giovedì 7 febbraio 2008

l’Unità 7.2.08
Il Pd di Veltroni va da solo
Patto Walter-Fausto: niente sgambetti
Pd e Sinistra separati ma leali: «Così ricostruiamo rapporto con i cittadini»


Fausto Bertinotti assicura che «non c’è un’intesa» con Walter Veltroni. Ma in realtà la corsa in solitaria da una parte del Partito democratico e dall’altra della Sinistra arcobaleno è frutto di un accordo stipulato dai due appena è stato chiaro che le consultazioni di Marini sarebbero finite con un nulla di fatto. La fase politica del centrosinistra «è finita» e l’«autonomia» premierà entrambi, è stato il ragionamento su cui si sono trovati d’accordo. Il presidente della Camera ha dovuto vincere le resistenze di Pdci, Verdi e Sd, che chiedevano un’alleanza col Pd. Anche se non si è dovuto sforzare più di tanto, visto il muro eretto dal sindaco di Roma. Ricevuta la lettera di Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio e Mussi in cui si chiedeva di avviare una «verifica programmatica», Veltroni ha risposto dando la propria disponibilità a un incontro per domattina al “loft” di Santa Anastasia. Ma ai leader di Prc, Pdci, Verdi e Sd ribadirà che anche al Senato non ci saranno né alleanze né «pasticci».
Bertinotti condivide, perché è convinto che «questo è l’unico modo per ricostruire il rapporto tra società e politica», e correrà come candidato premier della “Cosa rossa”. Il simbolo sarà quello presentato agli Stati generali della sinistra di dicembre, quello in cui non compaiono né falce né martello né sole che ride perché l’obiettivo è «andare oltre» l’esistente.
Nei colloqui avuti con Veltroni, il presidente della Camera ha chiesto e ottenuto rassicurazioni sul fatto che il Pd non farà nessuno sgambetto. Vale a dire: non ci sarà, alleata del Pd, una lista “Sinistra per Veltroni”, come si era vociferato nei giorni scorsi. La sfida di «egemonia» tra sinistra riformista e sinistra radicale sarà giocata senza colpi bassi, è stato l’agreement tra i due. Tanto che le uscite di ieri di Diliberto contro Veltroni sono piaciute poco tanto al leader del Pd quanto al presidente della Camera. «Andare separati è una pulsione suicida e spero che la Binetti spieghi a Veltroni che il suicidio nel cattolicesimo è peccato mortale», ha mandato a dire il segretario del Pdci aggiungendo anche che non sa se domani al “loft” berrà un caffè offerto da Veltroni: «Non vorrei che fosse avvelenato». Il leader del Pd ci è andato giù duro: «Diliberto è tra coloro hanno provocato la caduta del governo bombardandolo dall’interno per un anno e mezzo».
Bertinotti, del quale ieri Veltroni ha pubblicamente apprezzato «il senso di responsabilità», è stato chiaro con i leader dei quattro partiti fondatori della Sinistra arcobaleno sul fatto che non vuole giocare su questo registro la campagna elettorale, che la «sfida di egemonia» col Pd si vince mettendo al centro le proposte programmatiche su lotta alla precarietà, pace, ambiente, diritti civili. Ma per ora è un appello raccolto soltanto dal segretario del Prc Giordano: «Questa sfida non può essere reciprocamente distruttiva». Gli altri, con Diliberto in testa, continuano ad attaccare la scelta di Veltroni, con l’obiettivo di intestare al Pd la responsabilità della rottura, e quindi di un’eventuale sconfitta. Non è ciò che interessa a Bertinotti, che ha invitato i partner dell’operazione a «prendere la campagna elettorale come fase costituente» della Sinistra. Lui si impegnerà «per quaranta giorni». Poi, assicura, farà un passo indietro. Probabilmente a favore di Nichi Vendola. Che dovrebbe candidarsi come capolista in Puglia per il Senato, in competizione diretta col capolista del Pd (che dovrebbe essere) Massimo D’Alema.

l’Unità 7.2.08
Sapienza, i docenti anti-Ratzinger:
diventeremo un movimento culturale


Il fronte dei contrari alla visita del Pontefice alla «Sapienza» rilancia e, forte delle ormai 1500 adesioni raccolte fra professori, ricercatori e dottorandi al manifesto per la laicità promosso da Angelo D’Orsi (docente di storia del pensiero politico dell’Università di Torino), punta adesso a diventare «un movimento culturale che risponda all’esigenza diffusa di laicità espressa da molti italiani». Lo ha spiegato lo stesso D’Orsi ieri intervenendo ad una tavola rotonda che si è svolta nell’aula Calasso della facoltà di Giurisprudenza organizzata dai giovani dei collettivi della Sinistra Critica. «I firmatari dell’appello (che è sul sito www.historiamagistra.it) mi hanno già chiesto di trasformare questa iniziativa in qualcosa di più - spiegava ieri il professore - Ci sono sollecitazioni perché tutto questo diventi un movimento culturale permanente». «Ci piacerebbe - gli ha fatto eco il fisico Carlo Cosmelli, uno dei 67 firmatari della lettera anti-Papa - essere un punto di aggregazione di idee. C’è un disagio che non è presente solo negli uomini di scienza ma che esiste anche tra molti cattolici. Per ora siamo solo 67 docenti, ma abbiamo già ricevuto una mozione di solidarietà da parte del consiglio di facoltà di ingegneria». «A questo punto - ha concluso D'Orsi con ironia - il Vaticano si comporta come un partito. Invito il Papa a presentarsi alle elezioni». Ma la tavola rotonda di ieri è stata il prologo della manifestazione «No Vat» che si terrà il 9 febbraio prossimo a Roma e da piazzale Ostiense si muoverà fino a Campo dei Fiori. Nel frattempo non si ferma la mobilitazione «dal basso» e per oggi pomeriggio, nella facoltà di Lettere, la «Rete per l’Autoformazione - Coordinamento dei collettivi» ha organizzato una assemblea pubblica per discutere di quanto accaduto il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico, quando la città universitaria è stata presidiata da centinaia di agenti in tenuita antisommossa, e chiedere le dimissioni del Rettore Renato Guarini e del Preside Luigi Frati. «A fronte di una situazione di crisi permanente e di fenomeni di corruzione sempre più palesi - si legge nell’appello - hanno fatto una scelta precisa: delegare alla polizia la gestione del dissenso».

l’Unità 7.2.08
Gli smemorati dell’embrione
La favola dei tre genitori
di Luca Landò


L’embrione fa male alla memoria. Solo così, forse, si può spiegare lo sdegno che ieri è stato generosamente versato intorno all’annuncio che in Inghilterra sarebbero stati creati «embrioni con tre genitori». Notizia nuova solo a metà, ma che ieri è stata accolta con titoli e commenti come «choc» (l’Avvenire), «un altro passo verso Frankenstein» (il Giornale), la «costruzione dell’uomo artificiale» (Luca Volontè), una «ammucchiata in provetta» (Bruno Dallapiccola) e una «aberrazione mentale» (Paola Binetti). Per concludere che «La scienza fa a pezzi l’uomo» (Libero).
Curiosamente nessuno (tranne questo giornale) si è curato di premettere, nel dare la notizia,che la novità riguarda la tecnica impiegata, non il risultato. E che oggi nel mondo vi sono già persone che, secondo le parole usate ieri, vivono con il «Dna di tre genitori». Alcuni giornali lo hanno ricordato, è vero, ma hanno relegato questo aspetto tutt’altro che secondario nelle ultime righe. Mentre la maggior parte dei media, a cominciare dai telegiornali della sera prima, lo hanno bellamente trascurato: una dimenticanza grave, che ha permesso di trasformare una notizia scientifica in un mostro da prima pagina.
Si è così ripetuto quello che avvenne oltre sette anni fa, quando si parlò per la prima volta di bambini (non embrioni!) con tre Dna. E che l’Unità raccontò il 7 maggio 2001 con un articolo dal titolo: «Il mitocondrio della discordia».
Di cosa si trattava? Di una scoperta casuale, come capita spesso nella scienza, raccontata allora dal professor Jacques Cohen dell’Istituto di medicina riproduttiva di Saint Barnabas nel New Jersey. Obiettivo del professore non era stupire i giornali e sconvolgere la bioetica, ma aiutare le coppie che non riuscivano ad avere figli. Nelle quali, a volte, la ragione del mancato successo è una specie di «stanchezza» della cellula uovo, un fattore probabilmente legato all’età della donna. Il professore scoprì che era possibile «rivitalizzare» la cellula uovo e consentire una normale maternità. L’idea era semplice: per rinforzare la cellula debole si prende il citoplasma di una cellula normale donato da una terza persona e lo si inietta nella prima. Questa «trasfusione rivitalizzante», stando al professore, avrebbe portato alla luce una trentina di bambini nel mondo, tra cui anche il giovane Alessandro, nato a Torino nel marzo 1999.
Fin qui nulla di strano, verrebbe da dire. Il fatto è che oltre al citoplasma, nella cellula da rivitalizzare possono finire anche i mitocondri della donatrice, minuscole strutture che si trovano proprio in quella sostanza, il citoplasma appunto, che circonda il nucleo e che forma la maggior parte della massa cellulare. Secondo quanto disse Cohen nel 2001, dei trenta bambini nati con la tecnica «rivitalizzante», almeno due avrebbero ricevuto mitocondri non dalla madre (i mitocondri si ricevono solo per via materna) ma da un’altra donna. E non è da escludere che la lista delle persone con «tre Dna» si sia nel frattempo allungata, dato che la stessa tecnica viene tuttora usata in diversi altri Paesi.
Il punto è che i mitocondri (microscopiche centraline elettriche della cellula) hanno una particolarità: sono le uniche strutture, oltre al nucleo, a contenere quella preziosa molecola chiamata Dna. In minima parte, certo, ma sufficiente per consentire ai più maliziosi di affermare che nelle cellule di questi bambini - che i media, sette anni fa, definirono gentilmente «bambini ogm» - ci sono geni diversi da quelli di mamma e papà.
Questo, sette anni fa. La novità annunciata l’altro giorno riguarda invece la tecnica utilizzata. Che nasce da un’esigenza diversa: non tanto permettere a una famiglia di avere dei bambini, quanto evitare la comparsa nel figlio di alcune gravi malattie ereditarie. Anche se i geni dei mitocondri sono pochi (16.000 unità genetiche rispetto ai tre miliardi dell’intero genoma umano) vi sono una cinquantina di patologie dovute proprio a difetti presenti nei geni mitocondriali: alcune forme di epilessia, di distrofia, patologie del fegato, ma anche cecità, diabete e sordità. Alcune sono disabilitanti, altre possono essere mortali.
Per tale motivo i ricercatori dell’Università del Newcastle hanno provato a fare volutamente quello che il professor Cohen aveva fatto casualmente: consentire che accanto al nucleo con il Dna ereditato da madre e padre, ci fossero mitocondri sani ottenuti da una donatrice. Per farlo hanno utilizzato una tecnica totalmente diversa: hanno prelevato il nucleo (ma non i mitocondri «malati») dalla cellula derivata dal padre e dalla madre e lo hanno inserito nell’ovulo di una donatrice privato a sua volta del nucleo (ma non dei mitocondri «sani»). Il risultato sono stati dieci embrioni sopravvissuti per sei giorni.
L’annuncio, è bene dirlo, non è arrivato da una pubblicazione scientifica (che dovrebbe giungere a breve, promettono i ricercatori) ma da una indiscrezione della stampa inglese, secondo un’abitudine che sarebbe meglio abbandonare.
In attesa di conoscere i dettagli, la scoperta, interessante anche se ancora in fase iniziale, è stata accolta come l’annuncio del professor Cohen nel 2001. Oggi, come allora, si torna a parlare di manipolazione genetica, di uomini-ogm, di bambini Frankenstein.
Dimenticando due fatti: il primo, che tra mitocondri e nucleo non è possibile alcuno scambio di materiale genetico. Secondo: che lo sviluppo biologico dell’organismo obbedisce solo alle istruzioni contenute nel Dna del nucleo (ereditate da mamma e papà) e non a quelle del Dna mitocondriale, utili solo al funzionamento del mitocondrio stesso.
Quanto fatto a Newcastle, dunque, è una sorta di microscopico «trapianto», per sostituire i mitocondri malati con mitocondri sani. E affermare che gli embrioni ottenuti in questo modo hanno il Dna di tre genitori è un’autentica forzatura. La stessa che ci porterebbe a sostenere che una persona sottoposta a trapianto di cuore (o di rene o di cornea o di fegato) o persino a una normale trasfusione di sangue, ha il Dna di quattro persone: quello di mamma e papà e quello dei genitori del proprio donatore.
Un ultimo punto. Nell’ormai famosa legge 40 sulla fecondazione assistita, vi è un articolo, il 13, dedicato alla «sperimentazione sugli embrioni umani». E nel quale, al comma due, si legge testualmente: «La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentito a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela e allo sviluppo dell’embrione stesso». Proprio quello che i ricercatori di Newcastle hanno tentato e stanno tentando di fare. Strano che Paola Binetti e Luca Volontè, fieri difensori di quella legge, abbiano dimenticato questo passaggio. Una distrazione, probabilmente. O forse la sindrome da embrione: ne pronunci il nome e ti appare Frankenstein.
llando@unita.it

Repubblica 7.2.08
Walter all'americana "Yes, we can"
di Stefano Rodotà


Muore, senz´essere mai nata, la Seconda Repubblica. Lascia uno spaventoso vuoto di legalità, dove è già precipitata la politica e nel quale rischia di inabissarsi l´intera società italiana. In questo clima, e con un contesto così degradato, si corre verso le elezioni anticipate.
È infatti l´intero sistema politico italiano che ha fissato un appuntamento con il viandante solitario: non più con il popolo ma con l´individuo, non più con la classe ma con il lavoratore, non più con l´ideologia ma con il merito personale. E´ tutto qui il tema della campagna elettorale che comincia oggi: correre da soli. La solitudine rivendicata da Veltroni significa infatti non potersi più nascondere dentro il numero; e mai più mimetizzarsi nella folla che garantisce l´impunità, nella folla dei partiti che è la stessa delle mille curve sud d´Italia.
Ed è la società, prima ancora che il centrosinistra in macerie, ad avere preparato, tra grillismi e antipolitica, tra girotondi e manifestazioni di piazza, tra Porta a Porta e Anni Zero, tra tradimenti e ribaltoni, tra demagogie e caste, l´uscita dal gruppo del solitario in fuga e in salita, perché è tutta in salita la ricostruzione del lessico politico in Italia. E´ insomma lo Spirito del Tempo a incarnarsi nel leader che deve correre da solo per sfasciare la poltiglia che non permette al paese di essere governato; per emulsionare questa chiazza d´olio di intrighi e di miseria che è diventata la politica; per scuotere la mediocrità dei topi nel formaggio, degli ubriachi che si sorreggono a vicenda, delle mezze figure che in venti non fanno una figura intera.
Correre da soli, dunque. Con l´istinto prima che con la ragione, con il sentimento più che con l´intelligenza, con la fantasia più che con la logica. Nel ciclismo correre da soli è un azzardo, roba da campioni o da ragazzini presuntuosi che a metà percorso spompano, vengono raggiunti dal gruppo, risucchiati e abbandonati senza gloria negli ultimi posti. Nel mondo animale chi corre da solo è la preda che scappa e che soccomberà alla zampata del predatore. Nella letteratura e nel cinema americani corre da solo il cow boy, il giustiziere e il farmer dell´Ovest dove banchieri, avvocati e federali sono come i tanti partiti italiani, imbroglioni e perditempo; corrono da soli Humphrey Bogart in Casablanca, e John Wayne in tutti i suoi film: generosamente risolvono i problemi ma alla fine se ne vanno, vittoriosi e perdenti, lasciando ad altri la terra, le donne, una nuova regola e un nuovo modo di stare al mondo.
Ebbene, nella sfida di Veltroni c´è questo sapore dell´America che è amata a sinistra, quella – diceva Goethe senza contrapporla alla politica italiana – che «non ha i castelli e non ha i basalti», l´idea dell´America politica liscia liscia, bella e diretta, olimpicamente classica, senza le contorsioni inverificabili delle verifiche italiane, degli inciuci, dei trasformismi, dei mercati parlamentari, l´America dove sempre si corre da soli.
E´ vero che può far sorridere l´inglese abusato di Veltroni, ma lasciamoglielo dire yes we can se dietro questo primo slogan della campagna elettorale si intravede un´idea americana di Italia veloce contrapposta all´Italia barocca e mostruosa delle vecchie coalizioni. E´ vero che l´inglese di Veltroni a volte sembra quello della pubblicità, don´t touch my Breil, o magari l´insensato life is now. E´ vero che a volte somiglia a quello dei nostri cosiddetti manager bocconiani, veri cretini cognitivi che dicono background e break even, serendipity e fuzzy come una specie di tributo pagato alla moda più presuntuosa e più insulsa. E però concediamoglielo questo vezzo, facciamogli contrapporre a una lingua politica che è una babele la lingua diretta e moderna che non ha accenti, non ha né sdrucciole né piane. Molto meglio andare avanti con le assonanze, da I care a We can che con le procedure istituzionali ridotte ad apparati cerimoniali; meglio rincorrere una realtà velocissima che ribolle da Kennedy a Hillary ad Obama piuttosto che l´inaderenza cadaverica alla realtà.
Ma, come dicevamo, c´è anche, nella sfida di Veltroni che corre da solo, qualcosa del ciclismo di Pantani, di Coppi e di quei volti tristi come le salite. E c´è l´alone dell´animale sacrificale con il destino segnato dai sondaggi: l´uomo che corre da solo contro Mosé – così lo chiama Maroni – che alla testa di diciotto partiti ci prova per la quinta volta. Si sa che in campagna elettorale nessuno si salva dalla demagogia e dalla retorica, ma la demagogia è un mantello che, con lo spavaldo yes we can di Veltroni, si stringe a sinistra e si allarga a destra.

Corriere della Sera 7.2.08
La Linke tedesca Sinistra Oskar Lafontaine
«Preservativi e pillola gratis ai disoccupati»
di Danilo Taino


BERLINO — Che l'indigenza non faccia bene all'amore lo sospettano molti. Ora, in Germania, la convinzione ha una ricaduta politica. La Linke, il Partito della Sinistra, chiede che l'assistenza sociale per i disoccupati preveda anche il controllo delle nascite gratuito — pillola, condom, spirale.
Perché il sesso non dovrebbe essere una questione di reddito; anzi, non dovrebbe proprio costare. «La povertà offusca la vita amorosa della gente», sostiene Katja Kipping, vicepresidente della Linke e suo portavoce per gli affari sociali. Il fatto è che al partito l'attuale sistema di Welfare non piace. Nel 2005, è entrata in vigore la riforma votata dal governo rosso-verde di Gerhard Schröder e ciò ha significato un taglio ai contributi sociali ai disoccupati: una misura finalizzata a disincentivare le persone a rimanere a lungo in disoccupazione. La riforma si chiama Hartz IV — prende il nome da un dirigente delle risorse umane della Volkswagen, Peter Hartz — e prevede che per spese mediche e farmaceutiche a un disoccupato vadano poco più di 13 euro al mese. Con quella cifra, in Germania, si comprano due o tre scatole di condom (a seconda della marca) da 12 pezzi. Chi ricade nello schema Hartz IV, insomma, deve scegliere tra l'anticoncezionale e l'aspirina.
Da qualche tempo, il problema si è fatto pressante, aggiunge Frau Kipping: tra le donne meno abbienti, il numero di gravidanze non volute sta crescendo. «Semplicemente, non possono permettersi la spirale o la pillola», dice. Per la Linke, però, questo è solo un lato della battaglia che intende condurre: a parere del partito guidato da Oskar Lafontaine e Gregor Gysi, l'intero sistema di Welfare tedesco andrebbe rivisto, e le riforme degli anni scorsi cancellate. La proposta «sesso gratis» non è destinata a essere qualcosa di estemporaneo. Il Partito della Sinistra tedesco, infatti, sta negli ultimi tempi lanciando una serie di proposte finalizzate a consolidare la sua crescita nazionale. Fino a due settimane fa, era presente nel parlamento federale e nei parlamenti dei Länder dell'Est. Ma ora ha conquistato rappresentanti in Assia e Bassa Sassonia e il 24 febbraio probabilmente entrerà nel consiglio della città stato di Amburgo. Sta insomma diventando la quinta forza politica del Paese e molti commentatori si chiedono se gli altri partiti, soprattutto i socialdemocratici, potranno ancora per molto tempo escludere a priori di collaborare con la Linke in governi locali come già avviene a Berlino. In quel caso, condom per tutti.

Corriere della Sera 7.2.08
Raccolta di firme. Gli anti-Vat alla Sapienza: da oggi appello permanente
di Edoardo Sassi Docente


ROMA — «Mi piacerebbe che le 1.500 firme rappresentassero il primo anello di una catena ancora da costruire»: così ieri Angelo d'Orsi nel suo intervento all'università «La Sapienza» per la tavola rotonda su laicità e diritto al dissenso, promossa da Sinistra critica dopo la querelle sulla mancata visita del pontefice nell'ateneo romano. D'Orsi, professore di Storia del pensiero politico a Torino e allievo di Bobbio, è infatti il promotore dell'appello «Anche noi cattivi maestri», che dal giorno dopo il forfait di Benedetto XVI e fino a ieri ha raccolto le adesioni di 1.492 docenti (da Vattimo a Odifreddi, da Eva Cantarella a Luciano Gallino, molti i nomi di accademici celebri) in segno di solidarietà ai 67 fisici della «Sapienza» che criticarono l'invito al Papa ad inaugurare l'anno accademico. «L'appello— ha raccontato d'Orsi — è frutto di una notte insonne in cui montava la rabbia per come politica e media avevano trattato i colleghi, rei solo di aver espresso un legittimo dissenso». Ora quel registro di firme partito dal sito historiamagistra.com — «che da oggi è un appello permanente» ha detto ieri d'Orsi — poterebbe trasformarsi in altro: «Penso a un movimento culturale, non politico, anche se non mancano spinte in questa direzione.
Penso poi di estendere la possibilità di firma anche a semplici cittadini, benché sia già stato fatto» (www.petitiononline ha raccolto 20 mila adesioni no-pope).

Corriere della Sera 7.2.08
Il repubblicano Mussolini monarchico per calcolo
di Sergio Romano


In un articolo pubblicato sul «Popolo d'Italia» nel gennaio del 1915 Mussolini scriveva: «O la guerra o la corona!...Non sarà impossibile e nemmeno troppo difficile lo scoppio di un moto rivoluzionario se la Monarchia "non" farà la guerra». Sicuramente questa frase va collocata nel giusto contesto storico, e cioè nel momento di massima sollecitazione all'entrata nel conflitto per la liberazione delle terre cosiddette irredente, ma mi permetto di chiederle: perché questa prospettiva, o meglio intenzione, rimase tale anche nei decenni successivi? Come mai, una volta diventato Duce e consolidato il potere, Mussolini, nonostante l'avesse quindi già messa in dubbio, «si tenne la Corona»? Fu il timore di una reazione da parte dell'esercito, legato dal giuramento al re, che permise la sopravvivenza della monarchia durante il ventennio, oppure non ve ne fu l'occasione e il pretesto?
Mario Taliani
mtali@tin.it
Caro Taliani,
La repubblica fu un obiettivo del movimento fascista sin dalla costituzione dei Fasci in Piazza San Sepolcro nel marzo del 1919. Ma il tema cominciò a diventare meno insistente e pressante allorché Mussolini si accorse che la conquista del potere esigeva un consenso più largo e una base sociale più vasta. L'occasione venne quando la deriva massimalista del partito socialista, l'occupazione delle fabbriche nel 1920 e la nascita del partito comunista a Livorno nel 1921, gli permisero di presentarsi al Paese come il più sicuro baluardo contro il «pericolo bolscevico» e il più affidabile restauratore dell'ordine. Comincia allora la fase in cui il partito fascista può contare sulla simpatia e sul sostegno finanziario dei proprietari agricoli della Valle Padana (gli «agrari»), di alcuni industriali, di una parte considerevole delle borghesia e dei vertici delle forze armate. Ma non era possibile coltivare questo più grande collegio elettorale senza rinunciare alla pregiudiziale repubblicana. Se Mussolini avesse continuato ad agitare il drappo rosso della repubblica, gli agrari, l'esercito e la borghesia lo avrebbero abbandonato per cercare altri difensori.
L'esigenza divenne ancora più evidente nell'estate del 1922 quando Mussolini, dopo la crisi delle sinistre, capì che il suo ruolo di restauratore dell'ordine si sarebbe rapidamente consunto e che egli avrebbe conquistato il potere soltanto nell'ambito di una coalizione «centrista» costituta da liberali, popolari, nazionalisti e indipendenti. Parlare di repubblica, per un uomo politico che desiderava formare il governo con il benestare del re, sarebbe stato suicida. Da quel momento Mussolini mise la repubblica «nel cassetto» e, pur instaurando un regime autoritario, non dimenticò che la monarchia era ancora in grado di esercitare una considerevole influenza in alcuni ambienti importanti della società e della pubblica amministrazione, dalle forze armate alla diplomazia.
La situazione accennò a cambiare dopo il successo della guerra d'Etiopia, la proclamazione dell'impero e la grande ondata di consenso che salì in quei mesi verso Mussolini dal fondo della società italiana.
Nella sua grande biografia, Renzo De Felice ha dedicato molte pagine alla questione dei «Primi marescialli dell'Impero », le due cariche che il capo del governo istituì nei mesi seguenti. Attribuendole a se stesso e al re, Mussolini lasciò capire che al vertice dello Stato vi era ormai una diarchia. Quanto tempo sarebbe passato prima che egli desse alla monarchia, come gli chiedeva insistentemente l'ala repubblicana del fascismo, il colpo di grazia? Il re accolse di malumore una decisione che lo collocava di fatto sullo stesso piano del capo del governo. Ma temette la fine della monarchia e ingoiò il rospo. Fu questa, sia detto per inciso, una delle ragioni per cui firmò le leggi razziali del 1938 e sottoscrisse la dichiarazione di guerra del 1940. Oggi sappiamo che riuscì soltanto a ritardare di qualche anno il momento in cui i Savoia avrebbero perso il trono.

Corriere della Sera 7.2.08
Un libro di Graziella Magherini
Arte, quel colpo di fulmine consegnato al lettino di Freud

di Wanda Lattes


L' arte riesce a farci capire quell'insieme dei nostri pensieri che non abbiamo mai espresso e neppure preso in considerazione, e dunque diviene fattore di crescita, di maturazione quando diventa momento illuminante della nostra personalità. Nella visione, nell'incontro con l'arte si attivano esperienze emozionali primitive, mai riconosciute dall'io cosciente, ed è proprio nell'inestricabile intreccio di emozioni di ritorno dall'inconscio che nasce la preziosa conoscenza che si usa chiamare godimento dell'arte. La psichiatra Graziella Magherini, autrice dello studio sulla sindrome di Stendhal divenuto una specie di guida spirituale per chi affronta le emozioni suscitate dalle opere d'arte e, in particolare, da quelle conservate nella fatale Firenze di Stendhal, affronta adesso le radici stesse dell'emozione estetica, attingendo alla sua esperienza di psicoanalista freudiana. Un incontro di folla con il David di Michelangelo offre all'autrice l'ambientazione per lo scatto dei sentimenti, cioè l'amore per una statua che dà il titolo dal libro, illustrato peraltro con audaci foto di esplicito valore analitico. Ma è lecito sostenere che la parte più nuova, più impressionante di questo studio è l'impegno di storica ripresa nel cammino di Freud, la rievocazione precisa dell'amore per la grande arte classica da parte di un razionalista che scava nell'irrazionale, lo studio dell'immersione nell'arte antica, quale inesauribile fonte di metafora.
GRAZIELLA MAGHERINI, Mi sono innamorato di una statua NICOMP PP. 336, € 24

Corriere della Sera 7.2.08
L'intellettuale che fondò «Il Mondo»
Pannunzio, maestro di impegno civile
di Giovanni Russo


Dai crociani ai socialisti, il suo giornale esprimeva le vette della laicità

Sono trascorsi quarant'anni dalla sua morte prematura, avvenuta il 10 febbraio 1968, ma ancora si sente il vuoto che Mario Pannunzio e Il Mondo, il settimanale da lui fondato, hanno lasciato. Fu un centro di vita politica e culturale, uno strumento di battaglie democratiche, intorno al quale si coagularono, in molte occasioni, le forze più avanzate del Paese. Mario Pannunzio aveva grande sensibilità per la notizia, curiosità per i meccanismi della vita politica, fiducia nella verità, rispetto per le idee degli altri, purché non fossero negatrici del principio della libertà. L'identità tra pensiero e azione era in Pannunzio perfettamente realizzata. Appassionato di letteratura e di cinema, apparteneva a una generazione che era cresciuta facendo la fronda al fascismo. Con Arrigo Benedetti, nato come lui a Lucca, altro grande protagonista del giornalismo, aveva partecipato alle esperienze più brillanti di rinnovamento della stampa italiana, dal settimanale
Omnibus fino alla direzione di Oggi, soppresso da Mussolini durante la guerra.
Dopo aver diretto Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli durante il periodo clandestino e nel dopoguerra, Pannunzio fondò Il Mondo nel marzo 1949 quando, con le elezioni del 18 aprile del 1948, si profilò il pericolo di un dominio della maggioranza democristiana. La creazione di una alternativa, capace di svincolarsi dal ricatto costituito dalla contrapposizione tra le due «chiese», la cattolica e la comunista, fu lo scopo essenziale cui Pannunzio dedicò i suoi sforzi con Il Mondo
e le altre iniziative, dai convegni degli «Amici del Mondo » alla fondazione del Partito radicale di democrazia liberale nel 1956.
Fu accusato di astrattezza e snobismo intellettuale, ma basta scorrere le pagine del settimanale per rendersi conto che non c'era niente di astratto, e che anzi rispecchiava la realtà politica e sociale del Paese. Quanto all'accusa di snobismo, essa nascondeva il disagio per la superiorità morale che Pannunzio incarnava. Amava l'umorismo: non a caso sul Mondo ebbero spazio le vignette di Mino Maccari e di Arrigo Bartoli, e fu legato da intensa amicizia con Ennio Flaiano, che era stato redattore capo nei primi quattro anni. I suoi interessi culturali e umani erano vasti e profondi. Al giornalista politico, bisogna infatti unire la figura di Pannunzio uomo di cultura, critico estetico, raffinato interprete letterario, che esercitava concretamente queste sue doti sia nel vagliare i testi dei maggiori studiosi e scrittori italiani che si onoravano di collaborare alla rivista, sia nello scoprire capacità e qualità di giovani sconosciuti. È grazie a lui se poterono incontrarsi sulle stesse pagine personalità così diverse come Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi e Alessandro Galante Garrone, Ernesto Rossi e Panfilo Gentile, Ignazio Silone e Ugo La Malfa, Aldo Garosci e Leo Valiani, Nicolò Carandini, Nicola Chiaromonte, Mario Ferrara, e Riccardo Lombardi, cioè tutta la cultura laica che contava.
Con gli articoli di Altiero Spinelli, Il Mondo fu anticipatore dell'ingresso dell'Italia nella moneta unica europea, e con gli interventi di Ernesto Rossi denunciò il sottogoverno e il malcostume e sostenne l'esigenza di un'economia libera dai monopoli privati e da uno Stato falsamente pianificatore. Con le sue inchieste, fece conoscere i problemi della realtà italiana. Un'altra delle iniziative di Pannunzio furono i «Convegni degli amici del Mondo», con i quali, a partire dal 1955, vennero affrontati nodi della società italiana ancora oggi irrisolti: la speculazione edilizia, la libertà di stampa, la riforma della scuola, il finanziamento dei partiti, il rapporto tra Stato e Chiesa, la lotta ai monopoli, la necessità di una legge antitrust, la riforma della pubblica amministrazione e la tutela del paesaggio.
Il Mondo doveva cessare le pubblicazioni nel 1966 e due anni dopo Pannunzio moriva. «Mai come ora — scriveva Pannunzio nel suo ultimo articolo — abbiamo sentito urgente il bisogno della partecipazione attiva alla vita pubblica e alla civiltà morale del Paese, di uomini appassionati, indipendenti, intransigenti e risoluti». È un invito che vorremmo raccogliessero tutti coloro che credono nei valori della libertà e della democrazia.

Corriere della Sera Roma 7.2.08
L'intervista Il messaggio delle forze «arcobaleno»: «Senza di noi alcune forze sociali si sentirebbero prive di interlocutori»
Nieri, avviso al Pd: la Sinistra è fondamentale
di Al. Cap.


Oggi il convegno «la Sinistra, il Pd e gli enti locali» e domani cosa accadrà? Riuscirà il laboratorio Roma a superare le difficoltà che appaiono insormontabili a livello nazionale? Pd e sinistra continueranno a governare insieme a Roma? Luigi Nieri (Prc) è l'assessore al Bilancio della Regione, da qualche tempo è in quella Sinistra arcobaleno che riunisce i rappresentanti di Prc, Pdci, Sd e Verdi.
Nieri, per Pd e sinistra sarà possibile continuare a governare insieme a Roma?
«Questo è l'augurio. Anche per i risultati raggiunti e il lavoro svolto in questi anni: ovvio che c'è una convergenza programmatica da ricercare, prima di tutto ».
Prima, anche, dei nomi. Eppure, da giorni circola insistentemente il nome di Patrizia Sentinelli, il suo futuro da vicesindaco sembra...
«La interrompo: è presto per i nomi. Patrizia , per l'esperienza che ha, anche come amministratore, rappresenta un valore non solo per la sinistra ma per la città, è una personalità di primissimo piano. Però è bene ribadire che questa è la fase nella quale tutti, per il bene di Roma, dobbiamo cercare di costruire la futura alleanza».
Un'alleanza che, a Roma, è in piedi da quindici anni.
«Sì ma bisogna distinguere, il primo governo di Rutelli è diverso dal secondo, e così pure per gli anni di Veltroni: ecco, noi dobbiamo ripartire dai punti più alti di quelle esperienze. Il Pd deve rendersi conto del fatto che senza di noi, i risultati non saranno più quelli raggiunti. E il discorso non è solo riferito a numeri e voti: senza di noi, alcune forze sociali si sentirebbero prive di interlocutori. Ecco, dobbiamo continuare a meettere in primo piano gli interessi dei cittadini, così come abbiamo fatto anche in Regione. La Sinistra Arcobaleno alla Pisana si riunita in un gruppo federato, ma noi dobbiamo andare oltre le quattro forze politiche lì rappresentate, dobbiamo dare rappresentanza alla sinistra. Ora, del resto, tutto è più chiaro: c'è il Pd, e poi ci siamo noi che abbiamo una grande responsabilità: far vivere un programma di sinistra».
Assessore, torniamo alla domanda iniziale: Patrizia Sentinelli farà o no il vicesindaco?
«Torno alla risposta iniziale: questo è il tempo di costruire l'alleanza, con serietà come abbiamo sempre fatto in questa città. Ci vuole prima un programma condiviso e poi dovremo scegliere le squadre. Questo non è il tempo dei nomi, adesso chiudiamo l'esperienza in Comune e mettiamoci a discutere. Quello dei nomi, trattandosi di personalità tanto importanti, non sarà certo un problema. Prima, però, bisogna costruire la futura alleanza. Per il bene di Roma».

il Riformista 7.2.08
La corsa in solitaria del pd verso il centro chiude una stagione politica
C'erano due sinistre, forse non ce ne sarà nessuna
di Paolo Franchi


We can, possiamo farcela, dice Walter Veltroni nel giorno dello scioglimento delle Camere. E niente "accordi tecnici" per il Senato con la sinistra (ma Fausto Bertinotti è soddisfatto della separazione consensuale), niente minicoalizioni con i socialisti, ai quali viene proposto, prendere o lasciare, di togliere il disturbo accontentandosi di qualche strapuntino. Il Partito democratico di Walter Obama corre da solo. Se farà un'eccezione alla regola dura ma inebriante della solitudine, la farà solo per Tonino Di Pietro e la sua Italia dei valori. Le cronache danno pressoché per scontata l'intesa, ma per ragionarci su (e i nostri non sarebbero davvero giudizi entusiastici) ci prendiamo qualche ora, e aspettiamo che prenda effettivamente corpo: materia per discutere ce n'è già molta.
La solitudine, o la quasi solitudine, del Partito democratico sta lì a certificare, anche se pochi hanno l'onestà di dirlo apertamente, che, con l'Unione, è stato archiviato anche il centrosinistra. Può darsi che domani o dopodomani risorga, anche se in forme assai diverse. Per ora, e per tutta la campagna elettorale, il concetto stesso di centrosinistra è defunto. Doveva essere l'architrave, il timone, il motore riformista della coalizione, il Pd, o almeno in questi termini era stato rappresentato. Adesso (ha perfettamente ragione il nostro democentrico preferito, Marco Follini) si pone l'obiettivo, forse ancora più ambizioso, ma di certo assai diverso, di «cominciare a far rinascere una nuova, grande, vera forza di centro».
Auguri, e auguri sinceri, ci mancherebbe, perché l'impresa, se non è un imbroglio mediatico, è titanica: discutibile, certo, ma per nulla banale. L'unica «grande, vera forza di centro» che abbiamo conosciuto, la Dc dell'età dell'oro, era un partito moderato, sì, ma a suo modo riformatore, al quale l'Italia, anche se non può ostentarne apertamente la nostalgia, sa di dovere moltissimo. Non sarà facile rinverdirne le glorie, seppure in forme inedite, nel terzo millennio, per Veltroni e per i postcomunisti e i postdemocristiani che, piaccia o no, sono l'ossatura del suo nuovo partito.
In ogni caso. Va bene la separazione consensuale. Ma, se il più grande partito del centrosinistra che fu vira così decisamente al centro, si apre, è ovvio, una questione drammatica per la sinistra. Una questione, intendiamo dire, di vita o di morte. Sino a qualche tempo fa (ricordate?) ce n'erano addirittura due, l'una riformista, o che si dichiarava tale, l'altra che veniva definita radicale, massimalista, antagonista, fate voi: e ci si chiedeva, legittimamente, quale delle due avrebbe alla fine prevalso e, nel frattempo, se fosse possibile o no una loro convivenza. Adesso è fondato chiedersi se, dopo il 13 aprile, l'Italia diventerà l'unico Paese di qualche rilievo nell'Europa continentale in cui non c'è posto non solo per un grande partito socialista, ma neppure per una sinistra di qualche peso, non residuale, non settaria, plurale, capace, nella vittoria come nella sconfitta, di coltivare una prospettiva d'avvenire.
È con questa realtà, più che con i problemi di sopravvivenza di questo o quel pezzo del suo ceto politico, che la sinistra (le sinistre?) dovrebbe misurarsi. Servirebbe un colpo d'ala, quel colpo d'ala che è clamorosamente mancato nell'ultimo anno. La speranza è l'ultima a morire. Ma certo le meste cronache della Costituente socialista e della Cosa rossa non sono propriamente quel che si dice una sferzata di ottimismo e di energia.

il Riformista 7.2.08
Angelo D'Orsi: «mettersi in gioco è un dovere morale»
I professori anti-Papa scendono in campo
In passato aveva ricevuto proposte a cui aveva detto no. Ora è diverso


Dicono che non sono "cattivi maestri". E che non faranno politica. O forse sì. Ma se la faranno sarà per dovere e non in modo organizzato anche se - qualora politica fosse - ci sarà qualcosa di meno estemporaneo di un comitato. Comunque sia, l'onda lunga dei fatti della Sapienza non si ferma alla contestazione della lectio magistralis di Benedetto XVI, poi mai avvenuta, ma rischia di finire dentro le urne. Angelo D'Orsi, professore di storia del pensiero politico all'Università di Torino e allievo di Norberto Bobbio, potrebbe infatti presentarsi alle elezioni.
A dirlo è stato lo stesso D'Orsi, forte delle 1500 firme in calce all'appello in sostegno ai 67 docenti di fisica che sottoscrissero la lettera a partire dalla quale scoppiò il caso Sapienza. «Mettersi in gioco, scendere in campo - ha detto scherzando ma non troppo - è un dovere morale». E, se così fosse, sarebbe meglio farlo - ha fatto capire - con un nuovo soggetto politico che con uno di quelli esistenti.
D'Orsi è intervento ieri a un dibattito organizzato dai giovani di Sinistra Critica proprio alla Sapienza. E, prima e dopo il dibattito, ha annunciato questa sua intenzione. «Già in passato diversi partiti mi hanno proposto candidature che ho rifiutato», ha spiegato aggiungendo che però questa volta è diverso: «oggi, di fronte a una emergenza, valuterei in modo diverso l'opportunità di un impegno diretto in politica». Insomma, «se ci fosse una proposta seria la prenderei in considerazione». Dunque, l'appello firmato dai 1500 diventa "permanente", un quasi manifesto politico.
Insieme a lui, ieri, c'era Carlo Cosmelli, uno dei 67 docenti di fisica, che poco prima dell'inizio dell'incontro, a chi gli chiedeva se fosse da escludere una sua candidatura, aveva risposto diversamente: «ma certo, non diciamo eresie». Poi, però, il fisico aveva voluto aggiungere che «c'è un disagio presente anche tra i cattolici» e che «ci piacerebbe diventare un punto di aggregazione di idee» anche se l'episodio da cui tutto è nato va considerato chiuso.
Mentre nell'aula Calasso della Facoltà di Giurisprudenza si discuteva di laicità e si lanciava l'appuntamento alla manifestazione "No Vat!" di sabato 9 febbraio, fuori, nei corridoi, della tensione che ha attraversato nelle scorse settimane questi luoghi non c'era più quasi traccia. Un gruppetto di ragazzi, ad esempio, si aggirava circospetto, ma indisturbato, per la Facoltà, finendo per appendere, proprio a due passi dai manifesti di Sinistra Critica, un proprio manifesto sul quale era scritto: «È vergognoso che una minoranza decida chi possa parlare nella nostra università. Aderisci anche tu al comitato Sapienza Libera». Firmato: Azione Universitaria. Dentro, invece, in un'aula Calasso nella quale sedeva non più di qualche decina di ragazzi, i toni ricordavano - forse troppo da vicino - quelli dei decenni passati, soprattutto quelli utilizzati dai giovani militanti di Sinistra Critica. Qualcuno ha sostenuto che il «Vaticano è una multinazionale inserita in un mondo globalizzato in cui comanda l'economia e non la politica»; qualcuno ha aggiunto che «una critica agli attacchi della Chiesa non può essere che di genere e di classe» e che dovrebbe partire «da una condizione di oppressione per formulare una proposta alternativa a quella del Vaticano».
Ben diversi i discorsi dei due docenti, seppure altrettanto duri nei toni. Tutti, però, docenti e studenti, hanno finito per essere d'accordo, oltre che sulla necessità di fare una battaglia per la laicità e contro l'ingerenza vaticana negli affari nazionali, su un altro punto: la strumentalizzazione che la stampa italiana avrebbe fatto di tutta la vicenda. Ma è la critica all'atteggiamento del Vaticano ad aver tenuto banco. A proposito della mancata visita del papa alla Sapienza, e delle polemiche nate perché sarebbe stato impedito al Papa di parlare, D'Orsi ha risposto che è inaccettabile sostenere una tesi del genere. «Il Papa sta invadendo tutti gli spazi», ha attaccato, spiegando che «in questo paese tutti i giorni ci dicono cosa ha detto il Papa. Poi diciamo dell'Iran: noi siamo un paese fondamentalista». Poi, ha parlato di «rivolta morale» contro una «condizione di invadenza continua di un super-partito politico quale ormai è la chiesa cattolica». E lo stesso concetto D'Orsi lo ha ripetuto al termine del suo intervento, invitando il Vaticano a «sciogliere questa ambiguità per cui la Chiesa si proclama religione ma svolge un ruolo politico come un partito. Allora - ha proseguito riferendosi alle gerarchie ecclesiastiche - scendano in campo e si presentino alle elezioni. Vediamo quanti voti prendono».
Aspettando il Vaticano, a decidere di fare il grande passo potrebbe essere però proprio D'Orsi. Lui, almeno, ci sta pensando.

Liberazione 7.2.08
Docenti e studenti all'incontro organizzato all'università La Sapienza
da Sinistra critica. Tra loro, Carlo Cosmelli, uno dei 67 fisici firmatari
Perché abbiamo contestato il papa
di Tonino Bucci


Tutto finito? Cosa è rimasto dopo la famosa lettera di protesta dei 67 docenti di fisica della Sapienza? E quale segno ha lasciato nei collettivi studenteschi la battaglia contro la scelta (politica) del rettore Renato Guarini di invitare Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico? Se si guarda alla cronaca sembra acqua passata. Il rettore è tornato in un cono d'ombra come se l'intera storia non fosse partita da lui. E nel silenzio dei media sono tornati anche gli studenti, isolati come sempre nel denunciare i tagli all'università pubblica (e laica).
Eppure le ragioni politiche di chi ha contestato sono ancora in gioco. Che sulle pagine dei giornali si parli di moratoria contro l'aborto o di rianimazione coatta dei feti l'argomento è sempre quello, la laicità e il rapporto tra Stato e Chiesa. La religione cattolica ha il monopolio della verità? E' possibile che non ci sia altra morale al di fuori di quella ammessa dalle gerarchie vaticane? La politica, la scienza, l'etica, sono chiamate a rispondere alla sfida, a cercare criteri di legittimazione autonomi, a non accettare l'idea che solo chi ritiene d'avere Dio in tasca sia autorizzato a spiegare il mondo e a parlare della verità. Ecco perché la battaglia iniziata da docenti e studenti alla Sapienza è ancora attuale e non va lasciata cadere - anche perché qui si gioca una delle discriminanti nello scenario politico italiano tra il Pd e quello che si muove alla sua sinistra. Alla Sapienza di Roma ieri s'è svolta una tavola di discussione, "Diritto al dissenso", organizzata da Sinistra critica con Carlo Cosmelli, uno dei firmatari della lettera dei 67 docenti di fisica, lo storico Angelo d'Orsi - a sua volta promotore di un appello a sostegno dei docenti romani - Giorgio Sestili, studente del collettivo di fisica e del coordinamento dei collettivi, e Cinzia Arruzza, ricercatrice di Sinistra critica.
Ancora oggi gli studenti non si spiegano il fuoco di sbarramento dei media. «Perché? Di solito i giornali non si accorgono delle nostre iniziative. Il Papa sarebbe potuto venire e tenere il discorso. All'indomani i giornali avrebbero potuto dipingerci come la solita frangia minoritaria. E invece non hanno accettato il dissenso, ci hanno presentato come intolleranti. E oggi siamo ritornati invisibili, come sempre. Noi parliamo dei tagli alla ricerca e alla didattica e nessuno se ne accorge. L'università è devastata e la Chiesa mantiene i suoi privilegi e non paga l'Ici. E poi, l'inaugurazione dell'anno accademico non è un momento di confronto, è l'appuntamento più simbolico dell'università pubblica e laica».
Ma ci può essere interlocuzione tra scienziati e credenti sul terreno della ricerca? «Uno scienziato può anche credere in Dio - dice Carlo Cosmelli - ma questo non ha nulla a che fare con la ricerca. E' una questione di metodo. Un Essere supremo potrebbe anche esistere ma per uno scienziato è indifferente perché nella descrizione degli eventi naturali non deve ricorrere a cause esterne. Questo è il naturalismo metodologico. Se la nostra macchina si ferma la portiamo dal meccanico. Nessuno si sognerebbe di tirare in ballo una causa soprannaturale». Perché è irricevibile il pensiero teologico di Benedetto XVI? Perché parte dall'equiparazione di ragione e fede - spiega Cosmelli - perché la ragionevolezza sfuma nell'idea di obbedienza alla verità e perché la verità finisce per coincidere, a sua volta, con la morale dettata dalle gerarchie cattoliche. Comincia col dire che Dio è logos e finisce con l'etichettare immorali e tendenzialmente malvagi tutti coloro che vanno "contronatura". Omosessuali in prima fila. Un vero manifesto etico-politico. Ma «non c'è nesso automatico tra l'essere cattolico e le scelte morali. Gandhi non era cattolico e Russell era ateo».
La sfida è alta e i laici devono attrezzarsi per confliggere con un pensiero che ha l'ambizione d'essere chiave di lettura globale del cosmo. «La Chiesa ha un apparato e una stuola di intellettuali da far invidia. Perché si scagliano contro il pensiero queer, contro Judith Butler, contro l'idea che i generi non siano biologici, ma una costruzione simbolica? Perché la Chiesa pensa che la differenza biologica tra i sessi sia a fondamento di ruoli differenti, definiti una volta per tutte, tra uomo e donna, nella famiglia e nella società intera. Vede come fumo negli occhi ogni pensiero che metta in discussione l'ordine della natura». Non basta però contrapporre al fronte oscurantista la fede nel progresso. «Noi laici dobbiamo interrogarci sullo statuto della scienza, sulla dipendenza dal potere economico, sulla proprietà dei brevetti e su un modo di produzione alternativo».
Ma quali sono le radici di questa anomalia italiana? «Vanno cercate nella nostra storia», dice Angelo d'Orsi che intanto nelle firme a sostegno dei docenti romani è arrivato a quota millecinquecento. «L'esistenza di un potere politico, militare e giudiziario della Chiesa ha impedito che il nostro paese diventasse uno Stato nazionale e moderno come le altre nazioni europee. E questo ha avuto conseguenze gravissime anche sul piano culturale e civico. Perché gli italiani sono individualisti e non hanno senso del pubblico? L'unico periodo laico del nostro Stato è quello postrisorgimentale. Dopo di allora l'idea della separazione tra Stato e chiesa di matrice cavouriana è stata affossata. Prima dal fascismo con i Patti lateranensi, poi con la grande occasione mancata della Costituzione - vedi articolo 7 - e infine la revisione del Concordato voluta da Craxi. E' possibile che oggi a dettare l'agenda politica in questo paese debba essere un uomo come Giuliano Ferrara che si vanta di non aver mai terminato gli studi universitari e chiama "asini" i docenti? E poi smettiamola di dire che al Papa non viene riconosciuta libertà di interloquire. Giornali e televisioni sono pieni dei suoi discorsi».

Liberazione 7.2.08
Foibe, manifestazioni a Roma Studenti e madri contro il revisionismo dei "pulcini" della Fiamma


Sembra un'iniziativa culturale come un'altra, sulla memoria delle foibe, quella promossa per venerdì 8 dalla Consulta provinciale studentesca, coi soldi del ministero dell'Istruzione, in un teatro, il Brancaccio, che gode di fondi comunali. Tra gli invitati l'assessore Di Francia e il direttore Maurizio Costanzo. E invece è l'ennesimo tentativo di trasformare un'aula grigia in un bivacco di manipoli. Che sia un teatro anziché Montecitorio non sembra importare granché ai pulcini della "squadra del cuore", i fascisti del Blocco studentesco, rampolli della Fiamma, che arriveranno in corteo all'iniziativa dal sapore revisionista nel giorno della memoria delle foibe, gli eccidi legati alle reazioni alla sanguinosa occupazione italiana della Jugoslavia durante la II guerra mondiale. Con una lettera degli eletti di Sinistra alla Consulta (che lanciano un contro-convegno, stesso giorno, con l'Anpi e i Cobas alla Casa della memoria in Trastevere), si apprende che il fronte di destra, dai giovani di An in poi, avrebbe preso il controllo dell'organismo, nel corso di un'assemblea piuttosto disinvolta sull'utilizzo dei regolamenti e intimidita dalla presenza di esterni alla Consulta. Gli eletti della sinistra chiedono ai presidi e ai docenti di non abboccare all'amo. Il Blocco nega, e minaccia di querele chi ne scrive, ma le cronache cittadine hanno ripetutamente associato il suo nome a episodi di violenza squadristica, che nella Capitale è a livelli record. Il Blocco vorrebbe anche che vengano prooibite le contromanifestazioni indette dalle Madri per Roma città aperta (tra loro la mamma di Renato Biagetti) e dagli studenti antifascisti cui hanno già aderito la capogruppo al Comune del Prc, Adriana Spera, Anna Pizzo, consigliera regionale e Nando Simeone, di Sinistra Critica a Palazzo Valentini. Da parte sua, il direttore artistico del Brancaccio, Maurizio Costanzo, ci tiene a far sapere che «ha sempre avuto una visione pluralista nel rispetto delle opinioni di tutti e con lo stesso spirito, il Teatro Brancaccio, ospiterà questo evento.

Corteo sulle foibe: Simeone (SC), chiediamo il divieto, appoggio agli studenti antifascisti
Comunicato stampa


Nando Simeone (Sinistra Critica): chiediamo di vietare il corteo del Blocco Studentesco Appoggio a tutte le iniziative degli studenti antifascisti

"Il Blocco Studentesco è un'organizzazione dichiaratamente neofascista, legata strettamente alla Fiamma Tricolore, che fa sulle Foibe un discorso di chiara matrice revisionista.
E' inaccettabile che per Roma sfili un'organizzazione simile, ed è altrettanto inaccettabile che questo corteo, previsto per l'8 febbraio, si concluda con un convegno psuedo-storico finanziato con i soldi della Consulta Provinciale degli Studenti, controllata dalle destre neofasciste grazie ad un'elezione palesemente illegale.
Il silenzio delle autorità (il sindaco Veltroni, il Prefetto) è davvero sconcertante. "

"La crescita delle destre neofasciste nelle scuole è un fenomeno sempre più preoccupante, ed è stato favorito dalle politiche neoliberiste portate avanti dalle coalizioni di centro-sinistra in questi anni, a livello nazionale e locale.
La destra neofascista si presenta come "sociale" grazie ad un terreno che, dalla precarietà alle politiche securitarie, chiama in causa le responsabilità di chi ha governato in questi anni.
Per questo è importante che si torni a contrastare fascismo e razzismo a partire dai luoghi e dai soggetti sociali. Come Sinistra Critica diamo completo appoggio a tutte iniziative che verranno decise dagli studenti antifascisti delle scuole romane nei prossimi giorni."

Questa la dichiarazione di Nando Simeone, consigliere provinciale di Roma di Sinistra Critica

il manifesto 8.2.08
Prima prova di grande coalizione sul rinnovo dei manager di stato
Prodi: per le poltrone di Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Poste e Tirrenia va trovata l'intesa con l'opposizione. I sei a.d. - nominati per altro da Berlusconi - scadono a fine aprile. Ma Lega e An scalpitano
di Francesco Paternò


Potrebbe essere la prima vera prova di grande coalizione. Applicata a una serie di poltrone che valgono circa un terzo della borsa di Milano. Romano Prodi ha cambiato linea sul rinnovo dei vertici delle società quotate, sostenendo che il governo non le farà da solo ma cercherà un accordo con l'opposizione, perché «ogni rinvio è un danno». Tra il 22 e il 29 aprile vanno a scadenza vertici e consigli di amministrazione di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Tirrenia e di Poste (non quotata). Le liste vanno rese pubbliche dieci o quindici giorni prima, pena il rinvio delle assemblee. Nell'apparente clima di non scontro tra i poli, se Prodi trovasse un accordo con il centrodestra, potrebbe incassare - oltre che una bella figura sul piano internazionale dove certe cose contano davvero - una serie di poltrone utili o comunque non sgradite. Se un'intesa non venisse raggiunta, il rischio di uno slittamento a giugno diventerebbe certo e le cose cambierebbero di segno.
La vicenda si presenta come un trionfo dei paradossi. Perché la partita, nel caso del grande accordo, potrebbe avere (quasi) indentico inizio e fine. In campo attualmente ci sono uomini nominati a suo tempo dal governo Berlusconi e in particolare legati all'ex ministro del tesoro Giulio Tremonti. Pier Francesco Guarguaglini a Finmeccanica, Fulvio Conti all'Enel, Paolo Scaroni all'Eni, Flavio Cattaneo a Terna, Massimo Sarmi alle Poste. E paradosso nel paradosso, tutti manager che hanno esibito in questi anni conti positivi, con le eccellenze di Conti alla conquista della spagnola Endesa (d'intesa con Prodi) e di Cattaneo, che dal novembre 2005 ha portato Terna da una quotazione di 3,8/4 miliardi di euro ai 5,8 di oggi. Insomma, manager nominati della destra che hanno più o meno ben coabitato con il centrosinistra, da non toccare adesso perfino per Rifondazione comunista. Prodi gioca la sua partita esattamente su questo: dato che i manager sono i vostri e noi li «abbiamo sempre rispettati», perché cambiarli? Eppoi, possono argomentare con molte ragioni a Palazzo Chigi, chi garantisce gli investitori stranieri che abbiamo cambiato un amministratore delegato con tali risultati con un altro «sicuramente migliore»? Certo, con un governo Prodi in carica stabilmente, uno come Scaroni avrebbe rischiato di perdere il posto, forse anche Sarmi, ma adesso tutti i sei a.d. potrebbero restare al loro posto. Qualche avvicendamento potrebbe avvenire - senza stravolgere gli assetti - alla presidenza di un paio di gruppi. Sono poi da nominare i nuovi consiglieri, circa una cinquantina: un'area che potrebbe essere presa d'assalto da partiti e partitini, nonostante la blindatura dei pivot. E un assalto all'arma bianca potrebbe far saltare il tavolo.
La partita, per ora, non sembra fallosa. Nel primo girone del centrosinistra, dallo staff prodiano al Pd di Walter Veltroni, l'idea di un'intesa con il centrodestra che lasci sostanzialmente le cose come stanno è il piano A. Forza Italia, che è stata l'azionista di maggioranza dei sei manager, pare concordare su questo terzo tempo, facendo un copia e incolla della nuova campagna elettorale di Berlusconi. Resta l'incognita del comportamento di An e della Lega, che considerano delegittimato il governo Prodi per fare alcunché. Ma questo si può dire fino a un certo punto, perché esplicitamente mettere le mani della politica sulle grandi aziende quotate, in campagna elettorale suona male. Anche se ci vuole poco, un niente. In questo caso, a proteggere i sei non basterebbero trionfi di utili o di borsa. Basta ricordare per esempio numeri e fine in epoca berlusconiana di Vittorio Mincato, ex a.d. dell'Eni.

mercoledì 6 febbraio 2008

A sinistra, Associazione della Sinistra:
APPELLO 10 FEBBRAIO (FARE PRESTO)
Grande è il disordine sotto il cielo


La situazione internazionale, segnata finora dalla guerra permanente, dal pericolo di conflitti ricorrenti e dal rischio incombente di uno scontro di civiltà, si trova ora a fronteggiare lo spettro della recessione economica che è uno dei segnali della crisi del dominio economico statunitense sul mondo. Da decenni la globalizzazione e l'affermarsi delle scelte neoliberiste hanno comportato un peggioramento della condizione di chi lavora e un grande aumento della precarietà, ha prodotto una crisi ambientale senza precedenti dove in gioco è lo stesso futuro del pianeta. Tuttavia, se sul piano internazionale la situazione, che resta incerta e esposta a rischi, sembra aprirsi anche a soluzioni positive -- a partire dagli entusiasmi che nella patria del capitalismo mondiale incontra la candidatura a presidente di Barack Obama e dal successo elettorale della sinistra in Assia, dove la scelta di contenuti e posizioni ambientaliste e di sinistra hanno dato alla Linke e alla Spd un ampio successo -- nel nostro paese la caduta del governo Prodi, e con essa di tutte le esperienze di centrosinistra, così come le abbiamo conosciute in questo quindicennio, coincide con la più grave crisi democratica che il paese abbia conosciuto dalla nascita della Repubblica e con un pesante scollamento tra politica e cittadini, con un aggravarsi della questione sociale. A questa situazione è necessario reagire e la sinistra non può far mancare il suo contributo alla riapertura di una fase di ripresa democratica del nostro paese. Perciò noi, esponenti di associazioni, laboratori territoriali, movimenti, comitati e network - che nel corso dell'incontro autoconvocato dell'otto dicembre, all'interno dell'Assemblea generale della sinistra e degli ecologisti, abbiamo dato vita ad una rete aperta e democratica - decidiamo di farci parte attiva della costruzione di un nuovo soggetto unitario e plurale della sinistra, facendo unità a partire da noi e perciò dandoci a questo scopo un coordinamento permanente finalizzato alla costruzione di un Movimento politico per la Sinistra, l'Arcobaleno. La crisi politica e istituzionale di queste settimane impone anche a noi di contribuire a promuovere una decisa iniziativa politica che dia vita a quel "processo popolare, democratico e partecipato, aperto alle adesioni collettive e singole" per costituire "una forza grande e autonoma, capace di competere per l'egemonia", come recita la Carta d'intenti della Sinistra l'Arcobaleno approvata da tutti i partiti della sinistra il 9 dicembre e che tutti dovrebbero concorrere a mettere in atto. Dall'Assemblea di dicembre ad oggi le vicende del lavoro - dalla strage alla TyssenKrupp di Torino al contratto dei meccanici -, quella dei rifiuti, quella della visita del Papa alla Sapienza, la campagna sulla moratoria sull'aborto, i ritardi nel varo di normative contro la violenza sulle donne e per le unioni civili, la recrudescenza nell'opinione pubblica di tendenze xenofobe e securitarie hanno reso evidente quanto esplicita e determinata sia l'offensiva della destra. Anche per reagire a tutto ciò c'è bisogno di una nuova sinistra unita. E invece, nonostante gli impegni assunti, dopo l'assemblea dell'8 e 9 dicembre la voce della sinistra non è stata unitaria, né in Parlamento né nel Paese, e attorno ad alcuni temi - come quello della legge elettorale - dalle divisioni a un certo punto sono sembrate emergere vere e proprie riserve sulla costruzione di "un nuovo soggetto della sinistra e degli ecologisti, unitario, plurale, federativo". Il distacco dalla politica e dalle istituzioni e la crisi sociale rischiano di saldarsi tra loro aprendo una prospettiva carica di incognite. C'è un'emergenza democratica, a cui si può rispondere solo attraverso la profonda trasformazione del nostro stesso agire politico: muovendo dal lavoro, dalle esperienze delle comunità solidali, dalle forme di autorganizzazione democratica presenti nel territorio e nella società. Abbiamo perciò deciso di mettere in pratica l'appello finale, rivoltoci dai partiti, a essere protagonisti del processo unitario, a diventarne parte attiva.
Il Movimento -- a cui daremo vita in un'assemblea nazionale domenica 10 febbraio dalle 10 alle 17 al cinema Farnese di Roma -, facendo della diversità delle esperienze e delle culture che lo compongono una ragione di forza, intende proporre:
* una carta delle regole della sinistra, perché essa sia la prima costruzione collettiva autenticamente democratica, partecipativa, fondata sulla differenza di genere;
* la realizzazione di case della sinistra e laboratori sociali che costituiscano l'articolazione popolare e federale del nuovo soggetto;
*un'autonoma campagna di adesione, da avviare immediatamente, al nuovo soggetto politico "la Sinistra, l'Arcobaleno",
*l'organizzazione per i giorni 1° e 2 marzo di iniziative pubbliche da tenersi in tutte le città di Italia per dare dimensione di massa alla campagna di adesione, e la promozione una consultazione popolare autogestita sui principali punti programmatici, la carta delle regole e la dichiarazione d'intenti del nuovo soggettounitario "la Sinistra, l'Arcobaleno".
E' il momento di superare ogni incertezza e timore. La nostra azione è al servizio di tutte quelle forze politiche della sinistra effettivamente interessate a costruire oggi e non domani il nuovo soggetto politico di cui c'è bisogno anche in vista degli impegnativi appuntamenti politici che sono di fronte a tutti noi.
Per aderire: www.autogestiti.org
Firmatari: A sinistra, Associazione della Sinistra


Verso la manifestazione nazionale a Roma NO-VAT del 9 febbraio
Comunicato stampa

DIRITTO DI DISSENSO!


Dopo la rinuncia del Papa alla Sapienza e la militarizzazione della città universitaria in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, il tema della laicità fra conoscenza e religione, stato laico ed istituzioni religiose, libertà di espressione ed oscurantismo.
La rinuncia di Papa Benedetto XVI a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università “Sapienza” non è stata determinata da motivi di salute né di sicurezza (come ha subito affermato il Ministero degli Interni), bensì di OPPORTUNITA’ POLITICA. Nessuno ha impedito al Papa di parlare, né gli studenti contestatari né i 67 docenti di fisica firmatari della lettera rivolta al Rettore Guarini, che al contrario hanno liberamente espresso il loro dissenso nei confronti di una scelta, quella del Rettore, pericolosa per la difesa del carattere pubblico e laico dell’università e del sapere in generale.
Ma la contrarietà degli studenti e delle studentesse non si limitava alla presenza di un capo religioso all’inaugurazione dell’anno accademico. Riteniamo infatti che Joseph Ratzinger non sia solo un capo religioso, bensì un capo politico. La Chiesa Cattolica negli ultimi anni ha manifestato un’evidente svolta reazionaria, la sua ingerenza nella sfera politica e nelle libertà di scelta individuali è diventata pericolosa ed insopportabile. Per questo gli studenti e le studentesse, donne, gay e lesbiche, rifiutavamo la presenza del Papa nei luoghi di libera formazione e la avrebbero contestata qualora fosse avvenuta.
Ed invece Benedetto XVI si è sottratto alle critiche, alle voci di dissenso. L’immenso potere Vaticano ha creato un enorme caso mediatico volto a demonizzare e ad etichettare come “intollerante” ogni voce critica. La mattina dell’inaugurazione, alla quale erano comunque presenti Mussi e Veltroni, l’università è stata chiusa come spazio pubblico, presidiata da migliaia di agenti delle forze dell’ordine in assetto antisommossa. Guarini, Mussi e Veltroni, dentro. La città universitaria deserta. Gli studenti e le studentesse chiusi fuori e circondati da scudi e manganelli.
Di fronte a questo non possiamo non porci una domanda: chi è integralista? Gli studenti ed i professori dissidenti o una Chiesa che non paga l’ICI, una Chiesa che nega diritti alle donne e agli omosessuali, che pretende soldi statali per università confessionali, che vieta gli anticoncezionali favorendo così la trasmissione di malattie (anche letali come l’AIDS), che rifiuta l’aborto paragonandolo alla pena di morte, che assume atteggiamenti omertosi con i tanti preti accusati di pedofilia, che nega la libertà di pensiero, di ricerca, di fare scienza, che pone la fede innanzi alla ragione, che nega il pensiero Darwinista evoluzionista, nega il metodo scientifico e pretende di far apparire come scienza una teoria creazionista?
Riteniamo comunque che tutta questa vicenda abbia determinato un’importantissima vittoria per chi, quotidianamente, si oppone all’ingerenza Vaticana nella sfera pubblica e privata di questo paese. E’ stata la vittoria di un’Università nella quale sviluppare un libero pensiero e fare della libera ricerca; è stata la vittoria della ragione sulla fede, della scienza sulla teologia. E` stata la vittoria dei tanti soggetti oppressi dagli integralismi religiosi, la vittoria di chi rifiuta ed ogni giorno combatte le strutture patriarcali borghesi.
E’ stata una vittoria importantissima per il rilancio delle lotte e la difesa dei diritti di noi tutti e tutte, specialmente oggi che si torna prepotentemente a mettere in discussione l’aborto.
Perché essere anticlericali oggi è un dovere, oltre che un diritto!
Alla luce di questi avvenimenti è altresì importante mantenere vivo un ampio dibattito, libero e di opposizione alle strumentalizzazioni dei media e quindi dell’ideologia dominante. Per questo, come Giovani di Sinistra Critica, organizziamo una tavola rotonda sul tema della laicità, che sappia ricostruire la cronologia dei fatti che hanno portato alla rinuncia del Papa, che sappia dare una lettura politica e reale degli avvenimenti e che entri nello specifico dei rapporti che intercorrono fra conoscenza e religioni, stato laico ed istituzioni religiose e quindi lotta alle strutture patriarcali, per la difesa e le conquista dei diritti.

Anche noi “cattivi maestri”
APPELLO DI SOLIDARIETÀ CON I COLLEGHI (E GLI STUDENTI) DELLA “SAPIENZA” DI ROMA

A proposito dei fatti relativi alla rinuncia di papa Benedetto XVI alla visita e al discorso all’Università Sapienza di Roma, in occasione della solenne inaugurazione dell’anno accademico, i sottoscritti, docenti, ricercatori e studiosi in formazione negli atenei italiani e nelle altre istituzioni scientifiche, esprimono la più ferma e convinta solidarietà ai colleghi sottoposti nelle ultime giornate a un linciaggio morale, intellettuale e persino politico, senza precedenti. Noi firmatari di questo Appello di solidarietà affermiamo che ci saremmo comportati come i 67 docenti della Sapienza, in nome della libertà della ricerca e della scienza. Se essi sono “cattivi maestri”, come più d’uno li ha bollati, ebbene, lo siamo anche noi. L’invito al papa in occasione dell’apertura dell’anno accademico costituisce offesa al sapere scientifico, ovvero un esecrabile cedimento nei confronti di un preteso principio d’autorità.
I colleghi della Sapienza, lungi dall’“impedire al papa di parlare” hanno semplicemente contestato l’opportunità di far inaugurare l’anno accademico – ossia il momento più solenne nella vita di un ateneo – da un capo religioso, e nel contempo capo di Stato straniero, confessionale. Tanto più che trattasi di un papa che ha espresso in reiterate occasioni l’idea che la ragione non possa che essere subordinata alla fede, la scienza alla religione, e ha assunto gravi prese di posizione che, mentre smantellano la Chiesa del Concilio Vaticano II, costituiscono continue, pesanti ingerenze nella sfera delle istituzioni politiche nazionali, dalle quali non sono giunte, generalmente, le opportune risposte.
In ogni caso, la protesta dei colleghi non contro Benedetto XVI era diretta, ma innanzi tutto contro l’autorità accademica che ha commesso la leggerezza di invitare un’autorità religiosa a una cerimonia che deve essere rigorosamente laica; tanto più sbagliato, il gesto del rettore della Sapienza, in quanto ormai l’Italia è un Paese multietnico e multireligioso e ciò nonostante un regime concordatario, obsoleto anche nelle sue revisioni, che continua a privare le scuole pubbliche non universitarie della possibilità di un approccio comparativo al mondo delle religioni assegnando invece la priorità esclusiva all’insegnamento della religione cattolica. E il papa di Roma rappresenta soltanto una parte dell’opinione pubblica, anche di quella aderente a una fede religiosa.
Si aggiunga l’atteggiamento di vera e propria subalternità mostrata dalle autorità accademiche, di concerto con quelle ecclesiastiche, e dal coro mediatico che ne ha accompagnato le scelte: inaccettabile, ovviamente, era la pretesa che a Ratzinger fosse riservata una zona franca, in cui le espressioni di dissenso dovessero essere impedite, quasi forme di delitto di lesa maestà.
Noi sottoscritti, davanti alla campagna mediatica in atto, esprimiamo la più vibrata protesta e la più ferma preoccupazione per le parole che abbiamo letto e ascoltato in questi giorni, in un penoso unanimismo di testate giornalistiche e di forze politiche. Ci impegniamo, accanto ai colleghi della Sapienza e di tutti gli studiosi e gli studenti che con rigore e passione lavorano, e studiano, nelle istituzioni universitarie e scientifiche italiane, a lottare, con la fermezza e la costanza necessaria – ben oltre questo episodio – perché venga salvaguardato, in un Paese che sembra voler pericolosamente regredire all’epoca del “papa re”, la libertà della ricerca scientifica, in ogni ambito, da ipoteche fideistiche e da nuovi e vecchi princìpi d’autorità.

Torino, 16 gennaio 2008

Angelo d’Orsi (prof. Storia del pensiero politico, Università di Torino, presidente dell’Associazione Historia Magistra)

Post scriptum – Nella stessa data in cui il presente testo veniva redatto si consumava un fatto di gravità inaudita che ci riporta ai tempi peggiori della storia non solo repubblicana, ma del regime mussoliniano. Nella Commissione Cultura del Senato, si è soprasseduto sulla proposta di nomina del fisico Luciano Maiani – una delle massime autorità scientifiche nel campo – alla Presidenza del CNR, a causa della feroce opposizione da parte della minoranza di destra, per la quale il prof. Maiani è incompatibile con l'incarico essendo egli uno dei "67 della Sapienza". A maggior ragione, il nostro Appello deve essere considerato non soltanto un gesto di solidarietà con Maiani e i suoi e nostri colleghi, ma un momento di raccolta di quanti sono preoccupati per la triste involuzione della vita civile nel nostro Paese. Intendiamo – alcuni di noi, a partire dall’estensore dell’Appello – proporre d’altre iniziative, anche sulla base dei suggerimenti che giungeranno da parte dei firmatari, ai quali va il nostro ringraziamento, sperando che la loro firma (qualcuno all’ultimo l’ha ritirata “essendo sotto concorso”…), non debba costituire motivo di ricatto o peggio nelle loro carriere scientifiche e accademiche. (Ad’O)

Ultim’ora (1° febbraio 2008). Il fisico Maiani viene confermato, dal Consiglio dei Ministri, nella carica di presidente del CNR. Osiamo sperare che la mobilitazione che abbiamo contribuito a creare sia valsa a qualcosa. Ciò ci deve indurre a continuare la nostra azione, senza abbassare la guardia, davanti all’attacco clericale e oscurantista. (Ad’O)

www.historiamagistra.com

APPELLO promosso da Angelo d’Orsi (prof. Storia del pensiero politico, Università di Torino)
Lucia Delogu (prof. Diritto privato, Università Torino)
Tra gli aderenti (1479, alla data del 2 febbraio 2008)…
Aldo Agosti (prof. Storia contemporanea, Università di Torino)
Marco Aime (prof. Antropologia culturale, Università di Genova)
Mario Alcaro (prof. di Storia della Filosofia, Università della Calabria)
Pietro Amodeo (1° Ricercatore, Chimica Computazionale, Istituto di Chimica Biomolecolare, CNR, Napoli)
Pier Francesco Asso (prof. di Storia del pensiero economico, Università di Palermo)
Riccardo Badini (prof. Lingue e letterature ispanoamericane, Università di Cagliari)
Emma Baeri (già docente di Storia moderna, Università di Catania)
Marcello Balbo (prof. Urbanistica - Università IUAV di Venezia)
Edoardo Ballo (prof. di Logica, Università di Milano)
Giorgio Baratta (già prof. di Storia della filosofia, Univ. di Urbino)
Donatella Barazzetti (prof. Sociologia, Centro Women's Studies "M. Villa",Univ. della Calabria)
Sandro Barbera (prof. Letteratura tedesca, Università di Pisa)
Alessandro Barbero (prof. Storia Medievale, Università del Piemonte Orientale-Vercelli)
Silvano Belligni (prof. Scienza politica, Università di Torino)
Riccardo Bellofiore (prof. Economia monetaria, Università di Bergamo)
Aldo Bernardini (prof. Diritto internazionale, Decano Univ. Teramo, già Rettore Univ. Chieti)
Silvia Bernardini (prof. Lingua e traduzione inglese, SSLMIT, Università di Bologna)
Silvia Berti (prof. Storia dell'età dell'Illuminismo, Università “La Sapienza”, Roma)
Paolo Bertinetti (prof. Letteratura inglese, Preside Facoltà di Lingue, Università di Torino)
Carmen Betti (prof. Storia della pedagogia, Università di Firenze
Virginio Bettini (prof. Analisi e Valutazione Ambientale, Università IUAV, Venezia)
Piero Bevilacqua (prof. Storia Contemporanea, Università “Sapienza”, Roma)
Gianfranco Biondi (prof. Antropologia, Università dell'Aquila)
Alberto Blasi (prof. Fisica teorica, Università di Genova)
Luigi Bobbio (prof. Scienza politica, Università di Torino)
Pier Carlo Bontempelli (prof. Letteratura Tedesca - Università "G. d'Annunzio" Chieti-Pescara).
Derek Boothman (prof. Lingua e traduzione inglese, SSLMIT, Università di Bologna)
Anna Borghi (prof. Psicologia, Università di Bologna)
Gianfranco Borrelli (prof. Storia delle dottrine politiche, Università Federico II, Napoli)
Lionello Bortolotti (già prof. Ingegneria Strutturale, Università di Cagliari)
Nerina Boschiero (prof. Diritto internazionale, Università di Milano)
Michelangelo Bovero (prof. Filosofia politica, Università di Torino)
Anna Bravo (già prof. di Storia contemporanea, Università di Torino)
Gian Mario Bravo (prof. Storia del pensiero politico, Università di Torino)
Franco Buffoni (già prof. Critica letteraria e letterature comparate, Università di Cassino)
Massimo Bulgarelli (prof. Storia dell'architettura, Università Iuav di Venezia)
Alberto Burgio (prof. Storia della filosofia moderna, Università di Bologna)
Giuseppe Cacciatore (prof. Storia della Filosofia, Università di Napoli Federico II)
Giorgio Cadoni (già prof. Storia della filosofia politica, Università "Sapienza", Roma)
Dario Calimani (prof. Letteratura inglese, Università Ca’ Foscari di Venezia)
Franco Cambi (prof. Pedagogia generale e sociale, Università di Firenze)
Claudio Cancelli (prof. Fluidodinamica Ambientale, Politecnico di Torino
Eva Cantarella (prof. Diritto greco, Università di Milano)
Aldo Capasso (prof. Tecnologia dell'Architettura, Università di Napoli Federico II)
Riccardo Caporali (prof. Filosofia morale, Università di Bologna)
Marco Capurro (prof. Scienza delle costruzioni, Università di Genova)
Sandro Carocci (prof. Storia medievale, Università di Roma Tor Vergata)
Bruno Cartosio (prof. Storia dell’America del Nord, Univ. di Bergamo)
Sergio Caruso (prof. Filosofia delle scienze sociali, Università di Firenze)
Franco Cazzola (prof. Storia economica, Università di Bologna)
Paolo Ceccarelli (prof. Tecnica e Pianificazione Urbanistica, Università di Ferrara)
Anna Chiarloni (prof. Letteratura tedesca, Università di Torino)
Ileana Chirassi Colombo (prof. Storia delle Religioni, Università di Trieste)
Mario Cingoli (prof. Storia della filosofia, Università di Milano Bicocca)
Giacomo Cives (Emerito di Storia della Pedagogia - Università “Sapienza”, Roma)
Vittore Collina (prof. Storia delle dottrine politiche, Università di Firenze)
Piergiorgio Corbetta (prof. Sociologia, Università di Bologna)
Ferdinando Cordova (prof. Storia contemporanea, facoltà di Lettere, "Sapienza", Roma)
Gustavo Corni (prof. Storia contemporanea, Università di Trento)
Amedeo Cottino (già prof. Sociologia del Diritto, Università di Torino)
Gastone Cottino (Emerito di Diritto commerciale, Università di Torino)
Luciano Cova (prof. Storia della filosofia medievale, Università di Trieste)
Mauro Cristaldi (prof. Scienze naturali, Università “Sapienza”, Roma)
Roberto Cristiano (Fisico, Dirigente di Ricerca CNR - Istituto di Cibernetica E. Caianiello, Pozzuoli-NA)
Paolo Cristofolini (prof. Storia della Filosofia, Scuola Normale Superiore, Pisa)
Salvo D'Agostino (già prof. Storia della fisica, Università “Sapienza”, Roma)
Marco Dardi (prof. Economia politica, Università di Firenze)
Andreina De Clementi (prof. Storia contemporanea, Univ. L’Orientale, Napoli)
Andrea Deffenu (prof. Diritto costituzionale, Università di Cagliari)
Antonio Del Guercio (già prof. Storia dell'Arte contemporanea, Univ. di Firenze)
Federico Della Valle (prof. Fisica, Università di Trieste)
Giuseppe Dematteis (prof. Geografia urbana e regionale, Politecnico di Torino)
Fabio de Nardis (prof. Sociologia, Università del Salento)
Eva Desana (prof. Diritto commerciale, Università di Torino)
Alfonso Di Giovine (prof. Diritto costituzionale comparato, Università di Torino)
Susanna Dolci (prof. Anatomia, Università di Roma Tor Vergata)
Enrico Donaggio (prof. Filosofia della storia, Università di Torino)
Elisabetta Donini (già prof. di Fisica, Università di Torino)
Francesca Emiliani (prof. Psicologia sociale, Università di Bologna)
Antonio Erbetta (prof. Storia dell'educazione europea, Università di Torino).
Roberto Escobar (prof. Filosofia politica, Università di Milano)
Ugo Fabietti (prof. Antropologia, Università di Milano-Bicocca)
Nunzio Famoso (prof. Geografia, preside della Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Università di Catania)
Giorgio Fanò (prof. Fisiologia - Direttore Dipart. di Scienze
mediche di base ed applicate, Univ. "G. d'Annunzio" Chieti-Pescara)
Riccardo Faucci (prof. Storia del pensiero economico, Università di Pisa)
Paolo Favilli (prof. Storia Contemporanea e Teoria della conoscenza storica, Univ. di Genova)
Roberto Finelli (prof. Storia della filosofia, Università di Roma Tre)
Barbara Fois (prof. Storia medioevale, Università di Cagliari)
Daniele Foraboschi (prof. Storia romana, Università di Milano)
Giorgio Forti (Emerito, Facoltà di Scienze MFN, Università di Milano)
Paolo Francalacci (prof. Genetica, Università di Sassari)
Emilio Franzina (prof. Storia contemporanea, Università di Verona)
Elena Gagliasso (prof. Filosofia della scienza, Università “Sapienza”, Roma)
Luigi Galgani (prof. Fisica matematica, Università di Milano)
Luciano Gallino (Emerito di Sociologia, Università di Torino)
Luigi Ganapini (già prof. Storia contemporanea, Università di Bologna)
Daniele Garrone (Prof. di Antico Testamento, Facoltà Valdese di Teologia, Roma)
Bruna Giacomini (prof. Storia della filosofia, Università di Padova)
Paolo Giovannini (prof. Sociologia, Università di Firenze)
Elisabetta Grande (prof. Sistemi Giuridici Comparati, Università del Piemonte Orientale)
Massimo Grossi (prof. Analisi matematica, Università “Sapienza”, Roma)
Angelo Guerraggio (prof. Storia delle matematiche, Università dell'Insubria di Varese /Università "Bocconi" Milano)
Alfonso Maurizio Iacono (prof. Storia della filosofia, Università di Pisa)
Augusto Illuminati (prof. Storia della filosofia, Università di Urbino)
Girolamo Imbruglia (prof. Storia moderna, "L'Orientale" di Napoli)
Domenico Jervolino (prof. Ermeneutica e Filosofia del linguaggio, Univ. “Federico II”, Napoli)
Peter Kammerer (prof. Sociologia generale, Università di Urbino)
Chiara Lalli (docente di Logica e Filosofia della Scienza, "Sapienza", Roma)
Paolo Leonardi (prof. Filosofia del linguaggio, Università di Bologna)
Andrea C. Levi (prof. Fisica dei Solidi, Università di Genova)
Simon Levis Sullam (University of California, Berkeley)
Guido Liguori (Storia del pensiero politico contemporaneo, Univ. della Calabria)
Gigi Livio (già prof. Storia e arte del Cinema, Università di Torino)
Davide Lovisolo (prof. Fisiologia generale, Università di Torino)
Adriana Luciano (prof. Sociologia del Lavoro, Direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Torino)
Romano Luperini (prof. Letteratura italiana contemporanea, Università di Siena)
Salvatore Lupo (prof. Storia contemporanea, Univ. di Palermo)
Alberto Magnaghi (prof. Pianificazione Territoriale, Università di Firenze)
Paola Manduca (prof. Genetica DiBio, Università di Genova)
Brunello Mantelli (prof. Storia contemporanea, Univ. di Torino)
Franco Marenco (prof. Letterature Comparate, Università di Torino)
Franco Marenco (Ricercatore dell'ENEA, Palermo)
Guido Martinotti (prof. Sociologia Urbana, Università di Milano-Bicocca)
Marcello Massenzio (prof. Storia delle religioni, Università di Roma Tor Vergata)
Massimo Mastrogregori (prof. Storia della storiografia, Università di Roma “Sapienza”)
Ugo Mattei (prof. Diritto civile, Università di Torino)
Marco Mazzoleni (prof. Linguistica italiana,Vicedirettore SSLMIT, Univ. di Bologna - Sede di Forlì)
Alessandro Mazzone (già docente di Filosofia della Storia, Università di Siena)
Antonio Melis (prof. Letterature ispanoamericane, Università di Siena)
Lodovico Meneghetti (già prof. di Urbanistica, Politecnico di Milano)
Maria Grazia Meriggi (prof. Storia contemporanea, Università di Bergamo)
Sandro Mezzadra (prof. Storia dottrine politiche, Università di Bologna)
Fabio Minazzi (prof. Filosofia teoretica, Università del Salento)
Rolando Minuti (prof. Storia moderna, Univ. di Firenze)
Raul Mordenti (prof. Critica letteraria, Università di Roma Tor Vergata)
Simone Neri Serneri (prof. Storia contemporanea, Università di Siena)
Giuseppe Nicoletti (prof. Letteratura italiana, Università di Firenze)
Lucio Nitsch (prof. Biologia, Università di Napoli Federico II)
Piergiorgio Odifreddi (prof. Matematica, Università di Torino)
Marina Paladini Musitelli (prof. Letteratura italiana, Università di Trieste)
Andrea Panaccione (prof. Storia contemporanea, Università di Modena e Reggio Emilia)
Luisa Passerini (prof. Storia contemporanea, Università di Torino)
Carla Perrone Capano (prof. Fisiologia, Università di Napoli "Federico II")
Armando Petrucci (Emerito di Paleografia latina, Scuola Normale Superiore di Pisa)
Paola Pierobon (neurobiologa, prof. Istituto di Cibernetica, CNR)
Davide Pinardi (prof. Scrittura narrativa, Accademia di Brera, Milano)
Antonio Pioletti (prof. Filologia romanza, Università di Catania)
Rossana Platone (già prof. Lingua e Letteratura russa, Università di Milano)
Valerio Pocar (prof. Sociologia del diritto, Università di Milano-Bicocca)
Filippomaria Pontani (prof. Filologia Classica, Università "Ca' Foscari" di Venezia)
Gianni Pozzi (prof. Microbiologia, Università di Siena)
Regina Pozzi (prof. Storia contemporanea, Università di Pisa)
Giuseppe Prestipino (già prof. di Filosofia, Università di Siena)
Antonio Prete (prof. Letterature comparate, Unversità di Siena)
Giovanna Procacci (prof. Sociologia, Università di Milano)
Giovanna Procacci (prof. Storia contemporanea, Università di Modena e Reggio Emilia)
Enrico Pugliese (Direttore Irpps-CNR, Roma)
Grazia Pulvirenti (prof. Letteratura Tedesca, Università di Catania)
Luigi Quartapelle (Dipartimento d'Ingegneria Aerospaziale, Politecnico di Milano)
Dario Ragazzini (prof. Storia dell'educazione, Università di Firenze)
Paolo Ramat (Responsabile della classe di Scienze Umane, IUSS, Pavia)
Giuseppe Ugo Rescigno (prof. Istituzioni di diritto pubblico, Università “Sapienza”, Roma)
Giuseppe Ricuperati (prof. Storia moderna, direttore “Rivista Storica Italiana”, Università di Torino)
Annamaria Rivera (prof. Discipline Demoetnoantropologiche, Università di Bari)
Francesca Rizzo Nervo (prof. Letteratura greca medievale, Università di Catania)
Giorgio Rochat (già prof. di Storia contemporanea, Università di Torino)
Bernardo Rossi Doria (prof. Urbanistica, Università di Palermo)
Anna Ruffilli (biologa, già Direttore di ricerca Istituto di Genetica A. Buzzati Traverso, CNR, Napoli)
Paride Rugafiori (prof. Storia contemporanea, Università di Torino)
Fulvio Salimbeni (prof. Storia contemporanea, Università di Udine)
Giampasquale Santomassimo (prof. Storia contemporanea, Univ. di Siena)
Antonio Santoni Rugiu (prof. Storia della Pedagogia, Università di Firenze)
Franco Sbarberi (prof. Filosofia politica, Università di Torino)
Romano Scozzafava (prof. Calcolo delle Probabilità, Roma, Università "Sapienza")
Giuseppe Sergi (prof. Storia medievale, Università di Torino)
Edoardo Sernesi (prof. Geometria, Università Roma Tre)
Lucio Sibilia (prof. Psichiatria, Università “Sapienza”, Roma)
Amalia Signorelli (prof. f.r. Antropologia culturale, Università di Napoli "Federico II")
Francesca Sofia (prof. Storia delle istituzioni politiche, Università di Bologna)
Simonetta Soldani (prof. Storia contemporanea, Univ. di Firenze)
Pier Giorgio Solinas (prof. Antropologia culturale, Università di Siena)
Giorgio Stockel (prof. Disegno, Fac. di Architettura “L. Quaroni”, Roma, “Sapienza”)
Magda Talamo (prof. Sociologia, Università di Torino)
Franco Tassinari (prof. f.r., Statistica economica, Università di Bologna)
Tullio Telmon (prof. Dialettologia Italiana, Università di Torino)
Settimo Termini (prof. Cibernetica, Università di Palermo)
Giorgio Testa (già prof. Disegno dell'Architettura, Università di Roma "La Sapienza")
Mario Tiberi (prof. Politica economica, Università di Roma “Sapienza”)
Marisa Tortorelli (prof. Storia delle Religioni, Università di Napoli Federico II)
Nicola Tranfaglia (Emerito di Storia dell’Europa, Università di Torino)
Angelo Trento (prof. Storia dell’America Latina, Università di Napoli "L'Orientale")
Gabriele Turi (prof. Storia contemporanea, Univ. di Firenze)
Mario Vadacchino (prof. Dipartimento di Fisica, Politecnico di Torino)
Fausto Vagnetti (prof. Astrofisica, Universita` di Roma Tor Vergata)
Luciano Vasapollo (prof. Statistica aziendale, Università “Sapienza”, Roma)
Gianni Vattimo (prof. Filosofia teoretica, Università di Torino)
Sebastiano Vecchio (prof. Semiotica, Università di Palermo)
Claudio Venza (prof. Storia della Spagna contemporanea, Università di Trieste)
Fabio Vianello (prof. Biofisica, Università di Padova)
Carlo Augusto Viano (Emerito di Storia della filosofia, Università di Torino)
Mario Vietri (prof. Astrofisica, SNS, Pisa)
Giuseppe Vitiello (prof. Fisica teorica, Università di Salerno)
Pasquale Voza (prof. Letteratura italiana, Università di Bari)
Anita J. Weston (Letteratura inglese, Libera Università San Pio V, Roma)
J. Stuart Woolf (prof. Storia Contemporanea, Univ. Ca' Foscari, Venezia)
Luciano Zannotti (prof. Diritto canonico e ecclesiastico, Università di Firenze)
Ettore Zerbino (già prof. Facoltà di Medicina, Università Cattolica di Roma)
Massimo Zucchetti (prof. Impianti Nucleari, Politecnico di Torino)

Per ulteriori adesioni inviare email a:
g.galilei2008@gmail.com
specificando, oltre a nome e cognome, disciplina e sede istituzionale.
Le adesioni saranno aggiornate sul sito www.historiamagistra.com

Ultimo aggiornamento: 2/02/2008, alle ore 20,00
Corriere della Sera 6.2.08
Ciak La storia del figlio segreto del dittatore, riprese prima dell'estate
Il film di Bellocchio su Mussolini: Timi fa il Duce, Albanese nel cast

Vincere, il nuovo film di Marco Bellocchio sulla vera storia del figlio segreto di Mussolini, avrà per protagonisti Filippo Timi (nel ruolo del Duce) e Antonio Albanese in quello di suo cognato. Ancora segreti i nomi di chi interpreterà il figlio e dell'attrice che sarà la donna che divise con il futuro dittatore i primi passi nella carriera politica e poi fu internata per non creare scandalo. «Ma contiamo di sciogliere il mistero nelle prossime settimane», confida Bellocchio che inizierà le riprese prima dell'estate in Trentino.
«Pur partendo da basi reali - prosegue il regista - seguirò un percorso personale cercando di non violare la storia pur modificando alcuni aspetti. Il personaggio di questa donna mi ha profondamente commosso, mi appassiona anche ritornare ad un tempo in cui si consumò il "tradimento politico" del duce e il suo abbandono degli ideali socialisti».
Nel frattempo esce, distribuito dall'Istituto Luce e da General Video, un cofanetto di dvd «I capolavori di Marco Bellocchio» che comprende quattro titoli fondamentali delle sua cinematografia: In nome del padre, La condanna, Il principe di Homburg, e
La balia, cui si aggiungono due materiali documentari come
Addio del passato omaggio di Bellocchio alla sua passione per la lirica e Stessa rabbia, stessa primavera di Stefano Incerti, girato sul set di
Buongiorno notte. «Non sose sia vero il detto che un regista fa sempre lo stesso film - dice Bellocchio - ma certo negli anni la mia fantasia ha seguito un percorso con molte svolte, sicché, ad esempio, oggi non saprei più rifare I pugni in tasca
e mi pesa l'etichetta di eterno arrabbiato, che dagli esordi mi vien dietro e a cui si è collegato anche Incerti nel suo pur bel lavoro documentario ». (g. ma.)

l’Unità 6.2.08
La «Cosa rossa» chiede un’alleanza al Pd
Lista unica, Bertinotti candidato premier. Pecoraro: vogliamo un confronto programmatico
di Maria Zegarelli

SINISTRA UNITA Torneranno i gazebo nelle piazze d’Italia, stavolta ad allestirli sarà la Cosa rossa, Sinistra Arcobaleno, che chiamerà gli elettori a pronunciarsi il 23 e il 24 febbraio sul programma elettorale. Ieri sera i quattro leader degli altrettanti partiti che
formeranno la nuova sigla di sinistra hanno dato il via definitivo alla lista unica e ad un unico simbolo alle prossime elezioni. «scelta irreversibile», dice il segretario di Rc, Franco Giordano. «ma lanciamo una sfida al Pd», aggiunge Alfonso Pecoraro Scanio, dei Verdi, «chiedendo a Veltroni un incontro programmatico». Se il tentativo fallirà, il candidato premier sarà Fausto Bertinotti. «Il pd è prima partito con gli squilli di tromba con l’annuncio di andare da solo, poi ha aggiunto la discriminante programmatica. Bene, ora noi andiamo a vedere le carte in tavola».
Dunque, Giordano, Pecoraro Scanio, Oliviero Diliberto e Fabio Mussi, sembrano aver superato le divisioni che ancora fino a l’altro ieri lasciavano molti dubbi sull’esito dell’incontro.
Qualche nodo da sciogliere ancora resta, e non è detto che siano questioni marginali: dal programma che dovranno siglare al simbolo, su cui la riserva si scioglierà entro le prossime 48 ore, fino al ticket uomo-donna lanciato dal presidente della Camera. «Le modalità sono ancora in discussione», al riguardo, puntualizza Mussi. Quattro simboli sotto un unico simbolo oppure un unico segno grafico a distinguere la sinistra? Il Pdci vorrebbe la falce e il martello, Sd guarda con perplessità, «evitiamo di fare ca...te», avverte Cesare Salvi, mentre per Pecoraro Scanio si parte «dal simbolo presentato all’Assemblea generale». I sondaggi commissionati hanno evidenziato che ciò che attrae non è tanto il simbolo di ogni partito quanto la parola «sinistra» che farebbe raccogliere a Sinistra arcobaleno oltre il 4% della somma dei voti che i partiti raccolgono separatamente. Il quadro si delineerà soltanto dopo l’incontro con il sindaco di Roma, una scelta, quest’ultima, determinata dalla necessità di fare un ultimo tentativo per cercare di convincere il segretario del Pd «che andare separati vuol dire consegnare il paese al Cavaliere», anche se «è certo fin d’ora che noi non firmeremo i programmi di alcuno - dice Manuela Palermi, del Pdci - perché ne faremo uno nostro che parla alla gente di sinistra». Ma dato «che siamo una forza responsabile - spiega Franco Giordano al termine dell’incontro - siamo determinati a fare una verifica politica-programmatica con il Pd, in maniera stringente perché i tempi sono brevi».
Si pensa comunque alle varie ipotesi su cui lavorare: «Potremmo pensare a un accordo tecnico per il Senato - spiega Gennaro Migliore, capogruppo Rc alla Camera - spiegando in maniera chiara agli elettori che si tratta di un meccanismo per impedisce a Berlusconi di prendere il premio di maggioranza in ogni regione». «Potrebbe verificarsi - aggiunge Palermi - anche una convergenza su alcuni punti del programma con il Pd». «Noi non vogliamo riconsegnare l’Italia a Berlusconi - ragiona il ministro dimissionario dei Verdi - e se il centro sinistra andrà diviso Berlusconi vince, il Pd se ne assuma la responsabilità». Anche Diliberto propone «una nuova alleanza di centro sinistra», ma se non fosse possible, «andremo da soli».

Repubblica 6.2.08
La Sinistra al Pd: 48 ore per trattare
"Tentiamo un´intesa". Però Bertinotti prepara le sfide in tv
di Umberto Rosso

Lite sulla falce e martello nel simbolo. No dei Verdi. Diliberto: vale due punti

ROMA - Si preparava a calibrare la presenze, una partecipazione mirata in campagna elettorale per sostenere le candidature di prestigio della Cosa rossa. E invece, da alcuni giorni, sul tavolo di Fausto Bertinotti i piani sono ben altri. Perché, appesa al chiodo la giacca di presidente della Camera, non si calerà affatto nei panni del nonno ma in quelli di candidato premier della Sinistra. Prima mossa: dalla prossima settimana uscita a raffica nei talk-show di prima serata, non più frenato dal ruolo istituzionale (niente confronti) ma gettandosi nel vivo dell´arena politica, inseguendo e cercando i faccia a faccia. Qui l´ex segretario del Prc sa di poter giocare le sue carte migliori, ne farà terreno privilegiato della campagna, convinto di poter vincere davanti le telecamere i duelli con Veltroni e Berlusconi, due guru della comunicazione.
Rimettendo, in ogni caso, il suo marchio sulla creatura rosso-verde anche per il futuro, perché sarà difficile dopo il voto sganciare il treno Bertinotti-Cosa rossa, anche se a chi gli parlato in queste ore il presidente della Camera continua ad assicurare che «questa è la mia ultima campagna elettorale in prima fila, e comunque quale che sia il risultato non ho alcuna intenzione di fare il leader del nuovo partito». Intanto, dopo il via libera ieri sera del vertice dei quattro segretari, la nuova avventura è praticamente cominciata. C´è stata qualche resistenza, nell´incontro. Quelli di Sd di fronte al ticket Bertinotti-Francescato hanno sollevato un dubbio di "genere": perché una donna solo come vice e non numero uno? Interrogativo per la verità, così è apparso a Giordano, Diliberto e Pecoraro, che rientra nella campagna "rivendicativa" di Sd, destinato a dissolversi rapidamente nel corso delle consultazioni dei prossimi giorni. Più precisamente nel giro di 48 ore - è il paletto voluto soprattutto dal Prc - quando dal previsto incontro fra Veltroni e Cosa rossa si accerterà che non sussistono le condizioni per l´«accordo programmatico» invocato da Fabio Mussi. Fallita l´esplorazione, la lista della sinistra prende corpo e Bertinotti riceve l´investitura. E la discesa in campo del presidente della Camera potrebbe alla fine risolvere la telenovela che ancora fa litigare i segretari, i simboletti dei partiti nel logo Sinistra-Arcobaleno. I Verdi al vertice si sono presentati con un sondaggio, «la falce e martello ci penalizza, andiamo meglio senza». Oliviero Diliberto ha spiegato che, «se la vogliamo mettere sul piano del marketing», è esattamente il contrario, il marchio del comunismo è una dote di almeno due punti, e a quel punto si è tenuto tutte le porte aperte, «compreso l´andare da soli». Risultato: partirà un ulteriore sondaggio per verificare l´appeal di falce e martello nell´operazione lista unica. Ma proprio nel nome, letteralmente, di Bertinotti potrebbe risolversi la querelle: ovvero, con l´indicazione del candidato premier nel simbolo della Sinistra, mettendo da parte a quel punto tentazioni grafiche d´altri tempi. Alle quali del resto il presidente della Camera che sognava di fare il nonno non ha alcuna intenzione di legare la sua nuova avventura.

l’Unità 6.2.08
Caso Papa-La Sapienza: 1500 firme per la laicità
Continuano ad arrivare adesioni all’appello alla laicità, lanciato da quasi 1.500 docenti di diversi atenei italiani per mostrare solidarietà ai 67 professori e agli studenti dell’università «La Sapienza» di Roma «sottoposti nelle ultime giornate a un linciaggio morale, intellettuale e persino politico, senza precedenti», dopo la protesta all’annunciata partecipazione di Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico nell’ateneo romano, evento a cui il Papa ha rinunciato dopo le contestazioni. Oggi alla «Sapienza» si terrà un dibattito sulla laicità nella facoltà di Giurisprudenza, a cui intervengono, tra gli altri, Angelo d’Orsi, docente a Torino di Storia del pensiero politico, e Carlo Cosmelli, uno dei Fisici firmatari della lettera dei 67. Tra i «cattivi maestri», come si sono definiti essi stessi, ci sono nomi illustri: il filosofo Gianni Vattimo, il matematico Piergiorgio Odifreddi, lo storico Nicola Tranfaglia e Luigi Bobbio (figlio di Norberto). «Noi firmatari di questo appello di solidarietà - si legge nel documento firmato dai 1.500 docenti - affermiamo che ci saremmo comportati come i 67 docenti della Sapienza, in nome della libertà della ricerca e della scienza. Se essi sono “cattivi maestri”, come più d’uno li ha bollati, ebbene, lo siamo anche noi».

l’Unità 6.2.08
Embrione con «tre» genitori contro le malattie ereditarie
Newcastle, usato il Dna di un uomo e quello di due donne. Così erano già nati 30 bimbi ma la tecnica ora è migliore
di Pietro Greco

Un gruppo di ricercatori inglesi della Newcastle University ha annunciato di aver sviluppato in laboratorio un embrione umano mediante trasferimento di nucleo che, una volta messo a punto, potrebbe dare la possibilità di avere figli sani anche a donne portatrici di malattie mitocondriali.
La tecnica non è qualitativamente diversa da una clonazione per trasferimento di nucleo, se non fosse per il fatto che il nucleo in questo caso è prelevato da un embrione a sua volta appena fecondato e non da una cellule adulta.
L’embrione umano ottenuto a Newcastle contiene il Dna di tre persone, quello del padre, della madre «nucleare» e della madre «mitocondriale». Ma forse è esagerato dire che ha «tre genitori». Vediamo perché.
Non è la prima volta, in realtà, che nascono bambini con Dna provenienti da due madri differenti. Già alla fine degli anni ‘90 erano nati infatti e vivono tutt’oggi, tra cui un bimbo di Torino di nome Alessandro, bambini con Dna mitocondriale diverso da quello nucleare. In quei casi però nelle cellule embrionali con Dna mitocondriale «malato» erano stati iniettati mitocondri sani donati da donne diverse dalla madre. La tecnica oggi è completamente diversa. I mitocondri malati semplicemnete non ci sono più. I ricercatori inglesi hanno prelevato il nucleo da una cellula di un embrione anormale ottenuto secondo i metodi classici della fecondazione in vitro, con il Dna del papà e il Dna della madre (chiamiamola la madre A). Lo hanno poi inserito, come avviene ormai tradizionalmente anche nella clonazione per trasferimento di nucleo, nel Dna di un ovulo prelevato da una donna (diversa dalla madre dell’embrione, la chiamiamo madre B) privato del proprio nucleo. In questa cellula uovo è rimasto, ovviamente, il Dna della madre B. L’embrione si è poi sviluppato normalmente, fino al sesto giorno. Poi lo sviluppo è stato interrotto.
Da test effettuati successivamente si è potuto appurare che i Dna della madre A e della madre B non si sono contaminati. Ovvero il Dna nucleare appartiene tutto alla madre A (e al papà) e il Dna mitocondriale tutto alla madre B.
I due Dna sono incommensurabili. E non solo per le diverse dimensioni: il Dna contenuto nel nucleo è composto da circa 3 miliardi di unità (basi nucleotidiche, dicono i biochimici), mentre il Dna nei mitocondri non ne contiene che 16.000 circa. Ma anche per diversità funzionali. Il Dna nucleare, che proviene sia dalla madre che dal padre, contiene le «istruzioni» che determinano il fenotipo (in altre parole, i nostri caratteri macroscopici). Il Dna mitocondriale si trasmette solo per linea materna e contiene le istruzioni per mandare avanti quella «fabbrica di energia biochimica» che sono i mitocondri. Ecco perché non è esatto dire che l’embrione di Newcastle ha un padre e due madri. In realtà ha un padre e una madre come tutti gli embrioni, e cellule con centrali energetiche istruite da una «terza persona».
Ma, al di là dei problemi di definizione, perché è importante l’esperimento di Newcastle? Per due motivi. Uno, per così dire, immediato. E l’altro di prospettiva. Il motivo immediato è che esso conferma come la tecnica del trasferimento di nucleo stia facendo grandi passi avanti. La tecnica viene utilizzata con efficacia crescente in diverse modalità e offre nuove opportunità alla ricerca scientifica sugli embrioni.
In prospettiva potrebbe essere applicata nella clinica medica. In questo caso, consentirebbe a una donna portatrice di malattie genetiche di origine mitocondriale di avere figli sani, proprio perché il nucleo tratto dal proprio ovulo fecondato potrebbe essere fatto sviluppare nella cellula uovo di una donna ospite con il Dna sano. Le malattie genetiche di origine mitocondriale conosciute sono circa cinquanta e affliggono, in media, un neonato ogni 6.500. Naturalmente occorreranno molti ulteriori studi prima che l’esperimento di Newcastle possa essere applicato in medicina. E occorrerà, anche, superare la discussione etica. Perché questa tecnica propone tutti i problemi di intervento sugli embrioni che a molti appaiono come un passaggio necessario per curare gravi malattie e ad altri come inaccettabili manipolazioni a carattere eugenetico. «Noi tuttavia pensiamo - ha detto Patrick Chinnery, capo dell’equipe di Newcastle - che in futuro famiglie con genitori portatori di malattie genetiche possano sperare di non trasmetterle ai loro figli».

Corriere della Sera 6.2.08
«Ingegneria genetica? Dico sì se fa nascere bimbi senza malattie»
di Umberto Veronesi

La scoperta degli scienziati inglesi, al di là della validità della sua applicazione alla cura, che al momento non possiamo valutare, deve far riflettere su come stiamo affrontando l'immenso potenziale della ricerca sul Dna.
Ogni volta che si annuncia un passo avanti in questo campo, si alzano infatti automaticamente le barriere delle posizioni preconcette e dei no di principio. E così il dibattito soffoca nello scontro ideologico, invece di animarsi attorno al vero problema di ogni ricerca scientifica: il suo obiettivo. Non ci può essere una ricerca buona in sé o malefica in sé, ma piuttosto una finalità buona o malefica, o meglio morale o immorale. In altre parole bisogna interrogarsi sul significato etico della scienza, senza dare per scontata la cattiva leggenda dello scienziato inconsapevole degli effetti delle sue azioni.
Distinguiamo innanzitutto la scienza dalla tecnologia; la tecnologia segue acriticamente le regole del mercato, cioè si impegna comunque a fornire ciò che viene richiesto, senza porsi il problema del perché. La scienza invece segue dei principi che sono: universalità, obiettività, riproducibilità dei risultati e ricerca della verità. E ha una finalità precisa che è quella di migliorare costantemente le condizioni di vita dell'umanità. La scienza tende al bene e ciò che dobbiamo valutare è se ciò che viene fatto in suo nome corrisponde al suo fine. Se l'ingegneria genetica ha lo scopo di evitare malattie in un bambino che ancora deve nascere oppure di curare patologie gravi e mortali, allora non può che essere giudicata positivamente. Ciò che dobbiamo evitare è la mancanza di finalità, vale a dire che qualche genetista esaltato giochi a creare nuovi organismi per il solo gusto della sperimentazione. Certo, per valutare eticamente la scienza bisogna superare alcuni tabù. Prima di tutto la convinzione che il Dna sia sacro e intoccabile. In realtà questo è già stato superato di fatto, poiché oggi il Dna si mischia e si ricombina nelle piante, nei vaccini, nei farmaci. Dunque scagliarsi contro l'intervento dell'uomo sul Dna è antistorico, ma assicurarsi che gli obiettivi scientifici siano morali è sacrosanto. Domandiamoci se di fronte alle pressoché infinite possibilità della genetica conviene buttare tutto al macero oppure lavorare sull'etica degli scienziati. Io credo che buttare al macero in nome di una chiusura ideologica, qualsiasi essa sia, non faccia il bene di nessuno: né dei malati, che dalla genetica si aspettano la cura anche per quelle malattie che oggi non possiamo sempre curare; né della popolazione sana che è consapevole di poter proteggere la propria salute e soprattutto quella dei propri figli, anche quelli che ancora devono nascere; né dei governi, che devono pensare allo sviluppo futuro di un intero Paese in linea con il resto del mondo. Meglio allora lavorare sull'etica della scienza. Ma come? Io ho proposto da anni di creare un organismo super partes, una sorta di Authority all'inglese, una Camera Alta composta dalle principali componenti di pensiero della società (giuristi, filosofi, sociologi, scienziati) che abbia l'incarico di valutare i progressi scientifici proprio in relazione alle loro ricadute sociali. In mancanza di questo saremo condannati a consumare i nostri dibattiti sui media, ascoltando chi urla più forte.

Corriere della Sera 6.2.08
Il filosofo «Da una parte e dall'altra vedo certezze brandite come spade. Dobbiamo prendere sul serio quello che ci dicono gli scienziati»
Veca: si può vietare, ma scongiuriamo le crociate
di Gian Guido Vecchi


Professore, qual è la sua prima reazione da genitore, da nonno?
«Penso sia una cosa che richiede anche a me una riflessione. E che sia un fatto di civiltà prendere sul serio le posizioni diverse dalle mie, discutere con altri che hanno idee diverse. Anche perché sennò sarebbe noiosissimo ». Il filosofo laico Salvatore Veca ritiene «irrinunciabile» la libertà di ricerca e tuttavia pensa che una società possa anche decidere di «scartare, fino a prova contraria, determinate applicazioni scientifiche». Il problema è di metodo: «Non troverei nulla di spaventoso nell'arrivare all'idea che questa tecnica non va bene, non si fa. Ma vorrei ci fosse un percorso...».
Quale, professore?
«L'esatto contrario di ciò che succede in questi casi: crociate, certezze irrevocabili da una parte e dall'altra. Vede, è la storia della stanza d'albergo di Marcel Proust: talvolta la sentiva nemica, avvertiva qualcosa fuori posto, e se ne andava».
Siamo come Proust?
«Sì, il disagio bioetico funziona così: nella nostra vita quotidiana irrompono possibilità che prima non c'erano, stravolgono le nostre abitudini e ci procurano incertezza. Siamo sempre un passo indietro rispetto a noi stessi. Nessun uomo è un'isola, diceva John Donne: e invece noi ci troviamo soli, privi di nuovi criteri da condividere con altri».
Già, ma che ci siano due genitori e non tre o uno, più che un'abitudine è un dato biologico, no?
«Certo, ma la questione va soppesata. Immaginiamo che funzioni, che un bambino abbia il retaggio genetico dei due genitori salvo che non è destinato ad ammalarsi per il contributo di una secondo donna. Sarebbe un male? Sicuri?».
Il timore è anche che si arrivi a pratiche eugenetiche...
«Vero, il problema del piano inclinato: dove si va a finire? Ci possono essere dei limiti, ad esempio la Carta di Nizza tutela la dignità delle persone».
Quindi che si fa?
«Anzitutto c'è un problema di verifica, riguardo alle "scoperte" circolano un sacco di bufale. Dopodiché dobbiamo ascoltare i giudizi della cittadinanza, cioè di tutti noi, e insieme prendere sul serio quanto ci dice la comunità scientifica».
Vale l'opposto?
«Chiaro, la comunità scientifica ha le sue responsabilità pubbliche. Nessuno deve tirarsi fuori. E soprattutto nessuno, quali che siano le sue convinzioni etiche, religiose o culturali, può essere escluso da decisioni su cose che riguardano tutti. Sennò finisce come la vicenda del Papa alla Sapienza».
Lei non sosterrebbe il «dissenso» dei 1.500 docenti?
«Eh no! C'è un clima grottesco, siamo diventati matti: scusate, ma la discussione pubblica ha un senso perché ci sono ragioni diverse dalla nostra! E io le prendo molto sul serio».
E cioè?
«Viviamo in una società in cui c'è un disaccordo persistente sulle cose ultime, la vita e la morte. Non è un incidente di percorso né banale relativismo. La libertà delle persone comporta un pluralismo dei valori. Ci sono tante idee di bene: il bene della persona, della scienza...».
In un libro lei ha proposto come metodo la «priorità del male»...
«Poiché ci sono tante idee di "bene", credo abbia più probabilità di successo cercare di mettersi d'accorso su che cosa è "male", l'idea alla Rawls del "consenso per intersezione". Che manovre eugenetiche siano un male, per dire, fa parte del nostro dna europeo: e tutto ciò che vi si approssima va scartato».
Si può limitare la ricerca?
«Non la ricerca in sé, ritengo che la libertà di ricerca sia irrinunciabile, altrimenti siamo fregati. Si può dare il caso in cui certe applicazioni della ricerca non vengono ritenute socialmente accettabili. Tutti devono prendersi la responsabilità di scegliere. Sapendo, come diceva Milton Friedman, che "nessun pasto è gratis": se scegli una cosa, ne perdi un'altra»

Repubblica 6.2.08
Celine. Le confidenze private di uno scrittore incandescente
di Daria Galateria

Esce in Francia un volume che raccoglie cinquecento lettere scritte tra il 1936 e il 1960 , in pratica quasi tutta la carriera letteraria, dall´autore di "Morte a credito" alla sua segretaria Marie Canavaggia

Il 16 dicembre 1945, l´edicolante di una Copenhagen glaciale - lo stretto tra la Danimarca e la Svezia era gelato - segnalò alla polizia il signore senza cappotto che parlava francese, e si mostrava tanto nostalgico della patria. «Sono come uno scafandro immerso nell´acqua dell´esilio e con un piccolo tubo», «vivo solo delle vostre lettere», scriveva in ottobre Céline alla segretaria, la devota Marie Canavaggia: lei ormai potrà smettere però di mandargli giornali francesi, arriva tutto - su Le Monde Céline legge anzi le prime testimonianze sui campi di concentramento, e comincia a parlarne con sbalordimento: «Credo che niente di tanto mostruoso nessun fanatismo tanto rabbioso si sia mai abbattuto su una genia di uomini, né ebrei né cristiani».
Intanto con la sua più bella lingua tutta di imprecazioni e tenerezze, e ininterrottamente inventiva a forza di non trovare mai, in tutto il francese esistente, la misura espressiva della sua indignazione, descrive il mondo nuovo dei vincitori, privo di mezze tinte: «E´ curioso come il mondo è arrivato a essere composto mirabilmente - da un lato i mostri, i vampiri gli sciacalli i demoni di tutti i vizi, tare, pustole, imbecillità e canaglierie e dall´altro i prodi, gli arcangeli, i liberatori, i doni, tutte le luci! La vita è facile. E idioti quelli che non vanno sempre dalla parte del più forte - automaticamente».
Le Lettres à Marie Canavaggia (1936-1960) sono cinquecento, coprono quasi tutta la carriera letteraria di Céline, e per la prima volta - dopo un´edizione quasi clandestina del 1995 - arrivano al grande pubblico, sempre nella preziosa cura, riveduta e accresciuta, di Jean-Paul Louis (Gallimard, pagg 758, euro 39). C´è tutto Céline, in queste lettere, e sempre alla sua incandescente temperatura d´umore e di scrittura - come nei romanzi.
Il suo lavoro, intanto: «solo medico a bordo» a suturare e incidere feriti tutta una notte di sbieco, su una nave che lentamente sta affondando (e d´improvviso, una nota apre un universo: «il mare dà l´infanzia»). O la rocambolesca fuga raccontata nella Trilogia del Nord dalla Francia in fiamme attraverso le rovine del Reich: «Bébert e i manoscritti» - Bébert, il gatto comperato ai magazzini Samaritaine e portato via nel taschino - «hanno attraversato più obici di quanti ne occorrano per diventare marescialli di Francia». Altissimo sempre il capitolo delle bestie: «Guardate gli animali, maestri nostri in destino - come si tengono saggiamente e pateticamente al loro vecchio tappeto»; bisogna esser scacciati da tutto e dappertutto, spiega Céline, «per tornare molto semplici, molto semplici, per pensare come un cane».
Marie Canavaggia, nel 1936, ha quarant´anni; è figlia di un magistrato corso, traduce. Entrando al servizio, di segretaria e curatrice dei testi di Céline - che ha 42 anni e tutta la fama dannata del Viaggio al termine della notte - si mette subito al livello dello scrittore. Lui corregge le ultime 45 pagine di Mort à crédit, «le più ribelli; bisogna strangolarle una dopo l´altra»; impassibile, lei chiosa i particolari più osceni («sbatterlo, è la parola?»); la minima virgola mi appassiona, le scrive lui. A volte si indovina che Marie ha disturbato Céline con richieste affettive. Lui allora si lamenta, lei lo «intontisce» di isterie e complicazioni sentimentali; chiede a un mutilato di entrambe le braccia di giocare a bocce.
«In altri tempi vi avrei fatto rotolare nelle peggiori sardanapalerie voi ne sareste uscita tutta semplificata, disingelosita, guarita e non meno incantevole e meravigliosamente intelligente come siete».
Naturalmente, la specialità di Céline sono le invettive. Trova Arthur Miller banale, per esempio: un paese che produce bombe atomiche dovrebbe avere autori «cataclomici», e invece veramente non conosce niente di più «ripetuto, arcipontificato» di Miller, la sciatteria convenzionale del Montparnasse americano, «il borghese epatato di Kansans City marcito di letteratura» - quando gli riferiscono che Miller sta mobilitando gli intellettuali americani per una petizione in suo favore, Céline mostra qualche rimorso: «tanto meglio, le mie riflessioni erano tra me e voi».
Nella solitudine di Copenhagen, e poi nelle lettere a matita dal carcere, riaffiorano le geografie dei sentimenti; «ho dappertutto morti in sofferenza». Che Canavaggia non si immagini un «esilio Coblenza», come per gli squisiti émigrés della Rivoluzione francese: un esilio circondato dai fiori dello spirito e dagli incanti carnali di mirabili nordiche. La verità è un´altra, «furtiva, umiliata da vomitare, paria e intoccabili». Una quarantena pesa su lui e la moglie Lucette, mai invitati a un tè «o a un pranzo o niente»; un po´ come un passeggero clandestino tollerato per ragioni umanitarie a condizione che non venga mai a parlare sul ponte.
Céline ha l´ossessione di non crepare su quel suolo incomprensibile - però alla Bibliothèque Royale che incredibile ricchezza di libri francesi! Così, quando gli consentono di lasciare il «frigidaire baltico» e di tornare in Francia («i suoi libri antisemiti hanno fatto pensare che quest´uomo fosse praticamente matto»), Céline non vuole più vedere nessuno; «indietro isterici curiosi viziosi», lui non trova pittoresca la sua miseria. Il quotidiano l´Humanité gli promette la morte al ritorno in Francia? «Prima di crepare, voglio rendere centomila rospi delle Lettere epilettici, tetanici - non mi scoraggeranno facilmente dal rivoluzionare la Letteratura».

Repubblica 6.2.08
La storia dei profughi tra le due guerre in "Il confine degli altri" di Marta Verginella
quella profonda ferita tra Italia e Jugoslavia
di Guido Crainz

A distanza di poche settimane dalla cancellazione della frontiera tra il nostro paese e la Slovenia

Pubblichiamo parte della prefazione di a "Il confine degli altri" di Marta Verginella (Donzelli, pagg. 144, euro 14) in uscita in questi giorni
l confine degli altri apre straordinari squarci su vissuti individuali e collettivi, illumina i contorni ambigui e mobili delle appartenenze nazionali e culturali. Costringe a riflettere, a interrogarsi in modo radicalmente diverso su di una storia che è anche nostra. Anche nostra: questo Marta Verginella ci aiuta a capire. Leggendo il libro ci rendiamo conto dei grandi coni d´ombra che hanno accompagnato da sempre la nostra lettura di una vicenda lunga, che affonda le sue radici sin nelle tensioni che attraversano l´impero asburgico nel suo declino. Essa è scandita poi dalla cesura della «grande guerra « e da un convulso e violento dopoguerra: con l´annessione all´Italia di territori ampiamente popolati da sloveni e croati, e con l´italianizzazione forzata perseguita dal fascismo, accompagnata da persecuzioni e umiliazioni. Vi è poi nel 1941 l´occupazione nazista e fascista della Jugoslavia, e in fine - dopo l ‘8 settembre - l´instaurarsi della Zona di operazioni Litorale adriatico, alle dirette dipendenze della Germania nazista (Operationszone Adriatisches Küstenland) . È questo lo sfondo incandescente su cui si innesta il trauma del 1945, anticipato nella provvisoria transizione del settembre 1943: le uccisioni di massa di cui le foibe sono diventate il simbolo, e l ‘esodo della quasi totalità della popolazione italiana. Una grande, dolorosissima ferita, parte del più vasto scenario del dopoguerra europeo. L ‘abbiamo rimossa a lungo, e poco abbiamo ascoltato le voci che tentavano di raccontarla: fossero pur quelle umanamente e letterariamente intense di Fulvio Tomizza, Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, Enzo Bettiza, e tante altre ancora. A fatica ci siamo avvicinati a questa storia, con enorme ritardo abbiamo iniziato ad elaborare un profondissimo lutto. Oggi Marta Verginella ci offre ricchi stimoli per rendere più ampio e completo questo «dovere di memoria». (...)
L´avvio e l´epilogo de Il confine degli altri ci offrono un cortocircuito venato di tristezza e al tempo stesso illuminante, capace di spazzar via schemi consolidati e di aprire nuovi sentieri alla nostra comprensione e alla nostra sensibilità.
Nelle decine di sloveni portati nel 1941 davanti al Tribunale speciale - e nei quasi trecento che erano stati arrestati in quelle indagini - vediamo disegnarsi i contorni di una intera società, nelle sue diverse componenti e nelle sue differenti opzioni intellettuali e politiche. Una società cui il fascismo ha inutilmente cercato di imporre una umiliante «assimilazione» e che ha trovato in sé - nelle proprie energie, nei propri umori, nei propri sogni, nella propria identità (riscoperta o rielaborata, come sempre alle identità accade)-la forza umanissima di resistere. Non è per nulla scontato, però, il racconto che si snoda attraverso queste pagine. Nella Jugoslavia di Tito troviamo fra i «vinti «del secondo dopoguerra anche alcuni degli imputati del processo del 1941: non hanno offerto al nuovo regime quella sudditanza che avevano già negato a quello di Mussolini e conoscono così nuove discriminazioni e umiliazioni, processi, condanne severe. Il Pubblico ministero fascista li aveva definiti «omuncoli impastati di odio […] rettili umani striscianti nell´ombra e nel fango» che osavano rifiutare obbedienza «all´unico stato e all´unica nazione capaci di portare civiltà in quelle terre». Ad alcuni di loro capiterà di ascoltare parole non molto diverse nel «socialismo reale» jugoslavo, nel momento stesso in cui inizieranno a pensare che neppur esso fosse - appunto - l´unico regime capace «di portare civiltà in quelle terre». Sarà difficile dimenticare la figura di Boris Furlan, l´»allievo di Joyce» di un bellissimo racconto di Drago Jancar. Sarà difficile rimuovere dalla nostra memoria e dalla nostra inquietudine il suo ricco e complesso percorso, sino al tragico epilogo. Di molte altre figure è popolato questo libro, e l ‘infanzia di scrittori e intellettuali come Boris Pahor e Ciril Zlobec è segnata dalla stessa violenza che investe la fioraia Sava Rupel, rea come loro di aver pronunciato qualche parola slovena nella città di Trieste. Viene spontaneo affiancare le loro testimonianze a quella di vent´anni dopo di Nelida Milani, che rimane in una Pola assegnata ormai alla Jugoslavia e che ricorda così un ‘aggressione subita da un uomo «con occhi cupi e fermi […]: "Se vi sento ancora una volta parlare in italiano mollo il cane che vi divori. Ve la faccio passare io la voglia di parlare questa lingua fascista "». (...)
È un doloroso gioco di specchi, è un reciproco richiamarsi di sofferenze differenti e uguali quello che Il confine degli altri evoca (...). Si veda lo spaesamento, il senso di estraneità vissuto da molti sloveni costretti a lasciare l´Italia fascista e a trasferirsi a Lubiana o altrove. (...) Spaesamenti sloveni degli anni venti e trenta (in cui) troviamo anche alcune chiavi per capire meglio sofferenze e spaesamenti dei profughi istriani nell´Italia del secondo dopoguerra. Per capire, anche, le radici complesse e tenaci di una indifferenza, e sin di una disumanità, nei confronti dei deboli e degli esuli che è stata anche nostra.

Corriere della Sera 6.2.08
Il rapporto tra ragione e fede
Solo la filosofia può essere laica
di Emanuele Severino

H a ragione Claudio Magris a rilevare che l'uso del termine «laico » (sul Corriere del 17 gennaio scorso) è pieno di equivoci. Gli equivoci dei concetti rendono equivoche anche le azioni.
Mi sembra utile discutere il suo intervento. E dico subito all'amico Magris che è mia abitudine discutere le cose di rilievo. «Laicità », egli scrive, «è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede». Questa capacità non è cosa da poco. Presuppone che si sappia che cosa sia «dimostrazione razionale » e che cosa sia «fede ». Questa capacità segna niente di meno che la nascita della filosofia, la presa di distanza della filosofia dal mito, cioè dalla fede. Nella sua essenza più profonda «laicità» significa «filosofia». Non si può dire, allora, quello che Magris dice: che quella capacità «non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis ». Si può sì avere una forma mentis più o meno vicina al pensare filosofico (nel qual caso sarà appropriato chiamarla «laicità »), ma se questa forma non vuol essere a sua volta una fede deve diventare filosofia.
Ma è ancora più interessante l'affermazione con cui Magris esprime uno dei luoghi centrali del pensiero liberale: «Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze». Questa definizione di «laicità» intende completare la precedente, ma in effetti la mette in questione. Che la ragione vada distinta dalla fede è una certezza di Magris. Ma, allora, il «dubbio rivolto anche alle proprie certezze » mette in dubbio anche quella distinzione tra ragione e fede? Se non la mette in dubbio, allora c'è un sapere che non può esser messo in dubbio — e la definizione di «laicità» deve esser rivista. Se invece tutto è dubitabile, allora la «laicità» diventa, nonostante le intenzioni, quello scetticismo o quel relativismo nel quale la Chiesa ritiene consistere tutta la forza del pensiero del nostro tempo (che invece ha ben altra potenza) e che quindi la Chiesa fa presto a togliersi dattorno.
Nell'intervento di Magris c'è, tra le altre, una terza definizione di «laicità». Per lui (come per molti altri) la sentenza evangelica del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio è un «principio laico ». Qui debbo fare quello stesso che egli dice di esser costretto a fare; devo ripetere cioè cose che vado richiamando da decenni anche su queste colonne — convinto peraltro che sia opportuna la ripetizione (della quale chiedo scusa pur avvedendomi che non è superflua, come il discorso di Magris conferma). Sia opportuna affinché non accada che ognuno parli per conto proprio. Si tratta di capire che, per Gesù, dando a Cesare quel che gli spetta non gli si può dare tuttavia qualcosa che sia contro Dio (Gesù non può pensare una cosa del genere); e che, per i Romani (e per molte altre concezioni dello Stato), dando a Dio quel che a sua volta gli spetta non gli si può dare qualcosa che sia contro Cesare (nemmeno lo Stato, Cesare, potrebbe pensare una cosa del genere).
Le conseguenze sono notevoli e tutt'altro che «laiche ».
Nella logica evangelica, le leggi dello Stato non possono contrastare le leggi di Dio. Devono essere cioè leggi cristiane. Lo Stato deve essere cristiano. Il peccato è anche delitto. Non può esserci una zona «neutra » dove le leggi siano indifferenti rispetto alle leggi di Dio. Teocrazia; non «laicità».
Nella logica di Cesare, le leggi di Dio non possono contrastare le leggi di Cesare. Devono essere leggi statali. La religione dev'esser controllata dallo Stato. Il vero peccato non è quello punito da un Dio che sta nei cieli: è il delitto punito dallo Stato. Assolutismo, totalitarismo politico; non «laicità».

Il vero senso della frase: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio»

Corriere della Sera 6.2.08
Pintoricchio. L'arte nel dettaglio
Quel piccolo grande uomo in lotta con la fama del Perugino
di Francesca Montorfano

Aveva lavorato per cinque Papi ma la sua Perugia gli preferì il rivale, abile manager di se stesso, che aveva amicizie altolocate

Sembrano volersi sfidare ad armi pari i due celebri autoritratti del Perugino e del Pintoricchio, nel Collegio del Cambio di Perugina l'uno, nella Cappella Baglioni di Spello l'altro, quasi a sottolineare la rivalità che da sempre aveva opposto i due grandi protagonisti della stagione artistica umbra tra il Quattro e il Cinquecento. Perché se il Perugino era da tempo in cima alla vetta, richiesto e vezzeggiato dai più autorevoli committenti della penisola, Bernardino di Betto non era da meno, pur se più giovane, pur se chiamato Pintoricchio perché «piccolo e di poco aspetto», pur se il Vasari, grande sostenitore del «divin pittore», nelle sue Vite gli avrebbe riservato parole impietose.
Tuttavia, anche se l'arte del Pintoricchio ha goduto di fortune alterne, di primo piano è stato il suo ruolo nel panorama artistico del Rinascimento e prestigiosi gli incarichi ricevuti. E non solo a Roma, con la decorazione delle cappelle di Santa Maria d'Aracoeli e di Santa Maria del Popolo o degli appartamenti Borgia in Vaticano, ma anche a Siena, con quello spettacolo meraviglioso che è la Libreria Piccolomini nel Duomo.
«Pintoricchio ha lavorato per ben cinque Papi, ma ciononostante la sua città gli ha voltato le spalle, preferendogli il Perugino, imprenditore di straordinaria abilità che non si faceva sfuggire nessuna occasione e poteva contare su una stabile bottega e una rete di relazioni e amicizie altolocate. Pintoricchio al contrario, spesso impegnato in grandi imprese lontano da Perugia, preferiva circondarsi di aiutanti di varia formazione, da utilizzare nelle diverse situazioni. Ecco allora tutta l'importanza di questa mostra che si propone di sottolineare gli stretti rapporti che sempre hanno legato il pittore alla sua terra», sottolinea Francesco Federico Mancini, membro del Comitato scientifico che ha presieduto all'evento affiancando la curatrice Vittoria Garibaldi.
Negli spazi, da poco rinnovati della Galleria Nazionale dell'Umbria a Perugia, sono esposte quasi tutte le opere «mobili» di Pintoricchio, dipinti su tavola e disegni provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, insieme a lavori di artisti a lui contemporanei, a documentare la straordinaria cultura figurativa della città umbra che aveva visto la presenza di alcuni dei più conosciuti maestri del Quattrocento, Gentile da Fabriano e Beato Angelico, Giovanni Boccati e Domenico Veneziano, e manteneva frequenti contatti con la grande arte fiorentina. Così, Bartolomeo Caporali, Sante di Apollonio, Fiorenzo di Lorenzo, il Perugino e un Pintoricchio agli esordi si dividono la paternità di una lunga serie di dipinti, come le famose tavole con le Storie di San Bernardino, raffinato esempio degli alti vertici raggiunti dalla pittura perugina del tempo. Risale al febbraio 1496, invece, il contratto per la monumentale ancona di Santa Maria dei Fossi, tra le opere più celebrate del pittore per la varietà di interpretazione del soggetto sacro, la capacità di rendere i sentimenti e i paesaggi che paiono vibrare di luce.
Sarà proprio la rappresentazione della natura, di quegli alberi, di quei borghi, chiese e castelli che ancora punteggiano la campagna umbra insieme al suo indugiare sui dettagli e sul particolare aneddotico il tratto più distintivo dell'arte di Pintoricchio, il suo personalissimo modo di dar vita al Rinascimento. Ben lo si può vedere anche in quel capolavoro assoluto che è la Cappella Baglioni o Cappella Bella di Spello, dipinta con grande vivacità cromatica e freschezza narrativa tra il 1500 e il 1501, probabilmente come risposta alla decorazione del Collegio del Cambio a Perugia da poco ultimata dal suo rivale. «Quanto Perugino è squisitamente classico, tanto Pintoricchio sa accogliere echi diversi, gotici, fiamminghi, rinascimentali, tanto sa essere sintetico e fiorito insieme. L'impianto delle scene è rigoroso, le sue immagini complesse: vanno osservate lentamente, più volte, per poterne cogliere tutte le infinite sfaccettature», precisa Vittoria Garibaldi.
Altre sezioni della mostra evidenzieranno il ruolo di Pintoricchio come disegnatore, i rapporti con Raffaello e la fortuna che il suo linguaggio, intrecciandosi con quello del Perugino, di Signorelli e di Raffaello stesso, troverà tra le future generazioni. Un'onda lunga che si contrapporrà a quella breve della sua vita: il pittore morirà nel 1513, a poco più di cinquant'anni e in completa solitudine.

Corriere della Sera 6.2.08
Gioielli ritrovati Il racconto della vita di Cristo dipinto per celebrare la potenza della famiglia Baglioni
E nella Cappella spuntarono gli Ufo
Tornano a risplendere gli affreschi di Spello. Tra aneddoti e oggetti misteriosi
di Stefano Bucci

P er qualcuno è «soltanto» uno dei tanti, grandi cicli rinascimentali dell'Umbria: gli affreschi con la vita di San Francesco a Montefalco dipinti da Benozzo Gozzoli (che a loro volta si ispirano a quelli di Giotto ad Assisi); le storie della Vergine nel Duomo di Spoleto nella raffigurazione che ne fece Filippo Lippi; la Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto firmata da Luca Signorelli (quella con l'Apocalisse); il Collegio del Cambio di Perugia «illustrato» con i Trionfi e le Allegorie delle Virtù dal Perugino.
La Cappella Bella (o Cappella Baglioni) nella Chiesa di Santa Maria Maggiore di Spello, alle estreme pendici del Monte Subasio, è di fatto un gioiello dell'arte rinascimentale (realizzato nel 1501) che la mostra dedicata al Pintoricchio in qualche modo restituisce al pubblico, visto che per lungo tempo l'ingresso alla cappella è stato vietato (per motivi di sicurezza e di stabilità) e la visione consentita soltanto dal-l'esterno, attraverso una fredda parete di plexiglas. Per la celebrazione del 550esimo anniversario di Pintoricchio, un allestimento temporaneo e un impianto di illuminazione permanente, garantisce finalmente la possibilità di vedere dal vivo gli affreschi, ma anche la necessaria protezione del pavimento in maioliche di Deruta risalente al 1516.
Tecnicamente la costruzione risale al XII secolo e, secondo la tradizione, sarebbe stata eretta sulle rovine di un tempio sacro a Vesta e Giunone. L'interno, a navata unica, mostra sul lato sinistro la «Cappella Bella» interamente affrescata dal Pintoricchio, tra la fine dell'estate del 1500 e la primavera del 1501, su commissione di Troilo Baglioni, priore della collegiata ed esponente di primo piano della famiglia perugina (naturalmente presente tra i personaggi degli affreschi). E se il tema (la vita di Cristo) è chiaramente religioso il valore di questa cappella è in qualche modo anche politico: dopo un decennio di contrasti e lotte fratricide, i Baglioni erano riusciti a sancire la propria supremazia sulla cittadina umbra, sconfiggendo definitivamente il ramo cadetto.
La «vivacità cromatica, la freschezza narrativa nel rigore dell'impianto, i giochi di luci provocati dal riverbero del pavimento maiolicato » hanno universalmente trasformato la Cappella Baglioni nella «Cappella Bella». Sulle pareti sono dipinti a sinistra l'Annunciazione, con gustosi episodi di vita quotidiana in lontananza; in fondo l'Adorazione dei pastori, con la Cavalcata dei Magi che si snoda in secondo piano, a destra la Disputa di Gesù con i dottori. Nella volta sono affrescate le Sibille (Tiburtina, Eritrea, Europea, Samia). Il tutto in un susseguirsi di scene, impostate secondo le regole della prospettiva quattrocentesca ma con un incredibile (e affascinante) gusto per il dettaglio (dagli abiti alle acconciature, dai fiori alle piante), per l'aneddoto e per il colore (squillante, puro, prezioso). Nella «Cappella Bella» qualcuno ha voluto leggere «un'esplicita risposta» alla decorazione del Collegio del Cambio che il Perugino aveva condotto a termine pochi mesi prima a Perugia. Un gioco concorrenziale tra i due più grandi artisti della pittura perugina e se il Vannucci si era dipinto in un finto quadretto in trompe-l'oeil, in una posa assolutamente frontale, col cipiglio di un autoritario capobottega, Pintoricchio risponde a Spello, utilizzando lo stesso espediente illusionistico, presentandosi col volto girato di tre quarti, dai lineamenti scavati, come sofferente per gli eterni malanni che lo tormentavano, ma con l'espressione lievemente sfuggente, interrogativa e decisamente fiera della sua opera. Ma non solo.
In quella Cappella qualcuno ha voluto identificare addirittura dei segnali di vita da un altro pianeta, dei veri e propri alieni.
Sparsi nel cielo, tra i cipressi oppure oltre il profilo delle montagne. Ad esempio, nell'adorazione di Gesù Bambino (accanto a Gesù Bambino, gli angeli, Maria e Giuseppe, il bue e l'asino, i pastori in adorazione) compare effettivamente una sfera non proprio regolare, di color grigio chiaro e dall'aspetto metallico, «che sembrerebbe emanare una certa luminosità, testimoniata dai trattini di colore giallo-arancio che circondano l'immagine». Sarebbero delle lingue di fuoco «più marcate nella parte inferiore, quasi a delineare il moto ascensionale dell'oggetto». Insomma nella «Cappella Bella» Pintoricchio avrebbe addirittura trovato il modo di mostrarci gli Ufo.

il Rformista 6.2.08
Laicità il problema di avere un papa che sogna di tornare a innocenzo III
Il vuoto di pensiero politico apre spazi alla Chiesa
di Marco Vitale


La presenza sempre più pervasiva della Chiesa su tanti temi è la conseguenza del fatto che la Chiesa è uno dei pochi centri di potere, capace anche di esprimere un pensiero. Ciò vale non solo sul tema della scienza e della tecnica, ma per i temi socio-economici, per i temi della criminalità (se nel Sud si incontrano ancora delle autorità rispettabili e credibili queste sono di solito i vescovi, tra le poche persone degne e con le quali si può parlare in modo serio di cose serie) e altri temi. L'agghiacciante vuoto di pensiero che caratterizza la classe dirigente italiana (e non solo la classe politica) apre spazi nuovi e inaspettati per la Chiesa e per il Papa. La domanda centrale è se la Chiesa si inserisce in questi spazi in modo utile e appropriato o meno. Io, parlando da aspirante cristiano e cattolico-liberale con sofferenza, rispondo di no.
Se i vertici della Chiesa (Papa e Cei), approfittando della debolezza di pensiero della classe dirigente, invece di aiutare a colmare questo vuoto, cercano di riportare indietro le lancette della storia, è inevitabile che il confronto tra pensiero laico e pensiero teocratico, superato dal Vaticano II, si riacutizzi. E a me sembra che questo Papa e questa Cei invece di impegnarsi a diffondere nella società lo spirito religioso, cioè il senso del divino, invece di diffondere e applicare il Vangelo (per usare un'espressione amata da quei preti "da strada" che, come me, soffrono per questa Chiesa arrogante, ricca, potente e scintillante di gioielli), siano impegnati principalmente in una grande operazione di potere. E allora devono attendersi delle reazioni. Se la Chiesa si muove direttamente e in prima persona come un partito politico, se c'è qualcosa di vero in quello che, scherzosamente ma non troppo, disse tempo fa Cossiga: «come presidente della Cei Ruini è stato un grande, ma come segretario regionale della Dc sarebbe stato il massimo», allora episodi come quello della Sapienza vanno inquadrati in una prospettiva più ampia. Questo episodio preso in sé e per sé è il frutto di due errori. Il primo è quello di cercare di impedire la parola a un'autorità intellettuale in una università, che è il luogo per eccellenza della libertà di pensiero e di parola. E il secondo è quello di invitare il Papa non a parlare ma a tenere il discorso di apertura dell'anno accademico in una università pubblica. L'invito è stato una dimostrazione di debolezza intellettuale, servilismo, ricerca impropria di effetti mediatici, tipica di una dirigenza senza pensiero, senza dignità e senza rispetto per l'istituzione che è chiamata a dirigere. Ma forse l'accettazione di questo invito è stata una decisione non ben valutata.
Io credo però che più che preoccuparci della limitata ostilità alla preannunciata presenza di Ratzinger alla Sapienza, sia più giusto preoccuparci del contrario. Credo che abbia ragione Carlo Augusto Viano, professore emerito di Storia della filosofia all'università di Torino che, tempo fa, (prima delle vicende della Sapienza), ha detto: «Voci critiche e discordanti! Ma se Ratzinger è l'uomo meno criticato del Pianeta. In Italia ormai c'è una devozione agghiacciante verso il Papa che neanche nel peggiore regime democristiano, non esiste alcuna voce discordante o se c'è non se ne dà mai notizia. Basta guardare i mezzi di comunicazione: ogni giorno c'è il Papa, non chi la pensa diversamente da lui. Siamo eredi dello Stato pontificio e questo ci rende succubi del Papa. Inoltre solo in Italia ci si stupisce del fatto che il Pontefice venga criticato, e ci siamo ormai abituati a non contraddirlo mai».

il Riformista lettere 6.2.08
sos donna

Caro direttore, sempre in tema di sanità in odore di santità, sembra anche che i beati medici obiettori di coscienza - oltre alla prassi di sconsigliare con tutte le loro forze il parto cesareo - possano rifiutarsi di effettuare l'epidurale sulle partorienti. Come ebbe a dire alla donna un personaggio della mitologia (così come riportato dalla versione più recente della Bibbia, Edizioni San Paolo - 1978): «Moltiplicherò le tue sofferenze e le tue gravidanze, con doglie dovrai partorire figliuoli. Verso tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà dominare su te». E così sia.
Paolo Izzo www.paoloizzo.net

Corriere della Sera lettere a Sergio Romano 6.2.08
Gli appellativi
Caro Romano, mi sono sempre chiesto perché un politico che si rivolge a un ecclesiastico lo chiama Sua Eminenza, reverendissimo o monsignore. Un amico mi ha spiegato che l'uso di tali titoli, che a me suonano tanto come nobiliari, deriva dal riconoscimento della sovranità della Santa Sede.
Visto però che la Costituzione riconosce anche la sovranità dello Stato, per reciprocità chiedo che ogni qualvolta un vescovo parla agli italiani si rivolga a noi chiamandoci «le Signorie Loro». Casomai qualcuno si fosse dimenticato che in Italia sovrano è il popolo.
Roberto Martina, robertomartina@yahoo.it

Quando stavo per essere presentato alla regina Elisabetta un cerimoniere britannico mi spiegò che avrei dovuto rivolgermi a lei con l'appellativo «Your Majesty» e che nella conversazione, se mi avesse fatto qualche domanda, avrei sempre dovuto rispondere Ma'am, abbreviazione di Madam. Ho obbedito. Ma non ho riconosciuto la sovranità del Regno Unito sulla penisola italiana. Sergio Romano

Repubblica lettere 6.2.08
Gent. mo Dott. Augias, un'offensiva contro la legge 194 in nome dei valori cristiani. Alcuni medici discutono in astratto di rianimazione ad ogni costo. Non importa a quale prezzo, rianimato anche per poche ore o costretto a una breve vita impossibile, l'importante è assecondare le teorie dei vescovi: anche mezz'ora di vita impossibile servono a dimostrare che l'aborto è un omicidio e che quindi le donne sono assassine. L'uso strumentale e politico dei feti per imporre la sovranità delle gerarchia cattolica sulla libertà del popolo è un crimine degno di una dittatura.
Roberto Martina robertomartina@yahoo. it

Caro Augias, il 'pronunciamento' delle Università dice in sintesi: A) il feto, se vivo, è da considerarsi un 'prematuro'; se può essere rianimato, deve esserlo. B) «anche» se la madre non vuole! Perché questa insidiosa aggiunta? Solo per tirare in ballo la 194 la quale di suo, all'articolo 7, prevede appunto quanto riassunto sotto il punto A. Insomma la Sapienza (mai nome fu meno appropriato) ha colto l'occasione per uscire dall'angolo: che abbia associato le altre università fa sospettare che l'iniziativa abbia registi (romani) più autorevoli e manovrieri.
Paolo Todescan Vicenza ilcontori@tin. it

L' articolo 7 della 194 dice appunto che quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, il medico che segue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita. Allora perché quell'uscita di alcuni medici se non per aggiungere un ulteriore elemento emotivo a una discussione che ha assunto toni da crociata? Già l'equiparazione con la pena di morte è una forzatura priva di logica; già lo slogan 'sì alla vita' è assurdo; c'è forse qualcuno che vuole sostenere 'no alla vita'? E poi di quale vita si sta parlando? Qualche giorno fa il caso di una bambina sopravvissuta a un aborto terapeutico dopo la diagnosi che al feto mancavano i globi oculari. Non cieca, completamente priva dell'organo della vista. Nata alla 22esima settimana, pesava 500 grammi. Dopo dieci giorni ha subito un intervento al cuore, un'emorragia cerebrale le ha provocato una quasi totale sordità, a 15 mesi pesa 6 chili e le sue condizioni continuano a rimanere critiche. Riferisco questo tragico caso non per accrescere a mia volta l'enorme emotività del tema ma solo per dire che ogni aborto è un caso a sé, ogni dramma è diverso da un altro dramma, e che una donna non decide (quasi) mai di abortire a cuor leggero. Bisognerebbe ragionare di più sulle persone e meno sui principi, accantonare le ideologie e scendere nella vita delle persone, dialogare e non brandire la spada e l'aspersorio. Soprattutto, come ha detto il prof Veronesi, se si vuole evitare l'aborto bisogna mettere in atto misure preventive adeguate, insegnare davvero l'uso corretto delle pratiche anticoncezionali. Corrado Augias


Liberazione 6.2.08
La Sinistra corre unita alle elezioni e schiera Fausto Bertinotti
Chiesta un'alleanza al Pd. Se sarà no, soli alle urne
di Angela Mauro


Al vertice, l'idea di insistere con Veltroni su un'alleanza di centrosinistra, per non regalare una vittoria a tavolino a Berlusconi, è stata sostenuta da Sinistra Democratica, che due giorni fa proprio su questa posizione ha concluso il proprio direttivo nazionale. Sulla stessa linea i Verdi e il Pdci. Rifondazione che, di fronte all'annuncio del leader del Pd di correre da solo, non ha mai nascosto alcuna reticenza su una scelta di autonomia della sinistra, ha insistito per compiere la verifica con Veltroni in «maniera stringente», specifica Giordano. Insomma, o sì o no, l'importante è che sia subito, perchè i tempi della improvvisa campagna elettorale stringono e bisognerà anche decidere i termini su cui svolgerla.
In serata, il Pd risponde per bocca del suo vice Dario Franceschini. Sembra un no, ma è ovvio che l'ultima parola spetterà a Veltroni. Dice Franceschini: «Gli elettori sono stanchi di un film già visto, con il centrodestra contro il centrosinistra. Abbiamo deciso di cambiare, presentandoci con un programma chiaro e un leader nuovo, Walter Veltroni. Chi vorrà dialogare con il Pd dovrà sottoscrivere un patto vincolante di programma». Sembrerebbero mancare i margini per l'elaborazione di un programma comune, come chiesto dalla Sinistra. Bensì, la ricetta proposta sembrerebbe limitarsi all'offerta di aderire o meno al programma già confezionato del Pd. Per dirla con Vannino Chiti «chi non vota il rifinanziamento delle missioni militari non è con noi». Qualcosa di simile, insomma, nulla di più, per cui nessun margine di alleanza elettorale. Ma si vedrà.
Mussi non perde le speranze: «Il Pd è partito con squilli di tromba: andiamo da soli. Poi ha detto che la discriminante è il programma. Bene: andiamo a vedere le carte». E, pensando all'opzione di riserva - accordi con il Pd solo al Senato - assicura: «Di certo, non asfalteremo la strada a Berlusconi». Eventualmente, non si tratterà di «un accordo di desistenza», dice Giordano, rimandando i dettagli all'esito dello studio che, nel caso, verrebbe affidato a tecnici della materia. Pecoraro Scanio fa leva sull'appuntamento di fine febbraio: «La Sinistra riapre le fabbriche del programma chiuse dall'Unione».
Diliberto sorvola sul "nodo simbolo" e preferisce rimarcare il «punto politico: per la prima volta, le sinistre si presentano unite». Da rilevare: anche dentro Rifondazione non si arrende chi preme perchè falce e martello nel simbolo sia mantenuta (Claudio Grassi di Essere Comunisti, Fosco Giannini dell'Ernesto). «Non bisogna fare cazzate», dice schietto Cesare Salvi di Sd. E circolano voci che indicano una possibile soluzione: se la sinistra avrà un suo candidato premier, sul simbolo potrebbe anche comparire il nome di Bertinotti, un segno di riconoscibilità che compenserebbe il "sacrificio" della falce e martello. Ad ogni modo, la questione sarà oggetto di discussione già a partire da oggi, in una prima riunione del tavolo organizzativo che si occuperà di simbolo e anche di candidature. Una cosa è certa: c'è da parte di tutti la ferma intenzione di non rompere con nessuno e la determinazione di ricercare una soluzione unitaria. Non è escluso che si arrivi alla decisione finale anche ascoltando le opinioni di sondaggisti ed esperti su quanto sia conveniente per il nuovo soggetto unitario presentare un unico simbolo senza i segni dei quattro partiti.
Si diceva del ticket: Bertinotti e una candidata. Dai Verdi rimarcano che il nome di Grazia Francescato, rimbalzato sulle cronache giorni fa, «prende quota, c'è anche una sua disponibilità», suggeriscono fonti del Sole che ride. Il vertice di ieri però ha registrato le critiche delle donne di Sinistra Democratica sul fatto che, in fin dei conti, alla "candidata" spetti solo il "numero due" della corsa elettorale. Non una vera parità tra i generi, è stato fatto notare. Dallo stesso versante, critiche anche sul mancato coinvolgimento delle donne della Sinistra sia nella scelta di presentare un ticket uomo-donna che su quella del possibile nome del vice di Bertinotti. Per dirla in sintesi: no a decisioni prese dagli uomini e perdipiù in posizione di vice. Tema di certo in discussione, ma non considerato invalicabile.

Liberazione 6.2.08
Sinistra unita alle elezioni. Giordano: «Scelta irreversibile»
di Angela Mauro


Rifondazione, Sinistra Democratica, Verdi e Comunisti Italiani centrano il primo obiettivo: si corre insieme. Iniziative in tutta Italia il 23-24 febbraio
E per battere le destre propongono al Pd una «verifica» di coalizione o almeno un accordo tecnico al Senato. Via libera a Bertinotti se si corre da soli

Insieme in una lista unica con un suo segno grafico. Alla vigilia delle elezioni anticipate, il percorso unitario avviato circa un anno fa tra Rifondazione, Sinistra Democratica, Verdi e Comunisti Italiani centra un suo primo, importante obiettivo. La decisione di correre insieme nella tornata elettorale di aprile viene annunciata al termine di un lungo vertice (circa quattro ore) tra i leader dei partiti, i capigruppo e i ministri della Sinistra Arcobaleno. «Una scelta irreversibile», dice il segretario del Prc Franco Giordano. Ci sono ancora nodi da sciogliere, presto: si calcola che saranno messi in chiaro nel giro di quattro-cinque giorni. Primo: il rapporto con il Partito Democratico. La Sinistra chiede in forma unitaria a Veltroni una «verifica politico-programmatica», spiega Giordano. In altri termini: verificare, nel giro di pochi giorni (si immagina: 48 ore) la possibilità, sulla base di un programma condiviso, di allearsi per battere la Cdl e proporre così agli elettori una nuova coalizione di centrosinistra composta da due soli poli: Pd e "Cosa rossa". «A Veltroni chiediamo un confronto - dice ancora Giordano - sulla redistribuzione sociale, i salari, i diritti civili...». Nel frattempo però, alla luce del fatto che finora Veltroni continua a dire di voler correre da solo, la Sinistra programma comunque proprie «iniziative unitarie in tutte le città per il 23 e il 24 febbraio». Una sorta di «primarie sul programma», afferma ancora Giordano, per presentare agli elettori la propria proposta di alternativa.
Sul primo nodo, dunque, la palla è nelle mani del leader del Partito Democratico. Se la risposta continuerà ad essere no, se non prevarranno quelle forze pure interne al Pd scettiche sulla decisione del leader di percorrere la via solitaria alle urne (Fassino, D'Alema), si valuterà la possibilità di un accordo tecnico con Veltroni solo per le liste al Senato, «su scala nazionale - precisa Giordano - per difenderci dal Porcellum». Che, per come è fatto, se Pd e Sinistra corressero separate, potrebbe assegnare una vittoria schiacciante alla Cdl a Palazzo Madama, facendo mancare l'obiettivo - che sembra essere caro anche al Pd - di determinare una maggioranza risicata al centrodestra almeno in uno dei due rami del Parlamento.
Il secondo nodo da sciogliere è invece interno alla Sinistra. Trattasi del simbolo comune. La riunione di ieri non ha partorito risultati specifici, se non l'intenzione - per nulla scontata, si ricorderà, fino a qualche settimana fa - di correre insieme. I Comunisti Italiani continuano a insistere sulla necessità di affiancare al segno unitario - che potrebbe essere la Sinistra Arcobaleno presentata all'assemblea dell'8 e 9 dicembre a Roma - i simboletti dei quattro partiti. Insomma, Diliberto & Co. non cedono sulla "loro" falce e martello. Sulla sponda opposta, Sinistra Democratica rimane ferma nella convinzione che bisognerebbe presentare agli elettori un unico simbolo, senza quelli dei partiti. La materia è affidata a commissioni di studio che «arriveranno rapidamente ad una sintesi», assicura Giordano.
Il vertice di ieri ha prodotto un altro risultato unitario. Nel caso il Pd confermasse la linea della corsa in solitaria, il candidato della Sinistra alla premiership sarebbe Fausto Bertinotti. Sul suo nome, che lo stesso presidente della Camera aveva messo sul piatto in caso di accordo unanime, c'è il via libera di tutti i partiti. Sembra poi probabile che Bertinotti venga presentato in ticket con una donna, ma la questione è ancora oggetto di discussione.

Liberazione 6.2.08
Le donne, i medici, la vita
di Ritanna Armeni


Il documento di alcuni ginecologi romani e la questione aborto.
Qualche riflessione fuori dalla "caverna"

Com'è difficile parlare con serenità, consapevolezza, razionalità dell'aborto. Lo è ancora oggi, a trent'anni da una legge con la quale molte di noi pensavano di aver risolto almeno una parte dei problemi. Invece no. Ancora oggi è complicato e doloroso. Le nuove frontiere della scienza pongono problemi diversi, i mass media con una forsennata ricerca di sensazionalismo confondono e non informano, i toni da crociata che si usano sull'argomento bruciano ogni possibilità di dialogo, la difesa estrema di quelle che vengono definite conquiste o diritti o libertà sconfina qualche volta in un'ottusità che impedisce di andare avanti proprio in quelle libertà che si vogliono difendere. Tutto questo mi pare di vedere in queste ultime settimane e mi provoca un sentimento di disagio, come capita a chi assiste ad un rito barbarico, in cui movimenti, azioni e simboli richiamano alla violenza, alla morte, alla ostilità.
La violenza ri-comincia con un documento di alcuni ginecologi di quattro grandi ospedali romani. Non per quello che contiene, per carità, dirò dopo perché è ovvio condividerlo quasi completamente, ma per il modo e la tempistica con cui viene gestito.
Viene reso pubblico in un giorno simbolico, il giorno dedicato alla vita, quello in cui il papa lancia l'ennesimo appello contro l'aborto, nel pieno di una battaglia politica e culturale sulla quale si dovrebbe esercitare il massimo di attenzione, evitare le provocazioni, rifuggire dal sensazionalismo. Invece no. Andare sui giornali, provocare scandalo sembra più importante che aiutare a capire, a produrre un dibattito fecondo. E non mi si dica, per favore, che i mezzi non sono importanti quando i contenuti sono giusti. I metodi rivelano i contenuti e, in questo caso, un contenuto non detto, ma decisivo che posso solo definire "ostilità", "inimicizia" nei confronti delle donne. Guardate - si manda a dire alle donne con quella voluta esposizione mediatica - che quando il feto è vivo, voi non contate più niente. Tanto più se avevate deciso di interrompere la gravidanza. Siamo noi, solo noi medici a decidere.
Il rito barbarico va avanti con i giornali che aprono polemiche, fanno titoli ad effetto, aprono scenari cruenti senza alcun reale legame con le parole di chi viene intervistato. Le parole dei ginecologi diventano parole contro la legge 194, anche se questa prevede esattamente quello che loro hanno detto. Le parole del papa si congiungono con quelle dei ginecologi. Le donne, nei commenti, sono potenziali assassine per alcuni, vittime indifese delle ingerenze dei medici e della Chiesa per altri. Nessuno fa un paragone, una semplice operazione di accostamento fra due testi. Dice il documento dei ginecologi: "Un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente. L'attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell'Unità ed i genitori. Se ci si rendesse conto dell'inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare ad ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico".
Esattamente quello che prevede la legge 194 che dice testualmente "quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione di gravidanza può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto".
Niente da fare. Il rito barbarico va avanti. I prolife inneggiano ai medici coraggiosi che si sono schierati dalla parte dei feti indifesi e vitali. Ecco, finalmente, anche la scienza, anche la medicina dà torto alle donne, umilia la loro pretesa libertà, pone un limite. Ecco la trappola. Se le donne dicono di voler superare quel limite affermando di volere avere voce in capitolo anche sulla rianimazione di un feto vitale e già staccato dal loro corpo, è evidente che sono pronte a commettere un omicidio. E se sono capaci di assassinio dopo la ventiduesima settimana diventa evidente che è assassinio anche quello perpetrato entro i primi novanta giorni.
Così le donne si difendono, rispondono, sono arrabbiate perché la loro voce arriva molto debolmente, non scalfisce i mass media, si sentono vittime di una campagna che le accusa, le vuole colpevoli, le ha già condannate. Perché - è evidente - nell'immaginario la contrapposizione è fra la donna cattiva e il medico buono, chi vuole uccidere e chi vuole salvare la vita. Loro, noi, la vediamo con chiarezza l'intenzione ostile, l'inimicizia dichiarata. Ma la risposta che diamo è quella giusta? E' giusto contrapporre a chi dice che la decisione spetta al medico che, invece, deve essere la donna a decidere sempre e comunque? Ma in questo modo, stremate da una campagna che non ci aspettavamo, non cadiamo anche noi nella trappola dei proclami reattivi, del colpo su colpo?
Fino a quando durerà il rito barbarico? Non lo sappiamo, ma vorrei provare ad uscire dalla caverna, discutere nella luce del giorno, allontanare da me il pregiudizio e far vivere solo l'esperienza che ho avuto la fortuna o la sfortuna di fare, e la conoscenza che da essa è derivata. Scrivendo, forse, cose che non coincidono con le idee di Liberazione .
Io so che chi interrompe la gravidanza dopo venti faticose e amorose settimane quel figlio lo aveva voluto. La decisione di abortire è una scelta doppiamente dolorosa e può essere fatta in presenza di gravi malformazioni del feto. Venti settimane significa fra il quarto e il quinto mese , il bambino si sente, anche se fuori da quel grembo non può vivere. E' evidente, se si esaminano i fatti alla luce, fuori dalla caverna del pregiudizio, che il problema di una rianimazione di quel feto non si pone.
Ma la scienza oggi ci dice che dopo la ventitreesima settimana c'è qualche possibilità che il feto possa vivere e dalla ventiquattresima settimana in poi queste possibilità aumentano. Che deve fare il medico in questo caso?
Lui sa che la donna ha rifiutato quella maternità, e con lei, probabilmente, anche il padre. Solo lui è in grado di sapere con qualche certezza fino a che punto c'è speranza per quella vita. Sa anche quanto quel feto soffre o soffrirà ancora. Si chiede se quella sofferenza abbia un senso. Può ragionevolmente prevedere se morirà e in che tempi. Io voglio sperare che quel medico parli con la madre, e con il padre, per quanto possa essere doloroso e straziante. Sono sicuri di non volerlo accogliere? Non hanno cambiato idea? Lo so, è terribile, ma le situazioni anche le più terribili vanno guardate in faccia. Vorrei che quel medico rispettasse, con le parole e con gli atti, con tutta l'umana comprensione di cui è capace, la decisione di quella donna, di quella coppia. Ma sapesse spiegare - questo è il punto - che non volere quel figlio malato non equivale necessariamente a volere la sua eliminazione. La libera scelta della donna di fronte a una maternità non voluta prevede l'aborto, quando il feto è ancora parte della madre, quando l'uno e il due sono ancora intrecciati. Quando invece l'altro c'è, e, forse, per quanto malato, e forse destinato a morire, può vivere senza la madre, quella logica non vale più. Vale un'altra logica e un'altra scelta etica. La libertà della donna può essere solo, a quel punto, libertà di rifiutare, di restituire alla comunità una nascita che non si accetta. E il rifiuto della maternità - ricordiamolo - è contemplato dalla legge. Quante volte lo abbiamo sentito evocare quando venivano trovati neonati nei cassonetti delle immondizie. Alla donna che non vuole riconoscere il figlio è garantito l'anonimato e il rispetto. Così è stato promesso.
Capisco che per una donna sapere che quel figlio prima desiderato, poi rifiutato possa essere vivo, o possa vivere anche per poco, possa soffrire, è devastante. Sapere che quel feto è vitale e soffre, apre abissi di infelicità e disperazione. Ma la libertà, purtroppo, è spesso libertà di scegliere fra due infelicità, due disperazioni. La libertà è anche accettare il fatto che la legge, anche la migliore delle leggi, si fermi - si deve fermare - ad un certo punto. E lasciare la donna di fronte alla propria scelta. Senza colpevolizzarla, senza demonizzarla, per un'accoglienza che non si sente di dare. Va nominato il suo dolore e le va dato conforto. Se conforto ci può essere.

il manifesto 6.8.08
Veltroni. L'angelo in fuga, per la sconfitta
Pancho Pardi


Un angelo mite si aggira per l'Italia. Ovunque sparge serenità e pacificazione. Sindaco di Roma, risponde alle lettere sulle buche nelle strade periferiche. Volontario altermondialista, va in Africa tra i dannati della terra a riparare i danni del postcolonialismo. Biografo, ci fa rimpiangere la vita troncata di un giovane jazzista. Romanziere, riempie l'assenza di Patricio con la letteratura. Cinefilo, offre alla sua città il fulgore dell'ennesima mostra di cinema.

Ma oggi fa molto di più: la sua efficacia taumaturgica indirizza la modesta appiccicatura di due partiti - esangui nello spirito ma puntigliosi nel gestire il potere terreno - verso la palingenesi di uno slancio civile maggioritario. Un nuovo partito solo al comando, senza alleati riottosi, senza coalizione farraginosa, con un principio essenziale: molto più importante che vincere è governare. Così importante che non bisogna preoccuparsi troppo se alla fine lo fanno gli altri. La morale è virtuosa: il fine prevale sui mezzi. Così la mitezza si spinge fino a smantellare la propria coalizione e a rigenerare quella avversaria. Pochi mesi fa il centrodestra era dilaniato dalla rivolta dinastica dei luogotenenti, ognuno pronto a negare l'autorità del capo nella speranza di sostituirlo. Il centrosinistra aveva solo da aspettare che i dissidi maturassero e riducessero il capo al ruolo di pensionato. Ma era una procedura di sconsolante volgarità. Il nostro è stato molto più signorile. Invece di infilarsi nella polemica tra capo e sottoposti per far esplodere i loro contrasti e spezzare la coalizione avversaria, ha lasciato gli insorgenti alle loro bizzose polemiche e, trascurata come triviale la tenuta della propria coalizione, ha stabilito una salda intesa col capo avversario. Era evidente che delineare con lui una nuova legge elettorale e addirittura nuove modifiche costituzionali richiedeva la rinuncia alle leggi sul conflitto d'interessi e sul sistema televisivo, nonché all'abrogazione delle leggi ad personam. Ma che sarà mai il sacrificio di fronte all'utilità di ridisegnare l'Italia insieme all'ineleggibile! Il risultato è stato superiore a ogni immaginazione. Il centrosinistra è collassato e il centrodestra si è di nuovo unito sotto il comando indiscusso del leader dato già per superato, che ora si avvia a verificare il nuovo imprevisto vantaggio nelle prossime elezioni. Ma l'operato angelico è indiscutibile. Così molti maestri del pensiero lodano su stampa e televisione la sua lungimiranza strategica e appoggiano la sua richiesta di porre fine allo sterile antiberlusconismo. Basta con lo scontro duro con gli avversari! Abbassiamo il tono, facciamoli vincere alla svelta e guardiamo avanti. E per dimostrare che è finita l'inutile lotta contro Berlusconi aiutiamolo magari a diventare Presidente della Repubblica. Così prende forma il definitivo superamento del machiavellismo. Il partito a vocazione maggioritaria serve soprattutto a ridursi in minoranza. La provvida sventura manzoniana si invera nella superiorità della sconfitta preventiva. E' il trionfo finale della dialettica: perché adoperarsi per una banalissima vittoria quando una sana sconfitta ci assicura la maturazione utile a vincere la volta prossima? Ma, se perdere è così utile a maturare, non converrà perdere anche la volta successiva?

il manifesto 6.8.08
Estrema destra
Botte e soldi, i nuovi balilla a scuola

Da Lotta studentesca al Blocco studentesco, piccoli fascisti crescono
Negli istituti superiori avanzano le due liste dell'estrema destra. Si ispirano al ventennio, si definiscono «rivoluzionari». Ora in molte città hanno in pugno i fondi degli organi studenteschi. Mentre si moltiplicano le denunce di spedizioni squadristiche contro i ragazzi di sinistra
Giacomo Russo Spena

«Sono gruppi ribelli e non conformi», dice un giovane infatuato. Sono i più «duri», aggiunge un secondo attratto dal loro «cameratismo» e machismo. «Sono tornati», ribatte chi ha memoria storica.
Nelle scuole italiane si torna a parlare di fascismo. O meglio tornano le liste che si ispirano esplicitamente al ventennio e ai suoi valori. L'avanzata a livello elettorale e sociale dell'estrema destra nei licei è un fenomeno dilagante. A nord come a sud. Dalle periferie metropolitane più degradate alle «zone borghesi»: «Cresciamo ovunque», dicono. «Gli studenti hanno bisogno di nuove proposte - spiega un giovane fascista milanese - e noi abbiamo un intento rivoluzionario. Combatti per le tue idee, lotta per la tua patria e ribellati al sistema, sono le nostre parole d'ordine». «Mai più antifascismo» o «Sveglia bastardi, la ricreazione è finita», sono i manifesti che vanno per la maggiore nelle scuole. Con il cartoon Bart Simpson che impersonifica il loro ribellismo. Si torna a fare i conti con chi fa apologia del fascismo: «Benito Mussolini ha creato lo stato sociale in Italia» si legge sui loro siti.
E la costituzione antifascista? «Me ne frego. Su alcuni punti è carta straccia. Parla invano anche di diritto alla casa e al lavoro, non è la mia costituzione», spiegano. Si rifanno direttamente a sigle maggiori: Blocco studentesco a Fiamma Tricolore, Lotta Studentesca a Forza Nuova, malgrado la consulta vieti la rappresentanza di giovani iscritti a partiti. Gruppi giovanili che, pur avendo tra loro attriti politici e culturali, hanno deciso in molte città di allearsi elettoralmente: «Anche con i badogliani di An - dicono - pur di arrestare i comunisti». Hanno trovato un'intesa programmatica su precisi punti: lotta contro il caro libri, finanziamenti per l'edilizia scolastica e soprattutto l'anticomunismo. Per il resto non hanno molto da spartire, se non «pratiche squadristiche» che loro stessi rivendicano.
La composizione delle consulte provinciali studentesche, piccoli parlamenti biennali che gestiscono in modo indipendente ben 80 mila euro, evidenziano questa escalation. A macchia di leopardo. «Esiste un problema reale sull'espansione dell'estrema destra a livello giovanile», spiega Valentina Giorda dell'Unione degli studenti, che segnala però una «falsità sostenuta dai media»: «Le elezioni non sono state vinte dalla destra ma da noi». I dati ufficiali del ministero dell'Istruzione confermano. Ma evidenziano anche i successi dell'estrema destra in consulte prima «rosse».
A Roma, dove ha vinto Azione Studentesca (emanazione diretta di Azione giovani) con l'appoggio decisivo del Blocco, si è verificato uno dei «ribaltoni» più significativi, coi collettivi di sinistra che denunciano «brogli elettorali e ritorsioni agli indecisi nel momento del voto». E se qualcuno si è appellato a Fioroni per «l'annullamento del voto e lo scioglimento della consulta perché illegittima», il «cartello nero» ha risposto alzando il livello dello scontro: «Se il ministro cederà alle pressioni della sinistra, sconcertata dalla clamorosa sconfitta, si ritroverà tutte le scuole in agitazione. Se solo si azzarderanno a mettere in discussione l'esito del voto, sarà il caos».
La capitale in questi giorni è un fronte caldo: l'8 febbraio mentre Blocco scenderà in piazza per «ricordare i martiri delle foibe», la Consulta studentesca (gestita dalla «cosa nera») ha organizzato, spendendo quasi 5 mila euro, un convegno nel teatro Brancaccio dal nome «Istria, Slovenia, Dalmazia, anche le pietre parlano italiano». «Una convention autoreferenziale che tenterà di trasformare la storia in propaganda, presso cui convergerà una sfilata di vessilli e slogan fascisti», denuncia la rete di studenti autorganizzati che per quel giorno lancia una serie di incontri per «affrontare sul serio la vicenda triestina in tutte le sue implicazioni, senza lasciare spazio a chi elogia il ventennio e vuole riproporne mentalità e cultura di prevaricazione».
Oltre al caso capitolino, su come vengono spesi i fondi pubblici c'è il problema della scarsa trasparenza e dell'arbitrarietà. Lo ammette anche Cesare Giordina, esponente di As: «Quando governava la sinistra i soldi andavano per iniziative sulla Resistenza, adesso la musica è cambiata». A Verona, dove il presidente della consulta è di Lotta studentesca, verranno stanziate risorse per la sicurezza e contro «le azioni violente degli immigrati nei confronti degli studenti». Stessa pratica in molte altre città del nord: «Clandestini attenti», sostengono sui loro blog con tanto di firma, «giovinezza al potere».
Ma la «cosa nera» non è unita in tutto. «Il nostro movimento è laico e lotta contro le ingerenze del Vaticano», afferma il portavoce di Blocco Studentesco Francesco Polacchi, che ritiene degli «idioti» quelli che professano l'integralismo cattolico. Chiaro riferimento ai «camerati forzanovisti» che si rifanno a un passato lefebvriano con la famiglia perno centrale della società. Entrambi i gruppi però condividono un sistema valoriale e culturale che va dall'esplicito richiamo al fascismo («Un marmo contro la palude della storia italiana» per dirla alla Gianluca Iannone, leader di Fiamma Tricolore) all'arresto dell'immigrazione (con qualche distinguo) e di «tutte le droghe».
Per non parlare delle crociate comuni contro i libri di storia, accusati di «propaganda antifascista», per la promozione di «escursioni naturalistiche di tipo futurista» e l'aumento delle ore di educazione fisica («Mens sana in corpore sano»). «Preferisco rimanere a letto piuttosto che fare il guerriero in giro», scherza Giordina che appartiene, come quasi tutto il suo movimento, alla destra sociale di An. «A me - aggiunge - interessa parlare alla società non solo ai fascisti, ci vuole modernità nei contenuti. Certo molti nostri militanti non rinnegano il ventennio mettendosi la celtica al collo. Non ci dimentichiamo del nostro passato». Il loro leader Gianni Alemanno dà l'esempio.
Chi fa della «militanza fascista a tempo pieno» nelle scuole una parola d'ordine è Lotta studentesca. «Abbiamo attecchito in un mondo giovanile in cerca di riferimenti forti, estremi e stanco di un mondo politicamente corretto», spiega Daniele Pinti che, dati alla mano, si gongola dei risultati: «Abbiamo ottenuto rappresentanti scolastici in istituti storicamente di sinistra, a Roma più di 6 mila voti e vari presidenti per l'Italia. Attrae il nostro stile e il fatto che diamo ai ragazzi delle risposte non solo sulle problematiche scolastiche, ma anche su quello che li aspetta fuori. Su questo abbiamo in cantiere delle azioni divertenti e clamorose».
Stesso spirito «guerriero» è presente in Blocco studentesco che, come Fiamma, si maschera dietro il politically correct. Sono loro la vera sorpresa delle elezioni scolastiche. «Abbiamo quintuplicato i voti in tutta Italia, nella capitale siamo arrivati a 10 mila voti», afferma Polacchi. E la crescita è stata più o meno omogenea. La vittoria è stata dettata da un programma molto «materiale» e «prossimo» agli studenti: battaglia contro le carenze strutturali delle scuole, in primis. Rivendicazioni che troppo spesso la sinistra abbandona bollandole di «populismo» per dare spazio a lotte più generali. Ma la capacità di Blocco è quella di essere un «animale strano»: fa proprie rivendicazioni storicamente di sinistra (in linea con il passato movimento d'estrema destra «Terza Posizione») come la campagna contro i fondi alle scuole private e lo sviluppo dell'energia solare («Fratello Sole» è il nome del loro progetto di intervento sul fotovoltaico).
Assente, visti i numeri dei loro cortei, quella capacità di mobilitazione presente nei collettivi di sinistra: tra voto e militanza c'è una differenza. «I fascisti, per fare un'occupazione al liceo Farnesina di Roma, hanno dovuto sudare mille camicie e si sono fatti aiutare dagli esponenti di Fiamma e Casa Pound (centro sociale legato al partito, ndr)», denuncia un ragazzo che preferisce rimanere nell'anonimato per paura. Qui è il punto. La crescita elettorale dell'estrema destra è collegata ad un aumento di azioni «squadristiche» contro ragazzi «sinistrorsi»: Bari, Genova, Roma e l'ultima solo qualche giorno fa a Treviso. Un clima di crescente tensione denunciato dai collettivi autorganizzati che dichiarano di essere «minacciati» quotidianamente da «giovani riconducibili a queste liste fasciste».
«Lungo è l'elenco di attacchi ai danni di studenti alternativi, omosessuali e rom», ricorda infatti l'Uds. E capita spesso, a sentire le denunce dei collettivi autorganizzati, che Blocco si faccia aiutare dai «fratelli maggiori»: è facile veder volantinare nelle scuole militanti trentenni. In fondo, come dicono, la militanza fascista è a tempo pieno. Tutto fa pensare a una chiara operazione di «intervento» nelle scuole dell'estrema destra, con l'organizzazione militarizzata, da vero partito, delle loro liste studentesche. Per stracciare la concorrenza di sinistra. E ora i «nuovi balilla» potranno anche usare i fondi pubblici delle consulte provinciali.

il manifesto 6.8.08
«Questo nuovo fascismo mina la democrazia»
«La politica è troppo indulgente verso le nuove forme di xenofobia e violenza. Il regime è stato peggiore di quanto si ricorda». Parla il comandante partigiano Massimo Rendina, presidente dell'Anpi Roma
g.r.s.

Roma

«Si vuole riabilitare il peggior fascismo, quello collaborazionista coi nazisti successivo all'8 settembre 1943». Massimo Rendina, 88 anni, presidente dell'Anpi Roma e soprattutto comandante di una brigata Garibaldi durante la Resistenza, non si capacita della crescita giovanile di «determinati gruppi xenofobi». E' tra gli intellettuali e politici di sinistra che hanno scritto un appello al ministro Fioroni affinché vengano sciolte quelle liste scolastiche che si rifanno esplicitamente al ventennio. Hanno scritto anche al prefetto della capitale Carlo Mosca «per vigilare sullo squadrismo ai danni dei giovani di sinistra».
Perché, a suo parere, è stato possibile un ritorno nelle scuole di queste ideologie?
La diffusione è dovuta principalmente alla non conoscenza della storia. I giovani d'oggi hanno perso la memoria dell'Italia. C'è un'idea generale di un fascismo migliore di quello che realmente è stato, non si conoscono le cifre esatte. In pochi ricordano le leggi razziali del '38 o le 32 mila persone deportate perché antifasciste. Il ventennio è stato sicuramente peggiore rispetto a quello che poi è rimasto nell'immaginario collettivo. E' colpa certamente dei programmi scolastici, che non affrontano bene il periodo, ma più in generale della famiglia e della società che non trasmettono più determinati valori. Dobbiamo restituire il vero significato a parole ora abusate, come «libertà», e affermare una reale coscienza democratica. Anche all'interno della sinistra.
In effetti la situazione inizia ad essere preoccupante...
Innanzitutto per analizzare bene il fenomeno bisogna dire che ci sono più fascismi. Lo dice il passato: Mussolini è riuscito a unificare le varie correnti in un solo movimento che nella genesi si manifestava in più forme. Ora da un lato c'è il fascismo violento, d'attacco nei confronti del diverso, che cresce soprattutto a livello giovanile. E su questo c'è troppa tolleranza, le forze dell'ordine non intervengono a sufficienza. E' un fascismo pericoloso per l'incolumità fisica delle persone, ma che a livello politico non preoccupa più di tanto. E' destinato a non egemonizzare le masse, una coscienza antifascista di base gli italiani ce l'hanno! D'altra parte c'è il nodo vero della questione, la crisi della democrazia. Nel paese c'è una destra politica, come Forza Italia, che con questa gente fa alleanze elettorali. Che dimostra una sorta di benevolenza verso forme autoritarie che riguardano la storia del fascismo. Lo stesso Berlusconi ha dichiarato che «i luoghi di confino erano posti di villeggiatura».
Come si può arrestare il nuovo squadrismo giovanile?
Non credo basti soltanto la legge ma se c'è, va applicata. Mi riferisco al decreto Mancino. Parla chiaro: è vietata la ricomposizione del partito fascista e l'istigazione di quei valori razzisti e xenofobi che professano. E poi lo sancisce quella Costituzione repubblicana, che il parlamento ha provato in tutti i modi a ritoccare. Evidentemente non si ha una visione democratica. Lo dimostra anche le missioni di guerra all'estero che vanno in direzione opposta all'articolo 11 della Carta. E poi c'è la cultura, l'arma principale per arrestare lo squadrismo. La politica, quella vera, deve essere cultura. Quest'ultima ha il compito di riabilitare la nostra storia se vogliamo andare avanti come paese: sconfiggere innanzitutto quelle propensioni revisioniste che mettono sullo stesso piano repubblichini e partigiani. Durante la Resistenza da un lato c'era chi voleva l'oppressione e la schiavitù e dall'altra chi si spendeva per la libertà, i diritti e l'essere umano, per dirla con le parole di Primo Levi. E allora io dico basta con la logica degli opposti estremismi. Ma oggi il nostro arduo compito è spiegarlo alle nuove generazioni.

il manifesto 6.8.08
ROMA
Gli studenti antifascisti si mobilitano


Nella capitale si prevede un 8 febbraio movimentato: se da un lato Blocco studentesco ha organizzato un corteo per «ricordare gli italiani, martiri delle foibe», dall'altra c'è chi, riconoscendosi nella Costituzione, è pronto a rispondere a chi manifesta «idee fasciste». Sono i collettivi antifascisti che stanno organizzando per quella data una mobilitazione diffusa nelle scuole: «Assemblee, dibattiti, iniziative - dicono - per riflettere in modo critico sulle foibe, osteggiando l'uso strumentale della memoria di certi individui». Inoltre denunciano il silenzio delle istituzioni che «fanno sfilare gruppi che si ispirano ai valori del ventennio».

il manifesto 6.8.08
Emergenza embrioni
Il Vaticano: non masturbatevi
Alessandro Robecchi


Continua la paterna attenzione del Vaticano nei confronti degli embrioni italiani. Aver ottenuto la patente, il cellulare e il diritto di poter frequentare gratis costosissime scuole cattoliche non esime gli embrioni dalle più elementari regole di decenza e di coerenza cattolica. «Noi abbiamo difeso gli embrioni - scrive una nota non firmata sull'Osservatore Romano - quando la società italiana li uccideva e li congelava. Ora però questi benedetti ragazzi devono imparare a vivere secondo le regole della Chiesa». Un chiaro riferimento ai casi di bullismo tra embrioni registrato in alcune cliniche romane e milanesi. Persino il Santo Padre tornerà sull'argomento nell'udienza del mercoledì, invitando gli embrioni a non masturbarsi. Anche alcuni ginecologi lanciano l'allarme sull'emergenza embrioni: «Alcuni si fanno le canne, e a quell'età è pericoloso».

il manifesto 6.8.08
Reportage
Suicidi e sbarre, un carcere da pazzi
Nell'opg di Aversa, ultima spiaggia per i «matti pericolosi» che nessuno vuole
Francesca Pilla

Aversa

Massimo piange come un bambino, si rannicchia in un angolo, le sue urla sono profonde e roche. Sbatte la testa contro il vetro del reparto in cui è chiuso da anni. Una, due, tre volte. Non si spacca perché è infrangibile. Ha una crisi. Le guardie penitenziarie lo guardano, tentano di calmarlo con le parole, gli infermieri non intervengono, non è grave, la cura è già stata somministrata. In questi casi solo il medico di turno può decidere se propinare altri calmanti o, nel peggiore dei casi, costringerlo in un letto di contenzione, mani e polsi legati, imboccato e con un buco per cacare. Può restare così per giorni. Non questa volta, lo chiudono in gabbia. «Aspettiamo che gli passi - spiega una guardia - sono settimane che va avanti così. Si è innamorato di un compagno di cella, li abbiamo dovuti dividere». Viene spontaneo chiedere se fosse un amore corrisposto, la risposta è il riassunto della vita quotidiana in carcere: «Macché - sorride il secondino - qui si vendono per una sigaretta».
Questo è l'Opg di Aversa, metà carcere metà manicomio, dove sono ricoverati gli autori di reato prosciolti per «incapacità di intendere e di volere», ma con perizia di «pericolosità sociale». Quello che resta del dopo Basaglia, la desolazione, perché se i manicomi sono stati chiusi per legge l'integrazione non c'è stata. I matti non li vuole nessuno e l'ultima spiaggia si chiama Ospedale psichiatrico giudiziario, che pure con la legge Basaglia non c'entrano. Ma le case famiglia non sono mai decollate, le Asl territoriali che dovrebbero prenderli in cura li rifiutano, i parenti li scaricano. Anzi spesso sono proprio le famiglie a denunciarli e se riescono a «rinchiuderli», bingo, non vengono più a riprenderli. Così se in genere la detenzione va da 3 a 12 anni, ed è revocabile in caso di «guarigione», in realtà quando varchi la soglia di un Opg (solo 6 in Italia) non ne esci più.
Eccoli gli ergastolani «bianchi», nella Filippo Saporito sono 360, la struttura potrebbe accoglierne al massimo 150. Tre suicidi in trenta giorni nel 2006, due nell'ultimo mese. Il 4 e il 31 gennaio due ragazzi sulla trentina si sono impiccati per lo stesso motivo, erano usciti dall'inferno con l'obbligo di firma, ma sono «ricaduti» nella rete.
«Telefono ogni giorno alle Asl, perché la maggioranza dei malati potrebbe tranquillamente uscire, ma nessuno li vuole», spiega Adolfo Ferraro, il direttore che nell'istituto ci è praticamente cresciuto professionalmente, ogni giorno facendo una scommessa sul suo lavoro, sulla possibilità di cambiare le cose. «Sono nel deserto con una struttura che potrebbe far fronte a meno della metà dei pazienti attualmente internati». I numeri parlano da sé: un solo educatore ufficiale, due in licenza finale, due psicologi di ruolo, psichiatri a turni, 40 medici e infermieri, mentre i poliziotti sono 150. «Non dispongo nemmeno di un vicedirettore», commenta Ferraro. E se la «buona volontà» aiuta, la mission di un Opg dovrebbe essere la cura, non la repressione. Nonostante i laboratori, il teatro, la pet therapy, la ceramica, il cineforum, questo è e resta un carcere. L'area verde di 8.000 metri quadri popolata da germani reali, anatre mute, oche del campidoglio, con un piccolo stagno e l'agrumeto si scontrano con le torrette di controllo, il muro invalicabile, le grosse porte in ferro che si chiudono sbattendo dietro le tue spalle.
Giuseppe Palazzesi è uno dei protagonisti dell'Aspettando Godot andato in scena con i malati di Aversa a metà gennaio al teatro Galleria Toledo. Sguardo lucido, rughe profonde, dita gialle, sorriso a tre denti. Qui «risiede» da 13 anni, è stato in una casa famiglia per 7 mesi, poi ha litigato con i coinquilini e l'hanno rispedito indietro. «Sto per uscire - dice a tutti - tra poco mi chiamano. Voglio andare a lavorare e tornare nel mondo, non mi riporteranno più qui dentro». Ha 53 anni, ha subito violenze dal padre quando era piccolo e nessuno ha il coraggio di dirgli che i cancelli per lui non si apriranno, né oggi, né domani. E' stato rinchiuso per aver rotto un telefono alla stazione Termini di Roma.
C'è silenzio e pulizia nei viali alberati, dietro le sbarre c'è una ragazza bionda con lo sguardo nel vuoto. Cristina è un transessuale, per ovvie ragioni in un istituto maschile, vive in un reparto isolato. «Potete tenermi qui per sempre, tanto fuori non c'è nessuno che mi aspetta», ha detto appena messo piede nella Filippo Saporito. Ha rubato un'autoambulanza mentre era in preda al delirio, un punto d'arrivo dopo diversi passaggi in carcere e una violenza sessuale da piccolissimo alla base.
Storie su storie, ognuna degna di attenzione, con dignità anche per chi si è macchiato di gravi delitti. Ma qui si perdono in un labirinto costipato, zeppo di uomini accatastati, tra fumo e medicine. Come quella di Alfredo Gioffruà, lo psichiatra che - come diceva Basaglia - è andato troppo lontano e si è rotto. Nel 2003 a Milano ha ucciso con una balestra un collega, ora vive con quelli che prima curava. Appena arrivato rifiutava le cure e teneva un lista di psichiatri da uccidere una volta uscito dall'Opg. C'era lo stesso direttore Ferrara. Ora sta «bene», ma gli sarà mai permesso di tornare in libertà quando gli stessi colleghi milanesi si sentono più sicuri a tenerlo dentro?

il manifesto 6.8.08
Dalla Cina degli anni '70 le trame insidiose del passato
Uscito negli Usa, il saggio biografico di Gao Wenqian su Zhou Enlai ripropone il tema dell'immagine spesso distorta che dirigenti e militanti comunisti vollero dare di sé
Silvia Calamandrei


Dopo il massacro di Tien Anmen, Gao Wenqian, ex biografo ufficiale di Zhou Enlai e seguace di Zhao Ziyang, lasciò la Cina per gli Stati Uniti dove si fece recapitare dagli amici cui le aveva affidate le schede redatte in quattordici anni di lavoro sul numero due del Pcc. La ricerca di Gao si era concentrata soprattutto sull'ultima fase, quella della Rivoluzione culturale, in cui Zhou - spesso sotto attacco da parte della fazione ultrasinistra ma mai in rottura completa con Mao - realizzò il suo colpo maestro, la visita di Nixon in Cina e l'apertura delle relazioni con gli Usa. Sono questi gli anni che ora Gao racconta in The Last Perfect Revolutionary, versione ampliata dell'originale cinese uscito nel 2003 e intitolato appunto Gli ultimi anni di Zhou Enlai (Wannian Zhou Enlai).
In realtà, già alla metà del secolo Zhou Enlai aveva acquisito fama internazionale, con la strategia di Bandung e il ruolo nelle trattative per chiudere il conflitto franco-vietnamita in Indocina. Ma non meno significativa è stata la sua posizione di tessitore interno di stabilità e alleanze - una posizione non facile se si considera che nel corso delle aspre lotte della Rivoluzione culturale i dossier risalenti alle lotte interne al Pcc negli anni '20 e '30 (all'epoca dell'influenza determinante del Komintern) rimasero sempre attivi, ad alimentare persecuzioni e denunce. Dalla equilibrata ricostruzione di Gao risulta che ancora in punto di morte Zhou Enlai dovette giustificarsi e rettificare notizie relative agli episodi di dissenso con Mao, aggiornando la sua «autobiografia» per difendersi dalla campagna scatenata contro di lui dalla «Banda dei quattro». Del resto, durante la Rivoluzione culturale largo uso fu fatto delle autodenunce redatte nel corso delle varie campagne di rettifica precedenti, con la riesumazione di crimini che sembravano essere stati perdonati.
La pratica delle autobiografie nel movimento comunista è il tema centrale del libro di Mauro Boarelli La fabbrica del passato (Feltrinelli 2007), già commentato su queste pagine da Cesare Bermani. In una recente presentazione del libro a Roma, Alessandro Portelli ha sottolineato l'importanza che ha avuto il Pci nel dare voce a innumerevoli militanti di base, anche attraverso lo strumento ambivalente dell'autobiografia: le prescrizioni che organizzano il racconto inquadrano il militante in una struttura autoritaria, ma al contempo gli offrono sostegno nella strutturazione espressiva. E sicuramente il lavoro di acculturazione che negli anni '50 e oltre ha avuto luogo nelle sezioni e nelle scuole di Partito ha rivestito un ruolo non secondario nella costruzione della partecipazione democratica nella giovane repubblica italiana: sarebbe dunque opportuno uno studio più sistematico dei materiali custoditi negli archivi dell'ex Pci, non tutti ancora aperti alla consultazione.
Ma ci sono versanti più inquietanti da esplorare, su cui Boarelli apre uno spiraglio nel capitolo Insidie del passato, con un excursus sulle biografie dei dirigenti comunisti custodite negli archivi sovietici che prende spunto dalla tragica vicenda di Memo Gottardi, dirigente della Scuola Marabini a partire dal 1950 e vissuto per sedici anni in Urss. Non solo nella sua autobiografia depositata al partito, ma perfino in famiglia, Gottardi fece mai menzione della sua esperienza nelle carceri sovietiche, di cui serbava ancora il segno. Gottardi fa parte di quei quadri rientrati dall'emigrazione a Mosca che ebbero un ruolo importante nella strutturazione dell'apparato del Pci nel dopoguerra: sono coloro che vissero la «bolscevizzazione» fin dagli anni '30 e si temprarono, «sommersi o salvati», nelle purghe staliniane. Valorizzati nella fase di costruzione del partito nuovo, furono man mano accantonati dopo il 1956, conservando ruoli nell'apparato di controllo, preposto a sancire le deviazioni e a comminare le espulsioni. Il capitolo sulle Insidie del passato indica nell'Internazionale comunista degli anni '20 le origini della pratica dell'autobiografia e la valenza di schedatura che essa assunse laddove il partito si fece Stato.
Se nei partiti non al potere, queste pratiche di costruzione identitaria del militante influirono sulle carriere all'interno del partito approdando al massimo alle espulsioni, ben altro peso acquistarono nella Russia sovietica e già nelle basi rosse del Partito comunista cinese. A questo proposito, si può evocare la descrizione che della pratica della autobiografia ha dato la scrittrice Yang Jiang nel romanzo Xizao, del 1988, tradotto in francese con il titolo Le Bain (Christian Bourgois 1992). Il bagno di cui si parla è quello richiesto agli intellettuali cinesi nel primo grande movimento di rettifica degli anni '50, la campagna «Tre Anti», una esperienza vissuta in prima persona da Yang Jiang e il marito Qian Zhongshu, docenti di letteratura straniera rientrati dopo lunghi anni trascorsi all'estero. Nel libro vengono descritte con leggerezza e ironia le meschinerie reciproche degli accademici nel redigere le proprie autobiografie, sottoposte al vaglio delle «masse rivoluzionarie»; ne esce un ritratto impietoso dell'intellighenzia, ma anche una ricostruzione drammatica dell'invasione del privato operata da queste pratiche di «conformizzazione».
Ma tornando ai comunisti italiani e alla loro «via nazionale», ci si può consolare con l'abbandono della pratica dell'autobiografia dopo il '56 e con le dure parole autocritiche riferite da Boarelli che Mario Spinella pronunciò ricordando «con raccapriccio» le proprie teorizzazioni dell'autoflagellazione in un articolo su «Rinascita» del 1948. Si può dunque concordare che il fondo bolognese analizzato da Boarelli accresca la nostra conoscenza della militanza di base, finora poco ricostruita nelle storie del Pci, fornendoci un ritratto dell'Italia operaia e contadina in quegli anni.
Altro però è il discorso per la funzione dell'autobiografia nei confronti degli intellettuali che entrarono allora nel Partito comunista. Ho di recente ritrovato quella scritta nel 1950 da mio padre, Franco Calamandrei, che verrà pubblicata nel volume a cura di Alessandro Casellato Una famiglia in guerra, di prossima uscita per Laterza. Portelli, con cui ne ho discusso in occasione della presentazione del libro di Boarelli, e che non ha ancora letto il testo, ha ipotizzato che si sia trattato di una «resistenza in forma di consenso»: se cioè il partito chiede una biografia strutturata in modo burocratico, io gliela dò ma lascio fuori il meglio di me, senza che i burocrati nemmeno se ne accorgano. È indubbiamente una tattica che molti hanno seguito, perfino nei processi staliniani, e nel libro di Yang Jiang si trovano esempi di confessioni esagerate per evidenziarne la natura assurda. Ma i risultati non sono mai stati felici. Il «patto autobiografico» concluso con il censore non può che tradire l'autenticità.