lunedì 4 febbraio 2008

Liberazione 3.2.08
Le classi dirigenti italiane (dal Pd, a Casini, alla Chiesa alla Cisl) si preparano (o sono conquistate) dalla Restaurazione.
Obiettivo: radere al suolo la parte migliore della storia della Repubblica. Le sue fondamenta: la politica, la lotta, le idee, il conflitto. Resistenza, Giovanni XXIII, '68: vogliono cancellare tutto questo
di Rina Gagliardi


A volte, la cronaca quotidiana, in genere così ridondante e confusa, ci invia "segni" improvvisamente chiarificatori - come tanti flash che si proiettano sulle tenebre del reale. Solo quattro esempi, tutti di questi giorni già "elettorali". Primo: nei documenti fondativi del Partito Democratico (Carta dei valori, Codice Etico, Statuto) era stato cancellato ogni riferimento alla Resistenza partigiana, tanto che Walter Veltroni è dovuto intervenire a correzione. Secondo. Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha violentemente attaccato l'ultimo film di Francesca Comencini ("In fabbrica") e, soprattutto, ha invitato la Rai (produttrice della pellicola) a non mandarlo in onda, cioè a censurarlo. Terzo: nel corso della cerimonia che ha celebrato il quarantesimo della Comunità di Sant'Egidio, il cardinal Bertone ha scagliato l'anatema della Chiesa cattolica contro il Sessantotto, che era "un mondo contro Dio", e radice della degenerazione morale e spirituale del nostro tempo. Quarto: intervenendo al convegno di "Liberal", sempre sul Sessantotto, il cattolico Pier Ferdinando Casini ha giudicato esiziali, più o meno, i pontificati di Giovanni XXIII e soprattutto di Paolo VI, ha condannato il Concilio e ha lanciato la sua nuova tavola di valori, fondata sulla gerarchia e l'autorità. Che cosa c'entrano, l'una con l'altra, queste affermazioni, questi "segni"? E perché mai, eventualmente, ce ne dovremmo (pre)occupare?
C'entrano, e come, al di là delle differenze evidenti di oggetti, contesti, protagonisti. Impressionante, anzi, è la convergenza culturale che si realizza in circostanze apparentemente così lontane: e sta nel clima di regressione culturale che pervade la società italiana e le sue così dette "classi dirigenti". C'è un'ansia revisionistica e neo-autoritaria, che si esprime sia nella continua cancellazione della storia, quella antica e quella recente, sia nella rimozione di tutto ciò che è stato conflitto, cambiamento, carne e sangue, libertà sostanziale di questo paese. C'è una pulsione di normalità neoconservatrice, che si spinge alla "normalizzazione" del passato prima che del presente - lo rovescia, lo ridisegna, lo falsifica, per seppellirne le tracce vive, la vitalità, l'attualità. Se è vero che la rammemorazione del passato, come ci ha (re)insegnato Walter Benjamin, è al fondamento di ogni autentico sguardo sul futuro, non è forse altrettanto vero che la "riscrittura della storia", di orwelliana memoria è funzione stretta di ogni Grande Restaurazione?
***
Guardate i bersagli concreti: l'antifascismo - ma anche e soprattutto la sua natura di collante civile e di vera "religione laica" del paese; le lotte operaie e studentesche del '68 - ma anche il conflitto sociale e la protesta giovanile come fattori costitutivi di una democrazia matura; il Concilio Vaticano II - ma anche un'idea, e una pratica, cristiane protese alla trasformazione del mondo, piuttosto che all'occupazione del potere; la libertà di un(a) autrice cinematografica - ma anche, più in generale, l'autonomia della produzione artistica e spettacolare. Ognuno, s'intende, ha le proprie specifiche motivazioni. Nel Partito Democratico, che stenta a definire un'identità che non sia, di volta in volta, pallidamente "riformista", ecumenica, interclassista, postpost, prevale forse la voglia di uscire in termini definitivi dal ‘900, e in particolare dalla storia repubblicana. Per potersi presentare come un soggetto davvero "nuovo", e non come la continuazione fredda di ciò che sono stati la Dc e il Pci, aveva perciò "dimenticato", nientemeno, ogni riferimento alla Resistenza e all'antifascismo - non però si tratta di una smemoratezza, ma di una scelta, forse, chissà, di una concessione alle componenti cattoliche, moderate, ipernuoviste della nuova formazione politica. Con una correzione che va apprezzata, ma che non appare sufficiente a chiarire l'interrogazione di fondo - sul Pd, il suo "senso di sé", la sua cultura politica.
Un "senso di sé", invece, che sembra molto forte nell'attuale leader della Cisl e in varie realtà del mondo cattolico organizzato. Qui, la rimozione assume il volto dichiarato dell'anticomunismo, l'ideologia che rispunta come si deve ad ogni campagna elettorale: invece di apprezzare, da buon sindacalista, la recente tendenza del cinema italiano (anche in film come "La signorina Effe") a tornare ad occuparsi di soggetti dimenticati come gli operai, a rimetterli sulla scena da protagonisti, a riaprire un brano bruciante (e attualissimo, come si vede dalle stragi sul lavoro, i bassi salari, la disperazione operaia) della nostra storia, Bonanni rilancia, nientemeno, l'orgoglio cislino e la censura. Difende la sua bottega e si riscopre vecchio democristiano - di quelli che dettano alla Rai le regole, le produzioni buone e quelle cattive . Vuole, insomma che si dimentichi che cosa è stato il '68 degli operai, degli studenti e dei lavoratori intellettuali: nient'affatto un'epoca di trionfo comunista, orchestrata dal Pci e dai duri della Cgil o della Fiom, ma la stagione in cui esplose una voglia quasi incontenibile di libertà e di liberazione. Del lavoro, della cultura, del sapere. Del potere padronale in fabbrica e del (marcescente) potere accademico nelle università. Della divisione sociale del lavoro, delle gerarchie, dell'autoritarismo. Sì, anche una grande stagione di disordine, che non riuscì nell'impresa gigantesca di "cambiare tutto", ma che molto cambiò - nella società, nelle fabbriche, nella scuola, nella Chiesa, nei rapporti tra i generi, nella modernità. Ne uscimmo diversi tutti, anche i partiti e i sindacati, anche la Cisl (come recita un'altra canzone di Fabrizio De Andrè, tratta dal maggio francese, "anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti") - forse anche l'allora giovane Raffaele Bonanni. Ma tant'è. L'occasione del quarantesimo - quarant'anni sono tanti, quasi un'epoca - offre a molti la possibilità di manifestare la voglia di revanche, in una postcrociata antisessantottina che sarebbe grottesca e perfino un po' comica, se non fosse pericolosa. Così, ieri, l'ex-forzista (sic!) Nando Adornato, navigatore audace tra gli oceani del revisionismo, ex-comunista pentito, ex-ingraiano, ex-testa d'uovo della sinistra, ora fresca new entry nell'Udc, ha spiegato che il Sessantotto è alla radice di tutti i mali e di tutte le devastazioni italiane - il la, logicamente, l'aveva dato il cardinal Bertone, aggredendo un altro mito della nostra giovinezza, Woody Allen. E il moderato Casini ha aggiunto di suo la vera ragione di tanto rancore: il ruolo svolto da Giovanni XXIII e Paolo VI e da tanti cattolici di movimento. Ma, appunto, qual è il bersaglio vero? La libertà del conflitto e del dissenso. La voglia di cambiamento. L'idea di una società di eguali. L'autodeterminazione dei soggetti e delle soggettività. Basta rovesciare queste parole d'ordine nel loro contrario, per avere il programma restaurativo degli anni 2000, ovvero del prossimo decennio. Historia est magistra vitae , ci insegnavano molti anni fa sui banchi della I° media. L'antifascismo, il protagonismo operaio, il dissenso dei giovani - e la libertà di confliggere, di fare buoni film e buona musica, di disinquinare il mondo dalle merci - restano il sale della terra. Anche nel XXI secolo.

domenica 3 febbraio 2008

l'Unità 3.2.08
Ingrao agli studenti: «Lombardo Radice? Mi insegnò la libertà»
di Adele Cambria


MAESTRI E ALLIEVI In una scuola romana di periferia l’ex leader comunista racconta del suo incontro con il famoso pedagogista

Non so ancora, mentre incomincio a scrivere questa cronaca, se l’altro ieri ho trascorso un lungo pomeriggio nel mondo delle favole, in una scuola romana di periferia, (ai Monti Tiburtini), con il grande nonno Pietro Ingrao che raccontava «ai fanciulli e alle fanciulle» della prima, seconda e terza media 2007-2008 gli anni «bellissimi e terribili» della sua scoperta dell’amicizia, nell’incontro all’Università con Lucio Lombardo Radice (al quale la scuola è intitolata, e di cui si ricordava la vita e il pensiero). O se invece, in una dimensione del tutto reale, mi sono imbattuta - in questi tempi di conclamato bullismo scolastico - in un’isola felice. Credo che la risposta giusta al mio dilemma sia quella data dalla giovane (e deliziosa) Preside, Maria Grazia Lancellotti. Che senza polemiche ha chiarito come la scuola italiana, quella di cui magari non si parla e non si scrive, è fatta di una costante sperimentazione «fianco a fianco»: i Maestri, come li chiama Pietro Ingrao, con un affascinante arcaismo, a fianco degli studenti.
«Lucio - esordisce Ingrao - era un girovago, la sua mente navigava, matematico, umanista...il suo modello era Leonardo... E soprattutto era un educatore. Vivemmo insieme anni bellissimi e terribili, e dobbiamo darne notizia a voi, fanciulli e fanciulle di oggi. Il contatto prezioso con i vostri Maestri è essenziale. Ma, per parte mia, non sono sicuro di riuscire a dare a chi sboccia ora alla vita quella lezione dura ma necessaria ricavata dall’esperienza terribile che invase la nostra giovinezza nel secolo scorso: la guerra, le guerre...» E qui il nonno Ingrao racconta come una favola - ma le favole possono essere crudeli - la guerra di Spagna, cominciando da Francisco Franco: «Iniziò una avventura vergognosa, arrivando dal Marocco in Spagna, scatenò la guerra civile contro il governo del fronte popolare, e da qui partì la catastrofe europea». Il narratore continua: «La seconda guerra mondiale non lasciò intatto quasi nessun Paese europeo, Dresda rasa al suolo dai bombardamenti aerei, la battaglia infinita di Stalingrado... Lucio ed io ci siamo trovati in questa tormenta. Quando mi iscrissi all’Università di Roma in Italia c’era il fascismo. Lucio mi prese per mano e, insieme ad altri compagni e compagne, mi insegnò a non rinunciare mai alla libertà. Con lui scegliemmo la strada difficile della cospirazione antifascista. Lucio andò in galera, uscì dalla galera, ricominciò, e tornò in galera! Un giorno si dovrà raccontarvi le galere di allora». E conclude, Ingrao: «Andate a fare una assemblea alle Fosse Ardeatine, lì sono sepolti due miei Maestri, Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo». Tra gli applausi, il regista teatrale Giovanni Lombardo Radice, il figlio più giovane del pedagogista - suo padre lo cita come «il biondino», ne L’educazione della mente - si alza per aiutare a scendere dalla pedana il quasi-nonno (Laura Lombardo Radice è stata la moglie amatissima del grande uomo politico, ed il più travagliato, forse, della sinistra italiana).
Ed arriva Luana Benini a raccontare la sua esperienza a fianco di Lombardo Radice nella redazione della rivista Riforma della scuola. «La rivista non esiste più, venticinque anni sono passati dalla scomparsa di Lucio, eppure rileggendo in questi giorni i suoi Taccuini pedagogici, mi sono emozionata. Lucio percorreva l’Italia per lavorare insieme agli insegnanti, e poi scriveva i Taccuini, una rubrica fissa. Parlava di valori “antichi” ai quali forse ci vergogniamo di ritornare: la solidarietà, il senso di responsabilità, il metodo per appropriarsi della cultura, quella vera». E riflette, Luana: «Oggi se Lucio fosse qui sarebbe un fiume in piena, porrebbe domande scomode alla sua parte politica, denunciandone gli errori. La battaglia per la laicità della scuola italiana fu la sua. Scuola laica, scuola di tutti, fondata sul pluralismo».

l'Unità 3.2.08
Medici choc: «Aborto, rianimare i prematuri estremi». Ed è polemica
Documento dei ginecologi universitari sui feti: «Anche senza consenso della madre»
di Virginia Lori


I firmatari: la nascita attribuisce la pienezza del diritto alla vita
Caporale (Cnb): rianimare sempre
Il ginecoloco Colacurci: «Legislazione pazzesca: la legge 40 e la 194 tra loro si contraddicono»

Nel caso in cui un feto nasca vivo dopo un'interruzione di gravidanza, il medico neonatologo deve intervenire per rianimarlo, «anche se la madre è contraria, perché prevale l'interesse del neonato». A sostenerlo è Domenico Arduini, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia dell'università di Tor Vergata, e uno dei firmatari del documento condiviso dalle università romane di medicina secondo cui va rianimato qualsiasi prematuro che mostri segni di vitalità.

«UN NEONATO vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente». È quanto viene affermato in un documento approvato ieri dai direttori delle cliniche ginecologiche delle facoltà di medicina
delle università romane, Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico. Il documento è stato discusso nel corso del convegno al Fatebenefratelli dedicato alla giornata della vita in relazione alla prematurità estrema. «Con il momento della nascita la legge - afferma il documento - attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all’assistenza sanitaria. L’attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell’unità ed i genitori». Tuttavia, sostengono i firmatari, «se ci si rendesse conto dell’inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico». Il documento si riallaccia alle problematiche emerse in questi ultimi mesi circa i limiti dell’aborto in relazione all’avanzamento delle tecniche rianimatorie e di sopravvivenza del feto. Alcune preoccupazioni erano state espresse dai vescovi italiani, mentre le società scientifiche dei neonatologi hanno prodotto diverse linee guida per adeguare gli interventi. «Nell’immediatezza della nascita - ha spiegato Cinzia Caporale, componente del Cnb - il medico deve agire in scienza e coscienza sulla opzione di rianimare, indipendentemente dai genitori, a meno che non si palesi un caso di accanimento terapeutico». Secondo Caporale il medico deve quindi rianimare sempre, decidendo caso per caso. Nell’ipotesi in cui il feto sopravviva all’aborto «non ritengo necessario chiedere il consenso della madre. In questo caso infatti si esercita un’opzione di garanzia con cui si tutela un individuo fragile e vulnerabile, qual è il neonato, in un fase in cui non si hanno certezze cliniche». Una volta che però la rianimazione ha avuto inizio e la situazione clinica evolve in modo sfavorevole, «con mezzi di cura troppo onerosi rispetto ai risultati che si possono ottenere non c’è l’obbligo di cura, ma è anzi doveroso moralmente sospendere la terapia». Nicola Colacurci, dell’Università di Napoli, ricorda come il problema della rianimazione dei feti prematuri sia «stato ampiamente discusso, e non siamo mai riusciti a elaborare un documento condiviso. Anche perché la legislazione italiana è pazzesca, con due leggi, la 40 e la 194, in contraddizione tra loro. Servirebbe chiarezza». Di fatto si potrebbe creare il paradosso di una legge che con una mano consente alla madre di abortire entro un certo termine, e con l’altra obbliga il neonatologo a intervenire sul feto. Per questo, spiega Colacurci, «ci vorrebbe una legge che fissi il limite temporale oltre il quale intervenire sul feto. 18, 20, 22 settimane? È lo stato che deve dirci come intervenire, non si può ogni volta, come è successo spesso, correre il rischio di venire denunciati per omissione di soccorso».

Corriere della Sera 3.2.08
Carlo Flamigni Il ginecologo laico
«Cure inutili sui superprematuri Quei piccoli non hanno speranza»
di M.D.B.


ROMA — «È terribile che i genitori vengano ascoltati per ultimi, che i loro desideri non siano tenuti in nessuna considerazione. Terribile che il loro bambino venga mantenuto in vita a forza, senza il consenso della madre e del padre, anche se doveva essere abortito». È la più istintiva delle critiche che Carlo Flamigni muove allo stringato documento degli universitari romani. Il ginecologo è un super-laico, voce di minoranza nel Comitato nazionale di bioetica.
Il medico dovrebbe rianimare il bambino a prescindere dal periodo della gestazione, in teoria dunque anche a 21 settimane se è vitale. Che ne dice?
«Sono contrario. Oggi è molto difficile ignorare l'età del feto.
Molto spesso si conosce l'epoca del concepimento, ci sono donne che chiedono di fare l'ecografia appena sanno di essere incinte. E i tempi sono molto importanti perché statisticamente si sa che al di sotto di una certa soglia il bambino può sì sopravvivere ma rischia handicap gravissimi».
Dunque?
«È molto pericoloso garantire le cure a tutti i neonati. Pensiamo soltanto all'aspetto pratico. I soldi di questo Paese verrebbero buttati via per cure inutili. Le culle di terapia intensiva inoltre sarebbero occupate da bambini senza speranza e quelli che invece hanno buone possibilità di andare avanti senza grossi danni non potrebbero essere trattati tempestivamente per mancanza di letti liberi ».
Ne fa un problema squisitamente economico?
«Non sono elementi da trascurare. Tuttavia la parte più inaccettabile del documento è quella che tiene fuori i genitori. La madre e il padre devono essere ascoltati eccome. Devono sapere che il figlio riceverà cure sperimentali».
Sperimentali?
«Così dobbiamo considerarle. E più l'età gestazionale del feto è bassa, più le cure sono sperimentali. Secondo Silvio Garattini lo sono la metà dei trattamenti di rianimazione neonatologica. Il feto non è un piccolo omino. È un essere speciale. Non ci sono protocolli sicuri. Quindi il consenso dei genitori è necessario».

l'Unità 3.2.08
Aned. Oggi la solidarietà agli ex deportati contro lo sfratto deciso dalla Moratti


Tutti con l’Aned. Oggi, al Teatro San Fedele di Milano, in via Hoepli al numero 3, si terrà un incontro di solidarietà con l’Associazione ex deportati politici nei campi nazisti, dopo lo sfratto annunciato dall’amministrazione comunale nei giorni scorsi.
A pochi giorni dalla ricorrenza del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, giorno dedicato alle vittime del nazismo, del fascismo e dell'Olocausto, il comune di Milano ha intimato lo sfratto dalla storica sede di via Bagutta 12 e all'Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) dal palazzo di via Pietro Mascagni. Il comune di Milano ha spedito alle rispettive sedi una raccomandata di sfratto, senza consultarsi con le Associazioni. Un ordine lapidario senza possibilità di replica o di un accordo.
Sono previsti, tra gli altri, gli interventi dell’ex magistrato Gherardo Colombo, delle attrici Lella Costa e Marina Senesi, dell’attore Flavio Oreglio col musicista Fabrizio Canciani, del resista Renato Sarti, di Massimo Cirri, del gruppo bresciano “Klezmorim”, del trio Mirkovic, della pianista Monica Catarossi e dell’associazione intitolata all’ex deportato Roberto Camerani.

l'Unità 3.2.08
Zapatero si indigna con il Vaticano


MADRID Il governo spagnolo ha informato ieri il Vaticano del suo «malessere» e della sua «indignazione» per le prese di posizione della Chiesa cattolica di Spagna nella campagna elettorale in vista delle legislative del 9 marzo. L’ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede, Francisco Vazquez, ha consegnato nel corso di una riunione in Vaticano un messaggio in tal senso a proposito di «alcuni punti» della nota «di orientamento morale» diffusa giovedì dalla Conferenza episcopale spagnola. Nella nota, la Chiesa criticava tra l'altro il governo socialista di Josè Luis Rodriguez Zapatero per aver negoziato con «l'organizzazione terroristica» basca Eta. In precedenza i vescovi spagnoli avevano già criticato numerose riforme sociali del governo Zapatero. Sempre ieri il capo della diplomazia spagnola Miguel Angel Moratinos ha dichiarato che la Chiesa cattolica spagnola ha «una gerarchia integralista, fondamentalista» e «neoconservatrice». Ed ha espresso la sua «indignazione» e la sua «sorpresa e perplessità in quanto cattolico» di fronte alla nota dei vescovi. Secondo il ministro «molti cattolici in Spagna non comprenderanno» il motivo dell’iniziativa dei vescovi. Moratinos ha definito quella spagnola una «gerarchia che non è in grado neanche di rappresentare il parere della maggioranza dei cattolici spagnoli». «Come cattolico -ha proseguito- non posso identificarmi con chi utilizza politicamente il terrorismo per dividere i democratici spagnoli». «Credevo che la separazione fra Stato e Chiesa - ha concluso il ministro- fosse una questione ormai superata e non capisco perché si torni ad utilizzare la politica in materia di religione».

l'Unità 3.2.08
Dei diritti e dei malati
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Che ci sia nuovamente in agenda una “questione laica”, nel nostro Paese, è cosa evidente a tutti. L’espressione, ancorché in uso da tempo, dunque facilmente intelligibile, non ci convince: descrive solo parzialmente quella relazione - tra religione e sfera pubblica, tra identità confessionale e partecipazione alla vita associata - che oggi è al centro di conflitti e tensioni crescenti. Essa evoca, soprattutto, l’aspirazione all’indipendenza e alla sovranità delle istituzioni democratiche dai condizionamenti che possono venire dalle autorità ecclesiastiche; rappresenta, dunque, una tradizione politica che, particolarmente in Italia, poggia su ragioni storiche complesse e mai definitivamente risolte. Tuttavia, intendere il rapporto tra sfera religiosa e sfera civile, oggi, alla sola luce di un’istanza di difesa della laicità, rischia di lasciare in ombra questioni importanti: che sono leggibili anche nel dibattito iniziato da Giuliano Ferrara, per una moratoria internazionale sull’aborto; e i cui riflessi investono la vicenda della rinuncia di Benedetto XVI a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza di Roma. Chiariamolo subito: siamo sostanzialmente d’accordo con Adriano Sofri, quando scrive che la Chiesa dovrebbe «chiedersi quanto le tentazioni di censura o di proibizionismi anticlericali debbano al suo proprio oltranzismo». Il Vaticano mostra da anni una tentazione “mondana”, una vocazione a tradurre il suo magistero morale in un primato sull’etica pubblica, che mal si concilia con il carattere liberale della nostra vita associata. Si registra, da parte delle gerarchie cattoliche, un interventismo nella vicenda politica intenso come non accadeva da molti lustri. Le motivazioni di questa spinta meritano di essere rinvenute e interpretate: esse sono soggettive (appartengono alla Chiesa), ma sono rese possibili (e, per alcuni, legittimate) da questioni di ordine culturale e sistemico: che hanno a che fare con la storia della scienza, con la crisi della filosofia, con la secolarizzazione della politica; e con la debolezza delle nostre istituzioni e con l’incerta tenuta del repubblicanesimo, qui inteso come etica civile condivisa. Qualora tutte questioni fossero di agevole lettura e interpretazione, rimarrebbe ancora incerto uno dei punti sui quali insistono molte delle polemiche quotidianamente sollevate, che pure stenta a essere formalizzato con chiarezza: qual è il confine che si prevede per la partecipazione dei credenti (e di chi li rappresenta in sede di dottrina e magistero) alla vita pubblica, affinché sia rispettata la laicità dello stato? La risposta rimanda alla qualità liberale della nostra democrazia: e alla tenuta (e al vigore) di quella fa direttamente riferimento. Va da sé, dunque, che tale risposta possa risultare chiara per molti; e, tuttavia, essa rischia di non essere univoca, rischia di apparire scomposta in una molteplicità di punti di vista e soluzioni. Dunque di essere problematica, fonte di ulteriori incomprensioni e conflitti. Molti di questi si vanno addensando sui quei temi scelleratamente definiti “eticamente sensibili”. Uno in particolare, quello del Testamento biologico, risulta per molti versi paradigmatico: perché è questione “aperta”, sulla quale non gravano ostracismi contrapposti irresolubili. La Chiesa ha a più riprese condannato le pratiche di accanimento terapeutico e si è espressa con favore verso le prerogative di libertà di cura del malato. Ancor più: essa ha espresso il suo consenso verso quelle pratiche sedative di accompagnamento alla morte (ampiamente diffuse nei nostri ospedali e tutt’altro che clandestine, tanto da essere registrate, in genere, nelle cartelle cliniche), che oggi taluni arrivano a definire “eutanasia”: interventi medici che, nell’imminenza e nell’ineluttabilità del decesso, servono solamente ad alleviare la sofferenza. Interventi non dissimili da quelli che Pio XII prese in considerazione nel suo Discorso intorno a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia. Uno degli interrogativi era esattamente questo: «la soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?». Ecco la risposta: «Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì». Correva l’anno 1957. Merita di essere ricordato anche quanto espresso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito, in coscienza, prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega, il secondo accetta il naturale compimento di essa». Si tratta di una delle espressioni più lucide della distinzione corrente tra sospensione di cure futili ed eutanasia. Correva l’anno 2000; e a capo di quella Accademia vi era l’allora cardinale Joseph Ratzinger. All’opposto, gli argomenti che a più riprese sono stati agitati dal Vaticano contro la libertà terapeutica sono noti. Sono parte consistente di quel novero di polemiche che alimenta la “questione laica” di cui si diceva: l’atteggiamento deplorevole tenuto dalle gerarchie vaticane nel caso della battaglia e della morte di Piergiorgio Welby è memoria problematica e dolorosa per larga parte dell’opinione pubblica (cattolici inclusi). Tuttavia, proprio come i cattolici intendono convocare i laici a discutere di politiche sulla maternità, noi vorremmo convocare loro per ragionare delle libertà della persona; e, in questo caso, dei diritti di libertà del malato. Nella speranza che la buona volontà della ragione attenui le divisioni di schieramento, appartenenza, cultura.

l'Unità 3.2.08
I Barbari e la Roma classica, ecco un falso storico
di Renato Barilli


PALAZZO GRASSI Una mostra racconta l’incontro fra due civiltà: Visigoti e Longobardi da un parte, l’Impero dall’altro. L’insegna parla della «nascita d’un nuovo mondo». Ma i reperti ci narrano un’altra storia

Confesso di aver trovato assai allettante l’ipotesi che il veneziano Palazzo Grassi, nella nuova gestione assicuratagli dal magnate francese Pinault, non si limitasse a darci ampie abbuffate sulla più stretta attualità, come ha fatto nelle sue prime uscite, ma raccogliesse almeno in parte l’eredità dalla precedente conduzione Fiat offrendoci di tanto in tanto delle poderose retrospezioni su un passato remoto. Così è ora con Roma e i barbari (cat. Skira a cura di Jean-Jacques Aillagon). Ma il periodo preso in esame appare troppo ampio, e il pur abbondante materiale accumulato nel percorso espositivo non sembra ordinato secondo percorsi critici ben scanditi, capaci davvero di prendere per mano il visitatore. Meglio insomma che l’illustre Palazzo veneziano ritorni a ben circonstanziati scandagli sui nostri giorni.
In effetti, sotto il titolo troppo vasto si celano due mostre distinte, l’una delle quali riguarda un tema massimo, più volte affrontato, anche da me in varie occasioni su queste colonne. Si tratta del vistoso declino che le forme della classicità, del solenne mimetismo greco-romano, hanno subito man mano che ci si allontanava dall’apogeo augusteo verso i secoli della tarda romanità, con perdita delle capacità di illusionismo prospettico, di rispetto scrupoloso delle anatomie, delle individualità dei singoli personaggi. Un processo che si è esplicato in misura implacabile di secolo in secolo, a cominciare già dal II dopo Cristo, e con indici crescenti di appiattimento, di stilizzazione, di astrazione generalizzante. Ma sarebbe errato vedere in tutto ciò un qualche influsso dei barbari e delle loro invasioni, dato che queste, almeno fino al VI secolo, venivano arrestate, seppure con difficoltà crescenti. I barbari c’entrano assai poco, in questa vicenda, il fatto è che era lo stesso impero romano a «laborare de mole sua», non riusciva più a tenere in piedi un sistema ben connesso di comunicazioni viarie, da un capo all’altro del suo enorme corpaccio. È ben noto il provvedimento preso, sul finire del III, da Diocleziano, che disperando ormai di far reggere il tutto su un’unica capitale, ne stabiliva ben quattro, tentando di bloccare la crisi con il sistema tetrarchico. Ebbene, di questa vicenda sommamente istruttiva la mostra a Palazzo Grassi offre una documentazione diluita, per sommi capi, e niente affatto resa perspicua nei suoi snodi. Al pianterreno si hanno alcuni sarcofagi, il Piccolo Ludovisi, quello di Portonaccio, che attestano ancora di una fattura accurata e minuziosa dei corpi, e accanto a loro ci sono pure austere sfilate di busti di imperatori anch’essi ben modellati, mentre poi ci si precipita verso le forme già assai ridotte, quasi tracciate col compasso, di altri protagonisti vicini ai tempi di Diocleziano. Naturalmente è presente solo in foto il gruppo dei quattro Tetrarchi, che si può ammirare poco lontano, sull’esterno del Palazzo Ducale, con quelle figure simili a bambolotti scorciati nelle dimensioni, quasi clonati tra loro, a riprova che l’individualismo, il precisionismo dei vecchi tempi è ormai finito, e ci si muove a livello di mascheroni stereotipati. Non c’entra nulla anche lo sdoganamento del Cristianesimo, attuato di lì a poco da Costantino, forse proprio nel tentativo di ritrovare con esso un mastice per tenere uniti i frammenti dell’impero. È tesi spiritualista inaccettabile che sia stato l’ethos della nuova religione a sconfiggere il vecchio naturalismo pagano, accadeva semplicemente che le medesime forme ridotte e schiacciate venissero adottate anche per evocare i misteri del nuovo culto. E si sta ormai profilando la vicenda che prenderà il nome da Bisanzio, dove cessa, senza dubbio, il ruolo dell’Impero d’Occidente, ma non è che il subentrante Impero d’Oriente corrisponda a un cedimento ai barbari, anzi, è la parte della vecchia formazione statuale che ancora resiste alle invasioni dall’esterno. Uno dei pregi della mostra è di essere ricca di dittici e di altri reperti scalfiti nell’avorio, in cui figure di santi e di imperatori compaiono, nonostante il rilievo, con la medesima frontalità e ieraticità immote che i maestri musivi, nello stesso lungo periodo, conferivano ai loro elaborati parietali.
Viene poi una seconda parte della mostra, questa sì dedicata all’arrivo dei barbari, con un minuzioso censimento attento a distinguere li apporti specifici di Avari, Burgundi, Visigoti, Longobardi eccetera, ma colti in genere come erano al momento del loro sopraggiungere nelle terre d’Occidente e nelle vecchie province romane, portandosi testimonianze d’arte in genere improntate a una sorta di iconoclastia obbligata, per l’imperizia delle loro maestranze a trattare la figura umana, evocata tutt’al più in modi da dirsi davvero primitivi, un circoletto per il volto, un’asta verticale per la canna nasale, due forellini per gli occhi. Prevale il senso dell’utile, ben rare sono le immagini articolate, l’artisticità si esplica nel decorare fibbie, armille, scudi, elmi, cinturoni. Al momento, insomma, non c’è fusione, tra le due grandi componenti, e dunque, al contrario di quanto recita il sottotitolo della mostra, non c’è ancora «la nascita di un nuovo mondo».

Repubblica 3.2.08
Battetevi bene e buona fortuna
di Eugenio Scalfari


Zapatero e i Vescovi di Spagna. Anche lì sono imminenti le elezioni dopo un quadriennio di ininterrotto governo. Le faranno all´inizio di marzo, un mese prima di noi che andremo a votare a metà aprile se come sembra tra lunedì e martedì Marini tornerà al Quirinale per comunicare al Presidente che non c´è altra via al di fuori del voto anticipato con questa schifosa legge elettorale.
Perciò Zapatero e i vescovi di Spagna possono essere utili come esempio. In Spagna votarono quattro anni fa con una buona legge che ha dato maggioranze solide e stabilità di governo. Zapatero prese impegni con gli elettori e li mantenne rigorosamente, dal ritiro del corpo di spedizione in Iraq ai matrimoni omosessuali, dalle trattative con l´Eta all´educazione civile nelle scuole, alla struttura federale dello Stato, a provvedimenti economici di stimolo alla crescita del Paese. Adesso presenta il suo bilancio per essere riconfermato o sostituito.
I vescovi di Spagna, dopo aver mobilitato la piazza, nei giorni scorsi hanno diffuso una sorta di manifesto politico nel quale, dopo aver premesso che i programmi elettorali non sono neutrali rispetto ai problemi della fede e della morale e che quindi la Chiesa è autorizzata a giudicarli, hanno elencato uno per uno tutti i punti di dissenso da quanto il governo ha realizzato e da quanto si propone di fare nella prossima legislatura. A conclusione di questo severissimo esame hanno invitato i cattolici a votare contro quei partiti e quei candidati che condividano quello «scempio» delle coscienze cristiane.
La risposta di Zapatero è stata al tempo stesso sobria, rispettosa e fermissima.
Ha detto che i vescovi hanno diritto e libertà di parola, ha ribadito il suo rispetto verso la Chiesa ed ha concluso con la riaffermazione di tutto quanto ha fatto e si propone di fare se vincerà, ricordando che le leggi approvate dal governo e dalle Cortes sono vincolanti per tutti indipendentemente dalla fede religiosa e da altre differenze di genere e di luogo. Il popolo sovrano deciderà perché questa è la democrazia.
Presumo che sua eminenza Ruini si sia congratulato con i suoi colleghi di Spagna che sono entrati a piede dritto nella politica del loro Paese dando indicazioni esplicite di voto. Presumo che anche il Papa si sia compiaciuto della combattività dell´episcopato di Spagna; infatti la Santa Sede non ha manifestato alcuna riserva sulle sue iniziative.
In Italia il linguaggio dell´episcopato è stato appena più cauto. Le interferenze politiche non sono mancate, abbiamo anzi assistito al loro moltiplicarsi anche se non siamo ancora arrivati ad una vera e propria dichiarazione di voto elettorale. Non ancora. E la ragione è facilmente spiegabile. Qui da noi la classe politica è molto più malleabile in confronto alla nettezza del governo socialista spagnolo. Qui basta ed avanza che la Cei aggrotti il sopracciglio per indurre all´obbedienza il laicato, cattolico e non cattolico. Ma si può stare certi che se ci fosse alla testa di un governo e di una maggioranza uno Zapatero italiano, sarebbe guerra aperta con la gerarchia vescovile assai più acerba di quanto oggi non avvenga.
Mi domando se sia un bene od un male. Abbiamo già tanti problemi e tante anomalie da sconsigliare un fronte caldo con la Chiesa. Ma per converso mi domando anche se i compromessi al ribasso con le pretese della gerarchia ecclesiastica non indeboliscano la coscienza democratica lasciando che i diritti civili abbiano una protezione così limitata e precaria quando non siano semplicemente impediti e negati. Sono anche convinto che i cattolici debbano sentirsi a casa loro nella democrazia italiana a condizione che i laici non ne divengano estranei e marginali.
La democrazia senza i cattolici sarebbe impensabile in un Paese come il nostro, ma senza i laici cesserebbe di esistere se è vero che laicità e democrazia sono sinonimi.
Incito perciò i laici ad affermare e sostenere a testa alta e a piena voce i propri valori e le proprie ragioni e le forze democratiche a non vergognarsi di esserlo. Anche questo è un modo di porsi nella campagna elettorale che sta per cominciare.
* * *
La campagna elettorale di Berlusconi e dei suoi soci avrà i toni consueti e la consueta distribuzione delle parti. La voce dominante sarà, come sempre è avvenuto e come è giusto che sia, quella del Capo. Gli argomenti sono scontati: il disastro del governo Prodi (utilissimo per loro il fatto che Prodi sia ancora e fino a dopo il voto il titolare di Palazzo Chigi), le tasse da abbattere a cominciare dall´Ici, i comunisti da espellere dal circuito politico, la Chiesa da soddisfare in tutte le sue richieste, l´economia da rilanciare.
Ma ci sarà un tema nuovo sul quale sia Berlusconi sia Casini (gli altri non so) batteranno molto; un tema seduttivo: la nuova legislatura guidata dal centrodestra avrà caratteristiche "costituenti". Farà le riforme istituzionali, farà una nuova legge elettorale, assocerà l´opposizione sul modello Sarkozy-Attali. Chiamerà a collaborare i cervelli migliori e le migliori energie senza badare ai colori di bandiera. Gianni Letta come vessillo.
Il programma è questo. I soci maggiori si sono già spartiti le cariche: Fini alla presidenza della Camera, Casini agli Esteri. Letta dove la sua presenza "pacificatrice" sarà più utile. Alla presidenza della Rai un uomo "morbido" di centrosinistra con maggioranza targata centrodestra. Tutto come prima, ma in clima "bipartisan".
C´è da credere? Me l´hanno chiesto l´altro giorno anche i colleghi del New York Times che stavano lavorando proprio su questo tema: un Berlusconi nuovo di zecca, ravveduto, mite, senza vendette, dedito una volta tanto all´interesse del Paese prima che alle leggi "ad personam". Un Berlusconi liberale nei fatti e non solo nella parole. Ci credete? Ci crediamo? Vorrei accantonare le antipatie e le simpatie e rispondere sulla base di analisi dei fatti e dell´esperienza.
È difficile che un uomo di settant´anni cambi carattere. Difficile anche se non impossibile. Berlusconi vuole essere amato, questo è sempre stato il tratto distintivo del suo carattere. Lui si ama molto ma l´amore degli altri gli è indispensabile. Il suo populismo e la sua innata demagogia sono nutriti dall´amore verso di sé e dal bisogno di conquistare gli altri. È anche molto furbo e perciò consapevole di questi suoi istinti che sa guidare e mettere a frutto. Perciò non prenderà mai provvedimenti impopolari.
Volete i fatti? Eccone qualcuno. L´immondizia a Napoli è esplosa durante i diciotto mesi del governo Prodi ma ha radici più antiche che risalgono al quinquennio berlusconiano. La Tav e l´insorgenza in Val d´Aosta è tutta nata sotto il governo 2001-2006; la stessa cosa per la base Usa a Vicenza. Stessa cosa per la crisi dell´Alitalia. Non parliamo delle liberalizzazioni: non ne ha fatta nemmeno mezza. E non parliamo della finanza pubblica: è andato avanti a botte di condoni. La Banca d´Italia una settimana fa ha esaminato il risultato di quei condoni e la sentenza di Draghi è stata questa: nel periodo considerato il reddito dei lavoratori autonomi è aumentato il doppio di quello dei lavoratori dipendenti. Inutile dire il perché di questo colossale spostamento di risorse.
Riformare questo stato di cose è difficile, suscita malcontento e quindi impopolarità. Ecco perché queste riforme Berlusconi non le farà se vincerà nel 2008 come non le ha fatte nel quinquennio 2001-2006.
Neppure Sarkozy le farà, che per alcuni rilevanti aspetti gli somiglia anche se il suo potere è molto più ampio e solido di quello di Berlusconi.
Sarkozy ha nominato una commissione di studio presieduta da un uomo intellettualmente fascinoso e socialista. La commissione Attali ha presentato pochi giorni fa il suo dossier al presidente della Repubblica francese. Le farà quelle riforme? Seguirà quei suggerimenti? Tra di essi campeggia quello di abolire la "funzione pubblica", che significa abbattere uno dei cardini dello Stato francese e della pubblica amministrazione. Non sarà una passeggiata perché anche Sarkozy come Berlusconi vuole essere amato. E non soltanto da Carla Bruni.
* * *
Ho ascoltato l´altra sera nella trasmissione del Tg1 il mio amico Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera in un dibattito con Pisanu, Rutelli e Casini. Solite schermaglie sul governo Prodi e sulle elezioni ad aprile oppure a giugno.
Non entrerò in questa ormai stucchevole disputa della quale tutto è stato detto salvo una cosa peraltro evidente: al centrodestra conviene votare al più presto, quando ancora l´emozione "liberatoria" suscitata dalla caduta del governo Prodi è intensa. Tre mesi di più sembrano pochi ma possono far sbollire quell´emozione e fare emergere una realtà ancora nascosta: che quel governo ha operato molto meglio di quanto non sia apparso. Il commissario europeo Almunia ha già cominciato ad ammetterlo.
Il tempo è galantuomo e anche tre mesi in più rappresentano in questo momento un rischio per Berlusconi.
Comunque non è di questo che voglio occuparmi ma di un´opinione del direttore del Corriere su una questione molto importante: quella della continuità della politica economica e finanziaria.
Ha detto Mieli che i risultati in questo essenziale settore realizzati da Prodi e da Padoa-Schioppa (bisognerebbe aggiungere il nome di Vincenzo Visco che è l´autore di interventi tecnici decisivi) sono stati molto positivi; ha citato anche lui il favorevole giudizio della Commissione europea; ha aggiunto che questi risultati si sono anche giovati di quanto aveva fatto in precedenza il ministro del Tesoro Tremonti conducendo una politica economica e finanziaria analoga a quella poi attuata da Padoa-Schioppa ed ha continuato infine affermando che ci sarà piena continuità tra Padoa-Schioppa e il futuro Tremonti così come ci fu continuità tra il Tremonti della precedente legislatura e il Padoa-Schioppa che seguì.
Caro Mieli, amico mio, la continuità si può auspicare ma non inventare.
Se c´è un settore dove la discontinuità è stata pressoché totale è proprio quello tra Prodi e Berlusconi, tra Padoa-Schioppa e Tremonti. Le consegne del maggio 2006 furono un avanzo delle partite correnti azzerato, un´evasione fiscale al massimo livello, un debito pubblico accresciuto, un deficit rispetto ai parametri di Maastricht del 4,1 per cento, una crescita del Pil a livello zero.
Le consegne che Padoa-Schioppa farà, se Berlusconi vincerà, saranno: una diminuzione del debito pubblico e del fabbisogno finanziario, la ricostruzione dell´avanzo delle partite correnti, il deficit ridotto dal 4,1 al 2 per cento (attualmente siamo addirittura scesi all´1,3) una pacificazione mai raggiunta finora tra il fisco e alcuni milioni di piccoli e medi contribuenti con nuovi studi di settore e nuove semplificazioni burocratiche; infine una riduzione cospicua dell´evasione fiscale. Le tasse? Il gettito è aumentato senza una sola nuova imposta né modifica e rialzo di aliquote, anzi con sei miliardi di euro in favore delle imprese con l´abbattimento dell´Irap e dell´Ires.
Come vedi, caro Mieli, la discontinuità è stata totale nella politica economica dei due governi. Non so se Tremonti si sia convertito alla linea Padoa-Schioppa-Visco. Non mi pare, purtroppo. Tremonti è uno di quelli che crede di avere sempre ragione e lo spiega in ogni occasione. Anche lui si ama moltissimo ma non riesce ad essere amato per mancanza di umiltà.
* * *
Domani o al massimo dopodomani Marini rinuncerà. Le Camere saranno sciolte. La vittoria del centrodestra ad aprile è già scritta.
Ne siete sicuri? Per la terza volta la maggioranza degli italiani sarà con lui? È vero che il centrosinistra ha fatto il possibile e l´impossibile per rimetterlo in sella, ma nonostante tutto non sono così convinto che vincerà.
Credo che il Partito democratico e Veltroni siano pienamente in partita sul terreno di gara ed abbiano carte forti da giocare. Si presentino da soli con un programma di pochi punti, concreti e precisi. Procedano con coraggio, onestà, trasparenza. Facce giovani e nuove senza rinunciare all´esperienza dei vecchi quando sia stata positiva.
Se saranno sconfitti cadano in piedi e lavorino per il futuro. E buona fortuna.

Repubblica 3.2.08
Se la Resistenza deve essere ripescata
di Giorgio Bocca


Il rischio mortale è consegnare la democrazia all´unità nella corruzione

Il fatto che i fondatori del Partito democratico abbiano dimenticato la resistenza nella carta dei valori è un errore politico del partito che nasce e un segno deludente del machiavellismo italiano. Veltroni è dovuto intervenire in zona Cesarini per correggere l´errore. Ma bisognerebbe capire come sia stata possibile una simile amnesia.
L´antifascismo era stato forse dimenticato per rendere più facile il dialogo con i moderati italiani guidati da Berlusconi, l´unico premier che non abbia mai partecipato alle celebrazioni della Resistenza e che abbia sdoganato i neofascisti?
Nella Resistenza italiana, che da parecchi si vuol dimenticare come qualcosa che disturba nell´età del globalismo e del dio denaro, ci sono due momenti decisivi su cui alcuni storici hanno erroneamente sorvolato: l´attendismo dei generali e la «pace» dei vescovi. L´attendismo predicava il rinvio della lotta partigiana a un vago futuro. I gruppi dei resistenti non dovevano attaccare i nazisti occupanti subito, come invece si doveva fare, anche in condizioni d´inferiorità numerica e di armi, per dimostrare che c´erano degli italiani pronti a pagare subito quel biglietto di ritorno alla democrazia. La «pace» dei vescovi dava un consiglio analogo, invitava i fedeli a evitare lo scontro aperto con l´occupante e a lasciare ai vescovi, cioè alla Chiesa, il compito di arrivare pacificamente alla fine della guerra. La Resistenza, fosse garibaldina comunista o di Giustizia e Libertà o degli autonomi di matrice cattolica e liberale, rifiutò questo attendismo, fu per la lotta subito e fuori da ogni calcolo. C´è naturalmente chi sostiene l´opportunità di far calare il silenzio sulla Resistenza; la Resistenza, si dice, è un passato che molti italiani, specie i giovani, ignorano. Si dà per certo, per un fatto consolidato l´esistenza in Italia di una democrazia condivisa in uno Stato di diritto, mentre stiamo assistendo a uno sfascio dello Stato, mentre crescono le associazioni mafiose e criminali.
Certo è difficile ricordare e rivendicare l´intransigenza partigiana. C´è il rischio della retorica e dell´utopia, ma il rischio opposto, il rischio mortale è di riconfermare trasformismo e machiavellismo, il rischio mortale di consegnare la debole democrazia che ci ritroviamo all´unità nella corruzione, alla concordia nel servizio dei più forti e più furbi. Un magistrato che fu al centro della rivoluzione morale di Mani Pulite non a caso esortava i cittadini a «resistere, resistere, resistere». Che cosa voleva dire quel suo appello di sapore resistenziale? Voleva dire che sui valori laici che furono anche quelli della Resistenza, i valori del rispetto della legge, dell´onestà nel pubblico servizio, della lotta alle organizzazioni criminali non si poteva transigere, voleva dire con grande preveggenza che se non si resiste su questi valori si va inevitabilmente alla diffusione della Mafia, se non si pratica l´onesta pulizia delle nostre città si arriva inevitabilmente alle strade napoletane invase dalla spazzatura.

Corriere della Sera 3.2.08
Firenze. Faust Sfida a Mefistofele. Con Goethe per «fermare l'attimo»
di Magda Poli


L' arte del palcoscenico è una miscela di improvvisazione fantastica e scrupolosa disciplina, di capriccio e serietà, di spontaneità e di artificio. Questo e altro ancora scopre il protagonista del romanzo di Goethe La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, e con gli occhi di Wilhelm, il grande Glauco Mauri, regista e autore della traduzione-adattamento con Dario Del Corno, sembra aver costruito il suo Faust, in uno spettacolo colorato, ironico e tragico, con estrosi abbandoni e semplici incanti, con gusto del gioco teatrale e amore e rispetto per la parola, dove gli attori sono insieme «ammaliati e ammaliatori». Una riduzione della grandiosa opera di Goethe, la tragedia del divenire dell'Uomo per cercare un'unica possibilità di salvezza: fermare l'Eterno nell'Attimo.
Un atto è dedicato al Primo Faust: la scommessa con Mefistofele, la seduzione e la morte di Margherita e l'altro al Secondo Faust con la corte dell'Imperatore e l'invenzione mefistofelica della cartamoneta, la Grecia di Elena, Filemone e Bauci. La bella scena di Mauro Carosi è una macchina teatrale che ben asseconda il viaggio di Faust con botole e tappeti che scorrono, i costumi di Odette Nicoletti sono colorati e fantasiosi. Glauco Mauri e Roberto Sturno con un felice scambio di ruoli sono a turno Faust e Mefistofele.
Glauco Mauri è uno splendido vecchio Mefistofele, non inquietante ma cinico e bonario, umano nella sua cattiveria, ludicamente pericoloso ed è anche un vecchio Faust scontento, disperato e sconfitto. Il bravissimo Roberto Sturno è un giovane Faust pieno di desiderio di vita, dall'umanità sofferta e un Mefistofele impertinente.
Una buona compagnia in uno spettacolo che, come scrive Goethe, deve essere simile ad uno stagno dove accanto all'acqua limpida, alla poesia, c'è una certa dose di nutrimento facile per allietare gli esseri che lo frequentano.
In scena Glauco Mauri e Roberto Sturno, Faust di Johann Wolfgang von Goethe Teatro La Pergola di Firenze

il Venerdì di Repubblica 1.2.08
La spallata di Benedetto XVI al governo Prodi
di Curzio Maltese


La vera spallata a Prodi alla fine l'ha data il
Vaticano. Era chiaro da tempo che le gerarchie
ecclesiastiche erano scese in campo direttamente
contro il centrosinistra e per favorire il ritorno di
Berlusconi, elargitore di mille favori alla chiesa
durante il suo quinquennio a Palazzo Chigi. La Chiesa
ha agito alla vigilia della crisi come una qualsiasi
lobby politica, sia pure extraparlamentare,
addirittura extraterritoriale, e con un'intelligenza
politica superiore a quella dei partiti in
circolazione.
La spallata della Chiesa al centrosinistra era partita
da lontano. Non c'è stata settimana, dalla primavera
del 2006, in cui il papa o i vescovi non siano entrati
in polemica, più o meno diretta, con l'azione del
governo. Ma nell'ultima settimana si è consumato uno
spettacolare attacco su più fronti. Ha cominciato
Benedetto XVI, in qualità di vescovo della capitale,
con l'attacco al Veltroni sindaco sul "degrado di
Roma".
Ora, è chiaro che l'uno è "anche" papa e l'altro è,
guarda caso, leader del PD. Quanto alla predica del
papa sui mali di Roma, dagli "affitti troppo alti"
allo scarso attivismo dell'amministrazione locale,
bisognerebbe aprire un lungo capitolo. L'Apsa, che
gestisce la proprietà ecclesiastiche, è il primo
immobiliarista della capitale, con il 22 per cento del
patrimonio totale della città: non può fare nulla per
calmierare gli affitti? La Chiesa è il primo evasore
(legalizzato) delle tasse romane, con l'esenzione
dall'Ici, così come il primo beneficiario delle
onerose convenzioni private su sanità e scuola.
L'elenco dei favori che la città di Roma paga alla
Chiesa è infinito, dalle forniture d'acqua ai pass
delle automobili per il centro.
Era ben studiato il pretesto della mancata visita alla
Sapienza, dove si capiva benissimo che alla Chiesa non
interessava la questione in se ma lo sfruttamento del
caso. La polemica sulla sicurezza non garantita era
strumentale. I predecessori di Benedetto XVI sono
andati in visita pastorale in Paesi del Terzo mondo e
hanno incontrato folle di milioni di persone, e questo
papa ha paura di entrare nell'Università di Roma?
Bisognava trovare il modo di organizzare una
manifestazione contro il governo a San Pietro, senza
dire che si trattava di politica.
Così è andata e nella folla di san Pietro c'era in
prima fila Clemente Mastella, il quale proprio in
quell'occasione, per sua ammissione, decide l'uscita
dalla maggioranza e la comunica subito non a Prodi ma
al cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano.
Nello sfascio della politica, la Chiesa ha deciso di
scendere in campo, alla riconquista di un ruolo
centrale perso dal tramonto della DC. I leader del
centrosinistra dovrebbero almeno prenderne atto e
studiare qualche contromossa, che non sia il solito
inginocchiarsi nella vana speranza di ammansire i vescovi

il manifesto 3.2.08
I ginecologi: «Rianimare i feti». Ma poi arriva la smentita
Alla vigilia della giornata della vita organizzata dalla Cei, un documento dei direttori delle cliniche ginecologiche universitarie romane riapre il dibattito sull'aborto. Ma in serata i firmatari negano di voler cambiare la 194
di Stefano Milani


Il tema è di quelli caldi, e basta un niente a riaccendere gli animi. Specie in tempi in cui si propone una moratoria sull'aborto e, da parte del mondo ecclesiastico, si spinge a rimettere mano alla legge 194. Ecco dunque che un documento approvato ieri da alcuni cattedratici si presta ad essere interpretato come l'ennesimo attacco anti-abortista, proprio alla vigilia della giornata della vita organizzata dalla Cei. Una possibilità smentita poi in serata dagli stessi firmatari.
«Un neonato vitale, in estrema prematurità , va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio e assistito adeguatamente», è scritto sul documento sottoscritto dai direttori delle cliniche ginecologiche delle facoltà di medicina delle università romane,Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico e presentato al termine di un convegno promosso dalle stesse cattedre al Fatebenefratelli di Roma. Secondo i cattedratici, infatti, «con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all'assistenza sanitaria». Pur non citando esplicitamente il caso degli aborti dopo la 22esima settimana, la presa di posizione dei direttori di cattedra ricalca le preoccupazioni espresse nei mesi scorsi dai vescovi italiani riguardo ai casi di interruzione volontaria di gravidanza dopo il quarto mese, quando cioè le moderne tecniche di rianimazione consentirebbero di mantenere in vita il feto.
«L'attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario - si legge nel testo - per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell'Unità ed i genitori». Tuttavia, concludono i direttori delle cliniche ostetriche, «se ci si rendesse conto dell'inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico».
Uno dei firmatari è Domenico Arduini, direttore della clinica ostetrica e ginecologica di Tor Vergata, che non si capacita per tutto questo clamore scatenato dal documento. «Io e miei colleghi abbiamo detto una cosa molto banale: se un neonato è vitale deve essere rianimato. Nessun riferimento a chi decide di interrompere la gravidanza». Una posizione, sottolinea Arduini, «che riprende esattamente ciò che dice la legge 194 e che ricalca la Costituzione in base alla quale il neonato ha diritto alla vita». Proprio per questo, continua, per intervenire e assistere il neonato non c'è bisogno del consenso dei genitori: «Quando nasce il neonato è un essere e in quanto tale ha diritto di vivere. L'assistenza è finalizzata a guadagnare quelle ore o quei minuti necessari per prendere una decisione oculata e capire se deve essere o meno praticata l'assistenza».
Per il ginecologo Nicola Colacurci, dell'Università di Napoli, ex segretario dell'Associazione ginecologi italiani la confusione nasce dalla poca chiarezza delle due leggi «la 40 e la 194, in contraddizione tra loro». Una presa di posizione che tocca il dibattito sull'aborto: di fatto, si potrebbe creare il paradosso di una legge che con una mano consente alla madre di abortire entro un certo termine, e con l'altra obbliga il neonatologo a intervenire sul feto. Il che, secondo Colacurci, almeno nel caso dell'aborto terapeutico «è un assurdo: non avrebbe senso che i medici decidessero l'aborto per le gravi complicazioni di salute di madre e figlio».

il manifesto 3.2.08
Una semplice dimenticanza
di Alessandro Robecchi


La stampa nazionale sta esagerando. Prendersela con il Pd soltanto perché nel suo manifesto dei valori si è dimenticato di scrivere la parola «Resistenza» mi sembra un'inutile cattiveria. È vero, è innegabile: nel manifesto dei valori, nello statuto, persino nel codice etico del nuovo partito non si parla mai né di antifascismo né di Resistenza. Ma andiamoci piano, al giorno d'oggi facciamo tutti una vita frenetica: chi non ha mai scordato le chiavi, o il telefonino? Insomma, succede, non facciamone uno scandalo. In più, inviterei a un minimo di umana comprensione: ma lo sapete che vita fanno, poveretti? Magari al mattino devono incontrare un diniano di sinistra, telefonare a un mastelliano, poi riunione sullo statuto, che palle, dopo correre in tivù, e magari anche andare a lisciare il pelo ai commercianti, coinvolgere gli industriali, fare un'Italia nuova. Panino. Scrivere diciannove prefazioni, poi conferenza stampa, poi ampio dibattito sul laicismo. Dopocena, incontro con i referendari, una telefonata con qualche Udc disponibile al dialogo, poi una dichiarazione alle agenzie e un invito alle larghe intese. È in situazioni come queste che uno raggiunge il letto spossato e affranto, e gli interessa solo dormire qualche ora per ricominciare il giorno dopo a fare un'Italia nuova. È in situazioni come queste che uno all'improvviso si stampa una manata sulla fronte e dice: «Oh, cazzo, il dentista! Mi sono scordato!». E allo stesso modo, andiamo, può capitare: «Oddio, ci siamo dimenticati la Resistenza!». Sinceramente, non attribuirei questa svista a cattiveria d'animo o a malafede, non facciamo inutili dietrologie, semplicemente, umanamente, pacatamente, si sono dimenticati di metterci la parola «Resistenza». Forse stavano per metterla, ma sono stati distratti, non so una telefonata per le nomine a qualche asl, un'apertura a Berlusconi, un segnale alla Confindustria, insomma è passato l'attimo. Non facciamola lunga. Resistenza: una semplice dimenticanza.

sabato 2 febbraio 2008

l’Unità 2.2.08
Una questione di Memoria
di Furio Colombo


Due lettere inviate a Sergio Romano al Corriere della Sera, e la risposta netta (contro il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah) dell’ambasciatore-scrittore ci aiutano a far luce su equivoci, errori di informazione, errori di percezione, e un fondo di malumore per tutta questa attenzione dedicata agli ebrei. Il fatto è che anche fascisti e tedeschi avevano dedicato molta attenzione a questi cittadini del nostro e di tutti gli altri paesi europei, e a molti sembra inevitabile (cerco di dire con mitezza) ritornare sull’argomento.
Ma andiamo con ordine. Le due lettere, scelte probabilmente fra le tante che saranno state scritte a Sergio Romano nell’occasione del 27 gennaio, toccano entrambe il tema sollevato alla Camera, in lunghe discussioni orientate a un perenne rinvio. Perché solo gli ebrei e le altre vittime (soldati, politici, omosessuali, zingari) dell’universo concentrazionario fascista nazista e non le altre vittime di Stalin, della Cina, dell’orrore comunista? È un argomento già molto usato in passato e ha avuto, con la pazienza e l’attenzione che merita, mille volte risposta. E non risposta di indifferenza a quei gravi delitti ma una obiezione precisa e incontrovertibile, nel paese di Nicola Pende (il manifesto degli scienziati italiani sulla razza, che dichiara estraneità, inferiorità e pericolo degli ebrei) e di Giorgio Almirante (autore ed organizzatore della rivista La difesa della razza, forse la più crudele e diffamatoria in quegli anni di dilagante antisemitismo europeo).
Le due lettere a Sergio Romano, che appaiono, con evidenza scritte da persone non giovani (dunque con più probabili ricordi personali)e dotate solo di argomenti di destra (basta con i delitti fascisti, occupiamoci una buona volta di quelli comunisti), sono travestite di finto candore. Chiedono una risposta che essi stessi offrono: ma come? Con così tanti delitti di Stalin e Tito, c’è ancora chi riempie la testa alla gente con le leggi razziali di Hitler e Mussolini? «Le leggi razziali italiane? Sono state poca cosa», aveva detto a suo tempo Vittorio Emanuele Savoia, quando si dubitava della sua conoscenza della storia e non ancora della sua tempra morale. Nel rispondere alle due lettere, Sergio Romano non sceglie l’indecoroso percorso Savoia. Offre una rapida e corretta ricostruzione di eventi (un elenco di crimini in Europa e poi fino a Mao, a Ho Chi Min, e stupisce che non abbia incluso i Khmer Rossi della Cambogia). Ma raggiunge la stessa conclusione. In tre punti.
Primo, al Parlamento italiano Sergio Romano dichiara che avrebbe votato contro la legge che istituisce il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah perché nel mondo è accaduto ben altro.
Secondo, indica come cattivi maestri, con il dovuto disprezzo, «i professionisti della memoria antifascista». Posso permettermi di credere che si riferisse a me come estensore e prima firma del testo di quella legge. E posso dire che in quel gruppetto, fra coloro che non dimenticano Via Rasella, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la strage delle famiglie ebree di Stresa, la razzia del 16 ottobre a Roma, sotto le finestre del Vaticano, i sette Fratelli Cervi (la lista sarebbe immensa perché un professionista della memoria antifascista ricorda tutto, specialmente se in quel tempo ha vissuto), mi trovo in buona compagnia. La sola che desidero.
Terzo, Sergio Romano sceglie di ricordare che al momento del voto alla Camera «Lucio Colletti ha votato contro». Aggiunge: «Anch’io avrei votato contro», presumibilmente per non essere - Dio ci scampi - scambiato per un professionista della «memoria antifascista» che, nella sua narrazione, appare un disturbo petulante nella buona vita italiana.
L’opinione è sua. Brutta ma rispettabile. Il ricordo è sbagliato. Colletti (che voleva una mozione, non una legge) non ha votato contro. Si è astenuto. L’ astensione, secondo il regolamento della Camera, non impedisce di dichiarare la legge, come risulta dagli atti, votata all’unanimità. La legge che istituisce «Il giorno della memoria» in Italia è stata infatti votata all’unanimità perché tutti i miei colleghi di allora, da sinistra a destra hanno accolto i due argomenti che sono stati proposti nella perorazione (la ricordo come una supplica) finale. È stato detto: gli orrori del mondo sono tanti e spaventosi, ma la Shoah, oltre a essere un crimine unico, è un delitto italiano. Nulla di ciò che è accaduto poteva accadere senza le leggi razziali italiane. E infatti nella Bulgaria fascista i tedeschi, neppure nell’impeto di violenza finale del 1943-45 hanno potuto arrestare un solo cittadino ebreo di quel paese perché il leader fascista bulgaro Dimitar Peshev aveva detto «No, mai in questo paese».
Ma ho potuto ricordare un altro fatto. In quell’aula di Montecitorio, da quegli stessi posti in cui stavamo seduti noi, un altro parlamento italiano aveva votato all’unanimità le leggi di Mussolini. Ho chiesto, come un piccolo segno che non avrebbe cancellato nulla ma sarebbe stato un simbolo per i più giovani, di votare anche noi all’unanimità. Così è accaduto. Un cittadino italiano e soprattutto uno storico, dovrebbe trarre un motivo d’orgoglio da questo piccolo evento. Sergio Romano, che pure è uno storico stimato e rispettato, sceglie invece questa frase: «Abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica».
Lotta politica ricordare il delitto di persecuzione dei cittadini italiani ebrei (e - con il concorso dell’Italia - di tutti i cittadini ebrei d’Europa)? Romano chiama alla lotta: «Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina». Sono certo che gli storici risponderanno.
colombo_f@posta.senato.it

l’Unità 2.2.08
«Si faccia ora la grande coalizione»
Veltroni alla Cdl: «In caso contrario da una parte ci sarà un programma e dall’altra 18 partiti»
di Simone Collini


«CRESCITA e rimozione delle disuguaglianze sociali». È il «modello Roma», una delle principali carte che Walter Veltroni intende giocarsi in campagna elettorale. Il segretario del Partito democratico rimane in attesa di conoscere l’esito delle consultazioni che
sta portando avanti il presidente del Senato, e anzi lancia a Forza Italia e soci un’ennesima sfida: «Il centrodestra dice andiamo a votare e poi facciamo la grande coalizione. Perché, invece, non la facciamo ora con un governo presieduto da Marini che scriva le regole del gioco? Avrebbe senso fare un’intesa adesso». Ma il leader del Pd sa anche che i margini per un accordo sono esigui, che l’appello a Berlusconi, Fini, Casini, Bossi a mostrare «senso di responsabilità», a «far prevalere l’interesse del Paese su quelli di parte», appare al momento destinato a cadere nel vuoto. E allora inizia a impostare quella che si profila come una campagna elettorale in cui difficilmente, come avrebbe voluto, verrà messa da parte la «rissosità».
Veltroni andrà all’offensiva battendo sul tasto della novità e chiarezza offerte da Pd, di contro alla confusione insita nella vecchia formula della Cdl: «Il confronto sarà su un programma da una parte e, dall’altra, 18 partiti che non si sa come possano governare». Questo, a meno che Berlusconi non raccolga la sfida di far correre da sola Fi: «La politica è fatta di coraggio, e noi andremo alle elezioni come Pd. Perché non fa altrettanto? Si avrebbe così il confronto tra i due principali partiti, una consultazione su scelte chiare». Ma è una sfida che Berlusconi sembra non aver alcuna voglia di raccogliere. Pagherà un prezzo per questo, è la convinzione di Veltroni. «La parte migliore del Paese guarda con rispetto alla posizione di responsabilità che abbiamo assunto in questa crisi», dice all’assemblea del Pd di Roma e provincia, a Velletri. «I sondaggi ce lo dicono, e stia attento il centrodestra perché l’esito non è scontato. Nel ‘94 eravamo convinti di vincere noi e invece abbiamo perso, nel ‘96 è accaduto il contrario».
La partita è tutta da giocare insomma, e secondo Veltroni il modo migliore per farlo è facendo correre il Pd da solo, o in alleanza soltanto con i partiti che ne sottoscriveranno il programma. Anche perché il leader dei democratici non ha dubbi sul fatto che il governo Prodi è caduto perché nel corso di questi diciotto mesi c’era chi dall’interno ne minava stabilità e credibilità: «Ha dovuto subire manifestazioni di piazza a cui hanno partecipato suoi ministri che protestavano. E varie volte ministri hanno minacciato dimissioni. Più il governo faceva cose buone più si accresceva un clima di confusione che ha prodotto una difficile percezione dell’azione di risanamento». Inutile dire che la colpa di questa situazione è annidata prima di tutto nell’attuale sistema politico, figlio della legge elettorale con cui ora la Cdl vuole andare al voto. Forza Italia non vuol cambiare il sistema politico? «Noi lo cambieremo unilateralmente». Il resto «apparirà irrimediabilmente datato».
Ma ci sarà anche un altro tasto su cui batterà Veltroni nelle prossime settimane, se il tentativo di Marini non dovesse andare in porto. Ed è quello di cui ieri il segretario del Pd ha dato un assaggio: il successo del «modello Roma». Lo ha fatto nelle vesti di sindaco capitolino, commentando in Campidoglio i dati forniti da Unioncamere, secondo i quali Roma è al primo posto nella classifica nazionale per crescita delle imprese, con un tasso tre volte e mezzo maggiore rispetto alla media nazionale (+2,7% contro lo 0,75%): «Questi dati sono la migliore testimonianza del significato del modello Roma come modello di crescita, dello sforzo che questa città, che fino a 15 anni fa nella percezione del Paese era pigra, sonnolenta e ministeriale, ha fatto per cambiare pelle». Ma ci vuole poco per capire che il discorso non riguarda né soltanto quanto fatto in passato, né quanto ottenuto all’interno dei confini capitolini. Il «modello di concertazione, serenità, lavoro e ottimismo» che ha portato a questi risultati, dice Veltroni, costituisce «un messaggio di fiducia da Roma al Paese»: «Non è un destino ineludibile, per l’Italia, quello di essere ferma al palo. Come ce l’abbiamo fatta a Roma ce la si può fare nel resto del Paese. L’Italia ha bisogno di crescere e ha tutte le possibilità per farlo». Un tema su cui insisterà molto Veltroni in campagna elettorale, convinto com’è che un «patto tra imprese e lavoro» è anche il mezzo per raggiungere l’obiettivo di rimuovere le disuguaglianze sociali.

l’Unità 2.2.08
Simboli e leader, a sinistra c’è scontro
Bertinotti capolista? Falce e martello? Mussi furioso, vertice la prossima settimana. E c’è chi propone Vendola
di Giuseppe Vittori


Il ministro dell’Università sorpreso per le notizie sul ticket Bertinotti-Francescato. Il segretario Prc: confronto aperto, indiscrezioni infondate

Il governatore della Puglia è considerato il candidato ideale in concorrenza a Veltroni. Se si vota ad aprile, però, i tempi sono stretti

MUSSI È NERO e la Cosa rossa di certo non brilla. Il voto rischia di essere dietro l’angolo, se dalle consultazioni di Marini non verrà fuori un accordo per cambiare l’attuale legge elettorale. E ora la Sinistra arcobaleno è costretta a sciogliere in tempi rapidi tutti i nodi rimasti irrisolti nei mesi passati. Pena la sorpresa, per alcune forze che stanno dando vita all’operazione, di trovarsi di fronte a cambi di programma e fughe in avanti non concordate.
Nelle ultime ore Pdci e Verdi sono tornati alla carica sulla necessità di inserire nel simbolo con cui presentarsi agli elettori i tradizionali simboli di partito, mentre per la leadership si sta profilando il ticket rosso-verde Fausto Bertinotti-Grazia Francescato. Due ipotesi che non piacciono a Sinistra democratica. Fabio Mussi ne viene a conoscenza, dice, leggendo i giornali e si affretta a smentire: «Non c’è stata nessuna discussione collettiva e nulla è stato deciso in via definitiva». Il coordinatore di Sd chiede e ottine un incontro Franco Giordano, che subito prova a gettare acqua sul fuoco: «Il confronto è aperto, le indiscrezioni sono infondate». Ma il colloquio, a cui hanno partecipato anche i capigruppo di Sd e Prc, non basta a calmare le acque. A chiarire meglio la situazione sarà, con ogni probabilità, un vertice tra i quattro segretari (ieri con Diliberto e Pecoraro Scanio ci sono stati soltanto contatti telefonici) in programma all’inizio della prossima settimana. Una riunione in cui sarà anche più chiaro lo scenario politico con cui dovrà fare i conti la sinistra unita.
Nell’attesa, però, Sd non perde tempo e chiede spiegazioni al resto degli alleati, sia su Bertinotti candidato premier per la Cosa rossa che sui simboli di falce e martello e sole che ride che dovrebbero ricomparire. «Un processo unitario complesso comporta che i passi che si fanno, dai simboli al programma politico, siano concordati», spiega Mussi, che ribadisce l’esigenza di «un nuovo soggetto politico della sinistra e non un cartello elettorale». Mussi non tralascia l’ironia e mostrando un foglio in cui compare il simbolo scelto per a dicembre con sotto, in piccolo, i 4 simboli dei partiti, commenta: «Ecco, ci vorrebbe la cartina turistica».
Discussione collegiale sul simbolo, così come su chi dovrà guidare la sinistra, nel caso il Pd corra da solo. Se Mussi boccia senza appello la soluzione indicata, lo schema fa discutere anche dentro Rifondazione. «Il simbolo con il quale la Sinistra-l’Arcobaleno si presenterà alle elezioni è stato già deciso a dicembre, sarebbe singolare che vi fossero ripensamenti», dice Pietro Folena, per il quale «riproporre i simboletti dei quattro partiti sarebbe un passo indietro». Nel Prc c’è chi non nasconde la preoccupazione che l’idea di schierare Bertinotti comprometta l’intesa proprio con Sinistra Democratica, da sempre contraria a dare l’idea di essere annessa a Rifondazione. E di fronte al tam tam delle elezioni torna in auge il nome di Nichi Vendola. Il governatore della Puglia infatti è considerato da molti, e non solo dentro il Prc, come il nome ideale da schierare in concorrenza a Veltroni. Ma i tempi per lavorare attorno alla sua candidatura sono troppo stretti, se si voterà ad aprile.
Convinto che l’unica strada percorribile sia quella di un nuovo soggetto con un nuovo simbolo è anche Alfonso Gianni, uno degli uomini più vicini al presidente della Camera: l’ipotesi dei quattro simboli è «un passo indietro». Di opinione opposta è Claudio Grassi, leader della minoranza del Prc, che ricorda: «I simboli con la falce e martello alle ultime elezioni hanno preso l’8,1% dei voti».

Repubblica 2.2.08
Pd, niente Resistenza nel manifesto
Polemiche da sinistra. Bindi: vale la Costituzione, è il valore unificante
Polito: omissione da correggere, ma il razzismo oggi è più pericoloso del fascismo
di Alberto Custodero


ROMA - Nella magna charta del partito democratico non sono citati Resistenza e antifascismo. S´è trattato di una «grave e colpevole dimenticanza», come sostenuto dalla senatrice del Prc ed ex staffetta partigiana, Lidia Menapace? Oppure, secondo la tesi del senatore Antonio Polito, l´omissione è stata voluta perché, «se sono finite le ideologie del Novecento, sono finiti anche il fascismo e l´antifascismo, oltreché il comunismo»? La delicata diatriba di carattere storico politico, sollevata dalla Menapace alla vigilia dell´approvazione, prevista per oggi, dello Statuto, del Manifesto dei valori e del Codice etico, ha sollevato all´interno del partito democratico un acceso dibattito.
A partire all´attacco, denunciando quella «grave e colpevole dimenticanza», è stata Lidia Menapace. «In un momento in cui - ha dichiarato - si profilano all´orizzonte pericoli diffusi di involuzione verso forme di democrazia autoritaria, che si può chiamare il "fascismo del XXI secolo", è un atto imperdonabile non citare la Resistenza, fondamento storico della Costituzione, né l´antifascismo, che è la sua anima».
Ma è stato il senatore Antonio Polito ad azzardare una spiegazione a quella «svista». «Se vogliamo spiegare questa dimenticanza che onestamente andrebbe corretta - ha sottolineato - va detto che il Pd, nel suo Manifesto dei valori, dichiara di costituirsi partendo dal presupposto che la storia del 900 è finita, e con lei le sue ideologie: il fascismo oltreché il comunismo». «Se uno vuole rievocare l´antifascismo in quanto ideologia - ha aggiunto Polito - allora è anacronistica quanto il fascismo. Un partito progressista in Europa ha oggi innumerevoli pericoli più temibili del fascismo da affrontare, come razzismi, varie forme di intolleranza, l´uso distorto della scienza, la distruzione dell´ambiente, l´ignoranza, la povertà». Il fascismo è morto con il Novecento e quindi non va citato nel partito democratico del Duemila?
Per Rosy Bindi, ministro per le Politiche per la famiglia e candidata alla segreteria del Pd, «alcuni valori, come quello dell´antifascismo e della Resistenza, fanno parte della nostra politica, storia e cultura. Qualche volta, richiamarli può apparire pleonastico. Ma se qualcuno facesse una richiesta esplicita di inserire i due principi nella magna charta, non c´è dubbio che bisognerebbe accoglierla, anche se credo che il richiamo alla Costituzione valga come valore unificante». Sulla stessa linea anche il senatore Furio Colombo, anche se, ha precisato, «in un´Italia in cui si nega ogni giorno l´Antifascismo come valore e la Resistenza come fondamento della vita italiana, non è troppo, né fuori posto inserire questi due principi in modo specifico nella carta costituente del Pd. Devo dire, tuttavia, che la nostra Costituzione è nata dalla Resistenza, è la "carta" certificante dell´Italia libera, ha in sé tutti i valori dell´Antifascismo, per cui il suo richiamo mi rassicura».
Piero Terracina, della commissione manifesto dei valori, ex deportato del lager di Auschwitz - Birkenau, ha chiesto con una mozione «la condanna del fascismo e del nazismo». «Ho consegnato a Walter Veltroni - ha dichiarato - e alla commissione Statuto del Pd una mozione per impedire che, in nome della pacificazione, vittime e carnefici vengano equiparati».

Corriere della Sera 2.2.08
Il partito e la scelta discussa
Nella «magna Charta» niente Resistenza


MILANO — Manifesto dei Valori, Codice etico e Statuto del Pd non contengono alcun riferimento alla Resistenza e ai valori dell'Antifascismo. Nella Magna Charta — che dovrebbe essere approvata oggi in Commissione — si indica come punto di riferimento esplicito la Costituzione e si citano tra i valori «pluralismo, libertà, tolleranza, laicità delle istituzioni e democrazia bipolare». Nessuno spazio, invece, è riservato ai tradizionali richiami alla Resistenza. «Un errore al quale si deve rimediare — spiega Pietro Marcenaro —. Un partito, soprattutto se nuovo, non può dimenticare le sue radici. Da tempo il richiamo alla Resistenza è tutt'altro che dogmatico o retorico, perché territorio di continua ricerca e di confronto. Quindi è utile e giusto che sia presente nella Charta. Ma sono sicuro che a marzo l'Assemblea provvederà e cambierà il testo». Gianni Cuperlo, invece, non vede alcuno scandalo: «Mi pare una polemica incomprensibile.
Antifascismo e Resistenza sono già nel Dna del Pd. È un partito che nasce dalla confluenza di due tradizioni, cattolicesimo democratico e riformismo comunista e socialista che prendono l'abbrivio dalla lotta di liberazione.
Per questo è un richiamo scontato, non necessario». Fuori dal Pd, la senatrice della Sinistra-Arcobaleno Lidia Menapace considera la «dimenticanza colpevole e grave»: «Sempre, ma soprattutto in questo periodo, non citare la Resistenza, fondamento storico della costituzione, né l'anti-fascismo, che è la sua anima, è veramente un atto imperdonabile».

Repubblica 2.2.08
Charles Baudelaire. Con gli occhi colmi di immagini
di Roberto Calasso


Il grande poeta francese raccomandava la lettura dei "Salons" di Diderot a cui si era largamente ispirato

Pubblichiamo il testo letto ieri sera da alla Warburg-Haus di Amburgo, dove ha ricevuto il Premio Warburg

I Salons di Diderot sono l´inizio di ogni critica deambulante, capricciosa, insofferente, umorale, che si rivolge ai quadri come ad altrettante persone, si aggira curiosa fra paesaggi e figure, usa le immagini come trampolini e pretesti per esercizi di metamorfosi a cui si abbandona con la stessa prontezza con cui poi se ne sbarazza. Se si elimina la parola arte, sempre ingombrante e spesso improvvida, fare un Salon equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di immagini che rappresentano, in ordinati drappelli, i momenti più disparati della vita: dalla mutezza inaccessibile della natura morta sino agli episodi solenni della Bibbia e alle cerimonie grandiloquenti della Storia. Per un uomo come Diderot, dalla mente cangiante e disponibile pressoché a tutto, il Salon diventava l´occasione più adatta per mettere in scena quell´officina turbolenta e perennemente attiva che aveva sede nella sua testa.
Diderot non aveva propriamente un pensiero, ma la capacità di far zampillare il pensiero. Bastava dargli una frase, un interrogativo. Da lì, se si abbandonava al suo febbrile automatismo, Diderot poteva arrivare ovunque. E, nel tragitto, scoprire molte cose. Ma non si fermava. Quasi non sapeva quel che scopriva. Perché era solo un passaggio, un aggancio fra tanti. Diderot era il contrario di Kant, che doveva legittimare ogni frase. Per lui, ogni frase era infondata in sé, ma accettabile se spingeva a procedere oltre. Il suo ideale era il moto perpetuo, una continua scossa nervosa che non concedeva di ricordare da dove si era partiti e lasciava decidere al caso il punto dove fermarsi. Per questo Diderot disse dei Salons: «Non c´è nessuna delle mie opere che mi somigli altrettanto».
Perché i Salons sono puro movimento: non solo si passa da un quadro all´altro incessantemente, ma si entra nei quadri, se ne esce - e talvolta ci si perde: «E un metodo piuttosto buono per descrivere i quadri, soprattutto campestri, quello di entrare nel luogo della scena da destra o da sinistra, e seguendo nell´avanzare il bordo inferiore descrivere gli oggetti via via che si presentano». (...)
Quando Baudelaire vide per la prima volta il suo nome (allora Baudelaire Dufays) sulla copertina di un esile libro - il Salon de 1845 -, la sua prima aspirazione fu che qualcuno si accorgesse dell´affinità fra quelle pagine e Diderot. A Champfleury spedì questo biglietto: «Se volete fare un articolo scherzoso, fatelo pure, purché non mi faccia troppo male. Ma, se volete farmi piacere, fate qualche riga seria, e parlate dei Salons di Diderot. E forse il meglio sarebbe di avere le DUE COSE insieme».
Champfleury rispettò il desiderio dell´amico e sul Corsaire-Satan di pochi giorni dopo si poteva leggere, in un articolo anonimo: «M. Baudelaire-Dufays è audace come Diderot, senza però il paradosso».
Ma che cosa, in Diderot, attirava Baudelaire? Non certo il «culto della Natura», quella «grande religione» che accomunava Diderot a d´Holbach ed era del tutto aliena a Baudelaire. Piuttosto, l´attrazione era dovuta a un certo passo del pensiero, a una certa capacità di oscillazione psichica, dove - come Baudelaire scrisse di un personaggio teatrale di Diderot - «la sensibilità è unita all´ironia e al cinismo più bizzarro». E poi - non si può forse ascrivere alle coincidenze fatali che proprio Diderot fosse stato uno dei primi francesi a nominare lo spleen? Così aveva scritto a Sophie Volland il 28 ottobre 1760: «Non sapete che cos´è lo spline o vapori inglesi? Non lo sapevo neppure io». Ma il suo amico scozzese Hoop gli avrebbe illustrato quel nuovo flagello.
In tutti i suoi aspetti Diderot era terreno congeniale per Baudelaire, che alla fine non riuscì a trattenersi e svelò le sue carte in un asterisco del Salon de 1846: «Raccomando a coloro che talvolta devono essere rimasti scandalizzati dalle mie pie collere la lettura dei Salons di Diderot. In mezzo ad altri esempi di carità ben intesa, vi troveranno che questo grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva famiglia, disse che occorreva abolire o i quadri o la famiglia». Invano è stato cercato il passo corrispondente nei Salons di Diderot. Ma certamente così Baudelaire voleva che Diderot scrivesse.
Nella catena dell´insolenza, dell´improntitudine e dell´immediatezza che collega i Salons di Diderot a quelli di Baudelaire c´è un anello intermedio: l´Histoire de la peinture en Italie di Stendhal. Pubblicato nel 1817 per un pubblico pressoché inesistente, questo libro dovette apparire al giovane Baudelaire come un viatico prezioso. Non tanto per la comprensione dei pittori, che non fu mai il forte di Stendhal, ma per la sua maniera impertinente, sbrigativa, ariosa, come di chi è pronto a tutto ma non ad annoiarsi mentre scrive. Stendhal aveva saccheggiato Lanzi per risparmiarsi certe faticose incombenze (descrizioni, date, dettagli) nella stesura del libro.
Baudelaire invece si appropriò di due passi del libro di Stendhal per devozione, secondo la regola per cui il vero scrittore non prende in prestito ma ruba. E lo fece nel punto più delicato del suo Salon del 1846, là dove parla di Ingres. Tutta la storia della letteratura - quella storia segreta che nessuno sarà mai in grado di scrivere se non parzialmente, perché gli scrittori sono troppo abili nel celarsi - può essere vista come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, come quelli operati da Stendhal su Lanzi; ma gli altri, fondati sull´ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è uno dei misteri più protetti della letteratura. I due passi che Baudelaire prese da Stendhal sono più Baudelaire di Baudelaire e intervengono in un momento cruciale della sua esposizione. Scrivere è ciò che, come l´eros, fa oscillare e rende porose le paratie dell´io. E ogni stile si forma per successive campagne - con drappelli di incursori o con armate intere - in territori altrui.
Chi volesse dare un esempio del timbro inconfondibile di Baudelaire critico potrebbe persino scegliere alcune sue righe che sono ricalcate da Stendhal: «M. Ingres disegna mirabilmente bene, e disegna con rapidità. Nei suoi abbozzi fa naturalmente l´ideale; il suo disegno, spesso poco carico, non contiene molti tratti; ma ciascuno rende un contorno importante. Avvicinateli a quelli di tutti questi operai della pittura, che spesso sono suoi allievi; - prima di tutto rendono le minuzie, e appunto per questo incantano i volgari, il cui occhio in tutti i generi si apre soltanto per ciò che è piccolo».
C´è poi un altro caso: «Il Bello non è che la promessa della felicità». Baudelaire doveva tenere molto a queste parole, che sono una variazione da Stendhal, se le ha citate tre volte nei suoi scritti. Le aveva trovate in De l´amour, libro che sino allora circolava fra molto pochi degli happy few. Stendhal non si riferiva all´arte, bensì alla bellezza femminile. Che Stendhal intendesse la sua celebre definizione del bello senza insinuarvi implicazioni metafisiche si può desumere da una sua annotazione in Rome, Naples et Florence. Sono le cinque del mattino e Stendhal esce, ancora ammaliato, da un ballo della società dei negozianti di Milano. Annota: «Non ho mai visto in vita mia una riunione di donne altrettanto belle; la loro bellezza fa abbassare gli occhi. Per un Francese, ha un carattere nobile e fosco che fa pensare alla felicità delle passioni ben più che ai piaceri passeggeri di una galanteria vivace e gaia. La bellezza non è mai, mi sembra, che una promessa di felicità». Si avverte subito il brio infantile, il presto di Stendhal.
Baudelaire, sulla base delle sue parole, batterà un´altra strada. Stendhal pensa alla vita - e se ne appaga. Baudelaire non riesce a impedirsi di innervarvi un pensiero, operando uno spostamento decisivo: dirotta le parole di Stendhal verso l´arte e, invece che di «bellezza», parla del «Bello». Ora non si tratta più dell´avvenenza femminile, ma di una categoria platonica. E qui avviene l´urto con la felicità, che la speculazione estetica - persino in Kant - non era ancora riuscita a collegare al Bello. Non solo: ma, con questa lieve e travolgente torsione del discorso, la «promessa» sviluppa un alone escatologico. Quale sarà mai la felicità che si preannuncia nel Bello? Non certo quella celebrata con petulanza nel secolo dei Lumi.
Baudelaire non si sentì mai attratto, per costituzione, a seguire quella via. Ma di quale altra felicità può trattarsi? E come se ora quella promesse du bonheur si riferisse alla vita perfetta. A qualcosa che travalica l´estetico e lo assorbe in sé. E questa - di Baudelaire ben più che di Stendhal - la luce utopica in cui la promesse du bonheur riaffiorerà quasi un secolo più tardi: nei Minima moralia di Adorno.
Nel momento in cui appare la fotografia - e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto - , già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi.
«Questo peccato è il nostro peccato. Mai occhio fu più avido del nostro» precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «Sin da giovanissimo, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell´immensità», traboccanti di simulacri.
L´avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d´arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche».
Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d´amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un´opera di trasposizione da un registro all´altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, dimenticando presto che potevano anche essere la descrizione di un acquarello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d´ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
Copyright Roberto Calasso

Corriere della Sera 2.2.08
Bertone: nel '68 un mondo contro Dio
di M.Antonietta Calabrò


E' durato 25 minuti il faccia a faccia in un ufficio del Vicariato tra il presidente e il segretario di Stato vaticano
ROMA — «Dio è morto, Marx è morto... e anch'io non mi sento molto bene». Inizia così, a sorpresa, con la citazione di «questa nota battuta ironica e pessimista di Woody Allen», e genera un attimo di suspense. Visto che le parole «Dio è morto», risuonano dall'altare della Basilica di san Giovanni in Laterano, la madre di tutte le chiese del mondo. E a pronunciarle è il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone. Poi l'atmosfera si scioglie e nasce un sorriso sulle facce dei presenti. Dall'ex presidente Ciampi, a metà governo dimissionario (Prodi, Rutelli, Fioroni, Bindi), al sindaco di Roma, Veltroni e agli esponenti dell'opposizione (Gianni Letta in prima fila, e gli ex ministri Buttiglione e Marzano).
L'omelia di Bertone, durante la messa per l'anniversario della Comunità di Sant'Egidio, è tutta incentrata sulla speranza vera, evangelica, e su quella «falsa» di «un periodo storico turbinoso e complesso, segnato dall'ideologia e dal senso prometeico di un'umanità che voleva costruire se stessa e il mondo senza Dio o peggio contro di lui». Sono passati infatti quarant'anni anni da quando, nel febbraio del 1968 — sì proprio l'anno della contestazione, degli scontri di Valle Giulia a Roma, dell'occupazione della Sapienza — un ragazzo non ancora ventenne, adesso professore, Andrea Riccardi, fondò in un liceo romano la comunità cattolica che adesso è presente in 70 paesi del mondo.
Lo stato d'animo di insoddisfazione e sfiducia nel futuro sintetizzata da Woody Allen, secondo Bertone, deve lasciare però il posto al «dono» di un cambiamento generato dal piccolo granello di senape, che riesce a diventare un grande albero frondoso. Questa parabola, secondo il Cardinale, si può applicare anche a quella che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha definito un'«Italia agitata e confusa». Che ne pensa, cardinale, della crisi di governo? Ce la farà Marini? Ripete per due volte Bertone: «Si legga attentamente l'omelia, lì c'è tutto».
Esce in fretta il segretario di Stato, dal «baciamano» delle autorità (150 vescovi, 14 cardinali, i rappresentanti di tutte le chiese cristiane, dagli ortodossi agli anglicani). Prodi, accompagnato dalla moglie Flavia, non vuole fare dichiarazioni, ma tutti hanno notato che qualche minuto prima, rientrando in sacrestia al termine della messa, Bertone, con ancora i paramenti indosso, si è mosso per salutare con grande cordialità il presidente Ciampi e la moglie Franca, mentre al presidente del consiglio ha riservato solo una veloce stretta di mano.
Sono le otto di sera quando Bertone entra in un lungo colloquio a quattr'occhi con Napolitano, appena arrivato dal Quirinale, in una delle sale a piano terra del palazzo del Vicariato. E' evidente che non si tratta solo di cerimoniale. L'incontro, faccia a faccia, dura ben 25 minuti. Un tempo necessario per un esame approfondito della delicata situazione politica interna. E' come se, terminate a Palazzo Giustiniani le consultazioni del presidente incaricato Marini, un più alto punto- situazione, sia stato fatto ieri sera tra Vaticano e Stato italiano.
Una conferma, se si vuole, della «vocazione diplomatica » della Comunità di sant'Egidio, che in passato ha «risolto» complicate situazioni in Africa e in altre parti del mondo tanto da essere ribattezzata da Igor Man, «l'Onu di Trastevere». «Alla ispirazione, anzi, alla passione cristiana — ha affermato Napolitano in un breve discorso di saluto — si aggiunge la vostra singolare capacità diplomatica », legata sempre agli «alti ideali » e alla ricerca del «bene comune ». Per questo, ha sottolineato il Capo dello Stato, «gli italiani vi devono essere grati». In tutto, il presidente della Repubblica, accompagnato dalla signora Clio, si è trattenuto, un'ora («La voglia di venire ce l'avevo e il tempo l'ho trovato »). Un salottino particolare con Riccardi e con monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, tra i fondatori di Sant'Egidio e a lungo parroco di Santa Maria in Trastevere. L'ex segretario della Quercia, Fassino, commenta soddisfatto: «Sono passati i tempi del segretario di stato Sodano. Il cardinal Bertone ha quasi fatto un'investitura pubblica di Sant'Egidio, in una celebrazione solenne. Ed è di particolare rilievo che ben due volte abbia sottolineato la particolare benedizione del Papa Benedetto».

Corriere della Sera 2.2.08
E in Gran Bretagna nuovo piano del governo: rimborsi ai cittadini sterili che utilizzano madri in affitto
I vescovi: figli concepiti senza il padre? Violate etica e ragione
di Margherita De Bac


E gli esperti si dividono.
Eleonora Porcu: questa non è scienza. Ermanno Greco: rispettata l'etica

ROMA — «Gravi riserve morali» dei vescovi sulla tecnica che permetterà di creare spermatozoi dal midollo osseo della donna, come ha riportato il New Scientist. In pratica la donna un giorno potrebbe fare da sola, non aver bisogno dell'uomo per riprodursi. Il solo pensiero solleva lo sdegno della Chiesa.
Il tentativo di generare un bambino senza bisogno del padre «è contrario all'etica e alla ragione», condanna duramente il Sir, servizio di informazione religiosa, l'agenzia di stampa dei Vescovi. Ancora: «E' una nuova forma di fecondazione artificiale tutta ancora da verificare e comunque preoccupante negli scopi che si propone. La paternità resterebbe solo un retaggio culturale d'altri tempi, non servirebbe più l'incontro tra due persone che si amano e anche due omosessuali potrebbero avere un figlio biologicamente proprio».
Non manca materia per polemiche. Solo due giorni fa il Papa ha condannato ogni forma di fecondazione artificiale extracorporea. E in Gran Bretagna vanno oltre con una proposta inedita.
Rimborsi ai cittadini sterili che utilizzano madri surrogate, cioè prese in affitto per sostenere una gravidanza. Dalle 7 alle 15 mila sterline la tariffa con cui coprire le spese delle coppie, comprese quelle gay. La notizia è stata anticipata dal quotidiano
Daily Mail. Il progetto è stato presentato e discusso dall'azienda sanitaria North Essex Primary Care. Interessati a seguire questa strada anche gli ospedali di Cambridge, Doncaster, Nottingham e Gloucestershire.
Si dicono pronti a creare spermatozoi partendo da cellule staminali del midollo osseo i ricercatori dell'Università di Newcastle Upon Tyne University. La «riconversione» avverrà in una coltura a base di vitamina A. «Convincere una cellula a trasformarsi in gamete? Obiettivo stupendo solo per restituire la fertilità a chi l'ha persa. Se invece la finalità è di vicariare lo sperma io mi tiro fuori. Non è più scienza, questa», si dissocia la ginecologa del Sant'Orsola Eleonora Porcu, nota per i suoi lavori sugli ovociti congelati.
L'andrologo Ermanno Greco accoglie invece con entusiasmo gli annunci di Karim Nayerna, il coordinatore della ricerca: «Potremo ottenere gameti artificiali in modo etico. Pensiamo alle applicazioni su uomini incapaci di produrre spermatozoi, sterili. Diventerà possibile ottenerli col loro stesso patrimonio genetico».

Corriere della Sera 2.2.08
A colloquio con il professor Khrustov: i miei studi sulla comunicazione
Anche le scimmie pensano
La capacità cognitiva? Viene prima dell'uomo
di Armando Torno


Il risultato arriva da un test effettuato sugli scimpanzé, capaci di un'operazione perché in grado di compiere un'elaborazione mentale e non solo spinti dall'istinto
L'informazione della forma è già presente nel cervello del primate, quindi è dotato di capacità connettiva: una caratteristica presente in tutti i soggetti della specie

MOSCA — All'Università delle Relazioni Internazionali, dove un tempo si formavano i diplomatici sovietici e oggi quelli russi, incontriamo il professor Ghenrikh Fiodorovich Khrustov. Biologo, antropologo, soprattutto filosofo, è autore dell'opera, da poco uscita, La teoria del fatto (Edizioni Ministero Affari Esteri). Questo accademico è noto sin dal 1964 allorché uscì una sua indagine sul costituirsi e l'evolversi delle attività nel mondo degli antropoidi basata sugli strumenti di lavoro. Il libro fece un chiasso notevole nell'ex Urss, giacché si individuò in talune analisi un'accusa al nucleo dirigente del partito che si era sclerotizzato. Ma, come si suol dire, di acqua ne è passata sotto i ponti. Comunque, il professore ha continuato i suoi esperimenti con scimmie e gorilla, tra Berlino e Mosca. E ora sta tirando le conclusioni.
Khrustov è uno dei pochissimi che in Europa abbia dedicato decenni di ricerche per comprendere come funziona la comunicazione negli antropomorfi, per poi confrontarla con quella dei bambini di due anni (ha utilizzato allo scopo il figlio di un amico). Parla del rapporto tra le sue ricerche e quelle di Jane Goodall, l'etologa e antropologa britannica che ha lavorato per un quarantennio sulla vita sociale e familiare degli scimpanzé, racconta le reciproche citazioni, gli scambi di informazioni e cose simili. Durante i suoi corsi, tra l'altro, il professore russo fa ascoltare arie di Leoncavallo e Puccini perché — sottolinea — «la loro musica aiuta e stimola le deduzioni». E quando gli chiediamo di offrirci una sintesi delle sue scoperte, Khrustov mette da parte accordi e melodie, afferra le fotografie dei suoi esperimenti con gli scimpanzé e le mostra, non prima di aver precisato: «Puccini ha a che fare indirettamente con la religiosità».
Poi, con naturalezza avvia il discorso: «Noi viviamo con le emozioni provate e attraverso di esse creiamo forti impatti su quanto consideriamo vero o falso. Ci plasmano. Contro di esse l'uomo non può vincere. Per questo motivo ho studiato il processo della nostra formazione, quel percorso che va dal primate all'homo sapiens». Entra nei particolari delle sue ricerche, e si sofferma con qualche smorfia per il costo sempre più alto che richiedono; quindi analizza i risultati delle osservazioni compiute, ricorda che «l'uomo è l'attività dell'uomo». Cita tra i moltissimi il suo maestro Jacov Roghinskij, ma i suoi paragoni chiamano in causa il filosofo greco Epicuro (parafrasandolo: «Le mie parole non valgono se non possono guarire qualche sofferenza»), Charles Darwin, soprattutto Immanuel Kant. Del sommo tedesco ricorda in particolare l'Antropologia pragmatica,
opera dove si parla delle cause dell'aumento e della diminuzione del grado delle sensazioni. Khrustov analizza i passi relativi alle catastrofi che sviluppano le capacità. Infine afferma: «Il pensiero nasce prima dell'uomo ». Per far seguire a tali parole delle argomentazioni scientifiche illustra i dati raccolti con gli scimpanzé, sintetizza quello che in base alle prove effettuate avverte la loro mente, ricorda che i gesti di queste scimmie sono spinti da qualcosa di più complesso di un certo bisogno o da un particolare impulso. Per passare all'esempio, diremo che il professore ha offerto al soggetto utilizzato un tubo al centro del quale si trovava qualcosa di ghiotto; ha poi manipolato un legno tondo, dal quale in un primo tempo era facile ricavare una piccola asta seguendo le venature e con la semplice pressione di due arti. Poi l'operazione diventava possibile soltanto attraverso una serie di accorgimenti e con un vero e proprio lavoro, per il quale non bastava l'istinto. Lo scimpanzé, organizzandosi progressivamente, è riuscito nell'impresa di staccare la sospirata asticella con i denti, non cadendo nei trabocchetti delle apparenze.
Da tutto ciò — e i passaggi scientificamente documentati si leggono nel libro ricordato sul fatto — Khrustov sostiene che l'informazione della forma è già presente nella mente dello scimpanzé, dotato di una capacità connettiva, anzi con essa riesce a realizzare e a perfezionare. Inoltre: concretizza ogni fase della connettività e tutti i soggetti della sua specie presentano tali caratteristiche. Lo scimpanzé, infine, è in grado di confrontarsi con la realtà (non la subisce ma entra in contatto con essa). Nell'evoluzione delle popolazioni umanoidi, a detta del professore, è bastato un cervello simile a questo, anche se non ha ancora un'importanza esistenziale. Il prossimo argomento: studiare l'eventuale scambio di dati che i diversi soggetti sono in grado di comunicare tra loro, dopo un'esperienza come quella ricordata.
Inevitabili a questo punto i discorsi sul progresso e sul regresso. Khrustov offre una sua opinione: se l'umanità dovesse difendersi dall'arrivo di un asteroiode (un Apofis con la traiettoria giusta, per intenderci) oggi non sarebbe in grado di farlo. Non per mancanza di tecnologia o di mezzi, ma perché ci sarebbe, anche in tal caso, disaccordo tra le varie nazioni gelose e preoccupate dei loro segreti tecnologici. Subirebbe insomma la catastrofe, non riuscendo a raggiungere quell'armonia necessaria per affrontare una simile emergenza anche in un momento cruciale.

Libri & Storie. Gli appunti di Darwin
«Io penso» c'è scritto al margine dello schizzo che rappresenta la teoria a cui Charles Darwin arriverà. È il seme di un pensiero composto da immagine e parola che a guardarlo emoziona, pensando a quello che ne è poi scaturito. A leggere i «Taccuini» di Charles Darwin (Laterza) curati da Telmo Pievani è come tuffarsi in un mondo informe ma ricco, dal quale possono nascere grandi cose. Scritti tra il 1836 e il 1844, le pagine cristallizzano gli interessi del giovanissimo scienziato impegnato a mettere ordine nei ricordi e nelle idee. Ci sono passione, scienza, tratti umani, disordine e razionalità, insomma una sorta di vaso delle meraviglie come può essere il cervello di un genio.
G.Cap.

Corriere della Sera 2.2.08
Fuksas: «Nessun eskimo, sembravamo impiegati statali»
«Ma non eravamo tutti borghesi, come pensava Pasolini»
di Andrea Garibaldi


Una volta attaccai Scalzone e lo accusai di posizioni conservatrici

C'è quella foto, siete tutti sottobraccio, Oreste Scalzone, Paolo Flores d'Arcais, Sergio Petruccioli, Franco Russo... «Sì. Ricordo tutto». Lei è il secondo da destra. Gridate... «Che data ha la foto?». È il 24 febbraio, quarant'anni fa. «Pochi giorni prima della "battaglia di Valle Giulia", che doveva "liberare" la facoltà di Architettura dalla polizia».
Massimiliano Fuksas, architetto celebre, studi a Roma, Parigi e Vienna, rammenta che la foto venne scattata in via del Corso, all'altezza di Santa Maria in via Lata. Lo scatto fu del fotografo Mordenti, barbetta e capelli ricci. «Il '68. Eravamo un piccolo gruppo, mica una massa oceanica. Due-trecento esseri umani, come una grande comitiva, percorsa da simpatia e affetto. Duemila al massimo, nelle grandi occasioni. Sembravamo impiegati dello Stato. Tutti in giacca. Altro che eskimo!». Se la foto si allargasse, nelle file dietro, dice Fuksas, si riconoscerebbero, per esempio, Duccio Trombadori e Sandro Curzi, già giornalista, e Francesca Raspini, che scriveva sull'Unità e pareva spuntata da un film inglese, per il vestito con chiusura lampo davanti. «Gridavamo cose come "Potere studentesco", slogan ridicolo a ripensarci, quelli del Pci inorridivano. Manifestavamo per uscire dall'università, per non chiuderci solo in quelle commissioni: "Commissione Cina", "Commissione Terzo Mondo". Uscivamo per cercare alleanze».
Scena principale, l'Aula 1 di Lettere. «Qui convergevano le varie anime del movimento. I gruppi si costruivano e si sfasciavano in un attimo. Io e Raul Morales una volta andammo all'attacco di Scalzone, presidente dell'assemblea. Occupammo la presidenza, lo accusammo di "posizioni conservatrici". C'erano cambiamenti di fronte quotidiani. Un giorno da Trento venne Mauro Rostagno. Invece di virgole e punteggiatura usava la parola "merda", che noi non usavamo proprio. Ci fece ridere ». Ogni facoltà, i suoi riti: «A Fisica erano molto più seri. Avevano sale riunioni, perfino i buoni pasto... C'erano Marcello Cini, che in questi giorni ha firmato la lettera sul Papa alla Sapienza. Lanfranco Pace invece stava a Ingegneria e soffriva molto di solitudine. Renato Nicolini si era fidanzato con una brutta ragazza e si faceva prestare la casa da un professore, Morabito. Al '68 non ci pensava proprio...».
La sera, spaccature. «I secchioni dell'occupazione dormivano in facoltà. La maggior parte costretti, perché erano i cosiddetti "fuori sede", come Gianloreto Carbone, che oggi fa il regista di Chi l'ha visto?
Chiedevano soldi a chiunque venisse, giornalisti, registi. Io odiavo dormire all'università, le chitarre e tutto il resto. Così andavamo a cena in pizzeria, al "Leoncino"».
Primo di marzo, Valle Giulia. Fuksas ha nella mente un album fotografico. Franco Piperno con un bastoncino in mano vicino a una scarpata, la polizia che carica. Paolo Flores teorizza che non vanno lanciate bottiglie poiché possono essere rilanciate indietro: prende una bottiglia di Coca sul mento, appunto. E il «piccolo grande Giuliano Ferrara».
A metà mese «i fascisti occuparono di notte la facoltà di Legge. Almirante, Caradonna, più alcuni delinquenti che non frequentavano l'università. Andammo all'attacco. Lanciarono un banco, Scalzone ferito. Lo portammo a viale dei Quattro venti, alla clinica di Spallone, o di Garofalo, medici comunisti. Qui incontrai una "compagna svizzera" e scappai con lei, nella casa che avevo affittato a Portico d'Ottavia». Ottomila lire al mese per un ultimo piano nella storica zona del ghetto: «Poi, in dieci, prendemmo un'altra casa, in via del Tempio, centomila al mese. Ora ci abita Mara Venier».
Dal Pci molti disapprovavano. Altri curiosavano. «Claudio Petruccioli ogni tanto veniva a raccogliere la famiglia. Il fratello Sergio, Architettura, e Sandro, Fisica. "Li faccio mangiare", diceva. E veniva Occhetto, con quella sua aria rigida, ma voleva capire. Poi perse la testa per la sorella di Marco Lippi, che stava a Matematica, e cominciò a dire che voleva sciogliere la Fgci. Si vede che era destinato sempre a sciogliere qualcosa... E Valerio Veltroni, maggiore di Walter: a un certo punto decise che era ricercato, dormiva ogni sera in un posto diverso. Con un magnifico pigiama di seta».
Tutti figli della borghesia, disse Pasolini dopo Valle Giulia. «Non capì bene. I Petruccioli erano figli di un ferroviere. Mio padre insegnava filosofia. Il padre di Piperno, mi pare, direttore didattico. Impiegati, intellettuali. C'eravamo noi di Monteverde, c'era un gruppo della Garbatella, con Victor Cavallo. A settembre, una volta, a casa di Veniero Spinelli, fratello di Altiero, comparve Valerio Morucci, ex del "Mameli", il liceo dei Parioli. Ci cercavano in tanti. Facemmo riunioni con Feltrinelli, per un giornale del movimento. E Scalfari voleva affidarci il paginone dell'Espresso».
Ha rivisto quelli del '68? «Mi fa orrore frequentare chi mi ricorda quando ero giovane. Però a casa Rutelli ho incontrato Alberto Asor Rosa, che da professore seguiva il movimento: ci siamo abbracciati per un quarto d'ora». Cos'è che univa tutti quanti? «Avevamo letto un po' più della media, sapevamo qualche lingua. Adoravamo la scuola. Tentavamo di modernizzare la società e avevamo di fronte una classe dirigente arroccata in un fortino. Vedo qualcosa così anche oggi».

Corriere della Sera 2.2.08
Tiziano. Puro colore
Cristi, dee, dogi: 28 capolavori con una sensualità «liquefatta»
di Martina Zambon


Lo stile dell'artista nel finale della sua vita è spesso accostato all'impressionismo di Claude Monet

Tiziano, che ha dato il suo nome alla sfumatura più viscerale del rosso, diventa pure test-trabocchetto per i più zelanti studenti d'arte. A Rotterdam, con una certa dose di perfidia, i docenti propongono un dettaglio del «Bambino con cani» in un paesaggio (anno domini 1580) chiedendo agli studenti a che periodo si possa attribuire. Inevitabili gli scivoloni, c'è chi lo colloca sicuro nell'800, che scopre l'impressionismo, chi azzarda un début di '900. E a lasciarsi avviluppare dai rosei cieli rotanti di Tiziano come nella «Danae», il riflesso condizionato va a tanti Monet.
Rivoluzionario, frainteso dai contemporanei, l'ultimo Tiziano esplode in un vortice dal segno liquefatto nella più sensuale delle mostre, quella allestita fino al 20 aprile all'Accademia, nella chiesa della Carità, cuore delle nascenti Grandi Gallerie di Venezia. Una mostra quasi piccina, solo 28 lavori creati fra il 1550 e il 1576, eppure immensa. Ventotto oli, ventotto capolavori, non uno di meno. Scelte coraggiose alla base di un risultato tanto stupefacente.
Mancano, in una esposizione intitolata «L'ultimo Tiziano e la Sensualità della pittura», quelle Veneri che ci si aspetterebbe. Troppo facile declinare la sensualità di una pennellata magmatica con soggetti vicini al cliché. Sensuale e dolorosa insieme, la «Crocifissione» che inquadra uno scorcio inedito, un Cristo affiancato ad un solo ladrone in una composizione concava, tondeggiante, in cui lo sfondo è una miscela sapiente di toni bruni, dall'ocra al giallo che avvolgono i corpi sofferenti. Sensuale la straziante «Pietà» che sta di casa proprio all'Accademia, dipinta con furiosa pazienza, strato dopo strato (i restauratori ne hanno contati dieci). Il corpo macerato dal supplizio di Cristo, visto da vicino, non è altro che colore puro steso sulla tela «a macchie» come lo stesso Vasari notò. Non si trattava, però, di un apprezzamento. Negli anni in cui il fulgore di Michelangelo, Leonardo e Correggio splendeva, Tiziano segue risoluto la sua via di innovatore, e la trova puntando tutto sul colore. Il segno, visibilmente più labile dipinto dopo dipinto, sparisce per lasciare spazio a una tridimensionalità pulsante. La mostra si presenta limpida in tre partizioni, la prima è una galleria di ritratti, da Papa Farnese III (conservato a Capodimonte) alla Lavinia («Ritratto di Dama in bianco») il cui sontuoso abito di taffetà pare «crocchiare». Dogi, signori della guerra, papi. Tiziano ruba l'anima a ognuno e la riversa in sguardi acuminati che trafiggono il visitatore.
L'unico ritratto che fissa pensoso un punto oltre la cornice è il suo, quello del maestro dall'espressione triste, la bocca ridotta a una piega amara. La seconda parte comprende soggetti profani, ninfe e pastori, divinità mitologiche e fanciulle virginali. E poi i temi sacri, due Maddalene appaiate, Santa Margherita che lotta contro il drago in un turbinio di colori in cui l'asse del dipinto è dato da una sola gamba ritta e nuda. La sensualità passa da un soggetto all'altro, non è legata al tema, ma a uno stile personalissimo. Come in due piccole tele: due Madonne con Bambino. E nel passaggio fra la Madonna dell'Accademia, tersa e pensosa, e quella ancora più piccola custodita alla National Gallery di Londra, c'è la misura dell'ultimo Tiziano. La composizione non basta a spiegare la malìa di uno dei soggetti che ricorrono nella storia dell'arte. Una madre che allatta suo figlio. Già vista l'impostazione, il Bambino che si aggrappa con una manina paffuta al seno della Madre, collaudato lo sguardo colmo di dolcezza di lei. No, il segreto di un quadro che incanta è tutto nel colore che si scioglie e si ricompone davanti agli occhi di chi guarda. Le sfumature tenui fanno pensare a un acquerello. Le macchie di colore, armoniosamente fuse, toccano il Mistero.

Corriere della Sera 2.2.08
Anziani d'assalto La sua prolificità viscerale è paragonabile solo a quella di Picasso
Quel ruggito del Grande Vecchio
di Philippe Daverio


A 80 anni e oltre, Tiziano risolve la sua pittura a pennellesse, a spatolate, se non addirittura a manate vere e proprie

Tiziano morì molto vecchio: secondo la famiglia e lui medesimo era pressoché centenario, secondo la storiografia moderna ultra ottuagenario, il che è comunque una bella età. Lui si tirava avanti gli anni come fanno talvolta gli uomini maturi per calcare la loro autorevolezza e lo faceva forse pure per intenerire l'animo impossibile e parsimonioso di Filippo II quando gli scriveva che non era corretto non pagare un povero vecchio in miseria.
In miseria non lo era affatto, proprietario d'una duplice fabbrica di pitture, a Venezia quella centrale, e per i clienti del Veneto quella in Cadore, dove gestiva le altre sue fabbriche, quelle di legname che era poi la materia prima per l'arsenale di Venezia e per i pali della laguna. La mostra di Venezia è un riassunto di questi ultimi anni di produzione dell'artista e un riassunto pure della medesima mostra già allestita a Vienna. Rispetto a quella originaria la presente offre un allestimento molto più adatto alla lettura delle opere, perché le illumina meglio, avvicina il visitatore e colloca le varie tele in un confronto stimolante. Il che ne fa un itinerario adatto all'indagine curiosa, che è poi quella sulla creatività d'un vecchio. Molti artisti vanno avanti negli anni con una inesorabile decadenza della mano pittorica e della grinta espressiva. Tiziano invece porta alle ultime conseguenze il suo fare, verso un parossismo che ha per similare solo quello di Pablo Picasso. Quel suo modo materico, che origina forse dalla breve stagione giovanile col Giorgione, viene portato fino al limite d'una pittura risolta spesso a pennellesse, a spatolate se non addirittura a manate vere e proprie, con tele che vengono lasciate seccare per intervenirvi successivamente. La qualità espressiva dei fondi e delle ombre viene rialzata con gesti rapidi di luce o di colore che non chiedono nulla ad un disegno preesistente perché sono le pennellate stesse a generare le forme impastando la materia. E' già inventato il trucco magico che segnerà la pittura dei secoli successivi fino a Goya, Manet e agli impressionisti. Nessun artista futuro potrà sentirsi indifferente alla vista dei suoi lavori ultimi. In quanto a lui l'energia che continua a sprigionare lo porta naturalmente a combinare i due temi fondamentali della riflessione, la morte e l'eros, la fede e la carne, la cristianità e Ovidio. Sicché le metamorfosi e i complicatissimi amori di Giove fra carni femminili che anticipano le ricchezze lipidiche di Rubens si combinano con le sofferenze di Cristo che indicano la strada al suo discepolo, Il Greco. Il Veneto di campagna, anzi di montagna, conquista la Venezia cittadina e la tradizione formidabile del disegno e della velatura è definitivamente abolita. Il segreto della pulsione vitale interrotta solo dalla peste, ma capace nei giorni della peste e della vecchiaia di compiere l'ultimo miracolo della Deposizione? Nessun intellettualismo, solo visceralità, come in Pablo Picasso appunto.

Corriere della Sera 2.2.08
Un quadro, una storia La tela commissionata da Alessandro Farnese
Danae, la modella che turbò Roma Dietro il mito, l'amante del cardinale
di Francesca Bonazzoli


Un soggetto molto richiesto, Tiziano ne fece diverse repliche

Il 20 settembre 1544 il nunzio apostolico a Venezia, nonché arcivescovo di Benevento Giovanni Della Casa, prese carta e penna e scrisse una lettera a Roma, indirizzandola ad Alessandro Farnese, cardinale nipote di Paolo III.
Autore del celebre «Galateo» e in gioventù assiduo estensore di componimenti poetici dai doppi sensi osceni, il nunzio era appena stato a visitare Tiziano nel suo studio: sapendo bene quanto il pittore fosse subissato di richieste e sempre in affanno nelle consegne, era andato a controllare come procedevano i lavori del quadro che il Farnese sollecitava. Con grande piacere lo aveva trovato a buon punto: Tiziano, scriveva Della Casa, «...lha presso che fornita, per commession di Vostra Signoria Reverendissima, una nuda che faria venir il diavolo addosso al cardinale San Sylvestro... », ovvero al domenicano Tommaso Badia, che nel 1537 aveva firmato il «Consilium de emendanda ecclesia » ed era tra i principali censori dei costumi corrotti della curia romana.
Ma non solo. Al confronto di questa «nuda», aggiungeva il nunzio, «quella che Vostra Signoria Reverendissima vide in Pesaro nelle camere de'l Signor duca d'Urbino (la cosiddetta «Venere d'Urbino» acquistata da Tiziano da Guidobaldo II della Rovere) è una teatina appresso a questa», dove con teatina si alludeva all'ordine religioso dedito alla cura dei malati.
Il primo, dunque, a rimanere colpito dalla provocante sensualità della «nuda » di Tiziano fu il colto e smaliziato Della Casa, ma appena il quadro giunse a Roma, non ci fu chi rimase insensibile: di quell'opera il pittore cadorino dovette in seguito dipingere almeno sette altre versioni e tutto questo nonostante il grande Michelangelo l'avesse criticata.
La testa della cognata
Ma torniamo nello studiolo veneziano del Della Casa il quale continua la sua lettera aggiungendo che il miniaturista Giulio Clovio aveva mandato uno schizzo della cognata della signora Camilla da cui il Farnese voleva che Tiziano traesse un ritratto, ma il pittore aveva avuto un'altra idea: appiccicare la testa della sopradetta cognata alla «nuda ».
Considerato che la signora Camilla era probabilmente la celebre cortigiana Camilla Pisana e la sua cognata una certa Angela, favorita del Farnese, la «nuda » che oggi è appesa al Museo di Capodimonte con il titolo di Danae, sarebbe allora uno spudorato ritratto nudo dell'amante del cardinale, così pornografico che ancora nel 1815, quando fu collocato nella nuova sede del Real Museo Borbonico di Napoli, Ferdinando II lo escluse dal normale percorso museale e lo relegò nel «Gabinetto de' quadri osceni ».
La visita di Michelangelo
Il quadro, dunque, era quasi finito quando Tiziano partì per Roma chiamato da Paolo III che gli mise a disposizione una bottega nel Palazzo del Belvedere, in Vaticano.
Proprio lì il pittore ricevette la visita di Michelangelo, accompagnato da Giorgio Vasari il quale scrisse che quel giorno videro «in un quadro che allora aveva condotto, una femina ignuda figurata per una Danae, che aveva in grembo Giove trasformato in pioggia d'oro e molto, come si fa in presenza, gliene lodarono ». Per poi aggiungere che, non appena si furono allontanati dalle orecchie di Tiziano, il malmostoso Michelangelo cominciò a criticarlo dicendo che era un peccato che il cadorino non sapesse disegnare.
Criticava, cioè, quel modo di dipingere libero, con le pennellate stese alla brava, che sarà proprio la caratteristica dell'ultimo Tiziano e quella che conferiva alla Danae la sua particolare sensualità, di pelle vera, palpitante.
Ma è interessante notare che mentre a Venezia quel quadro era per Della Casa una semplice «nuda», a Roma si trasformava, nelle parole del Vasari, in una «femina ignuda figurata per una Danae»: è probabile dunque che nell'ipocrisia dell'ambiente ecclesiastico si fosse ritenuto necessario coprire di dotta decenza quel nudo mascherandolo dietro la storia mitologica raccontata da Ovidio. Fatto sta che da quel momento tutti vollero la loro Danae.
Tiziano ne fece prudentemente un cartone che utilizzò ogni volta per accelerare i lavori: la donna veniva replicata con minime varianti, mentre a cambiare erano soprattutto letto, tendaggi, Giove trasformato in pioggia d'oro e la serva che raccoglie le monete.
Ogni cliente, così, riceveva una versione diversa e il primo fortunato fu Filippo II di Spagna.

Mistero viennese
Della Danae in mostra, invece, proveniente da Vienna, non si conosce il committente. Si sa solo che nel 1600 apparteneva al cardinale Montalto il quale la inviò a Praga all'imperatore Rodolfo II. E' l'unica versione che rechi la firma: Titianus. Aeques. Caes.
Chissà, forse un modo di intimidire il committente (erano sempre restii a pagare e quanto bisognava sollecitarli) affermando l'orgoglio di essere Cavaliere dell'Imperatore. Di quel Carlo V spirato contemplando un altro suo quadro, ben più santo: quello della Trinità

l’Unità Liberazione e il Riformista lettere 2.2.08
Gli orrori di chi non applica la 194

Cara Unità,
non passi inosservata l’affermazione che Emma Bonino ha reso ieri durante la trasmissione AnnoZero: in Lombardia quasi tutti i ginecologi assunti nelle Asl sono obiettori di coscienza, ovvero non applicano la legge 194. «Quasi» sono i due o tre medici che devono affrontare tutti gli aborti della regione. Mentre Formigoni li aspetta al varco per disporre il «funerale» dei feti e cerca di eliminare del tutto la 194... Questi sono orrori che superano enormemente la già terribile decisione che una donna deve prendere per rifiutare una gravidanza e dimostrano che l’esecuzione politica di dogmi religiosi è un fatto.
Paolo Izzo, Roma

l'Unità lettere 2.2.08
Noi li chiamiamo Eminenze, loro ci chiamassero Signorie
Cara Unità,
mi sono sempre chiesto perché un politico che si rivolge a un ecclesiastico lo chiama Sua Eminenza, reverendissimo o monsignore. Un amico mi ha spiegato che l’uso di tali titoli, che a me suonano tanto come nobiliari, deriva dal riconoscimento della sovranità della Santa Sede. Visto però che la Costituzione riconosce anche la sovranità dello Stato, per reciprocità chiedo che ogni qualvolta un vescovo parla agli italiani si rivolga, per favore, chiamandoci «le Signorie Loro». Casomai qualcuno si fosse dimenticato che in Italia sovrano è il popolo.
Roberto Martina

il Riformista lettere 2.2.08
La memoria del '38
Caro direttore, non sopporto le ricorrenze eppure nel 1938 le infame leggi firmate dal re divisero l'Italia mai come prima. Al di là della passione politica o personale, penso che ancora oggi quegli avvenimenti condivisi da gran parte degli Italiani siano ben lungi dall'esser stati metabolizzati. Oggi o domani ma è già accaduto anche di recente l'altro della porta accanto può sempre divenire uno straniero in patria. Con affetto
Davide Acri e-mail

il Riformista 2.2.08
Amnesie democratiche
Tra i valori del Pd non troviamo la Resistenza


Si parla di tutto un po'. Di diritti umani, di laicità e religione, di lavoro e impresa. Non si parla di Resistenza. Né di antifascismo. Da nessuna parte, o quasi. Piero Terracina, nel suo contributo per lo Statuto, ha chiesto che a ciò si faccia cenno tra i principi fondamentali del partito, chiedendo una esplicita condanna del fascismo anche per «impedire che, in nome della pacificazione, vittime e carnefici vengano equiparati». Oltre a ciò, però, nulla da segnalare. Curioso che il Partito democratico, erede dei grandi partiti popolari che contribuirono sessant'anni fa alla nascita della Costituzione repubblicana, nasca senza che, tra i valori ai quali intende ispirarsi, vi sia un accenno, seppure fugace, alla lotta che liberò il paese e lo restituì alla libertà e alla democrazia.
Si dirà che nei documenti ai quali stanno lavorando le tre commissioni (Statuto, Valori e Codice etico, come ci confermano alcuni autorevoli responsabili della stesura dei documenti) si cita più volte la Costituzione, e si sosterrà anche che la Costituzione questi richiami li contiene e che, dunque, indirettamente anche il Pd si richiama all'antifascismo e alla Resistenza. Si dirà anche che questi documenti guardano al futuro. Bene. Benissimo. Certo, però, viene da pensare ad Arrigo Boldrini, scomparso proprio pochi giorni fa. È stato uno degli uomini che hanno costruito questo paese, il partigiano Bulow; uno di quelli che hanno lottato perché questo paese potesse decidere liberamente del proprio destino. Uno che, il giorno che è morto, è stato ricordato da tutti come "un pezzo dell'Italia migliore che se ne va". Già, ma dove se ne va questa Italia migliore? Viene da chiederselo se, ormai, neppure il maggior partito del centrosinistra, quello che vorrebbe avere vocazione maggioritaria, erede, seppure alla lontana, del Partito comunista italiano, tra i valori ai quali si richiama decide di ricordare anche la Resistenza e l'antifascismo.
Oggi le commissioni Manifesto dei Valori e Statuto sono al lavoro. Il tempo per rimediare ci sarebbe.

Liberazione 2.2.08
Giordano: «Non c'è nulla di già deciso». Mussi nicchia
Cosa Rossa, si discute su simbolo e leader


Falce e martello nel simbolo e il ticket al timone Fausto Bertinotti-Grazie Francescato sembrano non piacere a tutti nella costruenda La Sinistra-L'arcobaleno. Le ipotesi, riportate dal Corriere della Sera ieri in edicola non sono piaciute a Sinistra democratica, per esempio, che per bocca del coordinatore Fabio Mussi si è affrettata a smentire: «Non c'è stata nessuna discussione collettiva e nulla è stato deciso in via definitiva». Dopo pochi lanci di agenzia, arriva anche la puntualizzazione del segretario del Prc, Franco Giordano che con Fabio Mussi ieri ha avuto un incontro: «Il confronto è aperto, le indiscrezioni sono infondate». Ad inizio settimana prossimi ci sarà un incontro fra i quattro segretari (quindi anche Pecoraro Scanio e Oliviero Diliberto) e forse i nodi verranno sciolti. Nel frattempo è tutto un gettare acqua sui fuochi in realtà appena accennati: «Un processo unitario complesso comporta che i passi che si fanno, dai simboli al programma politico, siano concordati», ha spiegato il ministro dell'Università, che ha contestualmente ribadito «l'esigenza di un nuovo soggetto politico della sinistra e non un cartello elettorale».
Anche sul disegno grafico del simbolo da presentare alle elezioni Mussi ha avuto da osservare che se rimanessero tutti e 4 i simboli degli attuali partiti «ci vorrebbe la cartina turistica». Se Mussi boccia senza appello la soluzione indicata, lo schema fa discutere anche dentro Rifondazione. Nel Prc c'è chi non nasconde la preoccupazione che l'idea di schierare Bertinotti comprometta l'intesa proprio con Sinistra Democratica, da sempre contraria a dare l'idea di essere annessa a Rifondazione. E di fronte al tam tam delle elezioni torna in auge il nome di Nichi Vendola. Il governatore della Puglia infatti è considerato da molti, e non solo dentro il Prc, come il nome ideale da schierare in concorrenza a Veltroni. Convinto che l'unica strada percorribile sia quella di un nuovo soggetto con un nuovo simbolo è anche Alfonso Gianni, uno degli uomini più vicini al presidente della Camera: «Non possiamo andare con abiti dismessi - osserva - mentre gli altri si vestono di nuovo». Per Gianni, l'ipotesi dei quattro simboli è «un passo indietro». Di opinione opposta è Claudio Grassi, leader della minoranza di Essere Comunisti, che ricorda: «I simboli con la falce e martello alle ultime elezioni hanno preso l'8,1% dei voti». Tutta la discussione nasce, a sinistra, dall'ipotesi che il Pd corra da solo: «C'è bisogno di una sinistra politica. Ma io non rinuncio a tenere aperta l'ipotesi strategica di un centrosinistra che governi l'Italia. Non è un incontro e dirsi addio. Io sono sempre stato critico con il fatto che il Pd sia partito con il dire andiamo da soli», spiega Mussi. «Se si dovesse andare al voto con questa legge elettorale, poichè ci sono sbarramenti molto alti (4% alla Camera e 8% al Senato) è giusto che la sinistra costruisca una lista unitaria. - ha detto ancora Grassi - Ed è altrettanto giusto, visto che si tratterebbe di una lista - la Sinistra, l'Arcobaleno - in cui confluiscono vari soggetti politici che non hanno alcuna intenzione di sciogliersi, che nel logo siano presenti i quattro simboli dei partiti». Andare alle elezioni mantenendo i simboli del lavoro è un'idea che non dispiace ovviamente al Pdci di Oliviero Diliberto, che la considera anzi una scelta obbligata visto che il nuovo simbolo è ancora poco conosciuto e che i tempi invece sono stretti.

Liberazione 2.2.08
Revisionismi, aggressioni e impunità. Nubi nere su Roma
di Elena Ritondale


L'estrema destra strumentalizza il mondo della scuole, le squadracce marciano
alla luce del sole e il Comune patrocina l'iniziativa della consulta studentesca


"Siamo di fronte a una trasformazione del neofascismo, i cui protagonisti sono ancora quelli delle stragi e dei golpe. Una trasformazione da gruppi "militari" in gruppi "sociali", che operano e crescono nel disagio del nostro paese. Ma il riferimento è ancora alle fonti e ai principi del primo fascismo, al suo carattere "rivoluzionario" e populista, dove la democrazia non è vista come rappresentanza ma come strumento per conquistare il potere, dove la parola "popolo" è riferita alla folla che omaggia il trionfatore, dove l'oppositore viene intimidito, dove il diverso viene deportato, dove l'uso della forza e della violenza è funzionale all'esercizio del potere". Questo passaggio del comunicato steso dalle Madri per Roma Città Aperta sintetizza efficacemente quello che sta avvenendo nella destra cittadina, ma non solo.
In poco meno di due settimane sono stati aggrediti un militante di Rifondazione comunista, un attivista di Action che si trovava sul suo posto di lavoro e diverse altre persone, in maggioranza studenti giovanissimi, sono state intimidite da azioni squadristiche portate avanti da individui che si sono persino presentati, a gruppi, sotto casa delle persone di cui conoscevano l'indirizzo.
A fare da cornice agli episodi più violenti, poi, restano iniziative come quella promossa da Fiamma tricolore che, a Ponte Milvio, ha rivendicato, molto a modo suo, il diritto alla casa contestando la "bolla" del Grande Fratello. E' evidente che questa destra stia cercando di "pescare" all'interno di contesti nei quali fino a oggi non era riuscita ad attecchire. Ne è un esempio la triste vicenda della Consulta provinciale degli studenti, in balia del Blocco studentesco dalle ultime elezioni e che ora viene strumentalizzata e coinvolta in scioperi come quello promosso dal Blocco lo scorso 31 gennaio. Tristemente, è questo stesso gruppo a promuovere, a nome della consulta, il convegno in ricordo delle Foibe previsto per il prossimo 8 febbraio, a cui parteciperanno anche esponenti della politica capitolina. Questi ultimi, forse, dovrebbero sapere che l'ideologo del Blocco, che usa strumentalmente il logo della Consulta: «pubblica un articolo in commemorazione della presa del poter da parte di Hitler, come verificabile sul sito noreporter.org», secondo quanto denunciano in un comunicato i "collettivi, comitati, associazioni studenteschi, democratici e antifascisti di Roma".
Questi stessi gruppi, che continuano ad avere il proprio bacino preferenziale all'interno dello stadio, sono riusciti a fare proseliti anche cavalcando il disagio sociale, in primis quello per la mancanza di una casa.
La risposta che hanno dato fino a ora le istituzioni non ha fatto altro che alimentare questa rinascita, dimostrando tutta la propria debolezza con l'assoluta impunità di cui fino a oggi godono gli squadristi di Villa Ada, come gli ultras fermati prima di una partita della Lazio con asce e machete.
L'aggressione ai danni di un militante di Action è l'ultimo caso ma forse il più significativo in tal senso.
«Due delle persone che sono state denunciate erano conosciute dalle forze dell'ordine per aver partecipato alle azioni di protesta contro lo sgombero del Foro 753, centro sociale di destra», spiega Paolo, preso a calci e pugni, domenica scorsa, mentre lavorava a Termini, fra decine di telecamere e guardie giurate. «Queste persone, che se ne andavano in giro per la metro sventolando il tricolore - continua - provengono proprio da quei covi della destra romana che ora chiediamo al sindaco di chiudere». L'esperienza di Paolo, poi, conferma la tendenza dei media a relegare queste vicende a banali presunti episodi di bullismo oppure a interpretarle "liberamente" piegandole a logiche da campagna elettorale. «Trovo assurdo - conclude - che il Messaggero si sia permesso di attribuirmi, con tanto di virgolettati, frasi che io non ho mai rilasciato, né a loro né ad altri». Assurdo poi che, nonostante la dinamica dei fatti - Paolo è stato prima minacciato e poi, in un secondo momento, assalito alle spalle - nessuno abbia sottolineato che si è trattato di un attacco premeditato e organizzato da chi, forse, conta proprio sull'impunità che da mesi copre chi compie questo genere di azioni.