle guerre e le abbiamo ancora oggi dinanzi ai nostri occhi dolenti e spaventati.
E mi turba molto negare anche solo un grammo di speranza all´ergastolano e tacere dinanzi al pubblico massacro di migliaia e migliaia: in Iraq e altrove.

l'Unità 24.1.08
L’ira di Bertinotti: se il premier non frena si finisce dritti alle elezioni
«E con questa legge sarebbe una follia». «Cosa rossa», è sempre più caos: l’unico punto d’intesa è l’ostilità a Veltroni
di Simone Collini


È INFURIATO Fausto Bertinotti. Lo informano che Romano Prodi è intenzionato ad andare avanti «fino in fondo» quando il pallottoliere del Senato dice che nella
migliore delle ipotesi, dichiarazioni e assenze annunciate alla mano, la conta finirebbe 163 no contro 156 sì alla fiducia. «Così si rischia di andare dritti alle elezioni», scuote la testa il presidente della Camera. Il quale vede come fumo negli occhi l’ipotesi di un voto a breve con questa legge elettorale: «Si finirebbe per aggravare la crisi politica e sociale, per rendere ancora più profondo il solco tra istituzioni e paese reale». La soluzione per Bertinotti passa invece per delle riforme che vanno approvate in tempi rapidi. Il problema è che uno scontro frontale al Senato, per il presidente della Camera, rischia di sbarrare la strada non solo a un reincarico a Prodi per procedere in questa direzione, ma alla stessa possibilità di dar vita a un governo istituzionale, di breve periodo, che lavori a una nuova legge elettorale. La conseguenze immediata di un simile scenario sarebbe, insieme al voto in primavera, la fine prematura della Cosa rossa. Come già emerge chiaramente dai movimenti in atto tra le forze della cosiddetta sinistra arcobaleno.
A tenere insieme Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica è ormai soltanto la più o meno ostentata ostilità al Pd e a Veltroni. Per il resto, compresa la strategia da mettere in atto per fronteggiare la crisi del governo Prodi, ognuno va per la sua strada. I Comunisti italiani fanno sapere che in caso di sfiducia non c’è altra strada che quella del voto immediato: «Qualsiasi pasticcio tra destra e sinistra non può che danneggiarci», dice Oliviero Diliberto. Che non a caso incita Prodi a «far valere le ragioni di questa maggioranza anche al Senato». Una linea su cui anche Alfonso Pecoraro Scanio blinda i Verdi: «Per noi c’è solo Prodi, senza subordinate».
Per Rifondazione comunista non può però essere questa l’unica strada percorribile. Franco Giordano è d’accordo con Bertinotti sulla necessità di attuare le «riforme sospese» che servono per mettere fine all’attuale «emergenza democratica» e anche sulla pericolosità di andare al voto questa legge «fatta dalle destre», che «alimenta l’instabilità e ha determinato la frammentazione». Meno convinto è invece, il segretario del Prc, che la formula più adatta per risolvere la crisi sia un governo istituzionale. Inoltre Giordano sa che su questo punto rischiano di aprirsi rotture profonde nel partito, che già è tutt’altro che contento di aver ingoiato per venti mesi misure impopolari per il proprio elettorato, per vedere poi le forze centriste dell’Unione aprire la crisi proprio quando era il momento di lavorare su redditi e salari. La discussione su come muoversi ora, dentro il Prc, è serrata. E se la riunione della segreteria dedicata all’ipotesi fine-governo si è chiusa senza spaccature, la frangia dei favorevoli al voto organizzata attorno al ministro Paolo Ferrero e al capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena cresce di ora in ora. Tanto che si preannuncia infuocato il vertice convocato dal Prc per sabato, quando i parlamentari e la Direzione del partito decideranno i prossimi passi. I bertinottiani confidano di incassare una netta maggioranza sulla necessità di andare avanti nel processo unitario della sinistra, mentre sull’ipotesi del governo istituzionale il quadro è al momento a loro sfavore.
Anche sulla Cosa rossa, però, il rischio è di finire in una strada chiusa. Con Verdi e Pdci che di fronte alla prospettiva di andare al voto con questa legge si sfilano, a lavorare per l’unità a sinistra insieme al Prc rimarrebbe soltanto Sinistra democratica. La quale, tra l’altro, è in queste ore oggetto d’attenzione da parte del Pd. I contatti sono in corso, ma se Fabio Mussi non cambia linea, il rischio di vedere qualcuno dei suoi cambiare strada è alto, come dimostra la richiesta di una «riflessione» avanzata tra gli altri dal sottosegretario Famiano Crucianelli e da sindacalisti Cgil come Paolo Nerozzi ed Enrico Panini, tutti preoccupati da uno schiacciamento sul Prc.
Come se non bastasse, Rifondazione e Sd sono d’accordo sulla necessità del processo unitario, ma non su come andare al voto, quale che siano i tempi e quale che sia il sistema elettorale. Giordano è convinto che la sinistra debba lanciare al Pd una sfida che con il linguaggio di un tempo si direbbe per l’egemonia. E questo tanto più se Veltroni dovesse insistere sull’ipotesi di correre da solo. Mussi è invece convinto della necessità di mantenere un sistema di alleanze. La differenza sulle opzioni in campo non sono di poco conto, anche considerando le giunte sul territorio in cui Sd governa insieme al Pd, con il Prc all’opposizione.

l'Unità 24.1.08
Fecondazione, ancora uno stop: «Legittima diagnosi preimpianto»
Legge 40, il Tar del Lazio boccia le linee guida. «Ora la parola alla Corte Costituzionale»
di Virginia Lori


NUOVO STOP Hanno vinto le associazioni di donne contrarie alle linee guida della legge sulla fecondazione assistita, la legge 40. Il Tar del Lazio, al quale erano ricorse, ha stabilito l’annullamento di quelle linee guida «per eccesso di potere» e ha rinviato il giu-
dizio alla Corte Costituzionale. «Ritenevamo che fossero inidonee - sottolinea Filomena Gallo di “amica Cicogna”, una delle associazioni ricorrenti insieme a Madre Provetta e Warm -, perchè non possono introdurre ulteriori divieti rispetto alla legge 40. E il Tar ci ha dato ragione». Adesso, continua, «abbiamo una legge senza più linee guida: aspettiamo, dunque, il ministro della Salute Livia Turco. E, questa volta - precisa Gallo - non potranno essere come le altre, perchè verrebbero bocciate».
In particolare la parte contestata riguarda il divieto di diagnosi preimpianto per gli embrioni. Il ricorso con cui si chiedeva la completa abrogazione delle linee guida, in base al quale si è pronunciato il tribunale amministrativo con sentenza depositata il 21 gennaio, era stato presentato nel 2004. Il verdetto «boccia» le linee guida contenute nel decreto ministeriale del 21 luglio 2004, nella parte che riguarda le misure di tutela dell’embrione laddove si statuisce che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 13 (comma 5), dovrà essere di tipo osservazionale. In pratica bolla il divieto di diagnosi preimpianto e la predeterminazione del numero degli embrioni da ottenere e poi da impiantare in utero, non più di tre. In aggiunta, il Tar del Lazio solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14 (commi 2 e 3), della legge 40 del 19 febbraio 2004, per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Rinviando di fatto la «palla» alla Consulta.
Ignazio Marino, presidente della commissione Sanità di Palazzo Madama evidenzia «l’incongruenza» della legge 40, che vieta la diagnosi genetica dell’embrione fecondato e al tempo stesso non può obbligare la donna a sottoporsi all’impianto dell’embrione stesso. «È l’ennesima prova - continua Marino - della necessità di intervenire sulla parte della legge che lo consente, ovvero sulle linee guida che sono rivedibili ogni tre anni, concepite proprio per adattare l’applicazione della legge ai progressi scientifici». Il compito spetta al ministero della salute. E Stefania Prestigiacomo di Forza Italia dice: «Sarebbe bene che il Parlamento approfittasse di questo opportuno stop alla legge 40 imposto dal Tar per rivedere una normativa che ha provocato solo migliaia di viaggi della speranza e milioni di guadagni ai centri esteri». Mentre il ginecologo Carlo Flamigni che fa parte anche del Cnb commenta: «I magistrati fanno quello che i nostri politici spaventati e incompetenti non sanno più fare. Quanto è accaduto era inevitabile. La legge 40 può ancora essere salvata con cospicui rimaneggiamenti per trasformarla in una norma saggia e ispirata ai bisogni di chi soffre». Ma la teodem Paola Binetti e la senatrice del pd Emanuela Baio confermano il «sì» alla legge 40 e dicono: «Prima di intervenire sulle linee guida attendere la Consulta».

l'Unità 24.1.08
Difesa della razza. il laboratorio di Salò
di Michele Sarfatti


Dal volume curato da Michele Sarfatti «La Repubblica sociale italiana a Desenzano: Giovanni Preziosi e l’Ispettorato generale per la razza» (Giuntina, Firenze 2008), che contiene vari saggi, di Francesco Cassata, Francesco Germinario, Liliana Picciotto, Mauro Raspanti, Michele Sarfatti e altri, pubblichiamo uno stralcio del contributo di Michele Sarfatti che nel volume ha il titolo «Le leggi antiebraiche proposte nel 1944 da Giovanni Preziosi».

ANTISEMITISMO Uno studio a più voci sull’Ispettorato della razza nella Rsi ricostruisce il ruolo di Giovanni Preziosi che fu tra i massimi ispiratori delle leggi antiebraiche in Italia e soprattutto di quelle adottate in continuità dal regime saloino

Nei primi giorni di marzo 1944 Giovanni Preziosi ottenne da Benito Mussolini l’incarico di massimo responsabile di un nuovo ente governativo della Repubblica sociale italiana (Rsi), che inizialmente sembrava doversi occupare di razza e di demografia, ma al dunque venne incaricato solo della prima di esse: l’Ispettorato generale per la razza.
Preziosi, pur privo di esperienza diretta in campo legislativo, si impegnò subito nell’elaborazione di nuovi provvedimenti concernenti l’azione razzista e antiebraica, nonché l’azione antimassonica e l’organizzazione dell’Ispettorato. Di essi, solo l’ultimo divenne legge vera e propria, pur con notevoli modifiche. Gli altri rimasero sempre allo stato di proposta. (…)
Gli eventi del 25 luglio e dell’8 settembre 1943 non avevano determinato modifiche strutturali alle precedenti elaborazioni e proposte antisemite di Preziosi. Nel settembre 1942, nell’articolo Per la soluzione del problema ebraico, aveva ribadito da un lato che «per effetto della guerra ebraica, siamo - gomito a gomito con la Germania e con gli alleati - impegnati per la vita e per la morte contro le forze coalizzate dell’ebraismo antifascista mondiale» e dall’altro che «è urgente - prima di ogni cosa - un’opera di ricerca e di indagine per precisare quanto sangue ebraico è stato immesso palesemente e alla chetichella negli Italiani». Un anno dopo, in due lettere a Mussolini del 9 dicembre 1943 e del 31 gennaio 1944, egli riaffermò quei concetti, motivandoli ora anche con gli eventi dell’estate precedente. Nella prima lettera egli sosteneva la necessità e l’urgenza di una «integrale soluzione della questione ebraica». Nella seconda, ripeteva queste parole e aggiungeva: «Il Fascismo ha un solo vero e grande nemico: l’ebreo. (…)Compito numero uno (È …)la totale eliminazione degli ebrei (…). Indi escludere da tutti i gangli della vita nazionale, dall’esercito, dalla magistratura, dall’insegnamento, dalle gerarchie centrali e periferiche del Partito i meticci, i mariti delle ebree e quanti hanno gocce di sangue ebraico». Inoltre auspicava che anche in Italia le classificazioni ufficiali di «arianità» fossero basate sul «solo modo serio, che è quello costituito dalle tavole genealogiche, come si fa in Germania».
Le parole «totale eliminazione» non erano affatto nuove per Preziosi e - va detto - non erano esplicitamente riferite allo sterminio; ma dobbiamo dare per certo che agli inizi del 1944 egli ormai conoscesse sia l’attuazione del processo di sterminio avviato dal Terzo Reich negli ultimi mesi del 1941, sia i termini adoperati a Berlino per definirlo, sia la decisione tedesca di includervi gli ebrei italiani e le relative deportazioni iniziate già nel settembre 1943, sia l’ordine di arresto e di internamento degli ebrei della penisola diramato dal ministro dell’Interno della Rsi Guido Buffarini Guidi il 30 novembre 1943, sia la «suddivisione del lavoro» subito consolidatasi tra italiani arrestatori e tedeschi deportatori.
Subito dopo la nomina a Ispettore, Preziosi si impegnò nell’elaborazione concreta di progetti legislativi basati sulle sue elaborazioni antisemite. (…)
La Rsi possedeva già una notevole normativa antiebraica: quella emanata dal Regno d’Italia negli anni 1938-1943 e non abrogata durante i «quarantacinque giorni» del 25 luglio - 8 settembre 1943.
Nei suoi sei progetti legislativi sugli ebrei e l’Ispettorato, Preziosi proponeva tra l’altro: l’introduzione del concetto di «sangue» (già presente nella normativa nazista); l’introduzione del concetto «di sangue italiano» o «straniero» (di fatto corrispondente ad «ariano» o «non ariano»); l’introduzione della categoria dei «meticci», suddivisi in «di primo grado» e «di secondo grado», ossia con un genitore o un solo nonno «di sangue straniero» (tale categoria era stata istituita solo da Berlino e da nessun altro governo antisemita europeo); l’assegnazione alla categoria «di sangue straniero» di qualsiasi «meticcio» - anche con un avo ebreo di grado lontanissimo - che avesse fatto una qualsiasi «manifestazione di ebraismo»; l’introduzione della scheda genealogica individuale, compilata dai comuni e con un controllo del capo della provincia; la revisione dei cambiamenti di cognome e delle riclassificazioni razziali effettuate in base ai criteri della legislazione antiebraica del 1938-1943; l’estensione della normativa persecutoria a tutti i «meticci»; la creazione di una struttura di Delegazioni regionali e Delegazioni provinciali dell’Ispettorato, le seconde col compito di vigilare sugli «uffici comunali della razza».
Queste e altre proposte, talora solo apparentemente minori, convergevano su due punti principali:
1) l’Ispettorato avrebbe assunto un ruolo di rilievo nella vita della Rsi, esautorando in specifici ambiti i ministeri dell’Interno e delle Finanze e intromettendosi in molte linee gerarchiche del governo e della burocrazia;
2) l’intera popolazione italiana (nelle aree sotto controllo fascista-repubblichino e nazista) avrebbe dovuto essere assoggettata a una procedura di classificazione «biologica», che avrebbe potuto/dovuto portare alla luce ignorate presenze di «sangue straniero», determinando quindi la cessazione di mansioni lavorative e di funzioni istituzionali e la possibilità dell’estensione di arresti e deportazioni.
A mio parere è proprio il carattere radicale ed «estensivo» di questi punti, unito all’estrema difficoltà di attuarli nel corso di una guerra e in presenza di una progressiva ritirata, che dette modo agli altri gerarchi, e forse alla fine allo stesso Mussolini, di ostacolare e posporre «a guerra vinta» la promulgazione delle leggi richieste da Preziosi. E ciò indipendentemente dalla gradazione antisemita di ciascuno dei protagonisti. Abbiamo visto ad esempio che Mussolini aveva inizialmente scritto di aver «approvato» almeno tre delle proposte legislative. E sappiamo che il ministro dell’Interno Buffarini Guidi, nel contestare vari passi di una delle prime stesure del primo provvedimento elaborato da Preziosi, protestò soprattutto - oltre che contro alcune illogicità - contro l’estensione dei divieti antiebraici del 1938 a tutti gli altri italiani «di sangue straniero» o «meticci» (egli scrisse: «un solo nonno ebreo trasforma oggi il nipote ariano in ebreo - e vada - ma un solo nonno di sangue straniero fa dichiarare straniero il nipote»). Nel suo memoriale, Buffarini Guidi utilizzò anche l’aggettivo «aberrante», ma solo relativamente all’intenzione iniziale di Preziosi (poi sconfitta proprio da Buffarini Guidi) di assegnare alle persone «di sangue italiano» coniugate con persone «di sangue straniero o meticcio di primo grado» la stessa classificazione razziale del coniuge, per tutta la durata del matrimonio e indipendentemente dalla data della sua celebrazione. L’aggettivo appare adeguato; tuttavia, come già osservato, aberrante avrebbe dovuto essere definito innanzitutto il suo ordine di arresto del 30 novembre e le successive consegne degli arrestati ai deportatori «stranieri».

l'Unità 24.1.08
Persone da eliminare, Il ruolo dell’Italia nel grande massacro


Da sette anni, grazie a una legge votata dal Parlamento italiano, il 27 gennaio (o meglio nei giorni che precedono o seguono quella data), giorno in cui le truppe alleate aprirono le porte di Auschwitz, nel nostro paese si ricorda il massacro nazista di ebrei, diversi e oppositori politici. Cinque-sei milioni di persone (donne, uomini, bambini) che morirono nei campi di concentramento, nei rastrellamenti, negli eccidi in tutta l’Europa tra il 1938 e il 1945.
Nessuno oggi (a parte i negazionisti che continuano a contestare le cifre dell’Olocausto o addirittura la sua esistenza ma sono pochi e screditati come studiosi, penso all’inglese Irving o al francese Faurisson), mette in discussione la legge.
Ma ogni anno risento il monito di Primo Levi che, nel suo capolavoro scritto prima di morire nel1986 (I sommersi e i salvati, Einaudi editore) scriveva: «Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposte invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge». Primo Levi aveva ragione. E chi, come l’autore di questo articolo, ha insegnato per oltre trent’anni la storia del Novecento e l’esperienza europea dei fascismi, ne è ben consapevole ma non vuole arrendersi. E fa quello che può sempre per cercare di comunicare alla nuova generazione perché non si può diventare adulti se non si conosce il nostro, recente passato.
La Shoah può essere considerata oggi, dopo le ricerche degli storici di tutto il mondo, come il risultato di una generale crisi dell’Europa iniziata nel lungo Ottocento, trasformata ed accelerata nella prima guerra mondiale e divenuta un baratro della politica, della cultura e della società negli anni venti e trenta del Novecento con l’avvento dei fascismi. Esso può essere pensato come un grande prisma in cui leggere alcuni dei principali fenomeni di radicale trasformazione, e vera e propria degenerazione, della politica e della società nel ventesimo secolo, dentro e fuori l’Europa, anche oltre quell’evento specifico. Alcuni aspetti del quale si sono propagati o viceversa sono stati anticipati - in forme diverse, genocidi, pulizie etniche, razzismi.
La crisi dell’Europa fu preparata e segnata da fenomeni come l’emergere del razzismo, sin dalla metà dell’Ottocento; le trasformazioni e la diffusione dell’antisemitismo, particolarmente dagli anni Ottanta; i massacri coloniali di inizio del Novecento; le trasformazioni qualitative e quantitative della violenza nella prima guerra mondiale; la crisi dei liberalismi e la radicalizzazione dei nazionalismi; l’emergere infine dei fascismi nelle forme di regimi violenti e totalitari. Ma contarono anche fenomeni di burocratizzazione degli apparati statali e di serializzazione e di industrializzazione della morte, innovazioni tecniche e scientifiche, trasformazione della condizione umana nelle moderne società tecnologiche e di massa. Il tutto all’interno del disegno hitleriano e nazista di conquista del continente europeo e di instaurazione di un nuovo ordine, fondato su una gerarchia razziale e sulla supremazia del popolo tedesco, supposta incarnazione della «razza ariana» e portatore della sua apocalittica missione di «soggiogamento» dell’intera umanità.
Oggi sappiamo che i carnefici della Shoah furono non solo tedeschi e non solo assassini ideologicamente motivati, ma uomini comuni (per esempio militari e poliziotti, ma anche semplici impiegati della macchina burocratica dello sterminio) con l’ausilio di centinaia di migliaia di complici, collaboratori e collaborazionisti in tutta l’Europa. Sappiamo che milioni di europei assistettero inerti, così come non intervennero a fermare il massacro le potenze schierate contro la Germania nazista, le istituzioni internazionali, la Chiesa cattolica. Fino agli anni Sessanta la Shoah venne percepita dagli europei come un episodio marginale e circoscritto della seconda guerra mondiale.
Attenzione merita il caso italiano che ci riguarda direttamente ed è più complesso.
Mussolini passò, dopo circa dieci anni, da una politica contraddittoria in cui condannava l’adesione al sionismo degli ebrei italiani, ma li incitava a nazionalizzarsi e a fascistizzarsi, a una politica antiebraica che in una prima fase incominciò la persecuzione dei diritti, poi delle loro vite. Dal ’43 al ’45 settemila cinquecento ebrei vennero deportati nei lager e in gran parte vennero uccisi. Circa diciassettemila furono complessivamente i deportati italiani, mettendo insieme agli ebrei anche i «diversi» e gli oppositori politici.
L’Italia non fu al di fuori ma dentro il cono d’ombra del grande massacro e dobbiamo averlo chiaro se vogliamo rispettare e attuare la Costituzione Repubblicana.

Repubblica 24.1.08
Sentenze di civiltà
di Umberto Veronesi


La sentenza del Tar del Lazio sulla diagnosi pre-impianto fa pensare come, alla situazione di inadeguatezza legislativa del nostro Paese sui grandi temi etici, rimediano le coraggiose decisioni dei giudici, che richiamano i valori originari della nostra Costituzione, in difesa dei diritti fondamentali dei cittadini e in risposta ai loro nuovi valori.
A ben riflettere è successo più di una volta, ultimamente. Lo scorso 16 ottobre, la Corte di Cassazione ha riaperto il caso di Eluana Englaro (la ragazza in stato vegetativo da 15 anni, per la quale il padre chiede di poter sospendere i trattamenti che la tengono in una vita artificiale) richiamandosi all´articolo 32 della Costituzione, che tratta del diritto alla salute e all´articolo 13, che riguarda la libertà personale di tutti i cittadini. La sentenza del Tribunale di Cagliari che il 24 settembre dello scorso anno ha legittimato la diagnosi pre-impianto richiesta da una donna portatrice di talassemia, è stata motivata dal fatto che il diritto alla salute della futura madre e quello dell´informazione per tutelarla, garantita dalla Costituzione, prevalgono sul divieto della legge 40.
Complimenti ai magistrati che ancora dimostrano di spingersi nel terreno della difesa delle idee, là dove il Parlamento non arriva neppure a muoversi. Anche dietro questa ultima sentenza c´è una decisione di grande civiltà. I giudici hanno capito che la diagnosi pre-impianto è una straordinaria opportunità a favore della vita, che nasce per permettere a un uomo e una donna, minacciati da una malattia genetica, di poter aver un figlio sano. Già oggi sono 30.000 i bambini che nascono con malformazioni genetiche e il numero è destinato ad aumentare per le nuove caratteristiche della maternità.
Le donne tendono ad avere il primo figlio in età avanzata, quando il rischio di malformazioni aumenta. Dobbiamo poi tenere conto che l´aver figli diventa più difficile in generale, per il calo della fertilità del maschio, che ha meno spermatozoi, e le mutate abitudini di vita della donna. Questo significa che il ricorso alla fecondazione assistita diventerà sempre più ampio e la legge 40, era nata proprio per facilitare le coppie che, sempre più numerose, si trovano ad affrontare il percorso non facile dei bimbi in provetta. In particolare la diagnosi pre-impianto è la via più intelligente per non chiudere la via della procreazione a chi ha difetti genetici. O, ciò che è ancora peggio, per non condannarlo alla decisione dell´aborto terapeutico nel caso la malattia venga scoperta nel feto durante la gravidanza. Una scelta psicologicamente drammatica, oltre che fisicamente traumatica per la donna.
La diagnosi pre-impianto permette la scelta, tra gli embrioni prodotti in vitro, di quello che non porta il seme della malattia, per impiantarlo. Che vuol dire la certezza di un figlio sano e che nulla ha a che vedere con l´eugenetica. Anzi, pare persino una crudeltà vietarla. Anche Renato Dulbecco ha ammonito che nei casi di portatori di malattie genetiche il concepimento naturale può essere una condanna a morte, se nell´embrione sono presenti tare ereditarie. Si può, per ragioni ideologiche, non applicare una conoscenza scientifica che aiuta la vita e il diritto a procrearla? Con la loro sentenza i giudici del Tar sembrano aver risposto di no e con questa risposta ci allineano agli altri Paesi europei, dove la diagnosi pre-impianto è routine. In Gran Bretagna è addirittura consigliata per le donne che hanno una gravidanza dopo i 40 anni. C´è da sperare, come sembra, che questa sentenza smuova davvero le acque per una revisione della costituzionalità delle linee guida della legge 40, per evitare la penosa migrazione delle coppie in cerca di figli, verso i Paesi dove la legislazione è adeguata. Non dimentichiamo che solo nell´anno 2006 è quadruplicato, (passando da poco più di mille a oltre 4000) rispetto al periodo precedente all´introduzione della nuova legge 40/04, il numero delle coppie italiane migrate all´estero per effettuare la fecondazione assistita. Una migrazione che penalizza le coppie meno abbienti e relega l´Italia a un ruolo di Paese civilmente arretrato.

Repubblica 24.1.08
Shoah. Quell'euforia che portò allo sterminio
di Susanna Nirenstein


Domenica è la Giornata della Memoria Un nuovo libro di Browning indica nelle vittorie contro l´Urss la svolta del contorto processo che culminò nella Soluzione Finale

Non ci fu un preciso big bang della Shoah, né un unico introvabile ordine del Fuhrer, tanto meno furono le sorti avverse del conflitto a determinarla, né l´incontro di Wansee del gennaio ‘42: l´idea dello sterminio piuttosto prese avvio sull´euforia della vincente guerra di annientamento contro il giudeo-bolscevismo, e poté costruirsi grazie alle solide basi dell´antisemitismo pervasivo, imperativo ideologico centrale della visione politica hitleriana che chiedeva di per sé una soluzione ultima. Fu come lo snodarsi di un devastante Domino iniziato in Polonia, laboratorio della politica razziale, e sviluppato tassello dopo tassello, in forma disordinata, attraverso alcuni snodi fondamentali, molteplici punti morti, numerosi attori determinanti. Il «cartaio» centrale, Hitler, vagliava ogni stop and go, ogni passo successivo sulla base delle innumerevoli proposte e iniziative zelanti dei sottoposti: era l´ideatore di un gioco di cui non sapeva fin dall´inizio le regole e il tracciato ma di cui sentiva l´ossessione, il fantasma ben rappresentato nella sua «profezia» del gennaio 1939 sulla guerra mondiale che avrebbe portato «la distruzione della razza ebraica in Europa»: a lui bastava proclamare la persistenza della questione ebraica, l´interpretazione della storia come conflitto razziale, premiare chi sgomitava per proporgli le diverse soluzioni, spingere il pedale della radicalizzazione o viceversa frenarlo leggermente, per poi riprendere la corsa senza avvertire, insieme agli altri nazisti, alcuna interdizione etica, ma solo la propria, cosmica, «missione nella storia».
La mappa, nata all´interno di un vasto progetto di Storia generale dell´Olocausto dello Yad VaShem di Gerusalemme, tracciata da Christopher R. Browning - tra i maggiori esperti mondiali della Shoah e tra i responsabili dello United States Holocaust Memorial - per disegnare Le origini della Soluzione finale - L´evoluzione della politica antiebraica del nazismo, settembre 1939-marzo 1942 (ilSaggiatore, pagg.617, euro 45) analizza migliaia di documenti, fatti, date, passi dei vertici e dei comuni cittadini del III Reich verso l´annientamento degli ebrei: il risultato è lucido, rigoroso, naturalmente terribile.
La tesi che più chiaramente ne emerge è la mancanza di un disegno ab origine della soluzione finale. L´antisemitismo espresso in Mein Kampf, «chimerico», o «rivendicativo» come l´ha definito Saul Friedländer, conta come sustrato ideologico (insieme ai lasciti della teologia cristiana e al fallimento della rivoluzione liberaldemocratica in Germania), non come programma pratico.
L´ipotesi dimostrata da Browning è che solo le vittorie militari offrirono delle «opportunità inattese» all´imperialismo razziale nazista. All´inizio l´invasione della Polonia, dei Balcani, e subito dopo del Nord Europa e della Francia, le alleanze con la Romania e l´Ungheria, dettero corpo al sogno del Lebensraum, lo spazio vitale, che il III Reich rivendicava e su cui ideare, tra l´autunno del ‘39 e la primavera del ‘41, una convulsa politica demografica fondata su i principi della razza: le regioni occidentali della Polonia andavano annesse e totalmente germanizzate mediante il reinsediamento dei tedeschi etnici e l´espulsione degli elementi «dannosi» e «indesiderabili», ovvero la maggioranza dei polacchi e di tutti gli ebrei che bisognava spingere nel Governatorato. Iniziò un movimento epocale di estromissioni che colpì più i polacchi (503.000 dal settembre 39 all´aprile 41) reimpiegabili come manodopera a buon mercato, che gli ebrei, merce quasi inutile, non germanizzabile, non impiegabile per il Reich, da segregare, far possibilmente sparire, anche se allora Himmler rifiutava «in quanto antitedesco e impossibile il metodo bolscevistico dello sterminio di un popolo per una convinzione ideale».
Il progetto allora era quello di separare gli ebrei affollandoli e falcidiandoli come fase intermedia nei ghetti creati nelle grandi città, poi in una riserva speciale intorno Lublino, infine in un superghetto, il Madagascar (ipotesi presa in serissima considerazione quando fu conquistata la Francia, e poi abbandonata quando si capì che l´Inghilterra - e la sua flotta utile all´immane trasbordo - , non sarebbe stata battuta).
«I vasti piani di ingegneria demografica di Himmler si dimostrarono però più facili da immaginare che da realizzare fino in fondo» scrive Browning: i treni per gli spostamenti servivano alla guerra, i contadini volks destinati a sostituire i polacchi espulsi dovevano portare con sé gli attrezzi, i casali da occupare erano troppo miseri; Göring voleva massimizzare lo sfruttamento economico per lo sforzo bellico, Hans Frank a capo del Governatorato generale (la Polonia centrale) si opponeva alla discarica indiscriminata di polacchi e ebrei nel suo territorio che comunque, aveva detto Hitler, «in un prossimo futuro» andava completamente germanizzato, reso judenfrei.
Come si capisce, oltre alla determinazione, regnava la confusione: ad esempio il piano economico per il ghetto di Varsavia approvato da Frank nell´aprile 41, era basato sul presupposto che l´enclave sarebbe stata in piedi almeno 5 anni. O ancora, sia a Vienna che a Berlino vivevano migliaia di ebrei (315.600 in tutto il III Reich, con una mortalità che però aveva già superato la natalità), e l´ordine era di non espellerli, per ora.
La soluzione alla questione ebraica, è evidente, non era stata trovata nel Governatorato, né nel Madagascar. Doveva essere altrove.
Nel febbraio 1941 «Hitler ruminò sulla questione ebraica» di fronte a Bormann, Speer, Ley, Hewel: in origine aveva pensato di frantumare la potenza degli ebrei solo in Germania, ora il suo obiettivo era tutta la sfera dell´Asse; in Polonia, Slovacchia, c´erano i tedeschi, ma come fare in Francia, ad esempio? «se soltanto avesse saputo dove cacciare un paio di milioni di ebrei»: stava «pensando a molte cose in modo nuovo, non propriamente benevolo» disse.
Nonostante l´operazione Barbarossa contro l´Urss fosse già decisa, l´assassinio in massa di tutti gli ebrei nella sfera d´influenza tedesca non era ancora nella testa di Hitler, né in quella Himmler: la prospettiva centrale era ancora l´espulsione e la premeditata decimazione della popolazione. Eichmann aveva parlato a Himmler di circa 5,8 milioni di ebrei da reinsediare in «un territorio ancora da determinare».
I tedeschi iniziarono a concepire il Vernichtungskrieg, la «guerra di annientamento» contro il giudeo-bolscevismo: la morte era nell´aria, i nazisti non avrebbero lasciato in vita né i commissari bolscevichi, né gli ebrei sovietici, manifestazione politica e biologica della medesima minaccia. Capirono che potevano farlo via via che marciarono avanti. Ogni vittoria li esaltava e li rendeva più risoluti. I militari, la Wermacht, che pure all´inizio si era dimostrata vagamente riluttante agli eccidi e alla politica adottata in Polonia, accettarono la logica e vi parteciparono.
Alla fine del ‘41 i numeri già annichilivano: a sei mesi dall´invasione dell´Urss, Browning valuta che fossero già stati uccisi 800.000 ebrei, la maggior parte dalle Einsatzgruppen, unità di alcune migliaia di uomini che seguivano l´esercito con questo esplicito scopo, aiutate dalla polizia ausiliaria tedesca e dai collaboratori locali, lituani soprattutto e ucraini che organizzavano anche i loro pogrom. Hitler incitava, voleva creare «un giardino dell´Eden» da cui la Germania non si sarebbe mai ritirata. Le SS, i militari, gli economisti, i funzionari si precipitarono a trasformare i suoi pronunciamenti in interventi specifici.
Dopo la presa di Kiev, l´accerchiamento di Leningrado, le vittorie di Vyazma e Bryansk (673.000 soldati sovietici catturati) Hitler a settembre ridà il via alle deportazioni degli ebrei che aveva rimandato alla fine della guerra e ne vieta l´emigrazione. Vede davanti a sé lo scenario in cui può ambire alla soluzione finale.
«Nel pieno della guerra di annientamento in Unione Sovietica, con la prospettiva di avere l´intera Europa ai suoi piedi, caddero le ultime inibizioni». Heydrich inonda la burocrazia di tedesca di notizie sui massacri. I soldati scrivono a casa, raccontano che quando iniziano a sparare contro le masse inermi, alle donne, ai bambini, gli tremano le mani, ma specificano anche che poi ci si abitua, pensando che non c´è altro da fare: o loro o noi. I militari fanno anche una sorta di turismo della morte: davanti agli eccidi all´aria aperta scattano fotografie. Himmler comunque si preoccupa degli effetti psicologici delle stragi a mano armata sulle truppe: vuol pensare a una metodo più pulito, efficiente, segreto.
Tutto procede in maniera convulsa, eccitata. Chi ha la migliore idea l´avanza. In quelle stesse settimane vengono condotti vari esperimenti con il gas mettendo in campo gli uomini del programma Eutanasia usato contro i malati di mente in Germania. Monossido di carbonio, ... bombole, no, meglio i camion di Walter Rauff, ancora meglio le stanze sigillate... Zyklon B. I commando tedeschi si presentano a Belzec (a novembre) e Chelmo, e poi ad Auschwitz, Treblinka, per preparare la costruzione dei campi di sterminio. Il 17 marzo le camere a gas di Belzec già funzionano e mettono a morte gli ebrei deportati da Lublino e dalla Galizia. Il 27 Goebbels scriveva nel suo diario «degli ebrei non rimarrà molto».
Una volta avviata in territorio sovietico, la cancellazione si presentò al regime nazista «come una soluzione adeguata anche per il resto d´Europa». Indicibile orrore? Il documentatissimo racconto di Browning, dimostra come l´umanità, l´ideologia totalitaria, siano pronte a partorire e ingoiare qualsiasi mostro.

Corriere della Sera 24.1.08
Archivi Aldo Giannuli rilegge l'epoca delle stragi usando documenti dell'intelligence e materiali dei movimenti di contestazione
Strategia della tensione, così ieri è già Storia
Bombe, piste nere, servizi deviati: gli anni Settanta secondo la Controinformazione
di Ranieri Polese


Per la storia d'Italia degli anni Settanta la parola chiave è: «strategia della tensione». Con questa espressione si voleva designare l'uso di attentati, bombe, stragi per creare una situazione insostenibile, il cui sbocco inevitabile sarebbe stato un colpo di Stato. Questo concetto (qualcuno all'interno delle istituzioni voleva riprodurre in Italia quanto era avvenuto in Grecia nel 1967) è stato centrale nella controinformazione, cioè nei materiali di analisi e propaganda prodotti dai movimenti sorti intorno al Sessantotto e collocatisi alla sinistra del Pci. Intorno ad esso si imperniava il libro La strage di Stato, uscito nel 1970, che ricostruiva una versione alternativa su piazza Fontana, sconfessando la matrice anarchica della strage e indicando la pista di estrema destra. Ma l'espressione strategia della tensione, destinata a passare nell'uso comune, non fu un italiano a coniarla. «Fu un giornalista inglese, Leslie Finer, negli articoli pubblicati sul Guardian
nel 1969» dice Aldo Giannuli, autore di Bombe a inchiostro, storia della controinformazione negli anni dal 1969 all'80 circa, in uscita nella Bur. «La cosa più sorprendente è che Finer usa quel termine già il 7 dicembre, prima cioè delle bombe. Parla di un clima di forti tensioni creatosi dopo le elezioni del 1968, in cui il Pci aveva guadagnato quasi 2 punti, mentre il Psu (Psi e Psdi uniti) aveva perso più del 5 per cento, oltre un milione di voti. Fatto che aveva portato, nell'estate del '69, a una nuova scissione socialista. Curiosamente, nessuno ha notato l'errore di quell'espressione: avrebbe dovuto essere "tattica della tensione", cioè i mezzi per raggiungere lo scopo del golpe, non "strategia", che invece designa un fine. È lecito pensare che Finer abbia preso in prestito il concetto (l'esatto contrario della "politica della distensione" tra Occidente e Urss) dai suoi amici dei servizi britannici. I quali collaboravano sì con la Cia, ma non condividevano le maniere forti proposte dagli americani».
Di certo, fra cortei di studenti e manifestazioni operaie, mentre si ripetevano attentati di marca fascista, l'Italia stava vivendo un momento di grave conflittualità. Che le frettolose indagini a senso unico sulle bombe del 12 dicembre 1969 a Roma e Milano potevano soltanto acuire. «È merito della controinformazione — continua Giannuli — l'avere opposto un'altra verità a quella fabbricata contro gli anarchici e la sinistra. È un merito aver coinvolto poco a poco giornalisti, magistrati, intellettuali e artisti in una campagna imponente. Non tutto il lavoro svolto dai movimenti è da prendere alla lettera, anzi; l'idea poi della "regia unica" di tutti gli attentati ha il sapore di un mito più che di una verità dimostrata (serviva a creare mobilitazione), e certi errori sono gravi (Luigi Calabresi non aveva mai partecipato a un corso in America tenuto dalla Cia, c'era stato invece Lorenzo Calabrese, alto funzionario di polizia di Milano). Certi giudizi sono riprovevoli: come quando, all'indomani del rogo di Primavalle (nella notte tra il 15 e 16 aprile 1973 Virgilio e Stefano Mattei muoiono tra le fiamme appiccate da militanti di Potere Operaio alla casa del padre, segretario di sezione del Msi), il manifesto titolava: "Delitto nazista a Roma"; e Lotta Continua:
"Criminale vendetta fascista". Ma se uno guarda a travisamenti, complicità, occultamenti e giochi sporchi dell'altra parte e fa un conto algebrico, finisce per dare un voto positivo all'operato dei movimenti».
Ma non c'erano solo tensioni politiche, esisteva un'opposizione più profonda, di cui allora era difficile rendersi conto. «Era quella tra i servizi segreti italiani: da un lato quello militare, il Sid ex Sifar; dall'altro quello della polizia, l'ufficio affari riservati del ministero dell'Interno. Dall'epoca del progettato golpe De Lorenzo con il Sifar (1964) la rottura non si era più ricucita. Senza questa divisione, la controinformazione non sarebbe stata la stessa». In che senso? «Dai due servizi provenivano di volta in volta fughe di notizie, buone o inquinate che fossero. È sbagliato contrapporre ufficio affari riservati "di sinistra" e Sid "di destra": entrambi hanno avuto rapporti con il terrorismo nero, l'ufficio con Delle Chiaie, il Sid con Rauti e Ordine Nuovo. E certamente il libro
La strage di Stato ha avuto segnalazioni dal Sid. Certo, l'ufficio affari riservati dava più spesso informazioni alle sinistre: mente e motore del gioco era Federico Umberto D'Amato, responsabile dell'ufficio dal 1971 al '74 e dopo consulente fino alla pensione, a metà anni Ottanta. Il riscontro di testi della controinformazione con le carte dell'archivio dell'ufficio è la prova di questo flusso. Non va dimenticato poi che D'Amato collaborava all'Espresso: teneva una seguitissima rubrica di segnalazione di ristoranti (che fra l'altro gli permetteva di farsi una notevole rete di informatori). Sulla base di documenti, atti processuali e altri materiali, possiamo dire che mentre il Sid collaborò attivamente alla strategia della tensione — insieme a gruppi di estrema destra e uomini dei colonnelli greci, con la benedizione dell'amministrazione Nixon e di pezzi dell'imprenditoria italiana — l'ufficio di D'Amato non voleva il colpo di Stato. La controprova l'abbiamo nel biennio 1971-72, quando si soffia sul fuoco delle tentazioni di Lotta Continua e Potere Operaio, a parole disponibili a passare alla lotta armata: tutto questo per dichiararli fuorilegge e spingere la situazione al punto di rottura. Poco dopo l'assassinio di Calabresi (17 maggio 1972), quando Lc è sotto accusa e se ne chiede lo scioglimento, l'estremista di destra Gianni Nardi viene arrestato alla frontiera svizzera mentre sta introducendo armi in Italia. Una segnalazione anonima (ma molto addentro ai servizi) indica in Nardi l'assassino di Calabresi, che peraltro prima di morire stava indagando su un traffico d'armi dalla Svizzera. Questo servirà ad allentare la tensione su Lc». Insomma, un quadro misto, composito, un gioco di grande complessità. «L'immagine che forse rende più l'idea di quello che stava succedendo è il Rick's Café del film Casablanca: sono tutti lì, nazisti, francesi collaborazionisti, ladri, uomini della Resistenza. E in quell'incrocio si muovono flussi di informazioni, buone e inquinate, in uno scambio continuo. Una realtà meno semplicistica di quelle proposte da due opposte scuole di pensiero: quella che vede i movimenti puri e vergini da contatti con i servizi, e quella che li vede come creature manovrate».
Ma si può fare la storia di anni ancora troppo vicini, ancora pieni di misteri? «Si può, e soprattutto si deve. A quelli come Giovanni Moro, che vogliono che passi ancora del tempo per una ricostruzione storica (ci sono ancora troppi nodi irrisolti, dicono), rispondo che è necessario che lo storico si occupi di quegli anni. Anche per liberarci dei fantasmi. C'è poi la posizione degli storici accademici, per esempio Aurelio Lepre, che dicono che non ci sono documenti. Invece ce n'è una valanga, solo la Commissione stragi ne ha acquisito più di 3 milioni di pagine. Ma sono documenti particolari. Che necessitano di una speciale metodologia per essere analizzati e interpretati. Il problema è che lo storico generalmente non è abituato a confrontarsi con fascicoli processuali, non conosce la procedura penale, ha prevalentemente consuetudine con le carte degli archivi di Stato o con le collezioni dei giornali. Per gli anni Settanta la ricerca deve invece basarsi essenzialmente su atti processuali; carte dei servizi segreti; documenti dei partiti. Si dice che i documenti dei servizi sono di difficile consultazione: non sempre. Per esempio, all'Istituto Sturzo, frequentatissimo da storici e ricercatori, nel Fondo informazioni riservate ci sono in libera consultazione moltissime veline dell'ufficio affari riservati del Viminale. E non se n'è accorto nessuno».

Liberazione 24.1.08
Il fallimento dell'Unione è innegabile, il futuro della sinistra è da costruire
Perchè abbiamo perso la sfida
di Rina Gagliardi


In queste ore, mentre si decidono le sorti del governo Prodi ed è impossibile nutrire un pur vago ottimismo, non possiamo eludere una riflessione (almeno l'avvio di una riflessione) di fondo su ciò che è accaduto. Non su Mastella, il "mastellismo", i numeri del Senato e tutta "quella specie di cose" che travagliano e travaglieranno le nostre giornate, ma sulla portata effettiva di una crisi di governo che, come ha scritto ieri Piero Sansonetti, questa volta coincide tout court con la crisi della politica. E che per questo è così difficile affrontare, per non dire risolvere o superare.
***
Muovo, intanto, da una convinzione: l'Unione non c'è più, la sua sconfitta, o il suo fallimento, sono ormai consumati e in attesa della certificazione conclusiva. Parlo dell'Unione - spero che non ci siano equivoci - non come "creatura politica" (che personalmente auspicherei durasse fino al 2011), ma come opzione strategica, nella quale abbiamo investito, sperimentato, lavorato negli ultimi tre anni. Parlo dell'Unione come terreno positivo di sfida anche per la sinistra radicale, e per il futuro.
Di che si trattava? Del tentativo di trasformare una scelta "coatta" (resa tale sia dall'esistenza di una destra robusta e pericolosa, sia dal sistema elettorale) in una possibilità riformatrice, rovesciando "a nostro favore" lo stesso schema bipolare. I contenuti di questa scommessa, per noi, erano chiari - lavoro, precarietà, redistribuzione della ricchezza, ridislocazione autonoma della politica estera, diritti civili - a differenza dei nostri partner così detti "riformisti", in evidente crisi di progetto e di proposta. Così come ne erano chiari i protagonisti: non solo e non tanto la nostra capacità "contrattuale", ma la vitalità dei movimenti, delle forze aggregate nella società, delle associazioni, delle comunità di lotta, della stessa opinione pubblica democratica che chiedeva, o si attendeva, l'apertura di una nuova stagione, dopo la lunga gelata berlusconiana. Dunque, non era un'utopia, e men che mai una scelta di comodo, dettata dalla voglia di entrare, finalmente, nella famosa "stanza dei bottoni": era la sola sfida seria da tentare, per una sinistra non autoridotta allo stato testimoniale, o di nicchia, e non rassegnata alle pulsioni suicide che hanno portato alla nascita del Partito Democratico.
Ma è proprio questa sfida, temo, che abbiamo perduto. L'abbiamo perduta non solo sul terreno programmatico, di risultati tangibili (e simbolici) rilevanti, della politica economica e sociale, della laicità, ma su quello, forse più importante, della rivitalizzazione della politica e del rapporto tra politica e società. Il governo Prodi è stato, fin dal suo nascere, un governo debole, non soltanto perché al Senato non c'erano i numeri (anche, certo, per questo), ma perché non ha investito un grammo delle sue energie su quel famoso slancio partecipativo che pure era stato, all'inizio, la vera forza dell'Unione. Perché è apparso - è stato - in preda a una defatigante ed estenuante mediazione interna, mai affrontata con un atto di coraggio, o di rottura. Perché, come logica conseguenza dell'assenza di ogni tentativo di riforma della politica (a cominciare dalla composizione più che ridondante dell'esecutivo), è stato alla fine subalterno ai poteri forti e alle pressioni corporative, senza per altro neppure riuscire a stipulare con essi un qualche accordo stabile. Allo stesso tempo - cito per tutti un episodio a fortissima valenza simbolica - l'unica "voce forte" è stata quella espressa contro il movimento "no Dal Molin".
Ma, a parte queste ed altre ragioni che andranno indagate e ricostruite, quel che è venuta meno è stata la disponibilità (o possibilità?) a realizzare sul campo quel "patto riformatore" sintetizzato e simboleggiato dal Programma.
Noi, sinistra e sinistre politiche, al governo e in Parlamento, abbiamo fatto, credo, il massimo possibile, ottenendo talora qualche risultato e, molto più frequentemente, riuscendo nell'arte di tutte più oscura e misconosciuta: la "riduzione del danno". Un lavoro, o meglio una fatica grandissima, e anche meritoria: abbiamo inibito, ostacolato, impedito il dispiegarsi di organiche politiche neoliberiste, antiambientali, privatistiche, abbiamo "sanato" alcune situazioni scandalose, abbiamo "segnato" alcuni possibili percorsi. Ma non siamo riusciti ad imprimere al quadro politico l'accelerazione, l' elan necessari - ed è questo, mi pare, che ci rimprovera la "nostra gente", non la mancanza di volontà, ma di efficacia. Questa latitanza di "connessione sentimentale" ha rafforzato, non a caso, l'umore antipolitico di massa, già alimentato dalla borghesia con rutilanti campagne mediatiche - sarà un caso che l'unico nuovo movimento di questi tre anni sia stato il dispiegamento del "grillismo", per quanto fragile, effimero e neppure così interessante esso sia?
***
Da queste schematiche riflessioni, non è lecito trarre alcuna conclusione tranchant - tipo "mai più al governo con la borghesia". Ma è doveroso, certo, il ripensamento del rapporto tra sinistra e Governo, tra sinistra e politica, anche per fronteggiare quella "questione morale" che tanto la attraversa, anche in questa crisi. Al centro di questo ripensamento, non può che esserci la questione dell'autonomia della sinistra, del nuovo soggetto unitario e plurale in costruzione, per quanto acciaccato possa apparire. In parte (ma solo in parte) ha ragione Mario Tronti, quando ripropone per la sinistra (come su Liberazione di ieri) un'ottica di nuovo inizio, di rigenerazione che sia inestricabilmente sociale e politica, e "di minoranza", cioè "non maggioritaria", cioè vocata alla conquista di forza prima che di potere. Per queste ragioni, mi pare, diventa (ridiventa) essenziale la conquista di quell'autonomia elettorale, che può esser garantita soltanto dalla fine del bipolarismo e da un sistema elettorale non più fondato sulle alleanze coatte. Forse, c'è qui anche uno spicchio di opzione strategica: se fosse vero che non sono possibili, in questa fase, "compromessi dinamici" con le forze democratiche e moderate, potrebbe però risultare decisiva la lotta per impedire l'involuzione americana del sistema politico. Non è detto, certo, che l'obiettivo sia alla nostra portata, ma mi pare difficile negarne l'importanza, nient'affatto tattica. L'andamento della crisi di governo è tale che spinge ad altri esiti, alla sciagura di elezioni anticipate che non solo si annunciano come perdenti, ma come politicamente ripetitive, chiuse nello stesso schema maggioritario, bipolare e "unionista", già tentato e già, come dicevo, sconfitto. Non dicevano i classici che la storia non si ripete mai, se non in farsa? Forse, intanto, sarebbe bene evitarcela, questa farsa e questa ulteriore, duplice sconfitta.

Liberazione 24.1.08
Questo Paese merita una sinistra unita, forte, pulita
La dichiarazione di voto del segretario di Rifondazione Franco Giordano: «In un passaggio economico dirimente ci sono ingenti risorse da redistribuire ma qualcuno ha pensato di bloccarle. Ci sono poteri forti che le vogliono ipotecare»
di Franco Giordano


Signor Presidente, è stata giusta e abbiamo, dunque, apprezzato la scelta di aprire la discussione in Parlamento. E' segno di rispetto per le istituzioni democratiche ed è in questo luogo che, in maniera trasparente, ciascuno definisce le proprie responsabilità.
In queste ore vi è tanto bisogno di segnali semplici e chiari, come da tempo andiamo sostenendo. Vi è un'inaffidabilità del centro moderato della nostra coalizione ed è in questo ventre molle che matura la rottura di un legame e di un mandato elettorale. Persino le modalità danno il segno di una giravolta, che parla di antiche forme di trasformismo. Nel giro di ventiquattr'ore si passa dal Governo all'appoggio esterno e dall'appoggio esterno all'opposizione. C'è una ragione di programma su cui si decide la rottura? Eppure, ci sarebbero tra di noi ragioni di confronto, di merito, visto che proprio da queste aree si è sempre teso a svuotare il programma concordato dall'Unione. Non è andata così su temi socialmente più sensibili o sui diritti civili?
L'elemento di rottura avviene su un tema, quello della giustizia, grandemente delicato, ma in forme del tutto paradossali. Non entriamo nel merito di una vicenda personale su cui ci siamo già unitariamente espressi. Il paradosso è che viene depositata una relazione, frutto di un lavoro comune e condivisibile di mesi. In quel lavoro siamo entrati con il nostro bagaglio di cultura giuridica e garantista e, al contrario, contraddittoriamente si agitano giudizi sulla magistratura che alimentano conflitti istituzionali. Vogliamo ripeterlo qui solennemente ancora una volta: per noi il rispetto per l'autonomia e l'indipendenza della magistratura è un valore inviolabile.
Contrastiamo la logica cavalcata dalle destre qui e fuori di qui, di autoassoluzione ex post di una classe dirigente già giudicata in maniera definitiva e su cui è già stato espresso un giudizio politico dalla società italiana. Fa parte di un degrado della politica inaccettabile.
Ha dell'incredibile, signori della destra, che un presidente di regione, Salvatore Cuffaro, festeggi una condanna a cinque anni di reclusione e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver favorito mafiosi condannati a loro volta a quattordici anni di reclusione e che decide di continuare a svolgere quel ruolo con una logica di impunità di ceto che dovrebbe fare indignare! Un bidello - mio padre e mia madre erano bidelli - con la stessa condanna perde il lavoro! Un imprenditore non potrebbe partecipare ad un appalto in Italia ed in Europa perché non gli consegnano il certificato antimafia. Non può continuare a governare un presidente di regione in queste condizioni.
Noi contrasteremo fino in fondo un'idea di giustizia che si vuole perseguire: debole, riverente e sottomessa con i potenti e forte, intransigente e spietata con i deboli, i disperati, gli ultimi. Dalle cronache politiche di questi giorni emerge una grande questione morale, che si impasta con la crisi sociale e alimenta disaffezione e distacco. La politica del Paese non può essere solo quella dei trasformismi di oggi, non può essere quella di Totò Cuffaro, c'è una passione di giovani lavoratrici e lavoratori che vogliono contare e cambiare. Su questa passione costruiremo la sinistra.
Proviamo a spiegare meglio questa crisi: in un passaggio economico dirimente c'è una parte del Paese, tanta parte di famiglie del Mezzogiorno, che vedono i propri figli diplomati e laureati tornare ad emigrare: giovani senza reddito, precari, tanta parte di lavoro dipendente che ha i salari più bassi d'Europa. Qualche giorno fa vi è stato un segnale positivo con lo sblocco del contratto dei metalmeccanici, un primo passo in direzione di chi sperava che finalmente era giunto il momento buono per loro. Era l'oggetto del nostro confronto, vero signor Presidente del Consiglio?
Ci sono ingenti risorse da redistribuire; qualcuno ha pensato bene di bloccare questa possibilità, perché ci sono appetiti di soggetti forti, che vogliano ipotecare a proprio vantaggio tali risorse. Così come è tornato puntuale il monito delle gerarchie ecclesiastiche sui diritti di civiltà, da quello dell'autodeterminazione delle donne, con la legge n. 194 del 1978 da rimettere in discussione, a quelli del riconoscimento giuridico per le coppie di fatto di qualsiasi orientamento sessuale, che già esistono in tutta Europa, tranne che in Italia.
Spieghiamola questa crisi! C'è un'emergenza democratica e istituzionale; ci sono riforme sospese che pesano come un macigno. Oggi qui il Presidente Napolitano ci ha parlato magistralmente, interpretando limpidamente e correttamente quei bisogni. C'è una legge elettorale fatta dalle destre, fatta da voi, che ha alimentato questa instabilità e ha determinato una grande frammentazione: ha dato un peso sconsiderato persino a partiti costituiti da singoli individui! E alle porte c'è un referendum che amplifica questa rissa e questa frammentazione. Si vuole negare per caso qui, da parte di qualcuno, l'urgenza di mettere mano rapidamente a questi temi?
C'è bisogno della ricostruzione di un profilo riformatore, di una idea alta di Governo democratico della società. Il ritrarsi di una politica alternativa della società ha determinato il prevalere di logiche di mercato competitive, logiche contrappositive; ha alimentato spaesamenti e solitudini, una perdita di socialità e di umanità, una sensazione di insicurezza alimentata dalla «fabbrica della paura», una crisi drammatica di senso della politica. Da queste vicende emerge la necessità di investire, qui ora, sulla sinistra unita e plurale, una sinistra che faccia dell'autonomia la sua forza per tenere aperto un profilo di alternativa, una cultura della trasformazione.
La vicenda italiana, in questi giorni convulsi di agitazione nei palazzi, non può esaurirsi nel pericoloso ed aggressivo populismo e liberismo delle destre, in opzioni centriste ed elitarie. Questo Paese merita una sinistra unita, forte, pulita, innovata ed in grado di rispondere a speranze e passioni, in grado di essere un punto di riferimento morale ed intellettuale del Paese. Con questo impegno votiamo questa fiducia e con questa bussola e determinazione lavoreremo nella società italiana.

Liberazione 24.1.08
Esce in Italia lo studio di Daniel Bensaid sul filosofo tedesco. Una lettura che mette in risalto le possibilità rimaste finora inespresse nel testo marxiano con molti rimandi a Benjamin e Gramsci. Ritroviamo un autore incompleto e contraddittorio
Marx, troppo in anticipo sul suo tempo. Ma oggi è attuale
di Cristina Corradi


Marx l'intempestivo è il titolo del libro di Daniel Bensaïd pubblicato in Francia nel 1995 e tradotto ora in lingua italiana da Cinzia Arruzza per Edizioni Alegre (pp. 416, euro 25,00). Nella prefazione Massimiliano Tomba pone giustamente l'accento sul carattere non filologico e non antimarxista della lettura qui proposta, che non emerge dallo studio asettico di uno specialista, bensì dall'interpretazione appassionata, e a tratti visionaria, di un dirigente della Lega comunista rivoluzionaria. In compagnia di autori eterodossi come Benjamin e Gramsci, l'autore aggredisce, infatti, i luoghi comuni dell'antimarxismo contemporaneo e sottolinea l'attualità della marxiana critica dell'economia politica nell'epoca della globalizzazione dei rapporti capitalistici. Il Marx di Bensaïd è un Marx genialmente incompiuto e fecondamente contraddittorio, il cui pensiero va colto all'incrocio di tre critiche: della ragione storica, dell'empirismo sociologico e del modello positivista di scienza. E' un Marx intempestivo perché sovvertitore dell'idea di scienza della sua epoca, un Marx che,
attardandosi nel modello tedesco di scienza, anticipa temi e motivi della crisi novecentesca dei fondamenti; è un Marx intempestivo come le rivoluzioni, che non sono mai prevedibili né puntuali. E' un Marx da riscoprire attraverso il filtro di autori eterodossi come un Marx attuale, la cui critica matura dell'economia politica è all'altezza della mondializzazione capitalistica.
Il libro è diviso in tre parti: la prima decostruisce l'immagine di Marx come filosofo della storia, sostenitore di una concezione della temporalità storica a disegno, orientata verso una meta predeterminata e scandita da tappe necessarie. E' un'immagine costruita dalle correnti ortodosse della Seconda e della Terza Internazionale, che, tramite la critica popperiana allo storicismo, ha plasmato il senso comune dell'antimarxismo contemporaneo.
La seconda parte argomenta l'irriducibilità della critica dell'economia politica ad una sociologia empirica delle classi o ad una scienza positiva dell'economia. Bensaïd argomenta che la liquidazione della teoria del valore comporta la perdita del concetto indispensabile di lavoro astratto. La traduzione del concetto di sfruttamento nei linguaggi della teoria della giustizia, della scelta razionale e del marginalismo è incompatibile con una rigorosa teoria del conflitto sociale.
La terza parte si sofferma sulla scienza marxiana, che non è inquadrabile nei canoni della scienza normale, non è riconducibile alla dottrina economica modellata sulla scienza fisica. Lungi dall'applicare la razionalità galileiana nell'ambito dello studio della società, Marx anticipa per molti versi i tratti che le scienze assumono dopo la crisi dei fondamenti.
Una lettura non filologica e non antimarxista: le possibilità inesplorate e inutilizzate del passato, che è compito del materialista storico dischiudere, vanno cercate anche nella tradizione del marxismo (testo non separabile dal suo uso politico nella lotta di classe).
Non scienza positiva dell'economia, ma "teoria critica della lotta sociale e della trasformazione", la comprensione deve aprire la possibilità del mutamento, non fotografare il reale. La questione è la verità, non l'oggettività (cioè neutralità dell'osservazione che è falsa in una totalità soggetta a interessi antagonisti, ove il soggetto prende parte a ciò che descrive), e la verità di una situazione consiste nel dischiudere praticamente le possibilità di liberazione che racchiude. La teoria marxiana è irriducibile ad una sociologia empirica: non una teoria delle classi ma una teoria che si fonde con pratiche di classe. Le classi non si danno come agglomerati fotografabili, ma sono pratiche politiche il cui comune è sospeso sul bordo di una disappartenenza (alla propria condizione salariata, alla nazione, agli interessi di impresa). Gli individui formano una classe quando debbono condurre una lotta comune contro un'altra.
Il Capitale sovverte l'idea di scienza: storia discontinua e piena di fratture, non contemporaneità tra sfere economica, giuridica ed estetica. Rompere con storia lineare ed omogenea, riattivando correnti del marxismo eterodosso: togliere le incrostazioni del marxismo stalinista (concezione teleologica della storia come successione di tappe obbligate), e decostruire la storia universale. La politica è il punto di incontro di tempi discordi, perché turba la linearità storica.
Alcuni choc legati a eventi singolari costringono Marx a rivedere l'idea di progresso: la sconfitta del '48, il '70. Piano categoriale, storico e politico sono ricombinati insieme.
Questa rilettura è propiziata da uno studio di Benjamin e incontra i Postcolonial studies. «Articolando insieme temporalità eterogenee, Marx inaugura una rappresentazione non lineare dello sviluppo storico: i concetti di sviluppo ineguale e combinato e di non contemporaneità si inscrivono nel filo rosso delle sue intuizioni». Le leggi hanno la funzione di tracciare una tendenza, che opera nella contingenza, sotto i colpi delle controtendenze, che danno forma alla tendenza.
Il libro ci fornisce una chiave per rileggere il Capitale nella prospettiva di tre temporalità: il tempo rubato del primo libro, quello delle metamorfosi e della circolazione del capitale nel secondo libro, il tempo vivo dei conflitti e delle crisi del terzo. E' poco utile attardarsi sulle influenze hegeliane. «Strappare Marx dalle sue radici hegeliane per collocarlo nella normalità delle scienze moderne» è un malinteso. Il quadro delle influenze è complicato con l'inserimento di Leibniz e Spinoza. Il problema del cominciamento non è quello hegeliano, perché non muove dall'astratto, ma dalla concretezza della merce. La logica non può sopportare la traccia del non identico, il cui primato è il senso ultimo del materialismo. Le rivoluzioni non obbediscono alla regolamentazione della storia universale, ma nascono dalla sofferenza e dall'umiliazione. Il capitale non è scritto per superamenti e conservazioni ma per tensioni e attriti interni. Per metterli in movimento serve la politica.

Liberazione lettere 24.1.08
Hanno rispolverato la Rerum Novarum
Caro Piero, consentimi di dire che l'ultima relazione di Mons. Bagnasco non è per niente originale. Hanno dato semplicemente una spolverata alla "Rerum Novarum", ma solo nella forma perché nel contenuto è rimasta identica, col suo carico di avversione nei confronti di una possibile alternativa socialista, oggi come allora. L'idea di fondo è che la società per funzionare deve essere ingiusta, col ricco e col povero, con lo sfruttato e con lo sfruttatore. A risolvere le ingiustizie sociali provvederebbe poi la carità cristiana. La possibilità di un cambiamento in prospettiva socialista della società porterebbe solo a un pericoloso turbamento dell'ordine sociale. La Rerum Novarum, molto prima delle parole del capo della Cei, chiarisce la paradossale realtà attuale: lo Stato è diventato il fideiussore solidale delle ingiustizie, fondamento e garanzia dell'ordine sociale, delegando alla carità di chi promuove le ingiustizie sociali il lenimento delle stesse. L'astio delle gerarchie vaticane nei confronti del programma di questo governo è la misura di quanto sia necessario il rinnovamento e la trasformazione della società italiana.
Roberto Martina via e-mail

Chiesa. Ceto politico e cultura
Cara "Liberazione", l'editoriale col quale Paolo Flores d'Arcais ( "Liberazione" domenica 20 gennaio, ndr ) si è rivolto al presidente della Repubblica merita il più ampio consenso. E' ormai urgente un'azione permanente che riunisca - rivolgendosi alla più ampia opinione pubblica - ricercatori dei diversi versanti della cultura, parimenti sottoposti ad una minaccia non più sottovalutabile. I politici ansiosi di "tranquillizzare" una chiesa cattolica in verità assai comodamente installata in Italia, dovrebbero davvero riflettere - se ne fossero capaci - sul rapporto mai così depresso tra ceto politico e cultura.
Antonio Del Guercio Roma

Valori non negoziabili e condotta politica
Caro direttore, ormai la Conferenza episcopale detta minuziosamente l'agenda politica. Per il cardinale Angelo Bagnasco «Il Paese è in declino». Fortunatamente, egli ha la miracolosa ricetta per raddrizzarlo: passare con un salto dallo Stato laico, liberale e pluralista a quello rigidamente confessionale. In questo momento di crisi politica, meritiamo forse uno Stato etico, che dia le direttive, che guidi e illumini le anime. Al Consiglio permanente della Cei, Bagnasco ha tuonato contro l'ultimo governo di centrosinistra lassista e iperlibertario, fissando i paletti d'una prossima e mirabolante stagione nuova. Stagione di conquiste civili, di rinvigoriti diritti umani. «La Chiesa vuole aiutare il Paese a riprendere il suo cammino», con una mirata politica sociale, pragmatica, eticamente corretta e sostenibile, rispettosa di tutti, lungimirante: revisionando la legge 194, sposando la straordinaria campagna culturale e politica della grande moratoria sull'aborto da equiparare strettamente a quella sulla pena di morte, vietando di riconoscere diritti e doveri alle coppie di fatto e non istituendo mai i registri delle unioni civili, opponendosi strenuamente al "divorzio breve". Il presidente della Cei ribadisce ai politici cattolici il dovere del "voto di coscienza" quando sono in gioco i valori non negoziabili. Ovviamente, Bagnasco mischia pericolosamente etica, religione e politica, intreccia insostenibilimente (e questo è un vecchio costume cattolico) i valori cosiddetti non negoziabili (che appartengono unicamente alla sfera dei principi, delle morali, e sono quasi sempre inconciliabili), con la condotta politica, che è invece il luogo franco della responsabile mediazione, della condivisione. In politica, non esistono valori non negoziabili. Il presidente della Cei dimentica che lo Stato laico e liberale deve tener conto d'una moltitudine di valori, deve fare il pieno di morali. Secondo Angelo Bagnasco, le norme giuridiche devono essere ricondotte per forza alla "legge morale naturale". Ovviamente, non è così. La laicità impone di tutelare ed equiparare le tendenze sessuali e le differenze di sesso, perché la Natura s'esalta nell'espletamento delle diversità sessuali. La Natura è molto più varia, più complessa, più saggia d'una irreversibile enunciazione morale.
Marcello Buttazzo Lequile (Le)

Politici specchio della società
Cortese compagno Sansonetti, condivido pressoché totalmente le parole di Tronti nell'intervista su "Liberazione". Io penso che abbia ben inquadrato i motivi della crisi attuale della politica e della società. Parlare solo di disaffezione della gente per la politica non rende ragione del clima attuale di crisi. Senza cercare assoluzioni facili per il mondo della politica (Mastella docet) c'è da dire, con Tronti, che davvero i politici sono lo specchio della congerie sociale nella quale viviamo. L'interesse personale o di gruppo, le aspirazioni proprie e/o comunque familistiche, sembrano essere la guida al comportamento relazionale delle persone. Occorre perciò, sono d'accordo anche in questo con Tronti, creare forse ex novo, una struttura, chiamiamola partito, chiamiamola movimento, chiamiamola come volete, che abbia al centro un valore che sia al tempo stesso un bisogno ed un diritto, ed anche a me viene in mente principalmente il lavoro. Attorno ad esso si può cercare di coagulare le aspirazioni ed i bisogni della carne viva delle persone, magari anche sottraendole al meccanismo clientelare di cui Mastella, ma non solo, è dominus. Anche perché sulla buona fede delle persone, parlo del popolo elettore, mi permetto di opinare. Quanti di coloro che sbraitano per non fare eleggere i pregiudicati (e ci mancherebbe!) hanno in campo le loro piccole e quotidiane illegalità, da concertare con il politico di turno ? La mia impressione (confermata dalla visione dei grafici di Pagnoncelli sulle preferenze politiche ondivaghe degli italiani) è che una delle ragioni, forse non la prima ma comunque ben piazzata in graduatoria, della mutevolezza di orientamento politico dei nostri concittadini sia ricerca del politico di turno, di destra, sinistra, centro, che soddisfi le sue esigenze personali, familiari o comunque di gruppo. Cerchiamo quindi, come partito, di mettere al centro della nostra azione un tema sentito, io parlo del lavoro in quanto legato per cultura a questa categoria dell'esistenza, altrimenti non verremo fuori da una logica dell'alternanza (o del pendolo) fondata non sul legittimo diritto a cambiare governo, bensì sui propri, egoistici interessi personali
Massimo De Siena Napoli

Agi 24.1.08
Aborto: left propone, un anno senza Ferrara è possibile

(AGI) - Roma, 24 gen. - Stufi e stanchi di chi chiede e richiede una moratoria sull'aborto? Ora c'e' chi propone: "un anno senza Ferrara e' possibile" e si puo' aderire via mail. A lanciare la suggestiva proposta e' il settimanale 'Left' che dedica la seconda copertina del numero di domani in edicola al direttore de 'Il Foglio' di cui si ricordano, "le continue giravolte politiche che lo hanno portato oggi - come si legge in una anticipazione - lui reo confesso di essere stato complice in tre aborti, a farsi paladino di una moratoria sulla legge 194". Chi e' d'accordo con 'Left' e la sua "campagna di autodifesa dall'offensiva integralista, misogina, antiabortista, militarista dell'insostenibile ateo devoto", puo' dirlo mandando una mail al settimanale, 'segreteria@avvenimentionline.it'. "Ferrara si e' fatto interprete, portavoce di un progetto che vede il sopravvento della Chiesa - dice Pino Di Maula, direttore di 'Left' - rispetto a decisioni che spettano allo Stato". Dunque 'un botta e risposta' tra direttori di testate diverse per storia e cultura. "E' arrivato il momento di dire basta - afferma Di Maula - e' questo un gioco pericoloso e perverso che fa comodo a troppi". 'Left', da sempre difensore dei diritti delle donne e della liberta' di ricerca scientifica, "sceglie questa strada come mezzo per ribadire - conclude Di Maula - un'esigenza di laicita' che e' un dovere dello Stato: Ferrara e' un agit-prop che si trova a suo agio in questa situazione e per questo abbiamo voluto questa campagna un po' anomala, a meta' tra il bisogno di riderne e di ritrovare la capacità di ragionare". (AGI) Pat

il manifesto 24.1.08
Pd-Forza Italia, a Segrate la coalizione c'è già
Appoggio al sindaco di Forza Italia e rottura con la sinistra: sul cemento le prove dell'inciucio possibile
di Alessandro Braga


Se il dialogo sulla legge elettorale tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi ha frenato di fronte alla seconda bozza Bianco e poi si è fermato al precipitare della crisi di governo che pure ha provocato, in quel di Segrate il Partito democratico e Forza Italia vanno a braccetto da un bel po'. Anzi adesso addirittura si tengono per mano.
Arrivare al grande idillio è stato semplice: da un lato il sindaco forzista Adriano Alessandrini aveva da tempo intenzione di smarcarsi dai riottosi alleati, in particolare la Lega nord, che aveva mal digerito l'approvazione da parte della giunta dell'edificazione di un nuovo centro commerciale; dall'altro il neopartito veltroniano non ha mai nascosto il fastidio di un'alleanza con i partiti della sinistra alternativa, tanto che a fine novembre sul blog del Partito democratico segratese è uscito un intervento del coordinatore del Pd per l'area Milano sud Augusto Schieppati dal più che mai esplicito titolo «Sinistra radicale nun te reggae più».
E allora pochi giorni fa, il 16 gennaio, i gruppi consiliari di Forza Italia, Alleanza nazionale e Partito democratico hanno sottoscritto un documento, un accordo di legislatura, in base al quale le tre forze politiche si impegnano a lavorare insieme. Dando totale fiducia al sindaco forzista, visto che nel preambolo si legge che le forze politiche sottoscrittrici «constatano che non esistono rilevanti differenze per quanto riguarda le impostazioni programmatiche relative alle grandi tematiche che riguardano la città», «rilevano che occorre il formarsi di una collaborazione pragmatica e non ideologica tra le forze politiche responsabili presenti in consiglio comunale» e, dulcis in fundo, «concordano nel superare le logiche di schieramento e di condividere il programma del sindaco, opportunamente aggiornato e arricchito con alcune istanze e priorità portate avanti dai sottoscrittori e in particolare dal Partito democratico». Et voilà, l'inciucio è servito. Certo, in cambio di questa sua «genuflessione» al sindaco, il Partito democratico ottiene la possibilità, insieme a Forza Italia e An, di «concordare la definizione di una nuova compagine di giunta, al fine di attuare le indicazioni programmatiche sopra indicate». Che, tradotto dal politichese, vuol dire che il Pd avrà un assessore, e i bene informati dicono sia proprio quello Schieppati che già da tempo «nun reggae più» la sinistra alternativa.
La «grosse coalition» in salsa lombarda lascia tuttavia strascichi e malumori sia a destra che a sinistra. La Lega ha già fatto sapere che se la firma del protocollo sarà il primo passo per far fuori i lumbard dalla giunta, allora il Carroccio metterà in discussione tutte le realtà della provincia milanese dove il centrodestra governa con l'aiuto della lega. E da sinistra arrivano strali contro «l'inaccettabile inciucio» dalla coordinatrice provinciale milanese di Sinistra democratica Chiara Cremonesi, che accusa il Pd di «aver tradito il patto con gli elettori del centrosinistra», e dai Verdi regionali, che parlano di «sciagurato accordo per la condivisione e la spartizione del potere e della speculazione edilizia per cementificare la cittadina».
Se si pensa che la Lombardia è stata in tempi passati anticipatrice di quanto sarebbe accaduto poi a livello nazionale (senza andare a Depretis e al trasformismo basta pensare al craxismo degli anni Ottanta e all'accordo forzista con la Lega nel decennio successivo), è facile immaginare cosa potrebbe accadere da qui a poco in Italia. Del resto, il luogo è anche altamente simbolico: Segrate, cittadina di oltre 30mila abitanti nell'hinterland milanese, ha visto nascere Canale 5, Publitalia e l'impero mediatico del Cavaliere. E, sulla strada Rivoltana che tange la cittadina, giusto lo scorso anno è stata rimessa a nuovo la sede storica della Mondadori, che Berlusconi si è conquistato al termine di una lunga battaglia legale nota alle cronache più giudiziarie che culturali come la guerra di Segrate. In più, in un paesino vicino, c'è un parco giochi chiamato «Minitalia»: i bambini possono vedere tutte le bellezze del nostro paese in miniatura. E i loro genitori possono ammirare in consiglio comunale il «piccolo inciucio», in attesa che prenda forma quello grande, a Roma.

il manifesto 24.1.08
Divisi e scontenti, Cosa rossa a pezzi
Arcobaleno Il Prc discute, bertinottiani pronti al governo Draghi. Il Pdci candida il prenier per un ulivetto. La sinistra unita si divide.«Troppe differenze, solo lo sbarramento al cinque percento potrà unirci»
di Daniela Preziosi


«Non siamo per un governo di larghe intese. Siamo per una soluzione, per l'uscita dalla crisi con un governo di breve periodo che lavori soprattutto a una nuova legge elettorale. Non necessariamente un Prodi bis, ci sono molti nomi come Amato, Draghi». Nella notte di passione di Romano Prodi, mentre tutta la diplomazia istituzionale - quasi tutta, da Marini a Napolitano, senza però passare per Bertinotti - suda sette camicie per convincere Romano Prodi a non farsi «sparare al cuore» dal plotone del senato, la senatrice Prc Rina Gagliardi non usa mezze misure per impallinare il recalcitrante premier. «Prodi ha già fallito perché non ha risposto alla crisi della politica», dice. «Adesso bisogna dare delle risposte ai cittadini. Certo, con questa legge elettorale, però, se si va al voto non si garantisce la governabilità». Governo istituzionale per la riforma elettorale, quindi. E' la linea di Fausto Bertinotti, che il presidente della Camera ha esposto il giorno prima alla Stampa. Provocando un fulmine nel cielo di Rifondazione comunista. Anche se non era un cielo sereno.
Ma non è, almeno per il momento, la linea del partito che in teoria sarà decisa sabato, alla riunione della direzione del Prc allargata ai gruppi parlamentari. Si era smarcato, in maniera sfumata, il capogruppo al senato Giovanni Russo Spena. Ma soprattutto aveva preso le distanze il ministro Paolo Ferrero, che di nuovo ieri ha bocciato l'ipotesi di un governo istituzionale. «Non ne vedo alcun presupposto». Concedendo che anche nella miracolosa ipotesi che Prodi dovesse sfangarla a Palazzo Madama, «non è che si può far finta di niente. Sul piano istituzionale potremmo andare avanti, su quello politico è evidente che vanno tirate le conseguenze e la storia non può durare molto». Fra i tanti mal di pancia interni a Rifondazione, ieri l'ultima divisione della cosa rossa è una divisione tutta interna a viale del Policlinico. Gagliardi si spinge fino all'idea indigesta di un governo istituzionale guidato dal governatore di Bankitalia Mario Draghi. Stoppata gelidamente dopo pochi minuti da Roberta Fantozzi, segreteria Prc, ferreriana: «La posizione di Rina Gagliardi è una posizione personale, non discussa in nessuna sede di partito».
Diviso su tutto, diviso anche all'interno dei propri cortili, il quartetto dell'arcobaleno si presenta in ordine sparso all'ultimo giro di giostra della legislatura. Il Prc più vicino a Sd, il Pdci più vicino ai verdi. Divisi sul piano A (Prodi bis), sul piano B (governo istituzionale), e pure sul piano C (elezioni subito) ammesso che esista.
La frattura è profonda, ma a guardare bene la precipitazione di Prodi l'ha solo scavata di più. «In quest'ultimo periodo è successa una cosa che ha ferito parecchio l'unità a sinistra, e cioè che Rifondazione e Sd si sono imbarcati in questi accordi trasversali con Casini, mentre il Pd dialoga con Berlusconi, che noi non condividiamo per niente», dice Manuela Palermi, Pdci. Tanto vale dirselo, continua «è meglio che prima si faccia chiarezza al nostro interno perché l'unità con differenze così sostanziali è difficile da fare». Valeva la pena di cominciare a parlarne agli Stati generali di dicembre, magari per evitare lo sbando di queste ore. Ma non è il momento delle recriminazioni.
Il Pdci, dal canto suo, è l'ultimo giapponese di Prodi. Diliberto per paradosso ha persino offerto al professore la leadership di un «ulivetto», una coalizione alternativa fatta fra comunisti, verdi e i prodiani che mollerebbero il Pd. Una fantasia, ma per far capire che per loro la subordinata di Prodi è il voto. «Anche con questa legge elettorale», dice Palermi, sostenendo persino di non averne mai parlato male. «Certo, c'è il problema del premio di maggioranza al senato, perché alla camera ha funzionato benissimo: basterebbe correggere solo piccole cose e la legge può funzionare». Ma anche per le piccole correzioni ci vuole un governo di transizione, potrebbe non essere il Prodi bis. E come un gioco dell'oca, si torna al punto di partenza.
Sd è più vicina a Rifondazione, ma anche lì i distinguo si sprecano. Qualche giorno fa un gruppo di dirigenti vicini alla Cgil ha reso noto un documento contro la direzione di Mussi, qualcuno ha parlato di prossima scissione. Dall'altra parte, Cesare Salvi continua a fare appelli all'unità. «E' essenziale una valutazione comune delle forze della sinistra-l'arcobaleno. Un punto comunque mi pare chiaro: non avrebbe alcun senso sostenere un governo che volesse unicamente una legge elettorale su misura di Berlusconi e del partito democratico di Veltroni e che si discostasse, quindi, dalle linee di fondo della bozza Bianco». Però verdi e Pdci non ci starebbero. Il Prc, ora qualcuno lo ammette, aveva sottovalutato i continui distinguo dei dilibertiani. E sopravvalutato le possibilità di successo della legge elettorale, volano dell'unità a sinistra. Ma la partita non è chiusa. Come dicono in molti, da una parte e dell'altra, «ci vediamo dopo il 5», nel senso dello sbarramento al 5 per cento. Se passa.