domenica 27 gennaio 2008

l’Unità 27.1.08
Oggi è il “Giorno della Memoria”. Italia contro Italia
di Furio Colombo


Oggi è il “Giorno della Memoria”. C’è chi si domanda se sia una formalità, una cerimonia, l’occasione di un bel discorso nell’Aula Magna. C’è chi teme che tornare al passato divida e riapra non solo immagini di tragedia e dolore ma anche di spaccatura fra combattenti (memoria di combattenti) di una parte e dell’altra. C’è chi suggerisce che tutti i combattenti, finita una guerra sono uguali e tanto vale darsi la mano e andare avanti con la vita. C’è chi sostiene che tutte le vittime sono uguali e poiché qualunque morte è una perdita immensa, non è il numero che fa differenza. Onore a tutte le vittime, e la vita continua.
C’è anche chi pensa (e si è dato da fare moltiplicando i Giorni dedicati alla Memoria e al ricordo) che ci sono stati tanti eventi spaventosi nel mondo e di tutti occorre farsi carico, siano le vittime o i colpevoli di una parte o dell’altra. Se ci sono stati i campi di Hitler ci sono stati anche quelli di Stalin e le Foibe di Tito. Dunque o tutti o nessuno.
È comprensibile che - col tempo - i fili degli eventi si mischino spesso in confusi gomitoli. C’è chi sospetta l’uso - come si dice - strumentale. E chi teme che si alzino voci “buone” ma così generiche, così sbiadite nella condanna di tutti i mali e nella esaltazione di tutto il bene, da risultare afone.
Per questo esiste “Il Giorno della Memoria”. Ripeterò per i più giovani, per chi arriva adesso a rendersi conto dell’evento, che la data è il 27 gennaio, il giorno in cui i cancelli della città-sterminio di Auschwitz sono stati abbattuti dai soldati russi (allora si diceva “sovietici”) mentre avanzavano da Est verso Berlino (americani e inglesi venivano avanti da Ovest e da Sud stavano liberando la Francia e l’Italia), e la guerra stava per finire in pochi mesi, cancellando dal mondo il fascismo e il nazismo.
È vero, ben presto il mondo si sarebbe reso conto che crimini
di massa erano stati commessi e hanno continuato ad essere commessi per decenni dentro quell’Unione Sovietica che aveva pagato un prezzo immenso per ridare libertà al mondo contro il nazismo e il fascismo (20 milioni di morti russi) ma negando la libertà a se stessa.
Ma alcuni di noi non sono mai caduti nella trappola di dedicarsi per prima cosa ai crimini del Paese che allora si chiamava Urss. Perché?
Perché alcuni di noi si rendevano conto che, durante i regimi liberticidi che hanno portato alla Seconda guerra mondiale e alla distruzione dell’Europa, due Paesi si erano macchiati di un delitto più grave di ogni altro delitto. E’ un delitto che si dirama, come una spaccatura immensa e pericolosa, nel passato e nel futuro della convivenza europea.
Dal passato ha tratto l’orrore del pregiudizio che esige il sangue. Nel futuro ha iniettato un veleno che può restare inerte a lungo, e poi ricominciare la sua azione mortale nei luoghi,nei gruppi, nelle condizioni più inaspettate.
Per questo il “Giorno della Memoria” - che è stato il mio impegno principale quando ero deputato dell’Ulivo nelle tredicesima legislatura e che è stato approvato prima dalla Camera (unica legge approvata all'unanimità) e poi dal Senato nell’anno 2000 - ha come punto di riferimento la Shoah, insieme al ricordo di tutti coloro che hanno pagato con la vita la loro coraggiosa opposizione politica o la loro presunta diversità.
Ho risposto giorni fa alla domanda degli studenti in una Università americana. Perché in Italia? Perché adesso?
La prima risposta meraviglia un poco chi è abituato dalla maggior parte dei film a vedere soldati, uniformi e insegne tedesche intorno alla deportazione e allo sterminio di sei milioni di donne, uomini, bambini (inclusi neonati, vegliardi, malati e morenti) cittadini di ogni Paese d’Europa condannati a morire perché ebrei.
La risposta è: perché la Shoah è un delitto italiano. L’Italia nel 1938 ha approvato le più crudeli e totalitarie leggi razziali d’Europa, il Parlamento fascista italiano le ha approvate con esultanza. Il Re d’Italia - unico re d’Europa - le ha firmate e rese esecutive.
Giovedì scorso, nel ricordare il triste evento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato il senso e la portata di quelle leggi: «Hanno aperto le porte all’Olocausto».
Il Capo dello Stato ha colto il senso e la ragione della legge che istituisce il Giorno della Memoria: abbandonare l’idea che un conto sono le leggi razziali, cattive ma senza vere conseguenze nel destino delle persone, e un conto sono i campi di sterminio che gravano sul passato e sulla coscienza tedesca.
Il nesso stretto, il rapporto tragico ed evidente tra causa e effetto, mette in evidenza un aspetto che la storiografia italiana, nell’immenso groviglio di fatti tragici che sono la Seconda guerra mondiale, ha trascurato. La Shoah, dettagliato e accurato progetto criminale per lo sterminio di un popolo, non avrebbe potuto essere imposta con tanta forza alla classi dirigenti e alla sostanziale accettazione delle classi medie di tutta l’Europa occupata, se l’Italia non fosse apparsa, non solo come alleato della guerra ma anche come partner del grande delitto di massa. Nel famoso e tragico «asse Roma-Berlino» l’Italia era l’altra mano del persecutore, una presenza e una partecipazione che certo faceva il suo effetto su tutte le altre aree occupate e governate con leader fantocci e gaulaiter. Fino al punto che non è fuori posto domandarci: sarebbe stato possibile imporre e realizzare in tutta l’Europa il progetto persecutorio se l’Italia non avesse avuto parte attiva - dalle leggi razziali alla strage di Meina, alla Risiera di San Sabba, alle spietate deportazioni iniziate a Roma, a pochi metri dal Vaticano e dai palazzi del potere romano, la notte del 16 ottobre 1943, nel silenzio di tutti?
Si dirà che il silenzio era imposto. Ma altrove - come nella Bulgaria fascista - la classe dirigente, pur soggetta al dominio tedesco e italiano, si è opposta. «Non toccherete i nostri cittadini» ha proclamato il presidente fascista della Camera bulgara Dimitar Peshev, dando prova della sua normalità psichica e del suo coraggio morale.
Ecco un senso del Giorno della Memoria: l’immensa offesa all’Italia e ai suoi cittadini - tutti - spingendo una parte di essi nel ruolo delle vittime (7.000 non sono tornati) e l’altra in quello dei persecutori.
È vero che tanti non si sono prestati al macabro gioco e alcuni hanno rischiato la vita per salvare altre vite. Ma ciò non cancella le leggi, la loro enormità, la loro portata. La consegna da parte di italiani agli esecutori tedeschi di cittadini italiani privati di ogni diritto e difesa è un progetto che ha lasciato la sua impronta di morte su tutta l’Europa anche a causa, per colpa, responsabilità del ruolo italiano. E’ questo il fatto tremendo da ricordare.
Perché adesso? Mi hanno chiesto gli studenti americani. La risposta è questa. Perché qualcuno, anche in buona fede, pensa a una cerimonia di scuse o a una commiserazione del dolore o alla benevola partecipazione al lutto di altri, alla ingiustizia che altri hanno patito e a cui si vuole che - simbolicamente, a tanti anni di distanza - si dica no.
Invece è proprio adesso, mentre si mischiano freneticamente le carte in tavola e ci si affretta a riconoscere torti (che però sono ferite di una guerra finita) pur di non rinvangare il passato e si invoca una bella stretta di mano fra parti che storia e destino avevano contrapposto, proprio adesso è il momento di dire: attenti a non scrivere un’altra storia. Nella storia vera la ferita spaventosa è stata inflitta all’Italia offrendo senza vergogna i propri cittadini alla persecuzione straniera e alla volontà di persecuzione e di morte di un altro Paese, le cui regole l’Italia aveva scrupolosamente adottato e perfino aggravato. L’Italia si è piegata e spezzata in un modo che ne ha deformato l’immagine. In questa immagine orrenda, un misto di opportunismo, servilismo, paura e razzismo autentico, non è possibile - e non è permesso - separare una parte del fascismo dall’altra. Ogni nostalgia le richiama tutte. Perché erano tutti cittadini italiani coloro che sono stati offerti come vittime. E tutti fascisti italiani gli esecutori.
Erano infatti cittadini italiani i volenterosi collaborazionisti che hanno eseguito, spesso anticipando le richieste degli aguzzini, ed erano cittadini italiani coloro che hanno scrupolosamente taciuto, compresi coloro che avrebbero potuto - almeno nel 1938 - essere ascoltati nel mondo. Il silenzio italiano è stato completo e agghiacciante.
Il Giorno della Memoria è un processo al silenzio. È il silenzio di un passato che non può essere perdonato.
Occorre impedire che diventi una cerimonia. Il processo al silenzio è aperto oggi per ieri ma anche oggi per domani. Perché mai più il Paese Italia si presti ad essere il luogo di una viltà così grande. Il Giorno della Memoria questo ricorda: un delitto italiano contro l’Italia e i suoi cittadini. Non lasciatevi dire che sono cose passate.
colombo_f@posta.senato.it

l’Unità 27.1.08
Il Paese delle leggi razziali
di Nicola Tranfaglia


Da sette anni, grazie a una legge votata dal parlamento italiano, il 27 gennaio (o meglio nei giorni che precedono o seguono quella data) in cui le truppe alleate aprirono le porte di Auchwitz, nel nostro Paese si ricorda il massacro nazista di ebrei, diversi e oppositori politici. Cinque-sei milioni di persone (donne, uomini, bambini) che morirono nei campi di concentramento, nei rastrellamenti, negli eccidi in tutta l’Europa tra il 1938 e il 1945.
Nessuno oggi (a parte i negazionisti che continuano a contestare le cifre dell’Olocausto o addirittura la sua esistenza ma sono pochi e screditati come studiosi, penso all’inglese Irving o al francese Faurisson), mette in discussione la legge. Ma ogni anno risento il monito di Primo Levi che, nel suo capolavoro scritto prima di morire nel 1986 («I sommersi e i salvati», Einaudi editore) scriveva: «Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposte invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge».
Primo Levi aveva ragione. E chi, come l’autore di questo articolo, ha insegnato per oltre trent’anni la storia del Novecento e l’esperienza europea dei fascismi, ne è ben consapevole ma non vuole arrendersi. E fa quello che può sempre per cercare di comunicare alla nuova generazione perché non si può diventare adulti se non si conosce il nostro, recente passato.
La Shoà può essere considerata oggi, dopo le ricerche degli storici di tutto il mondo, come il risultato di una generale crisi dell’Europa iniziata nel lungo Ottocento, trasformata ed accelerata nella prima guerra mondiale e divenuta un baratro della politica, della cultura e della società negli anni venti e trenta del Novecento con l’avvento dei fascismi.
Esso può essere pensato come un grande prisma in cui leggere alcuni dei principali fenomeni di radicale trasformazione e vera e propria degenerazione della politica e della società nel ventesimo secolo, dentro e fuori l’Europa, anche oltre quell’evento specifico.
Alcuni aspetti del quale si sono propagati o viceversa sono stati anticipati - in forme diverse, genocidi, pulizie etniche, razzismi.
La crisi dell’Europa fu preparata e segnata da fenomeni come l’emergere del razzismo, sin dalla metà dell’Ottocento; le trasformazioni e la diffusione dell’antisemitismo, particolarmente dagli anni ottanta; i massacri coloniali di inizio del Novecento; le trasformazioni qualitative e quantitative della violenza nella prima guerra mondiale; la crisi dei liberalismi e la radicalizzazione dei nazionalismi; l’emergere infine dei fascismi nelle forme di regimi violenti e totalitari. Ma contarono anche fenomeni di burocratizzazione degli apparati statali e di serializzazione e di industrializzazione della morte, innovazioni tecniche e scientifiche, trasformazione della condizione umana nelle moderne società tecnologiche e di massa. Il tutto all’interno del disegno hitleriano e nazista di conquista del continente europeo e di instaurazione di un nuovo ordine, fondato su una gerarchia razziale e sulla supremazia del popolo tedesco, supposta incarnazione della “razza ariana” e portatore della sua apocalittica missione di “soggiogamento” dell’intera umanità.
Oggi sappiamo che i carnefici della Shoà furono non solo tedeschi e non solo assassini ideologicamente motivati ma uomini comuni (per esempio militari e poliziotti ma anche semplici impiegati della macchina burocratica dello sterminio) con l’ausilio di centinaia di migliaia di complici, collaboratori e collaborazionisti in tutta l’Europa. Sappiamo che milioni di europei assistettero inerti, così come non intervennero a fermare il massacro le potenze schierate contro la Germania nazista, le istituzioni internazionali, la Chiesa cattolica.
Fino agli anni Sessanta la Shoà venne percepita dagli europei come un episodio marginale e circoscritto della seconda guerra mondiale. Attenzione merita il caso italiano che ci riguarda direttamente ed è più complesso. Mussolini passò dopo circa dieci anni da una politica contraddittoria in cui condannava l’adesione al sionismo degli ebrei italiani ma li incitava a nazionalizzarsi e a fascistizzarsi a una politica antiebraica che in una prima fase incominciò la persecuzione dei diritti, poi delle loro vite.
Dal ‘43 al ‘45 settemilacinquecento ebrei vennero deportati nei lager e in gran parte vennero uccisi. Circa diciassettemila furono complessivamente i deportati italiani, mettendo insieme agli ebrei anche i diversi e gli oppositori politici. L’Italia non fu al di fuori ma dentro il cono d’ombra del grande massacro e dobbiamo averlo chiaro se vogliamo rispettare e attuare la costituzione repubblicana.
Del resto finalmente ai vertici delle istituzioni repubblicane c’è oggi una particolare sensibilità per il peso e il significato della ferita che le leggi razziali hanno procurato alla nostra storia identitaria. Dopo le parole del Presidente Napolitano che ha insistito sulle responsabilità che anche l’Italia fascista ha avuto nei confronti degli ebrei italiani con gli oltre 7000 deportati e uccisi nei lager nazisti, il ministro delle Pubblica istruzione Fioroni ha giustamente ricordato nella sua visita alla Risiera di San Sabba che è nostro dovere oggi chiedere scusa agli ebrei italiani vittime delle leggi del 1938. Vale la pena credo di poter aggiungere che l’Italia fascista varò in anticipo, rispetto alla Germania nazista, i provvedimenti di espulsione dalla scuola dei docenti come degli studenti di provenienza ebraica.

l’Unità 27.1.08
La crisi fa tramontare la «Cosa rossa»
Progetto in disarmo, restano solo Prc e Sd. Ma sul voto subito Rifondazione si divide
di Simone Collini


Bertinotti avrebbe suggerito al Colle un governo che faccia le riforme e che duri fino ad ottobre
Ferrero contrario: si voti a giugno
Lo sfaldamento della mai nata alleanza della sinistra radicale si è avuto sulla fiducia
Giordano: non ci spaventa il Pd che va da solo
Mussi per la soluzione della crisi immagina un governo breve

L’URTO DELLA CADUTA di Prodi si fa sentire soprattutto nell’ala sinistra dell’Unione. C’è il caso di Rifondazione comunista, che Franco Giordano ha compattato sulla linea «governo breve e di scopo per ottenere la legge elettorale» caldeggiata da Fausto Bertinotti, ma che in queste ore è percorsa da forti fibrillazioni: è bastato che alla riunione della Direzione e dei gruppi parlamentari del Prc si diffondesse la voce che il presidente della Camera abbia parlato al Quirinale di un governo che lavori alle riforme fino al prossimo autunno per far scattare sull’altolà più d’uno. Come Paolo Ferrero, che ha preso la parola per aggiungere una data al discorso fatto poco prima da Giordano: «Condivido la proposta di un governo a termine, ma si deve votare entro l’estate, a giugno, o diventa un’altra cosa in cui noi veniamo tritati». E se è facile capire perché Bertinotti possa pensare che abbia più possibilità di passare l’ipotesi di un governo in carica fino ad ottobre (ci sono oltre 300 parlamentari di prima nomina che vedranno sfumare il sogno della pensione se non rimangono in carica altri nove mesi) è altrettanto facile capire perché dentro il Prc ci sia chi guarda a questa ipotesi con preoccupazione: se sarà ancora in carica ad autunno, sarà questo governo istituzionale a fare la Finanziaria. Ma le fibrillazioni si propagano ben oltre i confini di Rifondazione ora che, per dirla con Giordano, «è finita la scommessa fatta sull’Unione».
La fine prematura del governo ha avuto tra gli altri effetti collaterali quello di far aprire profonde crepe nella cosiddetta Cosa rossa. Il processo unitario avviato da Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica nei mesi scorsi è come se non fosse mai esistito. Lo speaker unico in Parlamento, gli emendamenti unitari alla Finanziaria, il coordinamento permanente dei quattro ministri: tutta roba passata. Le dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo ognuno le ha fatte per sé. «Avrei preferito diversamente ma alle consultazioni andremo uniti», diceva Fabio Mussi non più tardi di tre giorni fa. E ieri, suo malgrado, è salito al Colle mentre lasciava il Quirinale Oliviero Diliberto, che a sua volta è arrivato mentre usciva Alfonso Pecoraro Scanio (Giordano è atteso per domani). Ma non c’è soltanto questo.
Sulla soluzione della crisi aperta dalla sfiducia a Prodi ognuno dei quattro partiti ha una formula diversa. I Verdi hanno chiesto al Capo dello Stato un reincarico per Prodi. I Comunisti italiani si sono detti «indisponibili» a qualunque governo istituzionale perché, ha spiegato Diliberto, «è meglio andare al voto di qualunque pasticcio». Di tutt’altro avviso sono Rifondazione comunista e Sinistra democratica, entrambe convinte che si debba tentare la strada di un governo «breve» e «di scopo», che approvi una nuova legge elettorale (partendo dalla bozza Bianco) ma che proceda anche alla redistribuzione dell’extragettito fiscale previsto all’articolo 1 della Finanziaria. Inoltre sia Giordano che Mussi sono convinti che si debba procedere sulla strada dell’unità. Anche «in maniera unilaterale», fa sapere il primo. «Siamo impegnati e determinati a realizzarla», assicura il secondo. Entrambi, poi, sono non poco irritati per come Diliberto si sta muovendo. Irritazione che Giordano ormai neanche nasconde più: «Non si può invocare il processo unitario e poi volere una soglia di sbarramento bassa per tenersi una doppia possibilità, non si può avere la visione estremista di Ferrando e la proposta politica di Parisi». Resiste almeno l’asse Prc-Sd? Fino a un certo punto. Perché, guardando alle elezioni e a un auspicabile o meno accordo con il Pd, se Mussi dice che compito della sinistra unita «è di dire al Pd che si deve lavorare per un nuovo centrosinistra che governi l’Italia», Giordano parla di «libertà di scelta e autonomia»: «Non ci spaventa il Pd che vuole andare da solo. E la sinistra non vive o muore solo nel governo». Impostazione che non convince il vicepresidente del Senato Milziade Caprili, che alla riunione dei vertici Prc ha esplicitamente parlato della necessità di un «rapporto» col Pd. E che convince ancora meno Mussi.

l’Unità 27.1.08
Yehoshua: l’Europa ci aiuti a battere l’antisemitismo anche nell’Islam
di Umberto De Giovannangeli


«Non nego la gravità degli altri genocidi, Ruanda o Cambogia, ma temo che lo specifico di ognuno sia offuscato»
«Olmert, su Gaza pensa ai “padri” che non ritennero debolezza ma forza la ricerca di un’intesa»

La forza della Memoria nella Giornata della Memoria. Una cavalcata nel tempo. Per non dimenticare. È quella condotta dal più grande scrittore israeliano contemporaneo: Abraham Bet Yehoshua.
Oggi viene commemorata in Europa la Giornata della Memoria. Qual è, ai suoi occhi, il valore di questo evento?
«Ho un grande rispetto per questa decisione dell’Europa, e penso sia giusto che la commemorazione della Shoah avvenga proprio là, nei luoghi, nelle strade, nelle foreste, in cui tutto ciò è fisicamente avvenuto. La Shoah non è una questione limitata alla Germania. I popoli europei che vi hanno preso parte sono molti, ed è quindi giusto che questa consapevolezza penetri nelle coscienze di tutti gli europei. Penso poi che sia giusto dare una propria identità ad ognuna delle tragedie che rientrano nella triste categoria del genocidio. E sia chiaro che dico questo non per diminuire la gravità degli altri genocidi - come ad esempio quelli avvenuti in Ruanda o in Cambogia - ma per evitare che la specificità di ognuno di questi venga offuscata o confusa. La specificità della Shoah sta - fra l’altro - nella sua incomprensibilità, a meno che non si faccia un semplicistico ricorso alla malvagità umana. Nel caso degli ebrei, non questioni territoriali, ideologiche, etniche, economiche o religiose hanno rappresentato il sostrato del genocidio, come è avvenuto in tutti gli altri casi. Gli ebrei europei aspiravano all’integrazione nelle società in cui vivevano; non rappresentavano alcuna minaccia teologica o religiosa né per le società più vicine alla religione né tanto meno per un regime come quello nazista che era laico e perfino anti-clericale; economicamente parlando, lo sfruttamento degli ebrei vivi sarebbe senz’altro stato enormemente più vantaggioso rispetto all’annientamento deciso nei loro confronti. L’inafferrabilità delle motivazioni che hanno portato alla Shoah non può che rafforzare l’idea che - dopo quanto è avvenuto - solo il popolo ebraico può essere responsabile del proprio futuro».
Quindi Israele come patria del popolo ebraico è l’unica soluzione all’antisemitismo?
«È così. Le nazioni europee lo avevano già cominciato a capire prima dell’Olocausto, ma purtroppo non abbastanza da precederlo. Dopo la Shoah in parte per convinzione e in parte per l’orrore di cui erano stati testimoni, tutti - tanto l’Europa occidentale quanto quella orientale - in un periodo molto problematico dei loro rapporti, hanno avuto fra i pochi punti di concordia, il supporto alla nascita e allo sviluppo dello Stato d’Israele. Avevano visto a che cosa aveva portato l’antisemitismo, ne sono rimasti inorriditi e hanno compreso che l’antisemitismo non era da combattere solo per salvare le vittime dalla propria sorte di vittime, ma anche per salvare i carnefici dalla propria sorte di carnefici».
E la Giornata della Memoria deve aiutare ad approfondire questo aspetto della Shoah?
«Questo e tanti altri. Il valore dell’assunzione di responsabilità è importante ma soprattutto per quanto concerne l’approfondimento del significato degli atti del proprio popolo, della comprensione delle motivazioni per cui le cose sono avvenute. In quanto a noi ebrei, dobbiamo scavare nella nostra identità per capire in che modo la nostra presenza nella storia possa avere creato quello oscuro spazio ideologico che è stato colmato da quelle idee insane e farneticanti che sono state fatte proprie da tanti e che hanno portato alla tragedia dell’Olocausto. Ma di quella tragedia c’è un aspetto che non va sottovalutato».
Quale?
«Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. È vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava. Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo».
Questo evento - la stessa decisione di celebrare una Giornata della Memoria - è senz’altro un passo importante sul piano della memoria storica, ma i dati di indagini riportano che, nonostante tutto, l’antisemitismo è in espansione. Quali misure si aspetta dall’Europa per debellare questo virus?
«Sono preoccupato del fatto che, purtroppo, il virus dell’antisemitismo non è stato debellato. Si è indebolito; oggi non può mostrarsi in tutta la sua virulenza perché considerato inadatto, sconveniente; ma nelle sue nuove mutazioni continua ad essere presente e a lanciare anatemi e accuse spesso ingiuste contro Israele. Io sono il primo a sollevare critiche sugli errori dei governi israeliani, ma nello stesso tempo individuo spessissimo in molti degli attacchi portati a Israele cose che con le divergenze politiche non hanno nulla a che fare e che riportano invece a meccanismi che vorremmo cancellati. So che debellare completamente l’antisemitismo è un obiettivo proibitivo. Ma non lo è il combatterlo sotto ogni sua forma. L’Europa lo deve combattere con tutta la sua forza. Non per il bene degli ebrei ma per il proprio bene. Per la salute delle proprie società. Per non permettere che questo virus si espanda e colpisca le parti vitali del proprio organismo. La Giornata della Memoria ha dietro di sé una storia breve, ma mi sembra già di individuarne la sua importanza. Una importanza che non sta, ovviamente, nelle cerimonie che avvengono quel giorno, ma in tutto quello che c’è intorno, che la prepara: le azioni educative; la trattazione dell’argomento da parte dei mass media. Con il bombardamento di informazioni che ognuno vive ogni giorno, solo un approfondimento morale e intellettuale del tema ha la possibilità di penetrare il cuore e le menti. E gli ebrei continueranno ad aggiungere a questo approfondimento, il proprio lutto, individuale e di popolo».
Oggi - con tutte le divergenze politiche esistenti e perfino con il sopra ricordato aumento dell’antisemitismo - l’Europa non è certo ostile a Israele. I pericoli all’esistenza di Israele vengono da altre direzioni, soprattutto dall’Islam radicale e fondamentalista, che spesso abbraccia le tesi negazioniste sull’Olocausto. Come va trattato questo singolare antisemitismo?
«In questo sta il doppio impegno dell’Europa. Capire per sé stessa - per il proprio passato e per il proprio futuro - e dall’altra parte aiutare altri - in questo caso il mondo islamico e arabo - a capire fin dove può portare l’estremizzazione. Il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme - lo Yad Vashem - ha messo in rete alcuni giorni fa il proprio sito in arabo. È un’iniziativa lodevole, importante, ma che avrà un senso solo se sarà l’Europa a sostenere la tesi della pericolosità dell’antisemitismo per le società che vogliono progredire civilmente. Solo l’Europa può convincere il mondo arabo degli effetti distruttivi della demonizzazione e della volontà di annientare un altro popolo. E qui entra in gioco la politica. Ma quella buona; quella che potrebbe portare alla soluzione del conflitto fra arabi e israeliani. Con un’Europa che nella sua equidistanza faccia capire al mondo arabo la legittimità dell’esistenza di Israele come patria del popolo ebraico, e a Israele la necessità di dare ai palestinesi un proprio Stato in cui non ci sia alcuna sua ingerenza nelle loro vite. Dopo aver giocato durante la Shoah il ruolo di portatrice di guerra, l’Europa deve ora cercare di essere portatrice di pace. L’impegno in Libano alimenta questa speranza».
Il tema della pace ci porta alla più stretta attualità. E al dramma di Gaza. Come uscirne?
«Con una tregua. Da negoziare. Subito. Non vedo altre strade, né per noi, tanto meno per i palestinesi. Sia chiaro: lungi da me sottovalutare le responsabilità pesantissime che i capi di Hamas hanno nell’aver determinato questa situazione. Penso che quell’umanità disperata che si trascina in Egitto alla ricerca di cibo debba chiedere conto dei propri patimenti ai leader di Hamas. I lanci continui, martellanti, di razzi contro Sderot, Ashqelon e le altre città del sud di Israele sono alla base di questa situazione. Riconosciuto ciò, resto convinto che la risposta militare, da sola, sia una non risposta. Con Hamas occorre ricercare un cessate il fuoco. E non vale il discorso, riproposto più volte dal primo ministro Ehud Olmert, che Israele non negozia con chi non ci riconosce o vuole distruggerci. Non vale perché è la storia a smentirlo. La storia d’Israele, dalla sua fondazione ai giorni nostri, è segnata da guerre ma anche da accordi fatti con chi non nascondeva, e spesso praticava, il proposito di rigettare a mare gli ebrei. A Olmert dico: segui l’esempio non solo di un padre della patria, come David Ben Gurion, ma anche di leader conservatori, come Menachem Begin, che non considerarono prova di debolezza, ma semmai di forza, la ricerca di un accordo, fosse anche una tregua, con il nemico».
In ultimo, tornerei sul valore della Memoria. In un suo libro, lei ha affermato, cito testualmente, che «come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali». Qual è quello più attuale?
«La profonda repulsione, il rigetto più fermo, per il razzismo e per il nazionalismo oltranzista. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e per ogni popolo».

l’Unità 27.1.08
Duemila pacifisti israeliani «nutrono» Gaza
Carovana d’aiuti nella Giornata globale d’azione. Centinaia d’iniziative in tutto il mondo


DUEMILA PACIFISTI israeliani hanno scortato una carovana d’aiuti a Gaza. È solo una delle centinaia di iniziative promosse ieri per la giornata globale di azione del World Social Forum 2008. Più di mille gruppi mobilitati in tutto il mondo per un mix di marce, dibattiti, sit-in, manifestazioni di solidarietà, secondo la formula scelta quest’anno per dare voce alla «grande alleanza di gruppi, città, movimenti» che animano gli «altro-mondialisti». Non ci sono stati grandi momenti comuni, ma un universo di manifestazioni disseminate su tutto il pianeta, «ciascuno con i propri linguaggi» e «sui propri temi più scottanti», che sono molti e diversi.
In Medio Oriente, i pacifisti israeliani hanno rotto l’isolamento di Gaza, accompagnando un convoglio di aiuti umanitari. Nonostante nella notte l'esercito avesse interrotto l'accesso al punto al confine dove era previsto l'incontro con i palestinesi, il contatto con il responsabile dell’ospedale locale è andato a buon fine.
In Asia, in Corea del Sud contadini e attivisti hanno manifestato per chiedere un mondo «senza povertà e senza discriminazioni», mentre una parata di barche ha attraversato Mumbay, in India, per chiedere giustizia e che la crescita economica non schiacci i diritti dei milioni di poveri del Paese. Gli sfollati vittime degli uragani in Bangladesh sono scesi in piazza per reclamare un tetto sicuro per tutti. In Giappone la coalizione anti-G8 è scesa in piazza per ribadire la sua protesta contro il prossimo vertice previsto a Hokkaido.
In Australia gli aborigeni hanno sfilato per le strade di Melbourne per commemorare l'«Invasion day», la ricorrenza nella quale si ricordano i massacri subiti dalla popolazione indigena da parte dei colonialisti inglesi. In Africa sono in corso il Forum Sociale del Maghreb e quello del Mozambico. In Turchia a Istanbul, Ankara, Izmir e Adana migliaia di persone hanno manifestato contro la guerra e per i diritti umani. In Iraq a Samarra centinaia di bambini hanno consegnato armi giocattolo e ricevuto in cambio palloni.
In Europa, migliaia di persone sono riunite da venerdì a Bercellona per il primo Forum Sociale della Catalogna. Ieri pomeriggio a Parigi grande concerto contro il razzismo. In Russia, iniziative in trenta città per la democrazia, i diritti sociali e il lavoro. In Brasile grande concerto sulla spiaggia di Rio, negli Stati Uniti iniziative per rivendicare il diritto di tornare a New Orleans, per tutti gli sfollati di Katrina. Anche in Italia si sono tenute oltre 300 iniziative in 85 località (40 solo a Firenze, 15 a Roma), sui temi della pace, del disarmo, dei diritti del lavoro, delle economie solidali, dei conflitti, del razzismo, dei rifiuti.
L’idea di fondo è quella di un «laboratorio permanente globale, di lotte, alternative, manifestazioni, eventi culturali», che esprimono la vera natura del Forum sociale mondiale. Se c’è un rischio però nella formula scelta è che, rispetto a edizioni precedenti, la Giornata globale d’azione finisce per essere talmente parcellizzata in una miriade di iniziative da rischiare l’effetto dissolvenza.

l’Unità 27.1.08
Cagnacci, la via romagnola a Caravaggio
di Renato Barilli


SEICENTO A differenza del più aulico Furini in mostra a Firenze, l’artista di Romagna in mostra a Forlì segue la lezione del grande Merisi con un’inflessione tutta particolare, carnale e «quotidiana»

Ho già segnalato la fortunata circostanza che consente di visitare in contemporanea mostre dedicate al fiorentino Francesco Furini e al romagnolo Guido Cagnacci, l’uno proprio a Firenze, Palazzo Pitti, l’altro nel complesso monumentale del S. Domenico a Forlì. A unirli, quel dato curioso dei seni femminili nudi al vento di cui furono strenui ed efficaci cultori, riscuotendo ai loro tempi ammirazione e riprovazione in parti uguali. Ma visti da vicino, i due inevitabilmente si differenziano, come permette di constatare la mostra che al Cagnacci (1601-1663) ora viene dedicata appunto a Forlì (a cura di Daniele Benati e a Antonio Paolucci, fino al 22 giugno, cat. Silvana). A fare la differenza, contribuiscono intanto i ben diversi contesti culturali e geografici. Il Furini vive quella sorta di autunno delle passate grandezze, e di tramonto delle glorie medicee, da cui è dominato il Seicento fiorentino. Si devono apprezzare gli sforzi di una studiosa come Mina Gregari impegnata a dimostrare che il Seicento toscano non è poi del tutto indegno della grandeur trascorsa, e così è senza dubbio, ma ciò non toglie che Firenze in quegli anni ceda la leadership detenuta invariabilmente per alcuni secoli, e ad approfittarne è il territorio emiliano-romagnolo, che forse per la prima e unica volta nella sua storia assurge a un primato nazionale, e perfino europeo, non solo per virtù propria, ma beneficiando del fatto, per altri aspetti infelice, di essere all’ombra della Roma papale. Si aggiunga a questa liaison, felice almeno sul piano pittorico, il dato etnico, perfino con qualche rischio folclorico, insito nel tradizionale «sangue romagnolo». Infatti i nudi, le immagini erotiche del Furini si collocano in un clima nevrotico, perfino malato, anche per la curiosa doppiezza dell’artista che divenne sacerdote, vivendo sulla propria pelle un contrasto tra il diavolo e l’acqua santa. Al contrario le nudità di Cagnacci si pongono in un contesto più sano, tranquillo, perfino casalingo, come se fossero di buone massaie, di «rezdore», come si dice da quelle parti, disposte a denudarsi nell’intimità delle proprie stanze per resistere all’afa, cedendo a deliqui, a svenimenti, ma forse anche a salutari pennichelle.
Ad accostare i due rispettivi percorsi c’è attorno ai loro vent’anni d’età, e negli anni ’20 del secolo, un comune inevitabile soggiorno a Roma, dove furono entrambi colpiti dalla rivoluzione caravaggesca, ma mentre di questa nel Fiorentino ci sono tracce effimere, l’altro la intende più da vicino, traendo profitto proprio da un Caravaggio giovanile, quale ben attestato, in mostra, dalla Maddalena penitente. È il Caravaggio «pittore della realtà», nell’accezione più stretta, in quanto il suo occhio viene calamitato da una singola figura, non ancora avvolta nelle tenebre, ma al contrario nitidamente colta, quasi con sharp focus. Una sorta di precisionismo avanti lettera che il giovane rivoluzionario condivide col più anziano Orazio Gentileschi, anche lui giustamente documentato in mostra con una sua Maddalena. Tra parentesi, l’intera vicenda tra Cagnacci e Furini e loro maestri si può ben ridurre a una storia di Maddalene, e di Cleopatre, condite dall’uno e dall’altro in salse diverse. Ma il romagnolo, colpito da un autentico caravaggismo, trae dal maestro una sodezza di carni, e una capacità di fare il vuoto attorno alle figure. A Roma egli condivide l’abitazione addirittura col Guercino, uno dei grandi interpreti della Scuola bolognese, e alla sua formazione non è stato indifferente neppure il padre fondatore, Ludovico Carracci, e beninteso da tutti loro egli si sente vieppiù indotto a dipingere con colori densi, grassi, fortemente sensuali. Ma non li segue affatto nella propensione a comporre «macchine» gremite di figure, secondo i ritmi industriosi e agitati del barocco. Vale davvero quel calamitarsi su una figura per volta che egli ha tratto dal primo Caravaggio, e che poi va a conciliarsi con l’insegnamento di un altro Bolognese di razza, Guido Reni.
E dunque risulta davvero esemplare il sottotitolo della mostra, che pone il Nostro tra Caravaggio e Guido Reni, se solo si precisa che il Divino Guido giunge a influenzarlo per i suoi esiti finali, quando il Reni scioglie i gruppi, dandoci singole immagini, busti, volti, ma resi pallidi, opalescenti, lunari. Il Cagnacci lo segue nell’appuntarsi su protagonisti isolati, «uno per volta per carità», ma mantiene, della iniziale partenza caravaggesca, una consistenza piena di carni. Che l’artista romagnolo non ami affatto le composizioni gremite e intricate, le «macchine» stupefacenti, lo si vede dai due quadroni realizzati per il S. Mercuriale della sua città. Gli angeli si librano nel cielo azzurro, ma si sente che non sono affatto disposti a rinunciare alla propria individualità per fare gruppo, preferirebbero atterrare, essere inquadrati entro uno spazio fatto su misura, meglio insomma il dipinto da cavalletto che la pala d’altare. E infatti il clou della mostra forlivese sta nella galleria finale, allestita in un soppalco, dove sfilano i busti delle brave massaie, di appartenenza sacra o profana, che amano tanto alleggerirsi, dare aria alle pelli roride di sudore, quasi senza malizia. Tanto è vero che la galleria non è solo al femminile, il Nostro ama spogliare anche santi e guerrieri, come sgusciare dei gamberoni fuori dalle corazze e farli apparire a nudo, rosei e paffuti.

Guido Cagnacci Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni Forlì Musei San Domenico Fino al 22 giugno

Repubblica 27.1.08
La rotta per salvare il paese dei naufraghi
di Eugenio Scalfari


IL GIORNO in cui ha deciso di staccare la spina e mandare a casa il governo e forse la legislatura, Clemente Mastella ha recitato la poesia d´una poetessa brasiliana che concludeva con il verso "Lentamente muore" riferito ovviamente al destino politico di Romano Prodi. Una civetteria letteraria? Un modo elegante di annunciare il suo voto negativo da parte d´un personaggio nei cui comportamenti l´eleganza è piuttosto rara?
Direi soprattutto una citazione sbagliata. E´ vero che l´esperienza politica del governo Prodi si è conclusa esattamente in quella seduta del Senato, non molto lentamente poiché la sua vita è stata abbastanza breve. Ma non è stata soltanto l´esistenza del governo Prodi a concludersi. E´ terminato un ciclo e sono di colpo invecchiati tutti i protagonisti e i comprimari che lo hanno animato, quale che sia la loro età anagrafica e professionale. Tra di essi anche Mastella. Traslocando al centrodestra forse avrà i collegi pattuiti con Berlusconi, ma non avrà più (per nostra fortuna di italiani) quei poteri di interdizione che il suo uno per cento gli dava in una maggioranza friabile e microscopica. Il Mastella degli ultimatum manterrà la signoria di Ceppaloni rientrando nel rango dei vassalli di paese dal quale era inopinatamente uscito in forza di una legge elettorale («la porcata» votata dal centrodestra nello scorcio della scorsa legislatura) che ha reso il suo uno per cento essenziale come altrettanto essenziali sono diventati gli altri microscopici per cento dei Diliberto, dei Pecoraro, dei socialisti e perfino i voti individuali dei Dini, dei Turigliatto, dei De Gregorio.
La citazione giusta doveva dunque essere un´altra. Sta in "Allegria di naufragi" di Ungaretti e suona così: "Si sta come d´autunno/sugli alberi le foglie". Riguarda tutti, insigne Mastella, non soltanto Prodi.
Adesso si discute sulle vere cause della crisi. Giuliano Ferrara sostiene che sia il contrasto pluridecennale tra magistratura e classe politica; altri ne fanno carico alla nascita del Partito democratico; altri ancora al bombardamento mediatico o al cardinal Ruini e ai vescovi italiani o al fatto che il governo mancava di una missione, a differenza del Prodi del ´96 che si propose di portare l´Italia nell´Eurolandia e ci riuscì.
La tesi di Ferrara non ha alcun riscontro probatorio: Prodi non cadde nel ´98 per cause di giustizia, né il centrosinistra cadde nel 2001 per contrasti con la magistratura, né Berlusconi nel 2006. Il bombardamento mediatico c´è stato (e molto intenso) contro Prodi ma ci fu anche, sia pure assai più ridotto, contro il Berlusconi della precedente legislatura; comunque non basta a spiegare una crisi di queste proporzioni.
Quanto alla mancanza di una missione, che Angelo Panebianco gli imputa sul "Corriere della Sera" di ieri, si tratta di un argomento a mio avviso inesistente. La missione era duplice e fu dichiarata esplicitamente durante la campagna elettorale: risanamento dei conti pubblici, ereditati in pessime condizioni dal governo Berlusconi/Tremonti; rilancio della crescita economica e perequazione delle intollerabili disuguaglianze sociali in essere. Il primo punto è stato realizzato con la Finanziaria del 2007, il secondo aveva preso l´avvio con quella del 2008 e aveva già dato frutti importanti.
Restano le pretese responsabilità del Partito democratico, delle quali manca tuttavia qualunque traccia. Veltroni e il gruppo dirigente del Pd hanno concordato e appoggiato completamente l´azione del governo. Il dissenso c´è stato non con il governo ma con la maggioranza su un punto soltanto anche se essenziale: il rifiuto del frazionamento insopportabile dei partiti, dei veti, della rissa continua, delle estenuanti mediazioni, del rallentamento esasperante di ogni decisione, dell´immagine desolante che rimbalzava su un´opinione pubblica insicura, impaurita dalla globalizzazione, frustrata dalla Babele che i "media" non potevano non registrare e che la potenza mediatica berlusconiana esasperava con ogni mezzo.
Il Pd ha denunciato questo stato di cose e si è impegnato per quanto stava in lui di porvi riparo. Ha creato una nuova forma-partito basata sulle primarie. Ha annunciato che alle future elezioni si sarebbe presentato da solo e che le alleanze le avrebbe stipulate sulla base d´un programma semplice, abbandonando la prassi universalmente diffusa di programmi che hanno il solo scopo di metter d´accordo sulle parole ma non nella sostanza il diavolo con l´acqua santa.
Su questo punto, è vero, il Pd di Veltroni è stato netto. Sarebbe possibile rivedere sullo stesso palcoscenico affratellati per sole due ore Mastella, Pecoraro, Boselli, Giordano, Ferrero, Padoa-Schioppa, Dini, Diliberto? Sarebbe possibile, senza che quelle presenze e quelle persone fossero non solo fischiate ma disprezzate sia dalla destra sia dalla sinistra sia dall´antipolitica becera sia dagli italiani responsabili e maturi?
Questo ha detto il Partito democratico e su questo ha promesso di tener ferma la barra del suo timone. Speriamo che mantenga l´impegno. Se perderà, sarà con onore e potrà continuare la sua battaglia. Ma solo a queste condizioni potrà giocare la sua partita con molte speranze.
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Dopo la sconfitta di Prodi al Senato Ezio Mauro ha scritto che questo governo è stato assai migliore di quanto apparisse, «ha razzolato bene e predicato male». Sono anch´io del suo stesso parere e cominciano a dirlo anche quelli che finora l´hanno avuto come bersaglio fisso sul quale sparare. L´ha biascicato a mezza bocca perfino Berlusconi, che è tutto dire.
Mi ha dato un senso di sincera tristezza assistere dagli schermi televisivi a quella seduta che non esito a definire drammatica, anzi tragica per la sguaiataggine da bordello in cui è precipitata l´aula del Senato al momento delle votazioni. Le aggressioni fisiche, la rissa, gli sputi, gli svenimenti e quello spregevole buffone che dai banchi missini, col pullover rosso annodato al collo, gli occhiali neri e una bottiglia di spumante in mano, lanciava sconcezze e innaffiava di spuma i banchi e i senatori che vi erano seduti. Ha fatto il giro del mondo quell´immagine.
Non so se e quando il Senato riaprirà le porte, ma a quel guitto da due soldi dovrebbe esser comminata dalla presidenza la sanzione massima. Quanto al suo partito, dovrebbe espellerlo su due piedi, ma sono certissimo che non lo farà. C´è una parte (non tutta per fortuna) della classe politica che si diverte e festeggia personaggi come Strano e come Cuffaro, "vasa-vasa", che festeggia con i cannoli una condanna a cinque anni di reclusione. Quella politica ha i Beppe Grillo che si merita. Purtroppo su questi lazzi e questa vergognosa giungla di clientele affonda lo Stato, ciò che ne resta.
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Si dice da parte di alcuni che Prodi avrebbe forse fatto meglio a dimettersi senza formalizzare la sua sconfitta al Senato. Si attribuiscono analoghe riflessioni al Presidente della Repubblica ma senza un minimo di riscontri verificabili.
Credo invece (e ancora una volta sono con lui) che Prodi abbia fatto pienamente il suo dovere interpellando entrambi i rami del Parlamento. La sconfitta a Palazzo Madama era più che certa ma doveva essere certificata dal voto e il voto doveva avere la firma di chi lo dava. L´assunzione di responsabilità di chi votava il sì o il no.
Così è stato ed ora almeno questo punto è chiaro. L´ombra d´un eventuale reincarico avrebbe accresciuto tensioni e confusioni. Personalmente ho visto con amarezza la caduta di un uomo forte delle sue convinzioni che ha accettato il voto contrario con dignità repubblicana. Senza quel passaggio senatoriale, senza la sofferenza di quella sconfitta, le dimissioni date dopo la fiducia ottenuta alla Camera avrebbero avuto l´aria d´un sotterfugio. Così prevede la Costituzione e Prodi ad essa si è attenuto semplificando per quanto stava in lui il fardello pesantissimo che ora è sulle spalle del Capo dello Stato.
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Il Presidente si è preso oggi una giornata di riflessione dopo aver iniziato le consultazioni che entreranno nel vivo domani e si concluderanno con l´incontro con i partiti maggiori dopodomani. Si parla anche di possibili incarichi esplorativi nel tentativo di convincere Berlusconi, Fini e Bossi all´idea di un governo «di scopo» che abbia il compito di varare la legge elettorale e gli altri adempimenti connessi e nel frattempo sia in grado di fronteggiare l´emergenza economica e finanziaria che sta scuotendo il pianeta.
Ho la sensazione che gli incarichi esplorativi abbiano poco senso. Non c´è niente di recondito da scoprire. Quanto alla "moral suasion" nessuno ha maggior titolo per usarla del Capo dello Stato. Ci si domanda quante divisioni (nel senso militaresco del termine) abbia a sua disposizione il Presidente della Repubblica, di quali strumenti operativi disponga per realizzare quello che è il suo dichiarato convincimento: andare al voto dopo aver cambiato il sistema elettorale e non prima. E a questa domanda la risposta è pressoché unanime: pochissime divisioni, pochissimi strumenti, forse soltanto l´opera di convincimento da esercitare su chi non è del suo stesso parere.
Ebbene, uno strumento il Presidente ce l´ha, deriva direttamente dal dettato costituzionale ed ha anche a suo sostegno qualche importante precedente. La Costituzione prevede che il Presidente, in presenza d´una crisi di governo, «dopo avere ascoltato le opinioni dei presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio dei ministri e su sua proposta i ministri. Il governo, dopo aver prestato giuramento, si presenta entro quindici giorni alle Camere per ottenerne la fiducia».
Fin qui la Costituzione. Tutte le altre formalità sono state introdotte dalla prassi ma non sono scritte negli articoli della Carta. Nulla vieta, anzi così è prescritto, che mercoledì o quando egli decida, il Presidente convochi la persona da lui scelta e la nomini senza altri indugi alla guida del governo e che entro poche ore riceva dal nominato i nomi dei ministri. Firmati i decreti, i ministri giurano e il governo entra nel pieno possesso dei suoi poteri in attesa di ricevere la fiducia dalle due assemblee parlamentari.
Due settimane dopo vi sarà il voto di fiducia. Se sarà positivo il governo avrà adempiuto a tutte le condizioni previste, se sarà negativo il governo si dimetterà e il Capo dello Stato avrà motivo di sciogliere il Parlamento.
Quali vantaggi possono venire da questa correttissima procedura? Non sarebbe il governo presieduto da Prodi ad «accompagnare» le elezioni, ma un nuovo governo istituzionale. Berlusconi e Fini preferiscono avere Prodi ancora in carica per poter scaricare pugni a volontà su un "punching ball" che non ha titolo né mezzi per rispondere. I pugni sferrati su Prodi colpirebbero inevitabilmente il Partito democratico che anziché presentarsi come l´unica novità in campo verrebbe incastrato sotto il patronimico prodiano.
L´arrivo in campo d´un governo composto interamente da personalità indipendenti e tecnicamente competenti metterebbe il Parlamento nelle condizioni migliori per votare o negare la fiducia, senza doversi far carico di proporre questa o quella soluzione. Al governo del Presidente i partiti e i singoli parlamentari debbono solo rispondere sì, no, astenuto, o disertare la riunione.
Nessuna forza politica rinuncerebbe a nulla. La conta non si fa in piazza ma in Parlamento dove ognuno risponde di sé «senza vincolo di mandato».
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Conosco la possibile obiezione: se attorno ad un simile governo si formasse una inedita maggioranza, saremmo in presenza di un ribaltone. Obiezione che non ha alcun sostegno. Infatti il ribaltone, o cambiamento di maggioranza, non è previsto né vietato in nessun articolo della nostra Costituzione ed è in palese contrasto con la libertà del singolo parlamentare di comportarsi come meglio ritiene nell´interesse del paese.
Del resto di ribaltoni e ribaltini è piena la storia della nostra Repubblica parlamentare. Il governo berlusconiano del ´94 esordì con il ribaltino di Tremonti che passò dal centro al centrodestra a pochi giorni di distanza dalla sua elezione. Pochi mesi dopo fu la Lega a lasciare l´alleanza di centrodestra determinando la crisi e la nascita del governo Dini. Nel ´98, caduto Prodi, D´Alema incassò i voti di Mastella rimpiazzando con lui quelli perduti di Rifondazione. Adesso è Mastella che abbandona la coalizione in cui è stato eletto e passa dall´altra parte. Chi vituperava i ribaltoni applaude oggi i ribaltati. Perciò questo tipo di obiezione non ha senso alcuno con la legislazione vigente.
Per quanto riguarda i precedenti governi istituzionali, ne ricordo i tre più clamorosi: quello di Pella del 1953, nominato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi senza che il suo nome fosse stato indicato da alcun gruppo parlamentare e meno che mai dalla Dc; quello del sesto governo Fanfani, nominato da Cossiga nell´aprile del 1987, sfiduciato dalle Camere e in particolare dal suo partito, che portò alle elezioni anticipate nel giugno dello stesso anno. Infine il governo Dini del ´95, nominato da Scalfaro, che trovò in Parlamento il consenso del centrosinistra e della Lega.
Una procedura del genere ha dunque dalla sua cospicui precedenti oltre che le norme della Costituzione. Aggiungo per quel che vale - e vale molto - che anche ha dalla sua l´appoggio di tutte le parti sociali, dai sindacati ai commercianti e alla Confindustria. Cioè dall´insieme del paese che produce, lavora e consuma. Forse quel paese non ama i politici, ma sa che della politica nessuna società può fare a meno, salvo i paesi (e i paesetti) tribali.

Repubblica Firenze 27.1.08
Laurea allo scrittore, video del regista, 6 mila ragazzi al Mandela
Grossman, Spielberg e la Shoah
di Fulvio Paloscia


Uno dei suoi romanzi più intensi, Vedi alla voce amore, racconta la Shoah vista dagli occhi di un bambino figlio di sopravvissuti. E´ David Grossman, uno dei massimi scrittori contemporanei, a cui l´Università di Firenze conferirà la laurea honoris causa in studi letterari e culturali internazionali oggi, in occasione del Giorno della Memoria. La cerimonia alle 11 nell´aula magna dell´ateneo (piazza San Marco 4) alla presenza del rettore Augusto Marinelli e della preside della Facoltà di lettere Franca Pecchioli. Dopo la laudatio, che sarà pronunciata da Ida Zatelli, ordinario di lingua e letteratura ebraica, la lectio doctoralis di Grossman. Dalla letteratura al cinema con un altro grande nome: Steven Spielberg. Il regista di Schindler´s list ha realizzato un video di 4 minuti per la Mediateca Regionale Toscana, che ha acquisito 50 videointerviste ad ebrei toscani sopravvissuti, provenienti dalla Shoah Foundation dello stesso Spielberg. E´ uno dei contributi più attesi a Sterminio e stermini, è successo, può succedere di nuovo, il convegno domani alle 9.30 organizzato dalla Regione al Mandela Forum. Testimoni diretti parleranno, a 6 mila studenti toscani, non solo dei campi di concentramento nazisti (tra gli altri Jona Oberski, che ha ispirato il film Jona che visse nella balena di Roberto Faenza) ma anche degli altri eccidi che hanno macchiato il Novecento: dall´Armenia a Hiroshima. Mentre registi come Paolo e Vittorio Taviani, Carlo Lizzani, Ettore Scola e lo stesso Faenza discuteranno su cinema e memoria. Sarà Grossmann a concludere l´evento, alle 12.30.

Repubblica Roma 27.1.08
Shoah, appuntamenti per la Memoria
Film, incontri, feste rom e un Giardino dei giusti
All’Auditorium lo storico Claudio Pavone tiene una lezione sull’8 settembre '43
di Laura Mari


Canti, danze e musiche popolari. Ma anche piatti della cucina rumena. Una vera festa quella che ieri al campo rom di via Candoni, nel XV Municipio, ha aperto le celebrazioni della Giornata della Memoria, in ricordo delle vittime della Shoah. La manifestazione, organizzata dall´Arci, si è conclusa con il concerto dei Têtes de Bois a cui, con i cittadini dell´XV Municipio e i 400 rom che vivono nel campo nomadi, ha partecipato l´assessore capitolino alle Politiche Sociali Raffaela Milano. «Prima di conoscerci ci considerano criminali - ha detto Stefan, portavoce rom - ma queste forme di razzismo rischiano di sfociare nell´odio che portò allo sterminio di 500mila rom nei campi nazisti». E oggi alle ore 17 l´Opera Nomadi dà appuntamento in piazza dell´Esquilino per una fiaccolata che arriva in piazza degli Zingari dove verrà deposta una corona, sempre alla presenza dell´assessore Milano.
Martedì, presso la scuola Leonardo Da Vinci di Maccarese, sarà inaugurato il primo Parco della Memoria del Lazio. «Sarà un giardino dei giusti simile a quello di Gerusalemme», anticipa l´assessore provinciale alla Scuola Daniela Monteforte, «gli studenti pianteranno dieci ulivi che serviranno a tenere viva la memoria di uomini come Giorgio Perlasca». E oggi, in ricordo del 27 gennaio 1945, il giorno in cui l´Armata Rossa aprì i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, la città aprirà le porte alla memoria della Shoah. Alle ore 11, alla libreria Borri Books (a Termini) incontro con Alberto Sed, sopravvissuto ad Auschwitz, mentre alle 9 partirà dai Municipi I, III, IX e XI la quarta edizione di Pedalando nella memoria, un giro in bici che si concluderà al ghetto.
Alla Casa della Memoria, in via San Francesco di Sales, alle 15 la proiezione del film di Davide Ferrario, La strada di Levi, poi una lettura di poesie sui temi della resistenza e della libertà e la proiezione del film Ritratto di un criminale moderno, sul processo a Eichmann. Alla Casa del Cinema di Villa Borghese, invece, anteprima del documentario di History Channel Fuga da Auschwitz (dalle 15,30 alle 18,30). Alla biblioteca Corviale (via Mazzacurati 76) la Shoah sarà ricordata con la mostra fotografica The Wall. All´Auditorium Parco della Musica alle 11 lo storico Claudio Pavone tiene una lezione sull´8 settembre 1943. Alle 16,30 è la volta di La memoria degli altri, musiche e letture per la regia di Vittorio Pavoncello, alla quale sarà presente la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz.

Corriere della Sera 27.1.08
Zapatero. Verso il cambio della legge sull'interruzione di gravidanza
La pillola del giorno dopo gratis e libera in Spagna
Piano dei socialisti. «Troppi aborti tra le più giovani»
di Elisabetta Rosaspina


La situazione attuale varia da regione a regione: gratis e senza ricetta, a pagamento e con obbligo di prescrizione

MADRID — La casa, la rivalutazione degli stipendi minimi, l'assegno bebè e ora la pillola del giorno dopo: Zapatero ha bisogno dei giovani per poter continuare a governare la Spagna dopo il 9 marzo prossimo e, all'avvicinarsi dell'appuntamento elettorale, cala tutti i suoi assi per spingerli alle urne. L'ultimo in ordine di tempo è l'accesso libero e gratuito alla pillola del giorno dopo, l'anticoncezionale d'emergenza che impedisce un'eventuale gravidanza nelle 72 ore successive a un rapporto sessuale a rischio. Un metodo preventivo dal punto di vista dell'Organizzazione mondiale della Sanità e di quello (non unanime) del mondo scientifico, un aborto precoce dal punto di vista della Chiesa. Ma l'attuale primo ministro socialista sa di non poter più contare granché sull'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche spagnole, almeno da quando ha dato il suo imprimatur alle nozze omosessuali e ha facilitato le procedure legali per il divorzio, eliminando il periodo propedeutico della separazione.
La maratona elettorale dei due principali contendenti segue ormai itinerari diversi, verso il medesimo traguardo: il Partito Popolare spera di vincere la corsa concentrando la sua strategia su argomenti economici, e soprattutto fiscali, oltre che sulla difesa della famiglia tradizionale; il Partito Socialista punta alle politiche sociali e al sostegno al mondo giovanile. Cui si rivolge, evidentemente, anche quest'ultima promessa.
La pillola del giorno dopo si commercializza in Spagna da sette anni. Ma la sua distribuzione non è regolamentata da una legge valida in tutto il Paese. L'unico requisito formalmente richiesto in tutto il territorio, adesso, è la ricetta medica. Il resto è lasciato alle amministrazioni locali. Sono le comunità autonome a decidere come, quando e a che condizioni distribuirla. Ci sono regioni, come la Catalogna, l'Andalusia e la Navarra dove le formalità sono ridotte al minimo, il farmaco si può ottenere gratuitamente e rapidamente attraverso la rete sanitaria pubblica. In altre aree, perlopiù controllate dal Partito Popolare, l'iter non è così agevole e il prezzo può arrivare a una ventina di euro in farmacia.
Quanto basta per scoraggiare molte ragazze.
Su questa considerazione si basa il ragionamento di partenza del progetto del Psoe, intitolato «Strategia per la salute sessuale e riproduttiva»: negli ultimi vent'anni, in Spagna, il numero di aborti ai quali si sottopongono le minorenni è quasi quadruplicato. Le statistiche più recenti disponibili si riferiscono al 2005, anno in cui almeno 13 mila adolescenti hanno interrotto volontariamente una gravidanza indesiderata e già accertata. Quante di loro avrebbero potuto evitare di arrivare all'intervento con una pillola, seppure tardiva? L'obiezione di coscienza, secondo i legislatori socialisti, in questi casi non vale: il rimedio del giorno dopo dovrebbe essere reso disponibile in qualunque pronto soccorso, 365 giorni all'anno e 24 ore al giorno. I socialisti respingono anche obiezioni più cliniche, secondo le quali la pillola comunque non è affatto salubre e rischia di diventare, una volta liberalizzata, un sistema anticoncezionale abituale, soprattutto per le più giovani. Ma Guillermo Gonzalez, presidente della Federazione per la pianificazione familiare, lo considera un rischio inevitabile: «Ci sarà sicuramente chi ne abusa, come chi abusa dell'alcol — dice —, ma le donne in genere sanno fare un uso razionale degli anticoncezionali».
Non ne sono così convinti i medici: la categoria, secondo i sondaggi, è spaccata esattamente in due circa l'opportunità di distribuire la pillola del giorno dopo senza ricetta medica.

Corriere della Sera 27.1.08
L’operazione Condor e la giustizia tardiva
di Sergio Romano


Ho letto sul Corriere che la magistratura italiana ha richiesto ben 140 arresti per altrettanti golpisti sudamericani per fatti accaduti negli anni 70 e 80 in Sud America che hanno avuto vittime di ascendenza italiana. Che senso ha imbastire processi per fatti avvenuti più di trent'anni fa? I nostri magistrati non hanno da perseguire delinquenti nostrani, mafiosi, piccoli e grandi criminali che hanno commesso crimini adesso e non nella preistoria? Non esiste il giudice naturale competente per territorio?
Non esiste la norma generale che per lo stesso crimine si può essere processati una sola volta? Sicuramente questi personaggi sono già stati processati nel loro Paese e, inoltre, se la magistratura italiana li persegue perché alcune vittime possono vantare una lontana ascendenza italiana, perché poi non potranno essere giudicati per gli stessi reati dalle magistrature spagnole, francesi, ecc.? Che possibilità di difesa potrà avere chi viene accusato per un crimine avvenuto più di trent'anni fa? Come potrebbero riuscire a far venire in Italia eventuali testimoni a loro difesa?
Quanti possibili testimoni nel frattempo saranno morti? Infine, che senso ha processare imputati che, dato il tempo trascorso, come minimo avranno più di 70 anni e che, di conseguenza, non sconteranno mai la eventuale pena? In Italia abbiamo soldi e tempo da buttare?
Paolo Radice
Caro Radice,
Qualche parola anzitutto per i lettori che non hanno prestato attenzione a questa notizia. I reati di cui sarebbero responsabili le 140 persone contro le quali la magistratura italiana ha spiccato un mandato di cattura sono stati commessi, in buona parte, nell'ambito di un'operazione che fu chiamata «Condor». I fatti risalgono a un incontro che si tenne in Cile il 25 novembre 1975 fra i rappresentanti dei servizi segreti di sei Paesi latino-americani in cui i militari, negli anni precedenti, avevano conquistato il potere: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay.
A seguito dell'incontro, i governi dei sei Paesi decisero di aiutarsi a eliminare i rispettivi oppositori. Da quel momento ogni servizio d'intelligence nazionale avrebbe avuto facoltà di mandare le proprie squadre nei Paesi amici per individuare e uccidere i propri esuli. Ma già prima di allora i governi rappresentati all'incontro cileno avevano brutalmente perseguitato ed eliminato i propri dissidenti. Il caso più clamoroso fu quello dei desaparecidos argentini, vittime di una sanguinosa «purga» organizzata dalla giunta militare del generale Jorge Videla. Più tardi, quando i Paesi dell'Operazione Condor tornarono alla democrazia, prevalse la convinzione che fosse meglio, nell'interesse della pace civile, seppellire il passato e pensare al futuro: una decisione simile per molti aspetti a quella adottata dal governo italiano nel 1946 con l'amnistia firmata da Palmiro Togliatti, allora ministro di Grazia e giustizia. Fu questa la ragione per cui il presidente argentino Carlos Menem, ad esempio, garantì l'impunità dei membri della giunta militare. Ma in tempi più recenti, alcuni governi, sollecitati dalle richieste della pubblica opinione, hanno deciso di riaprire i dossier e, in alcuni casi, di abolire i provvedimenti di clemenza che erano stati adottati negli anni precedenti. Ogni Paese, naturalmente, ha il diritto di affrontare le questioni nazionali con i criteri e gli strumenti di cui dispone.
Come lei osserva, caro Radice, il caso italiano, tuttavia, è diverso. Qui il magistrato inquirente ha deciso di agire sulla base di una denuncia pervenuta alla procura dieci anni fa da 25 famiglie argentine di origine italiana. Lei non ha torto quando scrive che la giustizia in questo caso non è più territoriale, che il tempo trascorso rende le indagini molto complicate, che un ufficio giudiziario sarà per molto tempo distratto dalla trattazione di altri problemi da cui dipende la nostra sicurezza. Ma questi orientamenti della giustizia non sono esclusivamente italiani. In molti Paesi occidentali si è radicata la convinzione, spesso avallata dalle leggi, che certi reati non siano soggetti a prescrizione e possano essere perseguiti ovunque. Poco importa che la raccolta e la verifica delle prove diventino col passaggio degli anni pressoché impossibili. Poco importa che la spada della giustizia cada su persone invecchiate, forse ormai moralmente diverse da quelle che hanno commesso i reati. Poco importa che questi esercizi giudiziari costino molto denaro e producano quasi sempre risultati estremamente modesti. Il magistrato si giustifica invocando l'obbligatorietà dell'azione penale ed è spesso sollecitato ad agire dall'interesse umano del caso e, perché no, dalla notorietà che esso procura. La sentenza, quando verrà, apparterrà a una giustizia declaratoria, moralista, mediatica, che non risolve problemi, ma afferma principi: una giustizia alquanto diversa da quella di cui abbiamo quotidianamente bisogno.

Corriere della Sera 27.1.08
Il Galileo di Feyerabend
di Stefano Gattei, Università di Pisa


Opportunamente il Corriere del 25 gennaio ha pubblicato il testo di Paul Feyerabend da cui Joseph Ratzinger aveva tratto la citazione sul processo a Galileo che tanto clamore ha suscitato. Tale frase, infatti, è comprensibile solo se letta all'interno dell'opera da cui è tratta. In «Contro il metodo», Feyerabend intendeva attaccare l'approccio «razionalista» di molti filosofi della scienza, sostenendo che la storia è sempre molto più ricca di quanto immaginino gli accademici. Le varie teorie normative del metodo via via proposte si sono rivelate incapaci di comprendere tale multiforme complessità; anzi, seguite rigidamente, costituirebbero un ostacolo alla crescita scientifica. Uno degli esempi-chiave a sostegno di tale tesi è quello di Galileo. Se oggi possiamo dire che lo scienziato era sulla strada giusta poiché la sua tenace ricerca a favore della cosmologia copernicana ha contribuito a creare, nel tempo, gli strumenti necessari per difenderla, non altrettanto si poteva fare nel Seicento. L'immagine che emerge dalla ricostruzione — peraltro molto discussa — di Feyerabend è quella di un Galileo opportunista senza scrupoli, che al fine di sbaragliare i propri avversari viola le più elementari regole metodologiche e i più fondamentali standard di onestà intellettuale, facendo ricorso a mezzi «irrazionali» quali la propaganda, l'emozione, il pregiudizio, l'introduzione di ipotesi ad hoc. In questo senso Feyerabend riconosce come la Chiesa si sia attenuta ai «dettami» della ragione più dello stesso Galileo. La conclusione è certamente paradossale, ma non va intesa come una critica dell'opera di Galileo, e tanto meno come una difesa del processo contro di lui, quanto come una «reductio ad absurdum» di quelle teorie che si dimostrano inadeguate a cogliere la profondità e la varietà delle argomentazioni galileiane. Al loro posto Feyerabend propone una visione alternativa della razionalità, basata su valori anziché su regole, caratterizzata di volta in volta dal continuo bilanciamento di elementi di per sé inconciliabili. In quanto campione di questa razionalità — dinamica, plastica, feconda— Galileo rimane, ai suoi occhi, un indiscusso protagonista del Rinascimento.

Corriere della Sera 27.1.08
La scoperta. Le immagini sono state donate dagli eredi di un diplomatico messicano all'International Center of Photography di New York
Trovata la «valigia segreta» di Robert Capa
I negativi erano scomparsi a Parigi nel 1939. Il grande fotografo morì credendo di averli perduti
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Per gli appassionati di fotografia è la scoperta del secolo: la famosissima «valigia smarrita» di Robert Capa, il più grande fotografo di guerra di tutti i tempi, è finalmente tornata alla luce. Lo rivela il New York Times,
precisando che il suo contenuto— migliaia di negativi inediti — è al sicuro presso l'International Center of Photography di Manhattan dove un'équipe di esperti lo sta restaurando e catalogando, con l'intenzione di esporlo al pubblico.
È l'inatteso lieto fine di un «mistero » che il Times
paragona alla valigia con gli scritti giovanili di Hemingway, sparita da una stazione ferroviaria nel 1922 e mai più ritrovata. Nel caso di Capa le valige erano addirittura tre, vecchie e di cartone consunto, ma con dentro un tesoro inestimabile: migliaia di negativi di fotografie che il geniale fotografo nato a Budapest nel 1913 aveva scattato durante la Guerra Civile spagnola.
Prima di fuggire in America nel 1939, braccato dai nazi-fascisti a causa delle sue origini ebraiche, era stato costretto ad abbandonarle in una camera oscura, a Parigi. Tanto che lo stesso Capa, — Endre Friedmann all'anagrafe — è andato nella tomba nel 1954, convinto che quelle valigie fossero andate per sempre distrutte per mano dei tedeschi.
Quarant'anni più tardi, quasi per miracolo, sono riemerse a Città del Messico, tra i possedimenti di un ex generale e diplomatico messicano che aveva combattuto per Pancho Villa e ne era venuto misteriosamente in possesso quand'era di stanza a Marsiglia. Dopo la sua morte, gli eredi hanno contattato l'International Center of Photography di New York. Il resto è storia.
«Questi inediti rappresentano il Santo Graal dell'opera di Capa», afferma Brian Wallis, curatore capo del centro fondato dal fratello di Capa, Cornell. Le valigie contengono anche immagini scattate dalla sua assistente e compagna Gerda Taro, l'ebrea tedesca Gerda Pohorylle, che l'aiutò a cambiarsi il nome — e di David Seymour, co-fondatore insieme a lui dell' agenzia fotografica Magnum.
Ma un pezzo in particolare ha già messo in fibrillazione il mondo fotografico: il negativo della sua foto più celeberrima, «The falling soldier», scattata nel 1936 sulle colline di Cordoba e diventata una delle immagini più famose al mondo: quella di un soldato dell'esercito repubblicano colpito a morte da un proiettile sparato dai franchisti.
Quando fu pubblicata dalla rivista francese Vu, l'impatto di quell'immagine fu enorme. «Aiutò a cristallizzare il sostegno per la causa repubblicana», teorizza il Times.
Ma i dubbi sull'autenticità dello scatto hanno inseguito per anni Capa e Taro, entrambi partigiani comunisti che spesso «costruivano ad hoc» le loro foto: un'usanza peraltro diffusissima a quei tempi.
I dubbi non sono svaniti neppure dopo l'uscita di «Proving that Robert Capa's Falling Soldier is Genuine: A detective story», del biografo di Capa Richard Whelan. A stabilire una volta per tutte la verità saranno dunque questi negativi che dovrebbero mostrare l'intera sequenza della morte del soldato spagnolo che secondo gli storici si chiamava Federico Borrell Garcia.
Dopo aver fotografato ben cinque guerre, — inclusa quella arabo- israeliana del 1948 — Capa morì in Vietnam nel 1954, durante un reportage fotografico in prima linea. La sorte ha voluto che il suo grande capolavoro sia andato distrutto comunque. Si tratta di 106 foto scattate il 6 giugno 1944, quando partecipò al sanguinoso sbarco del contingente americano ad Omaha Beach, in Normandia.
La maggior parte dei rullini andò distrutta per un errore del giovane tecnico addetto allo sviluppo delle foto per conto della rivista «Life». Scamparono alla distruzione soltanto undici fotogrammi danneggiati, che trasmettono comunque tutta la terribile drammaticità del D-Day. Che senza di lui sarebbe rimasta una guerra priva di volto.

Corriere della Sera Salute 27.1.08
Psichiatria. Una ricerca americana ha scoperto che molti studi «negativi» non sono divulgati
Antidepressivi. Aumentano i consumi: ma si discute la loro reale efficacia
Pillole in depressione
di Franca Porciani


Dubbi sui farmaci antidepressivi più recenti: l'efficacia è controversa Mentre il loro consumo aumenta

La spesa lorda a carico del SSN per gli antidepressivi (gennaio-setembre 2007) è stata di 348 milioni di euro. Di questi, per gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono stati spesi 218 milioni di euro
La prescrizione di antidepressivi a carico del SSN rispetto all’anno precedente è aumentata del 17,1%

Una ricerca ha valutato tutti gli studi presentati all'Fda: scoprendo che vengono pubblicati solo quelli «positivi»
Gli italiani annegano nella depressione? Il recente sondaggio del New York Times
ci ha delineato come un popolo «triste», ma la quantità di antidepressivi che ingurgitiamo a carico del servizio sanitario, per una spesa lorda, nei primi nove mesi del 2007, di 348 milioni di euro (più quelli che paghiamo di tasca nostra), non tira su la nostra immagine.
E se questa montagna di pillole anti-infelicità fosse (quasi) inutile? Getta il sasso nello stagno uno studio appena pubblicato dalla rivista statunitense
New England Journal of Medicine. Il sasso, più che un sasso un macigno, è la «scoperta» che buona parte degli studi con esito negativo condotti su questi preparati sono «scomparsi» nel nulla.
O meglio, sono rimasti nei «cassetti» della Food and Drug Administration, l'ente federale americano che autorizza la messa in commercio dei medicinali: le ditte produttrici non hanno voluto pubblicarli sulle riviste scientifiche, o, talvolta, sono state queste ultime ad opporre un «pilotato» rifiuto a darli alle stampe.
In realtà il registro delle sperimentazioni dei farmaci sui pazienti dell'agenzia statunitense è accessibile a tutti dal 1996, ma l'enorme data- base risulta incomprensibile perfino agli addetti ai lavori per la sua complessità. Perché occultare queste ricerche? Perché danno risultati insoddisfacenti. Autore della scoperta, l'équipe guidata da Erick Turner, farmacologo e psichiatra dell'università dell'Oregon che ha spulciato questi archivi con pazienza certosina per 12 antidepressivi di nuova generazione, quelli approvati dalla Fda dal 1987 al 2004.
Sono farmaci che inibiscono il riassorbimento della serotonina (la maggiore disponibilità di questo mediatore a livello delle sinapsi fra i neuroni dovrebbe «tirar su» l'umore nero). Facciamo i nomi? Fra questi la fluoxetina (più nota come Prozac), la paroxetina, la duloxetina, il bupropione, la sertralina.
In sintesi, dei 74 studi scovati dal data-base per i 12 preparati, 38 ne dimostrano l'efficacia e tutti, tranne uno, sono stati pubblicati; 36 arrivano a conclusioni opposte e soltanto 3 hanno visto la luce. Come se non bastasse, 11 sono stati «riscritti» in termini più rosei e sono usciti come tali sui giornali scientifici, senza cenno al parere negativo della Fda. «Quel che conta è la sovrastima di efficacia che queste omissioni comportano, un bel 30 per cento — commenta Corrado Barbui, psichiatra dell'università di Verona che da anni partecipa alla revisione degli studi clinici —. Non è un dato da poco. In sostanza, noi psichiatri stiamo prescrivendo farmaci i cui effetti sono stati "gonfiati"».
«Certi condizionamenti industriali sono pesanti ed è giusto che vengano denunciati — commenta Giovanni Biggio, che tra pochi mesi diventerà presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia —. Ma da qui a dire che gli antidepressivi non funzionano, il passo è lungo. Esistono studi che dimostrano la loro efficacia finanziati interamente dal National Institute of Mental Health, l'ente governativo americano per la salute mentale».
Indiscutibile. Precisa, però, Barbui: «Le revisioni che hanno confrontato l'effetto di questi farmaci su forme depressive di media gravità con quello del placebo, ovvero di una pillola "vuota" rivelano, già prima di questa scoperta del New England, un'efficacia modesta. In pratica, col farmaco stanno meglio 60 pazienti su 100, col placebo 50 su 100. L'effetto è scarso, ma, attenzione, non irrilevante: siamo di fronte a malati gravi. Bisogna anche ricordare che gli antidepressivi più recenti, quelli presi in esame dallo studio americano, hanno comunque effetti collaterali, irritabilità, diminuzione del desiderio sessuale, calo dell'appetito».
Se la questione aperta dal New England è spinosa e farà discutere a lungo, resta certo che gli antidepressivi vengono dati anche a chi depresso non è, ma soffre d'altro, di ansia o di attacchi di panico. Fenomeno che ne spiega il consumo smodato e in continuo aumento: il 17 per cento in più in Italia, da gennaio a settembre 2007, rispetto all'anno precedente.

Ricerche e trasparenza. Ma in Europa resta tutto segreto

In Europa l'ente regolatorio che autorizza la messa in commercio dei farmaci e ne sorveglia eventuali effetti negativi è l'Emea ( European Medicines Agency), agenzia nata nel 1995 che ha sede a Londra. Esiste anche all'Emea un registro degli studi realizzati sui farmaci messi in commercio? Risponde Vittorio Bertelè, a capo del laboratorio di politiche regolatorie dell'Istituto Mario Negri di Milano: «Purtroppo no. I dossier che le ditte farmaceutiche consegnano all'agenzia per l'autorizzazione alla messa sul mercato dei medicinali sono riservati.
La motivazione è la protezione del brevetto che oltre al processo di produzione di quella sostanza si estende, ingiustificatamente, anche agli studi clinici, quelli sui pazienti. Questo stato di cose non è casuale: deriva dal fatto, più volte contestato ma per ora irrisolto, che l'Emea è finanziata per due terzi dall'industria e per un terzo dai governi degli Stati membri.
Gioca anche un altro fattore: mentre l'ente regolatorio statunitense, la Food and Drug Administration, è una struttura forte, centralizzata, l'Emea è per ora solo l'emanazione delle varie agenzie nazionali, che hanno molto più potere». Ma i farmaci che vengono approvati in Europa sono al 99 per cento gli stessi che sono stati autorizzati negli Stati Uniti, magari qualche mese prima. Non c'è contraddizione fra un registro aperto a tutti di là dall'oceano e la totale riservatezza dall'altra sponda dell'Atlantico? «È vero — risponde ancora l'esperto —. Ma pur paradossale, questa è oggi la situazione».

Corriere della Sera Salute 27.1.08
Le altre cure Dalla fototerapia alle erbe, dalla chirurgia alla cronobiologia, con risultati incoraggianti
In cerca dello stimolo giusto al buon umore
di Adriana Bazzi


In parallelo o in alternativa. Quando i farmaci non bastano da soli a controllare la depressione o, meglio, «le depressioni » (perché la malattia si presenta con molte facce diverse), si cercano altre soluzioni.
A partire dalle classiche psicoterapie (il ventaglio è ampio, il paziente può scegliere) che possono affiancare le cure farmacologiche, fino ad arrivare al discusso elettroshock, l'«ultima spiaggia» per alcune forme di malattia resistenti alle medicine. Passando per la cura «verde»: l'iperico o erba di San Giovanni, l'unico prodotto erboristico che abbia una certa efficacia antidepressiva, anche se limitata alle forme lievi.
Più recentemente si sono affacciate alla pratica clinica nuove proposte terapeutiche. Come la light therapy, o fototerapia, particolarmente indicata, secondo i suoi sostenitori, nella cura dei pazienti con depressione stagionale: questi malati sono sensibili alla riduzione delle ore di luce nel periodo invernale e rispondono positivamente all'esposizione alla luce di intensità luminosa equivalente a quella diurna. Dopo il risveglio il paziente viene esposta a una lampada per 30-120 minuti e l'effetto terapeutico si manifesta dopo pochi giorni.
Altra tecnica: la deprivazione di sonno il cui obiettivo è quello di potenziare gli effetti dei farmaci. È efficace, secondo la letteratura internazionale (la tecnica è sperimentata anche al San Raffaele di Mi-lano), ma con il limite delle facili ricadute. Questo approccio prevede di tenere il paziente sveglio per una notte intera, con effetti positivi immediati in molti casi. Un'altra opzione è quella della manipolazione del ritmo sonno-veglia: per esempio, l'anticipo della fase del sonno con risveglio definitivo nella seconda parte della notte, che produce un certo miglioramento dei sintomi. Negli ultimi anni si è fatta strada anche la terapia «chirurgica» della depressione. Una prima metodica è quella della deep brain stimulation, proposta da Andres Lozano dell'Università di Toronto: vengono impiantati elettrodi (pacemaker cerebrale) nella corteccia frontale la cui continua stimolazione determina, in alcuni casi, la remissione della malattia. Le esperienze, però, sono limitate e la tecnica è cruenta, anche se, in caso di insuccesso, è reversibile con l'interruzione della stimolazione elettrica.
La seconda è la stimolazione del nervo vago, approvata nel 2005 dalla Food and Drug Administration americana per la cura della depressione grave in particolare dei pazienti anziani e autorizzata anche in Europa: il pacemaker anti-depressivo, in questo caso, viene impiantato all'altezza del collo attorno al nervo vago ed è in grado di stimolare la produzione di serotonina, l'ormone che regola l'umore, il sonno, l'appetito e il sesso. L'intervento è reversibile, generalmente ben tollerato; gli effetti collaterali più diffusi sono la raucedine e la tosse che compaiono nelle prime settimane dopo l'intervento. È in sperimentazione anche in Italia in alcuni centri, come l'Ospedale Molinette di Torino.
Infine, in alternativa all'elettroshock che può comportare alterazioni della la memoria per settimane dopo la terapia, si sta sperimentando un intervento meno aggressivo, la stimolazione magnetica transcranica: viene effettuata inviando, dall'esterno alla corteccia, una serie di impulsi magnetici che non provocano, come invece può succedere con l'elettroshock, attacchi epilettici e nemmeno alterazioni della memoria. L'effetto terapeutico è simile. La metodica è ancora in sperimentazione.

Corriere della Sera Salute 27.1.08
L'opinione di Vittorino Andreoli
Non possiamo ridurre tutto alla biologia


La delusione farmacologica è solo il segno di un errore di strategia

Cominciai a frequentare il manicomio di Verona nel 1959 e si respirava un'aria profetica per la recente nascita della imipramina (il Tofranil). Dalla sua «venuta» sono passati 50 anni. E, occorre ammetterlo, sono stati cinquant'anni «di solitudine » e di delusione se solo si considera un impegno senza precedenti delle aziende farmaceutiche e della ricerca psicofarmacologica per un disturbo mentale che oggi colpisce il 14 per cento della popolazione europea. La imipramina era efficace, ma dava effetti collaterali di grande dimensione; occorreva cercare imipramine più sicure. Non si scoprì nulla in questa direzione anche se uscirono in commercio molti farmaci appartenenti alla stessa famiglia, i triciclici.
Si è imboccato un sentiero, quello degli SSRI, da quindici anni ormai nel mercato. Si tratta di farmaci di identica efficacia clinica della imipramina, ma con effetti collaterali diminuiti. Dal punto di vista dei meccanismi d'azione sono molecole più specifiche in quanto agiscono solo sulla serotonina: azione che aveva in maniera più spuria anche la imipramina. Per quanto riguarda gli effetti indesiderati, che portano all'abbandono più rapido possibile, occorre dire che sono solo diversi e, basterebbe a sostenerlo, il problema della dipendenza e le azioni sulla sfera genitale. Questo è lo status quo e non c'è all'orizzonte niente di veramente promettente. I farmaci antidepressivi disponibili sono attivi in circa la metà dei pazienti e in quelli che rispondono l'effetto è per lo più parziale, come se l'azione fosse in grado di migliorare ma non certo di guarire né il singolo episodio né la malattia che ha un andamento ritmico (cronico).
A cinquant'anni di delusione, occorre chiedersi cosa succeda. E si giunge a due ipotesi. La prima è che si tratti di una ricerca non fortunata, in un campo complicato (la psichiatria) e in un organo (il cervello) che appare sempre più come un mondo straordinario ma difficile, una ricerca che comunque occorre continuare in attesa di un nuovo «miracolo ». La seconda, a cui io sono più legato, sostiene invece che la ricerca non ha prodotto granché semplicemente perché non può dare di più. La vera scoperta è che la depressione è il risultato di tre fattori: un fattore biologico (dunque genetico e cerebrale) che certamente avvalla la ricerca biologica e le considerazioni familiari di alcune forme depressive; un fattore legato alle esperienza del singolo, in particolare a quelle dei primi anni di vita (da zero a tre anni): e questo aspetto non ha, o non ha ancora, una dimensione molecolare, ma rientra nella grande possibilità della plasticità del cervello, capace di modificarsi in seguito ad una esperienza e senza un programma di tipo deterministico (come è la genetica). Infine, un terzo fattore che si lega all'ambiente in cui uno si ammala: un ambiente, più che geografico, relazionale e anche questo manca di una traduzione in termini biologici. Se è così, risulta che la terapia con i farmaci rappresenta solo l'azione su uno di questi fattori; per il resto occorre agire con strumenti clinici che si legano al medico e alle tecniche psicoterapiche. Se è cosi, la delusione farmacologica è segno di un errore di strategia, della convinzione di ridurre tutto a biologia. E bisogna semplicemente cambiare rotta e seguire nella ricerca le direzioni della clinica. Ne deriva anche che la terapia deve essere una combinazione di farmaci e di interventi psicoterapici.

Liberazione 27.1.08
Un saggio su "Alternative". Il lavoro, l'innovazione, il mercato
Se la critica al precariato resta dentro questo sistema delle merci...
di Fausto Bertinotti


Pubblichiamo stralci del saggio di Fausto Bertinotti sul precariato contenuto nella rivista «Alternative per il socialismo» in edicola da venerdì scorso.

Precarietà. Prima ignorata e nascosta nella più elegante categoria della flessibilità, così moderna e così capace di fare tanto post-fordismo. Poi resa sfuggente, astratta seppure incombente. Infine disvelata da vicende sociali puntiformi quanto importanti, da inchieste, ricerche universitarie, lotte specifiche, racconti, libri e documentazioni. E poi il 20 ottobre. Se prima bisognava lavorarci, ora si può lavorarci. Nel senso di costruire soggettività, organizzazione politica e cultura. Per dare una mano a realizzare questo compito, intanto bisogna farla entrare sistematicamente nella composizione di un discorso politico...

...Io penso che la potenza del lavoro nella definizione generale dell'assetto della società e della vita delle persone sia stata nell'ultimo quarto di secolo fortemente oscurata da un grande fraintendimento operato dalla nuova fantasmagoria del mercato e dall'ideologia dominante, quello secondo cui si sarebbe costruita una società post-industriale, in cui il lavoro sarebbe diventato socialmente irrilevante...

..Poi c'è un secondo fraintendimento; quello che è derivato dall'avere assegnato a una determinata figura di lavoratore e di lavoratrice, una capacità riassuntiva della condizione più generale del lavoratore nella storia moderna. In altre parole, è sembrato che l'esistenza stessa del lavoro ci fosse solo finché ci sarebbe stato un certo tipo di lavoro nell'industria manifatturiera, nella produzione di serie e nella grande industria. Riducendosi questo tipo di lavoro, anche se solo in alcune aree del mondo, e venendo a essere messa in discussione la centralità di quel modello di lavoro perché legato al ciclo fordista-taylorista ormai esaurito (cioè il modello del lavoro stabile a tempo pieno e a vita, dalla giovinezza sino alla vecchiaia), si è voluto ricavare, al contrario di quello che concretamente stava accadendo, la conclusione della fine del lavoro...
Quel che così veniva proiettato nell'immaginario collettivo fino a oscurare la realtà era, in effetti, il portato di una grande sconfitta sociale e politica del movimento operaio e di una altrettanto grande modernizzazione, quella rivoluzione capitalistica restauratrice che si è chiamata globalizzazione.

Sarebbe bastato leggere qualche pagina dei coniugi Webb per essere avvertiti contro la mistificazione, per sapere che proprio il contrario accade, e accade sempre, nella realtà. Sarebbe bastato per sapere, cioè, che a condizionare l'essere sociale era ed è, insieme al lavoro astratto, il lavoro specifico ma non solo quello congiunturalmente o anche storicamente definito quale prevalente, bensì, allo stesso modo, quello non considerato come paradigmatico, dunque il precario, ma anche il senza lavoro, il disoccupato; ogni condizione di lavoro contribuisce a definire l'essere sociale...

...La precarietà che ci investe non è il frutto dell'arretratezza ma dell'innovazione. Alla domanda "l'innovazione serve Dio o Mammona?" si può rispondere, come rispondeva il teologo, "serve Mammona", per poi aggiungere " a meno che". Con ciò si vuole sostenere, secondo me giustamente, che l'innovazione, in questo contesto, muove tendenzialmente in direzione della generazione di alienazione, a meno che l'intervento degli uomini tra loro organizzati, delle istituzioni, della politica, delle forze sociali imprima ad essa un altro corso.
Ma c'è ancora una seconda domanda che si pone: questa dura e pesante precarietà è un fungo sconosciuto? Prima di noi, di questo nostro tempo, non c'è mai stata? La storia del capitalismo e dello sviluppo delle forze produttive incontra per la prima volta una siffatta precarietà, sorta per incanto di fronte al lussureggiare delle nuove tecnologie, dell'informatica, delle comunicazioni, oppure essa è una propensione che sta dentro la formazione economico-sociale capitalistica e solo - come è già accaduto nella storia - il conflitto di classe, l'intervento attivo della politica e delle organizzazioni sociali l'ha potuta comprimere fin quasi a sradicarla?
Secondo me, è vera la seconda ipotesi. Alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento, il lavoro era precario, molto precario. Basta riferirsi al materiale assai vasto di ricerca che esiste a questo proposito, per poter dire che non siamo noi per primi a scoprire, qui e in questa parte del mondo, un fenomeno drammatico. Il Marx del capitolo del Capitale sul processo di accumulazione, con una formula che tutti ricordiamo, sia perché è assai nota, sia perché ha fatto parte del nostro bagaglio di citazioni in molte e diverse stagioni politiche, afferma che nell'organizzazione della produzione manifatturiera si produce la "fanteria leggera" del proletariato. Cos'era quella fanteria leggera generata dal capitale? Essa è costituita dai lavoratori vaganti, da coloro che non avevano alcuna stanzialità e che rincorrevano il lavoro laddove nascevano e si stabilizzavano le fabbriche per inseguirlo altrove quando ne venivano cacciati...

...Una delle ragioni che spiega la diffusione così rapida e ampia della flessibilità e della precarietà (insieme alla forza del capitale che si ristruttura parallelamente alla sconfitta del movimento operaio) è il loro carattere ambiguo e, in apparenza, doppio.
La flessibilità è, per sua natura, un fenomeno ambiguo. Contiene una doppiezza, specie se riferita al lavoro. Perché è il combinato disposto delle attese diverse di due soggetti con interessi antagonisti: uno, la lavoratrice, il lavoratore, e l'altro l'impresa.
E' evidente che c'è, in astratto, una flessibilità che potrebbe interessare il lavoratore. Uso a proposito il condizionale e lo sottolineo. Potrebbe interessare il lavoratore? Sì, se la flessibilità determinasse una risposta ad un'attesa, che c'è e che andrebbe valorizzata, di una possibilità di scelta. Sono padre o madre, ho un figlio da accompagnare a scuola, se il mio orario di lavoro potesse essere flessibilizzato in ingresso e in uscita, questo mi starebbe bene perché mi consentirebbe di soddisfare un bisogno di organizzazione della vita. Se io ho una propensione allo studio, se mi matura l'esigenza di una determinata formazione e potessi prendermi un anno sabbatico, sarebbe bene. Sono esempi di flessibilità che risponderebbero, e se ne possono indicare molte altre, ad una domanda della lavoratrice o del lavoratore. Ma c'è un'altra flessibilità che invece sorge da una domanda dell'impresa di flessibilizzare la prestazione lavorativa per renderla funzionale agli andamenti mutevoli del rapporto tra l'impresa e il mercato. Il mercato condetermina la variabilità e i mutamenti della domanda sull'impresa e l'impresa la trasforma in una domanda di flessibilità sui lavoratori.
Quando queste due istanze di flessibilità entrano in contrasto tra loro non è difficile sapere chi tra queste due vince. Sono entrate, in effetti, in contrasto e ha vinto l'impresa che ha schiantato la domanda di flessibilità come qualità della vita e ha imposto invece la flessibilità come funzionalizzazione della vita della lavoratrice e del lavoratore all'andamento del rapporto tra il mercato e l'impresa. Ecco perché la flessibilità, poi, slitta verso la precarietà. E' quella stessa esigenza di unilaterale governo del processo di lavoro che origina la richiesta di flessibilità che diventa moltiplicazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato. Il mercato del lavoro diventa così un supermarket, in cui l'azienda entra, esce, compra, prende la forza-lavoro col rapporto di lavoro che più è funzionale all'azienda stessa. E qual è quello che gli è più funzionale? Quello che riduce il costo del lavoro e che aumenta la dipendenza della forza-lavoro alle esigenze dell'impresa...

...E' proprio l'analisi del lavoro salariato e della precarietà di questo capitalismo totalizzante che ci conduce alla ricerca di un orizzonte, di una cornice, entro il quale, le necessariamente assai articolate risposte di lotta alle diverse espressioni concrete della precarietà, possano affermarsi, e con loro la possibilità di costruire un lavoro sociale e politico che le possa connettere tra di loro e con le altre lotte sul lavoro, riaprendo il grande capitolo dell'unità della coalizione lavorativa e della sua soggettività.
La tesi è infine la seguente: neppure questo compito che io credo sia assolutamente necessario svolgere per attivare un conflitto e un intervento diretto può avere un successo definitivo di risanamento e di bonifica dalla precarietà senza una modificazione del modello socio-economico. Se si pensa, come abbiamo provato a mostrare, che la precarietà sia frutto organico di questo modello, bisogna sapere che il risanamento dalla precarietà (per cui bisogna combattere quotidianamente per conquistare leggi, accordi, obiettivi anche parziali) può essere perseguito, e la precarietà può essere sradicata, solo mettendo al centro dell'azione politica la modifica del modello economico e sociale, il mutamento dell'organizzazione della produzione, della riproduzione sociale e dei consumi.
Se la competizione delle merci continua ad avvenire sul terreno in cui oggi si manifesta, la pressione che essa esercita sul lavoro e sui soggetti sociali è troppo forte perché possa risultare vincitrice la tendenza critica, se resta racchiusa all'interno del conflitto nel mercato del lavoro. Se non si produce attraverso un diverso livello del conflitto uno spiazzamento che cambi i termini stessi della produttività e della competitività, l'efficacia dell'azione sociale, pure assolutamente necessaria, non può divenire strutturale. ...

... Se non riapriamo almeno qualche finestra in questa direzione, se non si conquista qualche elemento di un mutamento del modello di produzione, di riproduzione e di consumo, rischiamo di essere strangolati da questo meccanismo onnivoro e totalizzante, in ogni contesa che si apre nella società, a partire dalle grandi questioni del lavoro. Il tema della trasformazione della società capitalista non è un lusso, né una questione ideologica, è un tema propriamente politico.

Liberazione 27.1.08
Giordano: «Sinistra unita subito con chi è disponibile. Basta rinvii»
di Angela Mauro


Il segretario del Prc alla Direzione: noi chiediamo un governo «di scopo» per una riforma elettorale sul modello della bozza-Bianco
Il nuovo soggetto unitario è urgente. Non sarà l'«unità comunista». Del resto non si può «pensare come Ferrando e agire come Parisi...»

Basta con i distinguo sul processo unitario a sinistra. Franco Giordano affonda il dito nelle divisioni con Pdci e Verdi esplose sulla legge elettorale e inasprite dalla crisi di governo. Non c'è margine per sottacere i dissidi. «Ci sono differenze - riconosce il segretario - e dobbiamo guardarne la natura: non si può sempre essere criticati gratuitamente...». Parlando alla direzione, all'esecutivo e ai gruppi parlamentari del partito, riuniti per discutere del mandato da affidare al leader in vista della consultazione di domani con il capo dello Stato, Giordano lascia intendere chiaramente di essere stufo di chi a parole si dice favorevole al processo unitario «e poi, quando cerchiamo di determinarlo, nello spirito dell'assemblea dell'8 e 9 dicembre, ci si sta a preoccupare della soglia di sbarramento e della propria identità». Così non si va avanti. Ma Rifondazione, forte dell'asse con Mussi di Sd, va avanti comunque, pensando a liste elettorali unitarie e ad una sinistra, con radicamento sociale, che sia «autonoma» anche nella scelta delle alleanze. Perchè, dice Giordano, «se Veltroni vuole correre da solo, non ci spaventiamo. Valuteremo, ma la sinistra non vive e muore solo nel governo».
Insomma, appare alquanto fuori luogo, ora, continuare a rincorrere modelli andati in frantumi. «L'Unione non esiste più», continua il segretario. Non cita direttamente Pdci e Verdi, ma è chiaro che parla alla loro ostinazione a dare battaglia sulla bozza Bianco di legge elettorale, alla loro scelta di rifugiarsi sotto l'ombrello protettivo di Prodi, alla loro mancanza di coraggio unitario a sinistra e surplus di dogmatica fede nelle alleanze di centrosinistra, nel passato come nel futuro. Non ci sono allusioni esplicite, ma è al Pdci che Giordano si riferisce quando si spiega con una battuta: «Non si può avere una visione generale alla Ferrando e poi fare una proposta politica alla Parisi», il prodiano filo-ulivista del Pd. Il ragionamento è netto: «Con il Calderolum, le forze di sinistra perdono autonomia e si confinano in una coalizione». Il Porcellum va cambiato, la bozza Bianco ispirata al modello tedesco e ferma al Senato va bene, dunque il Prc andrà a dire a Napolitano che è favorevole ad un «governo di scopo e a termine» che riformi il sistema di voto e porti alle urne. L'unità a sinistra, a questo punto, diventa anche «una scelta unilaterale - conclude Giordano - Chi ci sta, ci sta». E, manco a dirlo, «non sarà l'unione dei comunisti», ma qualcosa di più ampio respiro.

Liberazione 27.1.08
Liderismi e irresponsabilità creano nuovi grandi rischi
L'uragano di destra e l'estremismo del piddì
di Piero Sansonetti


Quello che colpisce, nel dibattito che si è aperto all'interno del partito democratico, è l'assoluta assenza di analisi politica, il rifiuto di considerare il futuro del paese come una delle variabili in gioco, e il prevalere di scelte personalistiche e lideristiche - condite con un po' di arroganza e molta propaganda - che si tengono lontane mille miglia da quel senso dello Stato che - nei decenni passati - era stato uno dei punti di forza del riformismo. La verità è che del vecchio riformismo italiano - ne abbiamo scritto varie volte su questo giornale prima ancora della crisi di governo - non è rimasto più nulla. E' stato sepolto dall'incapacità dei suoi gruppi dirigenti di difendere la propria autonomia dalla potenza del mercato e dei gruppi di potere capitalistici, e poi da una operazione "centrista" che ha estirpato le radici profonde della tradizione socialdemocratica e operaia che aveva sempre in qualche modo condizionato la sinistra moderata.
Ora la sinistra moderata non c'è più. Ha avuto la meglio quella specie di nuovo estremismo, isolazionista e radicalmente anticomunista (come si diceva una volta), che in questi mesi ha drammaticamente destabilizzato la politica italiana, spostato bruscamente verso il centro (e verso destra) il suo asse, delegittimato Prodi e l'alleanza di governo che si era costruita attorno a lui, infine creato l'incidente politico (il discorso di Veltroni ad Orvieto di ripudio dell'alleanza di governo) che, mescolato con l'affare Mastella (altro corno dell'estremismo politico in formato "personale") ha provocato la crisi, la caduta di Prodi, e rilanciato una destra che appariva in difficoltà, divisa, senza progetti.
Ieri i due principali leader del partito democratico "vincente", Walter Veltroni e Massimo D'Alema (che tante volte si erano presentati al pubblico in competizione tra loro) hanno firmato un patto di alleanza basato su una idea molto semplice e che - appunto - ha tutte le caratteristiche della scelta estremista e "privatista". Privatista nel senso che concepisce la politica non come un affare che riguarda la comunità, il paese, l'interesse generale - o di classe, o di idee, o di programma - ma come attività di manipolazione del potere ad uso di una persona o di un gruppo, o di un pezzo di ceto politico.
Veltroni e D'Alema hanno evitato di ragionare sulle cause del fallimento del centrosinistra, sugli errori, sull'abbandono del programma, sulle scelte conservatrici e talvolta pienamente di destra (vedi i temi della sicurezza e dell'immigrazione), sulla rottura con settori sociali tradizionalmente privilegiati (per esempio la classe operaia), sulla fine del riformismo, e anche sul ruolo negativo giocato dai frammenti liberal-democristiani dell'Unione (Dini, Mastella e altri): hanno preferito aggirare queste questioni ed elaborare una strategia della sconfitta e della resa.
Che vuol dire? Semplicissimo. Di fronte al rischio - evidentissimo in queste ore - di una svolta a destra, con fortissime caratteristiche reazionarie, che può travolgere il paese, spingerlo verso una crisi buia, verso il dominio della parte più arretrata e meno liberale della borghesia, verso nuovi grandi spostamenti di risorse e di potere, di fronte a questo uragano di destra che si profila (basta sfogliare i giornali o guardare in Tv le scene del parlamento, per capire quanto "storacismo" sia alle viste) il più importante partito del centrosinistra si dichiara interessato solo ai propri assetti interni e alle tecniche elettorali da adoperare per la propria convenienza.
E su questa base - del tutto disinteressato ai destini di tutti - delinea una strategia che prevede per l'immediato la riduzione del danno e per il futuro l'accettazione del berlusconismo e la subordinazione al suo schema. Ieri Veltroni e D'Alema hanno parlato di sovversivismo, di estremismo, di minoritarismo della sinistra radicale. E' un modo per giustificarsi, per esorcizzare il proprio male. In questo momento il partito davvero sovversivo (nel senso che usava Gramsci riferito alle classi dirigenti) è il Pd, che dopo aver rinunciato al proprio ruolo riformista e di sinistra, rinuncia anche a quello di forza nazionale e "delega" il proprio futuro a Berlusconi e alla sua vittoria.
Cosa vogliono Veltroni e D'Alema? Andare a votare, essere battuti, consegnare il potere a Berlusconi, e poi ottenere da lui una qualche forma di alleanza che permetta una riforma elettorale in senso bipartitico, che cancelli dalla politica italiana il dissenso e la rappresentanza delle classi più deboli, e che realizzi il sogno di un potere centrista permanente, spartito - in forme da definire - tra due e due soli partiti entrambi moderati. L'idea di rifiutare qualunque accordo elettorale a sinistra, pur in presenza di una legge che prevede il premio di maggioranza - e dunque di consegnare, senza combattere, il potere a Forza Italia e alla destra, è la forma nella quale si realizza questa linea avventurista del Pd, e si subordina il proprio futuro al dialogo con Berlusconi.
La partita che si è aperta oggi in Italia è questa qui. Ha due fronti. Da una parte ci sarà la battaglia da combattere per evitare che la destra si impossessi in modo incondizionato e "dominatorio" di questo paese. Dall'altra, la lotta per evitare che il bipartitismo sommerga la democrazia italiana, le sue tradizioni, la sua cultura. Su questi due fronti è chiamata a combattere la sinistra. E' chiaro che deve unirsi. Se non lo farà si assumerà una responsabilità storica enorme. E' chiaro che, anche se unita, resterà una forza modesta, rispetto ai due colossi (destra e Pd) che dominano la scena. Ma se saprà assolvere alla funzione "generale" alla quale è chiamata (una volta si diceva al compito "nazionale"...) troverà una fonte altissima di energia e di forza proprio dalla grandezza e dall'importanza del ruolo che assumerà. E a quel punto molte partite potrebbero riaprirsi. Anche perché non è detto che tutti nel Pd (anche i suoi settori più moderni e avanzati, di ispirazione cristiana o socialista) siano disponibili a seguire il gruppo dirigente del partito nell'avventura moderata e isolazionista.

Liberazione 27.1.08
Formica: «Arriveranno i partigiani? E' l'8 settembre della politica»
di Davide Varì


Rino Formica, cinquant'anni di politica, ne ha viste di tutti i colori e impietosamente commentato tutto quel che gli è passato accanto
Parla l'ex dirigente socialista: «E' crisi di sistema. La classe politica è un residuo della
prima Republica. Veltroni? E' pericoloso per la sinistra italiana ed è vittima di infantilismo»

Rino Formica, cinquant'anni di politica, ne ha viste di tutti i colori e impietosamente commentato tutto quel che gli è passato accanto. Del resto, per lui, apostolo dell'aforisma fulminante - spesso letale - la cosiddetta prima Repubblica era una riserva davvero inestinguibile: ricca di specie bizzarre e situazioni grottesche. Sua la celebre frase «la politica è sangue e merda».
Craxiano adogmatico, Formica non ha mai risparmiato nulla neanche ai suoi: «E' una corte di nani e ballerini», commentò riferito ai tanti personaggi dello spettacolo - soubrette, attorucoli e stilisti- che avevano invaso il partito che fu di Nenni.
Insomma, Rino Formica è uno che sa bene cosa si agita nel Palazzo e sa altrettanto bene cosa si sussurra nelle segrete stanze del transatlantico. Lui sa, ma di fronte alle modalità di questa crisi di governo - anzi, di fronte alla «crisi di sistema e di personale politico» - è netto, impietoso: «Queste oligarchie non hanno versato lacrime e sangue per questa Repubblica. Sono residui della prima Repubblica». A cominciare da Walter Veltroni che Formica non esita a definire «pericoloso per la sinistra».

Onorevole Formica, il governo è collassato e di fronte a noi l'ignoto. Come se ne esce? Ma soprattutto, se ne esce?
Il crollo era inevitabile. Ma la cosa che più deve preoccuparci è la mancanza di analisi intorno a questa crisi. Oggi D'Alema ha parlato di crisi di classe dirigente e crisi di sistema. Ecco, questa discussione, l'unica discussione seria ma non la si vuol fare. Troppo dolorosa.

Insomma, dobbiamo rimpiangere la prima Repubblica?
Vede, Prodi ha parlamentarizzato la crisi di Governo ma la politica non riesce a parlamentarizzare la crisi di sistema che stiamo vivendo. Io dico che il Parlamento dovrebbe discutere la natura e la causa della debolezza politica di questi ultimi 15 anni. Ma avete notato che questa nuova oligarchia non si autodefinisce più seconda Repubblica? Si vergognano. Vogliono dar ad intendere che non c'è stata cesura tra le due stagioni.

Sta dicendo che i vari Casini, Veltroni e Fini si "vendono" come politici della prima Repubblica perchè la seconda è ormai impresentabile?
Certo. Del resto nessuno ci sa spiegare da dove provengano questi nuovi soggetti politici e dove si sia formato questo nuovo personale politico.

Scarti della prima Repubblica?
Formica ride di gusto . Il fatto è che queste oligarchie non hanno versato lacrime e sangue per questa Repubblica; non è carne della loro carne, si vede. Ma avete visto come hanno ridotto il Senato? Il Senato della Repubblica è stato ridotto a quello che il fascismo minacciò ma non fece: "Un bivacco di manipoli".

A dire il vero anche nella prima Repubblica se ne sono viste delle belle...
Certo, Pajetta scavalcava lo scranno ma di la c'erano i fascisti veri. In questo momento io vedo una sola garanzia: il Presidente della Repubblica. E' lui l'ultima risorsa democratica disponibile nel Paese.

Ma come si è arrivati a questo punto?
Il crollo dei partiti, garanti e organizzatori della vita democratica, ha radicalmente mutato il rapporto tra questi e i cittadini. L'idea malsana, nata alla fine degli anni '80, secondo cui era sufficiente abbattere sigle e gruppi dirigenti per cui sarebbe sorto un sistema virtuoso con nuove classi dirigenti angeliche e innocenti ha portato alla situazione attuale. Il fatto è che da quelle ceneri si sono salvati i dirigenti politici residuali, le seconde linee.

Vie d'uscita?
L'altro giorno, nel suo discorso alla Camera il Presidente ha richiamato l'ordine del giorno che affrontava il modello costituzionale del Paese. Casualmente ce l'ho sotto mano. Lo leggo?

Prego...
"La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Bordati e Conti, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale, né quello direttoriale risponderebbero alla società italiana, si pronuncia per l'adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi con principi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo".

Qualcuno lo ha dimenticato?
Direi che bisognerebbe consegnarne una copia a tutti i parlamentari. Ecco, l'impianto di quell'ordine del giorno era fondato sul parlamentarismo garantito dai partiti di massa. Ed è qui la sconfitta della sinistra.

Solo della sinistra?
Certo, senza democrazia la destra campa benissimo. La sinistra no. Senza democrazia la sinistra muore. E un chiaro segnale di questo deficit culturale è dato dalla mancanza di dibattito intorno all'ipotesi referendum elettorale. Un'ipotesi semplicemente anticostituzionale che cozza clamorosamente contro l'ordine del giorno di cui sopra. Questa classe dirigente è l'otto settembre. Mi chiedo: arriveranno i partigiani?

Torniamo alla situazione di oggi: Berlusconi invoca elezioni, Napolitano resisterà?
Berlusconi ha le carte per vincere, perchè dovrebbe rinviare la partita? Il Presidente ha chiesto una "tregua istituzionale", ma i partiti dovrebbero impegnarsi e i presidenti di Camera e Senato garantire. La vedo difficile.

E Veltroni? Sembra terrorizzato dall'idea di andare al voto...
Per come ha navigato nella fase preliminare di questa crisi dimostra un pericoloso infantilismo. Prima liquida il governo e poi chiede elezioni. Il fatto è che Veltroni è vittima della degenerazione salottiera della politica. Soprattutto della politica romana composta da massoni, clericali, palazzinari e banchieri.

Liberazione Settimanale 27.1.08
Revelli: «Solo con la sua pratica il conflitto diventa efficace»
Gandhi un "pacificato", un predicatore della "sopportazione"? «Tutt'altro»


Gandhi un "pacificato", un predicatore della "sopportazione"? «Tutt'altro». La nonviolenza una pratica che sacrifica il conflitto? «Al contrario, semmai lo dilata, lo rende più accessibile, ma rinuncia alla barbarie». Con Marco Revelli, storico e studioso, ordinario di scienza della politica all'Università del Piemonte Orientale, cerchiamo di capire in cosa consista, e in che termini si possa declinare, la traduzione contemporanea del messaggio gandhiano. E perché oggi, in una società globalizzata che moltiplica i fattori di ingiustizia e di oppressione, la nonviolenza sia da considerare la sola risposta «efficace», non già un percorso di «accettazione dell'esistente». Un'occasione di «trasformazione» tanto collettiva e sociale quanto antropologica e interiore.

Professore, la sua esperienza personale è in qualche modo paradigmatica. Lei ha detto di non essere nato "nonviolento", esattamente come la sinistra non nasce "gandhiana". Perché era inevitabile che questo approdo fosse così tormentato?
La tradizione in cui mi colloco è sicuramente pacifista ma non integralmente nonviolenta. I miei riferimenti sono alla cultura radicale, democratica e antifascista. La mia esperienza si è poi intrecciata ai movimenti di rivolta della fine degli anni ‘60 e dell'inizio dei ‘70, al movimento studentesco e alla sinistra rivoluzionaria. Quei movimenti nascono in buona misura in contrapposizione alla guerra, prima contro quella coloniale in Algeria, poi contro quella americana in Vietnam, in cui i simboli della pace si mescolavano con la solidarietà attiva alla guerriglia. In quella cultura di radicale resistenza alle forme di ingiustizia stava un ventaglio ampio di posizioni che andavano dal pacifismo assoluto, integralmente nonviolento, fino alla resistenza armata contro l'oppressione. Ben inteso: anche allora molti di noi avevano come riferimenti figure di nonviolenti come Aldo Capitini e Danilo Dolci. Ma non dimentichiamo che la loro azione si collocava all'interno della tradizione resistenziale. Capitini prese parte alla Resistenza senza usare le armi ma stette fianco a fianco a quelli che le armi le avevano prese.

Intende dire che in talune circostanze la nonviolenza può ammettere deroghe?
Qui ci aiuta un riferimento diretto alla figura di Gandhi, attorno alla quale temo siano sorti alcuni equivoci. Egli viene identificato a ragione con un'idea di nonviolenza impegnativa e integrale, ma nello stesso tempo ciò è associato ad una condanna indistinta e indifferenziata di ogni forma di violenza. Non è vero: Gandhi non nega la violenza laddove essa si esprime come resistenza all'oppressione. Egli pone la lotta nonviolenta al punto più alto in termini sia di efficacia che di capacità di trasformazione dell'esistente. Ma per quanto riguarda gli oppressi, coloro che subiscono forme intollerabili di ingiustizia, dice anche - e in questo è molto esplicito - che tra chi le subisce passivamente e chi si ribella anche con la forza, sceglie i secondi. Non confondiamo Gandhi con un conciliato, con il predicatore della sopportazione e della accettazione dell'ingiustizia: se egli attribuiva una preferenza alla lotta nonviolenta è perché la riteneva più efficace per la sua capacità di raggiungere il superamento di una condizione di oppressione.

La nonviolenza, dunque, non è rinuncia al conflitto.
Gandhi è un conflittuale, la sua è una "lotta" nonviolenta, non è nonviolenza contrapposta all'idea di lotta. E la nonviolenza è intesa come mezzo più adeguato per permettere ai più deboli di lottare anche contro nemici apparentemente invincibili sul piano della forza. Non è affatto riduzione degli spazi di conflitto, ma il riscatto dell'idea stessa di conflitto anche in situazioni in cui esso può apparire impossibile. Cosa che avviene in due circostanze: o quando il rapporto di forza è manifestamente sbilanciato o quando i mezzi con cui il conflitto andrebbe combattuto sono talmente distruttivi che lo renderebbero molto costoso per entrambe le parti.

Quella di Gandhi è considerata un'esperienza "felice" che però si colloca in una fase storica molto precisa, in un orizzonte circoscritto, in cui ha pesato anche l'implosione dell'imperialismo britannico. In che modo questa esperienza è replicabile?
Oggi la volgarità e la brutalità del potere sono sotto gli occhi di tutti. Dal Kosovo, all'Iraq, all'Afghanistan: la circolarità dei mezzi utilizzati da entrambe le parti del conflitto e il loro abbrutimento, questo carattere disgustoso e orrendo dell'esercizio del potere globale indubbiamente lasciano carichi di angoscia. E' uno scenario inguardabile rispetto al quale si scorgono solo alcuni barlumi di speranza, forme di resistenza che tuttavia affidano la loro promessa di durare e costruire un'alternativa proprio al metodo che usano: dalle donne afgane e irachene, alle comunità di nomadi nel Kosovo, ai nostri movimenti territoriali…

Di fronte alla trasformazione dei poteri, alla moltiplicazione dei fattori di squilibrio e ingiustizia, non c'è il rischio che la nonviolenza possa essere interpretata come accettazione dell'esistente? Perché invece, a suo giudizio, è la sola via percorribile?
La guerra infinita, la disseminazione delle tecnologie distruttive, il carattere spesso impersonale del dominio che non è più rappresentato semplicemente da apparati statali, ma è colonizzazione ancor più totalitaria di grandi concentrazioni finanziarie e industriali. Ecco, tutte queste forme dure di oppressione rendono l'arma della rivolta spuntata proprio per lo spaventoso divario di forza che c'è tra microcomunità e poteri globali spesso invisibili. O si è in grado di porre in atto forme di resistenza che costruiscano anche un'alternativa di valori - come appunto la nonviolenza richiede - oppure si rischia di essere stritolati sotto i cingoli di questa macchina globale strapotente e impersonale. In un confronto così impari, quello della nonviolenza a me pare uno strumento liberatorio, perché da una parte apre la strada alla possibilità del conflitto anche in condizioni di assoluto svantaggio, dall'altra parte consente di giocare la partita non solo sul terreno del rapporto di forza, ma anche su quello della trasformazione personale.

La distinzione tra pacifismo come ideologia e nonviolenza come pratica, allora, non è puramente accademica. Lei scorge in quest'ultima un valore aggiunto, una "cifra" antropologica?
La nonviolenza, così come praticata da Gandhi, è una forma di lotta che non opera soltanto sugli aspetti esteriori, sui rapporti di forza: implica anche un lavoro sui soggetti, una trasformazione interiore sia di sé che dell'avversario. E quindi non poggia solo su tecnologie del conflitto, ma anche sulla dimensione esistenziale ed etica di coloro che lo combattono. E' l'esatto opposto della violenza, che finisce per abbrutire anche chi sta dalla parte della ragione. Laddove i metodi violenti sono semplicemente un problema di tecnologia della distruzione, la nonviolenza comporta un processo difficile di autoeducazione, la necessità di aumentare la propria virtù, la propria capacità di amore, il rispetto di sé e degli altri.

Torniamo all'efficacia della lotta nonviolenta. Essa ha contaminato anche larga parte dei movimenti e alcune esperienze di "resistenza territoriale" in Italia. In che misura l'adozione di queste pratiche può risultare vincente?
Io ho conosciuto dall'interno la lotta per la Val di Susa. E posso dire che se non fosse stato per l'approccio "radicalmente" non violento, quella resistenza "radicale" non avrebbe potuto esprimersi con quella forza, in tutte le sue manifestazioni fino alla riconquista di Venaus: in quello straordinario corteo sui sentieri di montagna, senza colpo ferire in un'ora si è riconquistato ciò che la polizia aveva occupato con una violenza brutale sul presidio. La scelta del metodo è fondamentale: solo l'opzione nonviolenta può spiegare la capacità di durata di quella lotta, la sua capacità di unificare la popolazione, respingere le provocazione dei poteri e mantenere, malgrado la durezza del conflitto, un volto sorridente e pulito. E di parlare a tutti.

Il Sole 24 Ore Domenica 27.1.08
La vera lezione di Auschwitz
La Shoa oggi viene troppo legata alla difesa di Israele. Perdendo il suo significato universale
di Tony Judt

Testo tratto dal discorso tenuto all'autore a Brema, in occasione del ricevimento del premio Hannah Arendt.


Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e l'Olocausto è mutato. All'inizio l'identità di Israele fu costruita sul rifiuto del passato, trattando l'Olocausto come una prova di debolezza, una debolezza che era compito di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Oggi, quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il modo di gestire i rapporti con i palestinesi e per l'occupazione del territorio conquistato nel 1967, i suoi difensori tendono a chiamare in causa la memoria dell'Olocausto. Attenti, dicono, se criticate Israele con troppa veemenza, sveglierete i demoni dell'antisemitismo. Anzi, il messaggio è che un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Israele non si limita a risvegliare l'antisemitismo: ~ di per sé antisemitismo. E con l'antisemitismo si apre la strada che porta - o ritorna - al 1938, alla "notte dei cristalli" e di là a Treblinka e ad Auschwitz. Se volete sapere dove va a finire, dicono costoro, non avete che da visitare Yad Vashem a Gerusalemme, l'Holocaust Museum a Washington o i monumenti commemorativi e i musei sparsi in tutta Europa.

Comprendo i sentimenti che dettano queste affermazioni. Ma queste affermazioni in sé sono molto pericolose. Quando a me e ad altri, con la scusa che non vanno risvegliati gli spettri del pregiudizio, viene rimproverato il dissenso nei confronti di Israele, rispondo che il problema va posto al contrario. E proprio un tabù del genere che può stimolare l'antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori, negli Stati Uniti e altrove, per tenere conferenze sulla storia europea del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono gli argomenti che tratto anche nell'università dove insegno. E posso dire quali conclusioni ne ho derivate. Oggi non c'è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio degli ebrei, le conseguenze storiche dell'antisemitismo e il problema del male. Tutti conoscono queste cose, con un'ampiezza ignota ai loro genitori. Ed è così che dev'essere. Ma mi ha colpito recentemente la frequenza con cui affiorano nuove domande: «Perché ci fissiamo sull'Olocausto?», «Perché (in certi Paesi) è illegale negare l'Olocausto ma non altri genocidi?», «Non si sta esagerando la minaccia dell'antisemitismo?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele sta usando l'Olocausto come scusa?».

Due sono i miei timori: che sottolineando l'eccezionalità storica dell'Olocausto e al contempo invocandolo costantemente in riferimento alle vicende contemporanee, abbiamo creato confusione nei giovani; e che gridando all'antisemitismo ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi stiamo allevando una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi l'esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli ebrei non si trovano ad affrontare minacce e pregiudizi neppure lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze. Facciamo un piccolo esercizio. Vi sentireste al sicuro, accettati e benvenuti, negli Stati Uniti, oggi, se foste un musulmano o un immigrato clandestino? E se foste un "Paki" in certe zone dell'Inghilterra? O un marocchino in Olanda? Un "beur" in Francia? Un nero in Svizzera? Uno "straniero" in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in Europa? E non vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati come ebrei? Credo che siamo tutti in grado di rispondere.

In molti di quei Paesi - Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della Germania - la minoranza ebrea locale è fortemente rappresentata nel mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di quei Paesi gli ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.

Il pericolo di cui gli ebrei - e non solo loro - dovrebbero preoccuparsi, se c'è, viene da un'altra direzione. Abbiamo agganciato la memoria dell'Olocausto così saldamente alla difesa di un unico Paese - Israele - che rischiamo di provincializzarne il significato morale.

È vero, il problema del male nel secolo scorso, per citare Hannah Arendt, ha preso la forma del tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta solo dei tedeschi e non si tratta solo degli ebrei. Non si tratta neppure solo dell'Europa, anche se è là che quel tentativo è avvenuto. Il problema del male - del male totalitario, del male del genocidio - è un problema universale. Ma se lo si manipola per trarne un vantaggio locale, ciò che accadrà (e io credo stia già accadendo) è questo: coloro che vivono in contesti lontani da quel crimine - o perché non sono europei o perché sono troppo giovani perché per loro il ricordo di quell' evento abbia rilevanza - non capiranno che rapporto abbia con loro la memoria che ne viene coltivata e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di spiegarglielo.
In altre parole l'Olocausto perderà la sua risonanza universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il modo per mantenere intatta la lezione centrale che davvero può venirci dalla Shoah: e cioé la facilità con cui le persone - un popolo intero - possono essere diffamate, demonizzate e annientate. Ma non approderemo a nulla, se non riconosciamo che questa lezione potrà anche essere messa in dubbio e dimenticata. Se non mi credete, andate a chiedere, fuori dai paesi sviluppati dell'Occidente, qual è la lezione di Auschwitz. Avrete riposte ben poco rassicuranti.

Non c' è una soluzione facile a questo proble!la. Ciò che pare chiaro agli europei dell'Euro'a occidentale è ancora oscuro per gli europei di'Est, come era oscuro agli stessi europei !ell'Ovest quarant'anni fa. Il monito morale di mschwitz, che campeggia a caratteri cubitali ullo schermo della memoria europea, è quasi !lvisibile per africani e asiatici. E ancora - e fore soprattutto - ciò che sembra lampante alle lersone della mia generazione avrà sempre neno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. 'ossiamo preservare un passato europeo che la memoria sta sfumando in storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?

Forse tutti i nostri musei, i nostri monumenti commemorativi, le nostre gite scolastiche obbligatorie non sono il segno che oggi siamo pronti a ricordare, ma indicano invece che riteniamo di esserci lavati la coscienza e di poter cominciare a mollare e a dimenticare, delegando alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l'ultima volta che sono stato al Monumento agli ebrei d'Europa assassinati, a Berlino, annoiati ragazzini in gita scolastica giocavano a rimpiattino tra le steli. Quello che so per certo è che se la storia deve svolgere il compito che le compete, e conservare per sempre traccia dei crimini passati e di tutto il resto, è meglio lasciarla stare. Qµando andiamo a saccheggiare il passato per profitto politico - scegliendone i pezzi che fanno al caso nostro e reclutando la storia a insegnare opportunistiche lezioni morali - ne caviamo cattiva morale e anche cattiva storia. Nel frattempo, forse dovremmo, tutti quanti, fare attenzione quando parliamo del problema del male. Perché di banalità ce n'è più di un tipo. C'è la notoria banalità di cui parlava Hannah Arendt: l'inquietante, normale, familiare, quotidiano male dentro gli esseri umani. Ma c'è anche un'altra banalità, quella dell'abuso: l'effetto di appiattimento e desensibilizzazione del vedere o dire o pensare la stessa cosa troppe volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo inmmne al male che descriviamo. Questa è la banalità -la banalizzazione - che rischiamo oggi.

Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il problema del male perché per loro - aveva troppo significato. La generazione che verrà dopo di noi corre il pericolo di accantonare il problema perché ora contiene troppo poco significato. Come si può impedire che ciò avvenga? In altre parole, come si può fare in modo che il problema del male resti la questione fondamentale della vita intellettuale, e non solo in Europa? Non ho una risposta ma sono sicuro che questa è la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt ha posto sessant'anni fa. E sono certo che la porrebbe ancora oggi.

Di Tony Judt è in libreria «Dopoguerra». Mondadori. pagg.l.076. €32.00.