mercoledì 30 gennaio 2008

l’Unità 30.1.08
Cosa rossa. La crisi vista da sinistra
di Nicola Tranfaglia


La settimana abbondante di consultazioni del Quirinale ormai vicina alla fine ha generato, dopo la caduta del governo Prodi, un curioso stato d’animo a sinistra. Tra editoriali e interviste (penso in particolare a quella, brillante ma disperata, di Vauro sul Giornale di ieri) si palesa un atteggiamento che francamente non capisco. Da una parte si dimentica che, in questi diciotto mesi, il governo Prodi non è stato con le mani in mano. Ha compiuto nel suo intenso lavoro alcuni errori che io stesso e questo giornale hanno sempre sottolineato.
Penso al numero dei ministri e sottosegretari, all’indulto con un grande accordo trasversale, tutti insieme, e a molti altri minori... ma, in compenso, ha risanato i conti dello Stato e ha varato alcune buone leggi e una legge finanziaria 2008 che garantirà un inizio di redistribuzione sociale a vantaggio dei lavoratori e dei ceti economicamente più disagiati.
D’accordo, un’esperienza non esaltante, e per molti aspetti inferiore alle attese come alle speranze degli italiani, con alcune assenze imperdonabili come la legge sul conflitto degli interessi e quelle sulla riforma della Rai e del riassetto radiotelevisivo.
In politica estera, molte buone cose ma, almeno sulla missione in Afghanistan, l’incapacità di convincere gli alleati sulla necessità di modificare il registro e le caratteristiche della missione. Ma in definitiva è stata la politica americana di Bush che ha impedito a Prodi risultati migliori.
Insomma, possiamo dire che Prodi non è riuscito a realizzare il programma dell’Unione sia per la maggioranza minima al Senato sia per i poteri dei veti di alcuni alleati, a cominciare da Mastella.
Ora dovrebbe esser chiaro a tutti che sono stati i centristi, e non la sinistra cosiddetta radicale, a indebolire il governo e, alla fine, a distruggerlo soprattutto per l’imminente referendum e la nuova legge elettorale vicina alla “bozza Bianco” e non tanto per le disavventure giudiziarie del leader di Ceppaloni, del senatore Dini e dei suoi pochi seguaci.
Semmai si deve ricordare che la strategia adottata da Veltroni per il Partito Democratico ha (forse al di là delle intenzioni) a sua volta indebolito il governo in quanto ha avvertito tutta la sinistra che il maggior partito della coalizione di centro-sinistra correrà d’ora in poi “da solo”, senza i suoi alleati tradizionali dell’ultimo quindicennio.
Del resto, quasi nessuno ha ricordato (guarda caso) in questi giorni che i leader centristi come Mastella e Dini hanno fatto negli ultimi quattordici anni un cammino costante tra centro-destra e centro-sinistra e non c’è da stupirsi se l’andare e venire prosegue di fronte ai grandi cambiamenti in vista e all’origine eminentemente personale di simili forze politiche.
Se questa è una diagnosi attendibile sulla crisi politica in atto, non ha molto senso - mi pare - cadere in uno stato di disperazione che equivale all’antico e tradizionale “tanto peggio tanto meglio”, che prevede come sicuro il ritorno al potere di Berlusconi (sicuramente probabile ma non ancora avvenuto) e tira quasi un respiro di sollievo di fronte all’eventuale rientro nei ranghi dell’opposizione dopo le deludenti esperienze di governo.
Un simile atteggiamento ha due gravi inconvenienti che vale la pena segnalare.
Il primo è che non facilita una visione equilibrata del passato recente come del presente. Anche se il giudizio sul governo Prodi non è soddisfacente, a me sembra sbagliato equiparare l’ultima nostra esperienza del 2006-2008 a quella del lungo governo Berlusconi del quinquennio precedente.
Abbiamo già dimenticato le leggi-vergogna del Cavaliere, la grande evasione fiscale permessa dal governo Berlusconi e finita con il centro-sinistra, l’esaltazione della illegalità mafiosa e così via?
Se questo è vero, come si può considerare il probabile ritorno di Berlusconi come qualcosa che ci lascia più o meno indifferenti? E come si può ritenere inutile tentare una battaglia contro il centro-destra e per la ricostruzione di una nuova alleanza di centro-sinistra? Del resto il “programma realistico” che Berlusconi ha rivelato al Giornale che metterà il bavaglio definitivo ai giudici e farà leggi reazionarie sulla criminalità e contro gli immigrati. Si può restare indifferenti di fronte a simili prospettive?
L’altro inconveniente è che quell’atteggiamento può condurre a una sconfitta particolarmente rovinosa e consentire a un Berlusconi vittorioso nelle urne tentazioni antidemocratiche diffuse nel suo partito come in quelli con cui si è sempre alleato.
Di fronte a una simile prospettiva occorre, a mio avviso, evitare un’altra tentazione che mi sembra diffusa in queste settimane.
È ormai chiaro che il Partito democratico si sta collocando in una posizione di centro nello schieramento complessivo ed aspira a dialogo con forze che sono ora nel centro-destra come l’Udc di Casini piuttosto che con quelle di sinistra. Preso atto di questa situazione, i partiti della sinistra, oggi assai frammentati, dovrebbero, a mio avviso, non dimenticare che soltanto se affretteranno i tempi della Confederazione e si presenteranno uniti alle elezioni con un nuovo programma potranno attrarre nuovi elettori. E che, peraltro, il Partito democratico resta per la sinistra l’unico possibile alleato. O c’è qualcuno a sinistra che pensa a una possibile vittoria della sinistra senza alleanze con il centro? O si rassegna a restare in eterno all’opposizione? E quale sarebbe il vantaggio di questa posizione per i milioni di elettori che possono e vogliono seguirci?
Finora nessuno, mi pare, ha risposto a questi interrogativi.

l’Unità 30.1.08
Carlo Leoni. Il vicepresidente della Camera (Sd): noi, Rifondazione e Verdi correremo con lo stesso simbolo, spero si unisca anche il Pdci
«Lanciamo una sfida al Pd, si allei con la Sinistra arcobaleno»
di Andrea Carugati


Nei giorni più neri della crisi di governo, Carlo Leoni, vicepresidente della Camera ed esponente di Sinistra democratica, su un punto è ottimista: «Noi, Rifondazione e i Verdi siamo andati al Quirinale a dire le stesse identiche cose: un governo di scopo per fare la legge elettorale e la redistribuzione sociale. Nel caso di elezioni, siamo tutti e tre d’accordo di correre uniti sotto il simbolo della Sinistra arcobaleno. Come abbiamo visto con il Pd, quando ci si presenta alle elezioni con lo stesso simbolo, e su quello si viene votati da alcuni milioni di persone, poi il processo unitario è irreversibile».
Già, ma il Pdci non ci pensa proprio...
«Al loro interno c’è una opposizione molto identitaria, quelli dei manifesti con la falce e martello e la scritta “Cosa Rossa? No grazie”. Io mi auguro che prevalga chi vuole l’unità a sinistra. E che anche i socialisti decidano di unirsi a noi».
E l’alleanza col Pd?
«Al Pd lanciamo una sfida di governo, non ci candidiamo all’opposizione e reagiamo all’ipotesi di correre ognun per sé, che vorrebbe dire regalare la vittoria a Berlusconi. Sono d’accordo con Veltroni che le alleanze si fanno su un programma davvero condiviso e che la formula dell’Unione è alle nostre spalle. Per questo vogliamo lavorare a un nuovo centrosinistra a due gambe, con il Pd e una sinistra unita».
Eppure anche il Prc sembra volersi sganciare dal Pd...
«Non mi risulta. Ho visto che Giordano non esclude l’ipotesi di un’alleanza. Non credo a una formula in cui la sinistra si presenta alle elezioni per perdere, e l’unica alternativa alla destra è il Pd».
Eppure Veltroni sembra puntare proprio a questo...
«Se la sinistra è unita, l’ipotesi di fare una coalizione -caravanserraglio non esiste più, perché le forze alleate sono solo due. Per questo sono d’accordo nel rivedere i regolamenti parlamentari: chi si presenta unito agli elettori poi non si può dividere in Parlamento. In questo caso, il rifiuto a priori del Pd a lavorare a un’alleanza sarebbe solamente ideologico, e sono certo che lo pagherebbe».
Gli elettori del Prc sembrano molto delusi da questa esperienza di governo...
«Conosco gli elettori della sinistra: non vogliono che governi la destra, vogliono un centrosinistra che si occupi della gente che soffre. E poi c’è una questione di identità della sinistra: non siamo e non vogliamo essere una forza minoritaria, di testimonianza».
Lei ritiene che l’alleanza tra le due sinistre, moderata e radicale, abbia funzionato male?
«Non lo credo. Il governo è stato bombardato dal centro, non dalla sinistra. Il governo ha risentito di queste pressioni dal centro, ma con l’ultima finanziaria c’è stato un giro di boa a favore di lavoratori e pensionati».
Eppure anche la sinistra ha posto problemi: Tav, Afghanistan, Vicenza, ministri e sottosegretari a manifestare contro...
«Ma i nostri voti non sono mai mancati, abbiamo solo espresso delle opinioni».
Veltroni non vuole più questo frammentazione...
«E noi non vogliamo più scrivere sul programma delle cose, sulla legge 30 o sulle unioni civili, e poi vedere che non si fanno. Per questo Walter ha ragione: sul programma bisogna essere molto chiari e coerenti».
Eppure il Pd sembra sempre più orientato a correre da solo...
«Non credo che vogliano consegnare l’Italia a Berlusconi, e neppure che questa ipotesi di una lunga traversata del deserto affascini i loro militanti. Il Pd è nato come forza di governo, non di opposizione. E poi ci sono le elezioni amministrative di primavera, a Roma, in Friuli: se si dice che il caravanserraglio è impresentabile a livello nazionale, con quale coerenza lo presentiamo a livello locale?».
Se ci sarà un governo Marini lo sosterrete?
«Se gli obiettivi saranno la legge elettorale e la redistribuzione sì».
Ma quale legge elettorale?
«A noi la seconda bozza Bianco va bene, ma siamo disponibili a discutere ancora, anche con l’Udc».

l’Unità 30.1.08
Il trionfo degli assassini
di Antonio Gramsci jr


Non sono molto incline ad abbandonarmi ai ricordi. Preferisco piuttosto fantasticare le realtà parallele e sognare il futuro lontano. Tuttavia in questi giorni non posso liberarmi di un ricordo dell'infanzia che ritorna con ostinazione ad occupare la mia immaginazione. Nell'epoca sovietica la nostra famiglia passava tutte le estati in villeggiatura a Kratovo, a quaranta chilometri da Mosca, che apparteneva al dipartimento economico del Pcus. Era un insieme di dacie che costeggiavano il fiume in mezzo al bellissimo bosco di pini. Tutte le dacie erano diverse. In quelle ben collocate e più attrezzate abitavano i funzionari più importanti, in quelle periferiche e con alcuni servizi mancanti - il personale tecnico. Ma tra tutte le dacie spiccava una alla quale tutti i villeggianti guardavano con invidia e bramosia. Negli anni settanta ci abitava un signore anziano che fino ai suoi sessant'anni conservò bell'aspetto e portamento altero. Era un mito - quarant'anni prima con il colpo preciso della piccozza aveva spaccato il cranio del teorico della rivoluzione permanente, nemico mortale di Stalin, Lev Trotckij. Il suo nome esotico, Ramon Mercador, veniva pronunciato sottovoce e con ammirazione, soprattutto dalle donne, ovunque: in mensa, sulla spiaggia, nel cinema. Poco prima di ritornare a Cuba Mercador fu decorato della stella dell'Eroe dell'Unione Sovietica, l'onorificenza più prestigiosa dello Stato.
Perché mi vengono in mente questi strani ricordi? Naturalmente non in occasione del trentesimo anniversario della morte di Mercador, avvenuta appunto nel 1978. Mi sembra che la Russia attuale nel suo strano desiderio di contrapporsi ai cosiddetti valori europei ha ripreso il gusto di glorificare i nuovi eroi che si distinguono nel calpestare quelli stessi valori. Il primo caso è la nomina di Vitalij Kalojev, recentemente liberato da una prigione svizzera, a viceministro di edilizia e architettura nella Repubblica dell'Ossezia del Nord. Questo signore perse nel 2002 figlia e moglie nello scontro frontale fra un aereo russo e un cargo, avvenuto in Germania a causa della disattenzione del controllore del volo. In seguito questo controllore negligente fu ammazzato a coltellate nella sua casa in Svizzera, davanti agli occhi esterrefatti della moglie, dallo stesso Kalojev. Con questo gesto disperato diventò subito eroe nazionale non già perché ha vendicato la famiglia ma perché si è fatto quella giustizia che, trattandosi di problemi russi, il tribunale svizzero e insomma europeo, non avrebbe certamente fatto. Un altro caso apparentemente non collegato con quello precedente ma che rispecchia la tendenza generale è il caso dell'ex-ufficiale dei servizi segreti russi, Andrej Lugovoj. Questo personaggio tetro emerse recentemente in relazione alla morte misteriosa di un suo collega, un altro ex-ufficiale del FSB, Alexandr Litvinenko, avvenuta a Londra alla fine del 2006. La polizia inglese ha avuto serie ragioni per sospettare proprio Lugovoj dell'avvelenamento di Litvinenko e chiese alla Russia la sua estradizione. Per tutta risposta il Partito liberal-democratico, la finta opposizione (che non c'entra né con il liberalismo, né con la democrazia ma piuttosto rispecchia le tendenze nazionaliste del Paese) durante l'ultima campagna elettorale ha incluso Lugovoj come numero due nella lista elettorale, subito dopo il leader del partito, il buffone della politica russa Vladimir Zirinovskij. Non nutro la minima simpatia per Litvinenko, traditore ignobile della Patria e dei suoi compagni, ma non riesco a capire perché l’essere stato suo assassino, anche solo come sospetto, ha permesso a Lugovoj di fare una carriera politica così brillante. Più precisamente capisco ma non realizzo.
Intanto aspetto l'avvento di un altro Ercole che combatterà qualche idra «dell'Occidente marcio» per la gloria della Grande Russia.

l’Unità 30.1.08
Spielberg e la Shoah: tante storie che vanno raccontate
di Steven Spielberg


IL REGISTA a Firenze interviene al convegno Sterminio e Stermini e ribadisce l’importanza di continuare a narrare e ascoltare le vicende di ogni sopravvissuto: «Possiamo così condividere le loro vite e il loro messaggio di pace»

Pubblichiamo in questa pagina il saluto del regista Steven Spielberg ai 7500 studenti toscani riuniti ieri al Mandela forum di Firenze per la Giornata della Memoria. In basso alcuni stralci del dialogo tra lo scrittore David Grossman e gli studenti toscani.

La storia ci ha insegnato molte dure lezioni e spesso quelle più dolorose sono le più facili da dimenticare, ma anche le più importanti da ricordare. È per questo motivo che non dobbiamo mai dimenticarci dell’Olocausto e delle sue vittime.
Ognuno di noi vuol essere riconosciuto individualmente, a volte, però, siamo pronti a generalizzare nei confronti degli altri in base alla loro apparenza, alla loro religione o al loro background culturale. Generalizzare in questa maniera è di per sé innocuo, ma scegliendo di ignorare le caratteristiche uniche ed individuali di una persona facciamo un passo verso il negare la sua umanità. Questo è quello che è successo a milioni di persone durante l’Olocausto. Quello che era iniziato come uno stereotipo divenne genocidio. E se ogni stereotipo non si trasforma in genocidio, alla base di tutti i genocidi ci sono gli stereotipi.
Non possiamo disfare i fallimenti del passato ma possiamo evitare di ripeterli imparando a capire che le vittime dell’Olocausto erano persone come noi che vivevano la vita con le sue gioie e i suoi dolori. Un piccolo ma prezioso numero di loro è sopravvissuto al tentativo di sterminio e ha vissuto abbastanza a lungo da poter raccontare la loro storie alle macchine da presa ed ai microfoni della Shoah Fondation.
Nel 1994 ho creato appunto la Shoah Fondation con lo scopo di dare ai sopravvissuti dell’Olocausto e ad altri testimoni la possibilità di condividere con il mondo intero le storie delle loro vite. Abbiamo visitato 56 Paesi ed intervistato decine di migliaia di persone di cui più di 400 qui in Italia. Ogni testimonianza è preziosa perché racconta una storia unica. Al tempo stesso, però, le testimonianze nel loro insieme trasmettono un messaggio di grande forza: per quanto orribile e tragico sia stato l’Olocausto il messaggio dei sopravvissuti è anche un messaggio di pace. Un messaggio che afferma la dignità dell’individuo, il valore del coraggio tra la compiacenza ed il potere della vita sulla morte.
Conservare le memorie dei sopravvissuti dell’Olocausto e degli altri testimoni è stato un mio sogno. Condividere il loro messaggio è stata la mia passione degli ultimi dieci anni, ed è motivo di grande gioia per me sapere che le testimonianze di 50 sopravvissuti italiani sono state affidate alla Toscana Film Commission, unendosi così ad altre collezioni di testimonianze custodite presso l’Archivio Centrale dello Stato ed in altre parti d’Italia.
Chiunque ne abbia il desiderio può guardare queste testimonianze. E sono grato alla Toscana Film Commission di aver onorato le vite dei sopravvissuti mettendo le loro storie a disposizione del pubblico. Questa Giornata internazionale della Memoria rappresenta una nuova opportunità per tutti noi, per la nostra civiltà. Indica che forse vogliamo finalmente confrontarci con il passato e dimostra che siamo determinati a superare l’intolleranza.

l’Unità 30.1.08
Lo scrittore israeliano parla ad una platea di 7.500 giovani toscani
Grossman: La speranza va creata, l’importante è saper fare la scelta giusta tra il bene e il male


«Vorrei dire come sono stato influenzato dalla Shoah come persona. Quando ero un bambino mio padre mi ha raccontato per la prima volta dell’orrore della Shoah. E mi ricordo che pensavo “non voglio più vivere in un mondo dove una cosa così terribile può succedere, non voglio vivere in un mondo dove le persone possono comportarsi in questo modo con altre persone”. Un po’ più di venti anni dopo, quando il mio figlio maggiore aveva tre anni e cominciava a parlare di queste cose all’asilo, un giorno tornò a casa e mi chiese “papà cosa è successo? È vera questa cosa? Cosa hanno fatto i nazisti? La Shoah che cosa è?”. Io non glielo volevo dire perché avevo paura di contaminare la sua innocenza, la sua purezza. Pensavo che quando lui avesse saputo che queste cose possono succedere qualcosa sarebbe cambiato in lui, non sarebbe più stato la stessa persona. Quando ho cominciato a scrivere pensavo che la cosa più importante fosse scrivere un racconto ambientato nel periodo della Shoah, ma volevo scriverlo dal punto di vista di un bambino. Non è un caso se gli scrittori e i registi che si trovano qui hanno voluto raccontare la Shoah dal punto di vista di un bambino, perché di fronte alle atrocità della Shoah siamo tutti un po’ bambini». È David Grossman che parla di fronte ai settemilacinquecento studenti toscani, che ieri hanno gremito il Mandela Forum di Firenze. Lo scrittore risponde alle domande del pubblico.
«In Toscana ricordiamo il giorno della memoria tutto l’anno - dice un ragazzo - e ogni due anni portiamo un treno carico di ragazzi ad Auschwitz e Birchenau. Lo facciamo ormai da sette anni. Naturalmente abbiamo un problema: riuscire a togliere dalla ritualità questo giorno. Cosa pensa dell’efficacia di quanto facciamo?»
«Certo che è importante e impressionante vedere così tanti ragazzi oggi che ascoltano e raccontano le storie della Shoah - risponde Grossman -. Ma la cosa più importante che vorrei che ciascuno di voi facesse oggi quando torna a casa è riflettere un attimo e pensare: “che cosa avrei fatto io se avessi vissuto in quel periodo?”. Ognuno di voi si fermi a pensare “come sarei riuscito a conservare la mia umanità, sia che io fossi stato la vittima o l’assassino, il carnefice?”. Qual è la cosa più forte dentro di voi che vi avrebbe potuto aiutare a mantenere la vostra umanità in un posto dove l’umanità è stata cancellata? Come avreste fatto ad evitare di partecipare alla forza del male?»
«Abbiamo intitolato questo convegno Sterminio e stermini con un sottotitolo preso da Primo Levi: “È successo, può succedere ancora”. Vorremo da lei qualche parola di speranza perché, se tra mille anni dovesse succedere ancora, tutta la nostra forza non sarà sufficiente», chiede un altro studente. «È successo e può succedere ancora, è nelle possibilità dell’umanità - dice lo scrittore -. La speranza non è una cosa che succede da sé, la speranza va creata. Bisogna stare sempre attenti, è una guerra infinita. Fra la riflessione dell’uomo moderno e il pensiero c’è la barbarie, c’è il male. Per una mattina intera avete visto i film, avete ascoltato i testimoni. Vorrei credere che la prossima volta che vi capiterà di stare in una situazione in cui dovrete scegliere tra l’umanità e il male saprete cosa scegliere. Queste condizioni ci sono in ogni momento della nostra vita. Vi capita in classe, vi capita in famiglia, fra amici, in ogni momento dovete decidere che parte prendete. E vi auguro con tutto il cuore che non sarete mai più qui in Europa dalla parte di quel periodo terribile. Ma dipende solo da voi».

l’Unità 30.1.08
Arbe e Giado. l’italica barbarie
di Bruno Gravagnuolo


Arbe e Giado «Nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe nel Quarnaro, fu teatro di stragi “italiane” numericamente più rilevanti». Così Dario Fertilio sul Corsera, lunedì dell’altra settimana. E il riferimento è a Giado in Libia, dove furono concentrati un migliaio di ebrei libici italiani, come racconta il libro di Eric Salerno, Uccideteli tutti (Il Saggiatore). Dovevano essere uccisi tutti secondo l’ordine di regime nel 1943, prima dell’arrivo degli inglesi, ma l’ordine fu revocato. E i morti di stenti furono circa 560. Solo che ad Arbe nel Quarnaro e in altri campi, i morti furono forse dieci volte di più, su 20mila internati slavi. Per non dire delle migliaia e migliaia di fucilati per rappresaglia dagli italiani che avevano consegnato la Croazia al boia Pavelic. Meglio essere precisi sulle cifre della barbarie italica. Anche in vista del giorno della memoria dalmata-giuliano (10 febraio), nel quale di solito si ricorda solo la barbarie altrui.
Morte a Pecoraro Ha certo colpe, il Ministro, oggetto di tiro al bersaglio. Ma in Campania ne ha meno. Perché a monte di tutto il ciclo smaltimenti rifiuti c’era un baraccone. E i bruciatori avrebbero inquinato e avvelenato con quel tipo di «ecoballe». Diciamola tutta la verità - come ha fatto l’Unità con i pezzi di Fierro – perché le colpe sono tante. Destra, Romiti&Son, sinistra tutta e Pd che non hanno mai eccepito sul piano ereditato e...applicato da Bassolino. Una lunga lista unica...
Terza via Dopo i milioni della Morgan ora Blair incasserà quelli della Zurich. Consulente finanziario di lusso al di sopra delle parti. Che sia questa la terza via?
Scopo senza scopo E ora tutti a far melina, col «governo di scopo». Giusto, ma a condizione che lo scopo ci sia. E sia realizzabile. Ad esempio, una riforma elettorale tedesca, che tiri dentro Casini e lo metta in contrasto col Cavaliere. Ma il rischio è che sia tardi. E andava fatto prima! Mentre sia prima che adesso non c’è una linea univoca a riguardo, né nel centrosinistra, nè nel Pd. Sicché il rischio è di venir accusati di voler menare il can per l’aia, e di subire l’affondo populista della piazza. Eppure era semplice: piazzare un cuneo in mezzo al centrodestra. E invece...

l’Unità 30.1.08
Fiera di Torino. Il Libro del dialogo
di Fulvio Abbate


Approfitto di questo spazio per esprimere il mio punto di vista sulla questione della presenza di Israele come ospite d’onore alla Fiera del libro di Torino. Dico subito che sono fra coloro che non condividono l’idea del boicottaggio, nel senso che la ritengo discutibile e riduttiva, se non qualcosa di assai peggiore. Frutto, in questo caso, di un principio che esclude ogni forma di confronto dialettico. La ritengo, ora l’ho detto, una posizione acefala. Non credo infatti che si tratti del modo migliore di porre in primo piano i diritti del popolo palestinese e la questione drammatica della vita e delle garanzie fondamentali che dovrebbero essere assicurati alle persone che vivono nei territori occupati dall’esercito dello Stato israeliano, a cominciare dai bambini. E il discorso, per quanto mi riguarda, potrebbe perfino finire qui. In realtà c’è anche dell’altro che prescinde dalla semplice opportunità di ragionare sulla legittimità di negare il diritto di parola a chiunque. Confesso ancora di non avere più, e ormai da molti anni, un’opinione “militante”, “eroica”, assoluta sull’intera questione palestinese. Credo insomma, e assai banalmente, che la politica soluzione debba contemplare, in prospettiva - chissà però quanto lunga e praticabile - la coesistenza di due Stati sovrani, ma non mi scaldo più, come invece mi accadeva un tempo, al pensiero appunto dell’eroismo dei “feddayn”. Nel tempo, al contrario, sono pervenuto alla convinzione che Israele, la società israeliana, al di là d’ogni limite e deficit che possa giungere dai suoi uomini politici, rappresenta comunque un luogo dove il dibattito democratico è garantito, dove si possa affermare lo stesso principio di laicità, di libertà. Posso sbagliarmi, ma la sensazione che provo è proprio questa. Temo di non poter dire le stesse cose, temo di non provare la medesima sensazione davanti alla gestione, la trasparenza dell’Autorità nazionale palestinese. Se devo dirla tutta, non serbo affatto un buon ricordo neppure della gestione politica ed economica dei fondi gestiti da questi ultimi. Gli ultimi giorni della vita di Arafat mi rimandano al racconto della morte di un satrapo. Dove non c’era modo di intuire trasparenza. Ma questo è già un altro discorso. Estremizzando ancora di più il discorso, laicamente ritengo che se vivessi in Israele mi sarebbero garantiti sia il diritto al dissenso sia, estremizzando ancora di più, il mio bisogno di sognare l’assalto a ogni genere di cielo, fosse anche quello religioso.
Tornando alla Fiera del libro di Torino, e qui parlo anche da scrittore, ritengo che l’occasione della presenza degli scrittori israeliani insieme a quella dei loro colleghi d’ogni altra parte del mondo possa costituire un momento di dialogo necessario, cancellando possibilmente quel senso di muffa conformista commerciale che è propria d’ogni fiera, perfino di quelle dove si parla di libri, quindi di idee, di sogni, di strumenti destinati al pensiero, ergo a cambiare il mondo. Mi torna in mente a questo proposito il giorno della morte di Falcone e della sua scorta, era il 1992 e mi trovavo proprio lì al Lingotto, un gruppo di scrittori chiedemmo di fermare ogni dibattito in segno di lutto, anzi, chiedemmo di dare vita a un presidio permanente sulla legalità, non ci fu verso di ottenere una risposta positiva. I soldi, innanzitutto.
Una pessima pagina, da allora non ho più messo piede in quello che, almeno inizialmente, si chiama Salone del libro.
Non nutro molte speranze sulla possibilità che quest’anno, in occasione della presenza degli scrittori d’Israele, le cose possano migliorare, mi piacerebbe però che da questa storia a mio parere sbagliata del boicottaggio possa nascere un momento di sosta, una riflessione generale sulla necessità della parola scritta, oltre le esigenze di cassa e perfino oltre l’intollerabile forma di divismo che investe ormai da tempo anche l’ambito dei libri, della parola scritta che continuo a immaginare come rivoluzionaria, laica, e non bene esclusivo di una cerchietto chiusa di anime belle sotto contratto esclusivo. So che non andrà così, ma avendolo detto personalmente mi sento meno ottuso.
f.abbate@tiscali.it

Repubblica 30.1.08
Secondo l'Ipr il partito di Veltroni in solitudine raggiungerebbe il 30 per cento, nell'Unione solo il 24 per cento
Il Pd da solo vale di più che con gli alleati


ROMA - Per il Pd è meglio correre solo contro la Cdl piuttosto che pensare ad un´alleanza con quello che resta del centrosinistra. Lo rivela un sondaggio sul possibile voto politico condotto dall´Ipr Marketing per conto di Repubblica.it. Il risultato è molto variegato perché l´istituto di ricerca ha elaborato quattro scenari diversi. Il partito di Veltroni nello scenario numero uno, confronto fra centrodestra e centrosinistra come nel 2006, - vincerebbe la Cdl 55,7% contro il 44% - otterrebbe solo il 24 %. Nello scenario numero due, - il Pd da solo contro la Cdl unita, raggiungerebbe il massimo dei risultati: il 30 per cento. Le elezioni le vincerebbe il centrodestra con il 53,7% contro un 46% (virtuale) ottenuto sommando tutte le forze del centrosinistra. Il terzo scenario prevede il Pd da solo, una Lista Grillo e la Cdl. Vincerebbe sempre la Cdl con i risultati dello scenario numero due. Ma la presenza della Lista Grillo, accreditata del 7%, porterebbe il Pd al 28 per cento. Infine l´ipotesi del Pd solitario, una Lista Grillo e la Cosa Bianca in campo darebbe come risultato la Cdl al 46% contro un 43% del centrosinistra più Grillo. La Cosa Bianca otterrebbe un 10,7% mentre il Pd crollerebbe al 24%.

Repubblica 30.1.08
Boris Pahor. Il lager visto dal bosco
di Paolo Rumiz


Esce solo ora, a quarant´anni dalla prima edizione, il libro di uno scrittore triestino di lingua slovena: si intitola "Necropoli" ed è noto e esaltato in tutto il mondo
"Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati via"
L´autore, scrive Claudio Magris nella prefazione, è uscito dall´inferno integro e vitale

Quarant´anni ci son voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all´estero, una Legion d´Onore, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. E´ il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c´era un grande capace di scrivere in un´altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga.
Necropoli - Fazi, pagg. 270, euro 16, prefazione di Claudio Magris e traduzione di Ezio Martin - è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l´oppressione fascista che - si voglia o no - fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa a pieno titolo accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio.
Per Pahor il Muro cade solo ora, ma il ritardo si riscatta con una perfetta scelta di tempo, col libro che esce nel Giorno della Memoria, il primo celebrato dopo la definitiva cancellazione della frontiera tra Italia e Slovenia. E chissà che questo bel rilancio non serva a esorcizzare gli ultimi fantasmi in circolazione sulla Cortina di Ferro che non c´è più, offrendo una base nuova di conoscenza reciproca alle sospettose comunità che la abitano. Un libro importante, perché non recrimina ma guarda al domani, e perché l´Autore - scrive Magris - è uscito dall´inferno integro e vitale, ricco di una «confidenza con la fisicità elementare della vita».
Il libro ha una forte anima slava e non indulge in autocommiserazioni. Non rimane imbrigliato nemmeno nel «tortuoso senso di colpa» di chi è ritornato e sente il peso di essere sopravvissuto ai compagni. Pahor sa di appartenere al suo Lager sui Vosgi, di essergli legato per sempre, ma quando, vent´anni dopo, vede due giovani baciarsi vicino alle camere a gas, anziché indignarsi, sente il richiamo potente del sentimento. Dice: «Noi eravamo immersi nella totalità apocalittica della dimensione del nulla», e quei due ora «galleggiano su qualcosa di altrettanto infinito e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose».
Il richiamo della natura - indifferente ma consolatrice - è presente nel mutismo del bosco cui egli, durante la prigionia, non riesce affatto a guardare come simbolo partigiano di libertà.
Durante l´esecuzione di un centinaio di giovani prigioniere francesi, egli al contrario gli rimprovera «di offrire, fitto com´è, un nascondiglio alla dannazione». A guerra finita poi, durante una visita guidata al campo della morte, Pahor si sente selvaggiamente respinto da quella buia massa resinosa che a distanza di vent´anni si rivela come una massa di ombre trapassate pronte a difendere «il proprio territorio dalla curiosità di un uomo che passeggia, vestito decentemente, con i suoi sandali estivi».
Il bosco è un incubo che svela il nulla cosmico, sveglia inquietanti presenze ostili, «feti» coscienti del fatto che «il loro sterminio collettivo si era legato all´infinito isolamento della natura e dell´universo». Ma, a viaggio finito, è pur sempre il bosco ad accogliere e consolare il sopravvissuto nell´angolo di un camping solitario, concedendogli di infrattarsi, diventare «libero pellegrino» e assaggiare in un pentolino bollente un sorso di buon latte dei Vosgi che gli riporta alla memoria il profumo di quello munto prima della catastrofe in Slovenia. Un latte mitologico, che «sembrava sapesse di Nigritella» e - sogna Pahor - con «la linfa dei nostri monti ci rafforzava nella lotta contro il terrore nero».
Il libro offre grandiose immagini collettive. Il «formicaio zebrato», la «massa multicefala», le «ossute zanzare acquatiche, ragni bruciacchiati con i sederi a X», le file di «tartarughe che di quando in quando sollevano le teste nude nello sforzo di guardare fuori dal regno delle tenebre». Intorno, un orrore che svela la sua tremenda dimensione acustica: «l´ululato dei cani nel ventre della montagna nera», la tempesta di urla rauche, quando sembrava che la paura «fosse diventata un vento impetuoso che investisse tutte insieme le corde vocali tedesche». Sopra di tutto, il Camino: il suo rosso tulipano acceso nel cielo di piombo, l´odore dolciastro, la cenere che si mescola alle nubi, genera polipi, piovre apocalittiche, elefanti fuligginosi.
Quando arriva al campo di Natzweiler-Struthof, Pahor ventenne non ha già più illusioni. Il manganello delle camice nere le ha già spazzate via dalla sua coscienza, contribuendo però a creare, nella scorza dell´Autore, un «sistema di difesa» che non permette ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo dove è «concentrato l´istinto di sopravvivenza». Ricorda i fascisti che incendiano il teatro sloveno di Trieste, il loro danzare «come selvaggi attorno al grande rogo», la sua incredulità di fronte alla soppressione della lingua con cui ha «imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo». Una soppressione, durata un quarto di secolo, che «raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l´individuo a un numero».
«Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalle scuole di Trieste». Diventai, scrive Pahor, «razza condannata, un negro». Ecco perché nel campo sui Vosgi gli slavi della costa, pur portando la «I» sulla casacca a strisce, si dicevano «yugoslavi» davanti al kapò. Non volevano essere confusi con gli oppressori, ma anche non subire le conseguenze del disprezzo tedesco verso un popolo che per due guerre mondiali aveva tradito l´alleato. In una scena memorabile verso la fine del libro, degli istriani riescono a scampare al gas semplicemente dichiarandosi «austriaci», per il fatto di esse stati fino al 1918 sudditi di Francesco Giuseppe.
Ma il fascino del Bel Paese riesce egualmente a sfondare il muro del sospetto, anche lì nel Lager, davanti all´occhio di Medusa.
Quando il giovane Boris trova un vecchio giornale italiano, basta «il fruscio della carta» a dar luogo a «un´ondata di calore, quasi un´ondata di luce». Il cima alle colonne degli articoli c´erano nomi di città che «sorsero all´improvviso davanti a me con tutte le loro volte medievali, con gli archi gotici, i portali romanici, gli affreschi di Giotto, i mosaici di Ravenna». E poi la foto dell´attrice Alida Valli, bellissima sotto la luce della lampada a carburo, che evoca la memoria di un amore perduto e si fa ritagliare per essere incollata accanto al pagliericcio gelido.
Quella foto italiana è forse l´unica deroga all´inflessibile comandamento degli internati: non pensare mai al mondo dei vivi, perché quella memoria uccide. «La regola era non stuzzicare mai la morte con immagini di vita, perché la morte è una femmina vendicativa». L´istriano Tomaz, un uomo vulcanico e allegro che non smette mai di evocare il suo mare, il suo vino e i profumi della sua terra, non rivedrà mai casa e sparirà di scena con una lunga cucitura verticale dal pube alla gola, simile a una treccia, sul tavolo autoptico della morgue.
Non si deve ricordare, perché tanto i due mondi sono e resteranno incompatibili, anche dopo l´Olocausto. Pahor non sembra trovare rimedio a quella che chiama «la grande apatia dell´uomo standardizzato». L´Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra, anziché «compiere la propria purificazione», si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L´uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione da eunuco: ma - conclude Pahor - esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».

Corriere della Sera 30.1.08
Coppie, l'Italia mista
Una su sette con partner straniero E' boom anche per i divorzi
di Gaia Piccardi


La crescita Nel 1991 erano appena 58 mila, nel 2005 già superavano le 200 mila Ce ne sono oltre 6 mila nuove all'anno
Le metropoli Tra le grandi città, quella con una maggiore presenza è Bologna (12,2%), seguita da Milano (11%), Firenze (10,8%) e Genova (10,7%)

I nipoti dei nostri figli parleranno due lingue senza doverle studiare, si districheranno con scioltezza tra le sure del Corano e i libri dei Vangeli, trascorreranno un Natale al freddo e quello dopo al caldo, mangeranno d'abitudine salato a colazione e, per strada, non osserveranno più gli incroci interrazziali con occhi da pesci d'acquario perché loro stessi avranno radici frastagliate e profondissime. Saranno, infatti, i figli dei figli di un matrimonio misto.
L'Italia che si trasforma sotto la spinta propulsiva dei flussi migratori cambia il colore della sua pelle, la foggia dei suoi abiti, il sistema di valori in cui credere, le religioni da professare, il modo di mangiare e persino di innamorarsi. E in questo magma sociale incandescente e in continuo movimento, le coppie miste (erano appena 58 mila nel 1991, superavano già le 200 mila unità nel 2005, ora crescono al ritmo di oltre 6 mila all'anno) sono fondamentali nel processo di trasformazione interetnica e interculturale del nostro Paese. Sebbene certi matrimoni finalizzati all'acquisto della cittadinanza siano di comodo e alimentino un vero e proprio mercato, l'Italia del futuro è qui e oggi, leggibile in filigrana nella situazione attuale: un matrimonio su sette coinvolge ormai un cittadino straniero (ma solo il 20 per cento ha come protagoniste le donne italiane rispetto agli uomini), senza considerare le coppie di fatto, di difficile quantificazione.
Più che quadruplicati
I numeri che ci interessano sono ancora lontani da quelli di nazioni di radicata tradizione migratoria come Stati Uniti e Francia, tuttavia anche nel nostro Paese le nuove forme di famiglia, che ben poco hanno a che vedere con quella tradizionale, si integrano nel tessuto sociale anticipando la futura società multietnica. Se all'inizio degli Anni 90 la quota dei matrimoni con almeno uno straniero era il 3,2% delle unioni celebrate in Italia, nel 2005 la percentuale è schizzata al 14,3%. I matrimoni misti, dunque, sono più che quadruplicati. «Una volta erano i grandi viaggiatori o gli intellettuali a concedersi unioni miste — spiega Mara Tognetti Bordogna, professoressa di sociologia all'Università Bicocca di Milano e autrice di libri sul tema —. Oggi, con le grandi migrazioni dall'Est, dall'Africa e dall'Asia, sono alla portata di tutti».
Le province di confine tendono ad avere i tassi più elevati: Imperia (15,4%), Trieste (14,9%) e Bolzano (13,6%) si piazzano tra le prime. Tra le grandi città a distinguersi è Bologna (12,2%), seguita da Milano (11%), Firenze (10,8%) e Genova (10,7%), mentre il Sud sembra refrattario al fenomeno: in Puglia, fanalino di coda, i matrimoni misti sono appena il 2,7%.
Desiderio di libertà
Qual è la motivazione profonda di un'unione con uno straniero o una straniera? Perché si sceglie di entrare in relazione con il «diverso da sé»? «Per una ricerca di maggior apertura e libertà, di novità e di confronto. Si tratta di una forte sfida alle nostre regole culturali, familiari e alla legislazione — risponde la professoressa Tognetti — perché il matrimonio misto trasforma le istituzioni, rende normale lo scambio tra culture, dà maggiori chance alla società: i figli che nascono conoscono due mondi, più lingue, più religioni. La società si piega e si trasforma, ma positivamente». Osservando la composizione dei matrimoni misti, nella maggior parte dei casi (59,1%) si tratta di italiani che sposano straniere, spesso dell'Europa centro-orientale. E nella metà dei casi l'uomo ha almeno dieci anni in più della compagna, percentuale che crolla (15%) quando sono le italiane (i cui gusti si orientano nettamente verso persone appartenenti alle comunità africane, marocchine o tunisine) a unirsi a uno straniero.
A rischio rottura
Quell'operoso laboratorio culturale chiamato coppia mista, però, per lo scontro tra identità cui dà spesso origine è anche un vulcano perennemente sull'orlo dell'eruzione. «Si discute e si litiga su come spendere i soldi, su come risparmiare, sui regali al partner e ai familiari, sulle vacanze, sull'educazione dei figli — continua la professoressa Tognetti —. Non è la religione, che pure incide, il principale elemento di rottura. È la quotidianità che porta ai grandi scontri e nasce dalla difficoltà di riposizionarsi continuamente nei ruoli di una famiglia atipica. Poi ci sono le diversità legate alla differenza di età e di livello d'istruzione. Ma il vero limite delle unioni miste è il fatto di essere ancora isolate dalla nostra società ».
Non a caso, i dati Istat e Eurispes dimostrano che i matrimoni misti hanno maggiori probabilità di andare in crisi rispetto a quelli tradizionali. Anche quando si tratti di seconde unioni: nel 36% dei casi se lo sposo è italiano e la sposa straniera, nel 19% se la sposa è italiana e lo sposo straniero. Molti, infatti, considerano l'unione mista un matrimonio di riserva, da prendere in considerazione solo dopo il fallimento della forma-famiglia «normale». Il valore percentuale dei divorzi misti e delle separazioni miste si aggira intorno all'80%, con tendenza nettamente più elevata al divorzio: una coppia interraziale su tre, in pratica, si spezza e il tasso di divorzio è circa il doppio di quello italiano. Un dato che sembra suggerire, in base al Rapporto Italia Eurispes 2007, il sospetto che molte coppie non siano all'altezza dell'altissima sfida offerta dal rapporto interculturale.
I matrimoni misti-misti
Se il futuro è già qui, ed è oggi, quale Italia dobbiamo aspettarci negli anni a venire? Un mercato matrimoniale molto fluido e aperto, innanzitutto, nel quale non ci si interrogherà più sul numero delle coppie miste ma, piuttosto, sulle molteplici forme-famiglia a nostra disposizione. Una Repubblica fondata sul lavoro e, forse, sui matrimoni misti-misti, cioè tra individui migranti appartenenti a due Paesi diversi. Italiani d'adozione ma non d'origine. O, per meglio dire, italiani. E basta.

Corriere della Sera 30.1.08
La religione. Ma la Chiesa sconsiglia «Attenti, per i cattolici la vita spesso è difficile»
di M. A. C.


ROMA — Don Valerio Andriano, 70 anni, insegna diritto canonico del matrimonio alla facoltà teologica di Torino, è avvocato rotale e da almeno quaranta si occupa di problemi legati ai matrimoni.
Cosa pensa la Chiesa di quelli misti?
«Cerca di scoraggiarli in ogni modo, soprattutto se non si tratta di matrimoni tra cristiani, ma tra battezzati e non cristiani».
Perché?
«Per i gravi problemi che li accompagnano e per evitare ai cattolici le dure esperienze cui possono andare incontro. Magari all'inizio c'è una buona intesa sentimentale ma i problemi gravi nascono dopo, anche quando non si arriva alle tragedie di cui abbiamo letto negli ultimi tempi. La Chiesa è così convinta di questo, da aver posto un vero e proprio impedimento al matrimonio per la disparità di culto. Un ostacolo che può essere superato solo da una dispensa del vescovo, che la può dare solo a certe condizioni».
Quali?
«La prima è che la parte cattolica deve essere assolutamente libera di professare la sua fede e di partecipare alla vita della Chiesa. La seconda è l'impegno (a cui il coniuge non cattolico deve consentire) di battezzare ed educare i figli nella fede. In ogni caso il matrimonio celebrato in chiesa tra un cattolico e un musulmano pur essendo valido non è un sacramento, perché uno dei due non è battezzato. Tanto varrebbe contrarre un matrimonio civile».
Sono più le donne o gli uomini che chiedono il matrimonio in chiesa con il partner musulmano?
«Le italiane cattoliche. Anche perché per la legge islamica una donna islamica non può sposare un non musulmano, e nei Paesi arabi in base alla sharia potrebbe essere uccisa».

Corriere della Sera 30.1.08
Presidenza del Cnr e politica
Maiani firmò contro il Papa? Nominato, ma con riserva
di Sergio Luzzatto


Uno dei guai dell'Italia (si sente dire spesso, e a ragione) è l'invadenza della politica. Il fatto che i partiti penetrano dovunque, si infilano dappertutto. Anche là dove più che mai dovrebbe prevalere non il criterio dell'appartenenza, ma quello della competenza: per le nomine ai vertici delle grandi aziende, degli ospedali, degli enti di ricerca.
Gli enti di ricerca meritano tuttavia un discorso più preciso. Perché siamo di fronte a uno di quei casi in cui il governo Prodi e il centrosinistra si sono comportati bene, pur «comunicandolo» male. A fronte di una crisi devastante dell'intero nostro sistema di ricerca, il governo uscente e l'ex maggioranza parlamentare sono riusciti a praticare un metodo nuovo nell'investitura delle massime cariche.
Quel che più conta, un metodo buono.
Il metodo è presto descritto. Un «comitato di ricerca» indipendente, composto da esperti nazionali e internazionali, seleziona (motivando) una terna di candidati per la direzione dell'uno o dell'altro ente. E il ministro della Ricerca scientifica sceglie (motivando) nell'ambito di tale terna.
Dopodiché il ministro procede a raccogliere il parere, consultivo ma non vincolante, delle commissioni competenti di Camera e Senato.
Nel corso del 2007, questo metodo è stato applicato con successo a due enti di ricerca che venivano da esperienze travagliate: l'Agenzia spaziale italiana (Asi), oggi presieduta da Giovanni Bignami, e l'Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), alla cui presidenza è stato nominato Tommaso Maccacaro. Sia Bignami che Maccacaro sono scienziati di assoluto valore internazionale. E le commissioni parlamentari ne hanno facilmente riconosciuto i meriti, approvando entrambe le nomine all'unanimità.
Dopo un identico processo di selezione, sembrava destinata a raggiungere l'esito felice di un'approvazione bipartisan anche la nomina di un altro grande fisico italiano, Luciano Maiani, alla presidenza del maggiore fra i nostri enti di ricerca, il Cnr. L'11 gennaio scorso, la prestigiosa rivista americana Science aveva salutato la nomina di Maiani, già direttore del Cern di Ginevra, come un «trionfo del merito sulla politica». Ma la settimana successiva, quando è esplosa l'affaire del Papa all'inaugurazione della Sapienza, si è scoperto che la firma di Maiani figurava tra quelle dei 67 professori di fisica che avevano rimproverato al rettore l'opportunità di quell'invito. E in alcuni ambienti politico-culturali del centrodestra si è cominciato a sostenere che la firma di Maiani «contro il Papa» era una cosa molto grave, così grave da suggerire prudenza rispetto alla sua nomina ai vertici del Cnr.
Per fortuna, argomenti del genere non hanno risuonato ieri al Senato, durante i lavori della Commissione Istruzione che doveva valutare la scelta del ministro Mussi. È pur vero che i senatori del centrodestra hanno preferito astenersi dal voto, mentre i loro colleghi del centrosinistra si pronunciavano favorevolmente sulla nomina di Maiani alla presidenza del Cnr. Ma l'astensione non è stata presentata dal centrodestra né come un gesto di sfiducia personale verso lo stesso Maiani, né come una contestazione del metodo impiegato per selezionarlo. Piuttosto, come una forma di (garbata) protesta politica, rispetto alla tempistica di una nomina che interviene a governo dimissionario.
Così, tutto è bene quel che finisce bene. O piuttosto finirà bene, quando la nomina di Maiani sarà stata approvata anche dalla Commissione Istruzione della Camera. E la nostra classe politica, una tantum, può felicitarsi con se stessa. Per avere fatto un passo indietro, riducendo i margini della sua discrezionalità. Per avere rispettato l'autonomia della comunità scientifica.
Per avere posto il Cnr nelle mani di un fisico che il mondo ci invidia.

Corriere della Sera 30.1.08
Il lavoro di Ménard è accompagnato da un ricco apparato iconografico. Il confronto con Colombo
La rivincita di Marco Polo, cronista
Due saggi, in Francia e Gran Bretagna, riscoprono la figura del veneziano
di Cesare Segre


Tra le glorie italiane si cita spesso Cristoforo Colombo; molto meno Marco Polo. Ma avere scoperto l'America non è tanto più importante che aver descritto per primo la Cina e i Paesi circostanti, specialmente oggi che la Cina ci è vicina (come diceva il titolo d'un film) ed entra di prepotenza nell'economia mondiale. In più, Marco ci ha descritto in modo sistematico e avvincente il suo viaggio, a differenza di Colombo.
Il Milione di Marco Polo (scritto in verità da un romanziere, Rustichello da Pisa, per incarico e sotto il controllo di Marco, in un francese ricco di italianismi) ha avuto una circolazione enorme, è stato tradotto nelle principali lingue del tempo, a partire dal latino, e da queste traduzioni ha tratto forze per un'ulteriore diffusione, ad uso sia dei commercianti, che si trovavano nelle mani un Baedecker dell'Estremo Oriente, sia degli ordini religiosi, che ne deducevano mappe per il loro apostolato. Nonostante questo, a nostro parere, Marco è poco popolare, persino nella sua Venezia, dove pure si mostra ancora l'abitazione di famiglia. Anche nella recente occasione del settecentocinquantesimo anniversario della nascita, sebbene ci siano stati importanti convegni, non pare che il nome di Marco sia risuonato molto fra i non specialisti.
Proprio alla persona di Marco, e ai suoi viaggi in Cina col padre e lo zio, poi da solo, è dedicato un volume di Philippe Ménard, illustre professore della Sorbona («Marco Polo à la découverte du monde», Glénat, Grenoble). Ménard lavora da anni sull'argomento, e sta portando a termine, con valenti collaboratori, l'edizione di quella redazione dell'opera di Marco che circolava nella Francia medievale. Ma nel volume di Glénat è proprio Marco a farsi protagonista, e viviamo attraverso il suo sguardo il lungo viaggio di due anni e mezzo fino al centro dell'impero tartaro, le visite ai Paesi limitrofi, il ritorno a Venezia, in parte su navi cinesi, accompagnando la principessa Cocacin che andava sposa in Persia (tre anni). Il volume ha un corredo illustrativo che non va considerato soltanto, edonisticamente, per la straordinaria bellezza delle figure, ma anche per l'integrazione dei punti di vista: miniature francesi e disegni persiani (specialmente cavalieri mongoli a cavallo) del Tre e Quattrocento, immagini antiche e magnifiche fotografie contemporanee dei luoghi.
Ménard ricostruisce attentamente tutti i percorsi di Marco, anche quelli da lui battuti nelle vesti di funzionario del Gran Khan Qubilai (1215-1294), successore di Gengis Khan, ed è pure attento ai particolari logistici, come la scelta delle navi e l'organizzazione delle carovane: unico espediente per rendere sicuro il viaggio in luoghi spesso abitati solo dai briganti. Attenta valutazione è data alla testimonianza documentaria del Milione: perché a volte la descrizione di Marco conferma o integra quanto è ancora riscontrabile, altre volte è solo la situazione attuale a rendere comprensibile il racconto di Marco. L'impegno comparativo di Ménard è reso necessario dai pochi ma fastidiosi tentativi recenti di sminuire la testimonianza del veneziano, o persino di contestarla in blocco. In verità Marco descrive con esattezza costumi, tecniche (come l'impiego da noi allora sconosciuto della carta moneta o l'organizzazione delle poste), credenze religiose, talora molto strane, quasi mai criticate con senso di superiorità. Anche alla poligamia dei tartari Marco Polo fa riferimento senza alcuno stupore, semmai con ammirazione per gli appetiti sessuali del Khan (quattro mogli, innumerevoli concubine, quarantasette figli). Naturalmente è aperto, come i suoi contemporanei, anche a invenzioni in gran parte leggendarie, come la sapiente solennità del Prete Gianni o le abitudini del Vecchio della Montagna, e degli assassini al suo servizio, pronti a uccidere pur di restare nel palazzo di delizie che il Vecchio ha creato per loro. Fatto sta che Marco, da uomo dei suoi tempi, traguardava la realtà attraverso i racconti già dedicati a un Estremo Oriente allora quasi sconosciuto, così come Colombo cercherà nel Nuovo Mondo le tracce dell'Oriente descritto da Marco Polo.

il Riformista 30.1.08
Fisica: non è stata intolleranza né integralismo
La visita del Papa alla Sapienza, ecco perché abbiamo protestato
Il diritto alla parola non va confuso con l'ingerenza
di Alcuni studenti di Fisica dell'Università La Sapienza


La protesta dei professori e degli studenti dell'Università La Sapienza di Roma circa la presenza di Papa Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico 2007/2008, è stata vista ed è stata voluta vedere da molti media come una forma di integralismo e di intolleranza. Vorremmo in qualche modo controbattere e spiegare meglio le nostre ragioni che evidentemente non sono state comprese.
Ognuno ha diritto di parola, non è questo che mettiamo in discussione, ma quando si riveste una carica politica o religiosa le cose cambiano. Il potere di una persona esiste perché legittimato. In uno Stato laico e democratico in cui il potere è delegato dai cittadini, una così pesante ingerenza del massimo esponente di una religione la cui legittimazione è del tutto estranea al diritto italiano, è sicuramente da contestare. Per questo siamo stati contrari alla presenza del Papa in veste istituzionale durante l'inaugurazione dell'anno accademico in una Università statale, pubblica e laica.
«Intorno a loro si sente l'odore del diavolo». Con queste parole il direttore di Radio Maria ha descritto - senza che nessuno facesse veglie - quei sessantasette docenti dell'Università La Sapienza di Roma, già da altri pulpiti definiti mediocri, imbecilli e piccoli. La loro colpa? Il loro peccato capitale? Forse aver venduto l'anima al diavolo? Sembra quasi che abbiano fatto qualcosa di peggio. Hanno difatti osato manifestare il proprio dissenso definendo, in una lettera inviata al rettore Guarini alla fine del mese di novembre (si noti la data, importantissima per una veritiera ricostruzione dei fatti), «incongruo» l'invito rivolto al Papa-docente Benedetto XVI di partecipare all'inaugurazione dell'anno accademico della prima università italiana con una lectio magistralis, perché di questo si sarebbe dovuto trattare stando all'invito rivolto al Pontefice, fino a quella data.
Hanno difatti continuato imperterriti a esprimere le proprie opinioni, e da persone pensanti dotate di senso critico hanno applicato l'insegnamento del sociologo Robert Merton per il quale, più che altrove, nelle scienze naturali e umanistiche l'analisi critica è norma assoluta e l'ipse dixit non è valido in alcun caso.
Hanno applicato semplicemente quello che è uno dei principi cardine della democrazia, dichiarando il proprio disappunto al loro rettore. In tutto questo noi non vediamo censura o atteggiamenti integralisti di chiusura: non si legge infatti nella lettera del professor Cini o dei 67 "dissidenti" (che i vari politici di destra e sinistra farebbero bene a leggere prima di parlare a sproposito) una contestazione alla legittimità dell'invito, né tanto meno il ricatto di costruzione di barricate.
Pare però che non tutti la pensino così, (o fa loro comodo non pensarla così), e che il motto di Voltaire possa essere applicato solo ad alcuni e non ad altri. Pare che l'esprimere liberamente le proprie opinioni in uno Stato laico, cioè anche libero come molto spesso è stato ricordato in questi giorni, quale quello italiano, non sia prerogativa di tutti. Se lo si fa si viene bollati come illiberali, censorei, mediocri, piccoli, imbecilli e chiaramente satanici.
Come scrive Pietro Grasso sull'Unità del 18 gennaio 2008, «non dobbiamo preoccuparci per il giudizio - certo criticabile, ma legittimo nel metodo e ben fondato nel merito, espresso dai 67 - ma faremmo bene a preoccuparci del conformismo di un paese che tratta così sessantasette persone che hanno l'unico torto di aver fatto emergere con ingenua determinazione l'esistenza di un nodo, quello dei rapporti tra Chiesa e società, che negli ultimi tempi si è aggrovigliato e si è stretto fino a diventare a volte doloroso».
È infatti solo di pochi giorni fa l'attacco della Cei alla 194 e alle unioni di fatto, e non è di certo qualcosa di nuovo o sorprendente. Negli Angelus questo Papa parla troppo spesso di questioni che riguardano la politica italiana o altrettanto spesso la ricerca scientifica.
Siamo stati accusati di integralismo, ma sul dizionario sotto la parola «integralismo» si legge: «tendenza ad applicare in modo intransigente ed esclusivo i principi di una dottrina o di un'ideologia». Bene, allora è proprio a questo «integralismo» che ci opponiamo, è proprio per una scienza libera dai principi di qualunque ideologia precostituita.
Secondo la Costituzione italiana «la Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», ma troppo spesso questa indipendenza viene meno, proprio quell'indipendenza che dovrebbe fare dell'Italia un Paese non integralista.
È Benedetto XVI stesso nel suo discorso preparato per La Sapienza, a scrivere che dopo la sua fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorità ecclesiastica, ma che successivamente lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, come università laica, autonoma e libera da autorità politiche ed ecclesiastiche. Ma poi è lui stesso che ricorda il significato della parola vescovo, ossia sorvegliante, pastore, «colui che da un punto di vista sopraelevato, guarda all'assieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme», ed è ancora nel suo discorso che si legge: «Se però la ragione - sollecitata dalla sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita».
E allora ci chiediamo, se il messaggio cristiano deve essere «un punto di vista soprelevato», o ancora la radice della ragione, che la guida e la sorveglia, dov'è questa autonomia di cui lo stesso Pontefice parlava prima? Non si rischia di trascendere nello stesso «integralismo» di cui sono stati accusati alcuni tra i più importanti scienziati italiani? La questione del rapporto tra Stato e Chiesa interessa il nostro Paese da anni, e ha profonde radici culturali, e noi proprio partendo dalla cultura, laica e democratica, ci siamo voluti confrontare con questo problema, ribadendo ancora una volta il diritto di ognuno a esprimere le proprie opinioni, ma anche il dovere di ogni potere di rimanere nella propria sfera di competenza e legittimazione.

il Riformista 30.1.08
Sinistra. La separazione consensuale col Pd
La Cosa arcobaleno si prepara a correre da sola
di Alessandro De Angelis


Nell'attesa che si pronunci il capo dello Stato sull'esito delle consultazioni, la Cosa rossa già si prepara alle elezioni anticipate. Modulo di gioco: a quattro gambe (Sd, Verdi, Prc, Pdci), almeno per ora. Simbolo: quello senza falce e martello che, dopo essere stato derubricato a «segno grafico» per mesi, è ora prossimo all'ufficialità (con più di una resistenza da parte del Pdci). E parte pure la ricerca del candidato premier.
I movimenti pre-elettorali ruotano tutti attorno alle implicazioni della corsa solitaria annunciata da Veltroni. La posizione di Rifondazione è speculare a quella del Pd, con cui si sta consumando, in queste ore, una separazione consensuale: nessun accordo né programmatico né di coalizione, ma solo qualche forma di intesa (se possibile) per limitare i danni. Dice il capogruppo al Senato Russo Spena: «Siamo pronti ad andare da soli con la sinistra unita anche se questa legge elettorale obbligherebbe a fare coalizioni. Ciò non toglie che, dopo le elezioni, si possano fare accordi su alcuni punti programmatici in Parlamento».
Il "balliamo da soli" di Rifondazione, dicono a via del Policlinico, ha comunque un carattere strategico. È il punto di arrivo del dialogo tra Bertinotti e Veltroni che mirava - seppur con una nuova legge elettorale - proprio a dividere i propri destini. Con l'obiettivo, per il Prc, di uscire dal bipolarismo coatto e riacquistare margini di manovra, anche (e soprattutto) in caso di opposizione. Ora però, tecnicamente, il quadro si complica. La separazione politica avviene infatti con in campo una legge pensata su misura per agevolare le coalizioni. In ogni caso, dicono a Rifondazione, bisogna fare di necessità virtù e tentare la corsa solitaria. A testimoniare come il Prc si stia attrezzando davvero, è partito anche il totopremier, ovvero la ricerca di colui che dovrebbe avere il difficile compito di fronteggiare Veltroni e Berlusconi. Il candidato naturale, Fausto Bertinotti (per ora) non si è pronunciato e i suoi (per ora) neanche ne parlano. Circola l'ipotesi, assai gradita ai Verdi e a una parte di Rifondazione, del costituzionalista Stefano Rodotà: una figura di alto profilo, e fuori dai partiti, che darebbe il senso della novità. Ma siamo ancora nel campo delle possibilità.
Sul fronte interno, il "partito dell'andiamo da soli" rimette assieme componenti che hanno vissuto negli ultimi tempi più di qualche tensione: i bertinottiani puri (con la subordinata: purché si faccia la Cosa rossa) e le aree più malpanciste, come quella di Ferrero (con la subordinata: è indifferente se si faccia o meno la Cosa rossa). Ed è proprio sul soggetto «unitario e plurale» che la partita elettorale porta ad una accelerazione, costringendo, di fatto, i partiti a presentare liste comuni, pur senza sciogliersi. Su questo punto i rapporti con Diliberto, che alla falce e martello proprio non vuole rinunciare, registrano i minimi storici.
Eppure, nelle pieghe dei dettagli tecnici, si annida qualche problema politico. In queste ore il dossier Porcellum , nella parte che riguarda il capitolo alleanze, è aperto su tutti i tavoli della Cosa rossa. Col Porcellum , infatti, non è possibile fare accordi in singole regioni, dicono a Rifondazione. E non è neppure possibile, se si corre da soli alla Camera, andare in coalizione al Senato. Tradotto: se si presenta un candidato premier alla Camera è obbligatorio presentarlo anche al Senato. Soluzione? L'unica forma di accordo possibile è la desistenza. Dice Russo Spena: «La desistenza non contribuisce alla chiarezza delle posizioni. Ma una formula per evitare lo sfondamento delle destre al Senato va trovata».
E gli alleati? I Verdi, nella direzione svoltasi lo scorso fine settimana, hanno rotto ogni indugio sulla Sinistra arcobaleno, ma hanno pure ribadito che il nuovo soggetto, per loro, dovrebbe essere alleato col Pd. Sostiene Paolo Cento: «Dobbiamo lavorare per una nuova alleanza che sia diversa dalla vecchia Unione. Penso a una coalizione che tenga assieme tre soggetti: il Pd, l'area laica e socialista e la sinistra arcobaleno». Anche per Sd un accordo col Pd è più che auspicabile, ma l'asse tra Mussi e Giordano, dicono gli ex ds, reggerà qualunque sia lo scenario. Afferma Carlo Leoni: «Un nuovo centrosinistra si può fare solo se c'è una convergenza programmatica tra Pd e Sinistra arcobaleno». Per ora ognuno corre da solo.

Liberazione lettere 30.1.08
Destra. Le metafore di An
Caro Piero, trovo veramente deplorevole l'uso che fanno delle metafore i parlamentari di An, suggerendo reiteratamente (forse per scarsa fantasia?) di evitare l'"accanimento terapeutico" riferendosi al Governo caduto. A quanto pare, un anno fa Gasparri non conosceva ancora il significato di "accanimento terapeutico", quando si trattava di lottare con Welby, affinché gli fossero risparmiate ulteriori sofferenze...!
Antonella Pozzi Roma

martedì 29 gennaio 2008

l’Unità 29.1.08
Gandhi, il non violento che leggeva Marx
di Michele Prospero


DOMANI CON «L’UNITÀ», a sessant’anni dalla sua uccisione, tutte le idee del «Mahtma» in un libro di Giuliano Pontara. Il ritratto del leader che liberò l’India dal colonialismo con un nuovo pensiero politico di massa: la «non violenza».

La figura del «Mahtma» Gandhi è certamente una tra quelle più significative ed eclettiche del Novecento. Nel secolo della paura e della violenza di massa, intesa da tutti come grammatica minimale del politico, egli esalta la «non-violenza» declinandola come una condotta politica pacifica e nondimeno efficace per la liberazione dei popoli dalle potenze coloniali, ma anche come un argine protettivo utile persino contro i regimi più totalitari.
Alla ormai sconfitta potenza inglese, che però intende imporre la netta separazione etnico-religiosa del territorio indiano tra musulmani e indù, Gandhi oppone le ragioni laiche della convivenza politico-territoriale comune. Proprio a questo apostolo della nonviolenza, ridotto a pesare 45 chili dai suoi lunghi digiuni, toccò però una morte violenta che lo raggiunse nel corso di una pubblica preghiera, il 30 gennaio del 1948. Domani a 60 anni dall’uccisione di Gandhi per mano di un indù ortodosso, l’Unità propone per «Le Chiavi del Tempo» un ampio volume di Giuliano Pontara (L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, pp. 351, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano), uno dei maggiori studiosi della nonviolenza. Sul politico indiano, che postula una nonviolenza capace di operare in profondità determinando mutamenti di mentalità tra i carnefici, non si è mai spento l’interesse, rimasto vivo nel tempo anche al di là dell’effettiva robustezza, sistematicità e coerenza concettuale dell’impianto delle sue riflessioni. Ricorda Pontara che «assieme a Lenin, Gandhi è la figura politica del XX secolo sulla quale è stato scritto più copiosamente». E i loro stili politici non potrebbero essere più diversi. Lenin è un campione del realismo politico che scruta nelle condizioni oggettive la possibilità di un grande evento risolutivo. La conquista del potere fa parte della posta in gioco dell’azione politica, ne è anzi la prospettiva più accattivante. Anche la sua «guerra alla guerra» adotta il lessico della violenza, che è pur sempre uno degli strumenti della politica da soppesare e da impiegare sulla base di una valutazione delle opportunità e della effettiva natura dei rapporti di forza. Gandhi, che pure esalta la «levatura spirituale di Lenin» e «il sacrificio più puro» in nome dell’ideale, è l’esemplare invece di un «politico morale» che esclude la guerra dal novero degli strumenti pensabili dell’agire collettivo. L’opposizione alla ribellione armata è in lui totale e non è collegata alla sua utilità, al suo vantaggio, al suo apporto strumentale al fine. La violenza è dichiarata estranea in quanto tale al corredo della politica, rigettata indipendentemente dalla sua storica efficacia.
Un simile atteggiamento, basato sul principio vincolante dell’unità del genere umano, è molto ostile alle pratiche di sterminio del Novecento e Pontara trova alquanto singolare che «il secolo che ha generato Hitler e il nazismo abbia però generato anche il suo opposto Gandhi e la nonviolenza del forte». Anche rispetto a un regime totale di annientamento, la strada della disobbedienza civile, del rifiuto nonviolento è quella più adatta per indurre gli oppressori a mitigare la repressione e a pervenire a generalizzate forme di non esecuzione di ordini cruenti entro le stesse fila degli eserciti occupanti. Gandhi (lo stesso farà in seguito anche la Arendt) enfatizza il caso danese di disobbedienza civile all’aggressore nazista come pratica in parte riuscita di umanizzazione del nemico. È evidente che su questo piano, quello cioè che misura anche l’efficacia reale del metodo della nonviolenza, Gandhi è costretto a scendere sul versante della pragmatica e, a rigore, ad accettare di valutare la stessa non violenza (con i suoi tipici ritrovati della non-collaborazione) alla stregua di ogni altro strumento d’azione collettiva. L’assolutezza di un metodo che non ha alternative viene di fatto limata se in questo «Machiavelli della nonviolenza», così lo definisce anche Pontara, la stessa nonviolenza entra nel conteggio dei suoi vantaggi operativi riscontrabili in una situazione data. L’alternativa è molto semplice: se la nonviolenza è una assoluta etica della interiorità e della verità, essa va adottata a prescindere dal suo impatto storico, se invece conta anche l’esito effettuale della pratica nonviolenta, allora anch’essa diventa uno degli strumenti dell’agire che vale non già in assoluto ma in quanto sottoposto a un calcolo politico di opportunità, di vantaggio, di efficacia. In questo caso, il principio di responsabilità dell’azione, che valuta cioè la reale ricaduta della mossa adottata, si impone anche al «politico morale» che non può esimersi dal dare conto dell’efficacia oggettiva della sua azione e delle sue empiriche conseguenze. Anche sotto i regimi democratici la nonviolenza conserva la sua piena rilevanza. Gandhi ritiene anzitutto che proprio la democrazia sia la forma politica più coerente con le ispirazioni della nonviolenza nei rapporti intersoggettivi. Aggiunge inoltre che il principio di maggioranza e la competizione elettorale rendono pacifica la contesa tra le parti, anche se l’adozione del metodo non violento di per sé non cancella del tutto la differenza, l’eccentricità, rispetto alle richieste di obbedienza. Tutti i regimi, anche quelli più tirannici, non si reggono senza una base di consenso. E tutti i governi, anche quelli più democratici, suppongono una più o meno modica quantità di violenza. È evidente che entro società democratiche ben strutturate ogni forma di conflitto non potrà che svolgersi con il corredo delle tecniche nonviolente (voto, disobbedienza civile, scioperi, boicottaggio, evasione delle tasse destinate alle armi, mentre perplesso Gandhi si mostra sui picchettaggi, sui sabotaggi). Entro un regime democratico si rintraccia di sicuro un titolo superiore di legittimità rispetto ad ogni altro meccanismo di potere. Per questo, secondo Gandhi , in una democrazia l’ordinamento non può venire contestato nel suo complesso. È ipotizzabile solo una disobbedienza civile difensiva che si agita dinanzi a singole decisioni adottate peraltro nel rispetto del principio di maggioranza. La separazione dei poteri non cancella per Gandhi il diritto della minoranza ad agire diversamente per motivi di coscienza laica o religiosa (pagando però le conseguenze legali e le sanzioni previste per la disobbedienza e la rottura dell’obbligo politico). Anche rispetto all’autorità legittima è sempre lecita la disobbedienza (parziale, non di sistema, rivolta alla singola legge ritenuta ingiusta non all’ordinamento costituzionale).
Diverso è invece il caso di regimi oppressivi nei quali Gandhi contempla la «disobbedienza civile offensiva», una pratica intransigente mirante cioè a demolire un ordinamento illegittimo nelle sue stesse fondamenta. Di sicuro nelle pagine politiche di Gandhi scorre una venatura anarchico-libertaria molto evidente (propugna ad esempio un azzeramento degli istituti repressivi). Sul piano economico invece egli rigetta ogni forma di individualismo accostandosi a forme di socialismo che non prevedono però il conflitto tra capitale e lavoro. Gandhi contesta il principio di Adam Smith per cui il mercato è sovrano con i suoi anonimi automatismi e il fattore umano si presenta sempre come un inaccettabile momento di disturbo. Secondo Gandhi il vero fattore di disturbo da eliminare è proprio il calcolo egocentrico, perché dai congegni del libero mercato in cui operano individui perfettamente razionali si originano sempre oscuri meccanismi di dipendenza. La violenza strutturale insita nell’economia può essere così estirpata solo da elementi di socialismo conditi in una salsa molto indiana e pragmatica. Pontara rammenta a questo proposito che Gandhi ha letto Il Capitale trovando in Marx «vari riscontri a idee che era andato sviluppato, anche in base alla sua diretta esperienza di colonizzato, circa la natura del modo di produzione capitalistico. Egli stesso disse che il suo socialismo era naturale, non era stato imparato su nessun libro». Un anelito di eguaglianza, un bisogno di giustizia sociale più che una critica della proprietà privata dei mezzi di produzione accompagnano la riflessione di Gandhi, che ammette una forma di «proprietà fiduciaria». Nelle sue pagine è presente una critica demolitrice della civiltà delle macchine, della metropoli, del consumo, della proliferazione delle armi di sterminio in nome di rapporti più semplici, di legami più immediati, di valori tradizionali infranti, del disarmo. Cosa resta nel XXI secolo di questo abile maneggiatore dei mezzi di comunicazione e nondimeno ascetico e «sedizioso avvocatuccio», come lo bollò Churchill? Pontara non ha dubbi: una capacità di scovare e contrastare alla radice quella «tendenza nazista», come la chiama, che opera in profondità e coincide in ogni tempo con l’esaltazione della violenza, del capo, della disuguaglianza, del fondamentalismo del mercato, della guerra giusta e dello scontro di civiltà. Pontara vede in circolazione anche nel postmoderno molte immagini del nemico e velleità di costruire un sistema di apartheid globale. In un mondo che riscopre le guerre di civiltà ed esalta la religione come identità differenziante, il messaggio del religiosissimo Gandhi risuona come un pressante invito laico a conservare la religione nella sua dimora solo privata, non pubblica. I modi con i quali salvare l’anima per lui non riguardano lo Stato. Le credenze non possono avere ricadute pubbliche e la religione, ammonisce Gandhi, è solo «una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, della salute, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione della moneta, ma non della vostra o della mia religione. Questa è affare personale di ciascuno». Per questo Gandhi, che rivendica un’etica del rispetto verso il vivente non umano, si proclama favorevole all’eutanasia per far cessare le forme di inaudita di sofferenza. La sua curiosità non è poi così distante dai temi eticamente sensibili che oggi sono ovunque al centro dell’agenda pubblica.

Repubblica 29.1.08
"Se il Pd va solo apre il varco a Berlusconi"
Mussi: è come andare contro la sinistra. Bettini: solo alleanze coese
di Giovanna Casadio


ROMA - «Equivale a dire: prego, Berlusconi si accomodi». Fabio Mussi critica la linea-Veltroni e la strategia del Partito democratico. Quel "correre da soli" alle elezioni prossime venture - siano imminenti o tra alcuni mesi - per il segretario Veltroni rappresenta la fine dell´Unione come alleanza disomogenea, del «caravanserraglio» di questi anni. Una logica «perdente» invece, per l´ex compagno di partito, ora leader della Sinistra democratica, in procinto di costituire la Cosa Rossa con Rifondazione, il Pdci e i Verdi. È indubbio inoltre per Mussi che «il "comunque da soli alle elezioni" del Pd» significhi «alle elezioni contro la Sinistra, una linea cioè che condanna tutti alla sconfitta, non ci sarebbe neppure combattimento per il Senato dove il centrodestra potrebbe puntare a vincere in tutte le Regioni. Senza contare i possibili effetti collaterali a cascata, cosa comporta infatti la corsa solitaria del Pd nelle elezioni comunali, provinciali, regionali?». La tensione tra il Pd e la Sinistra cresce.
Pdci, Verdi e Rifondazione incalzano Veltroni. Alfonso Pecoraro Scanio, il leader ambientalista lancia «una sfida al Pd ad essere alleato e a non regalare il potere a Berlusconi con una corsa solitaria». Rincara il Pdci. «La crisi del governo è stato il capolavoro di Veltroni perché mandare all´aria l´Unione è stato uno dei detonatori - accusa Manuela Palermi, capogruppo al Senato dei comunisti italiani - So che nel Pd ci sono voci contrarie ma a quanto pare hanno solo un ruolo di testimonianza. Comunque, è una strategia da pazzi, di chi vuole perdere». Al loft del Pd, dove ieri il segretario Veltroni con il vice Dario Franceschini e il coordinatore del partito, Goffredo Bettini fornisce le cifre sul benessere del partito (2.500 circoli appena nati) e le adesioni («Se continua questo trend, raggiungeremo quota un milione e 200 mila persone), la risposta alla sinistra è altrettanto netta: indietro non si torna. L´Unione è finita. E però, «non abbiamo nessuna voglia boriosa di andare da soli - spiega Bettini - Siamo in ottima salute, non abbiamo timore di affrontare la campagna elettorale. Siamo però contrari alle alleanze come sommatorie non fondate sui programmi che servono a prendere un voto in più e poi non governano». Non ci sarà quel voto in più, ma sarà garantita la «coesione». Quel che si stabilisce sarà realizzato perché c´è sintonia. Il ragionamento di Veltroni è: «Per noi l´obiettivo è avere il programma come punto di partenza, non di arrivo». Sottinteso: non come fu per le 280 pagine del programma dell´Unione, mediazione ambigua pure nei termini adoperati. E sugli accordi locali: «Saranno fatti sempre sulla base delle convergenze programmatiche, dove sarà più difficile, come adesso a livello nazionale, noi porremo al centro il programma».
Gli ulivisti-parisiani a questo punto ritengono che nel Pd ci sia una lenta ma costante inversione di rotta. Fanno notare che non si parla più di corsa solitaria bensì di alleanze coese. Intanto parte il pressing delle amministrazioni locali. Due "casi" sono sul tavolo di Veltroni. In Campidoglio, la Sinistra denuncia: «Siamo preoccupati dalle dichiarazioni demagogiche di alcuni dirigenti nazionali del Pd e dalle prospettive che indicano per l´Unione e siamo anche convinti che la formazione "moderati per Veltroni", ora Udeur, sia oggettivamente fuori dalla coalizione fino a quando non si dissocino dalle scelte di Mastella». Da Bari invece, il sindaco Michele Emiliano, Pd e veltroniano, garantisce che l´Unione non si tocca. Perlomeno alle amministrative in Puglia: si va con Rifondazione.

Repubblica 29.1.08
Giordano, leader del Prc: la corsa solitaria non ci spaventa, pronti alla sfida per l’egemonia
"Lanceremo il nostro candidato premier ma al Senato possibili intese con Veltroni"
di Umberto Rosso


L´Unione è tramontata, la coalizione coatta ha fatto il suo tempo. La sinistra ora valuterà in autonomia se entrare o meno al governo
Se Diliberto pensa di sottrarsi al progetto di una sinistra unita delude le speranze di molti. Prendiamo esempio dai tedeschi

ROMA - «Se il Pd vuol ripresentarsi insieme a noi, via per sempre dalla coalizione i centristi voltagabbana alla Mastella e Dini che hanno affossato il governo Prodi. E sul programma, accordi molto, molto stringenti su temi sociali e diritti civili».
Ma se il Pd, onorevole Giordano, come tutto lascia pensare andrà al voto da solo?
«Non ci spaventa. Siamo pronti ad accettare una sfida per l´egemonia. Accelerando e mettendo in campo un nuovo soggetto, la sinistra unita. Per fare in modo che la competizione non si riduca ad una contesa fra un Pd neocentrista e una destra populista, pericolosa per la nostra democrazia. Ma vi sia in campo appunto un terzo soggetto, vivo e nuovo».
Accettando Veltroni come candidato premier?
«Se vanno davvero da soli, mi sembra improbabile. Non credo proprio che vi sarà un solo candidato. A quel punto schieriamo anche il nostro. Lo impone la legge, se resta il Porcellum».
Scenderà in pista Fausto Bertinotti?
«E´ del tutto prematuro parlarne. Vedremo, insieme alle altre forze della sinistra. Adesso, rispettiamo il lavoro del presidente della Repubblica, sul quale la destra con la minaccia di scendere in piazza sta esercitando pressioni inquietanti».
Accordo lontanissimo su candidato premier e coalizione. Possibilità invece di intese parziali fra Rifondazione e il Pd, per non "regalare" la vittoria a Berlusconi?
«Il problema esiste, condivido le preoccupazioni di chi teme uno sfondamento della destra. Bisognerà, con uno sforzo di creatività, escogitare qualche formula che impedisca appunto di consegnare il paese a Berlusconi su un piatto d´argento».
Un ritorno alla desistenza è tecnicamente escluso, con il Porcellum?
«Sì, il punto sarà la conquista del premio di maggioranza nelle regioni. Ci ragioneremo, non anticipiamo i tempi mentre sono ancora aperte le consultazioni del capo dello Stato. Di certo, servirà un surplus di fantasia per trovare intese fra noi e il Pd, quanto meno al Senato».
Unione addio per sempre?
«Tramontata, prendiamone atto».
Nessun mea culpa da recitare a sinistra?
«La verità è che si aperta una questione morale, nel ventre molle della coalizione. Il Pd ha vezzeggiato, coccolato i centristi, che hanno risposto alla chiamata dei poteri forti. La testa e il cuore del Pd rivolti in quella direzione, senza prestare ascolto alle nostre richieste. Uno strappo insanabile con il nostro popolo».
E in futuro, il Prc ha chiuso con l´esperienza di governo?
«Governare non è un disvalore ma non lo è nemmeno stare all´opposizione».
Mani libere.
«L´ipotesi della coalizione coatta ha fatto il suo tempo, la sinistra d´ora in poi valuterà autonomamente se entrare o meno al governo».
Forse perché i sondaggi puniscono il Prc di Palazzo Chigi?
«Non mi esalto quando ci premiano né quando ci danno stabili».
Il cammino della Cosa rossa è in salita.
«Prendiamo esempio dall´Europa, dalle buone notizie che arrivano in queste ore dall´Assia e dalla Sassonia. Vince una sinistra che si libera dalla smania autoreferenziale, dalle pulsioni neo-identitarie».
Mussi coltiva il sogno di un´alleanza con il Pd.
«Neanch´io la escludo ma dipende da loro».
Diliberto minaccia di presentarsi da solo.
«Ognuno è libero ma delude le speranze di tanta gente chi si sottrae al progetto di una sinistra viva, calda, senza lo sguardo rivolto al passato».
Liste senza la falce e martello?
«Nel simbolo della Sinistra-Arcobaleno non c´è, e personalmente sono per una scelta netta. Tuttavia pronto a discuterne ancora».

Repubblica 29.1.08
La lezione che l’Occidente ignora
Sessant'anni fa moriva per mano di un fanatico il Mahatma
di Federico Rampini


Aveva 78 anni e pesava 49 chili quando un fondamentalista gli sparò tre colpi
Che cosa resta dell´artefice della nonviolenza in un mondo che ama pochissimo la pace

«Il venerdì 30 gennaio 1948 - racconta Rajmohan Gandhi - cominciò come tutti gli altri giorni per mio nonno. Si svegliò alle tre e mezzo del mattino, recitò la sua preghiera preferita: Perdonami, o Dio misericordioso, per tutti i miei peccati. Non chiedo il paradiso né la mia liberazione ma la fine del dolore per tutti coloro che soffrono...». A 78 anni, stremato dai ripetuti digiuni di protesta, Gandhi era ormai ridotto a uno scheletro: pesava 49 chili. «Quel pomeriggio alle cinque uscì per andare al terreno di preghiera. Camminava appoggiandosi alle nipotine Abha e Manu, in mezzo a due ali di folla. Un giovanotto, Nathuram Godse, arrivò di corsa, diede uno spintone a Manu, si piazzò di fronte a Gandhi puntando una pistola. Tre colpi in rapida successione, uno allo stomaco e due al petto. Mio nonno si accasciò tra le braccia di Abha. Mormorò soltanto He Rama: oh Dio. Una macchia rossa di sangue sporcò il vestito di cotone candido. Con le mani giunte in un ultimo segno di saluto e di preghiera, si accasciò per terra». Godse era un giovane giornalista militante, della corrente più fanatica del nazionalismo indù. Venne arrestato, condannato a morte e giustiziato. Membro della casta braminica, odiava in Gandhi il fautore della riconciliazione con i musulmani. Molti come Godse avevano giurato di eliminare il Mahatma. L´inventore della resistenza passiva, il leader del più grande movimento di liberazione nella storia umana, il padre dell´India indipendente che aveva messo in ginocchio l´impero britannico, era ormai da tempo lui stesso un condannato a morte in attesa di esecuzione.
Il calvario di Gandhi comincia almeno un anno prima del suo assassinio. Già all´inizio del 1947, mentre gli inglesi devono rassegnarsi all´inevitabile indipendenza indiana, accettano anche il diktat della comunità musulmana: il leader Mohammed Ali Jinnah vuole la secessione delle regioni settentrionali a maggioranza islamica. L´indipendenza deve coincidere con la spartizione e la nascita del Pakistan. Ma la fondazione di uno Stato islamico, che Gandhi ha avversato fino all´ultimo, non sarà indolore. In tutte le zone del subcontinente le comunità religiose sono mescolate da sempre. Rancori ancestrali che covano da secoli tornano a galla, i leader integralisti soffiano sul fuoco della tensione. Ha inizio la più vasta tragedia di "pulizia etnica" mai accaduta: un esodo di milioni di persone in preda al panico, tra regolamenti di conti, vendette e massacri.
Profeta dell´amore, Gandhi si aggira per il paese cercando di placare gli animi. Spende il suo enorme carisma rivolgendosi soprattutto alla maggioranza induista perché cessi il genocidio. Nell´agosto 1947, proprio mentre a New Delhi il premier Nehru si appresta a celebrare la "mezzanotte della libertà", il Mahatma si dirige dall´altra parte del paese, nel Bengala, dove la popolazione islamica è numerosa. Arriva a Calcutta dove le autorità sono latitanti, le strade sono in mano a bande armate. Inizia un digiuno che grazie alla diffusione della radio viene seguito con trepidazione da tutta l´India. Sembra che gli riesca un nuovo miracolo, Calcutta vive sospesa in una calma irreale grazie alla sua presenza. I leader delle diverse comunità indù, musulmana e sikh vengono in pellegrinaggio al suo capezzale. S´impegnano solennemente a mantenere la pace, iniziano a disarmare le loro milizie. Lo supplicano d´interrompere il digiuno che lo sta riducendo a un cadavere.
Lord Mountbatten, l´ultimo viceré inglese che nell´interregno comanda ancora l´esercito locale, in quei giorni scrive: «Nel Punjab ho 500 mila soldati eppure ci sono disordini gravi. Nel Bengala le nostre forze sono fatte di un uomo solo, e non ci sono disordini. Gandhi ha ottenuto con la persuasione morale ciò che quattro divisioni militari non avrebbero ottenuto con la forza».
Ma quella vittoria è effimera, i focolai di violenza continuano a moltiplicarsi in tutto il paese, il terrore dilaga. Gandhi decide di rientrare a Delhi dove il conflitto religioso imperversa. La capitale è invasa dai campi profughi dove si accalcano gli induisti e i sikh sfollati dal Pakistan: gonfi di risentimento, premono per "ripulire" il vecchio quartiere islamico e impadronirsi di quelle abitazioni. I musulmani in fuga verso il Pakistan sono a loro volta bersaglio di rappresaglie atroci. I treni degli sfollati vengono assaltati nottetempo dalle bande che li aspettano al varco e macellano orrendamente i passeggeri. Interi convogli silenziosi arrivano di giorno nelle stazioni offrendo uno spettacolo macabro: sono carichi di soli cadaveri.
A Delhi il 13 gennaio 1948 Gandhi comincia un nuovo digiuno. «Sarà il più grande», confida ai suoi cari. Sarà l´ultimo. Ancora una volta è verso i fratelli di fede induisti che rivolge tutta la sua forza di pressione, la stessa arma della non violenza che per decenni ha usato per piegare gli inglesi. «Metto Delhi alla prova - dichiara - Quali che siano i massacri che avvengono nel resto dell´India o nel Pakistan, imploro il popolo della capitale di non lasciarsi fuorviare dal suo dovere. Anche se tutti gli indù e i sikh del Pakistan dovessero essere sgozzati, la vita del più miserabile bambino musulmano che abita nel nostro paese deve essere salvata». Aggiunge un´invocazione urgente al governo Nehru: deve versare subito al Pakistan la quota che gli spetta delle riserve della banca centrale che gli inglesi hanno lasciato a Delhi.
Sono richieste dure, impopolari. Alimentano la rabbia e i complotti contro di lui. Mentre una parte della popolazione segue con trepidazione il bollettino medico del suo ultimo digiuno, i gesti di ostilità si fanno più frequenti. Un giorno che giace sul letto sfinito dalla fame, un corteo vociferante sfila davanti a casa sua. «Non sento bene», chiede al suo segretario Pyarelal, «cosa dicono?». L´assistente esita a lungo prima di rivelargli la verità: «Urlano: lasciamo che muoia Gandhi». Le forze sembrano abbandonarlo, i medici perdono ogni speranza, il Mahatma è ormai un moribondo. Dal suo letto di dolore con un filo di voce fa giungere ogni giorno i suoi messaggi alla nazione. La commozione sale di nuovo nel paese, che assiste al sacrificio supremo del leader spirituale.
Il 17 gennaio accade ancora una volta il miracolo. 130 rappresentanti delle diverse comunità religiose votano una mozione per ristabilire la pace sociale. Una delegazione raggiunge la capanna di Gandhi e gli legge «il desiderio sincero espresso da indù, musulmani, sikh, di vivere a Delhi nell´amicizia perfetta». Al sesto giorno Gandhi interrompe il suo digiuno. Paradossalmente i festeggiamenti sono più forti in Pakistan: Nehru ha ceduto alle richieste del Mahatma, lo Stato islamico è salvato dalla bancarotta. Ma il 20 gennaio una bomba esplode proprio sul terreno di preghiera dove Gandhi si reca quotidianamente. Lui si salva per caso dall´attentato. Sa che i suoi giorni sono contati, le trame per eliminarlo si moltiplicano: «Alla fine sarà quel che Rama comanda. Io danzo come un burattino, lui tira i fili». Sul giornale dell´estremismo indù dove scrive Nathuram Godse il pacifismo gandhiano è accusato di «evirare la nazione».
Rajmohan Gandhi ricorda il giorno della morte citando il poeta-sarto Kabir: cinque secoli prima aveva paragonato l´anima umana a una chadariya, un panno di cotone tessuto a mano secondo la tradizione indiana. «Per più di 40 anni, prima in Sudafrica e poi in India, questa chadariya che è l´anima di mio nonno guidò eserciti di donne e uomini disarmati verso la conquista della dignità. Le pallottole non uccisero quel Gandhi. Lo consegnarono all´eternità dei tempi e ai popoli di tutti i continenti».

Repubblica 29.1.08
I modi del gandhismo di dire no alla guerra
di Guido Rampoldi


Winston Churchill disse: «È nauseante vedere un avvocato sedizioso salire a gran passi e mezzo nudo la scalinata del palazzo per conferire alla pari con il rappresentate del Re»
Il clamoroso trionfo del Mahatma rovesciò l´immagine sommaria che voleva il pacifismo pauroso, fiacco e perdente, Occorreva un coraggio sovrumano per sfidare i fucili di un impero
Una tradizione pacifista che in Italia soprattutto si è intrecciata con il cristianesimo

Quando la nonviolenza gandhiana mandò al tappeto l´impero britannico, a quel tempo già terminale ma ancora poderoso, il pacifismo non godeva di buona fama. E tutto sommato con ragione. Pesava il ricordo di Monaco. Al grido di "Pace, pace!" nel settembre del 1938 folle entusiastiche avevano accolto il britannico Chamberlain e il francese Daladier, che a Monaco avevano sì evitato la guerra, ma al prezzo di consegnare a Hitler la Cecoslovacchia. A Parigi Daladier aveva salutato il tripudio pacifista con gesti larghi del braccio e il più amorevole dei sorrisi; poi, rivolto al suo segretario, aveva mormorato: «Che idioti! se sapessero...» (il testuale fu più pesante). Non sappiamo cosa Chamberlain abbia detto in privato, ma in pubblico si sbilanciò: garantì di essere tornato in patria con una pace onorevole e rassicurò i londinesi, «Andate a casa e fatevi un sonno tranquillo». Un anno dopo il fragore dei cingolati tedeschi che invadevano la Polonia risvegliarono i britannici da quel "sonno tranquillo" e anticiparono ai francesi l´occupazione nazista.
Il clamoroso trionfo del Mahatma rovesciò l´immagine sommaria che voleva il pacifismo pauroso, egoista, fiacco e perdente come lo era stato nel 1938. Occorreva un coraggio sovrumano per sfidare i fucili di un impero che non aveva esitato a sparare a freddo sulle folle; e una formidabile disciplina per non cedere al desiderio di vendetta. Inoltre quel pacifismo patriottico di mostrava il rigore etico invece mancato alla gran parte dei movimenti anti-coloniali, i quali, strappata la frusta dalla mano dei loro oppressori, l´abbattevano con la medesima ferocia sulla schiena di minoranze ostili. Ma soprattutto, la resistenza non violenta si dimostrò un metodo di lotta straordinariamente efficace. Quale altro movimento di liberazione era riuscito a piegare un impero agguerrito semplicemente con l´arma della propria superiorità morale?
Quella vittoria nobilissima non poteva non colpire l´immaginazione di un´Europa che era stata il campo di battaglia di due conflitti mondiali e ne rischiava un terzo, combattuto con armi atomiche. Con il tempo il gandhismo fascinò e contaminò culture politiche diverse, spesso per il tramite di un cristianesimo eterodosso. In Italia fu immediatamente intercettato dal Partito radicale, rapidamente convinse almeno una parte del cattolicesimo sociale, si saldò con naturalezza al femminismo e alla critica del militarismo, e tre anni fa rappresentò, con l´audace svolta non violenta di Rifondazione, l´ultimo approdo del comunismo riformato. Diede origine al movimento degli obiettori di coscienza. Ebbe tra i suoi alfieri figure straordinarie per tenacia e per coraggio: Aldo Capitini, Danilo Dolci, Ernesto Balducci, Primo Mazzolari, don Milani... Oggi se ne può trovare un´eco nella critica all´interventismo umanitario, che se condotta da una sinistra rigorosa (la Fondazione Basso, Danilo Zolo, Alessandro Colombo) o perlomeno animata da una compassione autentica (Vauro), svolge un ruolo comunque prezioso: ci invita a diffidare sistematicamente della guerra. Ma più spesso il pacifismo gandhiano sembra diventata la griffe di una sinistra sgangherata, la posa accigliata di un puritanesimo vanitoso e vacuo, insomma una finzione.
Però è una finzione di successo. Il marketing politico sconsiglia di smascherarla, e quasi nessuno a sinistra osa dire una cosa ovvia ma impopolare: la nonviolenza non può pretendersi metodo di lotta universale, applicabile in qualunque circostanza e contro qualsiasi avversario. Risulta efficace soltanto dove ricorrano alcune condizione, in primo luogo un contendente che riconosca determinati valori e per conseguenza accetti un limite "etico" ai propri metodi di lotta. Gandhi prevalse sulla patria della Magna Charta, una democrazia governata da un partito laburista. Un movimento di massa che si fosse opposto con metodi altrettanto pacifici a Hitler, a Stalin, a Pol Pot, perfino a Franco, sarebbe stato sterminato e avrebbe fallito miseramente. In altre parole la non-violenza esprime ciò di cui difetta l´interventismo umanitario, una coerenza tra la nobiltà dei fini e la purezza dei mezzi, ma è del tutto inefficace contro regimi o movimenti totalitari. Piaccia o no, soltanto una guerra giusta talvolta riesce a piegare quel nemico.
È il problema delle conseguenze e si pose già in quel 1947, subito dopo l´indipendenza all´India: Ghandi non riuscì a evitare il bagno di sangue che portò alla Partizione. Il trionfo della nonviolenza si ribaltò in un´orgia di violenze. Un milione di uccisi. Sarebbe stato un numero assai minore se l´esercito britannico avesse condotto per tempo una repressione spietata dei nazionalismi islamico e indu. Astenendosi (per calcolo politico), dimostrò quel che più tardi la storia ha confermato: anche la rinuncia alla violenza può uccidere. Lo potrebbero testimoniare, tra gli altri, i centomila bosniaci ammazzati durante una guerra che la Nato fermò con una settimana di bombardamenti, dopo tre anni di inazione. A sua volta anche un conflitto che persegua le motivazioni più nobili può rovesciarsi nel suo opposto e produrre risultati spaventosi.
Nel suo appassionante Chi è il mio prossimo, Adriano Sofri lo chiama «lo scacco della buona intenzione», e nota che non vi sfuggì Gandhi, ma neppure vi sfuggono gli interventismi occidentali, anche per risultato di una deriva "tecnica": nelle moderne guerre «gli "effetti collaterali" si ingrandiscono a dismisura, e sempre più spesso prendono il sopravvento sulla motivazione primaria e il suo frutto». Estremizzando questa giusta annotazione, oggi il neo-gandhismo sostiene che la "guerra aerea", cioè l´attuale modo di combattere degli occidentali, è intrinsecamente terroristica, in quanto si propone non più di sconfiggere l´esercito avversario, ma di rendere il conflitto insopportabile a un´intera società. In sostanza gli "effetti collaterali" sarebbero il mezzo adottato per piegare una volontà generale, non un risultato indesiderato. Ma ammesso che questo sia vero, e talvolta lo è, mezzi spuri, "sporchi", talvolta possono arrestare un´ecatombe; e all´opposto la nonviolenza può risultare del tutto inefficace. Dove si aprisse un conflitto tra i fini e i mezzi sarebbe preferibile salvare la coscienza e i principi oppure, concretamente, vite umane? Poiché il calcolo dei costi e dei benefici varia da situazione in situazione, questo dilemma non ha una risposta unica, applicabile sempre. Ma come spiega l´ambasciatore Robero Toscano nel saggio La violenza, le regole, non è affatto impossibile sottomettere la guerra ai limiti etici dello justum bellum, la guerra giusta, (Toscano cita in proposito un rapporto del 2001, Responsibility to Protect, finanziato dal governo canadese e da fondazione internazionali). Insomma c´è uno spazio tra la resa alla barbarie e la resa all´illusione.

Repubblica 29.1.08
L’India britannica sconfitta da un uomo
di John Lloyd


Disobbedienza.Gandhi fu uno stratega raffinato che trovò la maniera di combattere l´impero

Si dice che quando nel 1930 il Mahatma Gandhi visitò l´India, già da leader del movimento nazionalista indiano contro la Gran Bretagna, gli fu chiesto che cosa ne pensasse della civiltà occidentale ed egli rispose: «Sarebbe una buona idea». Si tratta di una battuta di spirito che rifletteva l´amarezza sarcastica di chi, avendo già trascorso due anni di prigione, aveva assaggiato il lato sgradevole dell´imperialismo britannico. Era tuttavia impropria nel suo sottintendere che la Gran Bretagna non aveva portato alcuna influenza civilizzatrice e nessuna istituzione in India - ivi incluse la democrazia parlamentare e la legalità. Ma per un verso la frase di Gandhi era sicuramente legittima: faceva chiaramente intendere ai britannici e al mondo occidentale che i loro principi liberali e democratici non erano stati esportati nel Paese sul quale governavano.
La genialità di Gandhi era consistita nel maturare, durante i 21 anni da lui trascorsi in Sudafrica dal 1893 al 1914, la strategia della resistenza non violenta, nota anche come resistenza passiva: uno scontro con l´autorità di masse di persone che si rifiutavano di lavorare, di muoversi e tanto meno di obbedire agli ordini, ma attuato pacificamente, senza offrire alcuna resistenza attiva alla polizia o all´esercito. Questa sua strategia lo ha reso un modello per molti protagonisti della resistenza pacifica del XX secolo, tra i quali Martin Luther King negli Stati Uniti e Aung San Suu Kyi in Birmania; ha garantito che il movimento popolare contro gli inglesi fosse per buona parte non violento e ha offerto un´alternativa positiva alle rivoluzioni e ai colpi di Stato che hanno contrassegnato il secolo scorso. Ma, più di ogni altra cosa, la sua strategia ha raggiunto lo scopo che si era prefissa: disonorare l´impero britannico.
L´imperialismo britannico in India risultava inammissibile in particolar modo a tutti gli indiani che avevano completato i loro studi in Gran Bretagna - come Nehru, il Primo ministro indiano, Muhammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, e Gandhi stesso, che avevano tutti studiato giurisprudenza a Londra. I principi da loro acquisiti di giustizia, eguaglianza e diritti erano in aperto conflitto con la palese esclusione degli indiani dalla maggior parte delle questioni di governo del loro Paese. Gandhi, consapevole delle divergenze di opinione presenti anche in Gran Bretagna, sapeva di avere davanti a sé due platee differenti: da un lato quella dei suoi compatrioti, che egli aveva persuaso a opporre resistenza agli inglesi, e dall´altro quella formata dai liberali e socialisti britannici sempre più contagiati dall´opinione che l´Impero era una pesante responsabilità e al contempo una vergogna.
La seconda di queste platee crebbe lentamente. Era l´India, più di qualsiasi altro territorio dell´Impero britannico, a dare alla Gran Bretagna il suo status di superpotenza mondiale, negli anni prima della guerra. Churchill si oppose accanitamente a qualsiasi iniziativa volta a concedere l´indipendenza: in una serie di discorsi degli anni Trenta, quando non era al governo ed era fuori dalle grazie del Partito conservatore al quale apparteneva, si scagliò apertamente contro Gandhi. In un discorso del 1931 denunciò pubblicamente il viceré indiano di aver scarcerato Gandhi per lasciarlo negoziare la fine della sua campagna di disobbedienza non violenta. Disse: «È nauseante vedere Gandhi, un avvocato sedizioso che ora si atteggia a quel genere di fakir (asceta indu) ben noto in Oriente, salire a gran passi e mezzo nudo la scalinata del palazzo del viceré per conferire alla pari con il rappresentante del nostro Re». Questa dichiarazione segna il punto più basso raggiunto da Churchill, incapace di comprendere gli argomenti e le motivazioni alla base dell´indipendenza e dell´auto-governo, determinato a considerare l´India niente più di un possedimento, a garanzia della potenza e del commercio britannici. Nondimeno, la sua era una posizione condivisa e molto popolare.
Le cose cambiarono: perfino i governi conservatori di prima della guerra iniziarono a prendere in considerazione l´idea di concedere all´India lo stesso status di autogoverno accordato ad Australia, Canada e Nuova Zelanda. Scoppiò la guerra e Gandhi si oppose a che l´India inviasse sue truppe ad aiutare lo sforzo di guerra, organizzando invece il movimento "Quit India" che si prefiggeva di obbligare i britannici ad andarsene. Quantunque non avesse sottoscritto le posizioni di Subhas Chandra Bose - che influenzato dal fascismo aveva fondato l´Esercito nazionale indiano per combattere con i giapponesi contro gli inglesi - tuttavia vide nella guerra l´occasione giusta per conquistare l´indipendenza, e si batté ancor più fermamente per essa. Fu imprigionato ancora una volta, anche se nel lusso relativo del Palazzo dell´Aga Khan di Pune (dove morì sua moglie). Il governo Labour del Dopoguerra, non senza incontrare una forte opposizione, si adoperò rapidamente per concedere l´indipendenza nel 1946, alla quale fece poi seguito la separazione dell´India in due Stati distinti, uno indu (India) e uno musulmano (Pakistan) - partizione alla quale Gandhi si oppose energicamente - e che creò forti ostilità ancor oggi fonte di pericolo e tensioni.
Come modello ispiratore e simbolo Gandhi non ha avuto equivalenti nel XX secolo. Come politico fu invece la disperazione del movimento nazionalista indiano. Durante la guerra arrivò a esortare i britannici a «invitare Herr Hitler e il Signor Mussolini a prendersi tutto ciò che vogliono dei Paesi che voi chiamate vostri possedimenti... e se questi gentiluomini decideranno di occupare le vostre case, voi le evacuerete; se non vi permetteranno di andarvene, lascerete che vi massacrino tutti, ma vi rifiuterete categoricamente di giurar loro fedeltà». In un´intervista rilasciata alla fine della guerra, si spinse ancora oltre, dichiarando che «gli ebrei in Europa avrebbero dovuto offrirsi al coltello del carnefice. Avrebbero dovuto lasciarsi cadere in mare dalle scogliere». Per Gandhi, tentare di rovesciare una tirannia, o opporsi a un genocidio, equivaleva a commettere un gesto tanto esecrabile quanto la tirannia o il genocidio stessi - opinione che pare ripresa oggi da coloro che si oppongono a qualsivoglia intervento per porre fine a un genocidio. Malgrado ciò, Gandhi mandò in briciole non solo l´Impero britannico, ma l´idea stessa di impero. Lo fece opponendo resistenza ai britannici e al mondo, fungendo da specchio nel quale potessero riflettersi mentre predicavano la legalità, la democrazia e i diritti civili in patria, opprimendo gli altri popoli all´estero. E nella seconda metà del XX secolo fu questa sua visione a trionfare.

(traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 29.1.08
I tribunali di uno Stato che si è macchiato di uno sterminio sono impotenti a punirlo
Questo è un antico paradosso ora finalmente mitigato dalle corti dell'Aja e del Rwanda
di Antonio Cassese

Gli armeni furono deportati e massacrati nel 1915 suscitando indignazione

Da che mondo è mondo gli uomini si sono massacrati impunemente. Come diceva Belli, «cco le vite sce se ggiuca a palla/ come [se] quela puttana de la morte/nun vienissi da lei senza scercalla». Per secoli la comunità degli Stati ha taciuto, fatta com´era di sovrani indipendenti, ciascuno interessato solo a perseguire gli interessi del proprio paese, e libero di trattare i propri sudditi a proprio piacimento: poteva rispettarli o massacrarli; era affar suo, e nessuno poteva obiettare alcunché. Perciò, quando nel 1904-5 la Germania sterminò un intero gruppo etnico, gli Herrero, in una delle sue colonie (il Sudovest africano, oggi Namibia) nessun altro Stato batté ciglio.
Un barlume di indignazione collettiva appare nel 1915. Gli armeni erano stati ripetutamente sterminati nell´Impero Ottomano. Ma nel 1915, nel corso della Prima Guerra Mondiale, la loro quasi totalità era stata deportata, spogliata dei suoi beni e lasciata morire di stenti o massacrata. Tre Grandi Potenze (la Russia, la Francia e la Gran Bretagna) inviarono una nota di protesta veemente in cui per la prima volta nella storia parlarono di «crimini contro l´umanità» e per la prima volta nella storia minacciarono di perseguire penalmente i leader e gli altri organi dell´Impero che si fossero macchiati di quei crimini. Ma fu un intervento interessato: l´Impero Ottomano era un belligerante nemico già moribondo, le cui ricchissime spoglie facevano gola agli occidentali, e inoltre le vittime erano cristiani sterminati da musulmani.
Furono minacce verbali senza grande seguito. Certo, su pressione inglese gli stessi Ottomani tennero nel 1919-20 ben 63 processi contro gli autori di quei crimini, ma i pesci grossi nel frattempo erano scappati a Berlino.
Soprattutto, le Grandi Potenze occidentali erano troppo prese dalla spartizione dell´enorme Impero per occuparsi di quei crimini. L´arrivo di Kemal Atatürk mise una pietra su tutto. La mancanza di qualsiasi reazione forte sembrò legittimare altri e più gravi eccidi. Non dimentichiamo una cosa: all´epoca, nella comunità mondiale nessun imperativo giuridico internazionale limitava la libertà assoluta di ciascuno Stato al proprio interno. Direte: ma che facevano i giuristi? Si occupavano di cose «concrete» (trattati commerciali, mare territoriale, immunità diplomatiche).
Quei pochi che si arrovellavano su cose più alte, come il greco Politis, erano in fondo «mandriani di pallide nebbie». La frase che Hitler avrebbe pronunciato il 22 agosto 1939 alla riunione di Obersalzberg dei vertici militari tedeschi, per giustificare la persecuzione degli ebrei («Chi ricorda oggi il massacro degli Armeni?»), vera o falsa che sia, ben rispecchia la mentalità imperante nella comunità internazionale tra le due Guerre Mondiali: massacra pure, tanto nessuno te ne chiede conto.
Le cose cambiano con la svolta impressa da Roosevelt al secondo dopoguerra. Nel 1945 si decide di punire i leader nazisti anche per «crimini contro l´umanità» e nel 1946 il Tribunale di Norimberga pronuncia varie condanne contro i nazisti colpevoli della «persecuzione» degli ebrei.
Quell´orribile sterminio viene ora considerato un «crimine contro l´umanità» ma punito solo in quanto collegato alla guerra, solo cioè perché perpetrato nel corso della violenza bellica. Nel 1948 ci si rende però conto che il deliberato annientamento di interi gruppi umani è - «qualitativamente» - qualcosa di più che un omicidio di massa. E´ un nuovo fenomeno in cui sull´antica propensione distruttiva degli uomini si innestano due fattori recenti: il nazionalismo e l´organizzazione burocratica dello Stato moderno. Ci si appropria allora di nuova parola, «genocidio», coniata nel 1944 da un ebreo polacco, Lemkin, per denotare questa nuova criminalità. E si adotta la Convenzione sul genocidio. Si crea così un nuovo armamentario giuridico per combattere contro chi, per fanatismo nazionalistico-ideologico-religioso, intende uccidere esseri umani solo perché sono nati all´interno di un gruppo discriminato (come dirà nel 1999 un tribunale tedesco nel caso Jorgic, nel genocidio «la vittima non viene colpita come essere umano, ma solo come membro di un gruppo da perseguitare»). Nel 1948 si fa anche un´altra cosa importante: si slega il genocidio dalla guerra e lo si condanna anche se commesso in tempo di pace.
Tutto risolto, dunque? No. La Convenzione è piena di ombre e di lacune. Ne indico una sola. Nel 1948 l´ONU diede per scontato che in futuro nessuno Stato come tale si sarebbe macchiato di genocidio, perché quel crimine era suscettibile di essere commesso solo da singoli individui od organi statali. Si obbligò dunque gli Stati a prevenire e punire il genocidio perpetrato da privati o da organi statali (anche di vertice), dimenticandosi di obbligare anche gli Stati a non macchiarsi essi stessi - come apparati di governo di quel crimine. Con la conseguenza, assai ingenua, di demandare il compito di punire il genocidio ai tribunali dello Stato in cui il crimine sia stato commesso - ignorando che i giudici non puniscono i propri leader politici e militari per crimini siffatti.
Sono passati da allora sessanta anni: nessun tribunale statale ha punito i leader nazionali. E la Convenzione è stata applicata tra Stati solo l´anno scorso, quando la Corte internazionale dell´Aja ha condannato la Serbia per il massacro di Srebrenica (ma solo per aver omesso di «prevenire» il genocidio perpetrato da Mladic). Per fortuna le cose vanno meglio a livello internazionale penale: sia il nuovo Tribunale penale dell´Aja sia quello del Ruanda hanno processato e punito decine di leader militari e politici per atti di genocidio nell´ex Jugoslavia e in Ruanda.
Ma ciò non basta. Tanto più che si assiste a due fenomeni opposti e sconcertanti. Da una parte la parola «genocidio» è stata svuotata del suo significato specifico, per denotare qualunque omicidio di massa. E´ diventata una parola «passe-partout», una «parola magica» usata ed abusata nella falsa credenza che, designando essa il massimo disvalore, basti evocarla per far scattare la reazione della comunità organizzata: è stata usata a torto da Sartre nel 1966 a proposito della guerra statunitense in Vietnam, da molti storici a proposito dei misfatti dei Khmer Rossi in Cambogia (1975-79), nel «processo» a Ceausescu nel 1989 e in quello, celebrato dall´Etiopia in contumacia nel 2007, contro Mengistu; e Bush e Powell si sono illusi che, pronunciandola, si ponesse fine agli eccidi del Darfur. Dall´altra, si è creato un complesso armamentario giuridico internazionale, fatto di divieti rigorosi per impedire ai Governi di sterminare gruppi nazionali, etnici e religiosi. Ora abbiamo «le parole per dirlo» e gli strumenti formali e istituzionali per lottare contro il genocidio ed altri massacri. Ma quegli imperativi non riescono a calarsi nella realtà, come ben dimostra il Darfur.
Dobbiamo dunque disperare? Non dimentichiamo che la comunità internazionale attuale poggia su una grande contraddizione: i Cinque Grandi detentori del potere di veto nel Consiglio di sicurezza dell´ONU e delegati a tutelare la pace e l´ordine internazionale sono anche i maggiori produttori ed esportatori di armi nel mondo: con una mano sollecitano la pace, con l´altra fomentano le guerre. Così, appena ci sono in gioco interessi strategici, energetici o geopolitici di uno dei Cinque Grandi, gli stermini continuano indisturbati. E gli Stati preferiscono costruire muri per separare gruppi nazionali, etnici e religiosi, invece di gettare ponti per unirli.
Per non perdersi d´animo occorre puntare sulla società civile internazionale: che continui ad indignarsi e a protestare contro gli stermini. E speriamo che sorgano tanti Martin Luther King a far udire la loro voce ai sovrani di tutto il mondo.

Corriere della Sera 29.1.08
Linke, l'onda rossa sulla Germania
Per la prima volta sfondano a Ovest: «Ora cambia la politica tedesca»
di Danilo Taino


Dopo il voto. Salto di qualità del partito erede dei postcomunisti della Ddr: ora può giocare a livello nazionale
Se si guarda il numero di iscritti e di politici eletti a livello nazionale e locale, questo è addirittura il terzo partito

BERLINO — Sulla politica tedesca soffia una certa brezza dell'Est. Le elezioni di domenica scorsa in Assia e Bassa Sassonia hanno creato un quadro complicato. Ma un fatto univoco — l'unico — c'è: Die Linke, La Sinistra, è il solo partito ad avere vinto in ambedue i Länder. Per la prima volta, la formazione nata dall'unione degli ex comunisti della Ddr con i fuoriusciti dai socialdemocratici dell'Ovest entra nei parlamenti di due Stati federali della Germania occidentale. Soprattutto, dopo questa tornata elettorale il quadro politico tedesco ha una novità strutturale.
La Linke è riuscita a superare lo sbarramento del 5% dei voti, minimo necessario per entrare nelle assemblee dei due Stati: 5,1% in Assia e più del 7% in Bassa Sassonia. Si tratta di un risultato che influenzerà sia la formazione dei governi locali sia le strategie dei maggiori partiti nazionali e del governo di Grosse Koalition. Gregor Gysi, che con Oskar Lafontaine è il capogruppo del partito al Bundestag, ha commentato che «quello che abbiamo ottenuto è un avanzamento molto significativo e gli altri partiti devono ora venire a patti con un sistema di cinque partiti. Ciò li sta già confondendo». In effetti, mettendo un piede nella politica dei Länder dell'Ovest, la Linke fa un salto di qualità: finora, era rappresentata solo nella parte Est del Paese, quella un tempo del socialismo reale. Ora conquista un «insediamento definitivo» a Ovest e può giocare un ruolo importante nella politica tedesca. Da fenomeno estemporaneo, come qualcuno la considerava, diventa il pezzo nuovo della Germania politica. Se si guarda il numero di iscritti e di politici eletti a livello nazionale, di Länder e di comune, la Linke è addirittura il terzo partito, dietro all'alleanza Cdu-Csu (cristiano-democratici) e ai socialdemocratici dell'Spd, davanti ai Liberali e ai Verdi. Anche i sondaggi di opinione la mettono al terzo posto, attorno al 10-11%: molto forte a Est — dove spesso è seconda dietro la Cdu e in qualche caso prima — e in crescita a Ovest. Questo vuole dire che nelle coalizioni di governo il partito avrà sempre più voce in capitolo: nella Spd, una corrente vorrebbe puntare a un governo nazionale, dopo le elezioni dell'autunno 2009, tutto di sinistra, sostenuto da Spd e Linke. Sul piano delle politiche, inoltre, l'affermazione della Linke sposta a sinistra l'asse generale. «Cambia il clima sociale del Paese», ha commentato ieri Lafontaine (che, insieme a Lothar Bisky, è anche co-presidente del partito). Nel senso che la concorrenza a sinistra sta costringendo i socialdemocratici di Kurt Beck a rincorrere e ad abbandonare le posizioni riformiste (soprattutto in tema di mercato del lavoro) portate avanti negli anni scorsi. In Assia, per dire, la Spd ha ottenuto un buon risultato su una piattaforma molto di sinistra, centrata sulla richiesta di un salario minimo per tutti i lavoratori e sulla critica degli stipendi altissimi dei top manager delle imprese. Ora, Angela Merkel avrà problemi seri a tenere insieme, da destra, una coalizione tirata per i capelli a sinistra.

Corriere della Sera 29.1.08
Torna il sacro e sfida l'Illuminismo
«La fede religiosa elimina la responsabilità, favorendo fanatici e integralisti politici»
di Edoardo Boncinelli


La discussione. Il nuovo numero della rivista «Reset»: un confronto sul rispetto per i credenti e per chi nega l'esistenza di Dio

La religione, al pari di tutte le convinzioni parareligiose, rassicura e deresponsabilizza, e non saprei dire quale dei due aspetti sia più ben accetto agli individui che la professano. Se l'aspetto della rassicurazione non ci deve riguardare più di tanto, è sull'aspetto della deresponsabilizzazione che la modernità ha qualcosa da dire.
Uno dei primi compiti delle religioni è stato quello di spiegare l'origine e la natura del mondo. Dal punto di vista conoscitivo e razionale questo non sembra avere oggi più molta importanza, mentre sul versante emotivo sembra avere ancora grande presa su molti, che appaiono dirsi: «Dio pensa a me, quindi non sono solo e abbandonato». Per chi ci crede, ciò ha un grande significato, perché dà un senso complessivo alla vita e alla morte e fornisce una speranza per ciò che potrà accadere dopo la vita terrena. C'è una lieve sfumatura di deresponsabilizzazione in tutto questo, ma non la vedo eccessiva e non me la sentirei di insidiare tale convinzione a qualcuno che ce l'ha, se davvero ce l'ha. Si tratta comunque di una faccenda privata.
A metà strada fra la sfera privata e quella pubblica si trova invece la vocazione etica della religione; di tutte le religioni, ma soprattutto di quella cattolica che ci riguarda più da vicino: ciascuno si deve comportare bene per far piacere a Dio e per non incorrere nella sua ira.
Questa semplice affermazione ha a sua volta due risvolti: l'assunzione implicita che sotto questa spinta gli esseri umani si comportino meglio e la delega che viene così conferita ai ministri di culto perché accertino e comunichino quale sia il comportamento etico giusto da tenere in ogni circostanza.
La prima assunzione è molto probabilmente priva di fondamento: non c'è nessuna evidenza statistica che un credente si comporti in media meglio di un non credente. A noi oggi non piace poi, come non piaceva a Kant e ad altri filosofi di quei tempi, l'idea che un essere umano si comporti bene perché deve e per paura di un castigo. Questo è uno dei motivi di più acuto contrasto tra il pensiero laico e quello religioso. Lo spirito laico richiederebbe una libera scelta individuale e un comportamento retto anche se maturato in un clima di autonomia interiore. A maggior ragione non ci piace la delega per l'etica che il clero si è attribuito. Nessuno può legiferare per nessuno in tema di morale. Non ci deve essere un'etica individuale quindi? Non scherziamo! La messa a fuoco di un'etica individuale è importate per il pensiero laico quanto e più che per il magistero cattolico, anche se, rispetto alle posizioni del secondo, il primo auspica una maggiore attenzione al caso singolo e alle istanze dell'individuo e una minore rigidità. Su questo tema si è scritto tanto e io stesso ne ho parlato nel mio libro Il male (Mondadori 2007).
Il fatto è che una volta che un'autorità si arroga il diritto di legiferare sul tema del retto comportamento, è facile per essa passare dalle questioni di morale individuale a quelle che definirei di etica sociale. E qui si entra decisamente nella sfera del pubblico, con l'aspetto dell'etica sociale appunto, del quale tanto si parla in questo momento, con l'argomento del valore di coesione sociale della fede, e con la propensione più o meno dissimulata per l'instaurazione di una sorta di teocrazia.
Brevemente, se non si vede quale diritto abbia il clero di decidere sui temi della morale individuale, ancora meno si può accettare che detti legge in tema di etica sociale. In secondo luogo, l'appartenenza a una stessa fede poteva essere uno stimolo alla coesione sociale in una società caratterizzata da una sola confessione, ma diviene elemento di destabilizzazione, se non di aperto conflitto, in una società transnazionale che ospita fedi diverse, inclusa l'assenza di una fede dichiarata. Che dire, infine, dei continui tentativi di far assumere alla fede in una confessione la veste di un'appartenenza e di una militanza politica?
Davanti alla presente offensiva del pensiero cattolico per la riconquista delle posizioni perdute, è quindi più che legittimo che chi si sente legato all'ideale di una società laica metta in atto una controffensiva di argomentazioni e di messe in guardia, anche se non ci si può attendere da quest'azione più di quanto essa possa dare, atteso che quella di fare proseliti non è mai stata una vocazione laica, mentre è, e dichiaratamente, una vocazione fondamentale dell'anima cattolica.
C'è un ultimo aspetto. È di moda oggi esultare, anche da parte di autori considerati laici, per un certo recente «ritorno del sacro». Non so bene di cosa si parli e di che cosa dovremmo esultare: il senso del sacro vive di ignoranza, di paure e di oscure minacce, confina con la superstizione e dispone al fatalismo e al fanatismo. Se c'è veramente questo ritorno del sacro, significa che l'Occidente tenta di rientrare in quello stato di minorità dal quale l'Illuminismo, secondo Kant, l'aveva a suo tempo affrancato.

Corriere della Sera 29.1.08
La provocazione. Vattimo: Fatima meglio degli atei
di Antonio Carioti


Potrebbero le organizzazioni degli atei, al pari delle confessioni religiose, concludere un'intesa con lo Stato e partecipare al meccanismo di finanziamento dell'8 per mille? Il quesito è stato posto dall'Unione degli atei e agnostici razionalisti (www.uaar.it) e ha ricevuto una risposta negativa ai sensi della Costituzione italiana. Ma Francesco Margiotta Broglio, in un intervento su Reset, scrive che il tema «dovrà essere di nuovo preso in considerazione» sulla base del Trattato costituzionale europeo firmato a Lisbona.
Si tratta di uno degli aspetti più interessanti della sezione sull'ateismo contenuta nel nuovo numero della rivista diretta da Giancarlo Bosetti, da cui è tratto l'articolo di Edoardo Boncinelli pubblicato qui accanto.
Apre il dossier Paolo Costa, che mette in luce le lacune dell'incredulità, pur riconoscendo «la dignità e il valore di una vita fondata sull'estraneità alle religioni tradizionali». Altri contributi vengono dal teologo Bruno Forte, dalla filosofa Martha Nussbaum, da Corrado Ocone. Non manca il tema del rapporto tra scienza e fede: il paleontologo darwiniano Niles Eldredge critica l'ateismo militante del collega Richard Dawkins, mentre Telmo Pievani contesta la pretesa dei teologi, compreso Benedetto XVI, di pronunciarsi sugli eventi naturali trascurando le acquisizioni della scienza.
La voce più originale e spiazzante risulta però il cristiano anticlericale Gianni Vattimo: molto aspro verso la Chiesa cattolica che «s'irrigidisce nei suoi principi», ma convinto che sia un grave errore «pretendere l'eliminazione di ogni sacralità». A suo avviso «la civiltà moderna è cristiana a propria insaputa», perché nella predicazione di Gesù c'è una «vocazione alla demitizzazione» che la distingue da ogni altro culto e le permette di reggere la sfida della secolarizzazione. Tutte cose che i miscredenti scientisti non capiscono, nota sferzante Vattimo: «Gli atei sono convinti di rappresentare la ragione illuminata moderna, quindi hanno una supponenza tutta loro, che è la grande difesa della mia fede. Io piuttosto che diventare come Dawkins — o come Flores d'Arcais o Odifreddi — sottoscrivo anche il miracolo di Fatima».

Liberazione 29.1.08
Spd e Verdi dovranno fare i conti con La Sinistra ormai determinante anche a Ovest
Socialdemocrazia a un bivio: o apre a sinistra o si condanna alla grande coalizione
Spd e Cdu non convincono. La novità è Die Linke
di Matteo Alviti


Berlino. Se c'è una cosa chiara, dopo le elezioni regionali di domenica in Assia e Bassa-Sassonia, è questa: la politica tedesca non è più noiosa. Merito delle laceranti battaglie interne ai due maggiori partiti, Cdu e Spd, alleati di una sempre più instabile grande coalizione. Merito di verdi e liberali, divisi tra speranze governiste e un ruolo d'opposizione sempre più scomodo. Ma soprattutto merito della Linke, che in tre anni ha saputo conquistare la fiducia degli elettori riempiendo di significato quel vuoto lasciato a sinistra dalla Spd di Gerhard Schröder. E ora siederà per la prima volta in due grandi Land dell'ex-Germania federale.
Procediamo con ordine: i risultati. In Bassa-Sassonia, come previsto, il governatore cristianodemocratico Christian Wulff rimane a cavallo con una solida maggioranza. Il suo partito, la Cdu, perde pure il 5,8% dei consensi, ma si conferma primo con il 42,5%. Segue la Spd al 30,3% (- 3,1%), il peggior risultato di sempre. In leggera crescita e sostanziale parità verdi, 8%, e liberali della Fdp, 8,2%. La vera sorpresa in Bassa-Sassonia è stata Die Linke, che contro ogni previsione ha conquistato il 7,1% andando ben oltre la soglia di sbarramento al 5%. Un piccolo aiuto la Linke l'ha avuto dalla scarsa affluenza alle urne, scesa di 9 punti al 58%. La partita in Bassa-Sassonia era talmente scontata e il tempo di domenica talmente brutto da indurre molti elettori non particolarmente motivati a rimanere a casa. Qui il governo lo formeranno Cdu e Fdp, che insieme dispongono di un'abbondante maggioranza di seggi.
In Assia invece il finale di partita è ancora aperto a molte soluzioni. Le urne hanno consegnato una situazione simile a quella delle elezioni nazionali del 2005, da cui nacque l'attuale grande coalizione. Allora Schröder era riuscito a rimontare un forte svantaggio che lo aveva portato a un passo dalla vittoria, andata poi alla Cdu di Angela Merkel. Domenica, dopo alcune false indicazioni che avevano fatto sperare la Spd di essersi attestata come primo partito, è arrivata la parziale doccia fredda. La Cdu del governatore uscente Roland Koch si è riconfermata prima al 36,8%, seppur con un tonfo colossale di 12 punti rispetto al 2003, frutto di una campagna elettorale violenta e razzista. A un decimo di punto la Spd, 36,7%, che avrà lo stesso numero di seggi della Cdu. Scendono i Verdi al 7,5% (-2,6%) e salgono i liberali al 9,4% (+1,5%). Anche in Assia l'unica forza politica a poter brindare senza patemi è Die Linke, che con il 5,1% dei suffragi ha conquistato sei seggi. Formare un governo non sarà semplice, con Andrea Ypsilanti, Spd, che reclama il posto di governatrice a un Koch che non intende farsi da parte. Esclusa da tutti, ancora ieri, un'alleanza con Die Linke, le soluzioni possibili parlano di governi di minoranza rosso-verdi o giallo-neri (Fdp e Cdu) o alleanze improbabili tra socialdemocratici, verdi e liberali (ci spera la Spd) o cristianodemocratici, liberali e verdi. O la solita grande coalizione.
Eppure, prima o poi, Spd e verdi dovranno pur farli i conti con Die Linke. Con la vittoria di ieri è infatti tramontata l'illusione di poter relegare il partito di sinistra a un ruolo effimero. Grazie alle sue critiche nette alla destrutturazione dello stato sociale, Die Linke si è dimostrata capace di superare lo scetticismo degli elettori dell'ovest. Perché non aprire un confronto subito? La socialdemocrazia è a un bivio decisivo per la storia sua e della Germania intera: o smette l'inutile conventio ad excludendum contro Die Linke all'ovest, che finora non ha portato altro che a una grande coalizione nella quale la Spd ha più da perdere che da guadagnare; oppure si rassegna all'alternativa di dover governare per sempre con la Cdu, o i liberali della Fdp.
Una riflessione sulla strategia delle alleanze varrebbe la pena: i risultati della Spd sono oggi infatti buoni ma non straordinari. Il mancato primo posto in Assia - Land governato dalla socialdemocrazia per decenni - pesa, ancor più che la batosta in Bassa-Sassonia. Il voto di domenica può ben far sperare in una svolta sociale che riporti la Spd sui binari dopo i deragliamenti liberali. Ma il presidente Kurt Beck avrà vita dura. Troppo folta ancora la pattuglia dei sostenitori delle riforme di Schröder a Berlino. La speranza per il futuro della Spd sta in due donne di nome Andrea: la vicepresidente Nahles, giovane rappresentante della sinistra, e la vincitrice morale delle elezioni in Assia Ypsilanti. Che ieri si è presa una bella rivincita sullo Schröder che infastidito per le critiche al suo corso riformatore chiese una volta sarcastico: «E chi è questa signora XY?».
La Cdu può, nonostante tutto, non dirsi sconfitta. La riconferma di Wulff e il risicato primo posto in Assia le daranno il tempo di leccarsi le ferite senza troppi drammi. La stessa cancelliera Merkel in Assia ha perso e vinto insieme. Perso per aver voluto sostenere, nelle ultime settimane, la campagna suicida di Koch. Vinto perché il governatore dell'Assia era nella Cdu un suo temibile avversario, da destra, la cui sconfitta relega a un ruolo minoritario. C'è da sperare che il partito abbia imparato la lezione e non voglia ripetere l'errore di puntare tutto su una campagna demagogica e razzista. Ne va del bene di quella dialettica democratica di cui anche l'Italia dei Bossi e Berlusconi avrebbe un gran bisogno.