venerdì 1 febbraio 2008

l’Unità 1.2.08
Cosa rossa, Bertinotti sarà il candidato premier
Come vice Pecoraro lancia Grazia Francescato
Sd, Verdi e Pdci volevano la coalizione con il Pd
di Simone Collini


BERTINOTTI FOR PRESIDENT L’altra volta erano soltanto primarie, e l’avversario da battere Prodi. Questa volta sarà invece una vera e propria candidatura, con tutti i crismi della formalità. Fausto Bertinotti sarà il candidato premier della Sinistra arcobaleno alle prossime elezioni. Che si voti ad aprile con questa legge elettorale o a giugno con un’altra, poco importa. Il Partito democratico andrà da solo alle elezioni, e la Cosa rossa metterà da parte tutti i nodi ancora irrisolti e farà altrettanto. Sfidando Berlusconi per il governo del Paese e Veltroni e il Pd per l’«egemonia» a sinistra. Una scelta che non convince Sinistra democratica, Verdi e Pdci, che avrebbero preferito correre in coalizione col Pd, ma che si fonda su un accordo solido, siglato dopo le consultazioni al Quirinale da Bertinotti e Veltroni.
Il presidente della Camera avrebbe preferito far correre il governatore della Puglia Nichi Vendola, per il quale si profilava un futuro di leader del nuovo soggetto non appena la fase costituente della Sinistra arcobaleno sarebbe entrata nel vivo. Ma la fine del governo Prodi, l’accelerazione verso le elezioni e la fine dell’Unione ha cancellato tutti gli schemi. A convincere Bertinotti della necessità di un impegno in prima fila sono state le pressioni provenienti da Rifondazione comunista e dagli alleati più vicini, ma anche i messaggi lanciati dal “loft”. Veltroni prefigura infatti una campagna elettorale basata su poche idee-forza che disegnino un Pd dal netto profilo riformista, e vede con favore una «competizione dialogante» con la sinistra radicale, a sua volta impegnata in una piattaforma programmatica «di alternativa».
«Una contesa tra il Pd e la sinistra ci deve essere, una sfida aperta su chi è più in grado di dare una risposta ai problemi drammatici della società contemporanea», diceva ieri Bertinotti precisando di parlare come «come viandante della politica». Ma in realtà la decisione l’ha già presa, insieme a quella di correre in ticket con una donna (per il Verde Pecoraro Scanio potrebbe essere Grazia Francescato). E già si prepara a sfidare Veltroni e Berlusconi puntando su pacifismo, ambientalismo, diritti civili e soprattutto su una «critica al capitalismo di oggi, che produce precarietà e insicurezza».
Bertinotti insomma aspetta di sapere come andranno a finire le consultazioni di Marini, ma intanto è certo che «politicamente la legislatura è finita col voto in Senato e il giudizio torna ormai agli elettori». Al massimo, a giugno. Cioè, politicamente parlando, «subito». Tra non molto avrà superato l’impedimento del ruolo istituzionale (già nei mesi scorsi gli era stato proposto di mettersi alla testa del processo unitario), ha anche messo da parte i timori sul suo essere «intriso di storia del 900» e si è convinto che non necessariamente un candidato più giovane porti più voti. Che poi è la questione fondamentale. Se alla Camera un risultato a due cifre è auspicabile, al Senato, dove lo sbarramento per le forze non coalizionate è dell’8%, è necessario.
I sondaggi che circolano in questo giorni inducono alla fiducia, dando la Cosa rossa sotto la soglia di sbarramento soltanto in Sicilia. Ma Bertinotti sa che un passo falso questa volta sarebbe fatale, per la rappresentanza della sinistra radicale in Parlamento nella prossima legislatura ma anche per il processo di più lungo periodo. «C’è un imperativo» che va rispettato, per il presidente della Camera: «Che queste sinistre si mettano insieme, che siano soggetto unitario anche se plurale, avendo meno ansia di vincere domani e più quella di rianimare una speranza per il futuro e di cambiare la società». E infine sa anche, Bertinotti, che bisogna giocarsi il tutto per tutto perché a sperare in un fallimento elettorale della Cosa rossa sono in molti: i vari fuoriusciti dal Prc Turigliatto, Cannavò (Sinistra critica), Ferrando (Partito comunista dei lavoratori), ma anche altri compagni di strada che soltanto per cause di forza maggiore stanno acconsentendo a rinunciare in questa tornata elettorale alla falce e martello.

l’Unità 1.2.08
«A sinistra», nasce una nuova associazione


Tra qualche giorno nascerà, a sinistra del Partito democratico, un’associazione che si richiama «ai valori della sinistra» con l’intenzione di lavorare «alle riforme, per uscire dagli aspetti organizzativi della nascita del Pd». Lo annuncia il consigliere comunale romano. Aldo D’Avach, che vanta alcune adesioni di peso. Dal ministro Livia Turco, all’assessore Vincenzo Vita, agli esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo come Lidia Ravera, Massimo Ghini, Ettore Scola.
La nuova associazione guarda anche fuori dai confini del Pd, con l’obiettivo di parlare «a tutti coloro che sono scontenti dei processi troppo tortuosi e frammentati di costruzione di nuovi soggetti, e vogliono concentrarsi sule risposte concrete che il paese aspetta». Tra i temi, salari e pensioni, ambiente e welfare.

l’Unità 1.2.08
La sindaco Marta Vincenzi: sarà solo un segnale per eliminare sofferenze. Il Pd Costa: è solo una sparata ideologica
Registro delle coppie di fatto, a Genova il Pd si spacca
di Eduardo Di Blasi


La possibilità che anche Genova accolga l’anagrafe delle coppie di fatto sul modello di quella nata a Padova, pur non essendo ancora all’ordine del giorno del consiglio comunale, ha provocato uno scossone tra le fila del Pd ligure. È bastata la proposta, lanciata tre giorni fa in conferenza stampa dal consigliere comunale dei Verdi Luca Dall’Orto, dalla presidente della commissione comunale Pari Opportunità Michela Tassistro (Pd) e da Alessandro Zan, consigliere comunale a Padova, e l’auspicio della sindaco Marta Vincenzi a discuterne in Consiglio, a provocare la reazione del vicepresidente della Liguria Massimiliano Costa, esponente del Pd di provenienza Dl (che la bollava come «una sparata dal sapore ideologico, senza nessun fondamento giuridico né vantaggio per i cittadini»). Fatto sta che nella giornata di oggi, in un’altra conferenza stampa, il gruppo del Pd presenterà la propria proposta e non parla dell’anagrafe sulle coppie di fatto. Simone Farello, 33 anni, capogruppo Pd a Palazzo Tursi, la chiama però «l’anagrafe dei diritti». E spiega come nell’impostazione data alla questione ci sia ben poco di ideologico e molto di realtà concreta: «Quello che il Comune deve fare è fornire servizi ai propri cittadini, secondo i servizi che questi richiedono, indipendentemente dalla forma che hanno deciso di dare alla loro affettività. Il problema è che noi non la conosciamo questa realtà. Per questo l’anagrafe va fatta in base a quello che è la realtà: le persone ci devono dire di cosa hanno bisogno. E quali ritengano siano i loro diritti. A quei diritti noi dobbiamo dare risposte. Punto». Una sorta di «mappatura della domanda», che, dal punto di vista amministrativo, supera il concetto di «stato di famiglia». Spiega Farello: «Lo stato di famiglia di uno che è separato, e Genova è la città con più divorzi in Italia, mi dice che quello è separato, ma non mi dice che magari quel genitore separato per tenere il figlio nei periodi che gli spettano, deve avere un appartamento di un certo tipo, e magari in graduatoria è trecentesimo dietro ai nuclei familiari numerosi. Il problema è che noi oggi non abbiamo strumenti per tracciare quel bisogno e quel diritto. Per noi quello è un single». La mappatura, non senza qualche ulteriore discussione, dovrebbe essere anche alle convivenze omosessuali (che richiedono diritti specifici come gli anziani soli, le coppie eterosessuali, i single...). Quello che Farello rimpiange è che all’interno del gruppo del Pd, in questo frangente «chi ha sollevato questa problematica non ha fatto nessun confronto collettivo». Afferma: «Rimpiango tanto le sezioni di partito e gli scout che ti insegnavano che le posizioni politiche devono essere condivise prima che essere affermate. Io credo, ad esempio, che noi dovremo ripartire dal punto di mediazione che il Pd aveva trovato con i Dico». Sullo stesso piano Victor Rasetto, giovane segretario provinciale del Pd, che, alle prese con un partito ancora diviso per provenienza, avvisa: «Noi non dobbiamo decidere se per noi una data legge sia giusta o ingiusta, ma se sia legittima o meno. Ed è questo, adesso, che manca».

l’Unità 1.2.08
Iraq, un milione di morti dalla caduta di Saddam


LONDRA Sono più di un milione gli iracheni morti a causa del conflitto dall’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003: sono questi i risultati di una ricerca condotta da una delle principali società di sondaggi britanniche. L’Opinion Research Business (Orb) interpellando 2.414 adulti, ha scoperto che il 20% delle persone ha avuto almeno un morto nel loro nucleo familiare a causa della guerra.
Secondo i dati dell'ultimo censimento della popolazione in Iraq, effettuato nel 1997, nel Paese ci sono 4,05 milioni di nuclei familiari, una cifra su cui Orb si è basata per calcolare che approssimativamente 1,03 milioni di persone sono morte a causa della guerra. Il margine di errore dell'indagine, condotta tra agosto e settembre 2007, è stato stimato intorno all'1,7%, quindi il numero delle vittime potrebbe oscillare fra 946.258 e 1,12 milioni.
La ricerca ha interessato 15 delle 18 province irachene. Fra quelle non incluse figurano due delle regioni più turbolente - Kerbala e Anbar - e la provincia settentrionale di Erbil, dove le autorità hanno rifiutato il permesso di effettuare l'indagine.
Il portavoce del ministero degli interni iracheno, generale Abdul Karim Khalaf, ha definito «immaginari» i risultati della ricerca. «I dati riferiti da questo centro non hanno alcun legame con la verità e con la realtà», ha detto. Dal 2005 il ministero degli interni iracheno ha iniziato a fornire mensilmente i dati delle vittime dell'ondata di violenza in Iraq. In base a questi dati, le vittime irachene - tra morti e feriti - sarebbero state 25.000 nel 2005, 30.000 nel 2006 e circa 15.000 nel 2007, per un totale di circa 70.000.

l’Unità 1.2.08
A Roma i Centoautori hanno incontrato Rutelli e Gentiloni. E sono preoccupati
Via Prodi, guai in vista per il cinema
di Lorenzo Tondo


Avremo una primavera televisiva come le cinque già ingioiate... Dio mio... La tele non basta tenerla spenta, penso ai disabili, a chi sta molto in casa». È scritto su un sms inviato da Bernardo Bertolucci al cellulare di Daniele Lucchetti, che lo ha letto ieri durante l’incontro alla libreria del cinema a Roma tra i Centoautori e gli ex ministri dei beni Culturali e delle Telecomunicazioni Francesco Rutelli e Paolo Gentiloni, il senso di preoccupazione di tanto cinema italiano dopo la caduta del governo Prodi. Caduta che pesa sul futuro della tanto agognata «legge sul cinema». Che ne sarà delle richieste e dei suggerimenti dei cineasti? Nonostante gli importanti passi avanti compiuti negli ultimi mesi, la fatidica «legge di sistema» rimane ancora un traguardo molto lontano.
È stato proprio questo il tema portante dell’appuntamento alla Libreria con una una consistente delegazione del cinema italiano: Marco Bellocchio, Paolo Virzì, Paolo Sorrentino, Linda Ferri, Cristina Comencini, Valerio Jalongo, Daniele Lucchetti - che fa da moderatore - e poi Silvio Orlando, Adriano Giannini e Riccardo Tozzi. Molti dei «Centoautori», diventati ormai più di mille, erano lì. Non sono disposti a piazzare sul bavero di un eventuale governo di centrodestra la medaglia del lavoro fin qui portato avanti.
«La nostra speranza è sopratutto quella di accompagnare un altro governo che sia sensibile ai temi della cultura, del cinema e dello spettacolo - dice il regista Jalongo - Avevamo cominciato a lavorare con questo governo, ottenendo delle cose molto importanti. Eravamo riusciti a portare a casa per la prima volta delle regole chiare per la televisione, obblighi di programmazione, obblighi di investimento». Vittorie quest'ultime ribadite da Rutelli, che parla di un «risultato storico. Abbiamo messo in campo più soldi spostando risorse su cinema e spettacolo. Abbiamo portato a casa il credito di imposta, che favorisce le produzioni indipendenti». Vittorie ottenute soprattutto grazie al movimento dei Centoautori che «ha svolto un ruolo importante per la fertilizzazione dell'azione politica». Gli artisti, pur riconoscendo la «validità» di alcuni provvedimenti assunti da governo Prodi, hanno però sollevato «le questioni insolute» sulla distribuzione delle pellicole indipendenti, sulle produzioni a basso costo e sul rapporto tra cinema e televisione. E manca soprattutto la «legge di sistema», arenata sullo scoglio parlamentare e obiettivo del lavoro fin qui svolto con il centrosinistra. Con il governo, secondo Luchetti, c’è stato «un sanissimo modo di lavorare». Il futuro non sembra però roseo, come esprime in modo emblematico Bertolucci all’inizio nel suo ironico sms: «Sono a Londra, se torno porto il mio qualificatissimo carrello (con cui il regista si aiuta per camminare n.d.r.) a piangere davanti ai resti del governo Prodi. Si chiamava Così? Rutelli è stato corretto, diglielo se io manco. Sono via da oltre un mese, che torno a fare?».

l’Unità 1.2.08
Olindo e Rosa perché ridono?
di Ferdinando Camon


Ma perché ridono? In aula si sentono fatti orribili, tra i più disumani che l’uomo abbia mai commesso, i protagonisti sono un uomo e una donna, compagni di vita, non malati di schizofrenia, ma sereni, limpidi e ridenti. Come se un’invisibile muraglia schermasse le parole, che attraversano noi e ci perforano, ma loro li lasciano intatti, non li sfiorano.
Noi siamo sgomenti, per quel che sentiamo.
Solo il sentirli ci umilia e ci prostra. Non abbiamo fatto quelle cose, ma sappiamo che le han fatte due uomini come noi, e il fatto che siano come noi ci fa vergognare, ci toglie il fiato e la parola.
Solo per averle lette e averle sentite, quelle cose, le coltellate alla gola, le mazzate sui crani, noi resteremo colpiti e depressi per tutta la nostra vita. Ci sono vecchi che dicono: «Mah, se la vita è così, tanto vale andarsene, il mondo è brutto». E loro, che quelle cose le han fatte, stando alle loro stesse confessioni, che han calato quelle bastonate e quei fendenti, parlottano tra di loro, indifferenti e imperturbati, leggeri nei pensieri e nei gesti, perfino, sto usando una parola che qui è una bestemmia, perfino delicati.
Lui abbandona la manona su un ginocchio, lei ci mette una manina sotto e una sopra, gliela chiude a sandwich. Gliela leviga. Lui ha un sorriso bloccato, nel quale, osando un po’, si può intravedere un’ombra di malinconia, che spero sia un principio di coscienza. Gli auguro che quel principio penetri in tutta la mente, la illumini e gliela devasti. Per il suo bene. Forse lei sente questo nostro pensiero, lo indovina: lui e lei formano un sistema chiuso come un blocco di granito, lei si accorge che noi abbiamo individuato una fessura, e la chiude con una risata. Il problema non è perché sorridono, ma perché ridono. Ride, lei, a bocca aperta, abbandona la testa indietro, mostra la gola pienotta, sussulta nella risata, poi gira la testa verso di noi e quindi la ritrae. Ha descritto un mezzo cerchio. Se voleva cancellare l’ombra di un cedimento, lo ha fatto a 180 gradi: sono in una gabbia, quegli sono i 180 gradi esposti a noi.
Dunque, perché ridono? Perché sono il contrario di quello che siamo noi. Noi sentiamo e vediamo nel processo, nella rievocazione dei fatti, nel racconto dei testimoni, quel che c’è: la strage, che ognuno compie a due mani, lei con una mano stende il bambino e con l’altra lo sgozza, prima una volta poi un’altra volta, lui che gira come una furia, un colpo e giù uno, altro colpo e giù un altro, come un ciclone.
Non è che noi stravediamo, semplicemente vediamo quel che c’è. Son loro che non lo vedono, non lo pensano. Sono oligofrenici. Olìgos vuol dire piccolo: possono pensare soltanto piccoli pensieri. In fondo, la strage è avvenuta soltanto un anno fa, e quell’orrore lo han confessato. Ma col piccolo pensiero che si ritrovano non arrivano indietro di un anno, e non escono oltre lo spazio della gabbia. Ridono perché si amano, e questo amore è tutto. Protestano per i flash, altro disturbo non hanno. Noi pensiamo che chi fa un grande male inglobi quel male, lo spieghi delirando, e che insomma sia un sistema col delirio incorporato. Il delirio lo pensiamo come un grumo contorto in cui i pensieri si aggrovigliano, fanno cortocircuito, e mandano il cervello in tilt. Siamo indotti, dalla nostra stupida cultura, a pensare che i cosiddetti mostri (termine per il quale Olindo e Rosa protestano, e secondo me giustamente) vadano al di là del bene e del male. Siano persone complicatissime. E invece sono vuote.
Non sono al di là, sono al di qua, il confine non sanno neanche dov’è. Maso? Un analfabeta. Erica? Una drogatina. Nadia Frigerio? Una bovarina di periferia (guardandomi disse: «Io all’ergastolo? Mai, a meno che non sia insieme con questo qui»). Serve condannarli? Come no: solo il carcere, con molta fatica, può far cadere scaglia dopo scaglia la crosta dell’indifferenza, e sotto si vedrà quel poco di umanità che deve pur esserci. Ma ci vorranno anni. Tanti anni. Forse, la vita intera.
fercamon@alice.it

Repubblica 1.2.08
La mia scelta di pace con la doppia cittadinanza
di Daniel Barenboim


Desideravano che io crescessi sentendomi parte di una maggioranza, una maggioranza ebraica. La tragedia insita in tutto ciò è che la mia generazione – quantunque sia stata educata in una società i cui aspetti positivi e i cui valori umani hanno sommamente arricchito il mio pensiero – ha ignorato l´esistenza di una minoranza dentro Israele stesso, una minoranza non-ebraica, che prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948 aveva rappresentato la maggioranza in tutta la Palestina. Una parte della popolazione non-ebraica era rimasta in Israele; gli altri erano stati tenuti fuori per paura o trasferiti con la forza.

Nel conflitto israelo-palestinese c´era e c´è tuttora un´incapacità precisa ad ammettere l´interdipendenza delle loro diverse opinioni. La creazione dello Stato di Israele nacque da un´idea ebraico-europea, e se deve proiettare la propria idea di fondo nel futuro, deve accettare l´identità palestinese come un´idea di fondo altrettanto valida. È impossibile non tener conto dello sviluppo demografico: i palestinesi in Israele sono un minoranza, ma una minoranza in rapida espansione e la loro voce deve essere ascoltata, oggi più che mai. Attualmente i palestinesi rappresentano il 22 per cento circa della popolazione di Israele: si tratta di una percentuale che supera quella della minoranza ebraica in qualsiasi Paese e in qualsiasi periodo storico. Il numero complessivo dei palestinesi che vivono in Israele e nei Territori occupati (quella che per gli israeliani è il "Grande Israele" e per i palestinesi la "Grande Palestina") già ora è superiore alla popolazione ebraica.

In questo periodo Israele è alle prese con tre problemi a uno stesso tempo: la natura dello Stato ebraico moderno democratico, ovvero la sua stessa identità; il problema dell´identità palestinese nell´ambito di Israele; e il problema della creazione di uno Stato palestinese fuori da Israele. Con Giordania ed Egitto fu possibile raggiungere quella che al meglio è definibile una pace gelida, senza mettere in discussione l´esistenza di Israele come Stato ebraico. Il problema dei palestinesi all´interno di Israele, tuttavia, è molto più complesso da risolvere, sia sul piano teorico sia sul piano pratico. Per Israele, oltre a molte altre cose, significa venire a patti col fatto che la terra non era disabitata o vuota, non era una "terra senza popolo", un´idea divulgata all´epoca della sua creazione. Per i palestinesi, significa accettare il fatto che Israele è uno Stato ebraico ed è lì per restarci.

Gli israeliani, con tutto ciò, devono accettare l´integrazione della minoranza palestinese, anche se questo significasse dover cambiare taluni aspetti della natura di Israele; devono altresì accettare le motivazioni e la necessità di fondo della creazione di uno Stato palestinese adiacente allo Stato di Israele. Non soltanto non vi è alternativa, né vi è una bacchetta magica che possa far scomparire i palestinesi, ma oltretutto la loro integrazione è una condizione imprescindibile – su presupposti di ordine morale, sociale e politico – per la sopravvivenza stessa di Israele. Quanto più a lungo durerà l´occupazione e quanto più a lungo rimarrà irrisolta l´insoddisfazione dei palestinesi, tanto più difficile sarà trovare un terreno comune di intesa anche solo elementare. Troppo spesso abbiamo già visto nella storia moderna del Medio Oriente che le opportunità di riconciliazione mancate hanno avuto risultati estremamente sfavorevoli per entrambe le parti in causa.

Da parte mia, quando mi è stato offerto il passaporto palestinese, l´ho accettato nell´ottica di un segno di riconoscimento per il destino palestinese che io, in quanto israeliano, ho in comune con loro. Un vero cittadino di Israele deve aiutare il popolo palestinese con disponibilità, e quanto meno nel tentativo di comprendere che cosa ha rappresentato per loro la creazione dello Stato di Israele. Il 15 maggio 1948 per gli ebrei è il giorno dell´Indipendenza, ma quello stesso giorno per i palestinesi è Al Nakba, il giorno della Catastrofe. Un vero cittadino di Israele deve chiedersi che cosa hanno fatto gli ebrei – noti per essere un popolo di cultura ed erudizione – per condividere il loro patrimonio culturale con i palestinesi. Un vero cittadino di Israele deve chiedersi perché i palestinesi siano condannati a vivere in baraccopoli e ad accettare standard inferiori di educazione e di assistenza medica, invece di ricevere dalle forze occupanti condizioni di vita decorose, dignitose e vivibili, diritto comune a tutti gli esseri umani.

In qualsiasi territorio occupato, infatti, l´occupante è responsabile della qualità della vita dell´occupato, e nel caso dei palestinesi i governi israeliani che si sono avvicendati negli ultimi 40 anni hanno miseramente fallito. I palestinesi naturalmente devono continuare a opporre resistenza all´occupazione e a qualsiasi tentativo di negare loro uno Stato e che le esigenze di base dell´individuo siano soddisfatte. Tuttavia, per il loro stesso bene, questa loro resistenza non deve assolutamente esprimersi per mezzo della violenza. Valicare il confine che esiste tra una resistenza risoluta (e che si esprima anche con proteste e dimostrazioni non violente) e la violenza vera e propria significa soltanto causare un numero maggiore di vittime innocenti, senza per altro servire gli interessi a lungo termine del popolo palestinese. Al contempo, i cittadini di Israele hanno altrettanti validi motivi per essere vigili nei confronti delle esigenze e dei diritti del popolo palestinese (sia dentro sia fuori il territorio di Israele), tanto quanto lo sono nei confronti di quelli del loro stesso popolo. Tutto considerato, visto che condividiamo una stessa terra e un comune destino, dovremmo possedere tutti la doppia cittadinanza.

Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 1.2.08
Pintoricchio. Un maestro della luce e del colore


Per Vasari era un artista fortunato ma privo di talento. Berenson ne liquidò l´opera come "intingolo ricco" per provinciali. Ora un´esposizione a Perugia rivendica l´originalità della sua ricerca
In esposizione un centinaio di opere tra cui molti disegni finora attribuiti a Perugino
La particolare lucentezza della pittura è dovuta alla polvere di vetro

PERUGIA. Potenza e sopravvivenza di un nome. Anche se la mostra che apre domani tra la Galleria Nazionale dell´Umbria di Perugia e Spello vuol dimostrare la grandezza della ricerca artistica del Pintoricchio (1456-1513), i palati raffinati della sua epoca non erano proprio di questa opinione. L´umanista perugino Francesco Maturanzio scrisse che, quanto a meriti artistici, Pintoricchio, da pictoricius (piccolo pittore), era secondo solo a Pietro Vannucci, più sfortunato però del "divin pittore" e soprannominato, aggiunse con sottigliezza, il "Sordicchio". Poco udente era lo stesso Pintoricchio che Vasari riteneva un uomo assai fortunato, baciato dalla sorte e la sua vita dimostra come la fortuna può avere "per figlioli" anche coloro che sono privi di virtù. Assai più tardi Bernard Berenson vide nella sua pittura "un intingolo ricco", più adatto ai gusti dei provinciali che dei bongustai.
Eppure Pintoricchio è entrato nell´immaginario collettivo. Nel film La banda degli onesti Totò ironicamente vedeva in Giacomo Furia, pittore di insegne di negozi, «un Pintoricchio seconda maniera». E Pintoricchio divenne, per una battuta dell´avvocato Agnelli, il soprannome di Alessandro Del Piero, il calciatore dal tiro che sembrava una pennellata.
Ora il vero Pintoricchio si celebra in Umbria con un centinaio di opere, una sequenza di mostre e l´arrivo a Perugia, a Palazzo Baldeschi al Corso, di una Madonna col Bambino acquistata a Vienna dalla locale Fondazione Cassa di Rispamio per festeggiare adeguatamente il 550° anniversario della nascita dell´artista (che in realtà è caduto due anni fa, essendo nato il Pintoricchio nel 1456). Spiega Vittoria Garibaldi, curatrice della mostra: «Dopo l´esposizione dedicata al Perugino, quella di Pintoricchio era una tappa obbligata, un approfondimento necessario per gli studi sull´arte umbra».
Perugino e Pintoricchio erano complementari?
«Vivono nello stesso periodo, hanno due modi di lavorare diversi, però in qualche modo complementari. Ognuno dipinge con le proprie caratteristiche, ma nessuno è inferiore all´altro. Sono due grandi talenti, non amati dal Vasari. Questa esposizione è importante. Tra l´altro, non era mai stata dedicata una mostra a Pintoricchio. Abbiamo colto l´occasione per raccogliere molte opere su tavola ed ora è quasi una monografica».
Pintoricchio era un grande disegnatore.
«Insieme ai dipinti, c´è una sezione della mostra dedicata ai disegni, una sezione importante perché ci fa capire cosa fosse la grafica per pittori come Pintoricchio e Perugino, e anche il rapporto con Raffaello. Molti disegni che un tempo passavano dall´uno all´altro vengono ora attribuiti al solo Pintoricchio. E´ un dato significativo, che internazionalizza l´artista. I disegni circolavano, erano un modo per trasmettere idee, modelli. Erano i nostri "sms", anzi funzionavano meglio. La mostra ovviamente è sviluppata cronologicamente, ma non ci sono cicli pittori o gli affreschi. I dipinti su tavola invece sono ben presenti. Presentiamo anche il frammento di Brescia di Raffaello, Perugino, gli artisti perugini di quell´epoca come Benedetto Bonfigli o il Caporale che crearono una stagione di grande vivacità. Forse è il momento più alto di Perugia, di grande esplosione artistiche».
Gli studi hanno portato a nuove scoperte?
«La Pala di Santa Maria dei Fossi del Pintoricchio, l´opera più importante della Galleria nazionale, è stata restaurata una decina di anni fa, ma rileggendo oggi documenti e opere abbiamo scoperto che la predella non è autografa. Secondo il contratto di allogazione doveva rappresentare Papa Alessandro Borgia, cardinali, vescovi. Ma non c´è questa raffigurazione. Francesco Mancini ha collegato la morte del Papa nel 1503 con una damnatio memoriae che probabilmente portò all´eliminazione della predella di Pintoricchio. Era cambiato il contesto, gli agostiniani scelsero un´iconografia a loro legata. Ma una grande importanza ha la carpenteria e il carpentiere».
Il maestro d´ascia?
«Sì, la Pala è una delle pochissime conservate con la carpenteria originale. Il carpentiere si chiamava Mattia di Tommaso da Reggio e poco dopo realizzò il Polittico di Sant´Agostino per il Perugino. Non era un semplice legnaiuolo, ma un architetto del legno in grado di realizzare strutture stabili».
Un´altra caratteristica del Pintoricchio sono i colori: i gialli, i rossi, gli azzurri accesi.
«Dalle ricerche abbiamo avuto la conferma della diffusione, a partire dal Perugino, della polvere di vetro. Anche Pintoricchio per dare particolare brillantezza ai pigmenti o alle lacche univa la polvere di vetro. La pittura diventava lucente, brillante. Pintoricchio fu ad ogni modo un vero ricercatore della luce e del colore. Purtroppo le lacche, l´oro, i lapislazzuli, sono in parte caduti e molti dipinti su tavola si leggono poco».
L´effetto era abbagliante.
«L´effetto era abbagliante, bastava lo scintillio di una candela per creare effetti straordinari, per dare un senso di meraviglia. Le opere di Pintoricchio, come sostenne Brandi, vanno viste in più momenti e con una visione a cannocchiale, ossia di approfondimento. Il nostro tentativo è quello di valorizzare i dettagli sia della Pala sia della Cappella Bella, dettagli come la locanda di Campo dei Fiori, dietro il trono della Vergine, che ricorda molto quelle odierne, con la sua tettoia, la tovaglia imbandita, i piatti, la gente che va a mangiare».

Repubblica 1.2.08
Fu un pioniere della maniera moderna Quel dettaglio capriccioso copiato dalla reggia di Nerone
di Antonio Pinelli


Mentre Perugino curava la geometria prospettica, Bernardino privilegiava l´effusione narrativa e la ricchezza dell´ornato
Alla rassegna allestitaa Palazzo dei Priori s´affiancano altri eventi lungo un itinerarioche tocca vari centrida Città di Castello a Spoleto, da Orvietoa Spello, dove si può ammirare la "Cappella Bella"
Fu il capofila della schiera degli "antiquari sfegatati" che sul Colle Oppio avevano l´abitudine di calarsi con le corde fino alla Domus Aurea

Replicando la fortunata formula policentrica sperimentata quattro anni fa con il kolossal espositivo dedicato al Perugino, l´Umbria celebra l´altro suo insigne maestro rinascimentale, Bernardino di Betto detto il Pintoricchio, con una grande mostra in Palazzo dei Priori, cui si affiancano un ghiotto "pacchetto" di eventi collaterali, lungo un itinerario che tocca vari centri della regione, dalla stessa Perugia a Città di Castello, da Trevi a Spoleto, da Orvieto a Spello, cittadina quest´ultima in cui si può ammirare il più genuino capolavoro del pittore in affresco: la Cappella Baglioni, altrimenti detta la "Cappella Bella".
Se Vasari non fu tenero con il Perugino, sottolineandone impietosamente il malinconico declino negli ultimi decenni di carriera, con Pintoricchio fu addirittura sprezzante, dichiarando che l´indubbio successo di cui godette in vita fu dovuto più alla "fortuna" che al "talento", e additandolo, in buona sostanza, come l´emblematico esponente di una cultura figurativa attardata, che si opponeva goffamente alle magnifiche e progressive sorti della "maniera moderna". Il più vistoso segnale di questo conservatorismo era, secondo Vasari, la gran quantità di ornati a rilievo in stucco dorato, disseminata da Pintoricchio nei suoi dipinti: «Usò molto di fare alle sue pitture ornamenti di rilievo messi d´oro, per sodisfare alle persone che poco di quell´arte intendevano, acciò avessono maggior lustro e veduta; il che è cosa goffissima nella pittura».
La condanna vasariana ha marchiato a fuoco la fortuna postuma del maestro umbro, condizionandone negativamente l´interpretazione e provocando un sostanziale misconoscimento del suo peculiare ruolo storico, che l´odierna mostra si propone giustamente di correggere. Ma in cosa aveva ragione Vasari, e in cosa aveva torto? Il suo punto di vista è quello di un artista che ha ormai alle spalle le formidabili conquiste espressive messe a segno da Bramante, Leonardo, Raffaello e Michelangelo, i quattro pilastri su cui si basa il grandioso edificio della "maniera moderna". Da questa angolazione, è naturale che Vasari considerasse gli ornati pintoricchieschi come una concessione al gusto di committenti ancora attratti dal fulgore degli ori e dalla tridimensionalità dello stucco: un pittore "moderno" non punta sull´intrinseco pregio né sul connaturato rilievo dei materiali che usa, ma sulla capacità di simulare l´uno e l´altro con la sua sapiente tavolozza, ricca solo di "poveri" colori.
Ha dunque ragione Vasari nel bollare Pintoricchio come un artista al tempo stesso attardato e compiacente, che lusinga il suo pubblico con un repertorio ornamentale nostalgico delle lussuose pastiglie e dei fondi oro cari al Gotico cortese? Sì e no, perché se è vero che nell´abbondante vena aneddotica del maestro umbro e nel suo gusto per le acconciature azzimate e gli ornati lucenti sembra rivivere lo spirito sontuosamente profano del Gotico Internazionale, è altrettanto vero che quelle stesse caratteristiche e soprattutto la profusione dell´oro e il ricorso allo stucco sono la spia di una "novità", che qualifica Pintoricchio come un artista all´avanguardia per la sua epoca. Quegli stucchi e quegli ori, infatti, egli li aveva potuti ammirare calandosi perigliosamente con le corde dai pertugi che, sul Colle Oppio, traforavano le volte delle sale, ancora interamente sepolte, della Domus Aurea. Egli infatti fu il capofila di quegli "antiquari sfegatati", per usare una colorita espressione coniata da Longhi, che lasciarono le loro firme graffite sugli umidi muri della reggia di Nerone, copiando al lume delle torce quegli esili ornati architettonici, brulicanti di lievi e fantasiose creature dipinte in punta di pennello, per poi rievocarle nelle loro tavole e nei loro affreschi "anticamente moderni".
In altri termini, Pintoricchio fu il primo e tra i più prolifici creatori della civiltà figurativa della «grottesca» (da «grotte», perché così erano denominate le sale interrate della Domus Aurea), e come tale può essere anch´egli a giusto titolo considerato un pioniere della "maniera moderna". Proprio come il Perugino, anche se su versanti diversi se non addirittura opposti. Mentre quest´ultimo si applicava infatti a questioni di carattere più strutturale, quali la saldezza plastica delle forme, la geometria prospettica e la sobria euritmia compositiva, Pintoricchio privilegiava l´effusione narrativa, la ricchezza e varietà dell´ornato, il gusto del dettaglio capriccioso, in linea con quella formazione in una bottega da miniatore che sembra davvero averlo marchiato in profondità, determinandone, oltre alla pennellata, fitta e minuta, la vivida nitidezza ottica e la straripante vena ornamentale della sua pittura.
Nato a Perugia intorno al 1455, Bernardino entrò nell´orbita di Bartolomeo Caporali e del suo fratello miniatore, Giapeco. Allora Perugia non era la Firenze di Verrocchio e Pollaiolo, dove si formò Perugino, ma la presenza di artisti del calibro di Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Giovanni Boccati e Domenico Veneziano ne faceva un crocevia tutt´altro che tagliato fuori dalle correnti più aggiornate.
Gli esordi del Pintoricchio, come del resto quelli del Perugino, sono tuttora alquanto oscuri e discussi.
All´inizio degli anni Ottanta, tuttavia, sia Perugino che Pintoricchio sono pittori affermati, tanto che il primo ha un ruolo di capofila e il secondo collabora con lui, ma in modo sostanzialmente autonomo, nella straordinaria decorazione che si dispiega sulle pareti della Cappella Sistina in Vaticano. Pintoricchio ha assimilato la lezione formale del Perugino, ma la declina a modo suo, popolando le composizioni di spiranti ritratti di contemporanei che esibiscono in pose compiaciute abiti sontuosi di impeccabile eleganza sartoriale, e rappresentando paesaggi brulicanti di dirupi muschiosi, rami spezzati, fogliami stormenti e picchiettati dai raggi di luce. È la cifra stilistica, che addizionata dall´esuberante germinazione di grottesche ornamentali esemplate sull´antico, assicurerà per due decenni la supremazia romana del Pintoricchio, capofila capace di amalgamare sotto la sua regìa un variegato e folto drappello di pittori convenuti da ogni dove, per allietare con cicli decorativi le pareti della Villa del Belvedere e degli Appartamenti Borgia in Vaticano, per non dire delle cappelle e dei palazzi di Roma e dintorni.
Nel frattempo Perugino domina la scena a Firenze e a Perugia, dove Pintoricchio tenta di giocare le sue carte ma con scarsa fortuna, a dispetto di capolavori come la spettacolosa macchina decorativa della pala di Santa Maria dei Fossi e l´acuto della "Cappella Bella" a Spello. Ma l´appoggio dei Borgia non basta: Perugino, che in questi anni a cavallo del secolo è legittimamente riconosciuto come il più alto esponente della "maniera moderna", gli fa terra bruciata intorno. Pintoricchio, però, ha ancora delle carte da giocare e troverà a Siena, città incline da sempre alle forbite e cesellate eleganze, il terreno congeniale per far attecchire la propria versione, più fantasiosa e fulgente, delle novità rinascimentali, riuscendo a portare a termine nella Libreria Piccolomini in Duomo un ultimo, strepitoso ciclo figurativo, nel quale si prenderà anche la soddisfazione di trarre profitto dalla collaborazione di un giovane allievo del suo rivale, dotato di un talento straripante: Raffaello.

Repubblica 1.2.08
‘68. Il bene e il male di quell´anno fatale
Quarant'anni fa esplodeva la contestazione in Europa
di Michele Serra


Fu una data che divise in modo netto il prima e il dopo. Cambiarono il costume e le idee
Una ventata di novità che il terrorismo inquinò con le sue pulsioni di morte

Le fotografie e i filmati delle prime manifestazioni studentesche, sul finire dei Sessanta, sono dominate da giacche e cravatte, camicie candide, capelli corti, occhiali con grosse montature. Gli universitari, in larghissima maggioranza maschi, hanno sembianze di adulti, paiono docili repliche dei loro padri impiegati, funzionari e operai, il colpo d´occhio antropologico e sociale non è molto dissimile da quello del vicino dopoguerra: in molte città italiane le macerie belliche ancora ingombrano alcuni isolati, in molte case il bucato si fa sempre a mano, i calciatori hanno maglie vergini in attesa dell´evo degli sponsor, le figurine si attaccano con la colla Coccoina, la televisione è in bianco e nero, si accende girando una grossa manopola e i canali sono appena due.
Appena si scavalla nei Settanta (il tempo brevissimo di un anno o due), l´immagine cambia radicalmente. Maglioni, barbe e capelli lunghi, jeans e giacconi militari, le stesse fisionomie fino a poco prima contenute nei canoni del decoro piccolo borghese sembrano quasi esplose, come ritratti che hanno spaccato una cornice troppo stretta.
Volendo riassumere all´osso, probabilmente il cosiddetto Sessantotto è stato fondamentalmente questo: una drammatizzazione-celebrazione collettiva del ripudio del Padre (a partire dalla sua immagine), estrema nei modi ma soprattutto nei tempi, concentrata in uno scorcio di vita individuale e sociale così breve da deflagrare con potenza impressionante. Mai più ripetuta. La gioventù, in virtù di un inedito benessere che preservava dal lavoro e concedeva il lusso o il vizio di pensare, provò ad autodefinirsi, a fissare i punti di una condizione umana nuova e sconosciuta tranne che nella sua ferrea determinazione a discostarsi dai costumi e dalle intenzioni degli adulti.
Per merito o per colpa delle rievocazioni di questo quarantennale, avremo modo di discutere fino alla nausea se quell´alluvione libertaria e ribelle (solo successivamente incanalata negli alti argini dell´ideologia) ha lasciato più rimpianti o più rimorsi. Se, cioè, ribellarsi ai divieti e alle norme, rinnegare l´obbedienza, e farlo fino allo stremo, sia stato "giusto" oppure "sbagliato". Se al vecchio ordine se ne sia sostituito uno più fantasioso e più sopportabile, oppure si siano gettate le fondamenta di un caotico individualismo narciso, ingordo di diritti e sordo a qualunque dovere.
Ma a monte di questa discussione, anche per non rischiare di trascinare il Sessantotto dentro il ring dei nostri attuali rovelli - che sono rovelli di quasi mezzo secolo più nuovi - mi sembra indispensabile dire questo: che se è vero - ed è vero - che quell´esplosione fu tanto rapida e potente da non lasciare quasi il tempo agli italiani di allora di capacitarsene, questo vuol dire che sopra la pentola c´era un coperchio pesantissimo. Nessuna esplosione può avvenire se non in seguito a una forte compressione.
Quanto al coperchio. Nel mio liceo milanese, il Manzoni, che pure era la scuola della buona borghesia della città allora più moderna e culturalmente avanzata d´Italia, le ragazze erano invitate dalle professoresse più solerti a non tenere i capelli sciolti, a non indossare i pantaloni, men che meno a truccarsi con quel poco di rimmel e di fard allora in circolazione. Nel 1966 tre studenti-modello del liceo classico Parini erano stati inquisiti dalla magistratura, e sospesi dalla scuola, per avere condotto sul giornalino d´istituto, la Zanzara, un´inchiesta sull´amore tra i giovani senza omettere brevi e garbati cenni sulla vita sessuale. In quello stesso decennio la siciliana Franca Viola era oggetto di qualche lode e di accese critiche (anche sulla televisione pubblica) per avere rifiutato di sposare il suo "rapitore", un mafioso di paese, disobbedendo a un´antica consuetudine di sottomissione. Il delitto d´onore era ampiamente in auge nel codice penale, con forte attenuante della pena. Non esisteva divorzio, e si abortiva clandestinamente dalle mammane di paese (le donne povere) o nelle cliniche private dei cosiddetti Cucchiai d´Oro (le donne ricche). Il certificato di buona condotta rilasciato dal parroco valeva ancora, e non solo al Sud, come viatico per l´assunzione, specie per le mansioni umili. Nelle fabbriche (in primis la Fiat) gli operai sindacalizzati erano schedati e malvisti. La dolce vita di Fellini aveva destato enorme scandalo e rischiato di non avere il visto della censura perché si parlava di suicidio. Il professor Aldo Braibanti, "reo" di avere una relazione omosessuale con un ragazzo consenziente e maggiorenne, venne processato e condannato per plagio da un tribunale della Repubblica, dopo avere sollevato grave scandalo, in quanto corruttore della gioventù, sui rotocalchi da parrucchiere come sui quotidiani nazionali.
Questo breve excursus era forse pedante, magari in parte tendenzioso. Ma necessario. Se si perdono la memoria, e la definizione storica, di come poteva apparire la società adulta di quegli anni a un ragazzo di qualche pensiero, di qualche inquietudine culturale, di qualche curiosità politica, non è possibile capire come sia potuto accadere (in Italia più ancora che in altri paesi occidentali) uno sconquasso così profondo. E il "gap" di cui sopra tra le foto del 1969 e quelle del 1971 apparirebbe incomprensibile, quasi un refuso nelle didascalie.
Con il senno di poi, siamo invece in grado di dire che il discrimine raccontato da quelle fotografie è stato davvero un discrimine d´epoca: le prime immagini, quelle dei ragazzi in giacca e cravatta, ci rimandano indietro, lungo il declivio che ci riconduce a ritroso verso il boom economico, la ricostruzione, il dopoguerra e la guerra. Le seconde già accennano all´oggi, basta andare davanti a un liceo del Duemila per scoprire che non c´è poi un grande scarto tra gli studenti di adesso e quelli degli anni Settanta, vestiti e musica si assomigliano, le pettinature anche.
Non è in discussione il fatto che anche il pre-Sessantotto ebbe le sue virtù (molte ci risultano più chiare adesso, e vorrei dire adesso che i nostri padri purtroppo non ci sono più). E nemmeno che anche il dopo-Sessantotto ha avuto i suoi vizi, alcuni dei quali sicuramente imputabili anche alla perdita di una bussola mai rimpiazzata da altri strumenti d´orientamento. Mi premeva soltanto chiedere, se possibile, che commemorazioni e maledizioni tengano ben presente in quale società, quale atmosfera, quali istituzioni politiche e religiose accadde che un gran numero di ragazzi gridassero enormità come "è vietato vietare", o "la famiglia è una camera a gas". Dell´Italia in bianco e nero possiamo rimpiangere infinite cose, l´eleganza, il quartetto Cetra, il cinema, Studio uno, Mina e Modugno. Ma rileggetevi, se ne avete la pazienza, il breve elenco di eventi degli Happy Sixties che ho citato poco fa, e chiedetevi se quell´Ordine e quella Morale meritavano di convogliare ancora un paio di generazioni di italiani lungo i binari di quella censura, di quella disciplina nelle fabbriche-caserma, di quella sessuofobia, di quella fragile ipocrisia.

Repubblica 1.2.08
L’America che sognava la pace e i nuovi diritti
di Todd Gitlin


Gli anni Sessanta sono una reincarnazione del valore anti autoritario che c´è già nella Rivoluzione americana. Il 1968 è davvero un tentativo di restaurare lo "spirito americano"
Barack Obama e Hillary Clinton non sarebbero oggi come sono senza le idee nate quell´anno

Trecentosessantacinque giorni di assoluta intensità. Lo ricordo così, il 1968, un anno in cui convergono e precipitano decenni di fatti e tensioni. È l´anno dell´offensiva del Tet, del massacro di My Lai, della candidatura di Eugene McCarthy, della rivolta alla Columbia, degli assassini di Robert Kennedy e di Martin Luther King, dei disordini alla Convention democratica di Chicago, della protesta di Miss America ad Atlantic City e dell´elezione di Richard Nixon. Sarebbe però un errore guardare a quell´anno come puro spettacolo, come un seguito di choc improvvisi che travolsero la nazione. Il 1968 deve essere inserito in un processo di più lunga durata. Ricordo per esempio con particolare forza gli scontri davanti a un bowling per soli bianchi a Orangeburg, South Carolina. La polizia uccise tre studenti neri. Nessun agente finì in carcere. Quei fatti indicano che il movimento per i diritti civili non inizia con il boicottaggio dei bus a Montgomery, e si conclude con il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Act del 1965. Ancora nel 1968 si poteva morire per ragioni razziali.
L´interpretazione del 1968 come un anno di eccessi e di eventi clamorosi e irripetibili - disordini, rivolte, sesso, droga, «le indulgenze di un´élite», come ebbe a dire Newt Gingrich - è servita soprattutto alla destra, per circoscrivere la portata di quei fatti. Questa interpretazione è servita alla classe dirigente per giudicare quegli eccessi immotivati, ingiustificati, non necessari. La storia americana è invece racconto del confronto tra un´autorità, spesso illegittima, e l´azione popolare, nell´interesse della libertà. Con il ‘68 entrano così in collisione forze che si erano sviluppate per decenni. Il ‘68 è un momento di rottura di equilibri e tensioni a lungo covate. Per certi versi, io lo vedo anche come il prodotto del movimento per i diritti civili degli afro-americani degli anni precedenti. È lì, in quella coalizione, che cresce anche la convinzione che l´azione sociale può vivere al di fuori dei canali istituzionali stabiliti. Questa percezione si generalizzò in seguito nei movimenti contro la guerra, per le donne, per i diritti degli omosessuali.
Certo, il 1968 è anche un anno di "wishful thinking", di pio desiderio, che portò all´esaltazione di personaggi e gruppi che avevano, come loro unica caratteristica, quella di essere "nemici dei nostri nemici". Penso per esempio a icone della sinistra come Che Guevara e le Black Panthers, che furono esaltati nella quasi totale ignoranza dei loro aspetti autoritari e violenti. Tutto ciò che aveva un sia pur vago sentore di establishment venne condannato. Gli standard intellettuali furono combattuti come elitarismo, le leggi come strumento di oppressione, le istituzioni come prigioni. Ma ciò fa parte della complessità della storia, della sua irriducibilità a formule e schemi. Nel 1968 la fede nell´azione sociale del movimento per i diritti civili e lo spirito di avventura intellettuale si intrecciarono a un senso di gioia e di disperata reazione alla guerra, al suprematismo bianco, all´obbedienza supina, al materialismo. Il risultato fu un ammutinamento generale, una liberazione che travolse l´ordine costituito. Talora, i fini furono violati dai mezzi scelti.
Non sono comunque d´accordo con quanti vedono nel radicalismo del ‘68 il punto più alto del relativismo che avrebbero messo in crisi la società americana. I movimenti degli anni Sessanta, erano sì simili a choc, ma avevano come loro ragione principale la reazione a un ordine oppressivo. L´America che pensava che il paese era un´entità unica, reagì con violenza, aggressività, ostilità. Per quell´America il patto sociale era fissato, stabilito; non valeva la pena di mettere a repentaglio l´esistente, bisognava conservare le istituzioni. La violenza della reazione si spiega proprio con l´intensità della sfida dei movimenti. I vari movimenti conservatori e neocon che si sono sviluppati in questi ultimi decenni, fino a Bush, si radicano proprio nella paura sollevata dal ‘68. Reagan, un maestro della reazione, venne eletto in California nel 1966 sulla base di un programma che mirava esplicitamente a contrastare il movimento nero e la rivolta nelle università. Nei successivi anni, quelli come lui riuscirono a generalizzare la paura, nazionalizzarono l´idea che gli Stati Uniti si trovassero sull´orlo di un baratro e che si dovesse tornare indietro.
Il ‘68 è per me anche un´altra cosa. È la riproposizione del dramma dell´Illuminismo, che sta nella collisione tra le forze dell´autonomia e quelle dell´autorità tradizionale. La Rivoluzione americana trasforma quel dramma in scontro tra colonialismo e indipendenza, ma è comunque incarnazione dell´ideale illuministico. L´essenza della Rivoluzione americana risiede nel principio che ognuno di noi deve assumere il controllo della sua vita per perseguire felicità e virtù. Gli anni Sessanta sono una reincarnazione di quell´idea, la reincarnazione del valore antiautoritario che c´è già nella Rivoluzione americana. Il 1968 è davvero un tentativo di restaurare lo "spirito americano". Si può discutere degli errori di tutto quel periodo, ma il bene di quell´immane sforzo - per un allargamento della democrazia e della libertà - supera di gran lunga il male. La prospettiva storica, oggi, ci mostra proprio quanto di quelle promesse non è stato realizzato.
Certo, a quarant´anni di distanza è forse ancora troppo presto per dire cosa resta. Io so cosa, personalmente, mi porto dietro, dell´esperienza di presidente degli "Students for a Democratic Society" e militante per i diritti civili: la necessità di rinnovarmi, l´apertura della storia. Poi mi guardo attorno, e mi trovo a pensare che almeno due dei candidati - Barack Obama e Hillary Clinton - non potrebbero essere in corsa, oggi, senza le storie, le idee, gli uomini del 1968. C´è una frase di William Blake che ho citato di recente, e che mi pare appropriatissima per ricordare il 1968: «La strada dell´eccesso, avendo calpestato la terra dell´innocenza, può ancora condurre al palazzo della saggezza».
(testo raccolto da Roberto Festa)

Repubblica 1.2.08
Quel vecchio mondo che volevamo cambiare
Intervista a Daniel Cohn-Bendit: "Fu una rivolta, non una rivoluzione"


Il movimento ha suscitato reazioni virulente perché ha messo in discussione quello che prima si dava per scontato: cioè che il potere si deteneva per una sorta di diritto naturale

BERLINO. Quarant´anni dopo, le forze politiche che criticano il Sessantotto con particolare virulenza sembrano in rimonta in Italia. È triste». Daniel Cohn-Bendit, leader transnazionale francotedesco di quella rivolta giovanile, accetta volentieri di parlare ma si aggancia subito al presente. «È il solito modo di trattare chi cerca nuove via della politica: il vecchio pensiero politico vuole sempre vendicarsi, oggi come allora».
Cioè secondo lei i vostri avversari sarebbero lupi che perdono il pelo ma non il vizio?
«Oggi come ieri, il problema è che negli anni Sessanta il vecchio mondo ha avuto tanta paura. Intendiamoci: quarant´anni fa noi giovani ribelli dicemmo un sacco di cose sbagliate. Ma il vecchio mondo aveva tanta, tanta paura di perdere il potere. Quella paura produsse bisogni di vendetta che mai, neanche oggi, quarant´anni dopo, si sono spenti. Certi conservatori parlano di allora come se affrontassero oggi gli stessi problemi e sfide di allora».
Perché tanta paura del ricordo del ´68, persino oggi, dopo la fine della Guerra fredda?
«Perché allora si impose una considerazione che torna sempre problematica. Che cioè l´ordine del potere – chi comanda e chi no – fu messa in discussione. I conservatori pensano sempre che il potere sia loro concesso: Sarkozy, Berlusconi, Bush, Putin o il Pc cinese, la pensano così. Il Sessantotto ha lanciato l´idea che sulla politica si può e si deve discutere, che non c´è un ordine naturale».
È il significato e messaggio principale che resta del Sessantotto?
«Il Sessantotto è passato. Non possiamo paragonare la società di oggi a quella degli anni Sessanta. Uno dei momenti centrali della lotta dei sessantottini, cioè l´autonomia dell´individuo, si è diffusa nella società. L´idea della libertà dell´individuo, del suo diritto di decidere da solo della sua vita, individuale, sociale, sessuale, insomma l´idea di una società libertaria e libera, si è fatta strada. Non ovunque: non nella Chiesa, ad esempio.
Visto dagli occhi di un ex leader del ´68, Ratzinger è diverso da Wojtyla?
«Karol Wojtyla era in una contraddizione. Per la lotta per la libertà era molto vicino ai sessantottini polacchi, a cominciare da Michnik, ma non accettò mai la dimensione emancipatoria del Sessantotto nella vita privata. A Ratzinger invece non è mai successo nella vita di trovarsi a fianco di giovani rivoluzionari. La Chiesa come istituzione deve ancora affrontare una simile rivolta. Me l´aspetto: la Chiesa come l´Islam e altre religioni, deve accettare molte acquisizioni del mondo moderno. Verità fastidiosa per i Buttiglione o i neocon americani, ma è così».
Il Sessantotto ha cambiato la Germania più di altre società?
«A suo modo sì. Perché i sessantottini tedeschi – magari non tutti, ma alcuni leader – pur non sentendosi pentiti verso il passato ribelle hanno ridefinito il loro rapporto con istituzioni e valori democratici».
Gente come lei e Joschka Fischer?
«Per esempio. Abbiamo coniugato il Sessantotto ribelle con Hannah Arendt».
Ma poi venne la restaurazione: de Gaulle, gli Usa, l´Italia. Il Sessantotto come grande sconfitto? Il Sessantotto come rivoluzione vinta ma feconda, come il ´56 polacco e ungherese o il Sessantotto di Michnik a Varsavia o di Dubcek a Praga?
"No, perché il Sessantotto non fu una rivoluzione bensì una rivolta. Ma chi visse il Sessantotto senza unirvi Hannah Arendt approdò alla deriva degli Anni di piombo, al Terrore. I Sessantottini hanno anche una responsabilità politica e morale per il terrorismo. In ogni rivolta c´è sempre un momento di rivendicazione assoluta, pericoloso perché non democratico. È vitale ricordarlo se vogliamo una necessaria resa dei conti positive con il nostro movimento di allora».
Cosa rimpiange o deplora del Sessantotto?
«Deplorare è il falso livello del dibattito. Chiediamoci cosa abbiamo imparato. Che una dialettica tra movimenti sociali e culturali e democrazia politica è irrinunciabile. E che il movimento soffrì della contraddizione tra spinta libertaria e ideologie totalitarie. Lottare per una società libera in nome della rivoluzione culturale cinese, del totalitarismo cubano o della Corea del Nord, si rende conto?».
Peccato originale imperdonabile?
«No, l´errore fu credere che fosse una rivoluzione, invece era una rivolta. Il movimento aveva molti volti, in parte era troppo realista. La rivolta ha cambiato la società. Quindi non ha perso, come rivolta: doveva perdere e ha perso se si credeva rivoluzione. Ma non lo era, insisto. E in parte ha riformato le nostre società e ha portato a una nuova autocoscienza».
Chi ne sono gli eredi? I no global?
«Tutti possono richiamarsi al Sessantotto. O molti. I no global cercano di porre questioni importanti, ma corrono gli stessi rischi che corremo noi, affrontano oggi le nostre contraddizioni di allora: minaccia di una ideologia unidimensionale e totalitaria che può svilupparsi in radicalismo».
Qual è il suo ricordo più bello di quell´anno?
«Quando mi fu proibito l´ingresso in Francia. A Parigi centinaia di migliaia di persone in piazza – francesi e no, ebrei e no, comunisti e cattolici, laici e musulmani – gridarono "siamo tutti ebrei tedeschi". Fu uno dei momenti più belli del movimento».
E il ricordo peggiore?
«Quando al corteo della maggioranza silenziosa per de Gaulle, la destra in piazza sugli Champs-Elysees, gridarono "Cohn-Bendit a Dachau". C´era intolleranza da ambo le parti allora, oggi troppo spesso lo si dimentica. Non a caso, insisto, gli anti-68 di ieri hanno oggi come allora la stessa paura di sviluppi che non possono controllare. Ecco perché certe reazioni ostili oggi al ricordo di quella nostra rivolta, quando eravamo giovani 40 anni fa. 40 anni insieme presenti e lontani».

Corriere della Sera 1.2.08
Figli concepiti senza il papà
Test sui topi in Gran Bretagna, sperma da cellule del midollo femminile
di Mario Pappagallo


Un gruppo di scienziati inglesi ha chiesto il permesso di continuare la sperimentazione sulle persone

MILANO — Fare figli senza bisogno delle cellule riproduttive di un partner. Dalla cellula staminale di una donna si crea lo sperma, poi con questo si feconda un ovulo della stessa donna. Risultato: nasce una bambina «clone» della mamma, con il patrimonio genetico (XX per una femmina) dato dalla stessa persona. La stessa tecnica può anche permettere la nascita di una bambina da due donne, o di un bambino/bambina da due uomini, o di un figlio clone da un uomo. Ma negli ultimi due casi si dovrebbe ricorrere comunque a un «utero in affitto ». E' quanto prospettano ricercatori inglesi che sarebbero riusciti, nei topi, a creare spermatozoi «femminili» da cellule staminali adulte prelevate dal midollo osseo. L'annuncio sulla rivista New Scientist che racconta della nuova sfida in fatto di fecondazione artificiale. E dei laboratori nel mondo che vi stanno lavorando. Una sfida che nasconde l'obiettivo di una clonazione un po' più «naturale»...
Per ora esperimenti solo sui topi. In Brasile, l'Istituto Butantan di San Paolo sarebbe riuscito a sviluppare ovuli e spermatozoi utilizzando cellule staminali di embrioni di cavie maschio. L'équipe, guidata da Irina Kerkis, non è però ancora riuscita a dimostrare la fertilità degli ovuli ottenuti a partire da cellule maschili. E' un'altra, però, l'équipe che ha destato l'attenzione di New Scientist. E' quella inglese della Newcastle Upon Tyne University, guidata dal biologo Karim Nayernia: avrebbe trasformato cellule staminali femminili del midollo osseo in spermatozoi. Nayernia annuncia ad effetto: «Tra cinque anni sarà possibile la riproduzione omosessuale ». E chiede l'autorizzazione a portare avanti gli esperimenti.
Le perplessità non mancano: interrogativi sulla possibilità effettiva di creare una vita artificiale, ma soprattutto dubbi etici. Lo scoglio da superare è la creazione dello sperma a partire da cellule femminili, che mancano del cromosoma Y in cui risiedono i geni che determinano il sesso maschile.
«Sono molto perplesso — commenta Giulio Cossu, docente di Istologia dell'università Statale di Milano e ricercatore del San Raffaele proprio nel campo delle staminali —. Riuscire a trasformare una staminale in una delle cellule tra le più specializzate, come lo spermatozoo, è strabiliante. Se è vero, è strabiliante». Forse una fortunata coincidenza.
Sperma dal midollo della donna, che renderebbe di fatto l'uomo «superfluo» per la procreazione, ma anche ovuli dal midollo di un uomo, che però non potrebbe mai fare del tutto «da sé». Come ha fatto Nayernia a ottenere questa sorta di «autoriproduzione»? Grazie a un massiccio bombardamento di sostanze chimiche e vitamine (ma qualcosa viene tenuto nascosto, ndr) per «convincere» le staminali adulte del midollo osseo a diventare spermatozoi o ovuli in grado di fecondare o essere fecondati. Il biologo inglese garantisce: «Due anni per avere "sperma femminile" immaturo, cinque per la prima cellula spermatica feconda autoprodotta da una donna». Ovviamente, da una donna solo sperma femminile. Ma alle lesbiche poco importa. Anzi.
Dal punto di vista medico, quali i vantaggi attesi? Innanzitutto, creare staminali da donatori adulti senza dover ricorrere agli embrioni. Poi, la possibilità di procreare per malati di cancro divenuti sterili o per coppie infertili in assoluto.
I dubbi però non sono solo etici. Ve ne sono anche di natura scientifica, perché i topi che hanno fatto da cavia avrebbero manifestato problemi di salute alcuni mesi dopo gli esperimenti. Quindi, ancora molto da studiare. Forse cinque anni sono pochi. Eppoi c'è il discorso clonazione. Ai più è sfuggito. Dice Claudio Bordignon, esperto internazionale di staminali: «Abbiamo acquisito molta esperienza nella tecnica che ha portato alla pecora Dolly, senza però risolvere i molti problemi riscontrati negli animali clonati. Arrivare invece a un embrione clone concepito dall'unione di uno spermatozoo e di un ovulo che hanno identica informazione genetica potrebbe essere una novità concettuale non indifferente».

Corriere della Sera 1.2.08
Il genetista. Una speranza anti sterilità (con un dubbio etico)
di Edoardo Boncinelli


Le conseguenze
Una donna potrebbe con questa tecnica mettere incinta la compagna omosessuale

Le cellule del nostro corpo si dividono in due grandi categorie: le somatiche e quelle della linea germinale. Le prime costituiscono la gran massa del nostro corpo e ci fanno vivere. Le seconde sono messe da parte molto presto durante lo sviluppo embrionale e sono destinate solo a produrre i gameti: gli spermatozoi nel maschio e le cellule-uovo nelle femmine. Si tratta di due universi separati. Durante la vita alle cellule somatiche possono succedere le cose più strane, ma fino a che questi cambiamenti non raggiungono le cellule della linea germinale, non verranno ereditati dai figli e dai nipoti. Insomma la linea germinale è il tesoro nascosto, gelosamente custodito, del nostro corpo e della nostra vita. Sono la nostra immortalità biologica.
In tutti i discorsi fatti in questi ultimi anni sulle staminali, si è sempre assunto implicitamente che si trattasse di produrre per questa via popolazioni di nuove cellule somatiche. Sono rarissimi i casi nei quali un gruppo di ricerca si è dedicato alla produzione di cellule della linea germinale o direttamente dei gameti. La notizia di ieri si riferisce proprio a qualcosa del genere, la produzione di gameti o di pre-gameti a partire da cellule adulte. Scientificamente è molto interessante e promettente, perché fa intravedere la soluzione di un formidabile problema biologico. Con questa impresa si completerebbe in sostanza il quadro della produzione ex novo di cellule del nostro corpo, di ogni tipo di cellula del nostro corpo. E scusate se è poco. E' evidente l'utilità di produrre gameti per una persona che non sa farlo o che lo fa imperfettamente. Il numero e la varietà delle forme di sterilità sono tali e tanti che la possibilità di far produrre gameti a persone che non lo possono fare, appare una sorta di miraggio, soprattutto in considerazione dell'attuale sensibile aumento delle sterilità maschili.
Ma c'è sempre un ma. Anzi due: uno tecnico e uno etico- sociale. Il problema tecnico riguarda la cosiddetta «ricombinazione », un fenomeno genetico che interessa le cellule germinali prodotte per via normale. Prodotti in questa nuova maniera, questi gameti non subirebbero la ricombinazione e non sarebbero quindi «normali » a tutti gli effetti. Il problema etico-sociale riguarda invece la possibilità che così si apre di produrre gameti, e in particolare spermatozoi, da parte di persone che normalmente non lo farebbero affatto, nemmeno per via ordinaria. Una donna di una coppia omosessuale potrebbe in questa maniera produrre spermatozoi con i quali si potrebbero fecondare le cellule-uovo della compagna. Da una parte è un grande incremento di libertà — la scienza è libertà — dall'altra solleva problemi sociali difficili da ignorare. Ai posteri l'ardua sentenza.

Corriere della Sera 1.2.08
Graffiti millenari sfregiati dai soldati di pace. L'Onu chiede scusa
di G. Sant.


LONDRA — Le Nazioni Unite hanno dovuto chiedere scusa al Fronte Polisario, il movimento independentista del Sahara Occidentale, per gli sfregi lasciati dai soldati di pace sui graffiti preistorici di un famoso sito nel deserto noto come la Montagna del Diavolo. I dirigenti del popolo sahrawi avevano denunciato il caso da mesi, ma c'è voluto un articolo del Times per spingere il Palazzo di Vetro a intervenire con un comunicato nel quali si «riconosce che le informazioni disponibili provenienti da certi siti suggeriscono che alcuni dei graffiti presenti (sulle pitture rupestri) sono opera del personale militare Minurso».
Non si poteva più tacere di fronte all'evidenza delle foto che mostrano le scritte lasciate dai militari: sulle figure stilizzate di giraffe, leoni e cacciatori di seimila anni fa sono state tracciate con la vernice spray scritte come «Petar, Esercito Croato», «Ahmed, Egitto», «Evgeny, Russia». Un maggiore del contingente venuto dall'Etiopia oltre al nome, Issa, ha pensato bene di tracciare anche la data e il numero di matricola: si è accertato che aveva appena completato un corso dell'Onu in «Etica del peacekeeping ». Vandali e stupidi, dunque, perché i caschi blu con le loro firme hanno reso semplice l'identificazione. Il ministero della Difesa di Zagabria, che ha schierato nel Sahara sette soldati, ha già promesso che il colpevole sarà punito.
Il Palazzo di Vetro di New York sostiene che molti degli insulti al patrimonio culturale sahrawi sono stati commessi da «altre persone nel corso degli anni». Anche il professor Noureddine Dharif, attivista dei diritti umani ha confermato la situazione da Laayoune nel Sahara Occidentale: «Oltre che dal personale delle Nazioni Unite le nostre ricchezze culturali sono state deturpate da turisti europei e trafficanti d'arte che hanno staccato parti di rocce con le pitture preistoriche per contrabbandarle e venderle ».
Julian Hartson, il funzionario britannico che rappresenta il segretario generale dell'Onu nella regione ha detto al Times
di essere scioccato, perché «il personale che abbiamo qui è composto da ufficiali istruiti, non da soldati semplici. E oltretutto hanno rovinato il sito lasciando praticamente un biglietto da visita».
Lo scandalo rilancia i dubbi sull'adeguatezza del personale inviato in missione sotto la bandiera dell'Onu: negli ultimi tre anni circa 200 caschi blu sono finiti sotto inchiesta per abusi sessuali e traffico d'armi compiuti nelle terre che dovevano pacificare. Il Sahara Occidentale, ex colonia di Madrid, è stato annesso dal Marocco nel 1975 quando gli spagnoli si ritirarono con la fine del franchismo. Da allora i sahrawi del Fronte Polisario si sono battuti per vent'anni per ottenere l'indipendenza, sostenuti dall'Algeria. La regione sulla costa atlantica dell'Africa è ricca di fosfati e potenzialmente possiede giacimenti petroliferi offshore. Nel 1991 il cessate il fuoco e l'invio della Minurso (la Missione Onu). I sahrawi invocano un referendum per l'autodeterminazione, il Marocco offre autonomia sotto sovranità del governo di Rabat. I negoziati dovrebbero riprendere a marzo.

Liberazione 1.2.08
Bertinotti: «Legislatura politicamente finita»
La sfida è: Veltrusconi o sinistra
di Piero Sansonetti


Le probabilità che Franco Marini riesca a formare un governo, al momento, sembrano poche. I partiti dell'opposizione - tutti - confermano il loro non interesse a permettere il rinvio delle elezioni di qualche settimane e il varo di una legge elettorale un po' meno indecente della legge attuale. Non gliene fraga niente. Ma non è nemmeno questo l'ostacolo principale per il presidente del Senato; l'ostacolo principale gli viene dal suo partito, cioè dal Pd. Il Pd conferma la sua vocazione "destabilizzante". I suoi problemi interni e le sue incertezze di linea hanno favorito la crisi e ora ne rendono difficile la soluzione. Le uscite di Veltroni e D'Alema che tornano a prospettare l'anticipo del referendum elettorale, e lo usano come una clava per minacciare i partiti alleati, oggettivamente è un siluro verso il lavoro di Marini. Perché? Diciamo che il referendum è stato concepito per cancellare i partiti piccoli e indebolire moltissimo i partiti di media grandezza. E' difficile dire a questi partiti: «Vi offriamo di mettere in piedi un governo che non servirà a fare una legge elettorale buona e democratica, ma servirà invece a far celebrare il referendum che vi colpirà mortalmente. Siete D'accordo?». E' abbastanza complicato che i partiti interpellati rispondano: «Ma certo signor Veltroni, certo signor D'Alema, siamo qui per questo, per suicidarci...». Veltroni e D'Alema sanno benissimo che le cose stanno così. E dunque, nel momento nel quale dichiarano di volere un governo che permetta il referendum, di fatto liquidano le possibilità di formare questo governo e spingono per le elezioni anticipate subito, e con la legge attuale.
Converrà forse fermarsi un momento a spiegare cosa prevede questo referendum. Prevede una sola sostanziale correzione alla legge attuale (peggiorativa): che alla lista che otterrà la maggioranza relativa dei voti (qualunque sia questa maggioranza relativa, anche il 25 o magari il 20 per cento) sarà assegnato il 55 per cento dei seggi parlamentari. Cosa vuol dire? Che il potere legislativo (rappresentativo) sarà interamente sequestrato da un solo partito, e che i piccoli partiti, se vogliono avereanche solo la possibilità di accedere al governo, devono accettare la propria subalternità ai partiti più grandi, senza porre condizioni e senza poter trattare né sugli equilibri né sui programmi politici. Non ci sono molti precedenti nella storia italiana. Qualcuno dice che una legge così assomiglia alla famosa legge-truffa voluta nel '53 da De Gasperi, ma poi bocciata dalle urne. Però non è vero, perché quella legge assegnava un cospicuo premio di maggioranza solo a chi superasse il 50 per cento dei voti. Era meno prepotente. L'unico precedente vero è la legge-Acerbo, fatta votare da Mussolini nel '23, che assegnava il premio di maggioranza a chiunque superasse il 25 per cento dei voti. La legge-Acerbo (che diede la maggioranza parlamentare del 75% a Mussolini) fu usata una sola volta, nel '24: poi in Italia non si votò più, come forse sapete, per vent'anni...
Dunque - dato il no pronunciato ieri sera da Mastella a Marini, dato che Dini è ormai schierato col centrodestra, date le posizioni del Pd, non sembra che Marini abbia via d'uscita e l'inizio della campagna elettorale appare vicinissimo. Che campagna elettorale sarà?
Un po' balorda, un po' truccata. Perché? Gli schieramenti che si contrapporranno saranno tre. Il centrodestra, unito dietro Berlusconi; il centro di Veltroni; la sinistra, che probabilmente sarà guidata da Bertinotti. Quale sarà la differenza di programmi tra questi tre schieramenti? Il centrodestra e il centro presenteranno ricette quasi uguali per l'economia, basate sulla flessibilità (e dunque contenimento dei salari e dei diritti dei lavoratori) e sulla competitività (e dunque aiuti cospicui alle imprese sia in termini di soldi che di regole). La sinistra proporrà soluzioni opposte: redistribuzione delle ricchezze (tenendo conto che tutti gli studi di questi anni dicono che si è creata una sproporzione pazzesca tra profitti e rendite da una parte e salari e stipendi dall'altra), allargamento dei diritti del lavoro, politica industriale fondata sulla ricerca e sull'innovazione e non sulla riduzione del costo del lavoro. Sui temi dei diritti civili e dei grandi valori di laicità e di liberazione delle relazioni tra le persone e tra i sessi, le cose non cambiano: come hanno dimostrato le recenti polemiche sul papa all'Università (e la criminalizzazione degli intellettuali che si sono opposti) destra e Pd non hanno idee molto diverse. Pensano che sia giusta una qualche egemonia della Chiesa, con le sue concezioni che prevedono la subalternità della donna, una certa persecuzione degli omosessuali, la negazione della libertà sessuale e il ridimensionamento della libertà di pensiero. Sull'altro fornte c'è la sinistra e i partiti laici (ma non si sa che scelte di schieramento faranno i socialisti e i radicali) che pensano l'opposto.
E dopo le elezioni cosa succederà? E' molto probabile che il centrodestra vincerà - data la scelta del Pd di correre solo, per spostarsi a destra e rifiutare alleanze- ma la sua vittoria non sarà clamorosa. E in Senato resterà una situazione di equilibrio. A quel punto, dicono molte voci anche interne al Pd, si farà l'alleanza tra Pd e Berlusconi. Il famoso Veltrusconi- termine spiritoso inventato da questo giornale ma che ormai è entrato nel gergo politico - divcenterà realtà.
La partita elettorale sarà questa. Veltrusconi, potentissimo, contro una sinistra che non vuol mollare e pretende di dare al paese una possibilità di opposizione. Partita difficilissima: varrà la pena di metterci cuore, corpo e anima.

Liberazione 1.2.08
Il successo della Linke cambia il panorama politico in Germania
di Paola Giaculli


Berlino. La Germania si sposta a sinistra. È questa l'analisi di autorevoli o popolari organi di stampa e osservatori politici, che vedono in DIE LINKE la vera novità di questa tornata elettorale. Per la prima volta il partito della sinistra entra in parlamenti di regioni dell'ovest. Già presente nella città stato di Brema, lo sfondamento in Bassa Sassonia con il 7,1%, ma soprattutto nella conservatrice Assia dove arriva al 5,1%, sono risultati clamorosi.
Lothar Bisky, presidente del partito insieme a Oskar Lafontaine ha definito il traguardo raggiunto la scorsa domenica «Una pietra miliare», ma soprattuto è un risultato che cambia le sorti della sinistra e addirittura del paese dove vige, ormai, un sistema a cinque partiti, e con l'insediamento definitivo a ovest di un partito a sinistra della socialdemocrazia, rappresenta una novità nella storia del dopoguerra. DIE LINKE si rafforza in virtù dei temi sociali che riesce a imporre nel dibattito politico, sospingendo la Spd più a sinistra, e che cerca, anche se gradualmente, di allontanarsi, dal neoliberismo assolutista che ha caratterizzato l'era Schröder. Politiche che hanno creato sfiducia anche nell'elettorato più fedele della Spd: prevedibile in un paese con uno stato sociale tradizionalmente forte e un tenore di vita medio abbastanza elevato, che si trova di fronte ad un impoverimento accelerato della popolazione e che colpisce soprattutto i ceti medi.
I toni razzisti, anticomunisti e populisti da guerra fredda ("LINKE riporta la Ddr e il muro", etc.), a cui il candidato CDU Koch, ormai ex governatore dell'Assia, aveva affidato la sua campagna elettorale, si sono rivelati un boomerang per il democristiano, comunque troppo aggressivo anche per il partito della cancelliera Angela Merkel. Il governatore CDU della bassa Sassonia Wulff, ha perso (42,5 contro 48,5), ma, a fronte anche di una SPD più defilata e in calo (da 33,4 a 30,3). In Assia, si mantiene in sella grazie alla sua moderazione. Tanto da spingere alcuni analisti conservatori a lamentarsi di uno spostamento a sinistra anche della CDU.
Si chiude così il ciclo inaugurato dall'ex cancelliere democristiano Kohl,artefice nel 1990 della riunificazione di fatto del paese, in realtà mancata con l'esclusione del popolo dell'est, che in gran parte affidava le proprie speranze alla Pds. A oltre 17 anni da quella annessione dell'ovest sull'est, l'anticomunismo è finalmente archiviato: in Assia per nove anni in mano alla CDU, contribuiscono al clamoroso 5,1% di DIE LINKE 16.000 ex votanti della CDU, 31.000 della Spd, 18.000 dei Verdi, 5.000 dei Liberali-FDP, 26.000 da altre formazioni minori e locali e altrettanti 26.000 dall'astensionismo. Oltre alla SPD, che raggiunge la CDU (36,7, +7,6, contro 36,8), anche DIE LINKE concorre quindi al crollo della CDU (-12). A "tirare" sono i temi sociali e ambientali, ed è per questo che l'elettorato premia sia SPD che DIE LINKE. Fallita quindi la logica del "voto utile": per cacciare Koch, non basta la Spd, nonstante la sua candidata, Andrea Ypsilanti, abbia da smpre osteggiato la famigerata Agenda 2010 di Schröder. Insomma, il voto alla DIE LINKE è utile sia ai numeri che alla politica, e il suo successo non ridimensiona quello della Spd.
È il partito di Bisky e Lafontaine che però ha cambiato le priorità: le sue campagne sul salario minimo, un'istruzione popolare e gratuita, contro la riforma delle pensioni e dei sussidi sociali, hanno suggerito alla SPD i suoi "nuovi" cavalli di battaglia elettorali. La situazione di stallo apparente sulla futura coalizione di governo, dovuta alla nuova ripartizione della "torta" parlamentare in Assia, per l'ingresso di DIE LINKE, deve far riflettere: prima o poi ci si dovrà rassegnare all'idea che è impossibile escludere a priori partiti entrati a pieno titolo in parlamento. È la politica a vincere, e infatti non ci sono i numeri sufficienti per una coalizione CDU-Liberali, né per SPD e Verdi (dal 10,1 al 7,5), mentre invece è ipotizzabile un asse rosso-rosso-verde (SPD-LINKE-Verdi), che Ypsilanti ha ottusamente escluso in partenza, confidando nel fatto che DIE LINKE sarebbe rimasta fuori. Del resto, a ben guardare, la maggioranza nel paese è a sinistra da tempo. E la große Koalition , come si vede, non gode certamente di un elevato indice di gradimento. Insomma o si cambiano le politiche o non si governa: Andrea Ypsilanti può anche voler sommare volgarmente mele e pere, ma, certamente, se governa con i liberali si può scordare la chiusura delle centrali nucleari, l'energia eolica e solare, l'istruzione popolare, il blocco delle speculazioni edilizie intorno all'ampliamento dell'aeroporto di Francoforte. Questo ragionamento potrebbe far riflettere anche chi in Italia, non vede di buon occhio il sistema elettorale tedesco.
Il successo della sinistra intercetta e porta in parlamento i bisogni e i desideri della maggior parte della popolazione tedesca, che al 70% è contro le missioni militari all'estero e critica le politiche antisociali. Non è un caso che i sondaggi rilevino che i conflitti sociali godono di un appoggio quasi incondizionato (comunque superiore al 60%): come nel caso dei pur lunghissimi scioperi dei macchinisti - una vera e propria rottura di un tabù in Germania - o del recente "scandalo" di Nokia che ha trasferito in Romania lo stabilimento tedesco di Bochum a fronte di un utile di 7,2 miliardi di euro nel 2007, due terzi in più rispetto all'anno precedente, gettando sul lastrico più di 2.000 lavoratori (indotto più di 4.000), dopo aver usufruito di sovvenzioni pubbliche per oltre 80 milioni di euro. Il disperato bisogno di giustizia sociale è alle origini del "terremoto" in atto in Germania. Come dice Lafontaine, «il clima politico e sociale è cambiato».

Repubblica Roma 1.2.08
Cominciò così. Storia vera di Capinera
Vulcanici, veloci, rivoluzionari. Li chiamavano "Gli Uccelli"
di Francesca Giuliani


Volevamo rendere visibile quello che non lo era. Un giorno aprii un ombrello...

L´ultimo degli Uccelli vive in uno squarcio di campagna dietro la Trionfale. Paolo detto Capinera, il ragazzo magro e capellone protagonista di un´epoca, anima di un gruppo che ha assaltato, protestato, sperato in una rivoluzione possibile, è oggi un signore di sessantacinque anni con la faccia segnata dal sole dei campi, le mani grosse di chi da una vita le usa per lavorare: «Ricordo volentieri i giorni quando il Sessantotto cominciò». Studente di architettura in quella facoltà di Valle Giulia scenario di uno degli episodi centrali di un anno che ha fatto Storia, offre con il fiume dei suoi ricordi uno sguardo diverso, la traccia di una gioventù rimasta dentro, la rabbia di un´occasione perduta. Racconta così.
L´ombrello. «In facoltà c´erano i fascisti. Saluti romani. Cose di questo genere. Erano fascisti i professori. Borghesi gli studenti. Morpurgo, Fasolo, i padroni erano loro. Occupammo per mandarli via. Poi vennero Quaroni, Zevi, Piccinato, persone aperte, progressiste. Fu un inizio straordinario. Le assemblee, vedersi e finalmente parlarsi, incontrarsi, dirsi certe inquietudini, far finire quella condizione di studenti individualizzata e solitaria. Le cose cominciarono subito ad andare diversamente. A parlare erano quelli che venivano dalle scuole di partito. Parlavano, parlavano. Il Vietnam, la guerra. Un giorno, in assemblea, io avevo un ombrello. Perché pioveva, evidentemente. Lo aprii come a proteggermi da quella pioggia di parole. Tutti risero molto, molti applaudirono. Gli Uccelli sono nati con quel primo gesto. A parlare era un ragazzo che si chiama Renato Nicolini. Noi, invece, decidemmo di non parlare più. Quando gli altri ci rivolgevano la parola, fischiavamo. Poi ci hanno chiamato Uccelli».
Le pecore di Guttuso. «Eravamo consapevoli di un certo fermento culturale a Roma e ci piaceva l´idea di incontrare i protagonisti di quegli anni, andarli a scovare, farli parlare nelle nostre assemblee, sentire cosa pensavano del mondo. Così prendemmo appuntamento con Renato Guttuso. Andammo nel suo studio alla salita del Grillo dove ci accolse con grande simpatia. Anche Pasolini ci apprezzava, era con noi. A Guttuso gli abbiamo chiesto dei soldi per comprare delle pecore. Lui ce li diede. E le abbiamo comprate. Le abbiamo portate in facoltà, perché lì c´erano i campi. E ce le avevamo anche durante gli scontri di Valle Giulia. Guttuso venne in facoltà a fare con noi i famosi graffiti che ancora si vedono sulla facciata. Lui tracciò le prime linee. Noi poi continuammo con lo scalpello. Che fossimo proprio noi a portare all´università un pezzo grosso del Pci fu un colpo. Quelli del Pci boccheggiavano, ci volevano ammazzare».
Ammazzagalline. «Si vede che già allora dentro di me c´era l´agricoltore che sarei diventato. Perché anche a Giacomo Manzù che andammo a trovare ad Ardea chiedemmo dei soldi. E con quei soldi comprammo delle galline. Quando con un furgone le portammo in facoltà e le liberammo in giro gli studenti le inseguirono per agguantarle, strozzarle. C´era una presunzione in quegli studenti borghesi».
Fellini, Carla. «In quegli anni Roma era una città piccola, provinciale, tristissima. Dove non succedeva niente. Io venivo dall´Abruzzo come il mio amico Martino. Ho dormito anche alla Casa dello Studente. Giravo in tram oppure a piedi. Andavamo al cinema, qualche volta. Fellini, Antonioni erano i registi di quegli anni. Donne non se ne vedevano, le studentesse stavano per conto loro. Tranne Carla, la più bella di tutte. Lei era una di noi. L´ho frequentata fino al ´69. È tanto che non la sento».
Il sacrificio dopo la battaglia. «Ci riunivamo la sera. Le nostre fonti di informazione erano i giornali. Soprattutto l´Espresso. Discutevamo gli articoli. Pensavamo le nostre imprese future. Come utilizzare anche il patrimonio culturale. Allora dopo la battaglia di Valle Giulia decidemmo di andare all´Ara pacis. Eravamo cinque o sei. Ci portammo un agnello. Gli tagliammo la gola sulle scale dell´altare sotto gli occhi del custode che non fece in tempo a reagire. Volevamo pace, dopo tutta quella guerra. Cercavamo di esercitare un´attenzione critica a quello che c´era nella testa delle persone. Pensammo che la strada intrapresa fosse tremenda. Oggi questo paese soffre ancora di come andarono le cose: la carica forte, positiva di allora fu sviata e defraudata da gruppi che si richiamavano falsamente al marxismo. Troppe potenzialità sono state distrutte in quegli anni. Dopo allora niente è stato più uguale».
La cacciata «Portammo la musica, i dischi dei Rolling Stones. Volevamo fare una festa. Ci caricammo di pennelli e secchi di vernice. Per tirare su l´atmosfera. Ma gli studenti chiamarono il servizio d´ordine. Ci fecero buttare fuori. Il gruppo dirigente, Fuksas, Sergio Petruccioli. Volevamo solo guardare alle cose con la massima franchezza. Dopo la cacciata, scrivemmo un volantino intitolato "Il dentro e il fuori". Loro ci cacciarono. Noi fuori, liberi. Loro dentro, intrappolati».
Dopo. «Mi sono laureato nel ‘72. Sono andato un anno in Sicilia, ho lottato con i disoccupati, i carcerati. Dentro Lotta continua, anche. Tanti intorno a me hanno preso strade vuote. La droga. La lotta armata. È difficile capire come andò. C´era un clima che rendeva tutto possibile. L´energia pura di quelle prime contestazioni nell´aria non c´è più stata».
La campagna sulla Trionfale è diventata casa sua trent´anni fa. Era una discarica, tra il San Filippo Neri e il Santa Maria della Pietà. Oggi ci sono duemila ulivi coltivati che Capinera ricama con le sue cesoie. Ha due figli, uno ad architettura. Aspetta a fine mese la prima pensione da agricoltore.

giovedì 31 gennaio 2008

l’Unità 31.1.08
«In fabbrica», ricordi di classe
di Alberto Crespi


DOCUMENTARI Mentre nelle sale c’è «La signorina Effe» sulla Fiat, Francesca Comencini ha mostrato ieri a Roma il suo «In fabbrica»: un bel filmato in cui ha montato un secolo di lavoro operaio e che Rai3 manderà il 14 febbraio in seconda serata

Il film di montaggio nasce con il cinema. Basta che i Lumière producano le prime immagini in movimento della storia, perché nel giro di pochi anni qualcuno scopra che, legando l'una all'altra immagini pre-esistenti, si può partire da A+B+C… e arrivare ad alfabeti sterminati e inimmaginabili. Il più inventivo di tutti, in questo bellissimo gioco, è stato Dziga Vertov con il suo Cine-Occhio, nell'Urss degli anni '30. La tradizione continua (e l'ha fatta sua anche la tv: Blob altro non è che un cine-occhio aggiornato all'epoca dei mille canali). Francesca Comencini ha scavato negli archivi del Luce e nelle teche Rai per costruire - è la parola giusta - In fabbrica, il film passato lo scorso novembre al festival di Torino e presentato ieri sera a Roma, all’Auditorium di via della Conciliazzione. In fabbrica passerà in tv su Raitre, il 14 febbraio, in seconda serata (l'orario preciso è da definire, quel giorno tenete d’occhio i programmi tv). Ne siamo contenti, ma - passateci la forzatura - sarebbe stato ancora più bello se fosse passato il 27 gennaio, giorno della Memoria, perché è soprattutto uno struggente viaggio nella memoria della classe lavoratrice italiana; c’è sempre tempo per una bella replica (magari in prima serata: su, mamma Rai, uno sforzo!) il 1° maggio.
Francesca Comencini ama lavorare sui materiali pre-esistenti per ricavarne un senso, un’interpretazione a posteriori del reale. Carlo Giuliani, ragazzo era un duro documentario di denuncia realizzato montando i brani «necessari» delle migliaia e migliaia di ore registrate durante il G8 di Genova. Quello era un lavoro orizzontale, sulla contemporaneità assoluta: centinaia di videocamere in funzione, tutte assieme. In fabbrica è invece un lavoro verticale, un viaggio nel tempo: si parte dalla classe operaia di inizio ‘900 e si arriva all’oggi. Alcune immagini sono le stesse utilizzate da Wilma Labate per La signorina Effe, il film di finzione - di ambientazione Fiat - attualmente sugli schermi. Ed è curioso notare come il repertorio, soprattutto se in bianco e nero, abbia una forza espressiva che nessuna immagine ricostruita riesce a riprodurre. Ma questo è un paragone ingiusto per La signorina Effe, e che ci porterebbe lontano. In fabbrica richiede, invece, un’altra considerazione. Non è un film sulle morti sul lavoro proprio perché vuole essere un ragionamento sui tempi lunghi della storia, non sull’impatto crudo dell’attualità. Anzi: Francesca Comencini lo conclude con una pars costruens voluta e testardamente cercata. Nell’unica parte del film girata oggi, ex novo, la regista ci porta in una fabbrica lombarda dove le condizioni di lavoro sono dignitosissime, le paghe sono quelle giuste, la sicurezza è garantita e, udite udite!, persino l’integrazione fra i lavoratori locali e i numerosi stranieri, soprattutto africani, sembra aver fatto passi importanti. Francesca non racconta fiabe e quel finale non è una gita nel paese dei campanelli: è un giusto sguardo su un pezzo d’Italia che funziona - forse perché, lì, gli operai sono ancora un poco padroni del proprio destino.

l’Unità 31.1.08
Raccontami una storia, fa bene alla vita
di Manuela Trinci


LE FIABE GUARISCONO? In un certo senso sì, rispondono gli esperti: suscitano emozioni e facilitano la loro espressione, sollecitano uno sguardo diverso sul mondo e, soprattutto, ci dicono qualcosa sul senso della nostra esistenza

Calvino le definiva «visioni insospettate» e Bettelheim le riteneva «terapeutiche». Ma attenzione: non vanno trattate come aspirine
Non esiste il racconto giusto per risolvere un particolare problema
Leggere non è una seduta terapeutica ma un piacere

«Raccontami una storia» è un sapore d’infanzia, come il pane con l’olio o con il burro e marmellata. A una tale richiesta, timida sonnolenta prepotente o piagnucolosa, non c’è adulto che non si senta sopraffatto da proustiana nostalgia. Le storie ai bambini o si raccontano o si leggono, a voce alta. E sono storie che incantano, incuriosiscono, che fanno paura o regalano l’estasi della risata, storie dette in cucina, vicino al letto, al Nido o alla Materna. Storie a gambe in su, sbilenche, randagie, raggomitolate, storie a bocca chiusa o che fanno gioire l’aria.
Storie di oggi o fiabe magiche di ieri e di sempre. Comunque sia, raccontare storie è come dormire, mangiare, cantare, viaggiare insieme. È far circolare sangue umano nei linguaggi, farli tornare «pelle umana» da vestiti, corazze, prigioni che stanno diventando. Le storie hanno, per loro natura, la capacità di suscitare emozioni, atmosfere, stati d’animo, di dirigere uno sguardo nuovo, curioso, verso direzioni che si aprono improvvisamente. Sollecitano un modo specialissimo di guardare il mondo, concentrato, vigile, febbrile, un modo grazie al quale ci si protende e si finisce per vedere ciò che, per un motivo o un altro, non sta di fronte a noi in maniera scontata e banale. Visioni insospettate, come «visioni insospettate» Calvino definiva le fiabe stesse.
Bruno Bettelheim sosteneva addirittura che la partecipazione del bambino al racconto di una fiaba facilitava l’espressività delle emozioni più dello stesso gioco.
E se più recentemente si è posto l’accento su un percorso «curativo» della fiaba basato sulla relazione, sulla trama affettiva, che si stabilisce fra il narratore e il bambino, è soprattutto nella natura insatura, potenziale e combinatoria delle fiabe - nel loro trasvolare e sfiorare mondi non reali, sovrannaturali, ai quali ogni bambino può ricondurre la sua umbratile vita sotterranea - che molti autori hanno individuato, sino dall’inizio, un prezioso quanto «involontario» sostegno al processo maturativo dei bambini stessi.
L’idea che le fiabe «curino», si avvia, dunque, da molto lontano. Shahrazad, intrattenne il re per tre anni raccontando storie che avessero una funzione terapeutica per lui e salvifica per lei. Bruno Bettelheim non ebbe, poi, esitazioni a sancire il principio che «le fiabe guariscono» e sono «terapeutiche», pur sottolineando a più riprese che la fiaba comunica al bambino una comprensione intuitiva, subconscia e che «mai», pur appassionandosi e partecipando emotivamente alla storia, si deve «spiegare o interpretare ai bambini i significati delle fiabe».
Esse appartengono all’umanità, scriveva Louise von Franz, parlano autonomamente, e rappresentano il tentativo dell’umanità di raccontare e spiegare e comunicare il «mistero» vissuto da un essere umano. Potrebbero avere origine dai sogni, dai pensieri elementari, da primordiali riti di iniziazione, oppure ogni Narratore potrebbe ­ sostiene Benjamin - attingere a «un anonimo patrimonio di memoria che ci dice qualcosa del senso della vita».
Ma i fraintendimenti non mancano.
Oggigiorno, immersi come siamo in una cultura terapeutica - che postula il continuo ricorso alle conoscenze terapeutiche per la gestione dell’esistenza, affermandosi gradualmente più come un modo di pensare che non di curare la specificità dei disturbi psichici - anche la narrazione di storie e di fiabe è stata enfatizzata come «supporto terapeutico».
L’editoria cavalca la tigre di questo fenomeno che, confondendo i generi, si ciba parimente di storie, outing, blog, talk show, confessioni, coming e fiabe.
Le riviste di psicologia divulgativa omaggiano spesso le storie che curano, pubblicizzano seminari e corsi di formazione per «narratori», mentre «titoli», volumi e volumetti, spesso illusori e superficiali si addensano sugli scaffali in libreria: «Le fiabe in terapia: un approccio naturopatico», Fiabe in terapia familiare, Fiabe che curano, Ho bisogno di una storia, Il personaggio in terapia, La fiaba come strumento terapeutico, Prova con una storia, Raccontare storie aiuta i bambini, eccetera eccetera.
Da un lato, si induce dunque la pseudo certezza che per ogni problema - dal lettone al vasino - ci sia il racconto giusto per risolvere la questione, dall’altro, si accentua l’enfasi sulla fiaba come farmaco prêt-à-porter. In agguato, un pericoloso conformismo educativo e una pessima divulgazione dei nuovi modelli di cura nella stanza d’analisi, che ­ a partire proprio dal bellissimo Raccontami una storia di Dina Vallino ­ hanno introdotto nell’analisi dei bambini una sorta di principio omeopatico della mente: curare l’immaginazione con l’immaginazione.
In molti si improvvisano Cantadore, così le «storie», che la Pinkola Estés voleva scritte come un tatuaggio del destino (un tatuaggio leggero sulla pelle di chi le ha vissute) e nelle quali Hillman affondava e ramificava la sua «poetica della mente», hanno perso la loro voce mitologica, il loro «cuento milagro».
Tanto che, bibliotecari, genitori, pediatri e psicologi, giustamente preoccupati di riuscire - parafrasando Calvino, - a «rimettere i piedi sulla terra», riemergendo da questo mondo dove imperversano pressappochismo e faciloneria, hanno dato luogo a un appassionato forum sul sito «Nati per Leggere».
Anche qui si racconta di genitori un po’ spaesati dalle pressioni mediatiche, genitori alla ricerca di libri utili, per far crescere bene i loro bambini e per trovare loro stessi delle conferme pedagogiche, e parimente si racconta di insegnanti alla ricerca di libri utili ad affrontare argomenti nuovi o spinosi. E di fronte a pretese forti che falsano e forzano i libri, le voci del forum si interrogano, dubbiose, se quest’idea di un «libro-aspirina» non sia il frutto di una promozione al libro non corretta, se la parola «cura» non sia stata ben declinata e spostata, invece, in un’accezione tutta medica, in farmacia. E commentano pure, con dispiacere, il fatto che molti adulti guardano al libro come a un insegnamento, a un aiuto, a uno specchio fedele che rifletta il mondo e che magari contenga la chiave per la soluzione di conflitti, paure, problemi... Ma perché, arrivano poi decine e decine di interventi, perché trasformare il momento della lettura in una seduta terapeutica? O in un ennesimo momento educativo?
Lasciamo alla letteratura il compito che le spetta. «Se riesci a far innamorare i bambini di un libro o di due o tre, cominceranno a pensare che leggere è un divertimento. Così, forse, da grandi diventeranno lettori». Scrive Roald Dahl. Il principio di piacere è più elastico di un programma ragionato, perché è pronto a riconoscere rapidamente un nuovo piacere, quando nasce, o l’assenza del piacere, se non nasce.
Raccontare storie e servirsi delle storie, dunque, non significa impegnarsi in una «terapia» o insegnare qualcosa, tuttavia aiuta a imparare e imparare significa non imparare cose ma imparare a crescere, a essere liberi… liberi come il vento, la musica… e le storie!

Oggi e domani con «Liber» si discute sulla lettura
Si parla con insistenza di crisi della lettura giovanile e degli adolescenti in particolare. Si parla di un’editoria per ragazzi che cambia strutturalmente: nella produzione e nella distribuzione, con una concentrazione sempre maggiore dei produttori e una omologazione dell’offerta. Si fa zapping, si chatta, si scrive una nuova lingua sintetica per stare nello spazio scomodo di un sms, si infila il libro nel carrello della spesa, si cercano isole coi famosi e non il tesoro. Eppure, si legge ancora. Per chi ancora si muove su questo territorio, per chi si ostina a proporre lettura, il convegno intende offrire spunti per approfondire, confrontarsi, dialogare, la rivista Liber Liber ha organizzato oggi e domani il convegno La lettura, nonostante... Libri e ragazzi, tra promozione e rimozione che si tiene a Campi Bisenzio. La mattina di oggi è dedicata al tema La lettura è sorpassata? sul quale interverranno Michele Rak, Loredana Perego, Manuela Trinci e Fabrizio Fiocchi; tema del pomeriggio, invece, Libri da leggere o da consumare? sul quale interverranno Roberto Denti, Emilio Varrà, Domenico Bartolini, Riccardo Pontegobbi, Simonetta Bitasi, Beatrice Masini, Selene Ballerini. Domani la scrittrice Anne Fine (Mrs Doubtfire, Villa Ventosa, tra le sue tantissime storie) sarà l’ospite d’onore di un dialogo sulla lettura possibile.

Libri da non perdere
Tra i diversi saggi che possono aiutarci a orientarsi segnaliamo alcuni titoli da non perdere.
Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe
di Bruno Bettelheim (Feltrinelli, Milano 1977)
Le fiabe interpretate di Marie-Louise von Franz (Bollati Boringhieri, Torino 1980)
Le storie che curano. Freud, Jung, Adler >di James Hillman (Raffaello Cortina, Milano 1994)
Leggimi forte. Accompagnare i bambini nel grande universo della lettura di Rita Merletti Valentino e Bruno Tognolini (Salani, Milano 2006)
Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés (Frassinelli, Milano, 1993)
Raccontami una storia di Dina Vallino (Borla, Roma 1998)
Le sirene cantano quando la ragione finalmente dorme

l’Unità 31.1.08
Le sirene cantano quando la ragione finalmente dorme
di Renato Pallavicini


MAX ERNST compose tra il 1929 e il 1934, usando la tecnica del collage, «tre romanzi per immagini»: con figure tratte da stampe e illustrazioni popolari, il conturbante e affascinante richiamo del sesso

La materia con cui li costruì era quella dei feuilleton e delle incisioni di Grandville
Pescando nel sogno l’artista creò un’opera che influenzò il cinema di Luis Buñuel

«Tra il 1929 e il 1934 il pittore dadaista, e poi surrealista e poi solo Max Ernst compose tre romanzi: La donna 100 teste, Il sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà». Il verbo «compose» che Giuseppe Montesano usa nella sua postfazione a Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini (Adelphi, 2007, pp. 498, euro 38,00) è verbo che si addice più alla partitura musicale o alla composizione architettonica che alla scrittura. Non a caso - ricorda Montesano poche righe più avanti - André Breton aveva proibito ai surrealisti la «fabbricazione» di romanzi.
Ma che cosa sono, dunque, questi «romanzi» che l’artista, nonostante e oltre quel divieto, «fabbrica»? Sono dei collage costruiti con frammenti di figure tratte, perlopiù, da stampe e illustrazioni popolari. «Max Ernst - scrive Montesano - provò a cambiare le regole del raccontare, strappò come un bambino che gioca le pagine dei vecchi libri e le rimise insieme in libri perversamente nuovi, in racconti condensati e fatti per immagini fratturate e ricomposte in narrazioni per immagini che erano in qualche modo ancora o di nuovo romanzi». Quella di Ernst, però, non è la scrittura «plastica» dei collage cubisti di Braque e Picasso che mette insieme le differenti facce (e punti di vista) della realtà, ma è scrittura automatica, anti-composizione e, per tornare alla metafora architettonica, de-costruzione. Il collage non com-pone, non mette insieme ma giustappone, tutt’al più espone, disseziona ed estroflette sul tavolo anatomico (e sulle tavole illustrate) i cadaveri squisiti del linguaggio. Ecco perché le tavole di Ernst sono piene di pezzi anatomici (valga per tutte quella a pag. 443 di questo volume riprodotta in questa pagina: immagine grande), di molli estroflessioni, di pliche carnose come petali, di cento fessure profonde, di scaglie cheratinose o di chiome fluenti che volteggiano come fantasmatici scalpi: tutto «ciò che era connesso… si è scucito e sconnesso in Ernst sotto l’urto di una potenza onirica e scatenata».
I Tre romanzi per immagini, in maggioranza «mute» e talvolta accompagnate da spiazzanti didascalie, sono pieni di sogni e incubi in cui si affacciano esplicitamente, ma non banalmente (non con quella «meschinità» - annota Montesano - a cui il contemporaneo ha ridotto gli abissi di eros) le pulsioni del sesso. Che nella storia del Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo ci sia qualcosa della vicenda personale di un trentottenne Max Ernst e della sua relazione-scandalo con la minorenne Marie-Berthe Aurenche, è innegabile; ma, come ben chiarisce Giuseppe Montesano - scrittore e acuto studioso della cultura francese di quegli anni (suo è il recente saggio su Charles Baudelaire, Il ribelle in guanti rosa, Mondadori 2007) - c’è molto di più.
Ci trovate, per esempio, le ascendenze a Jarry e Lautréamont: «Nei romanzi-collage di Ernst si stava attuando senza freni e senza residui la bellezza che I Canti di Maldoror avevano annunciato: il mondo che sbucava sotto la frusta del grottesco in Max Ernst era bello, ma “come l’incontro sopra un tavolo anatomico di una macchina da cucire e di un ombrello”».
Attorno a questo tavolo anatomico Ernst chiama a consulto dottori dadaisti, surrealisti e freudiani, ma si avvale anche di assistenti meno «titolati». Così, cucite nei suoi collage, si rintracciano parti e membra sparse, raccolte dalla letteratura e dalla illustrazione popolare: dalle incisioni di Grandville ai feuilleton di Rocambole e Fantomas, dai protofumetti di Wilhelm Busch e dello svizzero Rodolphe Töpffer alle oniriche acqueforti di Max Klinger,in particolare quelle della serie Il guanto, raccolta casuale ma organizzata che segna, appunto, «l’ingresso organizzato del Caso nell’opera». Quei collage, che pescavano nel sogno o nascevano da una contemplazione estatica e distaccata che dava vita a un mondo in cui gli oggetti, scissi dalla comune percezione, fluttuavano liberamente e si riposizionavano in dimensioni altre seguendo la non-legge della triade freudiana «trasformazione, condensazione, spostamento», non ebbero però, sottolinea Montesano, «nessun erede diretto, e il loro influsso si manifestò soprattutto nella tecnica del montaggio cinematografico». E allora ecco Buñuel-Dalí con l’Âge d’or, film in cui Ernst si ritagliò una parte da mendicante.
«Nel mondo di rovine del Moderno che Max Ernst “storceva” e “riaggiustava” per far apparire tra le macerie i fantasmi del nouveau c’era al lavoro la legge analogica che rompeva le parvenze in cui le cose si univano per luoghi comuni e ritrovava per le cose accostamenti imprevedibili, quelli che nessuno ha ancora visto e il cui significato è sempre ambiguo: in Una settimana di bontà come nella Donna 100 teste c’era al lavoro il desiderio di un’apocalisse del significato». In volo su questo cumulo di macerie non c’era nessun benjaminiano angelo della storia ma l’inconnu, nelle vesti discinte della creatura femminile, del desiderio, del canto ammaliante delle sirene che, ricorda Montesano nel suo illuminante scritto, cantano quando la ragione (finalmente, aggiungiamo noi) dorme.

l’Unità 31.1.08
La pacificazione di Zapatero: onore alle vittime di Franco
di Bruno Gravagnuolo


FILM-INCHIESTA Un Dvd di Beppe Cremagnani e Enrico Deaglio racconta il nuovo corso della memoria in Spagna

Negli ultimi anni un’autorevole corrente di pensiero ha sostenuto che il pregio, e il lascito durevole, della transizione democratica dal franchismo alla democrazia era il patto dell’«olvido». La dimenticanza degli orrori della guerra civile, come risorsa «pacificatrice» di cittadinanza. E il tutto in una con la tendenza a parificare le responsabilità tra franchismo e antifranchismo.
Tipica la posizione di Sergio Romano, editorialista del Corsera, che firmò un infelice scritto a difesa delle ragioni di Edgardo Sogno, volontario nazionalista filo-franchista nel 1936, elogiato come anticomunista democratico che contrastò il pericolo comunista in Spagna. E quanto all’«olvido» come risorsa, l’hanno difeso sia l’economista Michele Salvati, sia il sociologo liberale Perez Diaz. Ora invece arriva un bel film di Diario in Dvd, di Beppe Cremagni e Enrico Deaglio: L’ultima Crociata, supplemento in edicola al periodico di Deaglio, prodotto dalla Luben. Con la collaborazione di Federica Sasso. Della durata di 59 minuti.
Ed è una smentita flagrante di quelle tesi, documentaria e circostanziata. Che mostra per immagini una cosa semplicissima, nota peraltro a chi frequenta la Spagna, anche da lontano. E cioè: nessun «olvido». E anzi, proprio grazie a Zapatero, è in atto un recupero di memoria che sta diventando l’anima della nuova cittadinanza democratica, su impulso socialista. Il film-inchiesta, a metà tra reportage e storiografia, documenta infatti che già da molti anni i «nipoti» degli antifascisti - veri o presunti di allora - stanno cercando le tracce degli antenati della loro democrazia. Antenati scomparsi, trucidati, rimossi a lungo dal franchismo, e anche dall’iniziale transizione pacifica dal franchismo. E che riaffiorano nei ricordi, nei racconti sussurati dai genitori decenni fa. Oppure nei poveri resti dei fucilati nascosti nelle fosse comuni. Quanti furono i fucilati? Secondo i calcoli ufficiali sono 192mila.
Ma un censimento nuovo attualmente ne ha calcolati 130mila solo in metà della Spagna.
Di quei fuciliati facevano parte anche i parenti degli arrestati che si erano suicidati «prima». Fucilati per rappresaglia! Dunque una grande tragedia segnò la Spagna democratica e legittima, abbandonata da Francia e Inghilterra, e lasciata a Franco e ai carnefici italo-tedeschi, prodighi di armi e massacri. Tragedia che anticipò la guerra mondiale e che poi spinse l’Urss isolata, all’ingnobile spartizione con la Germania della Polonia per far fronte ad Hitler. Insomma oggi gli spagnoli vogliono la verità e per questo Zapatero ha varato le leggi della memoria, con gli indennizzi, le ricerche, la rimozione delle statue di Franco. E con la promozione dell’ antifascismo a caposaldo simbolico della nuova Spagna. Il film si chiude con la beatificazione dei 400 martiri cattolici uccisi dai repubblicani. Già, ma i martiri ecclesiastici antifranchisti? Quanti furono, benché la Chiesa appoggiasse Franco? E perché Ratzinger non ne parla? Bella domanda. Senza risposta per ora.

l'Unità lettere 31.1.08
Stato & Chiesa: la mia solidarietà ai docenti

Egregio Direttore,
sento il dovere di esprimere totale solidarietà ai professori di Fisica dell'Università La Sapienza che non solo hanno correttamente esercitato il diritto di manifestare liberamente il loro pensiero, ma hanno anche giustamente lanciato un allarme per la deriva istituzionale e politica in atto nei rapporti fra Stato e Chiesa. Come avvocato, non vorrei che iniziative simili a quella del Rettore romano venissero assunte in occasione delle cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario.
Domenico d'Amati

Repubblica 31.1.08
Si apre domani a Roma un convegno di analisti junghiani
Se l’analisi sembra un ferrovecchio


Si apre domani a Roma un convegno di analisti junghiani per discutere l'attualità di una terapia lunga e coinvolgente, che oggi ha un volto diverso

Mario Trevi: "I farmaci non hanno diminuito la richiesta di psicoterapia"
Luigi Aversa: "L´adattamento svuota di senso ogni categoria dell´interiorità"

ROMA. Ha ancora un senso oggi fare l´analisi? Ma che domanda sconveniente. C´è da giurarci che qualcuno - rigidamente protetto dalle proprie eterne certezze - la prenderà subito per il verso sbagliato: come una nuova intollerabile provocazione, come un tabù che s´infrange, e non importa se viviamo nell´era delle neuroscienze, degli psicofarmaci, del successo delle terapie brevi. Quel "qualcuno" dovrà però ricredersi sulla legittimità di un interrogativo solo all´apparenza popular, perché questa volta non sono i nemici della psicoanalisi a chiedersi qual è lo stato delle cose e quali previsioni sono possibili per la psicologia del profondo - nel nostro tumultuoso presente e in un futuro radicalmente discontinuo rispetto al secolo ormai alle spalle. "Attualità e inattualità della cura psicoanalitica" è infatti il titolo di un convegno organizzato dagli apprezzati analisti junghiani del Cipa (il Centro italiano di psicologia analitica), in programma al Residence Ripetta di Roma da domani a domenica. La riflessione - anche con qualche spregiudicatezza intellettuale - viene dunque dall´interno, e non è del tutto scontata.
La cura analitica è un lavoro che impegna per un numero di anni indefinito. Una volta prevedeva più sedute a settimana, anche quattro o cinque. Oggi una frequentazione così assidua di una stanza d´analisi è impensabile, per molte ragioni, ma nelle terapie a orientamento analitico è comunque l´inconscio a fare da protagonista. In ogni caso ci vuole del tempo, una certa dose di pazienza e forse di coraggio per affrontare i nodi più dolorosi della propria esistenza. Il tema del convegno di questi giorni in fondo è questo, per quanto tradotto in un linguaggio che avrà il difetto dell´imprecisione ma almeno il merito della chiarezza: oggi chi se la sente d´imbarcarsi in un´avventura tanto coinvolgente (e anche costosa)? Oppure, per dirla in modo più puntuale ma anche più intrigante: "a che pro gli psicoanalisti in tempi in cui la disperazione si ignora?" (secondo il titolo dell´intervento di Maria Irmgard Wuhel, che fa ricorso a una citazione della Kristeva).
Il fatto che si ignori la disperazione non significa però che non esista e non agisca nel profondo, producendo i suoi effetti. Che nella nostra epoca il disagio mentale sia molto diffuso è un dato evidente, soprattutto tra i più giovani che vivono il futuro più come una minaccia che come una promessa, ma anche tra gli adulti sempre più aridi e disarmonici con sé stessi e con gli altri. E allora, sì, c´è da chiederselo: l´analisi può essere ancora una strada percorribile o appartiene a un mondo definitivamente tramontato? È attuale o inattuale?
È Luigi Aversa che ha proposto con successo ai suoi colleghi una questione che per chi cura analiticamente così tanto rassicurante non dovrà essere. Un bel convegno - sui sogni o sui simboli o sull´individuazione - sarebbe scivolato via senza inquietudini, nel solito clima di gratificazione generale. Invece questa storia che si mette in gioco è parecchio più insidiosa, visto che il mercato della psiche è ormai molto ampio e strapieno delle più facili lusinghe, con quell´implicita promessa di cancellare l´infelicità, ogni senso tragico della vita: una missione davvero impossibile, eppure considerata alla portata di mano con qualche aggiustamento nei comportamenti meno congrui, non sufficientemente disciplinati.
Aversa, che ha curato un paio di bei libri - prima per Laterza, poi per Bollati Boringhieri -, considera fondamentale la nozione di inattualità ma in modo nettamente critico, e con un rimando esplicito a Le considerazioni inattuali di Nietzsche. È così che ragiona: «Se l´attuale clima culturale si poggia sul parametro dell´adattamento, che progressivamente svuota di senso tutto quello che ha a che fare con la categoria dell´interiorità, l´analisi risponde compensatoriamente a questo processo continuo di superficializzazione, restituendo la capacità di cogliere la dimensione rappresentativa dell´esistenza, la sua valenza simbolica. L´inconscio non è solo il "rimosso" di Freud o il "progetto" di Jung: è anche esperienza di una discontinuità della coscienza. Chi sceglie il tempo lungo dell´analisi vuol essere desituato da una continuità che può diventare insopportabile. È un po´ come vivere eternamente sotto il biancore algido delle luci alogene: a un certo punto si ha l´assoluta necessità della penombra».
È ancora Aversa a ricordare una bellissima lettera di Freud a Ferenczi in cui risulta chiaro come il suo intento non fosse tanto quello di aiutare gli altri ma piuttosto di percepire gli enigmi del mondo, sottraendo così il pensiero psicoanalitico all´esclusiva categoria dell´utilità, oggi così dominante. Ma se l´analisi sia comunque un´esperienza che possa restituire un orizzonte di senso alle tante facce dell´angoscia, è una buona domanda per uno studioso junghiano d´indiscusso prestigio, in qualche modo la guest star di questo convegno: Mario Trevi che in aprile festeggerà il compleanno (84 candeline) e l´uscita da Feltrinelli di un nuovo libro-intervista (Dialogo sull´arte del dialogo).
Dice Trevi: «Intanto la grande diffusione degli psicofarmaci non ha diminuito la richiesta di psicoterapia - preferisco questo termine all´analisi, diversa forse nella quantità delle sedute, ma non nella qualità... Oggi l´uomo è più consapevole della differenza tra una "norma ideale" - diversa per ciascuno di noi, s´intende - e lo stato in cui si trova. Può esserci un disagio dovuto a vere forme nevrotiche, come una condizione acuta di ansia o una depressione, che a volte scivolano addirittura nella psicosi. Spesso però il disagio non si presenta con le classiche sintomatologie, rimanda piuttosto a un senso desolante di vuoto, alla percezione di una dolorosa insignificanza del proprio vivere che non consente di coltivare una piena vita affettiva e a volte neppure di adempiere ai propri obblighi sociali. La psicoterapia ha allora il valore di una redenzione da questo disagio, è la via che si può percorrere con la speranza fondata di un miglioramento: se la guarigione psichica è un traguardo troppo vago, una trasformazione positiva è invece un obiettivo possibile».
Trevi contrappone all´interpretazione, al freudiano svelamento dell´inconscio, il potere salvifico del dialogo. Ne parlerà domenica al convegno: «L´uomo è l´animale che diventa adulto attraverso una serie ininterrotta di dialoghi, a partire da quello muto con la madre prima dell´acquisizione della parola, e poi con una figura maschile, con i compagni di gioco, con gli insegnanti, e così via. L´esistenza umana è tutta una successione di dialoghi, ma se c´è stata una qualche lacuna grave si è probabilmente instaurato un deficit dello sviluppo psichico e allora la psicoterapia può supplire a quella mancanza, a condizione però che il paziente non mantenga intatte le sue difese e il terapeuta sappia adottare le parole giuste, con empatia e direi anche simpatia - non sono la stessa cosa, ma le trovo entrambe indispensabili alla cura».
Bisogna comunque fare i conti con una diffusissima ipertrofia dell´Io che mette a tacere le emozioni e l´afflusso di nuovi significati. È la convinzione di Paolo Francesco Pieri, il curatore del Dizionario junghiano (Bollati Boringhieri): «Certamente non vogliamo celebrare il sapere su cui siamo fondati, ma piuttosto metterlo in discussione, assumendo comunque criticamente il presente. Se vuole, è anche un vezzo, e proprio nel solco di Jung. Quanto all´analisi è uno spazio per pensare in due dov´è possibile ripristinare quel "non so che", per dirla con Jankélévitch, che è il sale della vita mentale, riattivando i significati profondi dell´esistenza, perché si ristabilisca un´armonia tra le parti razionali e il mondo più sotterraneo delle passioni. Il paziente in genere soffre perché è eccessivamente irrigidito nel suo sapere cosciente».
Le conclusioni del convegno sono affidate a Maria Ilena Marozza, autrice di saggi nelle raccolte curate da Aversa e con Mauro La Forgia. Non esita a parlare di una «indiscutibile perdita di onnipotenza della psicoanalisi», ma non crede alle terapie brevi orientate sui sintomi, alle interpretazioni preconfezionate, a certe risposte tecniche al disagio. La cura analitica è altro: «È la messa in parola di un sentire, è il luogo in cui un soggetto può diventare competente su se stesso. Chi ne fa ricorso non vuole tanto essere curato quanto imparare a prendersi cura di sé, che vuol dire anche prendere posizione nel mondo». Rifiutando di rimanere tragicamente prigioniero della propria storia.

Corriere della Sera 31.1.08
I tre volti di Chaplin: demone, uomo e genio
Da amante di Lolite a critico del sistema
di Alberto Bevilacqua


Vite. Il catalogo di Sam Stourdzé a confronto con le biografie del grande attore e regista cinematografico

Le avventure biografiche di Charlie Chaplin potremmo suddividerle in tre scenari. Nel primo (ad opera, in particolare, di Kenneth Anger) il personaggio viene presentato come demone, a prescindere dalla sua arte; nel secondo, sommario, referente sui dati esistenziali, moralmente elusivo, il personaggio viene descritto nelle molte vite vissute fuori e dentro i teatri di posa; nel terzo, il personaggio cessa di essere tale, e s'illumina nell'interpretazione della sua genialità cinematografica (è il caso di questo volume, fresco di stampa, Chaplin e l'immagine, che porta l'impronta di Sam Stourdzé, fine studioso dei rapporti tra cinema e fotografia).
Ma entrare nel terzo scenario significa, per il lettore attento a Charlot, oltre che apprendere risvolti preziosi, liberarsi la mente dalle pagine, per alcuni versi agghiaccianti, scritte dal regista statunitense Kenneth Anger, non trascurabile rappresentante di un'avanguardia attenta alle manifestazioni della violenza e della sessualità. D'altra parte Hollywood Babilonia ci fa conoscere ombre profonde, sordide, che paradossalmente accrescono la luce giocosa del riscatto artistico di Charlot, specie agli inizi del suo spettacolare successo.
Riferisce Anger: Hollywood, a metà degli anni Venti, è di un lusso da sbalordire, castelli in stile ispano-moresco, Isotta Fraschini e Hispano-Suiza foderate di leopardo, stanze da bagno piastrellate d'oro, dollari gettati dalla finestra, paradisi artificiali. Chaplin è oggetto di commenti svariati e contrastanti. Ma diviene di pubblico dominio la sua predilezione per le ragazzine.
Si tenta in ogni modo di tenere segreto il suo «fidanzamento » con Mildred Harris, di quattordici anni. Ma poi esplode il suo legame con la piccola Lolita Mac Murray (non ha che sette anni quando «fanno conoscenza » in una sala da tè). Lolita diventa la star Lita Grey, grazie sia a Chaplin, sia alla madre, definita dalla stampa «una furibonda calcolatrice», che è l'ispiratrice e la strategica conduttrice del lungo e torbido rapporto. Quindicenne, Lolita-Lita viene presa nel cast della Febbre dell'oro, ma dopo qualche sequenza deve interrompere la lavorazione perché incinta.
Il matrimonio forzato con Chaplin si celebra nel 1924 in Messico. Scandalo enorme. Nasce Sidney e, l'anno seguente, Charles Junior. A questo punto, la «madre del complotto» batte gli ultimi tasti della sua macchina calcolatrice. Induce la figlia a chiedere il divorzio e un milione di dollari (di allora!) come risarcimento danni, accusando Chaplin di perversione amorosa (proprio lei!). L'atto di accusa contro «il terrore delle culle », come sghignazzò l'America, è impressionante (le leghe puritane reclamarono l'interdizione dei suoi film); se ne conosce il testo dall'estratto della rivista Transition, che porta le firme degli intellettuali europei in difesa dell'artista (si va da Aragon, Breton, Eluard, Ernst, Prevert, Queneau a tanti altri).
Che resta di quel dramma? La frase di Chaplin: «Sono invecchiato di dieci anni» e il nome «Lolita», che doveva ispirare «un bestseller», come lo definisce Anger. Torniamo alla premessa.
Sfogliando il volume Chaplin e l'immagine gli occhi e la mente, ripetiamo, si ripuliscono. Sam Stourdzé apre la sua brillante introduzione citando una sequenza che calza a pennello.
C'è Charlot che flirta con l'attrice Mabel Normand. Quando si china a cogliere qualcosa, Mack Sennet, il suo rivale in amore, spunta da un albero e gli affibbia un calcio nel sedere. Colto di sorpresa, Charlot si rialza e, fraintendendo, ripete lo stesso gesto sulla graziosa compagna. Permutazione di una gag famosa: l'innaffiatore innaffiato che si trasforma in innaffiato innaffiatore.
Nel testo, Chaplin ha modo di innaffiare, fuori di metafora, rivali e detrattori con i tanti colpi del suo genio, tutti ben documentati.
David Robinson ci illustra i disegni di scena dei Chaplin Studios (strepitosi i disegni di preparazione scenografica de Il grande dittatore).
Ci sono le cronache di quando l'artista arriva a Roma, nel 1952, con le testimonianze di tutto il cinema italiano. Troviamo la serie di illustrazioni di Fernand Léger. Le risposte sul «come e perché»: perché Charlot adottò i baffi, il bastoncino, la sua camminata da pinguino; come ideò le sequenze dove la poesia scaturisce, a sorpresa, dal suo contrario (valga per tutte l'incontro con la fioraia cieca in City Lights). E infine c'è lui, il genio, con le sue dichiarazioni d'anima, oltre che di metodo.
Fra le più belle, e anti-Anger, questa: «Il silenzio... non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L'animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca ».

Corriere della Sera 31.1.08
Domani, con il «Corriere della Sera», «L'Europeo» mensile. Il primo numero è dedicato all'anno della rivoluzione giovanile
'68. La vita quotidiana ai tempi della rivolta
La pillola, il sesso, l'amore. In famiglia
di Gian Franco Vené


Mendicare l'assoluzione o «vivere nel peccato»? Usare o no la pillola anticoncezionale? L'enciclica di Paolo VI Humanae Vitae gettava sulle donne responsabilità e colpa. Ma che ne pensavano i sacerdoti?
L'ultimo figlio era nato regolarmente; la donna portava sul viso e nel corpo i segni del recente dolore, ma di un dolore affatto naturale. Tuttavia la donna insisteva nel proposito. «Mio marito», disse al prete, «mi ha fatto un discorso chiaro: d'ora in avanti basta figli. Perché, perché...». Ora il discorso della donna si ingarbugliò e svanì nella confusione. «In altre parole », mi racconta il prete, «il marito vietava alla moglie di avere altri figli in avvenire per non guastarsi la bellezza e per non lasciar prevalere nell'economia familiare il peso affettivo dei figli. C'è un limite nello sviluppo della famiglia, al di là del quale il padre si sente soltanto padre e la madre soltanto madre. Mi capisce?».
«Le parole della donna miravano a difendere il proprio fascino e la propria femminilità. E questo su esplicita richiesta del marito». Il marito non ricattò la donna. Non le disse: o prendi la pillola o finisce che ti tradisco. Le disse semplicemente: o prendi la pillola, oppure i nostri rapporti dovranno rarefarsi. Rarefare i rapporti, nella vita familiare, può significare molte cose: può essere l'inizio della freddezza, può essere l'obbedienza al metodo anticoncezionale consigliato da Paolo VI: l'Ogino- Knaus. In teoria, può essere persino santità. Così la donna avvertì su di sé, l'incubo del peccato. Per dieci anni il marito non le aveva mai parlato di controllare le nascite: lei sola s'era amministrata, fidando in Dio. Adesso era calato sopra la sua coscienza qualcosa di assai simile a un ordine. O pecchi coscientemente, o rinunci al tuo essere donna.
Il prete che la confessava domandò: «Ma suo marito non si rende conto del male che le fa?». E lei: «Non mi fa del male. Soltanto dice che, senza pillola, non avrà rapporti con me se non nei giorni sicuri». Allora il prete parlò con il marito della donna. Si conoscevano dall'immediato dopoguerra, quando il prete militava tra i ragazzi di un partito di estrema sinistra e l'uomo era iscritto ai baschi verdi dell'Azione cattolica. All'epoca il futuro prete e il futuro marito si tiravano pietre per la strada. Poi, il ragazzo iscritto al partito di sinistra subì una conversione d'ordine più intellettuale che spirituale e a 18 anni entrò in convento. I vecchi nemici si ritrovarono in chiesa. Disse il prete: «In fondo, tu sottoponi tua moglie a un ricatto». E l'uomo: «Niente affatto: le dico che non voglio più figli». E il prete: «Ma tua moglie ha il diritto sia di seguire la legge cattolica, ossia non prendere la pillola, sia di assolvere gli obblighi coniugali». E l'uomo: «Ma la legge cattolica non raccomanda anche l'astinenza? Bene: io ho promesso a mia moglie soltanto l'astinenza». E il prete: «Se tua moglie non fosse in grado di osservare questa astinenza, che le imponi?». E l'uomo: «Se mia moglie vorrà essere una peccatrice, prenda la pillola». «Capisce?», mi domanda adesso il prete, «capisce l'ipocrisia? Quell'uomo, secondo la legge cattolica, non solo non è un peccatore nel suo ricatto, ma appare addirittura come un virtuoso. Eppure io so che un uomo simile impone alla moglie il proprio egoismo». Non può essere vero il contrario? Non può essere che quell'uomo ami sul serio la moglie e tema per lo sfiorire della sua bellezza, oppure per il peso eccessivo delle preoccupazioni familiari? Porto ormai con me una domanda che è al primo posto rispetto alle altre: «Secondo voi, reverendi padri, qual è il motivo umano, razionale, universalmente comprensibile, che possa spiegare il divieto degli anticoncezionali nelle famiglie italiane?».
La domanda è ancora qui, sul mio taccuino, senz'ombra di risposta.

Anticipazione Nel nuovo «Europeo» gli articoli di allora e le riflessioni quarant'anni dopo
Da domani, ogni primo venerdì del mese, sarà possibile acquistare in edicola con il «Corriere della Sera» anche il nuovo «L'Europeo» mensile (prezzo 7,90 euro, rimane in edicola anche i giorni successivi). Lo storico periodico, palestra di grandi firme del giornalismo del Novecento, affronterà con numeri monografici i grandi temi internazionali della nostra contemporaneità.
Il primo numero è interamente dedicato al quarantennale del Sessantotto («1968. Un anno dai mille volti»). L'esperienza dell'anno rivoluzionario è rivisitata mettendo in luce la «vita quotidiana» e i problemi di tutti i giorni delle famiglie italiane di quell'anno: il lavoro, la famiglia, la musica, lo sport, l'amore.
Vengono ripubblicati storici articoli, come le inchieste di Gian Franco Venè sulla vita di quei giorni (qui a fianco pubblichiamo «Ricatto alla moglie», una tra quelle uscite nei numeri 34, 35 e 36 di «L'Europeo» del 1968) e nuove testimonianze e riflessioni di Aldo Cazzullo, Claus Leggewie, Daniele Protti, Valeria Palumbo e dello scrittore cileno Gaston Salvatore («E Feltrinelli portò la bomba», della quale qui anticipiamo una parte). Anche le foto pubblicate in questa pagina sono tratte dal numero dell'«Europeo» da domani in edicola: in alto una manifestazione nei presi dell'XI arrondissement, vicino alla Bastiglia nel maggio del '68 (Magnum) e, a destra, due scene di vita quotidiana nel '68 (Contrasto).
L'attenzione alla vita quotidiana caratterizza, ma non esaurisce, il numero monografico dell'«Europeo», distinguendolo da altri approfondimenti sul Sessantotto, come quello dell'ultimo numero di «MicroMega», che privilegia l'analisi del pensiero di quegli anni elaborato da una galassia di «gruppuscoli» e «non riducibile alla triade Marx, Mao, Marcuse» (Stefano Petrucciani).

il Riformista 31.1.08
Dopo il voto, quella strana voglia di Veltrusconi
di Fabrizio D'Esposito

Giulio Tremonti e lo stesso Cavaliere ne hanno parlato più di una volta, anche pubblicamente. E cioè di varare la famigerata grande coalizione dopo le elezioni politiche anticipate, che ormai dentro il centrodestra danno per scontate il 6 o il 13 aprile prossimi. In pratica, Silvio Berlusconi, che si considera il vero padre fondatore della Seconda Repubblica, ha ben presente che uno scenario di contrapposizione forte sia con l’opposizione sia con i cosidetti poteri forti (nel 2001 il tentativo di pacificazione con quest’ultimi fu la nomina di Ruggiero, uomo Fiat, agli Esteri dopo il gran rifiuto di Montezemolo) all’indomani del voto renderà difficile se non impossibile il varo di una stagione di riforme. Non a caso, proprio ieri, il Cavaliere e Casini, al termine di un incontro a due, hanno stilato una nota per dire che la prossima legislatura dovrà essere «costituente».
Insomma, Berlusconi si starebbe preparando ad archiviare il qu indicennio post-tangentopoli con formule diverse dai governi del 1994 e del 2001. E se finora non ha ceduto fino in fondo alle sirene del dialogo (che c’è stato e ci sarà) con il leader del Pd Veltroni è solo perché vuole dare lui le carte da vincitore, non essere invece il primo di mano come nell’ultimo anno e mezzo. Tutto, poi, dipenderà dai numeri dell’eventuale vittoria del centrodestra. E in questo caso, stante il porcellum calderoliano, a giocare un ruolo decisivo sarà il vantaggio al Senato. Tra via dell’Umiltà, dove c’è la sede di Forza Italia, e Palazzo Grazioli, residenza romana dell’ex premier, le previsioni danno una forbice ancora molto larga, tra i dieci e i trenta seggi in più dell’ex Unione.
Il paradosso, allora, per le colombe azzurre, è che una vittoria schiacciante legherebbe troppo le mani di quanti sperano in una ripresa del dialogo con Veltroni dopo le elezioni. Un Veltrusconi bis che, secondo le analisi dei berlusconiani, troverebbe le radici proprio in questi giorni, con il disperato tentativo di Marini (e D’Alema) di scongiurare il voto immediato. Ovviamen\n te, l’uomo giusto per l’operazione sarebbe, anzi è il supergettonato Gianni Letta, e non uno dei due eterni delfini, Fini e Casini. Per quanti agitano questa suggestione non resta quindi che aspettare le urne. Dopodiché, come chiosa Gaetano Quagliariello, sherpa berlusconiano sulla riforma elettorale, «prenderemo atto delle indicazioni degli elettori e non cederemo a nessuna presunzione fatale, come l’Unione nel 2006».
In ogni caso, anche con una vittoria netta e tranquilla, che renderebbe il sentiero per una grande coalizione molto stretto, il ragionamento bipartisan non perde quota. Molto probabilmente, infatti, per no n presentare agli elettori «una ripetizione stanca del passato», il Cavaliere sottoporrà agli alleati (che saranno numerosi, calcolando i “piccoli”) un programma che conterrà condizioni precise su economia e riforme, a partire dal modello della legge elettorale, che come fanno sapere da Forza Italia «dovrà essere chiaro e non pasticciato» e potrebbe connotarsi in senso presidenziale o semipresidenziale. E se poi le condizioni non venissero rispettate da qualche alleato recalcitrante, a quel punto la grande coalizione sarebbe uno sbocco obbligato.
Il paradosso, allora, per le colombe azzurre, è che una vittoria schiacciante legherebbe troppo le mani di quanti sperano in una ripresa del dialogo con Veltroni dopo le elezioni. Un Veltrusconi bis che, secondo le analisi dei berlusconiani, troverebbe le radici proprio in questi giorni, con il disperato tentativo di Marini (e D’Alema) di scongiurare il voto immediato. Ovviamen te, l’uomo giusto per l’operazione sarebbe, anzi è il supergettonato Gianni Letta, e non uno dei due eterni delfini, Fini e Casini. Per quanti agitano questa suggestione non resta quindi che aspettare le urne. Dopodiché, come chiosa Gaetano Quagliariello, sherpa berlusconiano sulla riforma elettorale, «prenderemo atto delle indicazioni degli elettori e non cederemo a nessuna presunzione fatale, come l’Unione nel 2006».

Liberazione 31.1.08
La Sinistra plaude a Marini e si prepara unita alle urne
Centrale la scelta finale del Pd. Se correrà da solo, anche la "Cosa rossa" avrà un suo candidato. Fausto Bertinotti in corsa?
di Angela Mauro


Ci sono i distinguo del Pdci sul nuovo governo. Ma, siccome permane il rischio del voto anticipato, si lavora a liste comuni

Il governo Marini è dal parto difficile, ma un risultato l'ha già prodotto. Sotto la stella di un esecutivo a termine per la riforma elettorale si ricompatta la sinistra, che non teme i distinguo del Pdci. Prc, Sd, Verdi plaudono alla scelta di Napolitano di affidare al presidente del Senato il difficile compito di consultare le forze politiche per cercare un accordo sulla nuova legge elettorale (magari la bozza Bianco, ferma in Commissione a Palazzo Madama). Il Pdci garantisce il suo appoggio solo nel caso in cui il futuro governo venga sostenuto da una maggioranza di centrosinistra più singoli del centrodestra. Insomma, no a governi istituzionali o tecnici con dentro pezzi della destra, è il messaggio di Diliberto. Ma proprio per il fatto che il compito di Marini è così difficile da non scongiurare il rischio di un ritorno alle urne con il Calderolum, le differenziazioni a sinistra lasciano il tempo che trovano. Si pensa al voto e la via per le urne - che sia con questa legge o con una nuova - si profila unitaria.
Da parte sua, Rifondazione Comunista, che per bocca del segretario Franco Giordano ha già chiarito le proprie propensioni per una «sinistra autonoma», spera che Veltroni non cambi idea. Se il leader del Pd dovesse tener fede all'intenzione annunciata a più riprese di correre da solo alle elezioni, la cosa costituirebbe un incentivo per l'unità a sinistra. In quanto porterebbe senza indugi nel nuovo soggetto anche chi, come Pdci e Verdi, ha sempre dimostrato larghe simpatie per le coalizioni di centrosinistra (dai tempi di Prodi e con proiezioni nel futuro). Anche Sinistra Democratica, che con il leader Mussi ha sempre sfoggiato un asse più o meno costante con il Prc - nonostante l'acceso dibattito interno con l'ala più filo-Cgil di Nerozzi - rimarca che, se si va alle elezioni, «la Sinistra-Arcobaleno deve allearsi con il Pd» (Carlo Leoni). Si vede come la scelta stia più al sindaco di Roma, meno alla sinistra. E Veltroni è finora assestato sulla via solitaria.
Perciò si comincia a ragionare anche in termini di candidato premier della sinistra. L'"anti Veltroni" più quotato al momento sembrerebbe essere il presidente della Camera Fausto Bertinotti, oggetto di pressioni a farsi avanti da parte degli altri partners del processo unitario. Di altri nomi però ne girano, a quadro politico ancora offuscato e indefinito. Ai Comunisti Italiani non dispiacerebbe una candidatura di Stefano Rodotà, che non lascia indifferenti nemmeno i Verdi. Si vedrà. E si vedrà anche se con il Pd la "Cosa rossa" procederà ad un accordo tecnico per il Senato, la camera più a rischio nel "regno del Calderolum". L'intesa converrebbe a entrambi per evitare di regalare troppi senatori a Berlusconi. E in questo caso andrebbe pensata una candidatura comune alla premiership (Scalfaro?).
Fin tanto che il quadro resta ombrato dalla crisi in corso, i Comunisti Italiani continuano a imporre i loro paletti al processo unitario. Non si rassegnano ad esempio sul simbolo che per loro continua a non poter essere quello della "Sinistra Arcobaleno" presentato all'assemblea unitaria dell'8 e 9 dicembre scorsi a Roma. Insistono sul fatto che «non si può rinunciare alla falce e martello». E poi sul modello di legge elettorale. Mentre i Verdi, alleati del Pdci nell'opposizione alla bozza Bianco, son venuti a più miti consigli, il partito di Diliberto non cede e oggi discute in segreteria nazionale.
Quanto a Rifondazione, il partito si compatta sull'auspicio dello stesso Marini di varare una legge elettorale «in tempi brevi». La riforma del sistema di voto «è come la maionese: o si fa subito o non si fa», insiste Paolo Ferrero che sottolinea il «vincolo del voto entro giugno» per evitare di ritrovarsi ad appoggiare governi di fatto tecnici con mandato anche sulle politiche economiche. L'incarico a Marini è «in totale sintonia con quanto da sempre andiamo dicendo sulla possibile rapida conclusione della crisi: un governo che in tempi brevissimi faccia una legge elettorale condivisa», afferma Giordano che a proposito delle resistenze del Pdci si limita a precisare: «La legge elettorale si fa, come recita la Costituzione, con il concorso di tutto il Parlamento italiano. Io mi attengo al dettato costituzionale».
Che alla fine sia alleanza con il Pd o meno (lo stesso Giordano non la esclude se c'è sintonia sui programmi), il cammino della "Cosa rossa" sembra più che mai irreversibile nei tempi bui della crisi di governo. «Quale che sia il modello di legge elettorale, a noi conviene andare uniti», sintetizza Ferrero. Leoni di Sd, pur spingendo per un accordo di coalizione con Veltroni, non prescinde dall'unità a sinistra. Anzi, la vorrebbe allargata anche ai «socialisti». Obiettivo un po' ambizioso, visto che finora Boselli è piuttosto ostico sull'incarico a Marini: «Diciamo no se la base della discussione è la bozza Bianco». Ad ogni modo, insiste l'esponente di Sinistra Democratica, «se la sinistra è unita, l'ipotesi di fare una coalizione-caravanserraglio non esiste piú, perchè‚ le forze alleate sarebbero solo due», il Partito Democratico e la "Cosa rossa".
«L'unità la invocano dai territori - dice Alba Sasso di Sd - Se si esce dal palazzo, ci si rende conto che camminare insieme è più che urgente. La vuole la nostra gente. I distinguo non hanno alcun senso fuori dai palazzi del potere».

Liberazione 31.1.08
Scienza creazionista? Non è uno scherzo
di Luca Tancredi Barone


Prima o poi Giuliano Ferrara la citerà, quindi tanto vale raccontarlo subito. Qualche giorno fa è nata una rivista "scientifica" creazionista, dal profetico nome Answers Research Journal . Si tratta di una rivista «professionale, tecnica e peer-reviewed per la pubblicazione di ricerca scientifica interdisciplinare nel quadro biblico di una Creazione recente e di un Diluvio globale» (maiuscole nel testo, ndr ). Si noti la parola "peer-review", "il giudizio dei pari", meccanismo attraverso il quale le vere riviste scientifiche sottopongono gli articoli scientifici al giudizio di altri scienziati. Un meccanismo certo non infallibile e neppure del tutto efficiente: la rivista Science ancora si lecca le ferite dopo la truffa del sudcoreano Hwang sulla (falsa) creazione di cellule staminali da un embrione umano clonato circa un anno fa. Non basta: alcune critiche al meccanismo tradizionale di peer-review provengono anche dalla comunità scientifica, tanto che la rivista open access (accesso gratuito) Plos One pubblica la maggior parte degli articoli - dopo una blanda selezione di congruità - lasciando il "giudizio dei pari" alla comunità scientifica stessa tramite commenti firmati a mo' di blog in calce a ciascun articolo. In questo modo anche le ricerche "fuori moda" possono essere pubblicate; la rilevanza del contenuto scientifico diventa chiara solo con il tempo e con i commenti qualificati degli altri scienziati. La questione interessante è che però l' Answers Research Journal funziona col trucco: la comunità dei peer reviewers, che ovviamente deve "sostenere la posizione del giornale" (e cioè che la terra è stata creata d'amblais qualche migliaio di anni fa, assieme a tutte le forme viventi), verifica che l'articolo «fornisca un contributo originale al modello della Creazione o del Diluvio», o che l'articolo «sia formulato all'interno del quadro di una terra giovane o di un universo giovane», o che, se malauguratamente dovesse esibire prove per un universo più antico, almeno fornisca una «alternativa costruttiva che prenda in considerazione l'ipotesi di un universo giovane o di una terra giovane». Insomma, un gioco di ruolo più che un dibattito scientifico: le ipotesi di partenza sono fissate a priori. E quali sono le "curiosità scientifiche" degli scienziati creazionisti? Fra i pochi articoli disponibili, segnaliamo un lavoro che tenta di dare una risposta al pressante quesito che verosimilmente turba il sonno dei creazionisti: esattamente in quale dei sei giorni biblici vennero creati i batteri?
Dopo il museo del Kentucky da 27 milioni di dollari dedicato al creazionismo, la nascita di una rivista che mima il funzionamento di una rivista scientifica (con tanto di manuale per gli autori, formattazione accattivante ed elenco delle referenze) indica il cambiamento di una strategia: i creazionisti, dopo le sconfitte giudiziarie che nei diversi stati Usa hanno impedito alle scuole di insegnare il creazionismo come alternativo all'evoluzione, sembrano voler far passare la loro Weltanschauung come teoria scientifica. La domanda sorge spontanea: ma chi glielo fa fare? Chi pensano di convincere? «Francamente non lo capisco», spiega il filosofo della scienza Telmo Pievani. «Per me i neocreazionisti sono i veri postmoderni di questi anni, hanno una visione senza confini di pertinenza e di disciplina. Surreale. La scienza in linea di principio è un campo aperto, senza confini, dove il dissenso è utile e talvolta fondamentale per cambiare il paradigma scientifico. Se uno decide di sfidare una spiegazione consolidata, ha tutto il diritto di farlo, ma è lui che ha l'onere della prova. Solo che il dibattito scientifico non è un talk show televisivo dove tutte le opinioni hanno lo stesso valore: si basa su criteri condivisi che devono consentire a tutti di riprodurre i risultati altrui». Ma come fa un non esperto a riconoscere quali sono le fonti affidabili? «Per questo serve una mediazione: qualcuno che come la National Accademy of Science americana, che si conquisti la fiducia con la sua autorevolezza e indipendenza e che di tanto in tanto faccia il punto sullo stato dell'arte della ricerca: nessuno di noi può seguire tutti i dibattiti scientifici». Antonio Lazcano, uno dei maggiori biologi evoluzionisti del mondo, in forze all'Universidad Nacional Autónoma de México, appena insignito della laurea honoris causa dall'università di Milano, la pensa in modo simile: «Intanto va chiarito che non si tratta né di un dibattito scientifico, né di un dibattito religioso, ma di un dibattito politico», spiega. «E poi una rivista come questa è una farsa: l'articolo sui batteri è di una semplicità direi offensiva. Quello che è sorprendente dei neocreazionisti è la loro povertà ideologica e filosofica, oltre che scientifica. Ai creazionisti mancano i secoli di riflessione teologica e filosofica che hanno caratterizzato il giudaismo, l'islam o il cristianesimo. Insomma, è una forma di messianismo populista, con una evidente intenzione politica e che non a caso si è sviluppata nel momento in cui la società americana è diventata più di destra».