lunedì 28 gennaio 2008

l’Unità 28.1.08
Bertinotti a «Che tempo che fa»
«Una nuova legge elettorale è nell’interesse di tutti»


MILANO «Una nuova legge elettorale va a vantaggio di tutti perché le regole generali se sono buone vanno nell'interesse di tutti». Lo ha dichiarato il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ospite della trasmissione «Che tempo che fa», condotta da Fabio Fazio su Rai Tre. «Se qualcuno è convinto di vincere comunque le prossime elezioni, meglio ancora per lui», ha continuato Bertinotti riferendosi a Berlusconi. «Questo sistema elettorale spinge a mettersi insieme il bianco e il nero», ha proseguito il presidente della Camera: «Auspico una legge elettorale trasparente che dia alla maggioranza la capacità di governare». Bertinotti ha anche sottolineato che le persone di sinistra «hanno il diritto di avere un soggetto politico unitario» a sinistra del Partito democratico, riferendosi alla Sinistra Arcobaleno. Il presidente della Camera ha anche sostenuto di essere contrario alla Grosse Koalition e di auspicare un sistema elettorale proporzionale con uno sbarramento al 5 per cento. Alla domanda di Fazio se fosse interessato a ricoprire un incarico politico nella prossima legislatura, Bertinotti ha risposto che «non ci sono uomini per tutte le stagioni politiche. Per dirigere una compagine politica devi avere l'età e secondo me ci dovrebbe essere un limite di età per i segretari di partito così come c'è un limite anche per i vescovi. Escludo di farlo». .

l’Unità 28.1.08
Verdi: «Parta subito la Sinistra arcobaleno»


Il consiglio federale nazionale dei Verdi, su proposta approvata all'unanimità del presidente Alfonso Pecoraro Scanio, dà mandato all'avvio della costituente ecologista, arcobaleno e civica entro marzo nel caso di elezioni anticipate. I Verdi «confermano la scelta di costruire un'alleanza programmatica della Sinistra Arcobaleno in caso di voto anticipato». E propongono che si rilanci «una nuova coalizione di centrosinistra che abbia come interlocutori il Pd, le forze laiche, riformatrici e civiche del Paese, con l'obiettivo di indicare una proposta di governo per il Paese e battere le destre e Berlusconi». I Verdi ringraziano Romano Prodi e rivendicano gli obiettivi raggiunti. E dicono sì a un governo a termine «che abbia come base di partenza le forze dell'unione che hanno confermato la fiducia a Prodi».

l’Unità 28.1.08
Elie Wiesel: «La Shoah resta il male assoluto»
di Umberto De Giovannangeli


GIORNO DELLA MEMORIA Parla lo scrittore premio Nobel nel 1986: «Dimenticare è impossibile e significherebbe uccidere una seconda volta le vittime. Ma non c’è solo il rischio dell’oblio: Ahmadinejad e il terrorismo sono pericoli reali»

«Non possiamo, non dobbiamo dimenticare ciò che accadde nei lager nazisti. E che al fondo dell’Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli di esistere: chi lo nega infligge alle vittime dei campi di sterminio una seconda morte». A parlare, nella Giornata delle Memoria, è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse 11 mesi.
Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. «L’antisemitismo e l’odio razziale - riflette Wiesel - segnano anche questo inizio secolo. Non posso perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta». Parla a ragion veduta, il grande scrittore, Lui il mostro nazista l’ha visto negli occhi: «Non credo - afferma - che esista il Bene assoluto, nella mia vita, almeno, non l’ho mai incontrato . Ma il Male assoluto l’ho conosciuto e da allora non mi ha più abbandonato: l’ho visto negli occhi dei nostri carnefici, e nelle pietose giustificazioni di chi ripeteva: “Io non c'entro, non sapevo” e lo ritrovo anche oggi in chi nega che l'Olocausto fu innanzitutto il tentativo di annientare gli ebrei». Oggi ricorda Elie Wiesel, lo spettro di una nuova Shoah torna ad essere agitato da «una figura che non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per ciò che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità. Il nome di questa persona è Mahmoud Ahmadinejad: costui rappresenta la parte più buia dell'orizzonte politico odierno». «Spero che il 2008 - afferma Elie Wiesel - possa essere davvero l’anno della pace in Medio Oriente», ma lo scenario internazionale, e non solo quello mediorientale, è segnato pesantemente dalla crescente insicurezza globale dovuta al terrorismo. «Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo pieno di paura - riflette il grande scrittore della Memoria - cosa ne faremo, lo trasformeremo in una fortezza?».
Nella Giornata della Memoria, è importante raccontare soprattutto ai giovani cosa è stato l'Olocausto. Compito a cui lei non si è mai sottratto. A un ragazzo di oggi che le chiedesse: cosa è stato l'Olocausto?, che risposta darebbe?
«È stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah».
La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni.
«No, no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito».
Molti dei suoi libri hanno trattato il tema della memoria, del ricordo e dell'oblio, e di come la tragedia dell'Olocausto si è trasmessa di padre in figlio nel popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora.
«È il tema dell’identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, L'oblio, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, nella Giornata della Memoria, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell'Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna».
Signor Wiesel, per chi ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola «perdono»?
«È la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka…. No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantatre anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen…Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».
Dal passato che non passa, ad un presente inquietante. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché?
«Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell’offendere la memoria dei sopravvissuti all'Olocausto ancora vivi, glorifica l’arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la “soluzione finale” di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadinejiad, non c’è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue “promesse”. Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c’è dietro l’organizzazione terrorista degli Hezbollah? L'Iran. L'Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Ma cosa vogliono gli Hezbollah? Concezioni territoriali? No. La creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele, cosa che personalmente mi auguro? No. L’unico obiettivo di questo movimento - e del presidente iraniano - è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità».
Nella sua visita in Israele, il presidente Usa Bush, al museo dello Yad Vashem, si è chiesto del perché gli Alleati non avessero bombardato prima Auschwitz. Secondo un filone storiografico, ciò non avvenne perché gli Alleati temevano che bombardando avrebbero ucciso migliaia di prigionieri del campo.
«Questa motivazione non regge. Prima però mi lasci dire che ho molto apprezzato le parole del presidente Bush. Il suo è stato un atto di coraggio che è mancato ai suoi predecessori…».
Lei parlava di una scusa…
«Io ero ad Auschwitz. E posso dirle che ogni volta che assieme ai miei compagni di sventura sentivamo gli aerei sorvolare Auschwitz, pregavamo che bombardassero: sarebbe stata una morte preferibile alle camere a gas. La verità è che non solo gli angloamericani ma anche i russi, avrebbero potuto bombardare i binari della ferrovia che portava ad Auschwitz. In tal modo si poteva salvare la vita di decine di migliaia di ebrei. Così non è stato. E credo che il rimorso per non aver dato l’ordine di bombardare abbia accompagnato i responsabili per tutta la loro vita».

l’Unità 28.1.08
Psicoterapia popolare alla sbarra
di Luigi Cancrini


Caro Luigi,
in qualità di Presidente dell'Ordine degli Psicologi del Lazio, sono delusa ed amareggiata dagli ultimi sviluppi della proposta di legge sulla psicoterapia a convenzione. Il progetto iniziale, da noi condiviso sin dal 2001, avrebbe finalmente dato il crisma della legalità e dell'ufficialità alla prassi, in base alla quale il Dirigente sanitario (medico o psicologo), per ovviare al problema delle liste di attesa causato dalla carenza di psicoterapeuti nel SSN, invia al settore privato, ad esempio, giovani utenti che possono sostenere le spese di una psicoterapia. Come ben sai, questa è ormai la prassi consolidata e in tutti questi anni non si è mai verificato alcun problema, ma, anzi, i pazienti ed i familiari hanno sempre ringraziato, anche se costretti a pagare di tasca loro le psicoterapie. La mia delusione, che ho espresso nell'incontro da te convocato a Roma il 22 gennaio, deriva dalla previsione della «conferma diagnostica» da parte di un medico specialista in psichiatria o in neuropsichiatria infantile, che, oltre ad essere lesiva dell'autonomia organizzativa delle Regioni e dei servizi territoriali, crea a livello legislativo un subliminale quanto pericoloso pregiudizio nei confronti degli psicoterapeuti psicologi. D'altronde, credo che nessuno possa dissentire quando Adriano Ossicini, medico, professore di Psicologia e padre fondatore della legge istitutiva della professione di psicologo, afferma: «distinguere diagnosi da terapia è un non senso scientifico... Nessuno pensa che la diagnosi possa essere staccata dalla terapia. Si tratta di un processo, di un continuum con prevalenti momenti diagnostici o terapeutici, la stessa terapia aggiorna la diagnosi, la stessa diagnosi non può essere staccata da un rapporto con il paziente che è fondamentale, che non può essere occasionale o interrotto meccanicamente». Per tutto quanto finora espresso avrei auspicato che potesse realizzarsi quel progetto originario, contenuto nella proposta di legge popolare del 2001, che recitava: «La modalità di accesso alla psicoterapia nel privato accreditato, deve essere effettuata dal Dirigente Sanitario del SSN (medico o psicologo) abilitato alla psicoterapia, come previsto negli artt. 3 e 35 della L. 56/89».
Marialori Zaccaria, Presidente Ordine Psicologi Lazio

Le assemblee che sto facendo in giro per l'Italia e quella, in particolare, di Roma del 22 ultimo scorso mi hanno convinto prima di tutto della validità del lavoro che abbiamo fatto fino ad oggi. La decisione di riprendere dal fondo del cassetto in cui cinque anni di governo della destra l'avevano lasciata la proposta di legge d'iniziativa popolare sull'accesso alla psicoterapia ha ottenuto un risultato straordinario che sta sotto gli occhi di tutti: convincere tutte le forze politiche presenti in Parlamento e tutti i rappresentanti degli Ordini Professionali, compreso quello dei Medici, del fatto per cui il sistema sanitario nazionale deve garantire a tutti i cittadini la possibilità di curarsi con forme diverse di psicoterapia riconosciute oggi solo ai parlamentari, ai dirigenti industriali e ai giornalisti. Un fatto che non era affatto scontato all'inizio della legislatura. Un fatto che ci deve far guardare con ottimismo al futuro di questa legge: anche nel caso in cui ci fossero delle elezioni e a vincere fosse la destra, infatti, le posizioni prese a favore di questa legge sono così autorevoli e così forti da renderne molto probabile l'approvazione definitiva.
Un secondo dato che è emerso con chiarezza da queste consultazioni è quello relativo alla importanza di una partecipazione costruttiva dei professionisti e di chi li rappresenta nella scrittura di una legge che li riguarda. Quello che non è per niente facile immaginare a volte, dall'interno di una commissione parlamentare, è la complessità delle conseguenze che si determinano nel momento in cui si redige un testo a livello dei servizi e delle categorie professionali: come ci ricorda ora, una volta di più, la tua lettera sul problema della diagnosi. Avevo scritto, una settimana fa che affidare allo psichiatra o al neuropsichiatra infantile una conferma diagnostica preliminare alla predisposizione di un progetto psicoterapeutico non doveva essere considerato come un fatto di grande gravità. Il lettore cui rispondevo diceva che questo solo fatto trasformava la legge in un "obbrobrio" ed io gli dicevo che quello era un passaggio discutibile ma non fondamentale per chi affida a questa legge la finalità di dare accesso alla psicoterapia a chi ne ha bisogno. Quello su cui tu ora mi scrivi e su cui tanto si è insistito nel corso della assemblea è il fatto tuttavia che, scritto così, quel testo incide sulla attività quotidiana dei servizi che possono già offrire direttamente la psicoterapia. Tocca alle Regioni l'organizzazione dei servizi di cui si parla nella legge e la legge così come è scritta oggi potrebbe creare dei problemi serii a quelle Regioni che hanno creduto nel carattere multidisciplinare dei servizi e nella necessità di mettere in rete le diverse competenze professionali.
È in questa direzione che si potrà ritoccare il testo, ovviamente, in questa legislatura o nella prossima se davvero alle elezioni si andrà. Quello su cui vorrei insistere ancora prima di chiudere, tuttavia, è il significato più generale di quello che sta accadendo. In una fase come questa, una fase in cui in tanti si danno da fare per squalificare gli uomini politici considerati nel loro complesso, l'effetto che si determina, consapevolmente o no, è un effetto che favorisce la destra. «Meno Stato e più mercato» ha sempre predicato un uomo come Berlusconi e una delegittimazione forte della politica serve, in effetti, soprattutto a chi, come lui, ha molte cose da farsi perdonare ed ha tutto l'interesse a dire ed a far credere che «sono tutti come lui». Quello che è difficile vedere e far vedere è, in queste condizioni, il fatto che c'è gente, nel Parlamento, che si affatica e si confronta per scrivere una legge che serve ai cittadini e che si rende disponibile, per farlo nel modo migliore possibile, al numero più ampio possibile di incontri e di consultazioni: gente la cui capacità di lavoro viene travolta, oggi, dalla boria e dalla irresponsabilità di leaders, veri o presunti tali, che si muovono su logiche di schieramento che poco o nulla hanno a che fare con i problemi e con le attese dei cittadini.
Dovesse mai finire qui perché anche questo è possibile, i risultati comunque raggiunti in tema di psicoterapia sono importanti soprattutto per questo motivo: perché fanno pensare a quanto sia importante per tutti noi il fatto che i politici ci siano e lavorino nel rispetto del mandato che ricevono dagli elettori ed in un rapporto costante con loro. Evitando nei limiti del possibile quella spettacolarizzazione lideristica della politica verso cui con leggerezza sconcertante si sta andando. Da noi ed in altri paesi.

Repubblica 28.1.07
La moratoria sull'aborto ultima violenza alle donne
di Gustavo Zagrebelsky


In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la legge sull´interruzione volontaria della gravidanza, "la 194", che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.
Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario delle parole d´ordine a effetto, che fanno confusione, servono per "crociate" che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan "moratoria dell´aborto", stabilendo una "stringente analogia" (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello "scontro di civiltà" che, molti insofferenti della difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.
Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle donne"? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull´essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.
Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa, questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione, solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è l´orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello scandalo, scartata e male o punto tollerata. D´altra parte, non solo la gravidanza, ma l´aborto stesso, percepito come via d´uscita da situazioni di necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna, costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C´è poi un potenziale di somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L´iniqua ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si avvalgono, come loro mezzo, dell´aborto.
Violenze su violenze d´ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull´essere indifeso ch´essa porta in sé. E´ certamente una tragica condizione quella in cui il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza. Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l´aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa patisce la crudeltà della natura e l´ingiustizia della società; una condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all´ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.
In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è capitale per capire di che cosa parliamo.
Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l´aborto come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books del 1991, ha richiamato l´attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne mancano all´appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi e femmine in Paesi come l´India e la Cina (ma la questione riguarda tutto l´estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad esempio, che in Cina, nel 2030, l´eccesso di uomini sul "mercato matrimoniale" potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate. Le cause immediate, però, sono l´aborto selettivo e l´infanticidio a danno delle bambine, oltre che l´abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la richiesta di "moratoria" ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.
E diverso, in riferimento alle società dove l´aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a chiedere la "revisione" della legge che "regola" l´aborto. Ma l´obbiettivo è quello, come la "stringente analogia" con l´abolizione della pena di morte mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge giusta che regoli l´aborto».
Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a colpire? E´ l´ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire: l´inerme, il fragile, l´incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro l´arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l´aborto finirebbe per caricarla integralmente dell´intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha nell´apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione dell´aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.
«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del 1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l´uno dipendente dall´altro, entrambi titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell´uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall´altro, sta il diritto all´esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella negazione del diritto dell´altro. Per questo, è incostituzionale l´obbligo giuridico di portare a termine la gravidanza, "costi quel che costi"; ma, per il verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna, cioè il suo "diritto potestativo" sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto "la 194", prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni), è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut aut.
Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non negoziabili": l´autodeterminazione della donna contro l´imposizione dello Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali (l´aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un´altra concezione incentrata sull´organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non possibile salvare e l´una e l´altra: la sensibilità non cattolica più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.
Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la nascita d´un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto questo dipende l´aborto "di necessità", che – si dirà - è però una parte soltanto del problema. Ma l´altra parte, l´aborto "per leggerezza", troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l´equiparazione dell´aborto all´omicidio e della donna all´omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine, nell´umiliazione e nel rischio per l´incolumità. L´esito del referendum del 1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194", dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l´aborto clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l´esperienza, per ravvivare il ricordo.

Repubblica 28.1.07
La memoria e la Shoah
Il discorso di David Grossman all’Università di Firenze
Grossman racconta la Shoah: la memoria sta nei luoghi e nell'arte
Leib e Ester, gli ebrei salvati da una prostituta polacca


Gli interrogativi che quella tragedia ci pone riguardano anche i nostri rapporti con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione
La storia di Leib ed Ester Rochman non è fra le più terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza che da anni non mi dà pace

Lo scrittore israeliano ha ricevuto ieri a Firenze la laurea ad honorem. Pubblichiamo parte del discorso che ha letto durante la cerimonia.

Sei milioni di ebrei morirono in Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell´umanità e dopo il quale l´umanità non fu più la stessa. Ecco alcuni interrogativi che la Giornata della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo, e autentico, oppure, con l´andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale?
E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l´incisività e l´attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno ancora oggi, soprattutto oggi?
Queste domande concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l´indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano?
In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale d´avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita? (...)
Mentre gli altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah – e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne – noi, in Israele, siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell´angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoah ha lasciato impresso in noi. In un certo senso si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove si attivò come "assistente sociale" tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch´ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Leib ed Ester, insieme con la sorella minore di quest´ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna polacca il cui soprannome era "Ciotka", zia in polacco, un´anziana prostituta cordiale e piena di vita. (...) Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete-nascondiglio, a poca distanza da quella originaria. Leib, sua moglie e sua cognata vissero nell´intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po´, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim. Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo che, per quanto non fosse loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero quasi rimasti ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica. (...)
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. (...) Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: ma come, sono rimasti così tanti ebrei?
Una notte trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto, il cui recinto era stato sfondato, e lì trascorsero la notte. C´erano giacigli e tavolacci e su quelli dormirono. La mattina, al loro risveglio, scoprirono di essere nel campo di concentramento di Meidanek, liberato un paio di giorni prima dai russi, e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno gironzolarono per il campo e all´improvviso videro la Shoah.
Non sapevano esattamente che cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e i cumuli di cenere di chi era stato bruciato. Non riuscivano a crederci: tutto era lì, sotto i loro occhi, eppure non riuscivano a capacitarsi che fosse successo veramente, che una cosa simile fosse stata possibile. A quel punto si imbatterono in un gruppo di ufficiali e di guardie del campo catturati dai russi. I soldati dell´Armata rossa accerchiavano i tedeschi che stavano seduti al centro, prigionieri.
Così, nello stesso giorno, Leib e compagni videro le vittime e i carnefici. I carnefici in carne ed ossa. Non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì, davanti a loro, erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della "soluzione finale".
Di colpo Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile, con l´intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò, odiò se stesso, ma non poté farlo.
Allora gridò, in yiddish: Aufstein, Fallen! – In piedi! A terra! I tedeschi, sicuri che stesse per ucciderli, fecero ciò che ordinava loro, terrorizzati. Scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra, più volte. Leib capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli. Non sapendo cosa fare buttò via il fucile, si ritirò in disparte e scoppiò a piangere, a tossire e per la prima volta sputò sangue. Allora scoprì di essere malato di tubercolosi.
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero nella terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest´ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell´emittente radio israeliana "Kol Israel" ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell´animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altre milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi "questioni" relative alla Shoah, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sull´incremento del numero dei neo-nazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell´antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria – errata e inammissibile a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah, si fa sempre più accesa.
Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall´orrore palese. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente.
Proprio le vicende individuali, private, sono il "luogo" più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell´epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini?
Ho l´impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per conto proprio – fino a che non ci sottoporremo a questo auto-interrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo.
Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti – e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da "Yad vaShem", il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoah, e, nell´ultimo decennio, dall´archivio Spielberg – più cresce l´importanza dell´arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i "luoghi" in cui l´individuo moderno può affrontare la Shoah e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere.
Traduzione di Alessandra Shomroni

Corriere della Sera 28.1.08
Il personaggio La figura dell'intellettuale francese e la sua lezione riproposta da Jean Daniel: un modello di libertà e resistenza
Camus, il coraggio di dire no
Giustizia, onore, felicità: un'etica per il giornalismo contro l'«aria del tempo»
di Claudio Magris


In un capitolo del suo fulmineo Vicino & lontano, che afferra squarci di realtà come un falco, Alberto Cavallari, il più camusiano del giornalisti e degli scrittori italiani, ricorda come Camus affermasse che la coscienza vale più della sopravvivenza. Anch'egli del resto, era capace di «resistere all'aria del tempo», come dice il sottotitolo del libro che Jean Daniel ha dedicato all'autore francese e soprattutto alla sua attività di giornalista,
Avec Camus ( Con Camus). Un piccolo capolavoro, un modello di asciutta prosa classica che si vorrebbe mettersi in tasca e portarsi dietro come un breviario laico di libertà e resistenza.
Fondatore ed editorialista del Nouvel Observateur,
Jean Daniel è un testimone d'eccezione degli ultimi decenni di storia e di vita di quella cultura francese che è stata una coscienza d'Europa. Non a caso è stato molto vicino a Camus, che si è gettato nell'attività di giornalista con la medesima assolutezza che gli ha fatto scrivere Lo straniero o La peste.
La grandezza di Camus consiste nell'aver unito un'inflessibile etica a un'inesauribile capacità di felicità, di vivere a fondo la vita come un ballo popolare o una solare giornata marina, pur nella sua tragicità guardata in faccia, rifiutando ogni morale che reprima la gioia e il desiderio. Camus ha un sacro, religioso rispetto per l'esistenza, il quale gli impedisce ogni trascendenza, metafisica o politica, che pretenda di sacrificarla a fini superiori. Nessun fine giustifica mezzi delittuosi, che anzi pervertono i fini più nobili, come accade alle ribellioni — L'uomo in rivolta — sempre tradite dalle rivoluzioni; nessun amore per le vittime — sempre difese da Camus contro i carnefici — le autorizza (né autorizza i loro difensori) a farsi a loro volta carnefici.
Camus ha vissuto sino in fondo il nichilismo e l'assurdo, combattendoli pur senza alcuna illusione di attingere una verità e trovando un irriducibile senso e valore del vivere; anche se Dio non esistesse, non per questo tutto sarebbe permesso, egli dice contro il suo amatissimo Dostoevskij. Questo umanesimo radicale non è affatto generosamente ingenuo, perché non si illude in nessuna possibile innocenza; l'eroe della Caduta denuncia la malafede della buona coscienza (Daniel).
Nella guerra d'Algeria, dove era nato, Camus si è battuto inequivocabilmente contro la violenza colonialista e per la libertà del popolo algerino, contro le criminose repressioni e la tortura. Ma ha rifiutato il terrorismo, non giustificato dalle repressioni assassine di innocenti civili in quanto anch'esso assassino di innocenti civili, entrando così in contrasto con tanta sinistra di allora, che si è rivelata politicamente meno lucida e realista di lui. Forse Camus, osserva Daniel, grazie alle sue origini povere non si è mai sentito colonizzatore, padrone nella sua Algeria, e perciò ha compreso che l'Algeria, nel suo sacrosanto diritto all'indipendenza politica e alla libertà dallo sfruttamento, era culturalmente e umanamente anche sua, anche francese, altrimenti sarebbe caduta in una febbre identitaria, fondamentalista e violenta. Analogamente, Nadine Gordimer, nella sua lotta contro l'apartheid in Sudafrica, si batteva per la civiltà di una terra che, diceva, era anche sua non meno che dei neri.
La grande disputa — e alternativa — di quegli anni non è stata quella fra Sartre, geniale filosofo ma pure settariamente banale in tante sue comode forzature ideologiche, e Aron, che spesso aveva ragione, ma non la capacità di assumere su di sé la carica umana di quegli errori totalitari, spesso arroganti ma nati da passioni generose. De Gaulle (la cui figura giganteggia sempre più nella storia politica dell'ultimo mezzo secolo), lo chiamava sprezzantemente, «professore al Figaro e giornalista al Collège de France»; Aron ha aperto gli occhi sul comunismo a molti intellettuali che vivevano comodamente in Occidente, ma è stato Camus, vera alternativa a Sartre, a farlo nei confronti di chi viveva nell'Est e aveva ben diversamente vissuto, condiviso e patito la fede comunista.
Rileggere Camus, scrive Daniel, può contribuire a elaborare una nuova etica del giornalismo, che appare sempre più urgente. Un'etica che Camus, uomo di sinistra, riassume in tre parole poco familiari a tanta sinistra: «Giustizia, onore e felicità». Ma soprattutto Daniel dimostra, narrando la vicenda di Combat — giornale nato nella Resistenza e poi diretto da Camus — come sia concretamente realista e possibile «resistere all'aria del tempo», al clima politico-culturale che è o sembra dominante.
Camus ha dimostrato come si possano dedicare solo poche righe a un delitto sensazionale di cui tutti scrivono senza rimetterci. Tante volte, a dire di no, non succede niente, come nella vecchia barzelletta di quella suora giovane e carina che, alla domanda come mai fosse l'unica non violentata da una banda di delinquenti entrati nel convento, risponde: «Non saprei... io ho solo detto di no... ».
Il giornalismo è una fatica di Sisifo per eccellenza; chi, come Jean Daniel, si batte per il riconoscimento delle diversità difendendo soprattutto l'universale oggi così minacciato, forse non sa, come Camus e tutti noi, cos'è la verità, però sa bene cosa sia la menzogna e può ripetere, con Camus: «Non abbiamo mentito».

Corriere della Sera 28.1.08
Lo storico Sebag Montefiore individua i segni precoci della dittatura sanguinaria
Stalin, primi passi di un despota
Seminarista, poeta, carcerato, spia: la sua carriera giovanile
di Ennio Caretto


Il modello
Si ispirò al bandito georgiano Koba, protagonista di un celebre romanzo del tempo

«Il giovane Stalin — ha dichiarato sorridendo lo storico britannico Simon Sebag Montefiore in un'intervista — fu un incrocio tra Osama Bin Laden e Tony Soprano». Ma non fu solo, ha aggiunto, uno spietato terrorista e un feroce padrino, un killer e un rivoluzionario. Fu anche un intellettuale, alla Bin Laden appunto, un cultore di Platone, i cui testi lesse in greco antico, e Napoleone, «del quale si annotò gli errori per non ripeterli». E fu un poeta di valide promesse, i cui lavori apparvero su un'antologia georgiana. Nei suoi trascorsi di delinquente minorile prima, di seminarista poi, infine di violento sindacalista e capopopolo, ha concluso Montefiore, il giovane Stalin, «uno psicopatico colto», dimostrò sempre un carisma straordinario. Non fu affatto il burocrate grigio denunciato da Trotzkij; al contrario, fu un machiavellico leader politico, il cassiere dei bolscevichi sotto lo zar, e il «macchinista» del partito dopo la rivoluzione del 1917.
L'intervista di Montefiore ha incuriosito l'America ossessionata da Bin Laden e infatuata della fittizia «famiglia» mafiosa dei Soprano. E la pubblicazione del libro dello storico, Il giovane Stalin (edito negli Usa da Alfred Knopf e frutto di dieci anni di ricerche), l'ha spinta ora a riesaminare la genesi dello stalinismo. Nell'adolescenza e gioventù di Stalin infatti, a quanto narra Montefiore, si nascondevano i semi della sua sanguinaria dittatura. Lo stalinismo, sostiene lo storico, non fu il prodotto degli eventi che ebbero Stalin protagonista ma della sua personalità, come per altri despoti del XX secolo, da Hitler a Mao.
Josif Djugashvili, alias Stalin, nacque a Gori in Georgia nel 1878 da un calzolaio alcolizzato, Vissarion Djugashvili, e una cameriera ambiziosa e di facili costumi, Ekaterina Geladze. Percosso di continuo dal padre e dalla madre, il ragazzo trovò la propria rivalsa nel pugilato, nella lotta libera e nelle guerre tra bande di adolescenti criminali. Per levarlo dalla strada, sognando che divenisse vescovo, Ekaterina l'iscrisse prima alla Scuola ortodossa di Gori, quindi al Seminario di Tbilisi, persuadendo un amico prete, forse un amante, a presentarlo come il proprio figlio. Il seminario, rileva Montefiore, era una istituzione repressiva, dominata dalle gang, con celle carcerarie, dove i ribelli georgiani venivano trasformati in ossequiosi cittadini russi. Sarebbe degenerato in una fucina di comunisti: gli studenti fingevano di leggere la Bibbia ma divoravano Marx e giuravano vendetta.
Al seminario, «Soso», diminutivo di Josif, imparò le atrocità e le congiure che ne avrebbero contraddistinto il regime. Emerse subito come uno studente modello capace di discutere di religione e scrivere poesie romantiche con una splendida voce da solista del coro. Ma il suo impegno celava un'altra attività, quella di leader della rivolta studentesca. Il giovane Stalin fu un irredentista che s'ispirò al bandito georgiano Koba, di cui assunse il nome, il protagonista di un celebre romanzo del tempo. Per questo motivo e per avere messo incinta una minorenne, la prima di molte, fu espulso dal seminario nel 1899. «Soso» trascorse gli anni successivi a guidare gli ex seminaristi, oltre 60, in una serie di rapine in nome della lotta agli zar, terrorizzando Tbilisi. Suo braccio destro fu il famigerato Simon Ter-Petrossian.
In Siberia, dove ebbe un altro figlio da una tredicenne, «Soso» compì la prima delle sue otto rocambolesche fughe dalle carceri, e ritornò a Tbilisi in tempo per la rivoluzione del 1905, soffocata nel sangue dai cosacchi. Uno dei miti sfatati da Montefiore è che fosse una spia degli zar: stando allo storico, consegnava semplicemente i propri nemici personali o rivali politici alla polizia per sgombrare il campo e consolidare il proprio potere, in cambio di importanti informazioni. A Tbilisi, dove si unì ai bolscevichi e diresse la resistenza dopo il 1905, «Soso» rivelò la sua anima di terrorista e di mafioso. Il colpo più clamoroso lo fece nel 1907 quando quasi trentenne assalì la banca di Stato, provocando un bagno di sangue e asportando l'equivalente di milioni di dollari d'oggi. Quell'anno, egli perdette la moglie Kato: «Aveva intenerito il mio cuore di pietra — disse —. Con lei, è sparita la mia residua umanità».
Montefiore sostiene che il rapporto tra Stalin e Lenin, iniziato proprio nel 1905, fu più stretto di quanto si pensasse. Il giovane Stalin non finanziò solo i bolscevichi con i suoi metodi da gangster, ma mediò anche con i menscevichi, di cui Lenin aveva bisogno perché infiltrati nelle tipografie e fabbriche di armi. I suoi doppi giochi e le sue imprese terroristiche impressionarono Lenin, che lo elogiò e condivise con lui il dogma che rivoluzionario «è chi si colloca fuori della società e della moralità ». A sua volta, «Soso» fu influenzato dal compagno. Lasciò l'irredentismo georgiano per il comunismo, e sostituì Stalin a Koba come nome di battaglia: così firmò nel 1913 Il marxismo e le questioni nazionali, la base della futura Urss. Una evoluzione che si consolidò nel suo ultimo confino in Siberia, fino al 1917. Il giovane Stalin apre uno squarcio anche sulla vita sessuale del despota, alla caccia di «carnose minorenni malleabili e contadine riverenti», e gelido verso i figli, di cui uno legittimo e numerosi illegittimi, quanti esattamente non si sa. A queste debolezze e insensibilità subentrarono più tardi «una sospettosità, rigidità e solitudine» che avrebbero finito per accentuare la sua paranoia.

il Riformista 28.1.08
Università. Hanno perso ancora i movimenti degli studenti
Quer pasticciaccio brutto dell'Università "La Sapienza"
Un acume tattico degno del miglior Napoleone
di Matteo Marchetti, 20 anni, Roma


In una fosca mattinata di inizio anno, l'Italia si è dovuta di colpo fermare a riflettere su se stessa, sull'essenza dello Stato moderno, sul ruolo che un'istituzione religiosa ha all'interno del Paese e su quello che invece dovrebbe avere. Tutto questo per colpa di una busta da lettere e del suo contenuto?
Andiamo con ordine. Prima di affrontare un discorso lungo e probabilmente contorto, infatti, è buona norma ricordare i fatti al lettore. Dunque, in data 17 gennaio orde di perfidi cosacchi capelloni - e, giura qualcuno, anche omosessuali - che abbeveravano i propri cavalli nella fontana di fronte al Rettorato (probabilmente in attesa di arrivare a San Pietro), animati da ottuso integralismo laico, hanno dato vita a gravi tumulti, impedendo al Santo Padre di dare la propria benedizione al nascituro anno accademico.
In loro aiuto sono giunti alcuni squallidi figuri, sedicenti "professori", che hanno scritto una lettera all'illuminato Rettore motivando la loro adesione alla protesta con alcune affermazioni sul processo a Galileo Galilei - ovviamente travisate ed estrapolate dal contesto - pronunciate da Benedetto XVI quando ancora era un 'semplice' porporato, il tutto prima di andare a profanare qualche chiesa sostituendo un volume dell'Enciclopedia Treccani al Messale Romano. Questo, almeno, è quello che ho capito io dalle ricostruzioni di stampa e tv.
Negli scorsi giorni abbiamo assistito a un'impressionante dimostrazione di disciplina: molto meglio di un plotone di guardie svizzere, la politica, la stampa e buona parte dell'opinione pubblica hanno fatto quadrato intorno alla Chiesa cattolica, una delle istituzioni più ingombranti del pianeta, da sempre abituata a deporre o incoronare monarchi, a impartire lezioni di moralità alle assemblee parlamentari, a suggerire scelte agli elettori ("Nella cabina elettorale Dio ti vede, ma Stalin no", si leggeva sui muri in quel fatidico 1948), a dettare - specialmente in Italia - le priorità dell'agenda politica. Anni fa la si era data prematuramente in via di estinzione: stava perdendo radicamento e consensi e con essi potere, o questo almeno suggerivano alcune sconfitte patite dal Vaticano, partendo dal XX settembre fino ad arrivare a quella dei referendum civili negli anni Settanta, passando per la crisi delle vocazioni e la liberalizzazione dei costumi.
La società italiana, si disse allora, si è secolarizzata, affrancando le proprie convinzioni civili dall'egemonia clericale. A smentire quelle analisi ci pensarono successivamente le adunate oceaniche ai piedi di Giovanni Paolo II, la batosta sulla fecondazione assistita e la cocente umiliazione patita nel derby delle manifestazioni lo scorso 12 maggio, con piazza San Giovanni gremita da centinaia di migliaia di persone e piazza Navona mezza vuota.
Tanto martellante è stata la propaganda vaticana sulla 'famiglia' e su come i comunisti l'avrebbero distrutta diffondendo libertinaggio e promiscuità che il governo di centro-sinistra ha dedicato uno dei suoi tanti ministeri proprio all'istituto familiare, mentre qualsiasi velleità di unioni civili o addirittura - orrore! - omosessuali scivolava malinconicamente nel dimenticatoio grazie al fuoco incrociato dei 'cattolici di entrambi gli schieramenti', santi tiratori infiammati a turno da Benedetto XVI, Bagnasco, Mastella e Casini. Nonostante il passare degli anni, l'Italia è insomma rimasto il Paese in cui 'Centro' non è una necessità ma uno stile di vita, dove autorità morali e politiche si rispettano poco ma poi guai a chi osa toccare il Santo Padre, dove con Dante il cristianesimo arriva a penetrare anche nelle origini della nostra stessa lingua.
Proprio in virtù di questo, molti commentatori e - stando a quanto visto in piazza San Pietro la scorsa domenica - circa duecentomila persone rivendicavano per Ratzinger il diritto sacrosanto di tenere il proprio discorso durante l'inaugurazione dell'anno accademico; questo diritto sarebbe stato violato. La vicenda è ancora avvolta in una foschia che ne rende i contorni indefiniti, facendola discendere ora dall'anticlericalismo radicale e un attimo dopo da uno dei soliti pasticci all'italiana, da un banale errore di comunicazione. Poco importa: dal proprio balcone - quello sì garantito sempre e comunque - il Papa deve aver sfoderato uno dei suoi proverbiali, dolci sorrisi, guardando di fronte a sé una folla immensa che ne piangeva le sorti e contando le decine di telecamere accorse ancora più numerose del solito.
A rendere più sublime la giornata, il fatto che lui non avesse dovuto fare altro che stare zitto. Già, perché, se andiamo a vedere, il ruolo di Sua Santità Papa Benedetto Decimosesto nella vicenda è stato nullo. "Laicità significa garantire diritto di parola a chiunque!", "Questo è integralismo!", "Nelle università serie lasciano parlare perfino Ahmadinejad!". Urla, urla, urla. La macchina della propaganda - termine non a caso coniato proprio dalla Chiesa - si è messa in moto da subito, oberando di lavoro le agenzie. Prima, per qualche giorno, si è tenuta l'Italia sulle spine, tentennando senza decidere definitivamente; poi, l'annuncio choc, il gran rifiuto; infine, gli appelli a tutti gli uomini di buona volontà affinché durante l'Angelus del 20 recassero il proprio omaggio al Pontefice imbavagliato, il tutto senza tenere conto di alcune incongruenze - nessuno ha 'impedito' il discorso, né tanto meno un testo letto da un podio/pulpito può essere paragonato ad un dibattito scientifico; ridicolo, poi, considerare oggi Joseph Ratzinger un professore - ma tant'è.
Se si considera poi che il discorso (riveduto e corretto?) è stato comunque letto, la faccenda si è conclusa con un successo senza precedenti dai tempi dell'Editto di Tessalonica; ancora una volta, qualora ce ne fosse stato bisogno, si è dimostrato che ad oggi l'unico attore sociale in grado di esercitare un controllo sulle masse è la Santa Romana Chiesa. Una vittoria totale e senza possibilità di rivincita: quello che giorni fa la Repubblica ha definito il 'cortocircuito della Sapienza' si è rivelato un trionfo assoluto delle gerarchie ecclesiastiche.
Stavolta, però, il carro del trionfo è biposto: l'altro passeggero è un personaggio riservato, rimasto in disparte quanto gli è stato possibile, ma è comunque da inserire tra coloro che hanno tratto enorme vantaggio dalla vicenda. Sto parlando, ovviamente, del Rettore Guarini, che in molti hanno accusato di superficialità; a mio modesto avviso, invece, il nostro Magnifico ha dimostrato un acume tattico degno del miglior Napoleone: mal sopportato da buona parte dell'Ateneo, inquisito e, per giunta, in scadenza di mandato, intravedeva nell'inaugurazione un assist formidabile per avversari e contestatori, con gli studenti di ambo gli schieramenti pronti a chiedere il conto ad una guida mai amata. Con uno stratagemma da disinformatija brezneviana, Guarini è riuscito a sfruttare tutte le parti in causa per uscire, ancora una volta, dalla porta di servizio. Applausi.
Per ogni vincitore, però, c'è uno sconfitto. Hanno perso i movimenti degli studenti, da troppi anni abbandonati all'autorganizzazione e incapaci di intravedere nei manifesti contro Ratzinger un regalo colossale a chi li vede come contestatori professionisti, come dei piccoli ducetti mascherati da trasgressivi ignari delle regole della convivenza democratica, o magari come dei depravati. Gli studenti della Sapienza sono stati tra i primi a sapere della visita, alcune voci circolavano già dalla fine di dicembre; in così tanto tempo non si è stati in grado di individuare una strategia efficace, né di sottoporla agli altri studenti. I papisti e i cardinali non ringrazieranno mai abbastanza per una 'frocessione' che per loro - indipendentemente dal suo significato reale - è solo una pittoresca manifestazione di ignoranza.
Soprattutto, però, sono state sconfitte quelle idee che all'inizio ho citato di sfuggita: laicità, libertà di ricerca, università, istruzione pubblica, Stato. Lo Stato - rappresentato dal ministro Mussi e dal sindaco-tuttofare Veltroni - ha ciecamente solidarizzato, non si sa su cosa. Io, invece, chiudo, per non mescolare certe cose con questo squallido teatrino.

il Riformista 28.1.08
Forum. Scontro tra religione e stato laico? La parola agli studenti
Se la questione non sta né in cielo né in terra

La Fisica non è una clava
Francesco Testi, 20 anni - Roma
Non è successo nulla, perchè in fondo è successo tutto. Insomma, sì, l'evento-clou non c'è stato: il Papa non è venuto alla Sapienza giovedì 17. Eppure è successo di tutto, quel giorno hanno vinto certi studenti e ha trionfato la dittatura: ché proibire a qualcuno di parlare senza nemmeno sapere cosa dirà, brandendo la Fisica come fosse una clava, è dittatura.
Poco importa se chi s'è opposto pubblicamente è una minoranza: 67 prof su 4500 sono un'inezia, 15 ragazzi su decine di migliaia sono una bazzecola (dico 15 perché tanti erano quelli che hanno occupato il Senato Accademico del Rettorato martedì 15, stavo là alle 12.07 e li ho visti: di certo non il centinaio di cui ha ciarlato poi Lucia Annunziata con eccitazione).
La brutta figura l'abbiamo fatta tutti alla Sapienza. E non c'era bisogno di scomodare Galileo, tanto una scusa per non far venire Benedetto XVI si sarebbe trovata comunque; non c'era bisogno di contestare l'opportunità dell'invito all'inaugurazione dell'anno accademico, perché qualsiasi data sarebbe stata sbagliata; non c'era bisogno di parlare di "passaggio politico del Papa", come ha detto il furioso prof. Bernardini di Fisica. Se solo l'avessero fatto parlare, Ratzinger avrebbe detto che "La Sapienza è un'università laica con quell'autonomia legata all'autorità della verità", libera "da autorità politiche ed ecclesiastiche". Molto liberale questo Papa oscurantista, nevvero?
Non c'entra neppure la laicità, che parte dal reciproco rispetto: quale rispetto altrui può esserci se già noi stessi violiamo le nostre leggi? Blaterando di laicità infatti gli studenti (e chi li sostiene) ignorano l'articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare pubblicamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Tutti, perfino i cattolici dunque.
E meno male che gli studenti di Comunione e Liberazione capeggiati da Matteo Fanelli hanno pubblicamente manifestato dissenso in aula magna, il giorno dell'inaugurazione: almeno loro ci ricordano che il vero compito dell'Università è promuovere il dialogo, il confronto, lo scambio di idee ed il relativo diritto a manifestarle. Pazienza per gli studenti sprovveduti rimasti fuori dalla città universitaria quella mattina: potevano avere addosso il tesserino di riconoscimento, come consigliava caldamente il Rettore Guarini già quando ce lo inviò un anno e mezzo fa.
In 703 di storia della Sapienza certamente tutto ciò non è la prima stupidaggine che avviene, e di certo non sarà l'ultima. Epperò ce ne vorrà di tempo, per scordarla.

Chi ha chiuso la bocca al papa?
Lorenzo Brunetti, 17 anni, Roma
Le reazioni della classe politica italiana di fronte alla questione del papa alla Sapienza sono state quelle di sempre: indignazione, grida di vergogna ed espressioni di solidarietà. Nulla di più inutile! Sarebbe invece proficuo aprire una discussione sul ruolo della Chiesa nei dibattiti dello Stato. Se da una parte è vero che confrontarsi con chi propone verità dogmatiche può essere difficile, è anche vero che non possiamo ignorare il problema del rapporto con la nostra identità culturale. Purtroppo, però, le posizioni da controriforma di questo papa sembrano inutilmente provocatorie ed il fatto che il pontefice abbia rinunciato al suo intervento all'università la dice lunga sulla scarsa propensione della Chiesa al confronto dialettico: nessuno ha chiuso la bocca al papa!

Chi sono gli oscurantisti?
Francesca Giuliani, 19 anni, Roma
Una battaglia in nome della libertà di pensiero che si conclude con la repressione del pensiero altrui è una battaglia persa, c'è poco da fare. Inutile appigliarsi alla scusa che sia stato "l'avversario" ad abbandonare il campo, inutile dire che avrebbe potuto non sottrarsi al confronto. Che poi, per rivivere i fasti sessantottini, si poteva almeno aspettare il primo marzo, per rimettere in scena a 40 anni esatti dalla battaglia di Valle Giulia il vecchio copione degli studenti che protestano contro il potere costituito. C'è però che almeno 40 anni fa il motivo era condivisibile, aveva una pregnanza di contenuto, non era una rivendicazione fine a se stessa.
Perché sì, amici miei, questa lo è stata. Gli studenti, da che mondo è mondo, sono una categoria incline alla contestazione. E meno male. Il punto è che i ragazzi de La Sapienza, probabilmente, hanno problemi più seri per i quali far sentire la propria voce (certamente problemi meno ideologicamente patinati): sovraffollamento, infrastrutture scadenti, l'assenteismo dei professori, lo sbriciolamento delle discipline in moduli e seminari, la moltiplicazione selvaggia degli ordinamenti.
Senza entrare nel merito della querelle circa la posizione di Ratzinger sull'abiura galileiana (peraltro, argomento lievemente datato al quale appigliarsi, anzi direi capricciosamente anacronistico), la protesta dei 67 accademici crolla sulle sue fondamenta perché autocontraddittoria: che La Sapienza, dopo i fatti del 16 gennaio, sia ancora un "Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia" è falso. Sì, anche dal punto di vista formale, perché Joseph Ratzinger che oggi è solo la più alta autorità morale per i cattolici - come se questo non fosse sufficiente a giustificare la sua presenza all'evento - è stato docente universitario ed è un fine intellettuale.
Penso, in definitiva, che sia stato scelto il nemico sbagliato da combattere. Sia perché si è soppressa la libertà di quegli studenti che avrebbero avuto piacere di assistere all'incontro, sia perché, estremizzando, se una personalità discussa come il presidente iraniano Ahmadinejad ha avuto la possibilità di parlare della sua controversa azione politica alla (veramente liberale) Columbia University, trovo assurdo che si sia impedito al papa di tenere il suo discorso.
La vera apertura e la vera laicità si hanno in un contesto in cui ognuno possa portare la propria visione del mondo, fermo restando il diritto di ciascun interlocutore di replicare pacificamente e di mantenere le proprie opinioni così com'erano prima di dibattere. Questo si chiama dialogo. Libero pensiero significa dar voce al pensiero di tutti, rispettando tutti. Oscurantismo significa impedire a qualcuno di esprimersi, calpestandone il diritto di parola, nella presunzione di detenere la Verità Assoluta. Perciò, guardando ai fatti, ribadisco con rammarico: una battaglia in nome della libertà di pensiero che si conclude con la repressione del pensiero altrui è una battaglia persa.

Poveri cattolici
Luca Sappino, 20 anni, Roma
L'altro giorno ho sentito Carlo Rossella dire "Noi siamo una minoranza, una minoranza perseguitata, isolata, menata, insultata, che ha visto impedito al Papa, proprio capo, proprio leader, proprio ispiratore, di parlare all'Università di Roma, che si chiama ancora La Sapienza ma che qualche magistrato di buona volontà dovrebbe costringere a cambiare nome: propongo L'ignoranza". Ho visto poi studenti ciellini protestare in aula magna con un bavaglio sul viso. Ho visto Ferrara sgolarsi nel tessere le lodi dell'esimio Professor Ratzinger; il laico Franceschini col naso all'insù a piazza San Pietro, al Papa Day, esprimere solidarietà al pontefice oppresso. Ho visto Camillo Ruini dare lezioni di laicità al popolo italiano, dire che l'Italia si è dimostrata intollerante.
"Poveri cattolici" viene da pensare, "poveri cattolici italiani" è il messaggio che la stampa e il mondo politico stanno facendo passare, Ratzinger dipinto come vittima dell'oscurantismo laicista. L'Italia paese di comunisti mangia preti e bambini, paese dove i cattolici, non solo non vengono ascoltati, ma addirittura vengono indotti al silenzio con metodi bruti, barbariche manifestazioni di dissenso.
Non ci posso credere, sono sbalordito, ma siamo tutti impazziti? I cattolici sono maltrattati in questo Paese? I laici italiani sono oscurantisti? Deve essere per quello che in Italia non si può fare ricerca sugli embrioni, considerati vita. Deve essere questo il motivo per cui nelle aule di tribunale e nelle classi delle scuole i crocifissi sono affiancati dal ritratto del Presidente. Deve essere questo il motivo per il in tv si parla più di vicende vaticane che - ne dico una - di Iraq, più di dio e prelati che di guerra e bombe.
Forse sono io, cittadino laico, a sbagliarmi. Forse sono io a credere erroneamente che la situazione italiana sia proprio opposta a quella dipinta, che il Papa alla Sapienza per l'inaugurazione dell'anno accademico - non per un normale incontro, una normale lezione su cui nessuno avrebbe avuto obiezioni da fare - sia l'ennesimo e definitivo sintomo del ferale malanno che affligge il nostro bel Paese. Il Rettore, che indubbiamente ricercava pubblicità, ha sbagliato a invitare il Papa per questa specifica occasione e gli anticlericali, seppur probabilmente con formule improprie e scarsa conoscenza della tattica politica, hanno fatto bene a farlo notare. Ratzinger, che oltre a radunare le pecorelle smarrite fa politica, ha ovviamente colto l'occasione al volo e chiamato alle armi le sue ferventi milizie cattoliche. Il risultato? Personalmente sono annoiato: è sempre la stessa storia, "Poveri cattolici".

Bella mossa!
Giulio Serra, 22 anni, Venezia
Renato Guarini - Rettore dell'Università La Sapienza di Roma - non si dà per vinto e promette: "Inoltrerò un nuovo invito al Santo Padre, per un'altra occasione". Ormai l'inaugurazione dell'anno accademico è alle spalle, la bufera è quasi del tutto scemata e presto anche i cronisti più riottosi molleranno la presa lasciando in pace il Papa, i 67 firmatari della lettera anti-Ratzinger e i giovani studenti cattolici e non.
Ma la "miseria" che questo caso ha lasciato in bocca a tutti, specie ai giovani, non è facile da digerire. Si sono viste scene da medioevo, con i clericali pronti a sfondare le porte della scienza pur di non rinunciare alla semina della Parola del Signore e con professori universitari barricati dietro ideologie scientifiche retrograde e per nulla illuminanti. In mezzo a questo marasma clerico-scientifico c'erano gli studenti: le vere vittime della vicenda. Giovani ventenni o poco più che non chiedevano altro se non un'inaugurazione dell'anno accademico normale, composta, senza troppi clamori né polemiche inutili. Hanno pagato per tutti: i Papa-boys all'interno dell'aula magna con i fazzoletti bianchi in bocca in segno di protesta per la mancanza d'espressione rivendicata dalla Chiesa e gli altri fuori dalla porta obbligati a restarsene lontano dalla loro Università e tenuti fermi da cordoni di poliziotti con attrezzature antisommossa.
Sicuramente, sebbene non fino in fondo, il piano architettato dal Magnifico è riuscito, con una pubblicità all'Università capitolina che ha fatto il giro del mondo. Ora rimane una semplice domanda da porre al Vaticano, ai docenti ribelli e in particolar modo al Rettore: in tutto il trascorrere della vicenda vi siete mai chiesti, anche per un solo istante, in che modo i giovani, i veri protagonisti dell'Università, possono essere ottimisti verso un futuro che si prospetta più retrivo di quello dei tempi di Galileo e della censura preventiva?

Un'occasione mancata
Maria Elena Bislacchi, 21 anni, Genova
Trovo molto presbite la reazione che i miei colleghi della Sapienza hanno avuto di fronte alla possibilità di assistere alla lectio magistralis di Benedetto XVI. Joseph Ratzinger avrebbe presenziato all'inaugurazione dell'anno accademico interrogandosi per primo sul ruolo da rivestire in tale occasione: Vescovo di Roma o professore di teologia? Il discorso mancato è incentrato sull'idea che - parole sue - "nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse". Proprio questo è stato contestato.
Sembra incredibile, ma foriero del dialogo e del confronto è in questo caso chi solitamente rappresenta l'emblema del conservatorismo e del dogmatismo. Da queste parole disgraziatamente non pronunciate potevano emergere proficue indagini sui concetti stessi di ragione, fede, tradizione, umiltà. Non a caso il Papa teologo cita Socrate, Jurgen Habermas, John Rawls. Il suo punto di vista è quello sì di un pastore che vuole "salvare le pecore smarrite", ma di un pastore che non intende riportarle alla retta via imponendo loro un rigido cammino programmato in precedenza, arginato da dogmi irremovibili.
Questo pastore cerca di indurre le sue pecore alla ricerca di una verità che esse devono trovare da sé, con mezzi propri. In quanto Papa, egli non può che augurarsi che la gente si fidi dell'aiuto della Chiesa, e si lasci guidare nella ricerca della verità da chi è convinto di averla trovata in Cristo. Ma in quanto teologo, egli ha a cuore innanzitutto il risveglio delle coscienze, il continuo monito a ricercare la verità, e a ricercarla seriamente, facendo di essa lo scopo della propria esistenza. L'Università è il luogo più specificatamente deputato alla conoscenza e Joseph Ratzinger avrebbe ritenuto opportuno pronunciarsi, all'interno di essa, in favore della ricerca della verità, della libera ricerca della verità.
Da ogni dialogo si può imparare. Per questo ritengo assurdo avere contestato l'invito porto al pontefice: chi pensava di non aver nulla da imparare dall'incontro poteva semplicemente astenersi dal presenziare senza negare però a chi fosse interessato ad ascoltare le parole di Joseph Ratzinger, la possibilità di assistere ad una lectio magistralis che avrebbe potuto stimolare importanti considerazioni.

Guelfi e ghibellini?
Roberto Bertoni, 17 anni, Monterotondo (Rm)
Che il papa teologo non stia molto simpatico al mondo della scienza, considerando le sue battaglie contro l'aborto e la procreazione assistita (tanto per fare due esempi), non sorprende. Che forse il rettore dell'università La Sapienza avrebbe fatto meglio a non invitarlo è altrettanto accettabile. Quello che non sta né in cielo né in terra sono le contestazioni che sono seguite all'invito da parte di un gruppo di docenti e di alcuni collettivi studenteschi, non tanto per l'opposizione alla visita in sé (sacrosanta in una nazione democratica) quanto per i toni che hanno utilizzato e i contorni che ha assunto la vicenda. Gli striscioni esposti sui muri di certe facoltà, ad esempio, sono sembrati alla maggior parte dell'opinione pubblica inopportuni e ingiustificati per il fatto che non si focalizzavano contro l'ingresso di un uomo di chiesa in un ambiente scientifico, quanto contro la figura di Bendetto XVI, accusato di voler invadere un caposaldo della laicità e mettere ulteriormente a repentaglio la libertà della scienza e della ricerca in Italia.
Non c'è dubbio che le posizioni assunte dal Vaticano sui temi etici, negli ultimi anni, siano retrograde e poco dialoganti ma la colpa non è del papa o dei vescovi, che esprimono le proprie opinioni e si attengono scrupolosamente ai dettami della fede, bensì di una classe politica nella quale molti si scoprono fervidi credenti in campagna elettorale o quando hanno bisogno di accattivarsi le simpatie della Cei e degli ambienti ecclesiastici per guadagnare popolarità e prevalere sugli avversari. Inoltre, il trattamento riservato al Pontefice, oltre che eccessivo, è controproducente perché gli garantisce una visibilità e una solidarietà che non ha mai avuto da quando si è seduto sul soglio di Pietro, divenendo il baluardo di chi, strumentalmente, vuole far credere all'opinione pubblica che Stalin e l'Armata Rossa sono alle porte e l'unico modo per liberarsi del pericolo è dare il benservito a Prodi e alla sua maggioranza "sovietica" e affidare nuovamente lo Stato ai pii divorziati Berlusconi, Fini, Casini e Bossi.
I promotori della protesta, al contrario, sono passati per incivili, antidemocratici, nemici della libertà d'opinione, estremisti e via criticando fino all'inevitabile accusa di sostenitori o, peggio ancora, esponenti della vituperata "sinistra radicale". Lo sconfitto in questa vicenda non è il Paese ma il buon senso. Il che, con buona pace di "guelfi" e "ghibellini", è assai più grave.

domenica 27 gennaio 2008

l’Unità 27.1.08
Oggi è il “Giorno della Memoria”. Italia contro Italia
di Furio Colombo


Oggi è il “Giorno della Memoria”. C’è chi si domanda se sia una formalità, una cerimonia, l’occasione di un bel discorso nell’Aula Magna. C’è chi teme che tornare al passato divida e riapra non solo immagini di tragedia e dolore ma anche di spaccatura fra combattenti (memoria di combattenti) di una parte e dell’altra. C’è chi suggerisce che tutti i combattenti, finita una guerra sono uguali e tanto vale darsi la mano e andare avanti con la vita. C’è chi sostiene che tutte le vittime sono uguali e poiché qualunque morte è una perdita immensa, non è il numero che fa differenza. Onore a tutte le vittime, e la vita continua.
C’è anche chi pensa (e si è dato da fare moltiplicando i Giorni dedicati alla Memoria e al ricordo) che ci sono stati tanti eventi spaventosi nel mondo e di tutti occorre farsi carico, siano le vittime o i colpevoli di una parte o dell’altra. Se ci sono stati i campi di Hitler ci sono stati anche quelli di Stalin e le Foibe di Tito. Dunque o tutti o nessuno.
È comprensibile che - col tempo - i fili degli eventi si mischino spesso in confusi gomitoli. C’è chi sospetta l’uso - come si dice - strumentale. E chi teme che si alzino voci “buone” ma così generiche, così sbiadite nella condanna di tutti i mali e nella esaltazione di tutto il bene, da risultare afone.
Per questo esiste “Il Giorno della Memoria”. Ripeterò per i più giovani, per chi arriva adesso a rendersi conto dell’evento, che la data è il 27 gennaio, il giorno in cui i cancelli della città-sterminio di Auschwitz sono stati abbattuti dai soldati russi (allora si diceva “sovietici”) mentre avanzavano da Est verso Berlino (americani e inglesi venivano avanti da Ovest e da Sud stavano liberando la Francia e l’Italia), e la guerra stava per finire in pochi mesi, cancellando dal mondo il fascismo e il nazismo.
È vero, ben presto il mondo si sarebbe reso conto che crimini
di massa erano stati commessi e hanno continuato ad essere commessi per decenni dentro quell’Unione Sovietica che aveva pagato un prezzo immenso per ridare libertà al mondo contro il nazismo e il fascismo (20 milioni di morti russi) ma negando la libertà a se stessa.
Ma alcuni di noi non sono mai caduti nella trappola di dedicarsi per prima cosa ai crimini del Paese che allora si chiamava Urss. Perché?
Perché alcuni di noi si rendevano conto che, durante i regimi liberticidi che hanno portato alla Seconda guerra mondiale e alla distruzione dell’Europa, due Paesi si erano macchiati di un delitto più grave di ogni altro delitto. E’ un delitto che si dirama, come una spaccatura immensa e pericolosa, nel passato e nel futuro della convivenza europea.
Dal passato ha tratto l’orrore del pregiudizio che esige il sangue. Nel futuro ha iniettato un veleno che può restare inerte a lungo, e poi ricominciare la sua azione mortale nei luoghi,nei gruppi, nelle condizioni più inaspettate.
Per questo il “Giorno della Memoria” - che è stato il mio impegno principale quando ero deputato dell’Ulivo nelle tredicesima legislatura e che è stato approvato prima dalla Camera (unica legge approvata all'unanimità) e poi dal Senato nell’anno 2000 - ha come punto di riferimento la Shoah, insieme al ricordo di tutti coloro che hanno pagato con la vita la loro coraggiosa opposizione politica o la loro presunta diversità.
Ho risposto giorni fa alla domanda degli studenti in una Università americana. Perché in Italia? Perché adesso?
La prima risposta meraviglia un poco chi è abituato dalla maggior parte dei film a vedere soldati, uniformi e insegne tedesche intorno alla deportazione e allo sterminio di sei milioni di donne, uomini, bambini (inclusi neonati, vegliardi, malati e morenti) cittadini di ogni Paese d’Europa condannati a morire perché ebrei.
La risposta è: perché la Shoah è un delitto italiano. L’Italia nel 1938 ha approvato le più crudeli e totalitarie leggi razziali d’Europa, il Parlamento fascista italiano le ha approvate con esultanza. Il Re d’Italia - unico re d’Europa - le ha firmate e rese esecutive.
Giovedì scorso, nel ricordare il triste evento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato il senso e la portata di quelle leggi: «Hanno aperto le porte all’Olocausto».
Il Capo dello Stato ha colto il senso e la ragione della legge che istituisce il Giorno della Memoria: abbandonare l’idea che un conto sono le leggi razziali, cattive ma senza vere conseguenze nel destino delle persone, e un conto sono i campi di sterminio che gravano sul passato e sulla coscienza tedesca.
Il nesso stretto, il rapporto tragico ed evidente tra causa e effetto, mette in evidenza un aspetto che la storiografia italiana, nell’immenso groviglio di fatti tragici che sono la Seconda guerra mondiale, ha trascurato. La Shoah, dettagliato e accurato progetto criminale per lo sterminio di un popolo, non avrebbe potuto essere imposta con tanta forza alla classi dirigenti e alla sostanziale accettazione delle classi medie di tutta l’Europa occupata, se l’Italia non fosse apparsa, non solo come alleato della guerra ma anche come partner del grande delitto di massa. Nel famoso e tragico «asse Roma-Berlino» l’Italia era l’altra mano del persecutore, una presenza e una partecipazione che certo faceva il suo effetto su tutte le altre aree occupate e governate con leader fantocci e gaulaiter. Fino al punto che non è fuori posto domandarci: sarebbe stato possibile imporre e realizzare in tutta l’Europa il progetto persecutorio se l’Italia non avesse avuto parte attiva - dalle leggi razziali alla strage di Meina, alla Risiera di San Sabba, alle spietate deportazioni iniziate a Roma, a pochi metri dal Vaticano e dai palazzi del potere romano, la notte del 16 ottobre 1943, nel silenzio di tutti?
Si dirà che il silenzio era imposto. Ma altrove - come nella Bulgaria fascista - la classe dirigente, pur soggetta al dominio tedesco e italiano, si è opposta. «Non toccherete i nostri cittadini» ha proclamato il presidente fascista della Camera bulgara Dimitar Peshev, dando prova della sua normalità psichica e del suo coraggio morale.
Ecco un senso del Giorno della Memoria: l’immensa offesa all’Italia e ai suoi cittadini - tutti - spingendo una parte di essi nel ruolo delle vittime (7.000 non sono tornati) e l’altra in quello dei persecutori.
È vero che tanti non si sono prestati al macabro gioco e alcuni hanno rischiato la vita per salvare altre vite. Ma ciò non cancella le leggi, la loro enormità, la loro portata. La consegna da parte di italiani agli esecutori tedeschi di cittadini italiani privati di ogni diritto e difesa è un progetto che ha lasciato la sua impronta di morte su tutta l’Europa anche a causa, per colpa, responsabilità del ruolo italiano. E’ questo il fatto tremendo da ricordare.
Perché adesso? Mi hanno chiesto gli studenti americani. La risposta è questa. Perché qualcuno, anche in buona fede, pensa a una cerimonia di scuse o a una commiserazione del dolore o alla benevola partecipazione al lutto di altri, alla ingiustizia che altri hanno patito e a cui si vuole che - simbolicamente, a tanti anni di distanza - si dica no.
Invece è proprio adesso, mentre si mischiano freneticamente le carte in tavola e ci si affretta a riconoscere torti (che però sono ferite di una guerra finita) pur di non rinvangare il passato e si invoca una bella stretta di mano fra parti che storia e destino avevano contrapposto, proprio adesso è il momento di dire: attenti a non scrivere un’altra storia. Nella storia vera la ferita spaventosa è stata inflitta all’Italia offrendo senza vergogna i propri cittadini alla persecuzione straniera e alla volontà di persecuzione e di morte di un altro Paese, le cui regole l’Italia aveva scrupolosamente adottato e perfino aggravato. L’Italia si è piegata e spezzata in un modo che ne ha deformato l’immagine. In questa immagine orrenda, un misto di opportunismo, servilismo, paura e razzismo autentico, non è possibile - e non è permesso - separare una parte del fascismo dall’altra. Ogni nostalgia le richiama tutte. Perché erano tutti cittadini italiani coloro che sono stati offerti come vittime. E tutti fascisti italiani gli esecutori.
Erano infatti cittadini italiani i volenterosi collaborazionisti che hanno eseguito, spesso anticipando le richieste degli aguzzini, ed erano cittadini italiani coloro che hanno scrupolosamente taciuto, compresi coloro che avrebbero potuto - almeno nel 1938 - essere ascoltati nel mondo. Il silenzio italiano è stato completo e agghiacciante.
Il Giorno della Memoria è un processo al silenzio. È il silenzio di un passato che non può essere perdonato.
Occorre impedire che diventi una cerimonia. Il processo al silenzio è aperto oggi per ieri ma anche oggi per domani. Perché mai più il Paese Italia si presti ad essere il luogo di una viltà così grande. Il Giorno della Memoria questo ricorda: un delitto italiano contro l’Italia e i suoi cittadini. Non lasciatevi dire che sono cose passate.
colombo_f@posta.senato.it

l’Unità 27.1.08
Il Paese delle leggi razziali
di Nicola Tranfaglia


Da sette anni, grazie a una legge votata dal parlamento italiano, il 27 gennaio (o meglio nei giorni che precedono o seguono quella data) in cui le truppe alleate aprirono le porte di Auchwitz, nel nostro Paese si ricorda il massacro nazista di ebrei, diversi e oppositori politici. Cinque-sei milioni di persone (donne, uomini, bambini) che morirono nei campi di concentramento, nei rastrellamenti, negli eccidi in tutta l’Europa tra il 1938 e il 1945.
Nessuno oggi (a parte i negazionisti che continuano a contestare le cifre dell’Olocausto o addirittura la sua esistenza ma sono pochi e screditati come studiosi, penso all’inglese Irving o al francese Faurisson), mette in discussione la legge. Ma ogni anno risento il monito di Primo Levi che, nel suo capolavoro scritto prima di morire nel 1986 («I sommersi e i salvati», Einaudi editore) scriveva: «Si affaccia all’età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposte invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge».
Primo Levi aveva ragione. E chi, come l’autore di questo articolo, ha insegnato per oltre trent’anni la storia del Novecento e l’esperienza europea dei fascismi, ne è ben consapevole ma non vuole arrendersi. E fa quello che può sempre per cercare di comunicare alla nuova generazione perché non si può diventare adulti se non si conosce il nostro, recente passato.
La Shoà può essere considerata oggi, dopo le ricerche degli storici di tutto il mondo, come il risultato di una generale crisi dell’Europa iniziata nel lungo Ottocento, trasformata ed accelerata nella prima guerra mondiale e divenuta un baratro della politica, della cultura e della società negli anni venti e trenta del Novecento con l’avvento dei fascismi.
Esso può essere pensato come un grande prisma in cui leggere alcuni dei principali fenomeni di radicale trasformazione e vera e propria degenerazione della politica e della società nel ventesimo secolo, dentro e fuori l’Europa, anche oltre quell’evento specifico.
Alcuni aspetti del quale si sono propagati o viceversa sono stati anticipati - in forme diverse, genocidi, pulizie etniche, razzismi.
La crisi dell’Europa fu preparata e segnata da fenomeni come l’emergere del razzismo, sin dalla metà dell’Ottocento; le trasformazioni e la diffusione dell’antisemitismo, particolarmente dagli anni ottanta; i massacri coloniali di inizio del Novecento; le trasformazioni qualitative e quantitative della violenza nella prima guerra mondiale; la crisi dei liberalismi e la radicalizzazione dei nazionalismi; l’emergere infine dei fascismi nelle forme di regimi violenti e totalitari. Ma contarono anche fenomeni di burocratizzazione degli apparati statali e di serializzazione e di industrializzazione della morte, innovazioni tecniche e scientifiche, trasformazione della condizione umana nelle moderne società tecnologiche e di massa. Il tutto all’interno del disegno hitleriano e nazista di conquista del continente europeo e di instaurazione di un nuovo ordine, fondato su una gerarchia razziale e sulla supremazia del popolo tedesco, supposta incarnazione della “razza ariana” e portatore della sua apocalittica missione di “soggiogamento” dell’intera umanità.
Oggi sappiamo che i carnefici della Shoà furono non solo tedeschi e non solo assassini ideologicamente motivati ma uomini comuni (per esempio militari e poliziotti ma anche semplici impiegati della macchina burocratica dello sterminio) con l’ausilio di centinaia di migliaia di complici, collaboratori e collaborazionisti in tutta l’Europa. Sappiamo che milioni di europei assistettero inerti, così come non intervennero a fermare il massacro le potenze schierate contro la Germania nazista, le istituzioni internazionali, la Chiesa cattolica.
Fino agli anni Sessanta la Shoà venne percepita dagli europei come un episodio marginale e circoscritto della seconda guerra mondiale. Attenzione merita il caso italiano che ci riguarda direttamente ed è più complesso. Mussolini passò dopo circa dieci anni da una politica contraddittoria in cui condannava l’adesione al sionismo degli ebrei italiani ma li incitava a nazionalizzarsi e a fascistizzarsi a una politica antiebraica che in una prima fase incominciò la persecuzione dei diritti, poi delle loro vite.
Dal ‘43 al ‘45 settemilacinquecento ebrei vennero deportati nei lager e in gran parte vennero uccisi. Circa diciassettemila furono complessivamente i deportati italiani, mettendo insieme agli ebrei anche i diversi e gli oppositori politici. L’Italia non fu al di fuori ma dentro il cono d’ombra del grande massacro e dobbiamo averlo chiaro se vogliamo rispettare e attuare la costituzione repubblicana.
Del resto finalmente ai vertici delle istituzioni repubblicane c’è oggi una particolare sensibilità per il peso e il significato della ferita che le leggi razziali hanno procurato alla nostra storia identitaria. Dopo le parole del Presidente Napolitano che ha insistito sulle responsabilità che anche l’Italia fascista ha avuto nei confronti degli ebrei italiani con gli oltre 7000 deportati e uccisi nei lager nazisti, il ministro delle Pubblica istruzione Fioroni ha giustamente ricordato nella sua visita alla Risiera di San Sabba che è nostro dovere oggi chiedere scusa agli ebrei italiani vittime delle leggi del 1938. Vale la pena credo di poter aggiungere che l’Italia fascista varò in anticipo, rispetto alla Germania nazista, i provvedimenti di espulsione dalla scuola dei docenti come degli studenti di provenienza ebraica.

l’Unità 27.1.08
La crisi fa tramontare la «Cosa rossa»
Progetto in disarmo, restano solo Prc e Sd. Ma sul voto subito Rifondazione si divide
di Simone Collini


Bertinotti avrebbe suggerito al Colle un governo che faccia le riforme e che duri fino ad ottobre
Ferrero contrario: si voti a giugno
Lo sfaldamento della mai nata alleanza della sinistra radicale si è avuto sulla fiducia
Giordano: non ci spaventa il Pd che va da solo
Mussi per la soluzione della crisi immagina un governo breve

L’URTO DELLA CADUTA di Prodi si fa sentire soprattutto nell’ala sinistra dell’Unione. C’è il caso di Rifondazione comunista, che Franco Giordano ha compattato sulla linea «governo breve e di scopo per ottenere la legge elettorale» caldeggiata da Fausto Bertinotti, ma che in queste ore è percorsa da forti fibrillazioni: è bastato che alla riunione della Direzione e dei gruppi parlamentari del Prc si diffondesse la voce che il presidente della Camera abbia parlato al Quirinale di un governo che lavori alle riforme fino al prossimo autunno per far scattare sull’altolà più d’uno. Come Paolo Ferrero, che ha preso la parola per aggiungere una data al discorso fatto poco prima da Giordano: «Condivido la proposta di un governo a termine, ma si deve votare entro l’estate, a giugno, o diventa un’altra cosa in cui noi veniamo tritati». E se è facile capire perché Bertinotti possa pensare che abbia più possibilità di passare l’ipotesi di un governo in carica fino ad ottobre (ci sono oltre 300 parlamentari di prima nomina che vedranno sfumare il sogno della pensione se non rimangono in carica altri nove mesi) è altrettanto facile capire perché dentro il Prc ci sia chi guarda a questa ipotesi con preoccupazione: se sarà ancora in carica ad autunno, sarà questo governo istituzionale a fare la Finanziaria. Ma le fibrillazioni si propagano ben oltre i confini di Rifondazione ora che, per dirla con Giordano, «è finita la scommessa fatta sull’Unione».
La fine prematura del governo ha avuto tra gli altri effetti collaterali quello di far aprire profonde crepe nella cosiddetta Cosa rossa. Il processo unitario avviato da Prc, Pdci, Verdi e Sinistra democratica nei mesi scorsi è come se non fosse mai esistito. Lo speaker unico in Parlamento, gli emendamenti unitari alla Finanziaria, il coordinamento permanente dei quattro ministri: tutta roba passata. Le dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo ognuno le ha fatte per sé. «Avrei preferito diversamente ma alle consultazioni andremo uniti», diceva Fabio Mussi non più tardi di tre giorni fa. E ieri, suo malgrado, è salito al Colle mentre lasciava il Quirinale Oliviero Diliberto, che a sua volta è arrivato mentre usciva Alfonso Pecoraro Scanio (Giordano è atteso per domani). Ma non c’è soltanto questo.
Sulla soluzione della crisi aperta dalla sfiducia a Prodi ognuno dei quattro partiti ha una formula diversa. I Verdi hanno chiesto al Capo dello Stato un reincarico per Prodi. I Comunisti italiani si sono detti «indisponibili» a qualunque governo istituzionale perché, ha spiegato Diliberto, «è meglio andare al voto di qualunque pasticcio». Di tutt’altro avviso sono Rifondazione comunista e Sinistra democratica, entrambe convinte che si debba tentare la strada di un governo «breve» e «di scopo», che approvi una nuova legge elettorale (partendo dalla bozza Bianco) ma che proceda anche alla redistribuzione dell’extragettito fiscale previsto all’articolo 1 della Finanziaria. Inoltre sia Giordano che Mussi sono convinti che si debba procedere sulla strada dell’unità. Anche «in maniera unilaterale», fa sapere il primo. «Siamo impegnati e determinati a realizzarla», assicura il secondo. Entrambi, poi, sono non poco irritati per come Diliberto si sta muovendo. Irritazione che Giordano ormai neanche nasconde più: «Non si può invocare il processo unitario e poi volere una soglia di sbarramento bassa per tenersi una doppia possibilità, non si può avere la visione estremista di Ferrando e la proposta politica di Parisi». Resiste almeno l’asse Prc-Sd? Fino a un certo punto. Perché, guardando alle elezioni e a un auspicabile o meno accordo con il Pd, se Mussi dice che compito della sinistra unita «è di dire al Pd che si deve lavorare per un nuovo centrosinistra che governi l’Italia», Giordano parla di «libertà di scelta e autonomia»: «Non ci spaventa il Pd che vuole andare da solo. E la sinistra non vive o muore solo nel governo». Impostazione che non convince il vicepresidente del Senato Milziade Caprili, che alla riunione dei vertici Prc ha esplicitamente parlato della necessità di un «rapporto» col Pd. E che convince ancora meno Mussi.

l’Unità 27.1.08
Yehoshua: l’Europa ci aiuti a battere l’antisemitismo anche nell’Islam
di Umberto De Giovannangeli


«Non nego la gravità degli altri genocidi, Ruanda o Cambogia, ma temo che lo specifico di ognuno sia offuscato»
«Olmert, su Gaza pensa ai “padri” che non ritennero debolezza ma forza la ricerca di un’intesa»

La forza della Memoria nella Giornata della Memoria. Una cavalcata nel tempo. Per non dimenticare. È quella condotta dal più grande scrittore israeliano contemporaneo: Abraham Bet Yehoshua.
Oggi viene commemorata in Europa la Giornata della Memoria. Qual è, ai suoi occhi, il valore di questo evento?
«Ho un grande rispetto per questa decisione dell’Europa, e penso sia giusto che la commemorazione della Shoah avvenga proprio là, nei luoghi, nelle strade, nelle foreste, in cui tutto ciò è fisicamente avvenuto. La Shoah non è una questione limitata alla Germania. I popoli europei che vi hanno preso parte sono molti, ed è quindi giusto che questa consapevolezza penetri nelle coscienze di tutti gli europei. Penso poi che sia giusto dare una propria identità ad ognuna delle tragedie che rientrano nella triste categoria del genocidio. E sia chiaro che dico questo non per diminuire la gravità degli altri genocidi - come ad esempio quelli avvenuti in Ruanda o in Cambogia - ma per evitare che la specificità di ognuno di questi venga offuscata o confusa. La specificità della Shoah sta - fra l’altro - nella sua incomprensibilità, a meno che non si faccia un semplicistico ricorso alla malvagità umana. Nel caso degli ebrei, non questioni territoriali, ideologiche, etniche, economiche o religiose hanno rappresentato il sostrato del genocidio, come è avvenuto in tutti gli altri casi. Gli ebrei europei aspiravano all’integrazione nelle società in cui vivevano; non rappresentavano alcuna minaccia teologica o religiosa né per le società più vicine alla religione né tanto meno per un regime come quello nazista che era laico e perfino anti-clericale; economicamente parlando, lo sfruttamento degli ebrei vivi sarebbe senz’altro stato enormemente più vantaggioso rispetto all’annientamento deciso nei loro confronti. L’inafferrabilità delle motivazioni che hanno portato alla Shoah non può che rafforzare l’idea che - dopo quanto è avvenuto - solo il popolo ebraico può essere responsabile del proprio futuro».
Quindi Israele come patria del popolo ebraico è l’unica soluzione all’antisemitismo?
«È così. Le nazioni europee lo avevano già cominciato a capire prima dell’Olocausto, ma purtroppo non abbastanza da precederlo. Dopo la Shoah in parte per convinzione e in parte per l’orrore di cui erano stati testimoni, tutti - tanto l’Europa occidentale quanto quella orientale - in un periodo molto problematico dei loro rapporti, hanno avuto fra i pochi punti di concordia, il supporto alla nascita e allo sviluppo dello Stato d’Israele. Avevano visto a che cosa aveva portato l’antisemitismo, ne sono rimasti inorriditi e hanno compreso che l’antisemitismo non era da combattere solo per salvare le vittime dalla propria sorte di vittime, ma anche per salvare i carnefici dalla propria sorte di carnefici».
E la Giornata della Memoria deve aiutare ad approfondire questo aspetto della Shoah?
«Questo e tanti altri. Il valore dell’assunzione di responsabilità è importante ma soprattutto per quanto concerne l’approfondimento del significato degli atti del proprio popolo, della comprensione delle motivazioni per cui le cose sono avvenute. In quanto a noi ebrei, dobbiamo scavare nella nostra identità per capire in che modo la nostra presenza nella storia possa avere creato quello oscuro spazio ideologico che è stato colmato da quelle idee insane e farneticanti che sono state fatte proprie da tanti e che hanno portato alla tragedia dell’Olocausto. Ma di quella tragedia c’è un aspetto che non va sottovalutato».
Quale?
«Riusciamo a capire meglio l’uomo, dopo l’Olocausto. È vero, abbiamo sempre saputo che l’uomo è capace di compiere il male più efferato e il bene più straordinario; ma nonostante questo l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza. Degli scheletri ambulanti nei campi di concentramento, che da un punto di vista biologico dovevano quasi considerarsi come morti, davano ancora delle prove di moralità, dividendo con gli altri l’ultimo pezzo di pane che restava. Dalla disperazione più tremenda può perciò nascere anche la speranza. Noi che siamo stati lì, e che ne siamo usciti, possiamo e secondo me dobbiamo alzare il vessillo della fede nell’uomo».
Questo evento - la stessa decisione di celebrare una Giornata della Memoria - è senz’altro un passo importante sul piano della memoria storica, ma i dati di indagini riportano che, nonostante tutto, l’antisemitismo è in espansione. Quali misure si aspetta dall’Europa per debellare questo virus?
«Sono preoccupato del fatto che, purtroppo, il virus dell’antisemitismo non è stato debellato. Si è indebolito; oggi non può mostrarsi in tutta la sua virulenza perché considerato inadatto, sconveniente; ma nelle sue nuove mutazioni continua ad essere presente e a lanciare anatemi e accuse spesso ingiuste contro Israele. Io sono il primo a sollevare critiche sugli errori dei governi israeliani, ma nello stesso tempo individuo spessissimo in molti degli attacchi portati a Israele cose che con le divergenze politiche non hanno nulla a che fare e che riportano invece a meccanismi che vorremmo cancellati. So che debellare completamente l’antisemitismo è un obiettivo proibitivo. Ma non lo è il combatterlo sotto ogni sua forma. L’Europa lo deve combattere con tutta la sua forza. Non per il bene degli ebrei ma per il proprio bene. Per la salute delle proprie società. Per non permettere che questo virus si espanda e colpisca le parti vitali del proprio organismo. La Giornata della Memoria ha dietro di sé una storia breve, ma mi sembra già di individuarne la sua importanza. Una importanza che non sta, ovviamente, nelle cerimonie che avvengono quel giorno, ma in tutto quello che c’è intorno, che la prepara: le azioni educative; la trattazione dell’argomento da parte dei mass media. Con il bombardamento di informazioni che ognuno vive ogni giorno, solo un approfondimento morale e intellettuale del tema ha la possibilità di penetrare il cuore e le menti. E gli ebrei continueranno ad aggiungere a questo approfondimento, il proprio lutto, individuale e di popolo».
Oggi - con tutte le divergenze politiche esistenti e perfino con il sopra ricordato aumento dell’antisemitismo - l’Europa non è certo ostile a Israele. I pericoli all’esistenza di Israele vengono da altre direzioni, soprattutto dall’Islam radicale e fondamentalista, che spesso abbraccia le tesi negazioniste sull’Olocausto. Come va trattato questo singolare antisemitismo?
«In questo sta il doppio impegno dell’Europa. Capire per sé stessa - per il proprio passato e per il proprio futuro - e dall’altra parte aiutare altri - in questo caso il mondo islamico e arabo - a capire fin dove può portare l’estremizzazione. Il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme - lo Yad Vashem - ha messo in rete alcuni giorni fa il proprio sito in arabo. È un’iniziativa lodevole, importante, ma che avrà un senso solo se sarà l’Europa a sostenere la tesi della pericolosità dell’antisemitismo per le società che vogliono progredire civilmente. Solo l’Europa può convincere il mondo arabo degli effetti distruttivi della demonizzazione e della volontà di annientare un altro popolo. E qui entra in gioco la politica. Ma quella buona; quella che potrebbe portare alla soluzione del conflitto fra arabi e israeliani. Con un’Europa che nella sua equidistanza faccia capire al mondo arabo la legittimità dell’esistenza di Israele come patria del popolo ebraico, e a Israele la necessità di dare ai palestinesi un proprio Stato in cui non ci sia alcuna sua ingerenza nelle loro vite. Dopo aver giocato durante la Shoah il ruolo di portatrice di guerra, l’Europa deve ora cercare di essere portatrice di pace. L’impegno in Libano alimenta questa speranza».
Il tema della pace ci porta alla più stretta attualità. E al dramma di Gaza. Come uscirne?
«Con una tregua. Da negoziare. Subito. Non vedo altre strade, né per noi, tanto meno per i palestinesi. Sia chiaro: lungi da me sottovalutare le responsabilità pesantissime che i capi di Hamas hanno nell’aver determinato questa situazione. Penso che quell’umanità disperata che si trascina in Egitto alla ricerca di cibo debba chiedere conto dei propri patimenti ai leader di Hamas. I lanci continui, martellanti, di razzi contro Sderot, Ashqelon e le altre città del sud di Israele sono alla base di questa situazione. Riconosciuto ciò, resto convinto che la risposta militare, da sola, sia una non risposta. Con Hamas occorre ricercare un cessate il fuoco. E non vale il discorso, riproposto più volte dal primo ministro Ehud Olmert, che Israele non negozia con chi non ci riconosce o vuole distruggerci. Non vale perché è la storia a smentirlo. La storia d’Israele, dalla sua fondazione ai giorni nostri, è segnata da guerre ma anche da accordi fatti con chi non nascondeva, e spesso praticava, il proposito di rigettare a mare gli ebrei. A Olmert dico: segui l’esempio non solo di un padre della patria, come David Ben Gurion, ma anche di leader conservatori, come Menachem Begin, che non considerarono prova di debolezza, ma semmai di forza, la ricerca di un accordo, fosse anche una tregua, con il nemico».
In ultimo, tornerei sul valore della Memoria. In un suo libro, lei ha affermato, cito testualmente, che «come figli delle vittime, ci incombe l’obbligo di enunciare al mondo alcuni insegnamenti fondamentali». Qual è quello più attuale?
«La profonda repulsione, il rigetto più fermo, per il razzismo e per il nazionalismo oltranzista. Abbiamo visto sulle nostre carni il prezzo del razzismo e del nazionalismo estremisti, e perciò dobbiamo respingere queste manifestazioni non solo per quanto riguarda il passato e noi stessi, ma per ogni luogo e per ogni popolo».

l’Unità 27.1.08
Duemila pacifisti israeliani «nutrono» Gaza
Carovana d’aiuti nella Giornata globale d’azione. Centinaia d’iniziative in tutto il mondo


DUEMILA PACIFISTI israeliani hanno scortato una carovana d’aiuti a Gaza. È solo una delle centinaia di iniziative promosse ieri per la giornata globale di azione del World Social Forum 2008. Più di mille gruppi mobilitati in tutto il mondo per un mix di marce, dibattiti, sit-in, manifestazioni di solidarietà, secondo la formula scelta quest’anno per dare voce alla «grande alleanza di gruppi, città, movimenti» che animano gli «altro-mondialisti». Non ci sono stati grandi momenti comuni, ma un universo di manifestazioni disseminate su tutto il pianeta, «ciascuno con i propri linguaggi» e «sui propri temi più scottanti», che sono molti e diversi.
In Medio Oriente, i pacifisti israeliani hanno rotto l’isolamento di Gaza, accompagnando un convoglio di aiuti umanitari. Nonostante nella notte l'esercito avesse interrotto l'accesso al punto al confine dove era previsto l'incontro con i palestinesi, il contatto con il responsabile dell’ospedale locale è andato a buon fine.
In Asia, in Corea del Sud contadini e attivisti hanno manifestato per chiedere un mondo «senza povertà e senza discriminazioni», mentre una parata di barche ha attraversato Mumbay, in India, per chiedere giustizia e che la crescita economica non schiacci i diritti dei milioni di poveri del Paese. Gli sfollati vittime degli uragani in Bangladesh sono scesi in piazza per reclamare un tetto sicuro per tutti. In Giappone la coalizione anti-G8 è scesa in piazza per ribadire la sua protesta contro il prossimo vertice previsto a Hokkaido.
In Australia gli aborigeni hanno sfilato per le strade di Melbourne per commemorare l'«Invasion day», la ricorrenza nella quale si ricordano i massacri subiti dalla popolazione indigena da parte dei colonialisti inglesi. In Africa sono in corso il Forum Sociale del Maghreb e quello del Mozambico. In Turchia a Istanbul, Ankara, Izmir e Adana migliaia di persone hanno manifestato contro la guerra e per i diritti umani. In Iraq a Samarra centinaia di bambini hanno consegnato armi giocattolo e ricevuto in cambio palloni.
In Europa, migliaia di persone sono riunite da venerdì a Bercellona per il primo Forum Sociale della Catalogna. Ieri pomeriggio a Parigi grande concerto contro il razzismo. In Russia, iniziative in trenta città per la democrazia, i diritti sociali e il lavoro. In Brasile grande concerto sulla spiaggia di Rio, negli Stati Uniti iniziative per rivendicare il diritto di tornare a New Orleans, per tutti gli sfollati di Katrina. Anche in Italia si sono tenute oltre 300 iniziative in 85 località (40 solo a Firenze, 15 a Roma), sui temi della pace, del disarmo, dei diritti del lavoro, delle economie solidali, dei conflitti, del razzismo, dei rifiuti.
L’idea di fondo è quella di un «laboratorio permanente globale, di lotte, alternative, manifestazioni, eventi culturali», che esprimono la vera natura del Forum sociale mondiale. Se c’è un rischio però nella formula scelta è che, rispetto a edizioni precedenti, la Giornata globale d’azione finisce per essere talmente parcellizzata in una miriade di iniziative da rischiare l’effetto dissolvenza.

l’Unità 27.1.08
Cagnacci, la via romagnola a Caravaggio
di Renato Barilli


SEICENTO A differenza del più aulico Furini in mostra a Firenze, l’artista di Romagna in mostra a Forlì segue la lezione del grande Merisi con un’inflessione tutta particolare, carnale e «quotidiana»

Ho già segnalato la fortunata circostanza che consente di visitare in contemporanea mostre dedicate al fiorentino Francesco Furini e al romagnolo Guido Cagnacci, l’uno proprio a Firenze, Palazzo Pitti, l’altro nel complesso monumentale del S. Domenico a Forlì. A unirli, quel dato curioso dei seni femminili nudi al vento di cui furono strenui ed efficaci cultori, riscuotendo ai loro tempi ammirazione e riprovazione in parti uguali. Ma visti da vicino, i due inevitabilmente si differenziano, come permette di constatare la mostra che al Cagnacci (1601-1663) ora viene dedicata appunto a Forlì (a cura di Daniele Benati e a Antonio Paolucci, fino al 22 giugno, cat. Silvana). A fare la differenza, contribuiscono intanto i ben diversi contesti culturali e geografici. Il Furini vive quella sorta di autunno delle passate grandezze, e di tramonto delle glorie medicee, da cui è dominato il Seicento fiorentino. Si devono apprezzare gli sforzi di una studiosa come Mina Gregari impegnata a dimostrare che il Seicento toscano non è poi del tutto indegno della grandeur trascorsa, e così è senza dubbio, ma ciò non toglie che Firenze in quegli anni ceda la leadership detenuta invariabilmente per alcuni secoli, e ad approfittarne è il territorio emiliano-romagnolo, che forse per la prima e unica volta nella sua storia assurge a un primato nazionale, e perfino europeo, non solo per virtù propria, ma beneficiando del fatto, per altri aspetti infelice, di essere all’ombra della Roma papale. Si aggiunga a questa liaison, felice almeno sul piano pittorico, il dato etnico, perfino con qualche rischio folclorico, insito nel tradizionale «sangue romagnolo». Infatti i nudi, le immagini erotiche del Furini si collocano in un clima nevrotico, perfino malato, anche per la curiosa doppiezza dell’artista che divenne sacerdote, vivendo sulla propria pelle un contrasto tra il diavolo e l’acqua santa. Al contrario le nudità di Cagnacci si pongono in un contesto più sano, tranquillo, perfino casalingo, come se fossero di buone massaie, di «rezdore», come si dice da quelle parti, disposte a denudarsi nell’intimità delle proprie stanze per resistere all’afa, cedendo a deliqui, a svenimenti, ma forse anche a salutari pennichelle.
Ad accostare i due rispettivi percorsi c’è attorno ai loro vent’anni d’età, e negli anni ’20 del secolo, un comune inevitabile soggiorno a Roma, dove furono entrambi colpiti dalla rivoluzione caravaggesca, ma mentre di questa nel Fiorentino ci sono tracce effimere, l’altro la intende più da vicino, traendo profitto proprio da un Caravaggio giovanile, quale ben attestato, in mostra, dalla Maddalena penitente. È il Caravaggio «pittore della realtà», nell’accezione più stretta, in quanto il suo occhio viene calamitato da una singola figura, non ancora avvolta nelle tenebre, ma al contrario nitidamente colta, quasi con sharp focus. Una sorta di precisionismo avanti lettera che il giovane rivoluzionario condivide col più anziano Orazio Gentileschi, anche lui giustamente documentato in mostra con una sua Maddalena. Tra parentesi, l’intera vicenda tra Cagnacci e Furini e loro maestri si può ben ridurre a una storia di Maddalene, e di Cleopatre, condite dall’uno e dall’altro in salse diverse. Ma il romagnolo, colpito da un autentico caravaggismo, trae dal maestro una sodezza di carni, e una capacità di fare il vuoto attorno alle figure. A Roma egli condivide l’abitazione addirittura col Guercino, uno dei grandi interpreti della Scuola bolognese, e alla sua formazione non è stato indifferente neppure il padre fondatore, Ludovico Carracci, e beninteso da tutti loro egli si sente vieppiù indotto a dipingere con colori densi, grassi, fortemente sensuali. Ma non li segue affatto nella propensione a comporre «macchine» gremite di figure, secondo i ritmi industriosi e agitati del barocco. Vale davvero quel calamitarsi su una figura per volta che egli ha tratto dal primo Caravaggio, e che poi va a conciliarsi con l’insegnamento di un altro Bolognese di razza, Guido Reni.
E dunque risulta davvero esemplare il sottotitolo della mostra, che pone il Nostro tra Caravaggio e Guido Reni, se solo si precisa che il Divino Guido giunge a influenzarlo per i suoi esiti finali, quando il Reni scioglie i gruppi, dandoci singole immagini, busti, volti, ma resi pallidi, opalescenti, lunari. Il Cagnacci lo segue nell’appuntarsi su protagonisti isolati, «uno per volta per carità», ma mantiene, della iniziale partenza caravaggesca, una consistenza piena di carni. Che l’artista romagnolo non ami affatto le composizioni gremite e intricate, le «macchine» stupefacenti, lo si vede dai due quadroni realizzati per il S. Mercuriale della sua città. Gli angeli si librano nel cielo azzurro, ma si sente che non sono affatto disposti a rinunciare alla propria individualità per fare gruppo, preferirebbero atterrare, essere inquadrati entro uno spazio fatto su misura, meglio insomma il dipinto da cavalletto che la pala d’altare. E infatti il clou della mostra forlivese sta nella galleria finale, allestita in un soppalco, dove sfilano i busti delle brave massaie, di appartenenza sacra o profana, che amano tanto alleggerirsi, dare aria alle pelli roride di sudore, quasi senza malizia. Tanto è vero che la galleria non è solo al femminile, il Nostro ama spogliare anche santi e guerrieri, come sgusciare dei gamberoni fuori dalle corazze e farli apparire a nudo, rosei e paffuti.

Guido Cagnacci Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni Forlì Musei San Domenico Fino al 22 giugno

Repubblica 27.1.08
La rotta per salvare il paese dei naufraghi
di Eugenio Scalfari


IL GIORNO in cui ha deciso di staccare la spina e mandare a casa il governo e forse la legislatura, Clemente Mastella ha recitato la poesia d´una poetessa brasiliana che concludeva con il verso "Lentamente muore" riferito ovviamente al destino politico di Romano Prodi. Una civetteria letteraria? Un modo elegante di annunciare il suo voto negativo da parte d´un personaggio nei cui comportamenti l´eleganza è piuttosto rara?
Direi soprattutto una citazione sbagliata. E´ vero che l´esperienza politica del governo Prodi si è conclusa esattamente in quella seduta del Senato, non molto lentamente poiché la sua vita è stata abbastanza breve. Ma non è stata soltanto l´esistenza del governo Prodi a concludersi. E´ terminato un ciclo e sono di colpo invecchiati tutti i protagonisti e i comprimari che lo hanno animato, quale che sia la loro età anagrafica e professionale. Tra di essi anche Mastella. Traslocando al centrodestra forse avrà i collegi pattuiti con Berlusconi, ma non avrà più (per nostra fortuna di italiani) quei poteri di interdizione che il suo uno per cento gli dava in una maggioranza friabile e microscopica. Il Mastella degli ultimatum manterrà la signoria di Ceppaloni rientrando nel rango dei vassalli di paese dal quale era inopinatamente uscito in forza di una legge elettorale («la porcata» votata dal centrodestra nello scorcio della scorsa legislatura) che ha reso il suo uno per cento essenziale come altrettanto essenziali sono diventati gli altri microscopici per cento dei Diliberto, dei Pecoraro, dei socialisti e perfino i voti individuali dei Dini, dei Turigliatto, dei De Gregorio.
La citazione giusta doveva dunque essere un´altra. Sta in "Allegria di naufragi" di Ungaretti e suona così: "Si sta come d´autunno/sugli alberi le foglie". Riguarda tutti, insigne Mastella, non soltanto Prodi.
Adesso si discute sulle vere cause della crisi. Giuliano Ferrara sostiene che sia il contrasto pluridecennale tra magistratura e classe politica; altri ne fanno carico alla nascita del Partito democratico; altri ancora al bombardamento mediatico o al cardinal Ruini e ai vescovi italiani o al fatto che il governo mancava di una missione, a differenza del Prodi del ´96 che si propose di portare l´Italia nell´Eurolandia e ci riuscì.
La tesi di Ferrara non ha alcun riscontro probatorio: Prodi non cadde nel ´98 per cause di giustizia, né il centrosinistra cadde nel 2001 per contrasti con la magistratura, né Berlusconi nel 2006. Il bombardamento mediatico c´è stato (e molto intenso) contro Prodi ma ci fu anche, sia pure assai più ridotto, contro il Berlusconi della precedente legislatura; comunque non basta a spiegare una crisi di queste proporzioni.
Quanto alla mancanza di una missione, che Angelo Panebianco gli imputa sul "Corriere della Sera" di ieri, si tratta di un argomento a mio avviso inesistente. La missione era duplice e fu dichiarata esplicitamente durante la campagna elettorale: risanamento dei conti pubblici, ereditati in pessime condizioni dal governo Berlusconi/Tremonti; rilancio della crescita economica e perequazione delle intollerabili disuguaglianze sociali in essere. Il primo punto è stato realizzato con la Finanziaria del 2007, il secondo aveva preso l´avvio con quella del 2008 e aveva già dato frutti importanti.
Restano le pretese responsabilità del Partito democratico, delle quali manca tuttavia qualunque traccia. Veltroni e il gruppo dirigente del Pd hanno concordato e appoggiato completamente l´azione del governo. Il dissenso c´è stato non con il governo ma con la maggioranza su un punto soltanto anche se essenziale: il rifiuto del frazionamento insopportabile dei partiti, dei veti, della rissa continua, delle estenuanti mediazioni, del rallentamento esasperante di ogni decisione, dell´immagine desolante che rimbalzava su un´opinione pubblica insicura, impaurita dalla globalizzazione, frustrata dalla Babele che i "media" non potevano non registrare e che la potenza mediatica berlusconiana esasperava con ogni mezzo.
Il Pd ha denunciato questo stato di cose e si è impegnato per quanto stava in lui di porvi riparo. Ha creato una nuova forma-partito basata sulle primarie. Ha annunciato che alle future elezioni si sarebbe presentato da solo e che le alleanze le avrebbe stipulate sulla base d´un programma semplice, abbandonando la prassi universalmente diffusa di programmi che hanno il solo scopo di metter d´accordo sulle parole ma non nella sostanza il diavolo con l´acqua santa.
Su questo punto, è vero, il Pd di Veltroni è stato netto. Sarebbe possibile rivedere sullo stesso palcoscenico affratellati per sole due ore Mastella, Pecoraro, Boselli, Giordano, Ferrero, Padoa-Schioppa, Dini, Diliberto? Sarebbe possibile, senza che quelle presenze e quelle persone fossero non solo fischiate ma disprezzate sia dalla destra sia dalla sinistra sia dall´antipolitica becera sia dagli italiani responsabili e maturi?
Questo ha detto il Partito democratico e su questo ha promesso di tener ferma la barra del suo timone. Speriamo che mantenga l´impegno. Se perderà, sarà con onore e potrà continuare la sua battaglia. Ma solo a queste condizioni potrà giocare la sua partita con molte speranze.
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Dopo la sconfitta di Prodi al Senato Ezio Mauro ha scritto che questo governo è stato assai migliore di quanto apparisse, «ha razzolato bene e predicato male». Sono anch´io del suo stesso parere e cominciano a dirlo anche quelli che finora l´hanno avuto come bersaglio fisso sul quale sparare. L´ha biascicato a mezza bocca perfino Berlusconi, che è tutto dire.
Mi ha dato un senso di sincera tristezza assistere dagli schermi televisivi a quella seduta che non esito a definire drammatica, anzi tragica per la sguaiataggine da bordello in cui è precipitata l´aula del Senato al momento delle votazioni. Le aggressioni fisiche, la rissa, gli sputi, gli svenimenti e quello spregevole buffone che dai banchi missini, col pullover rosso annodato al collo, gli occhiali neri e una bottiglia di spumante in mano, lanciava sconcezze e innaffiava di spuma i banchi e i senatori che vi erano seduti. Ha fatto il giro del mondo quell´immagine.
Non so se e quando il Senato riaprirà le porte, ma a quel guitto da due soldi dovrebbe esser comminata dalla presidenza la sanzione massima. Quanto al suo partito, dovrebbe espellerlo su due piedi, ma sono certissimo che non lo farà. C´è una parte (non tutta per fortuna) della classe politica che si diverte e festeggia personaggi come Strano e come Cuffaro, "vasa-vasa", che festeggia con i cannoli una condanna a cinque anni di reclusione. Quella politica ha i Beppe Grillo che si merita. Purtroppo su questi lazzi e questa vergognosa giungla di clientele affonda lo Stato, ciò che ne resta.
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Si dice da parte di alcuni che Prodi avrebbe forse fatto meglio a dimettersi senza formalizzare la sua sconfitta al Senato. Si attribuiscono analoghe riflessioni al Presidente della Repubblica ma senza un minimo di riscontri verificabili.
Credo invece (e ancora una volta sono con lui) che Prodi abbia fatto pienamente il suo dovere interpellando entrambi i rami del Parlamento. La sconfitta a Palazzo Madama era più che certa ma doveva essere certificata dal voto e il voto doveva avere la firma di chi lo dava. L´assunzione di responsabilità di chi votava il sì o il no.
Così è stato ed ora almeno questo punto è chiaro. L´ombra d´un eventuale reincarico avrebbe accresciuto tensioni e confusioni. Personalmente ho visto con amarezza la caduta di un uomo forte delle sue convinzioni che ha accettato il voto contrario con dignità repubblicana. Senza quel passaggio senatoriale, senza la sofferenza di quella sconfitta, le dimissioni date dopo la fiducia ottenuta alla Camera avrebbero avuto l´aria d´un sotterfugio. Così prevede la Costituzione e Prodi ad essa si è attenuto semplificando per quanto stava in lui il fardello pesantissimo che ora è sulle spalle del Capo dello Stato.
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Il Presidente si è preso oggi una giornata di riflessione dopo aver iniziato le consultazioni che entreranno nel vivo domani e si concluderanno con l´incontro con i partiti maggiori dopodomani. Si parla anche di possibili incarichi esplorativi nel tentativo di convincere Berlusconi, Fini e Bossi all´idea di un governo «di scopo» che abbia il compito di varare la legge elettorale e gli altri adempimenti connessi e nel frattempo sia in grado di fronteggiare l´emergenza economica e finanziaria che sta scuotendo il pianeta.
Ho la sensazione che gli incarichi esplorativi abbiano poco senso. Non c´è niente di recondito da scoprire. Quanto alla "moral suasion" nessuno ha maggior titolo per usarla del Capo dello Stato. Ci si domanda quante divisioni (nel senso militaresco del termine) abbia a sua disposizione il Presidente della Repubblica, di quali strumenti operativi disponga per realizzare quello che è il suo dichiarato convincimento: andare al voto dopo aver cambiato il sistema elettorale e non prima. E a questa domanda la risposta è pressoché unanime: pochissime divisioni, pochissimi strumenti, forse soltanto l´opera di convincimento da esercitare su chi non è del suo stesso parere.
Ebbene, uno strumento il Presidente ce l´ha, deriva direttamente dal dettato costituzionale ed ha anche a suo sostegno qualche importante precedente. La Costituzione prevede che il Presidente, in presenza d´una crisi di governo, «dopo avere ascoltato le opinioni dei presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio dei ministri e su sua proposta i ministri. Il governo, dopo aver prestato giuramento, si presenta entro quindici giorni alle Camere per ottenerne la fiducia».
Fin qui la Costituzione. Tutte le altre formalità sono state introdotte dalla prassi ma non sono scritte negli articoli della Carta. Nulla vieta, anzi così è prescritto, che mercoledì o quando egli decida, il Presidente convochi la persona da lui scelta e la nomini senza altri indugi alla guida del governo e che entro poche ore riceva dal nominato i nomi dei ministri. Firmati i decreti, i ministri giurano e il governo entra nel pieno possesso dei suoi poteri in attesa di ricevere la fiducia dalle due assemblee parlamentari.
Due settimane dopo vi sarà il voto di fiducia. Se sarà positivo il governo avrà adempiuto a tutte le condizioni previste, se sarà negativo il governo si dimetterà e il Capo dello Stato avrà motivo di sciogliere il Parlamento.
Quali vantaggi possono venire da questa correttissima procedura? Non sarebbe il governo presieduto da Prodi ad «accompagnare» le elezioni, ma un nuovo governo istituzionale. Berlusconi e Fini preferiscono avere Prodi ancora in carica per poter scaricare pugni a volontà su un "punching ball" che non ha titolo né mezzi per rispondere. I pugni sferrati su Prodi colpirebbero inevitabilmente il Partito democratico che anziché presentarsi come l´unica novità in campo verrebbe incastrato sotto il patronimico prodiano.
L´arrivo in campo d´un governo composto interamente da personalità indipendenti e tecnicamente competenti metterebbe il Parlamento nelle condizioni migliori per votare o negare la fiducia, senza doversi far carico di proporre questa o quella soluzione. Al governo del Presidente i partiti e i singoli parlamentari debbono solo rispondere sì, no, astenuto, o disertare la riunione.
Nessuna forza politica rinuncerebbe a nulla. La conta non si fa in piazza ma in Parlamento dove ognuno risponde di sé «senza vincolo di mandato».
* * *
Conosco la possibile obiezione: se attorno ad un simile governo si formasse una inedita maggioranza, saremmo in presenza di un ribaltone. Obiezione che non ha alcun sostegno. Infatti il ribaltone, o cambiamento di maggioranza, non è previsto né vietato in nessun articolo della nostra Costituzione ed è in palese contrasto con la libertà del singolo parlamentare di comportarsi come meglio ritiene nell´interesse del paese.
Del resto di ribaltoni e ribaltini è piena la storia della nostra Repubblica parlamentare. Il governo berlusconiano del ´94 esordì con il ribaltino di Tremonti che passò dal centro al centrodestra a pochi giorni di distanza dalla sua elezione. Pochi mesi dopo fu la Lega a lasciare l´alleanza di centrodestra determinando la crisi e la nascita del governo Dini. Nel ´98, caduto Prodi, D´Alema incassò i voti di Mastella rimpiazzando con lui quelli perduti di Rifondazione. Adesso è Mastella che abbandona la coalizione in cui è stato eletto e passa dall´altra parte. Chi vituperava i ribaltoni applaude oggi i ribaltati. Perciò questo tipo di obiezione non ha senso alcuno con la legislazione vigente.
Per quanto riguarda i precedenti governi istituzionali, ne ricordo i tre più clamorosi: quello di Pella del 1953, nominato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi senza che il suo nome fosse stato indicato da alcun gruppo parlamentare e meno che mai dalla Dc; quello del sesto governo Fanfani, nominato da Cossiga nell´aprile del 1987, sfiduciato dalle Camere e in particolare dal suo partito, che portò alle elezioni anticipate nel giugno dello stesso anno. Infine il governo Dini del ´95, nominato da Scalfaro, che trovò in Parlamento il consenso del centrosinistra e della Lega.
Una procedura del genere ha dunque dalla sua cospicui precedenti oltre che le norme della Costituzione. Aggiungo per quel che vale - e vale molto - che anche ha dalla sua l´appoggio di tutte le parti sociali, dai sindacati ai commercianti e alla Confindustria. Cioè dall´insieme del paese che produce, lavora e consuma. Forse quel paese non ama i politici, ma sa che della politica nessuna società può fare a meno, salvo i paesi (e i paesetti) tribali.

Repubblica Firenze 27.1.08
Laurea allo scrittore, video del regista, 6 mila ragazzi al Mandela
Grossman, Spielberg e la Shoah
di Fulvio Paloscia


Uno dei suoi romanzi più intensi, Vedi alla voce amore, racconta la Shoah vista dagli occhi di un bambino figlio di sopravvissuti. E´ David Grossman, uno dei massimi scrittori contemporanei, a cui l´Università di Firenze conferirà la laurea honoris causa in studi letterari e culturali internazionali oggi, in occasione del Giorno della Memoria. La cerimonia alle 11 nell´aula magna dell´ateneo (piazza San Marco 4) alla presenza del rettore Augusto Marinelli e della preside della Facoltà di lettere Franca Pecchioli. Dopo la laudatio, che sarà pronunciata da Ida Zatelli, ordinario di lingua e letteratura ebraica, la lectio doctoralis di Grossman. Dalla letteratura al cinema con un altro grande nome: Steven Spielberg. Il regista di Schindler´s list ha realizzato un video di 4 minuti per la Mediateca Regionale Toscana, che ha acquisito 50 videointerviste ad ebrei toscani sopravvissuti, provenienti dalla Shoah Foundation dello stesso Spielberg. E´ uno dei contributi più attesi a Sterminio e stermini, è successo, può succedere di nuovo, il convegno domani alle 9.30 organizzato dalla Regione al Mandela Forum. Testimoni diretti parleranno, a 6 mila studenti toscani, non solo dei campi di concentramento nazisti (tra gli altri Jona Oberski, che ha ispirato il film Jona che visse nella balena di Roberto Faenza) ma anche degli altri eccidi che hanno macchiato il Novecento: dall´Armenia a Hiroshima. Mentre registi come Paolo e Vittorio Taviani, Carlo Lizzani, Ettore Scola e lo stesso Faenza discuteranno su cinema e memoria. Sarà Grossmann a concludere l´evento, alle 12.30.

Repubblica Roma 27.1.08
Shoah, appuntamenti per la Memoria
Film, incontri, feste rom e un Giardino dei giusti
All’Auditorium lo storico Claudio Pavone tiene una lezione sull’8 settembre '43
di Laura Mari


Canti, danze e musiche popolari. Ma anche piatti della cucina rumena. Una vera festa quella che ieri al campo rom di via Candoni, nel XV Municipio, ha aperto le celebrazioni della Giornata della Memoria, in ricordo delle vittime della Shoah. La manifestazione, organizzata dall´Arci, si è conclusa con il concerto dei Têtes de Bois a cui, con i cittadini dell´XV Municipio e i 400 rom che vivono nel campo nomadi, ha partecipato l´assessore capitolino alle Politiche Sociali Raffaela Milano. «Prima di conoscerci ci considerano criminali - ha detto Stefan, portavoce rom - ma queste forme di razzismo rischiano di sfociare nell´odio che portò allo sterminio di 500mila rom nei campi nazisti». E oggi alle ore 17 l´Opera Nomadi dà appuntamento in piazza dell´Esquilino per una fiaccolata che arriva in piazza degli Zingari dove verrà deposta una corona, sempre alla presenza dell´assessore Milano.
Martedì, presso la scuola Leonardo Da Vinci di Maccarese, sarà inaugurato il primo Parco della Memoria del Lazio. «Sarà un giardino dei giusti simile a quello di Gerusalemme», anticipa l´assessore provinciale alla Scuola Daniela Monteforte, «gli studenti pianteranno dieci ulivi che serviranno a tenere viva la memoria di uomini come Giorgio Perlasca». E oggi, in ricordo del 27 gennaio 1945, il giorno in cui l´Armata Rossa aprì i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, la città aprirà le porte alla memoria della Shoah. Alle ore 11, alla libreria Borri Books (a Termini) incontro con Alberto Sed, sopravvissuto ad Auschwitz, mentre alle 9 partirà dai Municipi I, III, IX e XI la quarta edizione di Pedalando nella memoria, un giro in bici che si concluderà al ghetto.
Alla Casa della Memoria, in via San Francesco di Sales, alle 15 la proiezione del film di Davide Ferrario, La strada di Levi, poi una lettura di poesie sui temi della resistenza e della libertà e la proiezione del film Ritratto di un criminale moderno, sul processo a Eichmann. Alla Casa del Cinema di Villa Borghese, invece, anteprima del documentario di History Channel Fuga da Auschwitz (dalle 15,30 alle 18,30). Alla biblioteca Corviale (via Mazzacurati 76) la Shoah sarà ricordata con la mostra fotografica The Wall. All´Auditorium Parco della Musica alle 11 lo storico Claudio Pavone tiene una lezione sull´8 settembre 1943. Alle 16,30 è la volta di La memoria degli altri, musiche e letture per la regia di Vittorio Pavoncello, alla quale sarà presente la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz.

Corriere della Sera 27.1.08
Zapatero. Verso il cambio della legge sull'interruzione di gravidanza
La pillola del giorno dopo gratis e libera in Spagna
Piano dei socialisti. «Troppi aborti tra le più giovani»
di Elisabetta Rosaspina


La situazione attuale varia da regione a regione: gratis e senza ricetta, a pagamento e con obbligo di prescrizione

MADRID — La casa, la rivalutazione degli stipendi minimi, l'assegno bebè e ora la pillola del giorno dopo: Zapatero ha bisogno dei giovani per poter continuare a governare la Spagna dopo il 9 marzo prossimo e, all'avvicinarsi dell'appuntamento elettorale, cala tutti i suoi assi per spingerli alle urne. L'ultimo in ordine di tempo è l'accesso libero e gratuito alla pillola del giorno dopo, l'anticoncezionale d'emergenza che impedisce un'eventuale gravidanza nelle 72 ore successive a un rapporto sessuale a rischio. Un metodo preventivo dal punto di vista dell'Organizzazione mondiale della Sanità e di quello (non unanime) del mondo scientifico, un aborto precoce dal punto di vista della Chiesa. Ma l'attuale primo ministro socialista sa di non poter più contare granché sull'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche spagnole, almeno da quando ha dato il suo imprimatur alle nozze omosessuali e ha facilitato le procedure legali per il divorzio, eliminando il periodo propedeutico della separazione.
La maratona elettorale dei due principali contendenti segue ormai itinerari diversi, verso il medesimo traguardo: il Partito Popolare spera di vincere la corsa concentrando la sua strategia su argomenti economici, e soprattutto fiscali, oltre che sulla difesa della famiglia tradizionale; il Partito Socialista punta alle politiche sociali e al sostegno al mondo giovanile. Cui si rivolge, evidentemente, anche quest'ultima promessa.
La pillola del giorno dopo si commercializza in Spagna da sette anni. Ma la sua distribuzione non è regolamentata da una legge valida in tutto il Paese. L'unico requisito formalmente richiesto in tutto il territorio, adesso, è la ricetta medica. Il resto è lasciato alle amministrazioni locali. Sono le comunità autonome a decidere come, quando e a che condizioni distribuirla. Ci sono regioni, come la Catalogna, l'Andalusia e la Navarra dove le formalità sono ridotte al minimo, il farmaco si può ottenere gratuitamente e rapidamente attraverso la rete sanitaria pubblica. In altre aree, perlopiù controllate dal Partito Popolare, l'iter non è così agevole e il prezzo può arrivare a una ventina di euro in farmacia.
Quanto basta per scoraggiare molte ragazze.
Su questa considerazione si basa il ragionamento di partenza del progetto del Psoe, intitolato «Strategia per la salute sessuale e riproduttiva»: negli ultimi vent'anni, in Spagna, il numero di aborti ai quali si sottopongono le minorenni è quasi quadruplicato. Le statistiche più recenti disponibili si riferiscono al 2005, anno in cui almeno 13 mila adolescenti hanno interrotto volontariamente una gravidanza indesiderata e già accertata. Quante di loro avrebbero potuto evitare di arrivare all'intervento con una pillola, seppure tardiva? L'obiezione di coscienza, secondo i legislatori socialisti, in questi casi non vale: il rimedio del giorno dopo dovrebbe essere reso disponibile in qualunque pronto soccorso, 365 giorni all'anno e 24 ore al giorno. I socialisti respingono anche obiezioni più cliniche, secondo le quali la pillola comunque non è affatto salubre e rischia di diventare, una volta liberalizzata, un sistema anticoncezionale abituale, soprattutto per le più giovani. Ma Guillermo Gonzalez, presidente della Federazione per la pianificazione familiare, lo considera un rischio inevitabile: «Ci sarà sicuramente chi ne abusa, come chi abusa dell'alcol — dice —, ma le donne in genere sanno fare un uso razionale degli anticoncezionali».
Non ne sono così convinti i medici: la categoria, secondo i sondaggi, è spaccata esattamente in due circa l'opportunità di distribuire la pillola del giorno dopo senza ricetta medica.

Corriere della Sera 27.1.08
L’operazione Condor e la giustizia tardiva
di Sergio Romano


Ho letto sul Corriere che la magistratura italiana ha richiesto ben 140 arresti per altrettanti golpisti sudamericani per fatti accaduti negli anni 70 e 80 in Sud America che hanno avuto vittime di ascendenza italiana. Che senso ha imbastire processi per fatti avvenuti più di trent'anni fa? I nostri magistrati non hanno da perseguire delinquenti nostrani, mafiosi, piccoli e grandi criminali che hanno commesso crimini adesso e non nella preistoria? Non esiste il giudice naturale competente per territorio?
Non esiste la norma generale che per lo stesso crimine si può essere processati una sola volta? Sicuramente questi personaggi sono già stati processati nel loro Paese e, inoltre, se la magistratura italiana li persegue perché alcune vittime possono vantare una lontana ascendenza italiana, perché poi non potranno essere giudicati per gli stessi reati dalle magistrature spagnole, francesi, ecc.? Che possibilità di difesa potrà avere chi viene accusato per un crimine avvenuto più di trent'anni fa? Come potrebbero riuscire a far venire in Italia eventuali testimoni a loro difesa?
Quanti possibili testimoni nel frattempo saranno morti? Infine, che senso ha processare imputati che, dato il tempo trascorso, come minimo avranno più di 70 anni e che, di conseguenza, non sconteranno mai la eventuale pena? In Italia abbiamo soldi e tempo da buttare?
Paolo Radice
Caro Radice,
Qualche parola anzitutto per i lettori che non hanno prestato attenzione a questa notizia. I reati di cui sarebbero responsabili le 140 persone contro le quali la magistratura italiana ha spiccato un mandato di cattura sono stati commessi, in buona parte, nell'ambito di un'operazione che fu chiamata «Condor». I fatti risalgono a un incontro che si tenne in Cile il 25 novembre 1975 fra i rappresentanti dei servizi segreti di sei Paesi latino-americani in cui i militari, negli anni precedenti, avevano conquistato il potere: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay.
A seguito dell'incontro, i governi dei sei Paesi decisero di aiutarsi a eliminare i rispettivi oppositori. Da quel momento ogni servizio d'intelligence nazionale avrebbe avuto facoltà di mandare le proprie squadre nei Paesi amici per individuare e uccidere i propri esuli. Ma già prima di allora i governi rappresentati all'incontro cileno avevano brutalmente perseguitato ed eliminato i propri dissidenti. Il caso più clamoroso fu quello dei desaparecidos argentini, vittime di una sanguinosa «purga» organizzata dalla giunta militare del generale Jorge Videla. Più tardi, quando i Paesi dell'Operazione Condor tornarono alla democrazia, prevalse la convinzione che fosse meglio, nell'interesse della pace civile, seppellire il passato e pensare al futuro: una decisione simile per molti aspetti a quella adottata dal governo italiano nel 1946 con l'amnistia firmata da Palmiro Togliatti, allora ministro di Grazia e giustizia. Fu questa la ragione per cui il presidente argentino Carlos Menem, ad esempio, garantì l'impunità dei membri della giunta militare. Ma in tempi più recenti, alcuni governi, sollecitati dalle richieste della pubblica opinione, hanno deciso di riaprire i dossier e, in alcuni casi, di abolire i provvedimenti di clemenza che erano stati adottati negli anni precedenti. Ogni Paese, naturalmente, ha il diritto di affrontare le questioni nazionali con i criteri e gli strumenti di cui dispone.
Come lei osserva, caro Radice, il caso italiano, tuttavia, è diverso. Qui il magistrato inquirente ha deciso di agire sulla base di una denuncia pervenuta alla procura dieci anni fa da 25 famiglie argentine di origine italiana. Lei non ha torto quando scrive che la giustizia in questo caso non è più territoriale, che il tempo trascorso rende le indagini molto complicate, che un ufficio giudiziario sarà per molto tempo distratto dalla trattazione di altri problemi da cui dipende la nostra sicurezza. Ma questi orientamenti della giustizia non sono esclusivamente italiani. In molti Paesi occidentali si è radicata la convinzione, spesso avallata dalle leggi, che certi reati non siano soggetti a prescrizione e possano essere perseguiti ovunque. Poco importa che la raccolta e la verifica delle prove diventino col passaggio degli anni pressoché impossibili. Poco importa che la spada della giustizia cada su persone invecchiate, forse ormai moralmente diverse da quelle che hanno commesso i reati. Poco importa che questi esercizi giudiziari costino molto denaro e producano quasi sempre risultati estremamente modesti. Il magistrato si giustifica invocando l'obbligatorietà dell'azione penale ed è spesso sollecitato ad agire dall'interesse umano del caso e, perché no, dalla notorietà che esso procura. La sentenza, quando verrà, apparterrà a una giustizia declaratoria, moralista, mediatica, che non risolve problemi, ma afferma principi: una giustizia alquanto diversa da quella di cui abbiamo quotidianamente bisogno.

Corriere della Sera 27.1.08
Il Galileo di Feyerabend
di Stefano Gattei, Università di Pisa


Opportunamente il Corriere del 25 gennaio ha pubblicato il testo di Paul Feyerabend da cui Joseph Ratzinger aveva tratto la citazione sul processo a Galileo che tanto clamore ha suscitato. Tale frase, infatti, è comprensibile solo se letta all'interno dell'opera da cui è tratta. In «Contro il metodo», Feyerabend intendeva attaccare l'approccio «razionalista» di molti filosofi della scienza, sostenendo che la storia è sempre molto più ricca di quanto immaginino gli accademici. Le varie teorie normative del metodo via via proposte si sono rivelate incapaci di comprendere tale multiforme complessità; anzi, seguite rigidamente, costituirebbero un ostacolo alla crescita scientifica. Uno degli esempi-chiave a sostegno di tale tesi è quello di Galileo. Se oggi possiamo dire che lo scienziato era sulla strada giusta poiché la sua tenace ricerca a favore della cosmologia copernicana ha contribuito a creare, nel tempo, gli strumenti necessari per difenderla, non altrettanto si poteva fare nel Seicento. L'immagine che emerge dalla ricostruzione — peraltro molto discussa — di Feyerabend è quella di un Galileo opportunista senza scrupoli, che al fine di sbaragliare i propri avversari viola le più elementari regole metodologiche e i più fondamentali standard di onestà intellettuale, facendo ricorso a mezzi «irrazionali» quali la propaganda, l'emozione, il pregiudizio, l'introduzione di ipotesi ad hoc. In questo senso Feyerabend riconosce come la Chiesa si sia attenuta ai «dettami» della ragione più dello stesso Galileo. La conclusione è certamente paradossale, ma non va intesa come una critica dell'opera di Galileo, e tanto meno come una difesa del processo contro di lui, quanto come una «reductio ad absurdum» di quelle teorie che si dimostrano inadeguate a cogliere la profondità e la varietà delle argomentazioni galileiane. Al loro posto Feyerabend propone una visione alternativa della razionalità, basata su valori anziché su regole, caratterizzata di volta in volta dal continuo bilanciamento di elementi di per sé inconciliabili. In quanto campione di questa razionalità — dinamica, plastica, feconda— Galileo rimane, ai suoi occhi, un indiscusso protagonista del Rinascimento.

Corriere della Sera 27.1.08
La scoperta. Le immagini sono state donate dagli eredi di un diplomatico messicano all'International Center of Photography di New York
Trovata la «valigia segreta» di Robert Capa
I negativi erano scomparsi a Parigi nel 1939. Il grande fotografo morì credendo di averli perduti
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Per gli appassionati di fotografia è la scoperta del secolo: la famosissima «valigia smarrita» di Robert Capa, il più grande fotografo di guerra di tutti i tempi, è finalmente tornata alla luce. Lo rivela il New York Times,
precisando che il suo contenuto— migliaia di negativi inediti — è al sicuro presso l'International Center of Photography di Manhattan dove un'équipe di esperti lo sta restaurando e catalogando, con l'intenzione di esporlo al pubblico.
È l'inatteso lieto fine di un «mistero » che il Times
paragona alla valigia con gli scritti giovanili di Hemingway, sparita da una stazione ferroviaria nel 1922 e mai più ritrovata. Nel caso di Capa le valige erano addirittura tre, vecchie e di cartone consunto, ma con dentro un tesoro inestimabile: migliaia di negativi di fotografie che il geniale fotografo nato a Budapest nel 1913 aveva scattato durante la Guerra Civile spagnola.
Prima di fuggire in America nel 1939, braccato dai nazi-fascisti a causa delle sue origini ebraiche, era stato costretto ad abbandonarle in una camera oscura, a Parigi. Tanto che lo stesso Capa, — Endre Friedmann all'anagrafe — è andato nella tomba nel 1954, convinto che quelle valigie fossero andate per sempre distrutte per mano dei tedeschi.
Quarant'anni più tardi, quasi per miracolo, sono riemerse a Città del Messico, tra i possedimenti di un ex generale e diplomatico messicano che aveva combattuto per Pancho Villa e ne era venuto misteriosamente in possesso quand'era di stanza a Marsiglia. Dopo la sua morte, gli eredi hanno contattato l'International Center of Photography di New York. Il resto è storia.
«Questi inediti rappresentano il Santo Graal dell'opera di Capa», afferma Brian Wallis, curatore capo del centro fondato dal fratello di Capa, Cornell. Le valigie contengono anche immagini scattate dalla sua assistente e compagna Gerda Taro, l'ebrea tedesca Gerda Pohorylle, che l'aiutò a cambiarsi il nome — e di David Seymour, co-fondatore insieme a lui dell' agenzia fotografica Magnum.
Ma un pezzo in particolare ha già messo in fibrillazione il mondo fotografico: il negativo della sua foto più celeberrima, «The falling soldier», scattata nel 1936 sulle colline di Cordoba e diventata una delle immagini più famose al mondo: quella di un soldato dell'esercito repubblicano colpito a morte da un proiettile sparato dai franchisti.
Quando fu pubblicata dalla rivista francese Vu, l'impatto di quell'immagine fu enorme. «Aiutò a cristallizzare il sostegno per la causa repubblicana», teorizza il Times.
Ma i dubbi sull'autenticità dello scatto hanno inseguito per anni Capa e Taro, entrambi partigiani comunisti che spesso «costruivano ad hoc» le loro foto: un'usanza peraltro diffusissima a quei tempi.
I dubbi non sono svaniti neppure dopo l'uscita di «Proving that Robert Capa's Falling Soldier is Genuine: A detective story», del biografo di Capa Richard Whelan. A stabilire una volta per tutte la verità saranno dunque questi negativi che dovrebbero mostrare l'intera sequenza della morte del soldato spagnolo che secondo gli storici si chiamava Federico Borrell Garcia.
Dopo aver fotografato ben cinque guerre, — inclusa quella arabo- israeliana del 1948 — Capa morì in Vietnam nel 1954, durante un reportage fotografico in prima linea. La sorte ha voluto che il suo grande capolavoro sia andato distrutto comunque. Si tratta di 106 foto scattate il 6 giugno 1944, quando partecipò al sanguinoso sbarco del contingente americano ad Omaha Beach, in Normandia.
La maggior parte dei rullini andò distrutta per un errore del giovane tecnico addetto allo sviluppo delle foto per conto della rivista «Life». Scamparono alla distruzione soltanto undici fotogrammi danneggiati, che trasmettono comunque tutta la terribile drammaticità del D-Day. Che senza di lui sarebbe rimasta una guerra priva di volto.

Corriere della Sera Salute 27.1.08
Psichiatria. Una ricerca americana ha scoperto che molti studi «negativi» non sono divulgati
Antidepressivi. Aumentano i consumi: ma si discute la loro reale efficacia
Pillole in depressione
di Franca Porciani


Dubbi sui farmaci antidepressivi più recenti: l'efficacia è controversa Mentre il loro consumo aumenta

La spesa lorda a carico del SSN per gli antidepressivi (gennaio-setembre 2007) è stata di 348 milioni di euro. Di questi, per gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono stati spesi 218 milioni di euro
La prescrizione di antidepressivi a carico del SSN rispetto all’anno precedente è aumentata del 17,1%

Una ricerca ha valutato tutti gli studi presentati all'Fda: scoprendo che vengono pubblicati solo quelli «positivi»
Gli italiani annegano nella depressione? Il recente sondaggio del New York Times
ci ha delineato come un popolo «triste», ma la quantità di antidepressivi che ingurgitiamo a carico del servizio sanitario, per una spesa lorda, nei primi nove mesi del 2007, di 348 milioni di euro (più quelli che paghiamo di tasca nostra), non tira su la nostra immagine.
E se questa montagna di pillole anti-infelicità fosse (quasi) inutile? Getta il sasso nello stagno uno studio appena pubblicato dalla rivista statunitense
New England Journal of Medicine. Il sasso, più che un sasso un macigno, è la «scoperta» che buona parte degli studi con esito negativo condotti su questi preparati sono «scomparsi» nel nulla.
O meglio, sono rimasti nei «cassetti» della Food and Drug Administration, l'ente federale americano che autorizza la messa in commercio dei medicinali: le ditte produttrici non hanno voluto pubblicarli sulle riviste scientifiche, o, talvolta, sono state queste ultime ad opporre un «pilotato» rifiuto a darli alle stampe.
In realtà il registro delle sperimentazioni dei farmaci sui pazienti dell'agenzia statunitense è accessibile a tutti dal 1996, ma l'enorme data- base risulta incomprensibile perfino agli addetti ai lavori per la sua complessità. Perché occultare queste ricerche? Perché danno risultati insoddisfacenti. Autore della scoperta, l'équipe guidata da Erick Turner, farmacologo e psichiatra dell'università dell'Oregon che ha spulciato questi archivi con pazienza certosina per 12 antidepressivi di nuova generazione, quelli approvati dalla Fda dal 1987 al 2004.
Sono farmaci che inibiscono il riassorbimento della serotonina (la maggiore disponibilità di questo mediatore a livello delle sinapsi fra i neuroni dovrebbe «tirar su» l'umore nero). Facciamo i nomi? Fra questi la fluoxetina (più nota come Prozac), la paroxetina, la duloxetina, il bupropione, la sertralina.
In sintesi, dei 74 studi scovati dal data-base per i 12 preparati, 38 ne dimostrano l'efficacia e tutti, tranne uno, sono stati pubblicati; 36 arrivano a conclusioni opposte e soltanto 3 hanno visto la luce. Come se non bastasse, 11 sono stati «riscritti» in termini più rosei e sono usciti come tali sui giornali scientifici, senza cenno al parere negativo della Fda. «Quel che conta è la sovrastima di efficacia che queste omissioni comportano, un bel 30 per cento — commenta Corrado Barbui, psichiatra dell'università di Verona che da anni partecipa alla revisione degli studi clinici —. Non è un dato da poco. In sostanza, noi psichiatri stiamo prescrivendo farmaci i cui effetti sono stati "gonfiati"».
«Certi condizionamenti industriali sono pesanti ed è giusto che vengano denunciati — commenta Giovanni Biggio, che tra pochi mesi diventerà presidente della Società italiana di neuropsicofarmacologia —. Ma da qui a dire che gli antidepressivi non funzionano, il passo è lungo. Esistono studi che dimostrano la loro efficacia finanziati interamente dal National Institute of Mental Health, l'ente governativo americano per la salute mentale».
Indiscutibile. Precisa, però, Barbui: «Le revisioni che hanno confrontato l'effetto di questi farmaci su forme depressive di media gravità con quello del placebo, ovvero di una pillola "vuota" rivelano, già prima di questa scoperta del New England, un'efficacia modesta. In pratica, col farmaco stanno meglio 60 pazienti su 100, col placebo 50 su 100. L'effetto è scarso, ma, attenzione, non irrilevante: siamo di fronte a malati gravi. Bisogna anche ricordare che gli antidepressivi più recenti, quelli presi in esame dallo studio americano, hanno comunque effetti collaterali, irritabilità, diminuzione del desiderio sessuale, calo dell'appetito».
Se la questione aperta dal New England è spinosa e farà discutere a lungo, resta certo che gli antidepressivi vengono dati anche a chi depresso non è, ma soffre d'altro, di ansia o di attacchi di panico. Fenomeno che ne spiega il consumo smodato e in continuo aumento: il 17 per cento in più in Italia, da gennaio a settembre 2007, rispetto all'anno precedente.

Ricerche e trasparenza. Ma in Europa resta tutto segreto

In Europa l'ente regolatorio che autorizza la messa in commercio dei farmaci e ne sorveglia eventuali effetti negativi è l'Emea ( European Medicines Agency), agenzia nata nel 1995 che ha sede a Londra. Esiste anche all'Emea un registro degli studi realizzati sui farmaci messi in commercio? Risponde Vittorio Bertelè, a capo del laboratorio di politiche regolatorie dell'Istituto Mario Negri di Milano: «Purtroppo no. I dossier che le ditte farmaceutiche consegnano all'agenzia per l'autorizzazione alla messa sul mercato dei medicinali sono riservati.
La motivazione è la protezione del brevetto che oltre al processo di produzione di quella sostanza si estende, ingiustificatamente, anche agli studi clinici, quelli sui pazienti. Questo stato di cose non è casuale: deriva dal fatto, più volte contestato ma per ora irrisolto, che l'Emea è finanziata per due terzi dall'industria e per un terzo dai governi degli Stati membri.
Gioca anche un altro fattore: mentre l'ente regolatorio statunitense, la Food and Drug Administration, è una struttura forte, centralizzata, l'Emea è per ora solo l'emanazione delle varie agenzie nazionali, che hanno molto più potere». Ma i farmaci che vengono approvati in Europa sono al 99 per cento gli stessi che sono stati autorizzati negli Stati Uniti, magari qualche mese prima. Non c'è contraddizione fra un registro aperto a tutti di là dall'oceano e la totale riservatezza dall'altra sponda dell'Atlantico? «È vero — risponde ancora l'esperto —. Ma pur paradossale, questa è oggi la situazione».

Corriere della Sera Salute 27.1.08
Le altre cure Dalla fototerapia alle erbe, dalla chirurgia alla cronobiologia, con risultati incoraggianti
In cerca dello stimolo giusto al buon umore
di Adriana Bazzi


In parallelo o in alternativa. Quando i farmaci non bastano da soli a controllare la depressione o, meglio, «le depressioni » (perché la malattia si presenta con molte facce diverse), si cercano altre soluzioni.
A partire dalle classiche psicoterapie (il ventaglio è ampio, il paziente può scegliere) che possono affiancare le cure farmacologiche, fino ad arrivare al discusso elettroshock, l'«ultima spiaggia» per alcune forme di malattia resistenti alle medicine. Passando per la cura «verde»: l'iperico o erba di San Giovanni, l'unico prodotto erboristico che abbia una certa efficacia antidepressiva, anche se limitata alle forme lievi.
Più recentemente si sono affacciate alla pratica clinica nuove proposte terapeutiche. Come la light therapy, o fototerapia, particolarmente indicata, secondo i suoi sostenitori, nella cura dei pazienti con depressione stagionale: questi malati sono sensibili alla riduzione delle ore di luce nel periodo invernale e rispondono positivamente all'esposizione alla luce di intensità luminosa equivalente a quella diurna. Dopo il risveglio il paziente viene esposta a una lampada per 30-120 minuti e l'effetto terapeutico si manifesta dopo pochi giorni.
Altra tecnica: la deprivazione di sonno il cui obiettivo è quello di potenziare gli effetti dei farmaci. È efficace, secondo la letteratura internazionale (la tecnica è sperimentata anche al San Raffaele di Mi-lano), ma con il limite delle facili ricadute. Questo approccio prevede di tenere il paziente sveglio per una notte intera, con effetti positivi immediati in molti casi. Un'altra opzione è quella della manipolazione del ritmo sonno-veglia: per esempio, l'anticipo della fase del sonno con risveglio definitivo nella seconda parte della notte, che produce un certo miglioramento dei sintomi. Negli ultimi anni si è fatta strada anche la terapia «chirurgica» della depressione. Una prima metodica è quella della deep brain stimulation, proposta da Andres Lozano dell'Università di Toronto: vengono impiantati elettrodi (pacemaker cerebrale) nella corteccia frontale la cui continua stimolazione determina, in alcuni casi, la remissione della malattia. Le esperienze, però, sono limitate e la tecnica è cruenta, anche se, in caso di insuccesso, è reversibile con l'interruzione della stimolazione elettrica.
La seconda è la stimolazione del nervo vago, approvata nel 2005 dalla Food and Drug Administration americana per la cura della depressione grave in particolare dei pazienti anziani e autorizzata anche in Europa: il pacemaker anti-depressivo, in questo caso, viene impiantato all'altezza del collo attorno al nervo vago ed è in grado di stimolare la produzione di serotonina, l'ormone che regola l'umore, il sonno, l'appetito e il sesso. L'intervento è reversibile, generalmente ben tollerato; gli effetti collaterali più diffusi sono la raucedine e la tosse che compaiono nelle prime settimane dopo l'intervento. È in sperimentazione anche in Italia in alcuni centri, come l'Ospedale Molinette di Torino.
Infine, in alternativa all'elettroshock che può comportare alterazioni della la memoria per settimane dopo la terapia, si sta sperimentando un intervento meno aggressivo, la stimolazione magnetica transcranica: viene effettuata inviando, dall'esterno alla corteccia, una serie di impulsi magnetici che non provocano, come invece può succedere con l'elettroshock, attacchi epilettici e nemmeno alterazioni della memoria. L'effetto terapeutico è simile. La metodica è ancora in sperimentazione.

Corriere della Sera Salute 27.1.08
L'opinione di Vittorino Andreoli
Non possiamo ridurre tutto alla biologia


La delusione farmacologica è solo il segno di un errore di strategia

Cominciai a frequentare il manicomio di Verona nel 1959 e si respirava un'aria profetica per la recente nascita della imipramina (il Tofranil). Dalla sua «venuta» sono passati 50 anni. E, occorre ammetterlo, sono stati cinquant'anni «di solitudine » e di delusione se solo si considera un impegno senza precedenti delle aziende farmaceutiche e della ricerca psicofarmacologica per un disturbo mentale che oggi colpisce il 14 per cento della popolazione europea. La imipramina era efficace, ma dava effetti collaterali di grande dimensione; occorreva cercare imipramine più sicure. Non si scoprì nulla in questa direzione anche se uscirono in commercio molti farmaci appartenenti alla stessa famiglia, i triciclici.
Si è imboccato un sentiero, quello degli SSRI, da quindici anni ormai nel mercato. Si tratta di farmaci di identica efficacia clinica della imipramina, ma con effetti collaterali diminuiti. Dal punto di vista dei meccanismi d'azione sono molecole più specifiche in quanto agiscono solo sulla serotonina: azione che aveva in maniera più spuria anche la imipramina. Per quanto riguarda gli effetti indesiderati, che portano all'abbandono più rapido possibile, occorre dire che sono solo diversi e, basterebbe a sostenerlo, il problema della dipendenza e le azioni sulla sfera genitale. Questo è lo status quo e non c'è all'orizzonte niente di veramente promettente. I farmaci antidepressivi disponibili sono attivi in circa la metà dei pazienti e in quelli che rispondono l'effetto è per lo più parziale, come se l'azione fosse in grado di migliorare ma non certo di guarire né il singolo episodio né la malattia che ha un andamento ritmico (cronico).
A cinquant'anni di delusione, occorre chiedersi cosa succeda. E si giunge a due ipotesi. La prima è che si tratti di una ricerca non fortunata, in un campo complicato (la psichiatria) e in un organo (il cervello) che appare sempre più come un mondo straordinario ma difficile, una ricerca che comunque occorre continuare in attesa di un nuovo «miracolo ». La seconda, a cui io sono più legato, sostiene invece che la ricerca non ha prodotto granché semplicemente perché non può dare di più. La vera scoperta è che la depressione è il risultato di tre fattori: un fattore biologico (dunque genetico e cerebrale) che certamente avvalla la ricerca biologica e le considerazioni familiari di alcune forme depressive; un fattore legato alle esperienza del singolo, in particolare a quelle dei primi anni di vita (da zero a tre anni): e questo aspetto non ha, o non ha ancora, una dimensione molecolare, ma rientra nella grande possibilità della plasticità del cervello, capace di modificarsi in seguito ad una esperienza e senza un programma di tipo deterministico (come è la genetica). Infine, un terzo fattore che si lega all'ambiente in cui uno si ammala: un ambiente, più che geografico, relazionale e anche questo manca di una traduzione in termini biologici. Se è così, risulta che la terapia con i farmaci rappresenta solo l'azione su uno di questi fattori; per il resto occorre agire con strumenti clinici che si legano al medico e alle tecniche psicoterapiche. Se è cosi, la delusione farmacologica è segno di un errore di strategia, della convinzione di ridurre tutto a biologia. E bisogna semplicemente cambiare rotta e seguire nella ricerca le direzioni della clinica. Ne deriva anche che la terapia deve essere una combinazione di farmaci e di interventi psicoterapici.

Liberazione 27.1.08
Un saggio su "Alternative". Il lavoro, l'innovazione, il mercato
Se la critica al precariato resta dentro questo sistema delle merci...
di Fausto Bertinotti


Pubblichiamo stralci del saggio di Fausto Bertinotti sul precariato contenuto nella rivista «Alternative per il socialismo» in edicola da venerdì scorso.

Precarietà. Prima ignorata e nascosta nella più elegante categoria della flessibilità, così moderna e così capace di fare tanto post-fordismo. Poi resa sfuggente, astratta seppure incombente. Infine disvelata da vicende sociali puntiformi quanto importanti, da inchieste, ricerche universitarie, lotte specifiche, racconti, libri e documentazioni. E poi il 20 ottobre. Se prima bisognava lavorarci, ora si può lavorarci. Nel senso di costruire soggettività, organizzazione politica e cultura. Per dare una mano a realizzare questo compito, intanto bisogna farla entrare sistematicamente nella composizione di un discorso politico...

...Io penso che la potenza del lavoro nella definizione generale dell'assetto della società e della vita delle persone sia stata nell'ultimo quarto di secolo fortemente oscurata da un grande fraintendimento operato dalla nuova fantasmagoria del mercato e dall'ideologia dominante, quello secondo cui si sarebbe costruita una società post-industriale, in cui il lavoro sarebbe diventato socialmente irrilevante...

..Poi c'è un secondo fraintendimento; quello che è derivato dall'avere assegnato a una determinata figura di lavoratore e di lavoratrice, una capacità riassuntiva della condizione più generale del lavoratore nella storia moderna. In altre parole, è sembrato che l'esistenza stessa del lavoro ci fosse solo finché ci sarebbe stato un certo tipo di lavoro nell'industria manifatturiera, nella produzione di serie e nella grande industria. Riducendosi questo tipo di lavoro, anche se solo in alcune aree del mondo, e venendo a essere messa in discussione la centralità di quel modello di lavoro perché legato al ciclo fordista-taylorista ormai esaurito (cioè il modello del lavoro stabile a tempo pieno e a vita, dalla giovinezza sino alla vecchiaia), si è voluto ricavare, al contrario di quello che concretamente stava accadendo, la conclusione della fine del lavoro...
Quel che così veniva proiettato nell'immaginario collettivo fino a oscurare la realtà era, in effetti, il portato di una grande sconfitta sociale e politica del movimento operaio e di una altrettanto grande modernizzazione, quella rivoluzione capitalistica restauratrice che si è chiamata globalizzazione.

Sarebbe bastato leggere qualche pagina dei coniugi Webb per essere avvertiti contro la mistificazione, per sapere che proprio il contrario accade, e accade sempre, nella realtà. Sarebbe bastato per sapere, cioè, che a condizionare l'essere sociale era ed è, insieme al lavoro astratto, il lavoro specifico ma non solo quello congiunturalmente o anche storicamente definito quale prevalente, bensì, allo stesso modo, quello non considerato come paradigmatico, dunque il precario, ma anche il senza lavoro, il disoccupato; ogni condizione di lavoro contribuisce a definire l'essere sociale...

...La precarietà che ci investe non è il frutto dell'arretratezza ma dell'innovazione. Alla domanda "l'innovazione serve Dio o Mammona?" si può rispondere, come rispondeva il teologo, "serve Mammona", per poi aggiungere " a meno che". Con ciò si vuole sostenere, secondo me giustamente, che l'innovazione, in questo contesto, muove tendenzialmente in direzione della generazione di alienazione, a meno che l'intervento degli uomini tra loro organizzati, delle istituzioni, della politica, delle forze sociali imprima ad essa un altro corso.
Ma c'è ancora una seconda domanda che si pone: questa dura e pesante precarietà è un fungo sconosciuto? Prima di noi, di questo nostro tempo, non c'è mai stata? La storia del capitalismo e dello sviluppo delle forze produttive incontra per la prima volta una siffatta precarietà, sorta per incanto di fronte al lussureggiare delle nuove tecnologie, dell'informatica, delle comunicazioni, oppure essa è una propensione che sta dentro la formazione economico-sociale capitalistica e solo - come è già accaduto nella storia - il conflitto di classe, l'intervento attivo della politica e delle organizzazioni sociali l'ha potuta comprimere fin quasi a sradicarla?
Secondo me, è vera la seconda ipotesi. Alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento, il lavoro era precario, molto precario. Basta riferirsi al materiale assai vasto di ricerca che esiste a questo proposito, per poter dire che non siamo noi per primi a scoprire, qui e in questa parte del mondo, un fenomeno drammatico. Il Marx del capitolo del Capitale sul processo di accumulazione, con una formula che tutti ricordiamo, sia perché è assai nota, sia perché ha fatto parte del nostro bagaglio di citazioni in molte e diverse stagioni politiche, afferma che nell'organizzazione della produzione manifatturiera si produce la "fanteria leggera" del proletariato. Cos'era quella fanteria leggera generata dal capitale? Essa è costituita dai lavoratori vaganti, da coloro che non avevano alcuna stanzialità e che rincorrevano il lavoro laddove nascevano e si stabilizzavano le fabbriche per inseguirlo altrove quando ne venivano cacciati...

...Una delle ragioni che spiega la diffusione così rapida e ampia della flessibilità e della precarietà (insieme alla forza del capitale che si ristruttura parallelamente alla sconfitta del movimento operaio) è il loro carattere ambiguo e, in apparenza, doppio.
La flessibilità è, per sua natura, un fenomeno ambiguo. Contiene una doppiezza, specie se riferita al lavoro. Perché è il combinato disposto delle attese diverse di due soggetti con interessi antagonisti: uno, la lavoratrice, il lavoratore, e l'altro l'impresa.
E' evidente che c'è, in astratto, una flessibilità che potrebbe interessare il lavoratore. Uso a proposito il condizionale e lo sottolineo. Potrebbe interessare il lavoratore? Sì, se la flessibilità determinasse una risposta ad un'attesa, che c'è e che andrebbe valorizzata, di una possibilità di scelta. Sono padre o madre, ho un figlio da accompagnare a scuola, se il mio orario di lavoro potesse essere flessibilizzato in ingresso e in uscita, questo mi starebbe bene perché mi consentirebbe di soddisfare un bisogno di organizzazione della vita. Se io ho una propensione allo studio, se mi matura l'esigenza di una determinata formazione e potessi prendermi un anno sabbatico, sarebbe bene. Sono esempi di flessibilità che risponderebbero, e se ne possono indicare molte altre, ad una domanda della lavoratrice o del lavoratore. Ma c'è un'altra flessibilità che invece sorge da una domanda dell'impresa di flessibilizzare la prestazione lavorativa per renderla funzionale agli andamenti mutevoli del rapporto tra l'impresa e il mercato. Il mercato condetermina la variabilità e i mutamenti della domanda sull'impresa e l'impresa la trasforma in una domanda di flessibilità sui lavoratori.
Quando queste due istanze di flessibilità entrano in contrasto tra loro non è difficile sapere chi tra queste due vince. Sono entrate, in effetti, in contrasto e ha vinto l'impresa che ha schiantato la domanda di flessibilità come qualità della vita e ha imposto invece la flessibilità come funzionalizzazione della vita della lavoratrice e del lavoratore all'andamento del rapporto tra il mercato e l'impresa. Ecco perché la flessibilità, poi, slitta verso la precarietà. E' quella stessa esigenza di unilaterale governo del processo di lavoro che origina la richiesta di flessibilità che diventa moltiplicazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato. Il mercato del lavoro diventa così un supermarket, in cui l'azienda entra, esce, compra, prende la forza-lavoro col rapporto di lavoro che più è funzionale all'azienda stessa. E qual è quello che gli è più funzionale? Quello che riduce il costo del lavoro e che aumenta la dipendenza della forza-lavoro alle esigenze dell'impresa...

...E' proprio l'analisi del lavoro salariato e della precarietà di questo capitalismo totalizzante che ci conduce alla ricerca di un orizzonte, di una cornice, entro il quale, le necessariamente assai articolate risposte di lotta alle diverse espressioni concrete della precarietà, possano affermarsi, e con loro la possibilità di costruire un lavoro sociale e politico che le possa connettere tra di loro e con le altre lotte sul lavoro, riaprendo il grande capitolo dell'unità della coalizione lavorativa e della sua soggettività.
La tesi è infine la seguente: neppure questo compito che io credo sia assolutamente necessario svolgere per attivare un conflitto e un intervento diretto può avere un successo definitivo di risanamento e di bonifica dalla precarietà senza una modificazione del modello socio-economico. Se si pensa, come abbiamo provato a mostrare, che la precarietà sia frutto organico di questo modello, bisogna sapere che il risanamento dalla precarietà (per cui bisogna combattere quotidianamente per conquistare leggi, accordi, obiettivi anche parziali) può essere perseguito, e la precarietà può essere sradicata, solo mettendo al centro dell'azione politica la modifica del modello economico e sociale, il mutamento dell'organizzazione della produzione, della riproduzione sociale e dei consumi.
Se la competizione delle merci continua ad avvenire sul terreno in cui oggi si manifesta, la pressione che essa esercita sul lavoro e sui soggetti sociali è troppo forte perché possa risultare vincitrice la tendenza critica, se resta racchiusa all'interno del conflitto nel mercato del lavoro. Se non si produce attraverso un diverso livello del conflitto uno spiazzamento che cambi i termini stessi della produttività e della competitività, l'efficacia dell'azione sociale, pure assolutamente necessaria, non può divenire strutturale. ...

... Se non riapriamo almeno qualche finestra in questa direzione, se non si conquista qualche elemento di un mutamento del modello di produzione, di riproduzione e di consumo, rischiamo di essere strangolati da questo meccanismo onnivoro e totalizzante, in ogni contesa che si apre nella società, a partire dalle grandi questioni del lavoro. Il tema della trasformazione della società capitalista non è un lusso, né una questione ideologica, è un tema propriamente politico.

Liberazione 27.1.08
Giordano: «Sinistra unita subito con chi è disponibile. Basta rinvii»
di Angela Mauro


Il segretario del Prc alla Direzione: noi chiediamo un governo «di scopo» per una riforma elettorale sul modello della bozza-Bianco
Il nuovo soggetto unitario è urgente. Non sarà l'«unità comunista». Del resto non si può «pensare come Ferrando e agire come Parisi...»

Basta con i distinguo sul processo unitario a sinistra. Franco Giordano affonda il dito nelle divisioni con Pdci e Verdi esplose sulla legge elettorale e inasprite dalla crisi di governo. Non c'è margine per sottacere i dissidi. «Ci sono differenze - riconosce il segretario - e dobbiamo guardarne la natura: non si può sempre essere criticati gratuitamente...». Parlando alla direzione, all'esecutivo e ai gruppi parlamentari del partito, riuniti per discutere del mandato da affidare al leader in vista della consultazione di domani con il capo dello Stato, Giordano lascia intendere chiaramente di essere stufo di chi a parole si dice favorevole al processo unitario «e poi, quando cerchiamo di determinarlo, nello spirito dell'assemblea dell'8 e 9 dicembre, ci si sta a preoccupare della soglia di sbarramento e della propria identità». Così non si va avanti. Ma Rifondazione, forte dell'asse con Mussi di Sd, va avanti comunque, pensando a liste elettorali unitarie e ad una sinistra, con radicamento sociale, che sia «autonoma» anche nella scelta delle alleanze. Perchè, dice Giordano, «se Veltroni vuole correre da solo, non ci spaventiamo. Valuteremo, ma la sinistra non vive e muore solo nel governo».
Insomma, appare alquanto fuori luogo, ora, continuare a rincorrere modelli andati in frantumi. «L'Unione non esiste più», continua il segretario. Non cita direttamente Pdci e Verdi, ma è chiaro che parla alla loro ostinazione a dare battaglia sulla bozza Bianco di legge elettorale, alla loro scelta di rifugiarsi sotto l'ombrello protettivo di Prodi, alla loro mancanza di coraggio unitario a sinistra e surplus di dogmatica fede nelle alleanze di centrosinistra, nel passato come nel futuro. Non ci sono allusioni esplicite, ma è al Pdci che Giordano si riferisce quando si spiega con una battuta: «Non si può avere una visione generale alla Ferrando e poi fare una proposta politica alla Parisi», il prodiano filo-ulivista del Pd. Il ragionamento è netto: «Con il Calderolum, le forze di sinistra perdono autonomia e si confinano in una coalizione». Il Porcellum va cambiato, la bozza Bianco ispirata al modello tedesco e ferma al Senato va bene, dunque il Prc andrà a dire a Napolitano che è favorevole ad un «governo di scopo e a termine» che riformi il sistema di voto e porti alle urne. L'unità a sinistra, a questo punto, diventa anche «una scelta unilaterale - conclude Giordano - Chi ci sta, ci sta». E, manco a dirlo, «non sarà l'unione dei comunisti», ma qualcosa di più ampio respiro.

Liberazione 27.1.08
Liderismi e irresponsabilità creano nuovi grandi rischi
L'uragano di destra e l'estremismo del piddì
di Piero Sansonetti


Quello che colpisce, nel dibattito che si è aperto all'interno del partito democratico, è l'assoluta assenza di analisi politica, il rifiuto di considerare il futuro del paese come una delle variabili in gioco, e il prevalere di scelte personalistiche e lideristiche - condite con un po' di arroganza e molta propaganda - che si tengono lontane mille miglia da quel senso dello Stato che - nei decenni passati - era stato uno dei punti di forza del riformismo. La verità è che del vecchio riformismo italiano - ne abbiamo scritto varie volte su questo giornale prima ancora della crisi di governo - non è rimasto più nulla. E' stato sepolto dall'incapacità dei suoi gruppi dirigenti di difendere la propria autonomia dalla potenza del mercato e dei gruppi di potere capitalistici, e poi da una operazione "centrista" che ha estirpato le radici profonde della tradizione socialdemocratica e operaia che aveva sempre in qualche modo condizionato la sinistra moderata.
Ora la sinistra moderata non c'è più. Ha avuto la meglio quella specie di nuovo estremismo, isolazionista e radicalmente anticomunista (come si diceva una volta), che in questi mesi ha drammaticamente destabilizzato la politica italiana, spostato bruscamente verso il centro (e verso destra) il suo asse, delegittimato Prodi e l'alleanza di governo che si era costruita attorno a lui, infine creato l'incidente politico (il discorso di Veltroni ad Orvieto di ripudio dell'alleanza di governo) che, mescolato con l'affare Mastella (altro corno dell'estremismo politico in formato "personale") ha provocato la crisi, la caduta di Prodi, e rilanciato una destra che appariva in difficoltà, divisa, senza progetti.
Ieri i due principali leader del partito democratico "vincente", Walter Veltroni e Massimo D'Alema (che tante volte si erano presentati al pubblico in competizione tra loro) hanno firmato un patto di alleanza basato su una idea molto semplice e che - appunto - ha tutte le caratteristiche della scelta estremista e "privatista". Privatista nel senso che concepisce la politica non come un affare che riguarda la comunità, il paese, l'interesse generale - o di classe, o di idee, o di programma - ma come attività di manipolazione del potere ad uso di una persona o di un gruppo, o di un pezzo di ceto politico.
Veltroni e D'Alema hanno evitato di ragionare sulle cause del fallimento del centrosinistra, sugli errori, sull'abbandono del programma, sulle scelte conservatrici e talvolta pienamente di destra (vedi i temi della sicurezza e dell'immigrazione), sulla rottura con settori sociali tradizionalmente privilegiati (per esempio la classe operaia), sulla fine del riformismo, e anche sul ruolo negativo giocato dai frammenti liberal-democristiani dell'Unione (Dini, Mastella e altri): hanno preferito aggirare queste questioni ed elaborare una strategia della sconfitta e della resa.
Che vuol dire? Semplicissimo. Di fronte al rischio - evidentissimo in queste ore - di una svolta a destra, con fortissime caratteristiche reazionarie, che può travolgere il paese, spingerlo verso una crisi buia, verso il dominio della parte più arretrata e meno liberale della borghesia, verso nuovi grandi spostamenti di risorse e di potere, di fronte a questo uragano di destra che si profila (basta sfogliare i giornali o guardare in Tv le scene del parlamento, per capire quanto "storacismo" sia alle viste) il più importante partito del centrosinistra si dichiara interessato solo ai propri assetti interni e alle tecniche elettorali da adoperare per la propria convenienza.
E su questa base - del tutto disinteressato ai destini di tutti - delinea una strategia che prevede per l'immediato la riduzione del danno e per il futuro l'accettazione del berlusconismo e la subordinazione al suo schema. Ieri Veltroni e D'Alema hanno parlato di sovversivismo, di estremismo, di minoritarismo della sinistra radicale. E' un modo per giustificarsi, per esorcizzare il proprio male. In questo momento il partito davvero sovversivo (nel senso che usava Gramsci riferito alle classi dirigenti) è il Pd, che dopo aver rinunciato al proprio ruolo riformista e di sinistra, rinuncia anche a quello di forza nazionale e "delega" il proprio futuro a Berlusconi e alla sua vittoria.
Cosa vogliono Veltroni e D'Alema? Andare a votare, essere battuti, consegnare il potere a Berlusconi, e poi ottenere da lui una qualche forma di alleanza che permetta una riforma elettorale in senso bipartitico, che cancelli dalla politica italiana il dissenso e la rappresentanza delle classi più deboli, e che realizzi il sogno di un potere centrista permanente, spartito - in forme da definire - tra due e due soli partiti entrambi moderati. L'idea di rifiutare qualunque accordo elettorale a sinistra, pur in presenza di una legge che prevede il premio di maggioranza - e dunque di consegnare, senza combattere, il potere a Forza Italia e alla destra, è la forma nella quale si realizza questa linea avventurista del Pd, e si subordina il proprio futuro al dialogo con Berlusconi.
La partita che si è aperta oggi in Italia è questa qui. Ha due fronti. Da una parte ci sarà la battaglia da combattere per evitare che la destra si impossessi in modo incondizionato e "dominatorio" di questo paese. Dall'altra, la lotta per evitare che il bipartitismo sommerga la democrazia italiana, le sue tradizioni, la sua cultura. Su questi due fronti è chiamata a combattere la sinistra. E' chiaro che deve unirsi. Se non lo farà si assumerà una responsabilità storica enorme. E' chiaro che, anche se unita, resterà una forza modesta, rispetto ai due colossi (destra e Pd) che dominano la scena. Ma se saprà assolvere alla funzione "generale" alla quale è chiamata (una volta si diceva al compito "nazionale"...) troverà una fonte altissima di energia e di forza proprio dalla grandezza e dall'importanza del ruolo che assumerà. E a quel punto molte partite potrebbero riaprirsi. Anche perché non è detto che tutti nel Pd (anche i suoi settori più moderni e avanzati, di ispirazione cristiana o socialista) siano disponibili a seguire il gruppo dirigente del partito nell'avventura moderata e isolazionista.

Liberazione 27.1.08
Formica: «Arriveranno i partigiani? E' l'8 settembre della politica»
di Davide Varì


Rino Formica, cinquant'anni di politica, ne ha viste di tutti i colori e impietosamente commentato tutto quel che gli è passato accanto
Parla l'ex dirigente socialista: «E' crisi di sistema. La classe politica è un residuo della
prima Republica. Veltroni? E' pericoloso per la sinistra italiana ed è vittima di infantilismo»

Rino Formica, cinquant'anni di politica, ne ha viste di tutti i colori e impietosamente commentato tutto quel che gli è passato accanto. Del resto, per lui, apostolo dell'aforisma fulminante - spesso letale - la cosiddetta prima Repubblica era una riserva davvero inestinguibile: ricca di specie bizzarre e situazioni grottesche. Sua la celebre frase «la politica è sangue e merda».
Craxiano adogmatico, Formica non ha mai risparmiato nulla neanche ai suoi: «E' una corte di nani e ballerini», commentò riferito ai tanti personaggi dello spettacolo - soubrette, attorucoli e stilisti- che avevano invaso il partito che fu di Nenni.
Insomma, Rino Formica è uno che sa bene cosa si agita nel Palazzo e sa altrettanto bene cosa si sussurra nelle segrete stanze del transatlantico. Lui sa, ma di fronte alle modalità di questa crisi di governo - anzi, di fronte alla «crisi di sistema e di personale politico» - è netto, impietoso: «Queste oligarchie non hanno versato lacrime e sangue per questa Repubblica. Sono residui della prima Repubblica». A cominciare da Walter Veltroni che Formica non esita a definire «pericoloso per la sinistra».

Onorevole Formica, il governo è collassato e di fronte a noi l'ignoto. Come se ne esce? Ma soprattutto, se ne esce?
Il crollo era inevitabile. Ma la cosa che più deve preoccuparci è la mancanza di analisi intorno a questa crisi. Oggi D'Alema ha parlato di crisi di classe dirigente e crisi di sistema. Ecco, questa discussione, l'unica discussione seria ma non la si vuol fare. Troppo dolorosa.

Insomma, dobbiamo rimpiangere la prima Repubblica?
Vede, Prodi ha parlamentarizzato la crisi di Governo ma la politica non riesce a parlamentarizzare la crisi di sistema che stiamo vivendo. Io dico che il Parlamento dovrebbe discutere la natura e la causa della debolezza politica di questi ultimi 15 anni. Ma avete notato che questa nuova oligarchia non si autodefinisce più seconda Repubblica? Si vergognano. Vogliono dar ad intendere che non c'è stata cesura tra le due stagioni.

Sta dicendo che i vari Casini, Veltroni e Fini si "vendono" come politici della prima Repubblica perchè la seconda è ormai impresentabile?
Certo. Del resto nessuno ci sa spiegare da dove provengano questi nuovi soggetti politici e dove si sia formato questo nuovo personale politico.

Scarti della prima Repubblica?
Formica ride di gusto . Il fatto è che queste oligarchie non hanno versato lacrime e sangue per questa Repubblica; non è carne della loro carne, si vede. Ma avete visto come hanno ridotto il Senato? Il Senato della Repubblica è stato ridotto a quello che il fascismo minacciò ma non fece: "Un bivacco di manipoli".

A dire il vero anche nella prima Repubblica se ne sono viste delle belle...
Certo, Pajetta scavalcava lo scranno ma di la c'erano i fascisti veri. In questo momento io vedo una sola garanzia: il Presidente della Repubblica. E' lui l'ultima risorsa democratica disponibile nel Paese.

Ma come si è arrivati a questo punto?
Il crollo dei partiti, garanti e organizzatori della vita democratica, ha radicalmente mutato il rapporto tra questi e i cittadini. L'idea malsana, nata alla fine degli anni '80, secondo cui era sufficiente abbattere sigle e gruppi dirigenti per cui sarebbe sorto un sistema virtuoso con nuove classi dirigenti angeliche e innocenti ha portato alla situazione attuale. Il fatto è che da quelle ceneri si sono salvati i dirigenti politici residuali, le seconde linee.

Vie d'uscita?
L'altro giorno, nel suo discorso alla Camera il Presidente ha richiamato l'ordine del giorno che affrontava il modello costituzionale del Paese. Casualmente ce l'ho sotto mano. Lo leggo?

Prego...
"La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Bordati e Conti, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale, né quello direttoriale risponderebbero alla società italiana, si pronuncia per l'adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi con principi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo".

Qualcuno lo ha dimenticato?
Direi che bisognerebbe consegnarne una copia a tutti i parlamentari. Ecco, l'impianto di quell'ordine del giorno era fondato sul parlamentarismo garantito dai partiti di massa. Ed è qui la sconfitta della sinistra.

Solo della sinistra?
Certo, senza democrazia la destra campa benissimo. La sinistra no. Senza democrazia la sinistra muore. E un chiaro segnale di questo deficit culturale è dato dalla mancanza di dibattito intorno all'ipotesi referendum elettorale. Un'ipotesi semplicemente anticostituzionale che cozza clamorosamente contro l'ordine del giorno di cui sopra. Questa classe dirigente è l'otto settembre. Mi chiedo: arriveranno i partigiani?

Torniamo alla situazione di oggi: Berlusconi invoca elezioni, Napolitano resisterà?
Berlusconi ha le carte per vincere, perchè dovrebbe rinviare la partita? Il Presidente ha chiesto una "tregua istituzionale", ma i partiti dovrebbero impegnarsi e i presidenti di Camera e Senato garantire. La vedo difficile.

E Veltroni? Sembra terrorizzato dall'idea di andare al voto...
Per come ha navigato nella fase preliminare di questa crisi dimostra un pericoloso infantilismo. Prima liquida il governo e poi chiede elezioni. Il fatto è che Veltroni è vittima della degenerazione salottiera della politica. Soprattutto della politica romana composta da massoni, clericali, palazzinari e banchieri.

Liberazione Settimanale 27.1.08
Revelli: «Solo con la sua pratica il conflitto diventa efficace»
Gandhi un "pacificato", un predicatore della "sopportazione"? «Tutt'altro»


Gandhi un "pacificato", un predicatore della "sopportazione"? «Tutt'altro». La nonviolenza una pratica che sacrifica il conflitto? «Al contrario, semmai lo dilata, lo rende più accessibile, ma rinuncia alla barbarie». Con Marco Revelli, storico e studioso, ordinario di scienza della politica all'Università del Piemonte Orientale, cerchiamo di capire in cosa consista, e in che termini si possa declinare, la traduzione contemporanea del messaggio gandhiano. E perché oggi, in una società globalizzata che moltiplica i fattori di ingiustizia e di oppressione, la nonviolenza sia da considerare la sola risposta «efficace», non già un percorso di «accettazione dell'esistente». Un'occasione di «trasformazione» tanto collettiva e sociale quanto antropologica e interiore.

Professore, la sua esperienza personale è in qualche modo paradigmatica. Lei ha detto di non essere nato "nonviolento", esattamente come la sinistra non nasce "gandhiana". Perché era inevitabile che questo approdo fosse così tormentato?
La tradizione in cui mi colloco è sicuramente pacifista ma non integralmente nonviolenta. I miei riferimenti sono alla cultura radicale, democratica e antifascista. La mia esperienza si è poi intrecciata ai movimenti di rivolta della fine degli anni ‘60 e dell'inizio dei ‘70, al movimento studentesco e alla sinistra rivoluzionaria. Quei movimenti nascono in buona misura in contrapposizione alla guerra, prima contro quella coloniale in Algeria, poi contro quella americana in Vietnam, in cui i simboli della pace si mescolavano con la solidarietà attiva alla guerriglia. In quella cultura di radicale resistenza alle forme di ingiustizia stava un ventaglio ampio di posizioni che andavano dal pacifismo assoluto, integralmente nonviolento, fino alla resistenza armata contro l'oppressione. Ben inteso: anche allora molti di noi avevano come riferimenti figure di nonviolenti come Aldo Capitini e Danilo Dolci. Ma non dimentichiamo che la loro azione si collocava all'interno della tradizione resistenziale. Capitini prese parte alla Resistenza senza usare le armi ma stette fianco a fianco a quelli che le armi le avevano prese.

Intende dire che in talune circostanze la nonviolenza può ammettere deroghe?
Qui ci aiuta un riferimento diretto alla figura di Gandhi, attorno alla quale temo siano sorti alcuni equivoci. Egli viene identificato a ragione con un'idea di nonviolenza impegnativa e integrale, ma nello stesso tempo ciò è associato ad una condanna indistinta e indifferenziata di ogni forma di violenza. Non è vero: Gandhi non nega la violenza laddove essa si esprime come resistenza all'oppressione. Egli pone la lotta nonviolenta al punto più alto in termini sia di efficacia che di capacità di trasformazione dell'esistente. Ma per quanto riguarda gli oppressi, coloro che subiscono forme intollerabili di ingiustizia, dice anche - e in questo è molto esplicito - che tra chi le subisce passivamente e chi si ribella anche con la forza, sceglie i secondi. Non confondiamo Gandhi con un conciliato, con il predicatore della sopportazione e della accettazione dell'ingiustizia: se egli attribuiva una preferenza alla lotta nonviolenta è perché la riteneva più efficace per la sua capacità di raggiungere il superamento di una condizione di oppressione.

La nonviolenza, dunque, non è rinuncia al conflitto.
Gandhi è un conflittuale, la sua è una "lotta" nonviolenta, non è nonviolenza contrapposta all'idea di lotta. E la nonviolenza è intesa come mezzo più adeguato per permettere ai più deboli di lottare anche contro nemici apparentemente invincibili sul piano della forza. Non è affatto riduzione degli spazi di conflitto, ma il riscatto dell'idea stessa di conflitto anche in situazioni in cui esso può apparire impossibile. Cosa che avviene in due circostanze: o quando il rapporto di forza è manifestamente sbilanciato o quando i mezzi con cui il conflitto andrebbe combattuto sono talmente distruttivi che lo renderebbero molto costoso per entrambe le parti.

Quella di Gandhi è considerata un'esperienza "felice" che però si colloca in una fase storica molto precisa, in un orizzonte circoscritto, in cui ha pesato anche l'implosione dell'imperialismo britannico. In che modo questa esperienza è replicabile?
Oggi la volgarità e la brutalità del potere sono sotto gli occhi di tutti. Dal Kosovo, all'Iraq, all'Afghanistan: la circolarità dei mezzi utilizzati da entrambe le parti del conflitto e il loro abbrutimento, questo carattere disgustoso e orrendo dell'esercizio del potere globale indubbiamente lasciano carichi di angoscia. E' uno scenario inguardabile rispetto al quale si scorgono solo alcuni barlumi di speranza, forme di resistenza che tuttavia affidano la loro promessa di durare e costruire un'alternativa proprio al metodo che usano: dalle donne afgane e irachene, alle comunità di nomadi nel Kosovo, ai nostri movimenti territoriali…

Di fronte alla trasformazione dei poteri, alla moltiplicazione dei fattori di squilibrio e ingiustizia, non c'è il rischio che la nonviolenza possa essere interpretata come accettazione dell'esistente? Perché invece, a suo giudizio, è la sola via percorribile?
La guerra infinita, la disseminazione delle tecnologie distruttive, il carattere spesso impersonale del dominio che non è più rappresentato semplicemente da apparati statali, ma è colonizzazione ancor più totalitaria di grandi concentrazioni finanziarie e industriali. Ecco, tutte queste forme dure di oppressione rendono l'arma della rivolta spuntata proprio per lo spaventoso divario di forza che c'è tra microcomunità e poteri globali spesso invisibili. O si è in grado di porre in atto forme di resistenza che costruiscano anche un'alternativa di valori - come appunto la nonviolenza richiede - oppure si rischia di essere stritolati sotto i cingoli di questa macchina globale strapotente e impersonale. In un confronto così impari, quello della nonviolenza a me pare uno strumento liberatorio, perché da una parte apre la strada alla possibilità del conflitto anche in condizioni di assoluto svantaggio, dall'altra parte consente di giocare la partita non solo sul terreno del rapporto di forza, ma anche su quello della trasformazione personale.

La distinzione tra pacifismo come ideologia e nonviolenza come pratica, allora, non è puramente accademica. Lei scorge in quest'ultima un valore aggiunto, una "cifra" antropologica?
La nonviolenza, così come praticata da Gandhi, è una forma di lotta che non opera soltanto sugli aspetti esteriori, sui rapporti di forza: implica anche un lavoro sui soggetti, una trasformazione interiore sia di sé che dell'avversario. E quindi non poggia solo su tecnologie del conflitto, ma anche sulla dimensione esistenziale ed etica di coloro che lo combattono. E' l'esatto opposto della violenza, che finisce per abbrutire anche chi sta dalla parte della ragione. Laddove i metodi violenti sono semplicemente un problema di tecnologia della distruzione, la nonviolenza comporta un processo difficile di autoeducazione, la necessità di aumentare la propria virtù, la propria capacità di amore, il rispetto di sé e degli altri.

Torniamo all'efficacia della lotta nonviolenta. Essa ha contaminato anche larga parte dei movimenti e alcune esperienze di "resistenza territoriale" in Italia. In che misura l'adozione di queste pratiche può risultare vincente?
Io ho conosciuto dall'interno la lotta per la Val di Susa. E posso dire che se non fosse stato per l'approccio "radicalmente" non violento, quella resistenza "radicale" non avrebbe potuto esprimersi con quella forza, in tutte le sue manifestazioni fino alla riconquista di Venaus: in quello straordinario corteo sui sentieri di montagna, senza colpo ferire in un'ora si è riconquistato ciò che la polizia aveva occupato con una violenza brutale sul presidio. La scelta del metodo è fondamentale: solo l'opzione nonviolenta può spiegare la capacità di durata di quella lotta, la sua capacità di unificare la popolazione, respingere le provocazione dei poteri e mantenere, malgrado la durezza del conflitto, un volto sorridente e pulito. E di parlare a tutti.

Il Sole 24 Ore Domenica 27.1.08
La vera lezione di Auschwitz
La Shoa oggi viene troppo legata alla difesa di Israele. Perdendo il suo significato universale
di Tony Judt

Testo tratto dal discorso tenuto all'autore a Brema, in occasione del ricevimento del premio Hannah Arendt.


Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e l'Olocausto è mutato. All'inizio l'identità di Israele fu costruita sul rifiuto del passato, trattando l'Olocausto come una prova di debolezza, una debolezza che era compito di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Oggi, quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il modo di gestire i rapporti con i palestinesi e per l'occupazione del territorio conquistato nel 1967, i suoi difensori tendono a chiamare in causa la memoria dell'Olocausto. Attenti, dicono, se criticate Israele con troppa veemenza, sveglierete i demoni dell'antisemitismo. Anzi, il messaggio è che un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Israele non si limita a risvegliare l'antisemitismo: ~ di per sé antisemitismo. E con l'antisemitismo si apre la strada che porta - o ritorna - al 1938, alla "notte dei cristalli" e di là a Treblinka e ad Auschwitz. Se volete sapere dove va a finire, dicono costoro, non avete che da visitare Yad Vashem a Gerusalemme, l'Holocaust Museum a Washington o i monumenti commemorativi e i musei sparsi in tutta Europa.

Comprendo i sentimenti che dettano queste affermazioni. Ma queste affermazioni in sé sono molto pericolose. Quando a me e ad altri, con la scusa che non vanno risvegliati gli spettri del pregiudizio, viene rimproverato il dissenso nei confronti di Israele, rispondo che il problema va posto al contrario. E proprio un tabù del genere che può stimolare l'antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori, negli Stati Uniti e altrove, per tenere conferenze sulla storia europea del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono gli argomenti che tratto anche nell'università dove insegno. E posso dire quali conclusioni ne ho derivate. Oggi non c'è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio degli ebrei, le conseguenze storiche dell'antisemitismo e il problema del male. Tutti conoscono queste cose, con un'ampiezza ignota ai loro genitori. Ed è così che dev'essere. Ma mi ha colpito recentemente la frequenza con cui affiorano nuove domande: «Perché ci fissiamo sull'Olocausto?», «Perché (in certi Paesi) è illegale negare l'Olocausto ma non altri genocidi?», «Non si sta esagerando la minaccia dell'antisemitismo?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele sta usando l'Olocausto come scusa?».

Due sono i miei timori: che sottolineando l'eccezionalità storica dell'Olocausto e al contempo invocandolo costantemente in riferimento alle vicende contemporanee, abbiamo creato confusione nei giovani; e che gridando all'antisemitismo ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi stiamo allevando una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi l'esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli ebrei non si trovano ad affrontare minacce e pregiudizi neppure lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze. Facciamo un piccolo esercizio. Vi sentireste al sicuro, accettati e benvenuti, negli Stati Uniti, oggi, se foste un musulmano o un immigrato clandestino? E se foste un "Paki" in certe zone dell'Inghilterra? O un marocchino in Olanda? Un "beur" in Francia? Un nero in Svizzera? Uno "straniero" in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in Europa? E non vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati come ebrei? Credo che siamo tutti in grado di rispondere.

In molti di quei Paesi - Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della Germania - la minoranza ebrea locale è fortemente rappresentata nel mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di quei Paesi gli ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.

Il pericolo di cui gli ebrei - e non solo loro - dovrebbero preoccuparsi, se c'è, viene da un'altra direzione. Abbiamo agganciato la memoria dell'Olocausto così saldamente alla difesa di un unico Paese - Israele - che rischiamo di provincializzarne il significato morale.

È vero, il problema del male nel secolo scorso, per citare Hannah Arendt, ha preso la forma del tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta solo dei tedeschi e non si tratta solo degli ebrei. Non si tratta neppure solo dell'Europa, anche se è là che quel tentativo è avvenuto. Il problema del male - del male totalitario, del male del genocidio - è un problema universale. Ma se lo si manipola per trarne un vantaggio locale, ciò che accadrà (e io credo stia già accadendo) è questo: coloro che vivono in contesti lontani da quel crimine - o perché non sono europei o perché sono troppo giovani perché per loro il ricordo di quell' evento abbia rilevanza - non capiranno che rapporto abbia con loro la memoria che ne viene coltivata e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di spiegarglielo.
In altre parole l'Olocausto perderà la sua risonanza universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il modo per mantenere intatta la lezione centrale che davvero può venirci dalla Shoah: e cioé la facilità con cui le persone - un popolo intero - possono essere diffamate, demonizzate e annientate. Ma non approderemo a nulla, se non riconosciamo che questa lezione potrà anche essere messa in dubbio e dimenticata. Se non mi credete, andate a chiedere, fuori dai paesi sviluppati dell'Occidente, qual è la lezione di Auschwitz. Avrete riposte ben poco rassicuranti.

Non c' è una soluzione facile a questo proble!la. Ciò che pare chiaro agli europei dell'Euro'a occidentale è ancora oscuro per gli europei di'Est, come era oscuro agli stessi europei !ell'Ovest quarant'anni fa. Il monito morale di mschwitz, che campeggia a caratteri cubitali ullo schermo della memoria europea, è quasi !lvisibile per africani e asiatici. E ancora - e fore soprattutto - ciò che sembra lampante alle lersone della mia generazione avrà sempre neno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. 'ossiamo preservare un passato europeo che la memoria sta sfumando in storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?

Forse tutti i nostri musei, i nostri monumenti commemorativi, le nostre gite scolastiche obbligatorie non sono il segno che oggi siamo pronti a ricordare, ma indicano invece che riteniamo di esserci lavati la coscienza e di poter cominciare a mollare e a dimenticare, delegando alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l'ultima volta che sono stato al Monumento agli ebrei d'Europa assassinati, a Berlino, annoiati ragazzini in gita scolastica giocavano a rimpiattino tra le steli. Quello che so per certo è che se la storia deve svolgere il compito che le compete, e conservare per sempre traccia dei crimini passati e di tutto il resto, è meglio lasciarla stare. Qµando andiamo a saccheggiare il passato per profitto politico - scegliendone i pezzi che fanno al caso nostro e reclutando la storia a insegnare opportunistiche lezioni morali - ne caviamo cattiva morale e anche cattiva storia. Nel frattempo, forse dovremmo, tutti quanti, fare attenzione quando parliamo del problema del male. Perché di banalità ce n'è più di un tipo. C'è la notoria banalità di cui parlava Hannah Arendt: l'inquietante, normale, familiare, quotidiano male dentro gli esseri umani. Ma c'è anche un'altra banalità, quella dell'abuso: l'effetto di appiattimento e desensibilizzazione del vedere o dire o pensare la stessa cosa troppe volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo inmmne al male che descriviamo. Questa è la banalità -la banalizzazione - che rischiamo oggi.

Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il problema del male perché per loro - aveva troppo significato. La generazione che verrà dopo di noi corre il pericolo di accantonare il problema perché ora contiene troppo poco significato. Come si può impedire che ciò avvenga? In altre parole, come si può fare in modo che il problema del male resti la questione fondamentale della vita intellettuale, e non solo in Europa? Non ho una risposta ma sono sicuro che questa è la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt ha posto sessant'anni fa. E sono certo che la porrebbe ancora oggi.

Di Tony Judt è in libreria «Dopoguerra». Mondadori. pagg.l.076. €32.00.