Ingrao agli studenti: «Lombardo Radice? Mi insegnò la libertà»
di Adele Cambria
MAESTRI E ALLIEVI In una scuola romana di periferia l’ex leader comunista racconta del suo incontro con il famoso pedagogista
Non so ancora, mentre incomincio a scrivere questa cronaca, se l’altro ieri ho trascorso un lungo pomeriggio nel mondo delle favole, in una scuola romana di periferia, (ai Monti Tiburtini), con il grande nonno Pietro Ingrao che raccontava «ai fanciulli e alle fanciulle» della prima, seconda e terza media 2007-2008 gli anni «bellissimi e terribili» della sua scoperta dell’amicizia, nell’incontro all’Università con Lucio Lombardo Radice (al quale la scuola è intitolata, e di cui si ricordava la vita e il pensiero). O se invece, in una dimensione del tutto reale, mi sono imbattuta - in questi tempi di conclamato bullismo scolastico - in un’isola felice. Credo che la risposta giusta al mio dilemma sia quella data dalla giovane (e deliziosa) Preside, Maria Grazia Lancellotti. Che senza polemiche ha chiarito come la scuola italiana, quella di cui magari non si parla e non si scrive, è fatta di una costante sperimentazione «fianco a fianco»: i Maestri, come li chiama Pietro Ingrao, con un affascinante arcaismo, a fianco degli studenti.
«Lucio - esordisce Ingrao - era un girovago, la sua mente navigava, matematico, umanista...il suo modello era Leonardo... E soprattutto era un educatore. Vivemmo insieme anni bellissimi e terribili, e dobbiamo darne notizia a voi, fanciulli e fanciulle di oggi. Il contatto prezioso con i vostri Maestri è essenziale. Ma, per parte mia, non sono sicuro di riuscire a dare a chi sboccia ora alla vita quella lezione dura ma necessaria ricavata dall’esperienza terribile che invase la nostra giovinezza nel secolo scorso: la guerra, le guerre...» E qui il nonno Ingrao racconta come una favola - ma le favole possono essere crudeli - la guerra di Spagna, cominciando da Francisco Franco: «Iniziò una avventura vergognosa, arrivando dal Marocco in Spagna, scatenò la guerra civile contro il governo del fronte popolare, e da qui partì la catastrofe europea». Il narratore continua: «La seconda guerra mondiale non lasciò intatto quasi nessun Paese europeo, Dresda rasa al suolo dai bombardamenti aerei, la battaglia infinita di Stalingrado... Lucio ed io ci siamo trovati in questa tormenta. Quando mi iscrissi all’Università di Roma in Italia c’era il fascismo. Lucio mi prese per mano e, insieme ad altri compagni e compagne, mi insegnò a non rinunciare mai alla libertà. Con lui scegliemmo la strada difficile della cospirazione antifascista. Lucio andò in galera, uscì dalla galera, ricominciò, e tornò in galera! Un giorno si dovrà raccontarvi le galere di allora». E conclude, Ingrao: «Andate a fare una assemblea alle Fosse Ardeatine, lì sono sepolti due miei Maestri, Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo». Tra gli applausi, il regista teatrale Giovanni Lombardo Radice, il figlio più giovane del pedagogista - suo padre lo cita come «il biondino», ne L’educazione della mente - si alza per aiutare a scendere dalla pedana il quasi-nonno (Laura Lombardo Radice è stata la moglie amatissima del grande uomo politico, ed il più travagliato, forse, della sinistra italiana).
Ed arriva Luana Benini a raccontare la sua esperienza a fianco di Lombardo Radice nella redazione della rivista Riforma della scuola. «La rivista non esiste più, venticinque anni sono passati dalla scomparsa di Lucio, eppure rileggendo in questi giorni i suoi Taccuini pedagogici, mi sono emozionata. Lucio percorreva l’Italia per lavorare insieme agli insegnanti, e poi scriveva i Taccuini, una rubrica fissa. Parlava di valori “antichi” ai quali forse ci vergogniamo di ritornare: la solidarietà, il senso di responsabilità, il metodo per appropriarsi della cultura, quella vera». E riflette, Luana: «Oggi se Lucio fosse qui sarebbe un fiume in piena, porrebbe domande scomode alla sua parte politica, denunciandone gli errori. La battaglia per la laicità della scuola italiana fu la sua. Scuola laica, scuola di tutti, fondata sul pluralismo».
l'Unità 3.2.08
Medici choc: «Aborto, rianimare i prematuri estremi». Ed è polemica
Documento dei ginecologi universitari sui feti: «Anche senza consenso della madre»
di Virginia Lori
I firmatari: la nascita attribuisce la pienezza del diritto alla vita
Caporale (Cnb): rianimare sempre
Il ginecoloco Colacurci: «Legislazione pazzesca: la legge 40 e la 194 tra loro si contraddicono»
Nel caso in cui un feto nasca vivo dopo un'interruzione di gravidanza, il medico neonatologo deve intervenire per rianimarlo, «anche se la madre è contraria, perché prevale l'interesse del neonato». A sostenerlo è Domenico Arduini, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia dell'università di Tor Vergata, e uno dei firmatari del documento condiviso dalle università romane di medicina secondo cui va rianimato qualsiasi prematuro che mostri segni di vitalità.
«UN NEONATO vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente». È quanto viene affermato in un documento approvato ieri dai direttori delle cliniche ginecologiche delle facoltà di medicina
delle università romane, Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico. Il documento è stato discusso nel corso del convegno al Fatebenefratelli dedicato alla giornata della vita in relazione alla prematurità estrema. «Con il momento della nascita la legge - afferma il documento - attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all’assistenza sanitaria. L’attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell’unità ed i genitori». Tuttavia, sostengono i firmatari, «se ci si rendesse conto dell’inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico». Il documento si riallaccia alle problematiche emerse in questi ultimi mesi circa i limiti dell’aborto in relazione all’avanzamento delle tecniche rianimatorie e di sopravvivenza del feto. Alcune preoccupazioni erano state espresse dai vescovi italiani, mentre le società scientifiche dei neonatologi hanno prodotto diverse linee guida per adeguare gli interventi. «Nell’immediatezza della nascita - ha spiegato Cinzia Caporale, componente del Cnb - il medico deve agire in scienza e coscienza sulla opzione di rianimare, indipendentemente dai genitori, a meno che non si palesi un caso di accanimento terapeutico». Secondo Caporale il medico deve quindi rianimare sempre, decidendo caso per caso. Nell’ipotesi in cui il feto sopravviva all’aborto «non ritengo necessario chiedere il consenso della madre. In questo caso infatti si esercita un’opzione di garanzia con cui si tutela un individuo fragile e vulnerabile, qual è il neonato, in un fase in cui non si hanno certezze cliniche». Una volta che però la rianimazione ha avuto inizio e la situazione clinica evolve in modo sfavorevole, «con mezzi di cura troppo onerosi rispetto ai risultati che si possono ottenere non c’è l’obbligo di cura, ma è anzi doveroso moralmente sospendere la terapia». Nicola Colacurci, dell’Università di Napoli, ricorda come il problema della rianimazione dei feti prematuri sia «stato ampiamente discusso, e non siamo mai riusciti a elaborare un documento condiviso. Anche perché la legislazione italiana è pazzesca, con due leggi, la 40 e la 194, in contraddizione tra loro. Servirebbe chiarezza». Di fatto si potrebbe creare il paradosso di una legge che con una mano consente alla madre di abortire entro un certo termine, e con l’altra obbliga il neonatologo a intervenire sul feto. Per questo, spiega Colacurci, «ci vorrebbe una legge che fissi il limite temporale oltre il quale intervenire sul feto. 18, 20, 22 settimane? È lo stato che deve dirci come intervenire, non si può ogni volta, come è successo spesso, correre il rischio di venire denunciati per omissione di soccorso».
Corriere della Sera 3.2.08
Carlo Flamigni Il ginecologo laico
«Cure inutili sui superprematuri Quei piccoli non hanno speranza»
di M.D.B.
ROMA — «È terribile che i genitori vengano ascoltati per ultimi, che i loro desideri non siano tenuti in nessuna considerazione. Terribile che il loro bambino venga mantenuto in vita a forza, senza il consenso della madre e del padre, anche se doveva essere abortito». È la più istintiva delle critiche che Carlo Flamigni muove allo stringato documento degli universitari romani. Il ginecologo è un super-laico, voce di minoranza nel Comitato nazionale di bioetica.
Il medico dovrebbe rianimare il bambino a prescindere dal periodo della gestazione, in teoria dunque anche a 21 settimane se è vitale. Che ne dice?
«Sono contrario. Oggi è molto difficile ignorare l'età del feto.
Molto spesso si conosce l'epoca del concepimento, ci sono donne che chiedono di fare l'ecografia appena sanno di essere incinte. E i tempi sono molto importanti perché statisticamente si sa che al di sotto di una certa soglia il bambino può sì sopravvivere ma rischia handicap gravissimi».
Dunque?
«È molto pericoloso garantire le cure a tutti i neonati. Pensiamo soltanto all'aspetto pratico. I soldi di questo Paese verrebbero buttati via per cure inutili. Le culle di terapia intensiva inoltre sarebbero occupate da bambini senza speranza e quelli che invece hanno buone possibilità di andare avanti senza grossi danni non potrebbero essere trattati tempestivamente per mancanza di letti liberi ».
Ne fa un problema squisitamente economico?
«Non sono elementi da trascurare. Tuttavia la parte più inaccettabile del documento è quella che tiene fuori i genitori. La madre e il padre devono essere ascoltati eccome. Devono sapere che il figlio riceverà cure sperimentali».
Sperimentali?
«Così dobbiamo considerarle. E più l'età gestazionale del feto è bassa, più le cure sono sperimentali. Secondo Silvio Garattini lo sono la metà dei trattamenti di rianimazione neonatologica. Il feto non è un piccolo omino. È un essere speciale. Non ci sono protocolli sicuri. Quindi il consenso dei genitori è necessario».
l'Unità 3.2.08
Aned. Oggi la solidarietà agli ex deportati contro lo sfratto deciso dalla Moratti
Tutti con l’Aned. Oggi, al Teatro San Fedele di Milano, in via Hoepli al numero 3, si terrà un incontro di solidarietà con l’Associazione ex deportati politici nei campi nazisti, dopo lo sfratto annunciato dall’amministrazione comunale nei giorni scorsi.
A pochi giorni dalla ricorrenza del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, giorno dedicato alle vittime del nazismo, del fascismo e dell'Olocausto, il comune di Milano ha intimato lo sfratto dalla storica sede di via Bagutta 12 e all'Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) dal palazzo di via Pietro Mascagni. Il comune di Milano ha spedito alle rispettive sedi una raccomandata di sfratto, senza consultarsi con le Associazioni. Un ordine lapidario senza possibilità di replica o di un accordo.
Sono previsti, tra gli altri, gli interventi dell’ex magistrato Gherardo Colombo, delle attrici Lella Costa e Marina Senesi, dell’attore Flavio Oreglio col musicista Fabrizio Canciani, del resista Renato Sarti, di Massimo Cirri, del gruppo bresciano “Klezmorim”, del trio Mirkovic, della pianista Monica Catarossi e dell’associazione intitolata all’ex deportato Roberto Camerani.
l'Unità 3.2.08
Zapatero si indigna con il Vaticano
MADRID Il governo spagnolo ha informato ieri il Vaticano del suo «malessere» e della sua «indignazione» per le prese di posizione della Chiesa cattolica di Spagna nella campagna elettorale in vista delle legislative del 9 marzo. L’ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede, Francisco Vazquez, ha consegnato nel corso di una riunione in Vaticano un messaggio in tal senso a proposito di «alcuni punti» della nota «di orientamento morale» diffusa giovedì dalla Conferenza episcopale spagnola. Nella nota, la Chiesa criticava tra l'altro il governo socialista di Josè Luis Rodriguez Zapatero per aver negoziato con «l'organizzazione terroristica» basca Eta. In precedenza i vescovi spagnoli avevano già criticato numerose riforme sociali del governo Zapatero. Sempre ieri il capo della diplomazia spagnola Miguel Angel Moratinos ha dichiarato che la Chiesa cattolica spagnola ha «una gerarchia integralista, fondamentalista» e «neoconservatrice». Ed ha espresso la sua «indignazione» e la sua «sorpresa e perplessità in quanto cattolico» di fronte alla nota dei vescovi. Secondo il ministro «molti cattolici in Spagna non comprenderanno» il motivo dell’iniziativa dei vescovi. Moratinos ha definito quella spagnola una «gerarchia che non è in grado neanche di rappresentare il parere della maggioranza dei cattolici spagnoli». «Come cattolico -ha proseguito- non posso identificarmi con chi utilizza politicamente il terrorismo per dividere i democratici spagnoli». «Credevo che la separazione fra Stato e Chiesa - ha concluso il ministro- fosse una questione ormai superata e non capisco perché si torni ad utilizzare la politica in materia di religione».
l'Unità 3.2.08
Dei diritti e dei malati
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Che ci sia nuovamente in agenda una “questione laica”, nel nostro Paese, è cosa evidente a tutti. L’espressione, ancorché in uso da tempo, dunque facilmente intelligibile, non ci convince: descrive solo parzialmente quella relazione - tra religione e sfera pubblica, tra identità confessionale e partecipazione alla vita associata - che oggi è al centro di conflitti e tensioni crescenti. Essa evoca, soprattutto, l’aspirazione all’indipendenza e alla sovranità delle istituzioni democratiche dai condizionamenti che possono venire dalle autorità ecclesiastiche; rappresenta, dunque, una tradizione politica che, particolarmente in Italia, poggia su ragioni storiche complesse e mai definitivamente risolte. Tuttavia, intendere il rapporto tra sfera religiosa e sfera civile, oggi, alla sola luce di un’istanza di difesa della laicità, rischia di lasciare in ombra questioni importanti: che sono leggibili anche nel dibattito iniziato da Giuliano Ferrara, per una moratoria internazionale sull’aborto; e i cui riflessi investono la vicenda della rinuncia di Benedetto XVI a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza di Roma. Chiariamolo subito: siamo sostanzialmente d’accordo con Adriano Sofri, quando scrive che la Chiesa dovrebbe «chiedersi quanto le tentazioni di censura o di proibizionismi anticlericali debbano al suo proprio oltranzismo». Il Vaticano mostra da anni una tentazione “mondana”, una vocazione a tradurre il suo magistero morale in un primato sull’etica pubblica, che mal si concilia con il carattere liberale della nostra vita associata. Si registra, da parte delle gerarchie cattoliche, un interventismo nella vicenda politica intenso come non accadeva da molti lustri. Le motivazioni di questa spinta meritano di essere rinvenute e interpretate: esse sono soggettive (appartengono alla Chiesa), ma sono rese possibili (e, per alcuni, legittimate) da questioni di ordine culturale e sistemico: che hanno a che fare con la storia della scienza, con la crisi della filosofia, con la secolarizzazione della politica; e con la debolezza delle nostre istituzioni e con l’incerta tenuta del repubblicanesimo, qui inteso come etica civile condivisa. Qualora tutte questioni fossero di agevole lettura e interpretazione, rimarrebbe ancora incerto uno dei punti sui quali insistono molte delle polemiche quotidianamente sollevate, che pure stenta a essere formalizzato con chiarezza: qual è il confine che si prevede per la partecipazione dei credenti (e di chi li rappresenta in sede di dottrina e magistero) alla vita pubblica, affinché sia rispettata la laicità dello stato? La risposta rimanda alla qualità liberale della nostra democrazia: e alla tenuta (e al vigore) di quella fa direttamente riferimento. Va da sé, dunque, che tale risposta possa risultare chiara per molti; e, tuttavia, essa rischia di non essere univoca, rischia di apparire scomposta in una molteplicità di punti di vista e soluzioni. Dunque di essere problematica, fonte di ulteriori incomprensioni e conflitti. Molti di questi si vanno addensando sui quei temi scelleratamente definiti “eticamente sensibili”. Uno in particolare, quello del Testamento biologico, risulta per molti versi paradigmatico: perché è questione “aperta”, sulla quale non gravano ostracismi contrapposti irresolubili. La Chiesa ha a più riprese condannato le pratiche di accanimento terapeutico e si è espressa con favore verso le prerogative di libertà di cura del malato. Ancor più: essa ha espresso il suo consenso verso quelle pratiche sedative di accompagnamento alla morte (ampiamente diffuse nei nostri ospedali e tutt’altro che clandestine, tanto da essere registrate, in genere, nelle cartelle cliniche), che oggi taluni arrivano a definire “eutanasia”: interventi medici che, nell’imminenza e nell’ineluttabilità del decesso, servono solamente ad alleviare la sofferenza. Interventi non dissimili da quelli che Pio XII prese in considerazione nel suo Discorso intorno a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia. Uno degli interrogativi era esattamente questo: «la soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?». Ecco la risposta: «Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì». Correva l’anno 1957. Merita di essere ricordato anche quanto espresso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito, in coscienza, prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega, il secondo accetta il naturale compimento di essa». Si tratta di una delle espressioni più lucide della distinzione corrente tra sospensione di cure futili ed eutanasia. Correva l’anno 2000; e a capo di quella Accademia vi era l’allora cardinale Joseph Ratzinger. All’opposto, gli argomenti che a più riprese sono stati agitati dal Vaticano contro la libertà terapeutica sono noti. Sono parte consistente di quel novero di polemiche che alimenta la “questione laica” di cui si diceva: l’atteggiamento deplorevole tenuto dalle gerarchie vaticane nel caso della battaglia e della morte di Piergiorgio Welby è memoria problematica e dolorosa per larga parte dell’opinione pubblica (cattolici inclusi). Tuttavia, proprio come i cattolici intendono convocare i laici a discutere di politiche sulla maternità, noi vorremmo convocare loro per ragionare delle libertà della persona; e, in questo caso, dei diritti di libertà del malato. Nella speranza che la buona volontà della ragione attenui le divisioni di schieramento, appartenenza, cultura.
l'Unità 3.2.08
I Barbari e la Roma classica, ecco un falso storico
di Renato Barilli
PALAZZO GRASSI Una mostra racconta l’incontro fra due civiltà: Visigoti e Longobardi da un parte, l’Impero dall’altro. L’insegna parla della «nascita d’un nuovo mondo». Ma i reperti ci narrano un’altra storia
Confesso di aver trovato assai allettante l’ipotesi che il veneziano Palazzo Grassi, nella nuova gestione assicuratagli dal magnate francese Pinault, non si limitasse a darci ampie abbuffate sulla più stretta attualità, come ha fatto nelle sue prime uscite, ma raccogliesse almeno in parte l’eredità dalla precedente conduzione Fiat offrendoci di tanto in tanto delle poderose retrospezioni su un passato remoto. Così è ora con Roma e i barbari (cat. Skira a cura di Jean-Jacques Aillagon). Ma il periodo preso in esame appare troppo ampio, e il pur abbondante materiale accumulato nel percorso espositivo non sembra ordinato secondo percorsi critici ben scanditi, capaci davvero di prendere per mano il visitatore. Meglio insomma che l’illustre Palazzo veneziano ritorni a ben circonstanziati scandagli sui nostri giorni.
In effetti, sotto il titolo troppo vasto si celano due mostre distinte, l’una delle quali riguarda un tema massimo, più volte affrontato, anche da me in varie occasioni su queste colonne. Si tratta del vistoso declino che le forme della classicità, del solenne mimetismo greco-romano, hanno subito man mano che ci si allontanava dall’apogeo augusteo verso i secoli della tarda romanità, con perdita delle capacità di illusionismo prospettico, di rispetto scrupoloso delle anatomie, delle individualità dei singoli personaggi. Un processo che si è esplicato in misura implacabile di secolo in secolo, a cominciare già dal II dopo Cristo, e con indici crescenti di appiattimento, di stilizzazione, di astrazione generalizzante. Ma sarebbe errato vedere in tutto ciò un qualche influsso dei barbari e delle loro invasioni, dato che queste, almeno fino al VI secolo, venivano arrestate, seppure con difficoltà crescenti. I barbari c’entrano assai poco, in questa vicenda, il fatto è che era lo stesso impero romano a «laborare de mole sua», non riusciva più a tenere in piedi un sistema ben connesso di comunicazioni viarie, da un capo all’altro del suo enorme corpaccio. È ben noto il provvedimento preso, sul finire del III, da Diocleziano, che disperando ormai di far reggere il tutto su un’unica capitale, ne stabiliva ben quattro, tentando di bloccare la crisi con il sistema tetrarchico. Ebbene, di questa vicenda sommamente istruttiva la mostra a Palazzo Grassi offre una documentazione diluita, per sommi capi, e niente affatto resa perspicua nei suoi snodi. Al pianterreno si hanno alcuni sarcofagi, il Piccolo Ludovisi, quello di Portonaccio, che attestano ancora di una fattura accurata e minuziosa dei corpi, e accanto a loro ci sono pure austere sfilate di busti di imperatori anch’essi ben modellati, mentre poi ci si precipita verso le forme già assai ridotte, quasi tracciate col compasso, di altri protagonisti vicini ai tempi di Diocleziano. Naturalmente è presente solo in foto il gruppo dei quattro Tetrarchi, che si può ammirare poco lontano, sull’esterno del Palazzo Ducale, con quelle figure simili a bambolotti scorciati nelle dimensioni, quasi clonati tra loro, a riprova che l’individualismo, il precisionismo dei vecchi tempi è ormai finito, e ci si muove a livello di mascheroni stereotipati. Non c’entra nulla anche lo sdoganamento del Cristianesimo, attuato di lì a poco da Costantino, forse proprio nel tentativo di ritrovare con esso un mastice per tenere uniti i frammenti dell’impero. È tesi spiritualista inaccettabile che sia stato l’ethos della nuova religione a sconfiggere il vecchio naturalismo pagano, accadeva semplicemente che le medesime forme ridotte e schiacciate venissero adottate anche per evocare i misteri del nuovo culto. E si sta ormai profilando la vicenda che prenderà il nome da Bisanzio, dove cessa, senza dubbio, il ruolo dell’Impero d’Occidente, ma non è che il subentrante Impero d’Oriente corrisponda a un cedimento ai barbari, anzi, è la parte della vecchia formazione statuale che ancora resiste alle invasioni dall’esterno. Uno dei pregi della mostra è di essere ricca di dittici e di altri reperti scalfiti nell’avorio, in cui figure di santi e di imperatori compaiono, nonostante il rilievo, con la medesima frontalità e ieraticità immote che i maestri musivi, nello stesso lungo periodo, conferivano ai loro elaborati parietali.
Viene poi una seconda parte della mostra, questa sì dedicata all’arrivo dei barbari, con un minuzioso censimento attento a distinguere li apporti specifici di Avari, Burgundi, Visigoti, Longobardi eccetera, ma colti in genere come erano al momento del loro sopraggiungere nelle terre d’Occidente e nelle vecchie province romane, portandosi testimonianze d’arte in genere improntate a una sorta di iconoclastia obbligata, per l’imperizia delle loro maestranze a trattare la figura umana, evocata tutt’al più in modi da dirsi davvero primitivi, un circoletto per il volto, un’asta verticale per la canna nasale, due forellini per gli occhi. Prevale il senso dell’utile, ben rare sono le immagini articolate, l’artisticità si esplica nel decorare fibbie, armille, scudi, elmi, cinturoni. Al momento, insomma, non c’è fusione, tra le due grandi componenti, e dunque, al contrario di quanto recita il sottotitolo della mostra, non c’è ancora «la nascita di un nuovo mondo».
Repubblica 3.2.08
Battetevi bene e buona fortuna
di Eugenio Scalfari
Zapatero e i Vescovi di Spagna. Anche lì sono imminenti le elezioni dopo un quadriennio di ininterrotto governo. Le faranno all´inizio di marzo, un mese prima di noi che andremo a votare a metà aprile se come sembra tra lunedì e martedì Marini tornerà al Quirinale per comunicare al Presidente che non c´è altra via al di fuori del voto anticipato con questa schifosa legge elettorale.
Perciò Zapatero e i vescovi di Spagna possono essere utili come esempio. In Spagna votarono quattro anni fa con una buona legge che ha dato maggioranze solide e stabilità di governo. Zapatero prese impegni con gli elettori e li mantenne rigorosamente, dal ritiro del corpo di spedizione in Iraq ai matrimoni omosessuali, dalle trattative con l´Eta all´educazione civile nelle scuole, alla struttura federale dello Stato, a provvedimenti economici di stimolo alla crescita del Paese. Adesso presenta il suo bilancio per essere riconfermato o sostituito.
I vescovi di Spagna, dopo aver mobilitato la piazza, nei giorni scorsi hanno diffuso una sorta di manifesto politico nel quale, dopo aver premesso che i programmi elettorali non sono neutrali rispetto ai problemi della fede e della morale e che quindi la Chiesa è autorizzata a giudicarli, hanno elencato uno per uno tutti i punti di dissenso da quanto il governo ha realizzato e da quanto si propone di fare nella prossima legislatura. A conclusione di questo severissimo esame hanno invitato i cattolici a votare contro quei partiti e quei candidati che condividano quello «scempio» delle coscienze cristiane.
La risposta di Zapatero è stata al tempo stesso sobria, rispettosa e fermissima.
Ha detto che i vescovi hanno diritto e libertà di parola, ha ribadito il suo rispetto verso la Chiesa ed ha concluso con la riaffermazione di tutto quanto ha fatto e si propone di fare se vincerà, ricordando che le leggi approvate dal governo e dalle Cortes sono vincolanti per tutti indipendentemente dalla fede religiosa e da altre differenze di genere e di luogo. Il popolo sovrano deciderà perché questa è la democrazia.
Presumo che sua eminenza Ruini si sia congratulato con i suoi colleghi di Spagna che sono entrati a piede dritto nella politica del loro Paese dando indicazioni esplicite di voto. Presumo che anche il Papa si sia compiaciuto della combattività dell´episcopato di Spagna; infatti la Santa Sede non ha manifestato alcuna riserva sulle sue iniziative.
In Italia il linguaggio dell´episcopato è stato appena più cauto. Le interferenze politiche non sono mancate, abbiamo anzi assistito al loro moltiplicarsi anche se non siamo ancora arrivati ad una vera e propria dichiarazione di voto elettorale. Non ancora. E la ragione è facilmente spiegabile. Qui da noi la classe politica è molto più malleabile in confronto alla nettezza del governo socialista spagnolo. Qui basta ed avanza che la Cei aggrotti il sopracciglio per indurre all´obbedienza il laicato, cattolico e non cattolico. Ma si può stare certi che se ci fosse alla testa di un governo e di una maggioranza uno Zapatero italiano, sarebbe guerra aperta con la gerarchia vescovile assai più acerba di quanto oggi non avvenga.
Mi domando se sia un bene od un male. Abbiamo già tanti problemi e tante anomalie da sconsigliare un fronte caldo con la Chiesa. Ma per converso mi domando anche se i compromessi al ribasso con le pretese della gerarchia ecclesiastica non indeboliscano la coscienza democratica lasciando che i diritti civili abbiano una protezione così limitata e precaria quando non siano semplicemente impediti e negati. Sono anche convinto che i cattolici debbano sentirsi a casa loro nella democrazia italiana a condizione che i laici non ne divengano estranei e marginali.
La democrazia senza i cattolici sarebbe impensabile in un Paese come il nostro, ma senza i laici cesserebbe di esistere se è vero che laicità e democrazia sono sinonimi.
Incito perciò i laici ad affermare e sostenere a testa alta e a piena voce i propri valori e le proprie ragioni e le forze democratiche a non vergognarsi di esserlo. Anche questo è un modo di porsi nella campagna elettorale che sta per cominciare.
* * *
La campagna elettorale di Berlusconi e dei suoi soci avrà i toni consueti e la consueta distribuzione delle parti. La voce dominante sarà, come sempre è avvenuto e come è giusto che sia, quella del Capo. Gli argomenti sono scontati: il disastro del governo Prodi (utilissimo per loro il fatto che Prodi sia ancora e fino a dopo il voto il titolare di Palazzo Chigi), le tasse da abbattere a cominciare dall´Ici, i comunisti da espellere dal circuito politico, la Chiesa da soddisfare in tutte le sue richieste, l´economia da rilanciare.Ma ci sarà un tema nuovo sul quale sia Berlusconi sia Casini (gli altri non so) batteranno molto; un tema seduttivo: la nuova legislatura guidata dal centrodestra avrà caratteristiche "costituenti". Farà le riforme istituzionali, farà una nuova legge elettorale, assocerà l´opposizione sul modello Sarkozy-Attali. Chiamerà a collaborare i cervelli migliori e le migliori energie senza badare ai colori di bandiera. Gianni Letta come vessillo.
Il programma è questo. I soci maggiori si sono già spartiti le cariche: Fini alla presidenza della Camera, Casini agli Esteri. Letta dove la sua presenza "pacificatrice" sarà più utile. Alla presidenza della Rai un uomo "morbido" di centrosinistra con maggioranza targata centrodestra. Tutto come prima, ma in clima "bipartisan".
C´è da credere? Me l´hanno chiesto l´altro giorno anche i colleghi del New York Times che stavano lavorando proprio su questo tema: un Berlusconi nuovo di zecca, ravveduto, mite, senza vendette, dedito una volta tanto all´interesse del Paese prima che alle leggi "ad personam". Un Berlusconi liberale nei fatti e non solo nella parole. Ci credete? Ci crediamo? Vorrei accantonare le antipatie e le simpatie e rispondere sulla base di analisi dei fatti e dell´esperienza.
È difficile che un uomo di settant´anni cambi carattere. Difficile anche se non impossibile. Berlusconi vuole essere amato, questo è sempre stato il tratto distintivo del suo carattere. Lui si ama molto ma l´amore degli altri gli è indispensabile. Il suo populismo e la sua innata demagogia sono nutriti dall´amore verso di sé e dal bisogno di conquistare gli altri. È anche molto furbo e perciò consapevole di questi suoi istinti che sa guidare e mettere a frutto. Perciò non prenderà mai provvedimenti impopolari.
Volete i fatti? Eccone qualcuno. L´immondizia a Napoli è esplosa durante i diciotto mesi del governo Prodi ma ha radici più antiche che risalgono al quinquennio berlusconiano. La Tav e l´insorgenza in Val d´Aosta è tutta nata sotto il governo 2001-2006; la stessa cosa per la base Usa a Vicenza. Stessa cosa per la crisi dell´Alitalia. Non parliamo delle liberalizzazioni: non ne ha fatta nemmeno mezza. E non parliamo della finanza pubblica: è andato avanti a botte di condoni. La Banca d´Italia una settimana fa ha esaminato il risultato di quei condoni e la sentenza di Draghi è stata questa: nel periodo considerato il reddito dei lavoratori autonomi è aumentato il doppio di quello dei lavoratori dipendenti. Inutile dire il perché di questo colossale spostamento di risorse.
Riformare questo stato di cose è difficile, suscita malcontento e quindi impopolarità. Ecco perché queste riforme Berlusconi non le farà se vincerà nel 2008 come non le ha fatte nel quinquennio 2001-2006.
Neppure Sarkozy le farà, che per alcuni rilevanti aspetti gli somiglia anche se il suo potere è molto più ampio e solido di quello di Berlusconi.
Sarkozy ha nominato una commissione di studio presieduta da un uomo intellettualmente fascinoso e socialista. La commissione Attali ha presentato pochi giorni fa il suo dossier al presidente della Repubblica francese. Le farà quelle riforme? Seguirà quei suggerimenti? Tra di essi campeggia quello di abolire la "funzione pubblica", che significa abbattere uno dei cardini dello Stato francese e della pubblica amministrazione. Non sarà una passeggiata perché anche Sarkozy come Berlusconi vuole essere amato. E non soltanto da Carla Bruni.
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Ho ascoltato l´altra sera nella trasmissione del Tg1 il mio amico Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera in un dibattito con Pisanu, Rutelli e Casini. Solite schermaglie sul governo Prodi e sulle elezioni ad aprile oppure a giugno.Non entrerò in questa ormai stucchevole disputa della quale tutto è stato detto salvo una cosa peraltro evidente: al centrodestra conviene votare al più presto, quando ancora l´emozione "liberatoria" suscitata dalla caduta del governo Prodi è intensa. Tre mesi di più sembrano pochi ma possono far sbollire quell´emozione e fare emergere una realtà ancora nascosta: che quel governo ha operato molto meglio di quanto non sia apparso. Il commissario europeo Almunia ha già cominciato ad ammetterlo.
Il tempo è galantuomo e anche tre mesi in più rappresentano in questo momento un rischio per Berlusconi.
Comunque non è di questo che voglio occuparmi ma di un´opinione del direttore del Corriere su una questione molto importante: quella della continuità della politica economica e finanziaria.
Ha detto Mieli che i risultati in questo essenziale settore realizzati da Prodi e da Padoa-Schioppa (bisognerebbe aggiungere il nome di Vincenzo Visco che è l´autore di interventi tecnici decisivi) sono stati molto positivi; ha citato anche lui il favorevole giudizio della Commissione europea; ha aggiunto che questi risultati si sono anche giovati di quanto aveva fatto in precedenza il ministro del Tesoro Tremonti conducendo una politica economica e finanziaria analoga a quella poi attuata da Padoa-Schioppa ed ha continuato infine affermando che ci sarà piena continuità tra Padoa-Schioppa e il futuro Tremonti così come ci fu continuità tra il Tremonti della precedente legislatura e il Padoa-Schioppa che seguì.
Caro Mieli, amico mio, la continuità si può auspicare ma non inventare.
Se c´è un settore dove la discontinuità è stata pressoché totale è proprio quello tra Prodi e Berlusconi, tra Padoa-Schioppa e Tremonti. Le consegne del maggio 2006 furono un avanzo delle partite correnti azzerato, un´evasione fiscale al massimo livello, un debito pubblico accresciuto, un deficit rispetto ai parametri di Maastricht del 4,1 per cento, una crescita del Pil a livello zero.
Le consegne che Padoa-Schioppa farà, se Berlusconi vincerà, saranno: una diminuzione del debito pubblico e del fabbisogno finanziario, la ricostruzione dell´avanzo delle partite correnti, il deficit ridotto dal 4,1 al 2 per cento (attualmente siamo addirittura scesi all´1,3) una pacificazione mai raggiunta finora tra il fisco e alcuni milioni di piccoli e medi contribuenti con nuovi studi di settore e nuove semplificazioni burocratiche; infine una riduzione cospicua dell´evasione fiscale. Le tasse? Il gettito è aumentato senza una sola nuova imposta né modifica e rialzo di aliquote, anzi con sei miliardi di euro in favore delle imprese con l´abbattimento dell´Irap e dell´Ires.
Come vedi, caro Mieli, la discontinuità è stata totale nella politica economica dei due governi. Non so se Tremonti si sia convertito alla linea Padoa-Schioppa-Visco. Non mi pare, purtroppo. Tremonti è uno di quelli che crede di avere sempre ragione e lo spiega in ogni occasione. Anche lui si ama moltissimo ma non riesce ad essere amato per mancanza di umiltà.
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Domani o al massimo dopodomani Marini rinuncerà. Le Camere saranno sciolte. La vittoria del centrodestra ad aprile è già scritta.Ne siete sicuri? Per la terza volta la maggioranza degli italiani sarà con lui? È vero che il centrosinistra ha fatto il possibile e l´impossibile per rimetterlo in sella, ma nonostante tutto non sono così convinto che vincerà.
Credo che il Partito democratico e Veltroni siano pienamente in partita sul terreno di gara ed abbiano carte forti da giocare. Si presentino da soli con un programma di pochi punti, concreti e precisi. Procedano con coraggio, onestà, trasparenza. Facce giovani e nuove senza rinunciare all´esperienza dei vecchi quando sia stata positiva.
Se saranno sconfitti cadano in piedi e lavorino per il futuro. E buona fortuna.
Repubblica 3.2.08
Se la Resistenza deve essere ripescata
di Giorgio Bocca
Il rischio mortale è consegnare la democrazia all´unità nella corruzione
Il fatto che i fondatori del Partito democratico abbiano dimenticato la resistenza nella carta dei valori è un errore politico del partito che nasce e un segno deludente del machiavellismo italiano. Veltroni è dovuto intervenire in zona Cesarini per correggere l´errore. Ma bisognerebbe capire come sia stata possibile una simile amnesia.
L´antifascismo era stato forse dimenticato per rendere più facile il dialogo con i moderati italiani guidati da Berlusconi, l´unico premier che non abbia mai partecipato alle celebrazioni della Resistenza e che abbia sdoganato i neofascisti?
Nella Resistenza italiana, che da parecchi si vuol dimenticare come qualcosa che disturba nell´età del globalismo e del dio denaro, ci sono due momenti decisivi su cui alcuni storici hanno erroneamente sorvolato: l´attendismo dei generali e la «pace» dei vescovi. L´attendismo predicava il rinvio della lotta partigiana a un vago futuro. I gruppi dei resistenti non dovevano attaccare i nazisti occupanti subito, come invece si doveva fare, anche in condizioni d´inferiorità numerica e di armi, per dimostrare che c´erano degli italiani pronti a pagare subito quel biglietto di ritorno alla democrazia. La «pace» dei vescovi dava un consiglio analogo, invitava i fedeli a evitare lo scontro aperto con l´occupante e a lasciare ai vescovi, cioè alla Chiesa, il compito di arrivare pacificamente alla fine della guerra. La Resistenza, fosse garibaldina comunista o di Giustizia e Libertà o degli autonomi di matrice cattolica e liberale, rifiutò questo attendismo, fu per la lotta subito e fuori da ogni calcolo. C´è naturalmente chi sostiene l´opportunità di far calare il silenzio sulla Resistenza; la Resistenza, si dice, è un passato che molti italiani, specie i giovani, ignorano. Si dà per certo, per un fatto consolidato l´esistenza in Italia di una democrazia condivisa in uno Stato di diritto, mentre stiamo assistendo a uno sfascio dello Stato, mentre crescono le associazioni mafiose e criminali.
Certo è difficile ricordare e rivendicare l´intransigenza partigiana. C´è il rischio della retorica e dell´utopia, ma il rischio opposto, il rischio mortale è di riconfermare trasformismo e machiavellismo, il rischio mortale di consegnare la debole democrazia che ci ritroviamo all´unità nella corruzione, alla concordia nel servizio dei più forti e più furbi. Un magistrato che fu al centro della rivoluzione morale di Mani Pulite non a caso esortava i cittadini a «resistere, resistere, resistere». Che cosa voleva dire quel suo appello di sapore resistenziale? Voleva dire che sui valori laici che furono anche quelli della Resistenza, i valori del rispetto della legge, dell´onestà nel pubblico servizio, della lotta alle organizzazioni criminali non si poteva transigere, voleva dire con grande preveggenza che se non si resiste su questi valori si va inevitabilmente alla diffusione della Mafia, se non si pratica l´onesta pulizia delle nostre città si arriva inevitabilmente alle strade napoletane invase dalla spazzatura.
Corriere della Sera 3.2.08
Firenze. Faust Sfida a Mefistofele. Con Goethe per «fermare l'attimo»
di Magda Poli
L' arte del palcoscenico è una miscela di improvvisazione fantastica e scrupolosa disciplina, di capriccio e serietà, di spontaneità e di artificio. Questo e altro ancora scopre il protagonista del romanzo di Goethe La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, e con gli occhi di Wilhelm, il grande Glauco Mauri, regista e autore della traduzione-adattamento con Dario Del Corno, sembra aver costruito il suo Faust, in uno spettacolo colorato, ironico e tragico, con estrosi abbandoni e semplici incanti, con gusto del gioco teatrale e amore e rispetto per la parola, dove gli attori sono insieme «ammaliati e ammaliatori». Una riduzione della grandiosa opera di Goethe, la tragedia del divenire dell'Uomo per cercare un'unica possibilità di salvezza: fermare l'Eterno nell'Attimo.
Un atto è dedicato al Primo Faust: la scommessa con Mefistofele, la seduzione e la morte di Margherita e l'altro al Secondo Faust con la corte dell'Imperatore e l'invenzione mefistofelica della cartamoneta, la Grecia di Elena, Filemone e Bauci. La bella scena di Mauro Carosi è una macchina teatrale che ben asseconda il viaggio di Faust con botole e tappeti che scorrono, i costumi di Odette Nicoletti sono colorati e fantasiosi. Glauco Mauri e Roberto Sturno con un felice scambio di ruoli sono a turno Faust e Mefistofele.
Glauco Mauri è uno splendido vecchio Mefistofele, non inquietante ma cinico e bonario, umano nella sua cattiveria, ludicamente pericoloso ed è anche un vecchio Faust scontento, disperato e sconfitto. Il bravissimo Roberto Sturno è un giovane Faust pieno di desiderio di vita, dall'umanità sofferta e un Mefistofele impertinente.
Una buona compagnia in uno spettacolo che, come scrive Goethe, deve essere simile ad uno stagno dove accanto all'acqua limpida, alla poesia, c'è una certa dose di nutrimento facile per allietare gli esseri che lo frequentano.
In scena Glauco Mauri e Roberto Sturno, Faust di Johann Wolfgang von Goethe Teatro La Pergola di Firenze
il Venerdì di Repubblica 1.2.08
La spallata di Benedetto XVI al governo Prodi
di Curzio Maltese
La vera spallata a Prodi alla fine l'ha data il
Vaticano. Era chiaro da tempo che le gerarchie
ecclesiastiche erano scese in campo direttamente
contro il centrosinistra e per favorire il ritorno di
Berlusconi, elargitore di mille favori alla chiesa
durante il suo quinquennio a Palazzo Chigi. La Chiesa
ha agito alla vigilia della crisi come una qualsiasi
lobby politica, sia pure extraparlamentare,
addirittura extraterritoriale, e con un'intelligenza
politica superiore a quella dei partiti in
circolazione.
La spallata della Chiesa al centrosinistra era partita
da lontano. Non c'è stata settimana, dalla primavera
del 2006, in cui il papa o i vescovi non siano entrati
in polemica, più o meno diretta, con l'azione del
governo. Ma nell'ultima settimana si è consumato uno
spettacolare attacco su più fronti. Ha cominciato
Benedetto XVI, in qualità di vescovo della capitale,
con l'attacco al Veltroni sindaco sul "degrado di
Roma".
Ora, è chiaro che l'uno è "anche" papa e l'altro è,
guarda caso, leader del PD. Quanto alla predica del
papa sui mali di Roma, dagli "affitti troppo alti"
allo scarso attivismo dell'amministrazione locale,
bisognerebbe aprire un lungo capitolo. L'Apsa, che
gestisce la proprietà ecclesiastiche, è il primo
immobiliarista della capitale, con il 22 per cento del
patrimonio totale della città: non può fare nulla per
calmierare gli affitti? La Chiesa è il primo evasore
(legalizzato) delle tasse romane, con l'esenzione
dall'Ici, così come il primo beneficiario delle
onerose convenzioni private su sanità e scuola.
L'elenco dei favori che la città di Roma paga alla
Chiesa è infinito, dalle forniture d'acqua ai pass
delle automobili per il centro.
Era ben studiato il pretesto della mancata visita alla
Sapienza, dove si capiva benissimo che alla Chiesa non
interessava la questione in se ma lo sfruttamento del
caso. La polemica sulla sicurezza non garantita era
strumentale. I predecessori di Benedetto XVI sono
andati in visita pastorale in Paesi del Terzo mondo e
hanno incontrato folle di milioni di persone, e questo
papa ha paura di entrare nell'Università di Roma?
Bisognava trovare il modo di organizzare una
manifestazione contro il governo a San Pietro, senza
dire che si trattava di politica.
Così è andata e nella folla di san Pietro c'era in
prima fila Clemente Mastella, il quale proprio in
quell'occasione, per sua ammissione, decide l'uscita
dalla maggioranza e la comunica subito non a Prodi ma
al cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano.
Nello sfascio della politica, la Chiesa ha deciso di
scendere in campo, alla riconquista di un ruolo
centrale perso dal tramonto della DC. I leader del
centrosinistra dovrebbero almeno prenderne atto e
studiare qualche contromossa, che non sia il solito
inginocchiarsi nella vana speranza di ammansire i vescovi
il manifesto 3.2.08
I ginecologi: «Rianimare i feti». Ma poi arriva la smentita
Alla vigilia della giornata della vita organizzata dalla Cei, un documento dei direttori delle cliniche ginecologiche universitarie romane riapre il dibattito sull'aborto. Ma in serata i firmatari negano di voler cambiare la 194
di Stefano Milani
Il tema è di quelli caldi, e basta un niente a riaccendere gli animi. Specie in tempi in cui si propone una moratoria sull'aborto e, da parte del mondo ecclesiastico, si spinge a rimettere mano alla legge 194. Ecco dunque che un documento approvato ieri da alcuni cattedratici si presta ad essere interpretato come l'ennesimo attacco anti-abortista, proprio alla vigilia della giornata della vita organizzata dalla Cei. Una possibilità smentita poi in serata dagli stessi firmatari.
«Un neonato vitale, in estrema prematurità , va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio e assistito adeguatamente», è scritto sul documento sottoscritto dai direttori delle cliniche ginecologiche delle facoltà di medicina delle università romane,Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico e presentato al termine di un convegno promosso dalle stesse cattedre al Fatebenefratelli di Roma. Secondo i cattedratici, infatti, «con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all'assistenza sanitaria». Pur non citando esplicitamente il caso degli aborti dopo la 22esima settimana, la presa di posizione dei direttori di cattedra ricalca le preoccupazioni espresse nei mesi scorsi dai vescovi italiani riguardo ai casi di interruzione volontaria di gravidanza dopo il quarto mese, quando cioè le moderne tecniche di rianimazione consentirebbero di mantenere in vita il feto.
«L'attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario - si legge nel testo - per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell'Unità ed i genitori». Tuttavia, concludono i direttori delle cliniche ostetriche, «se ci si rendesse conto dell'inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico».
Uno dei firmatari è Domenico Arduini, direttore della clinica ostetrica e ginecologica di Tor Vergata, che non si capacita per tutto questo clamore scatenato dal documento. «Io e miei colleghi abbiamo detto una cosa molto banale: se un neonato è vitale deve essere rianimato. Nessun riferimento a chi decide di interrompere la gravidanza». Una posizione, sottolinea Arduini, «che riprende esattamente ciò che dice la legge 194 e che ricalca la Costituzione in base alla quale il neonato ha diritto alla vita». Proprio per questo, continua, per intervenire e assistere il neonato non c'è bisogno del consenso dei genitori: «Quando nasce il neonato è un essere e in quanto tale ha diritto di vivere. L'assistenza è finalizzata a guadagnare quelle ore o quei minuti necessari per prendere una decisione oculata e capire se deve essere o meno praticata l'assistenza».
Per il ginecologo Nicola Colacurci, dell'Università di Napoli, ex segretario dell'Associazione ginecologi italiani la confusione nasce dalla poca chiarezza delle due leggi «la 40 e la 194, in contraddizione tra loro». Una presa di posizione che tocca il dibattito sull'aborto: di fatto, si potrebbe creare il paradosso di una legge che con una mano consente alla madre di abortire entro un certo termine, e con l'altra obbliga il neonatologo a intervenire sul feto. Il che, secondo Colacurci, almeno nel caso dell'aborto terapeutico «è un assurdo: non avrebbe senso che i medici decidessero l'aborto per le gravi complicazioni di salute di madre e figlio».
il manifesto 3.2.08
Una semplice dimenticanza
di Alessandro Robecchi
La stampa nazionale sta esagerando. Prendersela con il Pd soltanto perché nel suo manifesto dei valori si è dimenticato di scrivere la parola «Resistenza» mi sembra un'inutile cattiveria. È vero, è innegabile: nel manifesto dei valori, nello statuto, persino nel codice etico del nuovo partito non si parla mai né di antifascismo né di Resistenza. Ma andiamoci piano, al giorno d'oggi facciamo tutti una vita frenetica: chi non ha mai scordato le chiavi, o il telefonino? Insomma, succede, non facciamone uno scandalo. In più, inviterei a un minimo di umana comprensione: ma lo sapete che vita fanno, poveretti? Magari al mattino devono incontrare un diniano di sinistra, telefonare a un mastelliano, poi riunione sullo statuto, che palle, dopo correre in tivù, e magari anche andare a lisciare il pelo ai commercianti, coinvolgere gli industriali, fare un'Italia nuova. Panino. Scrivere diciannove prefazioni, poi conferenza stampa, poi ampio dibattito sul laicismo. Dopocena, incontro con i referendari, una telefonata con qualche Udc disponibile al dialogo, poi una dichiarazione alle agenzie e un invito alle larghe intese. È in situazioni come queste che uno raggiunge il letto spossato e affranto, e gli interessa solo dormire qualche ora per ricominciare il giorno dopo a fare un'Italia nuova. È in situazioni come queste che uno all'improvviso si stampa una manata sulla fronte e dice: «Oh, cazzo, il dentista! Mi sono scordato!». E allo stesso modo, andiamo, può capitare: «Oddio, ci siamo dimenticati la Resistenza!». Sinceramente, non attribuirei questa svista a cattiveria d'animo o a malafede, non facciamo inutili dietrologie, semplicemente, umanamente, pacatamente, si sono dimenticati di metterci la parola «Resistenza». Forse stavano per metterla, ma sono stati distratti, non so una telefonata per le nomine a qualche asl, un'apertura a Berlusconi, un segnale alla Confindustria, insomma è passato l'attimo. Non facciamola lunga. Resistenza: una semplice dimenticanza.