Bertinotti a «Che tempo che fa»
«Una nuova legge elettorale è nell’interesse di tutti»
MILANO «Una nuova legge elettorale va a vantaggio di tutti perché le regole generali se sono buone vanno nell'interesse di tutti». Lo ha dichiarato il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ospite della trasmissione «Che tempo che fa», condotta da Fabio Fazio su Rai Tre. «Se qualcuno è convinto di vincere comunque le prossime elezioni, meglio ancora per lui», ha continuato Bertinotti riferendosi a Berlusconi. «Questo sistema elettorale spinge a mettersi insieme il bianco e il nero», ha proseguito il presidente della Camera: «Auspico una legge elettorale trasparente che dia alla maggioranza la capacità di governare». Bertinotti ha anche sottolineato che le persone di sinistra «hanno il diritto di avere un soggetto politico unitario» a sinistra del Partito democratico, riferendosi alla Sinistra Arcobaleno. Il presidente della Camera ha anche sostenuto di essere contrario alla Grosse Koalition e di auspicare un sistema elettorale proporzionale con uno sbarramento al 5 per cento. Alla domanda di Fazio se fosse interessato a ricoprire un incarico politico nella prossima legislatura, Bertinotti ha risposto che «non ci sono uomini per tutte le stagioni politiche. Per dirigere una compagine politica devi avere l'età e secondo me ci dovrebbe essere un limite di età per i segretari di partito così come c'è un limite anche per i vescovi. Escludo di farlo». .
l’Unità 28.1.08
Verdi: «Parta subito la Sinistra arcobaleno»
Il consiglio federale nazionale dei Verdi, su proposta approvata all'unanimità del presidente Alfonso Pecoraro Scanio, dà mandato all'avvio della costituente ecologista, arcobaleno e civica entro marzo nel caso di elezioni anticipate. I Verdi «confermano la scelta di costruire un'alleanza programmatica della Sinistra Arcobaleno in caso di voto anticipato». E propongono che si rilanci «una nuova coalizione di centrosinistra che abbia come interlocutori il Pd, le forze laiche, riformatrici e civiche del Paese, con l'obiettivo di indicare una proposta di governo per il Paese e battere le destre e Berlusconi». I Verdi ringraziano Romano Prodi e rivendicano gli obiettivi raggiunti. E dicono sì a un governo a termine «che abbia come base di partenza le forze dell'unione che hanno confermato la fiducia a Prodi».
l’Unità 28.1.08
Elie Wiesel: «La Shoah resta il male assoluto»
di Umberto De Giovannangeli
GIORNO DELLA MEMORIA Parla lo scrittore premio Nobel nel 1986: «Dimenticare è impossibile e significherebbe uccidere una seconda volta le vittime. Ma non c’è solo il rischio dell’oblio: Ahmadinejad e il terrorismo sono pericoli reali»
«Non possiamo, non dobbiamo dimenticare ciò che accadde nei lager nazisti. E che al fondo dell’Olocausto vi era il proposito di annientare gli ebrei, colpevoli di esistere: chi lo nega infligge alle vittime dei campi di sterminio una seconda morte». A parlare, nella Giornata delle Memoria, è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse 11 mesi.
Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. «L’antisemitismo e l’odio razziale - riflette Wiesel - segnano anche questo inizio secolo. Non posso perdonare gli aguzzini e coloro che ne esaltano le gesta». Parla a ragion veduta, il grande scrittore, Lui il mostro nazista l’ha visto negli occhi: «Non credo - afferma - che esista il Bene assoluto, nella mia vita, almeno, non l’ho mai incontrato . Ma il Male assoluto l’ho conosciuto e da allora non mi ha più abbandonato: l’ho visto negli occhi dei nostri carnefici, e nelle pietose giustificazioni di chi ripeteva: “Io non c'entro, non sapevo” e lo ritrovo anche oggi in chi nega che l'Olocausto fu innanzitutto il tentativo di annientare gli ebrei». Oggi ricorda Elie Wiesel, lo spettro di una nuova Shoah torna ad essere agitato da «una figura che non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per ciò che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità. Il nome di questa persona è Mahmoud Ahmadinejad: costui rappresenta la parte più buia dell'orizzonte politico odierno». «Spero che il 2008 - afferma Elie Wiesel - possa essere davvero l’anno della pace in Medio Oriente», ma lo scenario internazionale, e non solo quello mediorientale, è segnato pesantemente dalla crescente insicurezza globale dovuta al terrorismo. «Stiamo lasciando alle nuove generazioni un mondo pieno di paura - riflette il grande scrittore della Memoria - cosa ne faremo, lo trasformeremo in una fortezza?».
Nella Giornata della Memoria, è importante raccontare soprattutto ai giovani cosa è stato l'Olocausto. Compito a cui lei non si è mai sottratto. A un ragazzo di oggi che le chiedesse: cosa è stato l'Olocausto?, che risposta darebbe?
«È stato il Male assoluto. Ecco cosa è stato. Ciò che ha caratterizzato quel periodo fu una determinazione assoluta nel pianificare e condurre a compimento l’annientamento di un popolo. Questo è stato l’Olocausto, in questo consiste la sua novità rispetto al passato: per la prima volta nella storia, si intendeva eliminare completamente dalla faccia della terra un popolo. Gli ebrei non furono perseguitati e sterminati per motivi specifici, perché credevano o non credevano in Dio, perché erano ricchi o poveri, o perché professavano ideologie nemiche: no, gli ebrei venivano uccisi, umiliati, torturati per il semplice fatto di essere tali. Perché erano colpevoli di esistere: questo è l’orrore incancellabile della Shoah».
La memoria dell'Olocausto sembra smarrirsi: c'è chi afferma che ciò è un bene, che ricordare serve solo a perpetuare antiche divisioni.
«No, no, sono assolutamente contrario. Dimenticare le vittime significa null’altro che infliggere loro una seconda morte! Una vera riconciliazione, inoltre, non può avvenire che a partire dal ricordo, preservando la memoria di ciò che furono quegli anni. È vero: oggi c’è chi esalta l’oblio, chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. A questa operazione sento il dovere morale di ribellarmi, ieri come oggi: perché per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la distinzione tra il carnefice e la sua vittima. Ed ancor oggi l’Olocausto insegna che quando una comunità viene perseguitata tutto il mondo ne risulta colpito».
Molti dei suoi libri hanno trattato il tema della memoria, del ricordo e dell'oblio, e di come la tragedia dell'Olocausto si è trasmessa di padre in figlio nel popolo ebraico, in Israele e nella Diaspora.
«È il tema dell’identità ebraica, della sua specificità che non va smarrita ma che non deve mai essere vissuta come “separazione” dal mondo dei “Gentili”. In uno dei miei libri, L'oblio, (Bompiani), il protagonista sintetizza così il suo essere ebreo: “Se sono ebreo, sono un uomo. Se non lo sono, non sono nulla. Solo così potrò amare il mio popolo senza odiare gli altri”. Questo mi ripetevo allora, nei giorni di Buchenwald, quando i nostri aguzzini volevano cancellare la nostra identità, prima di negarci la vita, per ridurci solo a numeri, quelli marchiati a fuoco sulle nostre braccia. Ma non ci sono riusciti: hanno ucciso sei milioni di ebrei ma non sono riusciti a cancellare la nostra identità. Ed è per questo che oggi, nella Giornata della Memoria, posso dire con il mio Malkiel (il protagonista dell'Oblio, ndr.): è proprio perché amo il popolo ebraico che trovo in me la forza per amare quelli che seguono altre tradizioni. Un ebreo che nega se stesso non fa che scegliere la menzogna».
Signor Wiesel, per chi ha vissuto l’esperienza dei lager nazisti ha un senso la parola «perdono»?
«È la domanda che ha accompagnato la mia esistenza di sopravvissuto. Ma parole come perdono o misericordia non trovano posto nell’inferno di Auschwitz, di Buchenwald, di Dachau, di Treblinka…. No, non è possibile perdonare gli aguzzini di un tempo e coloro che ancora oggi ne esaltano le gesta. In questi sessantatre anni, ho pregato più volte Dio e la preghiera è la stessa che recitavo quando ero rinchiuso nel lager: “Dio di misericordia, non avere misericordia per gli assassini di bambini ebrei, non avere misericordia per coloro che hanno creato Auschwitz, e Buchenwald, e Dachau, e Treblinka, e Bergen-Belsen…Non perdonare coloro che qui hanno assassinato. Ma questo non vuol dire condannare per sempre il popolo tedesco, perché noi ebrei, le vittime, non crediamo nella colpa collettiva. Solo il colpevole è colpevole».
Dal passato che non passa, ad un presente inquietante. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché?
«Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell’offendere la memoria dei sopravvissuti all'Olocausto ancora vivi, glorifica l’arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la “soluzione finale” di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadinejiad, non c’è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue “promesse”. Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c’è dietro l’organizzazione terrorista degli Hezbollah? L'Iran. L'Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Ma cosa vogliono gli Hezbollah? Concezioni territoriali? No. La creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele, cosa che personalmente mi auguro? No. L’unico obiettivo di questo movimento - e del presidente iraniano - è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l'umanità».
Nella sua visita in Israele, il presidente Usa Bush, al museo dello Yad Vashem, si è chiesto del perché gli Alleati non avessero bombardato prima Auschwitz. Secondo un filone storiografico, ciò non avvenne perché gli Alleati temevano che bombardando avrebbero ucciso migliaia di prigionieri del campo.
«Questa motivazione non regge. Prima però mi lasci dire che ho molto apprezzato le parole del presidente Bush. Il suo è stato un atto di coraggio che è mancato ai suoi predecessori…».
Lei parlava di una scusa…
«Io ero ad Auschwitz. E posso dirle che ogni volta che assieme ai miei compagni di sventura sentivamo gli aerei sorvolare Auschwitz, pregavamo che bombardassero: sarebbe stata una morte preferibile alle camere a gas. La verità è che non solo gli angloamericani ma anche i russi, avrebbero potuto bombardare i binari della ferrovia che portava ad Auschwitz. In tal modo si poteva salvare la vita di decine di migliaia di ebrei. Così non è stato. E credo che il rimorso per non aver dato l’ordine di bombardare abbia accompagnato i responsabili per tutta la loro vita».
l’Unità 28.1.08
Psicoterapia popolare alla sbarra
di Luigi Cancrini
Caro Luigi,
in qualità di Presidente dell'Ordine degli Psicologi del Lazio, sono delusa ed amareggiata dagli ultimi sviluppi della proposta di legge sulla psicoterapia a convenzione. Il progetto iniziale, da noi condiviso sin dal 2001, avrebbe finalmente dato il crisma della legalità e dell'ufficialità alla prassi, in base alla quale il Dirigente sanitario (medico o psicologo), per ovviare al problema delle liste di attesa causato dalla carenza di psicoterapeuti nel SSN, invia al settore privato, ad esempio, giovani utenti che possono sostenere le spese di una psicoterapia. Come ben sai, questa è ormai la prassi consolidata e in tutti questi anni non si è mai verificato alcun problema, ma, anzi, i pazienti ed i familiari hanno sempre ringraziato, anche se costretti a pagare di tasca loro le psicoterapie. La mia delusione, che ho espresso nell'incontro da te convocato a Roma il 22 gennaio, deriva dalla previsione della «conferma diagnostica» da parte di un medico specialista in psichiatria o in neuropsichiatria infantile, che, oltre ad essere lesiva dell'autonomia organizzativa delle Regioni e dei servizi territoriali, crea a livello legislativo un subliminale quanto pericoloso pregiudizio nei confronti degli psicoterapeuti psicologi. D'altronde, credo che nessuno possa dissentire quando Adriano Ossicini, medico, professore di Psicologia e padre fondatore della legge istitutiva della professione di psicologo, afferma: «distinguere diagnosi da terapia è un non senso scientifico... Nessuno pensa che la diagnosi possa essere staccata dalla terapia. Si tratta di un processo, di un continuum con prevalenti momenti diagnostici o terapeutici, la stessa terapia aggiorna la diagnosi, la stessa diagnosi non può essere staccata da un rapporto con il paziente che è fondamentale, che non può essere occasionale o interrotto meccanicamente». Per tutto quanto finora espresso avrei auspicato che potesse realizzarsi quel progetto originario, contenuto nella proposta di legge popolare del 2001, che recitava: «La modalità di accesso alla psicoterapia nel privato accreditato, deve essere effettuata dal Dirigente Sanitario del SSN (medico o psicologo) abilitato alla psicoterapia, come previsto negli artt. 3 e 35 della L. 56/89».
Marialori Zaccaria, Presidente Ordine Psicologi Lazio
Le assemblee che sto facendo in giro per l'Italia e quella, in particolare, di Roma del 22 ultimo scorso mi hanno convinto prima di tutto della validità del lavoro che abbiamo fatto fino ad oggi. La decisione di riprendere dal fondo del cassetto in cui cinque anni di governo della destra l'avevano lasciata la proposta di legge d'iniziativa popolare sull'accesso alla psicoterapia ha ottenuto un risultato straordinario che sta sotto gli occhi di tutti: convincere tutte le forze politiche presenti in Parlamento e tutti i rappresentanti degli Ordini Professionali, compreso quello dei Medici, del fatto per cui il sistema sanitario nazionale deve garantire a tutti i cittadini la possibilità di curarsi con forme diverse di psicoterapia riconosciute oggi solo ai parlamentari, ai dirigenti industriali e ai giornalisti. Un fatto che non era affatto scontato all'inizio della legislatura. Un fatto che ci deve far guardare con ottimismo al futuro di questa legge: anche nel caso in cui ci fossero delle elezioni e a vincere fosse la destra, infatti, le posizioni prese a favore di questa legge sono così autorevoli e così forti da renderne molto probabile l'approvazione definitiva.
Un secondo dato che è emerso con chiarezza da queste consultazioni è quello relativo alla importanza di una partecipazione costruttiva dei professionisti e di chi li rappresenta nella scrittura di una legge che li riguarda. Quello che non è per niente facile immaginare a volte, dall'interno di una commissione parlamentare, è la complessità delle conseguenze che si determinano nel momento in cui si redige un testo a livello dei servizi e delle categorie professionali: come ci ricorda ora, una volta di più, la tua lettera sul problema della diagnosi. Avevo scritto, una settimana fa che affidare allo psichiatra o al neuropsichiatra infantile una conferma diagnostica preliminare alla predisposizione di un progetto psicoterapeutico non doveva essere considerato come un fatto di grande gravità. Il lettore cui rispondevo diceva che questo solo fatto trasformava la legge in un "obbrobrio" ed io gli dicevo che quello era un passaggio discutibile ma non fondamentale per chi affida a questa legge la finalità di dare accesso alla psicoterapia a chi ne ha bisogno. Quello su cui tu ora mi scrivi e su cui tanto si è insistito nel corso della assemblea è il fatto tuttavia che, scritto così, quel testo incide sulla attività quotidiana dei servizi che possono già offrire direttamente la psicoterapia. Tocca alle Regioni l'organizzazione dei servizi di cui si parla nella legge e la legge così come è scritta oggi potrebbe creare dei problemi serii a quelle Regioni che hanno creduto nel carattere multidisciplinare dei servizi e nella necessità di mettere in rete le diverse competenze professionali.
È in questa direzione che si potrà ritoccare il testo, ovviamente, in questa legislatura o nella prossima se davvero alle elezioni si andrà. Quello su cui vorrei insistere ancora prima di chiudere, tuttavia, è il significato più generale di quello che sta accadendo. In una fase come questa, una fase in cui in tanti si danno da fare per squalificare gli uomini politici considerati nel loro complesso, l'effetto che si determina, consapevolmente o no, è un effetto che favorisce la destra. «Meno Stato e più mercato» ha sempre predicato un uomo come Berlusconi e una delegittimazione forte della politica serve, in effetti, soprattutto a chi, come lui, ha molte cose da farsi perdonare ed ha tutto l'interesse a dire ed a far credere che «sono tutti come lui». Quello che è difficile vedere e far vedere è, in queste condizioni, il fatto che c'è gente, nel Parlamento, che si affatica e si confronta per scrivere una legge che serve ai cittadini e che si rende disponibile, per farlo nel modo migliore possibile, al numero più ampio possibile di incontri e di consultazioni: gente la cui capacità di lavoro viene travolta, oggi, dalla boria e dalla irresponsabilità di leaders, veri o presunti tali, che si muovono su logiche di schieramento che poco o nulla hanno a che fare con i problemi e con le attese dei cittadini.
Dovesse mai finire qui perché anche questo è possibile, i risultati comunque raggiunti in tema di psicoterapia sono importanti soprattutto per questo motivo: perché fanno pensare a quanto sia importante per tutti noi il fatto che i politici ci siano e lavorino nel rispetto del mandato che ricevono dagli elettori ed in un rapporto costante con loro. Evitando nei limiti del possibile quella spettacolarizzazione lideristica della politica verso cui con leggerezza sconcertante si sta andando. Da noi ed in altri paesi.
Repubblica 28.1.07
La moratoria sull'aborto ultima violenza alle donne
di Gustavo Zagrebelsky
In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la legge sull´interruzione volontaria della gravidanza, "la 194", che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.
Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario delle parole d´ordine a effetto, che fanno confusione, servono per "crociate" che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan "moratoria dell´aborto", stabilendo una "stringente analogia" (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello "scontro di civiltà" che, molti insofferenti della difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.
Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle donne"? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull´essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.
Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa, questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione, solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è l´orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello scandalo, scartata e male o punto tollerata. D´altra parte, non solo la gravidanza, ma l´aborto stesso, percepito come via d´uscita da situazioni di necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna, costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C´è poi un potenziale di somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L´iniqua ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si avvalgono, come loro mezzo, dell´aborto.
Violenze su violenze d´ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull´essere indifeso ch´essa porta in sé. E´ certamente una tragica condizione quella in cui il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza. Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l´aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa patisce la crudeltà della natura e l´ingiustizia della società; una condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all´ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.
In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è capitale per capire di che cosa parliamo.
Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l´aborto come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books del 1991, ha richiamato l´attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne mancano all´appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi e femmine in Paesi come l´India e la Cina (ma la questione riguarda tutto l´estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad esempio, che in Cina, nel 2030, l´eccesso di uomini sul "mercato matrimoniale" potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate. Le cause immediate, però, sono l´aborto selettivo e l´infanticidio a danno delle bambine, oltre che l´abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la richiesta di "moratoria" ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.
E diverso, in riferimento alle società dove l´aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a chiedere la "revisione" della legge che "regola" l´aborto. Ma l´obbiettivo è quello, come la "stringente analogia" con l´abolizione della pena di morte mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge giusta che regoli l´aborto».
Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a colpire? E´ l´ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire: l´inerme, il fragile, l´incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro l´arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l´aborto finirebbe per caricarla integralmente dell´intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha nell´apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione dell´aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.
«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del 1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l´uno dipendente dall´altro, entrambi titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell´uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall´altro, sta il diritto all´esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella negazione del diritto dell´altro. Per questo, è incostituzionale l´obbligo giuridico di portare a termine la gravidanza, "costi quel che costi"; ma, per il verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna, cioè il suo "diritto potestativo" sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto "la 194", prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni), è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut aut.
Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non negoziabili": l´autodeterminazione della donna contro l´imposizione dello Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali (l´aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un´altra concezione incentrata sull´organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non possibile salvare e l´una e l´altra: la sensibilità non cattolica più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.
Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la nascita d´un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto questo dipende l´aborto "di necessità", che – si dirà - è però una parte soltanto del problema. Ma l´altra parte, l´aborto "per leggerezza", troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l´equiparazione dell´aborto all´omicidio e della donna all´omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine, nell´umiliazione e nel rischio per l´incolumità. L´esito del referendum del 1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194", dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l´aborto clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l´esperienza, per ravvivare il ricordo.
Repubblica 28.1.07
La memoria e la Shoah
Il discorso di David Grossman all’Università di Firenze
Grossman racconta la Shoah: la memoria sta nei luoghi e nell'arte
Leib e Ester, gli ebrei salvati da una prostituta polacca
Gli interrogativi che quella tragedia ci pone riguardano anche i nostri rapporti con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione
La storia di Leib ed Ester Rochman non è fra le più terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza che da anni non mi dà pace
Lo scrittore israeliano ha ricevuto ieri a Firenze la laurea ad honorem. Pubblichiamo parte del discorso che ha letto durante la cerimonia.
Sei milioni di ebrei morirono in Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell´umanità e dopo il quale l´umanità non fu più la stessa. Ecco alcuni interrogativi che la Giornata della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo, e autentico, oppure, con l´andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale?
E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l´incisività e l´attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno ancora oggi, soprattutto oggi?
Queste domande concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l´indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano?
In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale d´avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita? (...)
Mentre gli altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah – e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne – noi, in Israele, siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell´angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoah ha lasciato impresso in noi. In un certo senso si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove si attivò come "assistente sociale" tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch´ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Leib ed Ester, insieme con la sorella minore di quest´ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna polacca il cui soprannome era "Ciotka", zia in polacco, un´anziana prostituta cordiale e piena di vita. (...) Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete-nascondiglio, a poca distanza da quella originaria. Leib, sua moglie e sua cognata vissero nell´intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po´, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim. Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo che, per quanto non fosse loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero quasi rimasti ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica. (...)
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. (...) Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: ma come, sono rimasti così tanti ebrei?
Una notte trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto, il cui recinto era stato sfondato, e lì trascorsero la notte. C´erano giacigli e tavolacci e su quelli dormirono. La mattina, al loro risveglio, scoprirono di essere nel campo di concentramento di Meidanek, liberato un paio di giorni prima dai russi, e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno gironzolarono per il campo e all´improvviso videro la Shoah.
Non sapevano esattamente che cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e i cumuli di cenere di chi era stato bruciato. Non riuscivano a crederci: tutto era lì, sotto i loro occhi, eppure non riuscivano a capacitarsi che fosse successo veramente, che una cosa simile fosse stata possibile. A quel punto si imbatterono in un gruppo di ufficiali e di guardie del campo catturati dai russi. I soldati dell´Armata rossa accerchiavano i tedeschi che stavano seduti al centro, prigionieri.
Così, nello stesso giorno, Leib e compagni videro le vittime e i carnefici. I carnefici in carne ed ossa. Non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì, davanti a loro, erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della "soluzione finale".
Di colpo Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile, con l´intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò, odiò se stesso, ma non poté farlo.
Allora gridò, in yiddish: Aufstein, Fallen! – In piedi! A terra! I tedeschi, sicuri che stesse per ucciderli, fecero ciò che ordinava loro, terrorizzati. Scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra, più volte. Leib capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli. Non sapendo cosa fare buttò via il fucile, si ritirò in disparte e scoppiò a piangere, a tossire e per la prima volta sputò sangue. Allora scoprì di essere malato di tubercolosi.
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero nella terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest´ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell´emittente radio israeliana "Kol Israel" ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell´animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altre milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi "questioni" relative alla Shoah, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sull´incremento del numero dei neo-nazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell´antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria – errata e inammissibile a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah, si fa sempre più accesa.
Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall´orrore palese. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente.
Proprio le vicende individuali, private, sono il "luogo" più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell´epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini?
Ho l´impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per conto proprio – fino a che non ci sottoporremo a questo auto-interrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo.
Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti – e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da "Yad vaShem", il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoah, e, nell´ultimo decennio, dall´archivio Spielberg – più cresce l´importanza dell´arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i "luoghi" in cui l´individuo moderno può affrontare la Shoah e sperimentare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere.
Traduzione di Alessandra Shomroni
Corriere della Sera 28.1.08
Il personaggio La figura dell'intellettuale francese e la sua lezione riproposta da Jean Daniel: un modello di libertà e resistenza
Camus, il coraggio di dire no
Giustizia, onore, felicità: un'etica per il giornalismo contro l'«aria del tempo»
di Claudio Magris
In un capitolo del suo fulmineo Vicino & lontano, che afferra squarci di realtà come un falco, Alberto Cavallari, il più camusiano del giornalisti e degli scrittori italiani, ricorda come Camus affermasse che la coscienza vale più della sopravvivenza. Anch'egli del resto, era capace di «resistere all'aria del tempo», come dice il sottotitolo del libro che Jean Daniel ha dedicato all'autore francese e soprattutto alla sua attività di giornalista,
Avec Camus ( Con Camus). Un piccolo capolavoro, un modello di asciutta prosa classica che si vorrebbe mettersi in tasca e portarsi dietro come un breviario laico di libertà e resistenza.
Fondatore ed editorialista del Nouvel Observateur,
Jean Daniel è un testimone d'eccezione degli ultimi decenni di storia e di vita di quella cultura francese che è stata una coscienza d'Europa. Non a caso è stato molto vicino a Camus, che si è gettato nell'attività di giornalista con la medesima assolutezza che gli ha fatto scrivere Lo straniero o La peste.
La grandezza di Camus consiste nell'aver unito un'inflessibile etica a un'inesauribile capacità di felicità, di vivere a fondo la vita come un ballo popolare o una solare giornata marina, pur nella sua tragicità guardata in faccia, rifiutando ogni morale che reprima la gioia e il desiderio. Camus ha un sacro, religioso rispetto per l'esistenza, il quale gli impedisce ogni trascendenza, metafisica o politica, che pretenda di sacrificarla a fini superiori. Nessun fine giustifica mezzi delittuosi, che anzi pervertono i fini più nobili, come accade alle ribellioni — L'uomo in rivolta — sempre tradite dalle rivoluzioni; nessun amore per le vittime — sempre difese da Camus contro i carnefici — le autorizza (né autorizza i loro difensori) a farsi a loro volta carnefici.
Camus ha vissuto sino in fondo il nichilismo e l'assurdo, combattendoli pur senza alcuna illusione di attingere una verità e trovando un irriducibile senso e valore del vivere; anche se Dio non esistesse, non per questo tutto sarebbe permesso, egli dice contro il suo amatissimo Dostoevskij. Questo umanesimo radicale non è affatto generosamente ingenuo, perché non si illude in nessuna possibile innocenza; l'eroe della Caduta denuncia la malafede della buona coscienza (Daniel).
Nella guerra d'Algeria, dove era nato, Camus si è battuto inequivocabilmente contro la violenza colonialista e per la libertà del popolo algerino, contro le criminose repressioni e la tortura. Ma ha rifiutato il terrorismo, non giustificato dalle repressioni assassine di innocenti civili in quanto anch'esso assassino di innocenti civili, entrando così in contrasto con tanta sinistra di allora, che si è rivelata politicamente meno lucida e realista di lui. Forse Camus, osserva Daniel, grazie alle sue origini povere non si è mai sentito colonizzatore, padrone nella sua Algeria, e perciò ha compreso che l'Algeria, nel suo sacrosanto diritto all'indipendenza politica e alla libertà dallo sfruttamento, era culturalmente e umanamente anche sua, anche francese, altrimenti sarebbe caduta in una febbre identitaria, fondamentalista e violenta. Analogamente, Nadine Gordimer, nella sua lotta contro l'apartheid in Sudafrica, si batteva per la civiltà di una terra che, diceva, era anche sua non meno che dei neri.
La grande disputa — e alternativa — di quegli anni non è stata quella fra Sartre, geniale filosofo ma pure settariamente banale in tante sue comode forzature ideologiche, e Aron, che spesso aveva ragione, ma non la capacità di assumere su di sé la carica umana di quegli errori totalitari, spesso arroganti ma nati da passioni generose. De Gaulle (la cui figura giganteggia sempre più nella storia politica dell'ultimo mezzo secolo), lo chiamava sprezzantemente, «professore al Figaro e giornalista al Collège de France»; Aron ha aperto gli occhi sul comunismo a molti intellettuali che vivevano comodamente in Occidente, ma è stato Camus, vera alternativa a Sartre, a farlo nei confronti di chi viveva nell'Est e aveva ben diversamente vissuto, condiviso e patito la fede comunista.
Rileggere Camus, scrive Daniel, può contribuire a elaborare una nuova etica del giornalismo, che appare sempre più urgente. Un'etica che Camus, uomo di sinistra, riassume in tre parole poco familiari a tanta sinistra: «Giustizia, onore e felicità». Ma soprattutto Daniel dimostra, narrando la vicenda di Combat — giornale nato nella Resistenza e poi diretto da Camus — come sia concretamente realista e possibile «resistere all'aria del tempo», al clima politico-culturale che è o sembra dominante.
Camus ha dimostrato come si possano dedicare solo poche righe a un delitto sensazionale di cui tutti scrivono senza rimetterci. Tante volte, a dire di no, non succede niente, come nella vecchia barzelletta di quella suora giovane e carina che, alla domanda come mai fosse l'unica non violentata da una banda di delinquenti entrati nel convento, risponde: «Non saprei... io ho solo detto di no... ».
Il giornalismo è una fatica di Sisifo per eccellenza; chi, come Jean Daniel, si batte per il riconoscimento delle diversità difendendo soprattutto l'universale oggi così minacciato, forse non sa, come Camus e tutti noi, cos'è la verità, però sa bene cosa sia la menzogna e può ripetere, con Camus: «Non abbiamo mentito».
Corriere della Sera 28.1.08
Lo storico Sebag Montefiore individua i segni precoci della dittatura sanguinaria
Stalin, primi passi di un despota
Seminarista, poeta, carcerato, spia: la sua carriera giovanile
di Ennio Caretto
Il modello
Si ispirò al bandito georgiano Koba, protagonista di un celebre romanzo del tempo
«Il giovane Stalin — ha dichiarato sorridendo lo storico britannico Simon Sebag Montefiore in un'intervista — fu un incrocio tra Osama Bin Laden e Tony Soprano». Ma non fu solo, ha aggiunto, uno spietato terrorista e un feroce padrino, un killer e un rivoluzionario. Fu anche un intellettuale, alla Bin Laden appunto, un cultore di Platone, i cui testi lesse in greco antico, e Napoleone, «del quale si annotò gli errori per non ripeterli». E fu un poeta di valide promesse, i cui lavori apparvero su un'antologia georgiana. Nei suoi trascorsi di delinquente minorile prima, di seminarista poi, infine di violento sindacalista e capopopolo, ha concluso Montefiore, il giovane Stalin, «uno psicopatico colto», dimostrò sempre un carisma straordinario. Non fu affatto il burocrate grigio denunciato da Trotzkij; al contrario, fu un machiavellico leader politico, il cassiere dei bolscevichi sotto lo zar, e il «macchinista» del partito dopo la rivoluzione del 1917.
L'intervista di Montefiore ha incuriosito l'America ossessionata da Bin Laden e infatuata della fittizia «famiglia» mafiosa dei Soprano. E la pubblicazione del libro dello storico, Il giovane Stalin (edito negli Usa da Alfred Knopf e frutto di dieci anni di ricerche), l'ha spinta ora a riesaminare la genesi dello stalinismo. Nell'adolescenza e gioventù di Stalin infatti, a quanto narra Montefiore, si nascondevano i semi della sua sanguinaria dittatura. Lo stalinismo, sostiene lo storico, non fu il prodotto degli eventi che ebbero Stalin protagonista ma della sua personalità, come per altri despoti del XX secolo, da Hitler a Mao.
Josif Djugashvili, alias Stalin, nacque a Gori in Georgia nel 1878 da un calzolaio alcolizzato, Vissarion Djugashvili, e una cameriera ambiziosa e di facili costumi, Ekaterina Geladze. Percosso di continuo dal padre e dalla madre, il ragazzo trovò la propria rivalsa nel pugilato, nella lotta libera e nelle guerre tra bande di adolescenti criminali. Per levarlo dalla strada, sognando che divenisse vescovo, Ekaterina l'iscrisse prima alla Scuola ortodossa di Gori, quindi al Seminario di Tbilisi, persuadendo un amico prete, forse un amante, a presentarlo come il proprio figlio. Il seminario, rileva Montefiore, era una istituzione repressiva, dominata dalle gang, con celle carcerarie, dove i ribelli georgiani venivano trasformati in ossequiosi cittadini russi. Sarebbe degenerato in una fucina di comunisti: gli studenti fingevano di leggere la Bibbia ma divoravano Marx e giuravano vendetta.
Al seminario, «Soso», diminutivo di Josif, imparò le atrocità e le congiure che ne avrebbero contraddistinto il regime. Emerse subito come uno studente modello capace di discutere di religione e scrivere poesie romantiche con una splendida voce da solista del coro. Ma il suo impegno celava un'altra attività, quella di leader della rivolta studentesca. Il giovane Stalin fu un irredentista che s'ispirò al bandito georgiano Koba, di cui assunse il nome, il protagonista di un celebre romanzo del tempo. Per questo motivo e per avere messo incinta una minorenne, la prima di molte, fu espulso dal seminario nel 1899. «Soso» trascorse gli anni successivi a guidare gli ex seminaristi, oltre 60, in una serie di rapine in nome della lotta agli zar, terrorizzando Tbilisi. Suo braccio destro fu il famigerato Simon Ter-Petrossian.
In Siberia, dove ebbe un altro figlio da una tredicenne, «Soso» compì la prima delle sue otto rocambolesche fughe dalle carceri, e ritornò a Tbilisi in tempo per la rivoluzione del 1905, soffocata nel sangue dai cosacchi. Uno dei miti sfatati da Montefiore è che fosse una spia degli zar: stando allo storico, consegnava semplicemente i propri nemici personali o rivali politici alla polizia per sgombrare il campo e consolidare il proprio potere, in cambio di importanti informazioni. A Tbilisi, dove si unì ai bolscevichi e diresse la resistenza dopo il 1905, «Soso» rivelò la sua anima di terrorista e di mafioso. Il colpo più clamoroso lo fece nel 1907 quando quasi trentenne assalì la banca di Stato, provocando un bagno di sangue e asportando l'equivalente di milioni di dollari d'oggi. Quell'anno, egli perdette la moglie Kato: «Aveva intenerito il mio cuore di pietra — disse —. Con lei, è sparita la mia residua umanità».
Montefiore sostiene che il rapporto tra Stalin e Lenin, iniziato proprio nel 1905, fu più stretto di quanto si pensasse. Il giovane Stalin non finanziò solo i bolscevichi con i suoi metodi da gangster, ma mediò anche con i menscevichi, di cui Lenin aveva bisogno perché infiltrati nelle tipografie e fabbriche di armi. I suoi doppi giochi e le sue imprese terroristiche impressionarono Lenin, che lo elogiò e condivise con lui il dogma che rivoluzionario «è chi si colloca fuori della società e della moralità ». A sua volta, «Soso» fu influenzato dal compagno. Lasciò l'irredentismo georgiano per il comunismo, e sostituì Stalin a Koba come nome di battaglia: così firmò nel 1913 Il marxismo e le questioni nazionali, la base della futura Urss. Una evoluzione che si consolidò nel suo ultimo confino in Siberia, fino al 1917. Il giovane Stalin apre uno squarcio anche sulla vita sessuale del despota, alla caccia di «carnose minorenni malleabili e contadine riverenti», e gelido verso i figli, di cui uno legittimo e numerosi illegittimi, quanti esattamente non si sa. A queste debolezze e insensibilità subentrarono più tardi «una sospettosità, rigidità e solitudine» che avrebbero finito per accentuare la sua paranoia.
il Riformista 28.1.08
Università. Hanno perso ancora i movimenti degli studenti
Quer pasticciaccio brutto dell'Università "La Sapienza"
Un acume tattico degno del miglior Napoleone
di Matteo Marchetti, 20 anni, Roma
In una fosca mattinata di inizio anno, l'Italia si è dovuta di colpo fermare a riflettere su se stessa, sull'essenza dello Stato moderno, sul ruolo che un'istituzione religiosa ha all'interno del Paese e su quello che invece dovrebbe avere. Tutto questo per colpa di una busta da lettere e del suo contenuto?
Andiamo con ordine. Prima di affrontare un discorso lungo e probabilmente contorto, infatti, è buona norma ricordare i fatti al lettore. Dunque, in data 17 gennaio orde di perfidi cosacchi capelloni - e, giura qualcuno, anche omosessuali - che abbeveravano i propri cavalli nella fontana di fronte al Rettorato (probabilmente in attesa di arrivare a San Pietro), animati da ottuso integralismo laico, hanno dato vita a gravi tumulti, impedendo al Santo Padre di dare la propria benedizione al nascituro anno accademico.
In loro aiuto sono giunti alcuni squallidi figuri, sedicenti "professori", che hanno scritto una lettera all'illuminato Rettore motivando la loro adesione alla protesta con alcune affermazioni sul processo a Galileo Galilei - ovviamente travisate ed estrapolate dal contesto - pronunciate da Benedetto XVI quando ancora era un 'semplice' porporato, il tutto prima di andare a profanare qualche chiesa sostituendo un volume dell'Enciclopedia Treccani al Messale Romano. Questo, almeno, è quello che ho capito io dalle ricostruzioni di stampa e tv.
Negli scorsi giorni abbiamo assistito a un'impressionante dimostrazione di disciplina: molto meglio di un plotone di guardie svizzere, la politica, la stampa e buona parte dell'opinione pubblica hanno fatto quadrato intorno alla Chiesa cattolica, una delle istituzioni più ingombranti del pianeta, da sempre abituata a deporre o incoronare monarchi, a impartire lezioni di moralità alle assemblee parlamentari, a suggerire scelte agli elettori ("Nella cabina elettorale Dio ti vede, ma Stalin no", si leggeva sui muri in quel fatidico 1948), a dettare - specialmente in Italia - le priorità dell'agenda politica. Anni fa la si era data prematuramente in via di estinzione: stava perdendo radicamento e consensi e con essi potere, o questo almeno suggerivano alcune sconfitte patite dal Vaticano, partendo dal XX settembre fino ad arrivare a quella dei referendum civili negli anni Settanta, passando per la crisi delle vocazioni e la liberalizzazione dei costumi.
La società italiana, si disse allora, si è secolarizzata, affrancando le proprie convinzioni civili dall'egemonia clericale. A smentire quelle analisi ci pensarono successivamente le adunate oceaniche ai piedi di Giovanni Paolo II, la batosta sulla fecondazione assistita e la cocente umiliazione patita nel derby delle manifestazioni lo scorso 12 maggio, con piazza San Giovanni gremita da centinaia di migliaia di persone e piazza Navona mezza vuota.
Tanto martellante è stata la propaganda vaticana sulla 'famiglia' e su come i comunisti l'avrebbero distrutta diffondendo libertinaggio e promiscuità che il governo di centro-sinistra ha dedicato uno dei suoi tanti ministeri proprio all'istituto familiare, mentre qualsiasi velleità di unioni civili o addirittura - orrore! - omosessuali scivolava malinconicamente nel dimenticatoio grazie al fuoco incrociato dei 'cattolici di entrambi gli schieramenti', santi tiratori infiammati a turno da Benedetto XVI, Bagnasco, Mastella e Casini. Nonostante il passare degli anni, l'Italia è insomma rimasto il Paese in cui 'Centro' non è una necessità ma uno stile di vita, dove autorità morali e politiche si rispettano poco ma poi guai a chi osa toccare il Santo Padre, dove con Dante il cristianesimo arriva a penetrare anche nelle origini della nostra stessa lingua.
Proprio in virtù di questo, molti commentatori e - stando a quanto visto in piazza San Pietro la scorsa domenica - circa duecentomila persone rivendicavano per Ratzinger il diritto sacrosanto di tenere il proprio discorso durante l'inaugurazione dell'anno accademico; questo diritto sarebbe stato violato. La vicenda è ancora avvolta in una foschia che ne rende i contorni indefiniti, facendola discendere ora dall'anticlericalismo radicale e un attimo dopo da uno dei soliti pasticci all'italiana, da un banale errore di comunicazione. Poco importa: dal proprio balcone - quello sì garantito sempre e comunque - il Papa deve aver sfoderato uno dei suoi proverbiali, dolci sorrisi, guardando di fronte a sé una folla immensa che ne piangeva le sorti e contando le decine di telecamere accorse ancora più numerose del solito.
A rendere più sublime la giornata, il fatto che lui non avesse dovuto fare altro che stare zitto. Già, perché, se andiamo a vedere, il ruolo di Sua Santità Papa Benedetto Decimosesto nella vicenda è stato nullo. "Laicità significa garantire diritto di parola a chiunque!", "Questo è integralismo!", "Nelle università serie lasciano parlare perfino Ahmadinejad!". Urla, urla, urla. La macchina della propaganda - termine non a caso coniato proprio dalla Chiesa - si è messa in moto da subito, oberando di lavoro le agenzie. Prima, per qualche giorno, si è tenuta l'Italia sulle spine, tentennando senza decidere definitivamente; poi, l'annuncio choc, il gran rifiuto; infine, gli appelli a tutti gli uomini di buona volontà affinché durante l'Angelus del 20 recassero il proprio omaggio al Pontefice imbavagliato, il tutto senza tenere conto di alcune incongruenze - nessuno ha 'impedito' il discorso, né tanto meno un testo letto da un podio/pulpito può essere paragonato ad un dibattito scientifico; ridicolo, poi, considerare oggi Joseph Ratzinger un professore - ma tant'è.
Se si considera poi che il discorso (riveduto e corretto?) è stato comunque letto, la faccenda si è conclusa con un successo senza precedenti dai tempi dell'Editto di Tessalonica; ancora una volta, qualora ce ne fosse stato bisogno, si è dimostrato che ad oggi l'unico attore sociale in grado di esercitare un controllo sulle masse è la Santa Romana Chiesa. Una vittoria totale e senza possibilità di rivincita: quello che giorni fa la Repubblica ha definito il 'cortocircuito della Sapienza' si è rivelato un trionfo assoluto delle gerarchie ecclesiastiche.
Stavolta, però, il carro del trionfo è biposto: l'altro passeggero è un personaggio riservato, rimasto in disparte quanto gli è stato possibile, ma è comunque da inserire tra coloro che hanno tratto enorme vantaggio dalla vicenda. Sto parlando, ovviamente, del Rettore Guarini, che in molti hanno accusato di superficialità; a mio modesto avviso, invece, il nostro Magnifico ha dimostrato un acume tattico degno del miglior Napoleone: mal sopportato da buona parte dell'Ateneo, inquisito e, per giunta, in scadenza di mandato, intravedeva nell'inaugurazione un assist formidabile per avversari e contestatori, con gli studenti di ambo gli schieramenti pronti a chiedere il conto ad una guida mai amata. Con uno stratagemma da disinformatija brezneviana, Guarini è riuscito a sfruttare tutte le parti in causa per uscire, ancora una volta, dalla porta di servizio. Applausi.
Per ogni vincitore, però, c'è uno sconfitto. Hanno perso i movimenti degli studenti, da troppi anni abbandonati all'autorganizzazione e incapaci di intravedere nei manifesti contro Ratzinger un regalo colossale a chi li vede come contestatori professionisti, come dei piccoli ducetti mascherati da trasgressivi ignari delle regole della convivenza democratica, o magari come dei depravati. Gli studenti della Sapienza sono stati tra i primi a sapere della visita, alcune voci circolavano già dalla fine di dicembre; in così tanto tempo non si è stati in grado di individuare una strategia efficace, né di sottoporla agli altri studenti. I papisti e i cardinali non ringrazieranno mai abbastanza per una 'frocessione' che per loro - indipendentemente dal suo significato reale - è solo una pittoresca manifestazione di ignoranza.
Soprattutto, però, sono state sconfitte quelle idee che all'inizio ho citato di sfuggita: laicità, libertà di ricerca, università, istruzione pubblica, Stato. Lo Stato - rappresentato dal ministro Mussi e dal sindaco-tuttofare Veltroni - ha ciecamente solidarizzato, non si sa su cosa. Io, invece, chiudo, per non mescolare certe cose con questo squallido teatrino.
il Riformista 28.1.08
Forum. Scontro tra religione e stato laico? La parola agli studenti
Se la questione non sta né in cielo né in terra
La Fisica non è una clava
Francesco Testi, 20 anni - Roma
Non è successo nulla, perchè in fondo è successo tutto. Insomma, sì, l'evento-clou non c'è stato: il Papa non è venuto alla Sapienza giovedì 17. Eppure è successo di tutto, quel giorno hanno vinto certi studenti e ha trionfato la dittatura: ché proibire a qualcuno di parlare senza nemmeno sapere cosa dirà, brandendo la Fisica come fosse una clava, è dittatura.
Poco importa se chi s'è opposto pubblicamente è una minoranza: 67 prof su 4500 sono un'inezia, 15 ragazzi su decine di migliaia sono una bazzecola (dico 15 perché tanti erano quelli che hanno occupato il Senato Accademico del Rettorato martedì 15, stavo là alle 12.07 e li ho visti: di certo non il centinaio di cui ha ciarlato poi Lucia Annunziata con eccitazione).
La brutta figura l'abbiamo fatta tutti alla Sapienza. E non c'era bisogno di scomodare Galileo, tanto una scusa per non far venire Benedetto XVI si sarebbe trovata comunque; non c'era bisogno di contestare l'opportunità dell'invito all'inaugurazione dell'anno accademico, perché qualsiasi data sarebbe stata sbagliata; non c'era bisogno di parlare di "passaggio politico del Papa", come ha detto il furioso prof. Bernardini di Fisica. Se solo l'avessero fatto parlare, Ratzinger avrebbe detto che "La Sapienza è un'università laica con quell'autonomia legata all'autorità della verità", libera "da autorità politiche ed ecclesiastiche". Molto liberale questo Papa oscurantista, nevvero?
Non c'entra neppure la laicità, che parte dal reciproco rispetto: quale rispetto altrui può esserci se già noi stessi violiamo le nostre leggi? Blaterando di laicità infatti gli studenti (e chi li sostiene) ignorano l'articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare pubblicamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Tutti, perfino i cattolici dunque.
E meno male che gli studenti di Comunione e Liberazione capeggiati da Matteo Fanelli hanno pubblicamente manifestato dissenso in aula magna, il giorno dell'inaugurazione: almeno loro ci ricordano che il vero compito dell'Università è promuovere il dialogo, il confronto, lo scambio di idee ed il relativo diritto a manifestarle. Pazienza per gli studenti sprovveduti rimasti fuori dalla città universitaria quella mattina: potevano avere addosso il tesserino di riconoscimento, come consigliava caldamente il Rettore Guarini già quando ce lo inviò un anno e mezzo fa.
In 703 di storia della Sapienza certamente tutto ciò non è la prima stupidaggine che avviene, e di certo non sarà l'ultima. Epperò ce ne vorrà di tempo, per scordarla.
Chi ha chiuso la bocca al papa?
Lorenzo Brunetti, 17 anni, Roma
Le reazioni della classe politica italiana di fronte alla questione del papa alla Sapienza sono state quelle di sempre: indignazione, grida di vergogna ed espressioni di solidarietà. Nulla di più inutile! Sarebbe invece proficuo aprire una discussione sul ruolo della Chiesa nei dibattiti dello Stato. Se da una parte è vero che confrontarsi con chi propone verità dogmatiche può essere difficile, è anche vero che non possiamo ignorare il problema del rapporto con la nostra identità culturale. Purtroppo, però, le posizioni da controriforma di questo papa sembrano inutilmente provocatorie ed il fatto che il pontefice abbia rinunciato al suo intervento all'università la dice lunga sulla scarsa propensione della Chiesa al confronto dialettico: nessuno ha chiuso la bocca al papa!
Chi sono gli oscurantisti?
Francesca Giuliani, 19 anni, Roma
Una battaglia in nome della libertà di pensiero che si conclude con la repressione del pensiero altrui è una battaglia persa, c'è poco da fare. Inutile appigliarsi alla scusa che sia stato "l'avversario" ad abbandonare il campo, inutile dire che avrebbe potuto non sottrarsi al confronto. Che poi, per rivivere i fasti sessantottini, si poteva almeno aspettare il primo marzo, per rimettere in scena a 40 anni esatti dalla battaglia di Valle Giulia il vecchio copione degli studenti che protestano contro il potere costituito. C'è però che almeno 40 anni fa il motivo era condivisibile, aveva una pregnanza di contenuto, non era una rivendicazione fine a se stessa.
Perché sì, amici miei, questa lo è stata. Gli studenti, da che mondo è mondo, sono una categoria incline alla contestazione. E meno male. Il punto è che i ragazzi de La Sapienza, probabilmente, hanno problemi più seri per i quali far sentire la propria voce (certamente problemi meno ideologicamente patinati): sovraffollamento, infrastrutture scadenti, l'assenteismo dei professori, lo sbriciolamento delle discipline in moduli e seminari, la moltiplicazione selvaggia degli ordinamenti.
Senza entrare nel merito della querelle circa la posizione di Ratzinger sull'abiura galileiana (peraltro, argomento lievemente datato al quale appigliarsi, anzi direi capricciosamente anacronistico), la protesta dei 67 accademici crolla sulle sue fondamenta perché autocontraddittoria: che La Sapienza, dopo i fatti del 16 gennaio, sia ancora un "Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia" è falso. Sì, anche dal punto di vista formale, perché Joseph Ratzinger che oggi è solo la più alta autorità morale per i cattolici - come se questo non fosse sufficiente a giustificare la sua presenza all'evento - è stato docente universitario ed è un fine intellettuale.
Penso, in definitiva, che sia stato scelto il nemico sbagliato da combattere. Sia perché si è soppressa la libertà di quegli studenti che avrebbero avuto piacere di assistere all'incontro, sia perché, estremizzando, se una personalità discussa come il presidente iraniano Ahmadinejad ha avuto la possibilità di parlare della sua controversa azione politica alla (veramente liberale) Columbia University, trovo assurdo che si sia impedito al papa di tenere il suo discorso.
La vera apertura e la vera laicità si hanno in un contesto in cui ognuno possa portare la propria visione del mondo, fermo restando il diritto di ciascun interlocutore di replicare pacificamente e di mantenere le proprie opinioni così com'erano prima di dibattere. Questo si chiama dialogo. Libero pensiero significa dar voce al pensiero di tutti, rispettando tutti. Oscurantismo significa impedire a qualcuno di esprimersi, calpestandone il diritto di parola, nella presunzione di detenere la Verità Assoluta. Perciò, guardando ai fatti, ribadisco con rammarico: una battaglia in nome della libertà di pensiero che si conclude con la repressione del pensiero altrui è una battaglia persa.
Poveri cattolici
Luca Sappino, 20 anni, Roma
L'altro giorno ho sentito Carlo Rossella dire "Noi siamo una minoranza, una minoranza perseguitata, isolata, menata, insultata, che ha visto impedito al Papa, proprio capo, proprio leader, proprio ispiratore, di parlare all'Università di Roma, che si chiama ancora La Sapienza ma che qualche magistrato di buona volontà dovrebbe costringere a cambiare nome: propongo L'ignoranza". Ho visto poi studenti ciellini protestare in aula magna con un bavaglio sul viso. Ho visto Ferrara sgolarsi nel tessere le lodi dell'esimio Professor Ratzinger; il laico Franceschini col naso all'insù a piazza San Pietro, al Papa Day, esprimere solidarietà al pontefice oppresso. Ho visto Camillo Ruini dare lezioni di laicità al popolo italiano, dire che l'Italia si è dimostrata intollerante.
"Poveri cattolici" viene da pensare, "poveri cattolici italiani" è il messaggio che la stampa e il mondo politico stanno facendo passare, Ratzinger dipinto come vittima dell'oscurantismo laicista. L'Italia paese di comunisti mangia preti e bambini, paese dove i cattolici, non solo non vengono ascoltati, ma addirittura vengono indotti al silenzio con metodi bruti, barbariche manifestazioni di dissenso.
Non ci posso credere, sono sbalordito, ma siamo tutti impazziti? I cattolici sono maltrattati in questo Paese? I laici italiani sono oscurantisti? Deve essere per quello che in Italia non si può fare ricerca sugli embrioni, considerati vita. Deve essere questo il motivo per cui nelle aule di tribunale e nelle classi delle scuole i crocifissi sono affiancati dal ritratto del Presidente. Deve essere questo il motivo per il in tv si parla più di vicende vaticane che - ne dico una - di Iraq, più di dio e prelati che di guerra e bombe.
Forse sono io, cittadino laico, a sbagliarmi. Forse sono io a credere erroneamente che la situazione italiana sia proprio opposta a quella dipinta, che il Papa alla Sapienza per l'inaugurazione dell'anno accademico - non per un normale incontro, una normale lezione su cui nessuno avrebbe avuto obiezioni da fare - sia l'ennesimo e definitivo sintomo del ferale malanno che affligge il nostro bel Paese. Il Rettore, che indubbiamente ricercava pubblicità, ha sbagliato a invitare il Papa per questa specifica occasione e gli anticlericali, seppur probabilmente con formule improprie e scarsa conoscenza della tattica politica, hanno fatto bene a farlo notare. Ratzinger, che oltre a radunare le pecorelle smarrite fa politica, ha ovviamente colto l'occasione al volo e chiamato alle armi le sue ferventi milizie cattoliche. Il risultato? Personalmente sono annoiato: è sempre la stessa storia, "Poveri cattolici".
Bella mossa!
Giulio Serra, 22 anni, Venezia
Renato Guarini - Rettore dell'Università La Sapienza di Roma - non si dà per vinto e promette: "Inoltrerò un nuovo invito al Santo Padre, per un'altra occasione". Ormai l'inaugurazione dell'anno accademico è alle spalle, la bufera è quasi del tutto scemata e presto anche i cronisti più riottosi molleranno la presa lasciando in pace il Papa, i 67 firmatari della lettera anti-Ratzinger e i giovani studenti cattolici e non.
Ma la "miseria" che questo caso ha lasciato in bocca a tutti, specie ai giovani, non è facile da digerire. Si sono viste scene da medioevo, con i clericali pronti a sfondare le porte della scienza pur di non rinunciare alla semina della Parola del Signore e con professori universitari barricati dietro ideologie scientifiche retrograde e per nulla illuminanti. In mezzo a questo marasma clerico-scientifico c'erano gli studenti: le vere vittime della vicenda. Giovani ventenni o poco più che non chiedevano altro se non un'inaugurazione dell'anno accademico normale, composta, senza troppi clamori né polemiche inutili. Hanno pagato per tutti: i Papa-boys all'interno dell'aula magna con i fazzoletti bianchi in bocca in segno di protesta per la mancanza d'espressione rivendicata dalla Chiesa e gli altri fuori dalla porta obbligati a restarsene lontano dalla loro Università e tenuti fermi da cordoni di poliziotti con attrezzature antisommossa.
Sicuramente, sebbene non fino in fondo, il piano architettato dal Magnifico è riuscito, con una pubblicità all'Università capitolina che ha fatto il giro del mondo. Ora rimane una semplice domanda da porre al Vaticano, ai docenti ribelli e in particolar modo al Rettore: in tutto il trascorrere della vicenda vi siete mai chiesti, anche per un solo istante, in che modo i giovani, i veri protagonisti dell'Università, possono essere ottimisti verso un futuro che si prospetta più retrivo di quello dei tempi di Galileo e della censura preventiva?
Un'occasione mancata
Maria Elena Bislacchi, 21 anni, Genova
Trovo molto presbite la reazione che i miei colleghi della Sapienza hanno avuto di fronte alla possibilità di assistere alla lectio magistralis di Benedetto XVI. Joseph Ratzinger avrebbe presenziato all'inaugurazione dell'anno accademico interrogandosi per primo sul ruolo da rivestire in tale occasione: Vescovo di Roma o professore di teologia? Il discorso mancato è incentrato sull'idea che - parole sue - "nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse". Proprio questo è stato contestato.
Sembra incredibile, ma foriero del dialogo e del confronto è in questo caso chi solitamente rappresenta l'emblema del conservatorismo e del dogmatismo. Da queste parole disgraziatamente non pronunciate potevano emergere proficue indagini sui concetti stessi di ragione, fede, tradizione, umiltà. Non a caso il Papa teologo cita Socrate, Jurgen Habermas, John Rawls. Il suo punto di vista è quello sì di un pastore che vuole "salvare le pecore smarrite", ma di un pastore che non intende riportarle alla retta via imponendo loro un rigido cammino programmato in precedenza, arginato da dogmi irremovibili.
Questo pastore cerca di indurre le sue pecore alla ricerca di una verità che esse devono trovare da sé, con mezzi propri. In quanto Papa, egli non può che augurarsi che la gente si fidi dell'aiuto della Chiesa, e si lasci guidare nella ricerca della verità da chi è convinto di averla trovata in Cristo. Ma in quanto teologo, egli ha a cuore innanzitutto il risveglio delle coscienze, il continuo monito a ricercare la verità, e a ricercarla seriamente, facendo di essa lo scopo della propria esistenza. L'Università è il luogo più specificatamente deputato alla conoscenza e Joseph Ratzinger avrebbe ritenuto opportuno pronunciarsi, all'interno di essa, in favore della ricerca della verità, della libera ricerca della verità.
Da ogni dialogo si può imparare. Per questo ritengo assurdo avere contestato l'invito porto al pontefice: chi pensava di non aver nulla da imparare dall'incontro poteva semplicemente astenersi dal presenziare senza negare però a chi fosse interessato ad ascoltare le parole di Joseph Ratzinger, la possibilità di assistere ad una lectio magistralis che avrebbe potuto stimolare importanti considerazioni.
Guelfi e ghibellini?
Roberto Bertoni, 17 anni, Monterotondo (Rm)
Che il papa teologo non stia molto simpatico al mondo della scienza, considerando le sue battaglie contro l'aborto e la procreazione assistita (tanto per fare due esempi), non sorprende. Che forse il rettore dell'università La Sapienza avrebbe fatto meglio a non invitarlo è altrettanto accettabile. Quello che non sta né in cielo né in terra sono le contestazioni che sono seguite all'invito da parte di un gruppo di docenti e di alcuni collettivi studenteschi, non tanto per l'opposizione alla visita in sé (sacrosanta in una nazione democratica) quanto per i toni che hanno utilizzato e i contorni che ha assunto la vicenda. Gli striscioni esposti sui muri di certe facoltà, ad esempio, sono sembrati alla maggior parte dell'opinione pubblica inopportuni e ingiustificati per il fatto che non si focalizzavano contro l'ingresso di un uomo di chiesa in un ambiente scientifico, quanto contro la figura di Bendetto XVI, accusato di voler invadere un caposaldo della laicità e mettere ulteriormente a repentaglio la libertà della scienza e della ricerca in Italia.
Non c'è dubbio che le posizioni assunte dal Vaticano sui temi etici, negli ultimi anni, siano retrograde e poco dialoganti ma la colpa non è del papa o dei vescovi, che esprimono le proprie opinioni e si attengono scrupolosamente ai dettami della fede, bensì di una classe politica nella quale molti si scoprono fervidi credenti in campagna elettorale o quando hanno bisogno di accattivarsi le simpatie della Cei e degli ambienti ecclesiastici per guadagnare popolarità e prevalere sugli avversari. Inoltre, il trattamento riservato al Pontefice, oltre che eccessivo, è controproducente perché gli garantisce una visibilità e una solidarietà che non ha mai avuto da quando si è seduto sul soglio di Pietro, divenendo il baluardo di chi, strumentalmente, vuole far credere all'opinione pubblica che Stalin e l'Armata Rossa sono alle porte e l'unico modo per liberarsi del pericolo è dare il benservito a Prodi e alla sua maggioranza "sovietica" e affidare nuovamente lo Stato ai pii divorziati Berlusconi, Fini, Casini e Bossi.
I promotori della protesta, al contrario, sono passati per incivili, antidemocratici, nemici della libertà d'opinione, estremisti e via criticando fino all'inevitabile accusa di sostenitori o, peggio ancora, esponenti della vituperata "sinistra radicale". Lo sconfitto in questa vicenda non è il Paese ma il buon senso. Il che, con buona pace di "guelfi" e "ghibellini", è assai più grave.