venerdì 8 febbraio 2008

l’Unità 8.2.08
Coppie di fatto: più figli nessun diritto
L’Italia vera: più convivenze e più figli dalle coppie di fatto
L’Istat: un bambino su cinque nasce fuori dal matrimonio
di Anna Tarquini


In famiglia ma fuori dal matrimonio. Sempre più italiani scelgono le convivenze e le coppie di fatto - in linea con la tendenza europea - fanno figli senza poi sposarsi. Un bambino su cinque nasce fuori dal matrimonio, segno che sempre più persone sono titolari di diritti non ancora riconosciuti dallo Stato italiano. Ce lo dice l’Istat nel nuovo rapporto sulla famiglia italiana e che rileva - anche - l’allungamento della vita media degli italiani.

MATRIMONI GIÙ, convivenze su. Secondo l’Istat i matrimoni celebrati nel 2007 sono 242mila contro i 270mila di cinque anni prima. A questo calo si accompagna un aumento delle coppie che scelgono di mettere su famiglia senza formalizzare il legame.
Andamento confermato dall'incremento delle nascite naturali che rappresentano il 18,6% del totale rispetto al 12,3% del 2002 e da quello delle nascite «legittime» che scendono dall'87,7% all'81,4%. Non si è certo ai livelli europei, in Francia le nascite fuori dal matrimonio superano il 50% e nel Regno Unito il 44%, ma è comunque un segno di trasformazione del comportamento familiare in Italia. - «L'Istat conferma che serve una legge - ha detto il ministro per i diritti e le pari opportunità Barbara Pollastrini - . Nel nostro Paese ci sono modi diversi di intendere i progetti affettivi. Per questo mi sono battuta, e continuerò a battermi, per una legge che riconosca i diritti e i doveri dei conviventi». E una legge che riconosca pari diritti e pari dignità a tutti i nuclei familiari esistenti torna a chiedere anche Grillini. «La fotografia dell'Istat sulle famiglie italiane - dice il deputato socialista - è l'istantanea di una rivoluzione: crollano i matrimoni tradizionali, trionfano le coppie di fatto con figli nati fuori dal matrimonio, in perfetta sintonia con ciò che accade nel resto d'Europa. Il nostro Paese - aggiunge - è l'unico che ancora distingue tra figli legittimi, quelli nati nel matrimonio, e figli naturali, quelli nati fuori dal matrimonio. E questi ultimi continuano ad essere discriminati in materia successoria». Secondo l'Istituto nel Centro-Nord le coppie si rifanno a un modello familiare più in linea con le tendenze dei Paesi nord-europei, meno legate al matrimonio e più libere da vincoli nei confronti della natalità. Invece nelle regioni del Mezzogiorno vige un modello di coppia di stampo più tradizionale, dove il passaggio del matrimonio rappresenta un vincolo importante prima di avere dei figli.
Ma in Italia - dove la popolazione si avvicina rapidamente a quota sessanta milioni - si vive anche molto di più. La speranza di vita alla nascita è pari a 78,6 anni per gli uomini mentre supera gli 84 anni per le donne; gli uomini italiani sono secondi soltanto agli svedesi (78,9)in longevità, ma davanti a olandesi (77,9) e irlandesi (77,6). Lo stesso vale per le donne, seconde soltanto alle francesi (84,4) ma davanti a spagnole (83,9) e svedesi (83,1). Gli uomini vivono di più in Umbria, le donne nelle Marche. Nel 2007 ci sono state tremila nascite in più. E questo anche grazie alla presenza degli immigrati che ormai sono 6,6 ogni mille abitanti e segnano il tasso migratorio più alto degli ultimi quattro anni. Il numero medio di figli per donna di 1,34 e il confronto internazionale vede il nostro Paese sfavorito per quel che concerne i livelli di fecondità, ancora sotto la media dei paesi dell'Ue (1,51 figli per donna la stima 2007), ma soprattutto molto lontani da quelli di importanti paesi europei come Francia (1,98), Irlanda (1,93) e Svezia (1,85). La fecondità italiana è, invece, più o meno uguale a quella tedesca (1,34), spagnola (1,36) e portoghese (1,36). A causa dell'effetto migratorio poi, la crescita totale è positiva soprattutto nel nord-est (9,4 per mille) cui seguono il centro (9,0) e il nord-ovest (7,6).

Corriere della Sera 8.2.08
Gli italiani vivono di più. Coppie di fatto in aumento
L'Istat: nascite e nozze sotto la media europea
di Alessandra Arachi

Stiamo sfiorando i 60 milioni: un terzo supera i 64 anni. Un bambino su cinque nasce fuori dal matrimonio
ROMA — Stiamo arrivando a sfiorare i 60 milioni e siamo sempre più anziani. Non soltanto perché uno su cinque supera i 64 anni, ma soprattutto perché è l'aspettativa di vita che continua ad aumentare: è arrivata a circa 80 anni (84,1 anni per le donne e e 78,6 per gli uomini), con un aumento dell' 0,2 in soli dodici mesi.
Nascono sempre pochi bambini (siamo sotto la media dell'Europa) e sono sempre di più quelli che vengono al mondo fuori dai matrimoni, anche quelli in calo, ancora una volta, mentre sono in aumento le coppie di fatto. L'Istat diffonde i dati 2007 della nostra demografia e scopriamo che il saldo positivo della popolazione (il rapporto tra nati e morti) è positivo soltanto grazie agli immigrati.
Qualche numero. Il tasso di fertilità oggi in Italia è di 1,34 figli per donna, contro l'1,51 della media europea e poco importa se siamo risaliti rispetto al minimo storico, toccato nel 1995 con 1,19.
Dice, infatti, Gian Carlo Blangiardo, demografo dell'università di Milano Bicocca: «Quest'anno festeggiamo il triste primato del trentennale della caduta sotto la soglia del ricambio generazione (ovvero con un tasso di fertilità inferiore a 2). E questo crea un Paese asfittico: non possiamo più andare avanti senza il ricambio». Nel frattempo andiamo avanti migliorando, e parecchio, la nostra qualità della vita. Per capire: era appena il 1927 quando l'aspettativa di vita degli italiani superava di poco i 50 anni. E oggi come longevità, gli uomini italiani sono secondi soltanto agli svedesi (78,9) ma davanti agli olandesi (77,9) e agli irlandesi (77,6). Così come per le donne, che sono seconde soltanto alle francesi (84,4), ma davanti alle spagnole (83,9) e alle svedesi (83,1).
Ma la novità di questi dati demografici sono sicuramente i mutamenti delle strutture familiari: aumentano le coppie di fatto e dunque i bambini nati fuori dal matrimonio. E diminuiscono i matrimoni. In particolare, i bambini nati fuori dal matrimonio sono arrivati a essere quasi uno su cinque, passati, in soli cinque anni, dal 12,3% del 2002 al 18,6% del 2007.
I matrimoni sono diminuiti passando da un tasso di 4,6 per mille a un 4,1 per mille. In numeri assoluti: nel 2007 ne sono stati celebrati 242 mila contro i 270 mila di cinque anni prima.

l’Unità 8.2.08
Foibe, la tragedia di due popoli contro
di Bruno Gravagnuolo


DOMANI CON L’UNITÀ il libro di Pierluigi Pallante sul dramma della Venezia Giulia tra il 1943 e il 1954. Gli infoibamenti, l’esodo degli italiani, la questione di Trieste e il ruolo del Pci di fronte all’annessionismo jugoslavo

Qualche settimana fa, nel recensire un libro di Eric Salerno sugli ebrei libici italiani internati nel lager di Giado, Dario Fertilio sul Corsera scriveva che «nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe nel Quarnaro, fu teatro di stragi italiane numericamente più rilevanti». In realtà a Giado i morti di stenti furono «solo» 560, benché per un ordine iniziale, per fortuna revocato, i circa mille internati dovevano essere uccisi tutti, prima dell’arrivo degli inglesi nel 1943. Ebbene quel che colpisce, nel resoconto, sono l’incipit e l’inciso: «Nessun altro luogo, includendo l’isola di Arbe... ».
Eppure Giado fu una «piccola» cosa in confronto ad Arbe, e a Gonars, Visco, Monigo, Renicci. Campi slavi, dove morirono più di 7mila sloveni di stenti, malattie, e maltrattamenti, inflitti loro dagli italiani occupanti in Slovenia, Croazia e Dalmazia. E anche «piccola» cosa in relazione alle 13 mila vittime degli italiani nella sola zona di Lubiana in quegli anni. In una guerra d’occupazione che costò all’ex Jugoslavia oltre 250mila morti.
Ora, non intendiamo farne colpa grave a Fertilio, ottimo collega e per solito informato, oltre che bravo narratore. Ma l’incipit e l’inciso su Giado ed Arbe, sono un sintomo ben preciso, con cui occorre pure fare i conti. Sono il segnale di una dimenticanza ben precisa, che in tutto questo dopoguerra ha assunto i tratti di una vera e propria rimozione. Destinata ad alimentare comodi schematismi ed equivoci, sia in ordine ai crimini italiani nella seconda guerra mondiale («gli italiani brava gente»), sia in relazione ai crimini subiti dagli italiani in quella grande tragedia. E il discorso è tanto più rilevante oggi, alla vigilia del 10 febbraio, giornata del ricordo in cui si celebreranno i torti e le ingiustizie patiti dalle genti giuliano-dalmate, espulse dai loro territori, dopo il trattato di pace con la Jugoslavia e a seguito della persecuzione jugo-comunista, che costrinse quelle genti ad emigrare forzosamente. Con in più lo spregio dello scherno a sinistra, e dell’incomprensione della madre-patria, che doveva accoglierle come masse di profughi, indesiderati e imbarazzanti.
Ecco spiegata la ragione forte che ci ha indotti, in occasione del 10 febbraio, a voler celebrare quel giorno con un volume scomodo e imbarazzante delle «Chiavi del tempo», ma altresì rigoroso: Pierluigi Pallante, La tragedia delle foibe. Memoria e Storia. In edicola con l’Unità domani 9 febbraio (pp. 275, euro 7,50, più il prezzo del quotidiano). Un gesto editoriale spigoloso, ma dovuto. Alla memoria dei vivi e dei morti del grande dramma dalmata-giuliano, culminato prima con le foibe, e poi con l’espulsione di circa 350mila italiani. Gesto di cui è autore in primo luogo uno storico che da anni si occupa della questione nazionale, con particolare riferimento al Friuli Venezia Giulia. Già collaboratore di Storia contemporanea al tempo in cui era diretta da Renzo De Felice con cui si laureò, e allievo di un altro grande storico scomparso come Paolo Spriano.
Il libro è un dossier attualissimo e aggiornato di tutta la vicenda, dall’annessione italiana dell’Istria già a partire dal 1919, fino all’esodo che si protrae al 1954, anno del ritorno di Trieste all’Italia. Con in più cartine dei confini e territori, indice dei nomi e ricchissima appendice documentaria, in particolare centrata sui rapporti tra il Pci e i comunisti jugoslavi. Libro quindi non reticente ed esaustivo sui passaggi fondamentali del dramma. E senza sconti alle stesse ambiguità del Pci, che benché attestato sin dagli anni trenta sulla difesa dell’italianità di Trieste e dell’entroterra, mostrò ambivalenze e oscillazioni in quel contesto dominato dalla pressione dell’armata jugoslava. E finì con il non opporre un contrasto risolutivo all’annessionismo titino, sino a rompere con il Cln e a risultare diviso internamente, rispetto all’egemonia jugoslava.
Le foibe. Nel saggio di Pallante, che mette a frutto una ricca storiografia di sinistra in opera da più di trent’anni, esse appaiono come implosione distruttiva sul nemico «etnico» e «sociale», che convoglia decenni di rancore e risentimento repressi nell’elemento slavo. E in una terra mistilingue, in bilico dai tempi di Venezia su due possibilità: incontro fruttuoso e multietnico, e inimicizia nazionale contrapposta. Trieste è un po’ il simbolo di questa ambivalenza. A prevalenza italiana, come Zara, Pola e le città rivierasche, era pur sempre ancora nel 1915 la più grande città slovena, con 56 mila abitanti di quel «ceppo».
Lì, e prima nell’entroterra a prevalenza slava, si consuma la tragedia. In due fasi. Inizialmente, con lo sbandamento dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, ci sono gli infoibamenti degli italiani sull’onda della jacquerie popolare, che non fa distinzioni di sorta tra le responsabilità, nell’elemento occupante alleato dei nazisti. Dopo invece, con l’entrata a Trieste il 30 aprile 1945 della IV armata del generale Dprasin, coadiuvata dal VII e dal IX corpus sloveni, avverrà la mattanza degli italiani: alcune migliaia nelle foibe carsiche. Altre, sino a un numero di 10mila, destinate a scomparire nei campi di internamento titino. Difficile quantificare il numero degli infoibati, uccisi spesso da vivi con le mani legate ai morti fucilati. Una commissione italo-sloveno-croata ne calcola l’ammontare presuntivo a 4-5mila.
Ma il punto vero è un altro. Perché tanta furia? Certo, la vendetta. Il furore convogliato da anni di oppressione, fucilazioni e rastrellamenti legati all’occupazione italiana. Che aveva installato in Croazia un dittatore sanguinario croato come Ante Pavelic. Che con i suoi generali inflessibili - Roatta, Ambrosi, Pirzio Biroli, Robotti - incitava i soldati a non fare del sentimentalismo: 50 slavi per ogni italiano ucciso. Ovvero, come telegrafava Mussolini: «Non siate padri di famiglia in Montenegro!». E poi giocavano nella memoria slava i lunghi anni di snazionalizzazione. Con la cancellazione dei nomi sulle tombe, la proibizione di parlare serbo-croato. La cacciata del clero slavo e la distruzione politico-sociale della società civile locale, in una con il «rinsanguamento» italico forzoso. Ma detto tutto questo, verità non smentibili e documentate da Pallante, vi fu dell’altro. Vi fu il progetto titino di nazionalizzazione jugoslava dell’Istria, congiunto alla trasformazione collettivista. Rispetto a cui, come avvisava Kardelij braccio destro di Tito, andava rimosso ogni ostacolo italiano, foss’anche antifascista (perciò più pericoloso). Fu così che l’iniziale collera etnica divenne pulizia politica preventiva. Era un disegno coerente con il ruolo egemone e «bolscevico» che il comunismo titino si assegnava in centro-europa, e che Stalin stesso dovette arginare. Poi per paradosso, proprio la Jugoslavia divenne la faccia antistaliniana e più tollerante del comunismo dell’est. Ma nel frattempo il dramma s’era consumato. E l’Italia ormai nella Nato non aveva nessuna voglia di ricordare una vicenda amara, che pur dentro la sconfitta e il prezzo pagato non la vedeva esente da colpe.

l’Unità Roma 8.2.08
Annullato il convegno della destra sulle foibe al Brancaccio
di Gioia Salvatori


ANNULLATO l’ncontro per le polemiche, Fiamma tricolore contro tutti. «Constatata la strumentalizzazione di un incontro sulle Foibe», la direzione del teatro Brancaccio «ha annullato l’impegno precedentemente preso e ribadisce che attiene alla democrazia ospitare convegni di diverse ideologie nel rispetto del più assoluto pluralismo». Così ieri mattina il direttore del teatro di via Merulana, Maurizio Costanzo, ha annullato con una nota bipartisan e super partes l’incontro sulle Foibe, organizzato dall’ufficio di presidenza della consulta studentesca di Roma. All’incontro, avrebbero dovuto partecipare, oggi, artisti non meglio specificati, il presidente della consulta in quota azione studentesca (An), il consigliere comunale annino Marco Marsilio, il comitato "10 febbraio" e nessuno storico. L’annullamento dell’incontro dai toni nazionalisti, chiesto con forza dagli studenti antifascisti, ha suscitato subito la reazione di Fiamma Tricolore che ieri pomeriggio alle 18 ha manifestato fuori al Brancaccio. Dietro uno striscione "Li avete uccisi due volti" una cinquantina di militanti, tra cui il segretario romano di Ft, Giuliano Castellino, e Gianluca Iannone di Casa Pound. Bomber neri e bandiere tricolori, dopo essersela presa dal megafono anche con chi scrive, i manifestanti hanno abbandonato la piazza cantando l’inno d’Italia. Stamattina Blocco studentesco e azione studentesca sfileranno da piazza Esedra al Brancaccio sempre in memoria degli infoibati mentre gli studenti antifascisti annunciano contro-iniziative, volantinaggi al Tasso e al Virgilio. Del corteo di oggi ancora ieri, Pdci, Sc, Prc e Uds hanno chiesto l’annullamento. Anche qui suscitando la reazione di Fiamma tricolore stavolta per mezzo di "querela per negazionismo" annunciata da Gianluca Iannone e Giuliano Castellino contro Russo Spena, Nando Simeone (Sc), il Delegato alla Memoria del Comune Sandro Portelli, l’assessore alla cultura Silvio Di Francia, la Fgci, l’Anpi e «chiunque neghi quanto accaduto in terra italiana alla fine della guerra». Colpevoli di aver espresso le loro opinioni su giornali e comunicati. L’assessore alla cultura del Comune di Roma Silvio Di Francia, che all’iniziativa della Consulta in prima battuta ha aderito ufficiosamente per poi annullare la sua partecipazione , fa sapere che domenica sarà alla cerimonia nel quartiere giuliano-dalmata: «Le Foibe sono una pagina lacerante della storia che non va occultata, sono disposto a parlarne con la destra democratica ma non in iniziative animate da intenti tutt’altro che di approfondimento. La nostra solidarietà, pertanto, a Maurizio Costanzo, che alcuna responsabilità ha in questa vicenda. Inoltre, pur non chiedendone l’annullamento, denuncio i toni aggressivi, visti anche nella manifestazione di oggi (ieri n.d.r.) del corteo di domani di Blocco». Corteo a cui aderisce anche Azione studentesca che, per bocca del responsabile nazionale Michele Pigliucci chiama il Pd che solidarizza con Costanzo e Prc, Sc, Pdci e Uds che chiedono lo stop al corteo di oggi "i nuovi titini".

Repubblica 8.2.08
Scontro a Roma, salta convegno della destra sulle foibe
di Gabriele Isman

ROMA - Studenti di destra contro studenti di sinistra per la Giornata del Ricordo delle foibe (di domani), e, in mezzo, il Teatro Brancaccio dove la Consulta provinciale degli studenti - guidata da qualche settimana dai primi dopo elezioni "irregolari, con brogli e intimidazioni", per i secondi - oggi aveva organizzato un convegno. Ieri l´annuncio del Teatro di via Merulana, guidato da Maurizio Costanzo: il convegno non si farà. «La Direzione - spiega un comunicato dell´ex Politeama - ritiene inaccettabile che sia da una parte sia dall´altra si sia voluto strumentalizzare un evento su un tema legato alla memoria più recente». Già ieri pomeriggio un centinaio di ragazzi di Fiamma Tricolore e Blocco studentesco erano davanti al teatro, in via Merulana, per protestare contro l´annullamento del dibattito: «Li avete uccisi due volte» recitava uno striscione. Silvio Di Francia, assessore comunale alla Cultura, che era stato invitato al dibattito, ieri aveva già rinunciato, parlando di «iniziativa nata sotto un cattivo segno, animata da intenti tutt´altro che di approfondimento e di commemorazione».
Intanto Blocco Studentesco annuncia per oggi un corteo con partenza alle 8.30 da piazza della Repubblica al Brancaccio. «L´Italia - scrivono in una nota Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera e presidente di Azione Giovani nazionale e Federico Iadicicco, che guida la federazione romana di Ag - è tenuta in ostaggio da gruppetti di facinorosi, appartenenti alle frange estreme della sinistra, che decidono di cosa si può e di cosa non si deve parlare. E la scelta del teatro Brancaccio di annullare il convegno ne è la chiara dimostrazione». Le organizzazioni di sinistra, chiedendo che l´autorizzazione al corteo non sia concessa, annunciano per oggi un volantinaggio davanti ad alcuni licei e davanti al Museo della Liberazione di via Tasso, e organizzano un controdibattito alla Casa della Memoria.

Repubblica Roma 8.2.08
Roma. "Foibe, niente omaggi dai neofascisti"
E il Brancaccio oggi non ospita il convegno dell´ultradestra
di Gabriele Isman

Stamattina dalle 8.30 la marcia del Blocco studentesco da piazza Esedra
E per i giovani vicini alla sinistra controdibattito alla Casa della Memoria

La giornata del Ricordo per le foibe - prevista per domani - continua a dividere gli studenti di destra e di sinistra. Dopo la rinuncia del teatro Brancaccio a ospitare "Istria, Fiume, Dalmazia, anche le pietre parlano italiano", il convegno voluto dalla Consulta provinciale degli studenti, fioccano le polemiche. E anche la manifestazione di ieri pomeriggio, con la protesta di un centinaio di giovani di Fiamma Tricolore e Blocco Studentesco davanti al Brancaccio, non aiuta ad abbassare i toni.
Silvio Di Francia, assessore comunale alla Cultura che avrebbe dovuto partecipare al convegno, e che ha declinato l´invito, si dice «disponibile a discutere della questione delle foibe» ma chiede un confronto equilibrato. Stamattina il corteo di Blocco studentesco che alle 8.30 partirà da piazza Esedra per convergere al Brancaccio.
«Una parte, seppur minoritaria, degli stessi promotori - dice Di Francia - ha deciso di fare un corteo con slogan e contenuti aggressivi. La contemporaneità delle due cose ha cambiato il clima. Le foibe sono una pagina dolorosa e lancinante della storia italiana, ma le vere vittime sono quegli italiani finiti nelle fosse».
Per Marco Marsilio, consigliere comunale di An, definisce l´annullamento del convegno (a cui anche lui avrebbe dovuto parlare) «una ferita alla democrazia». Pdci e vari consiglieri di centrosinistra come Enzo Foschi, Paolo Masini plaudono alla decisione di annullare il convegno: «È triste dover constatare che sulla tragica vicenda delle Foibe c´è ancora chi tenta di avviare una battaglia ideologica. Un vero e proprio insulto alla memoria delle vittime di questa buia pagina della storia italiana» dice il primo, mentre per il secondo «è giusto che in questa città si ponga un argine alla libera espansione di fenomeni di chiara firma neofascista, che non hanno nulla a che vedere con la democrazia».
Nando Simeone, consigliere provinciale di Sinistra Critica, chiede che non sia data l´autorizzazione al corteo di Blocco studentesco, mentre stamattina i giovani dei Collettivi saranno davanti a licei come il Tasso e il Righi a testimoniare la loro realtà sulle foibe, senza dimenticare il controconvegno (confermato per stamattina alle 10) alla Casa della Memoria di Trastevere a cui parteciperà anche il delegato del sindaco alla Memoria Alessandro Portelli. I toni più duri arrivano da Forza Nuova: «Apprendiamo con sconcerto e disgusto che due iniziative per ricordare la tragedia dell´esodo e degli infoibamenti, programmate e organizzate già da settimane, una conferenza al liceo Carducci e un´altra conferenza organizzata al Teatro Brancaccio sono state annullate, a meno di 24 ore, con motivi tanto pretestuosi da rasentare il ridicolo. Evidentemente c´è ancora oggi in Italia una sinistra vetero comunista che non intende fare i conti con la storia ed usa metodi repressivi per impedire a chi ha idee diverse dalle loro di esprimerle liberamente» dice Daniele Pinti della federazione romana di Forza Nuova. Che poi aggiunge: «Non hanno vergogna, né rispetto per la memoria delle migliaia di vittime italiane della violenza comunista. La cosa non finisce qui! Per due manifestazioni vietate se ne ritroveranno decine in tutti i licei di Roma».

Corriere della Sera 8.2.08
Foibe, no del teatro: timore di scontri
Salta convegno al Brancaccio. Gli studenti di destra tentano di occuparlo
di Edoardo Sassi

La polemica Erano stati organizzati due cortei contrapposti. La Meloni (An): un nuovo caso Sapienza

Stamattina comunque è stata organizzata una manifestazione davanti alla struttura diretta da Maurizio Costanzo

ROMA — Inizialmente il dibattito era stato annunciato per oggi, quasi in coincidenza con la «Giornata in ricordo delle vittime delle foibe», istituita dal Parlamento nel 2004 per ricordare, ogni 10 febbraio, le migliaia di italiani trucidati dai partigiani di Tito e le centinaia di migliaia di connazionali costretti all'esodo da Istria, Fiume e Dalmazia. Ma quel convegno non si farà.
Annullato all'ultimo momento dalla direzione del Teatro Brancaccio di Roma, guidato da Maurizio Costanzo, che avrebbe dovuto ospitarlo. Con inevitabile coda di polemiche da parte della destra e una tentata occupazione della struttura ieri da parte di «Blocco studentesco », organizzazione giovanile di Fiamma Tricolore, che ha provato a forzare il cordone di polizia schierato davanti al foyer.
«Constatata la strumentalizzazione di un incontro sulle Foibe — si spiegava ieri in una nota del teatro — si è deciso di annullare l'impegno precedentemente preso e si ribadisce che attiene alla democrazia ospitare convegni di diverse ideologie nel rispetto del più assoluto pluralismo». Impegno precedentemente preso, appunto.
Ed è ciò che ha mandato su tutte le furie i promotori dell'evento, la Consulta provinciale degli studenti, organismo rappresentativo eletto, che ora nella capitale è in maggioranza di destra (il presidente è di Azione studentesca, An).
Al convegno avrebbero dovuto partecipare Marco Marsilio, capogruppo di An al Comune di Roma, ma anche l'assessore capitolino alla cultura Silvio Di Francia (Pd), che già mercoledì aveva dato forfait: «Non c'erano le condizioni per un dibattito sereno — ha spiegato — riprova ne viene dall'atteggiamento di una componente del comitato promotore, che ha indetto un corteo collaterale dai contenuti apertamente aggressivi ».
Già da mercoledì infatti il «Blocco studentesco» di Fiamma aveva annunciato l'organizzazione di un corteo che si sarebbe concluso nei pressi del teatro, corteo contro il quale da subito avevano promosso una serie di contro-mobilitazioni di varie sigle di sinistra, che avevano anche chiesto al Brancaccio di non ospitare più l'incontro contestato già dal titolo («Istria Fiume Dalmazia, anche le pietre parlano italiano»). Richiesta di fatto accolta, anche se poi la direzione del teatro ha dichiarato «inaccettabile il fatto che sia da una parte sia dall'altra si sia voluto strumentalizzare l'evento».
Molte, ieri, le reazioni «indignate » sul fronte politico, con An che ha parlato di nuovo «caso Sapienza»: «L'Italia — ha commentato Giorgia Meloni — è tenuta in ostaggio da gruppetti di facinorosi appartenenti a frange estreme della sinistra, che ogni quindici giorni decidono di cosa si può e di cosa non si può parlare». Per Marco Marsilio si è trattato di una «grave ferita alla democrazia e alla libertà, con un gruppo universitario di estremisti di sinistra che ha terrorizzato Costanzo, lanciando fumogeni tra il pubblico e annunciando manifestazioni violente».
Gli studenti di destra annunciano comunque per oggi la loro iniziativa, dalle 8.30 e di fronte al teatro. Previsto anche il corteo di «Blocco studentesco », contro il quale si sono levate voci di protesta dalle varie anime della sinistra, soprattutto radicale.

Repubblica 8.2.08
Le mura di casa
Perché ci appassiona il delitto di famiglia
di Umberto Galimberti


Il nostro sentimento non ha superato le mura di casa, non si è fatto senso civico, ma è rimasto confinato in quell´ambito ristretto dove violenza e sessualità si intrecciano

L’amore-odio tra genitori, figli, coniugi, vicini di casa

Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia. La geografia della spettacolarizzazione del crimine. Non quello di portata sociale come la mafia, la ´ndrangheta, la camorra che lascia tutti più o meno indifferenti, ma quello circoscritto nell´ambito delle relazioni familiari è il crimine che appassiona la gente e, cinicamente, anche giornali e tivù alla ricerca affannosa di audience.
Questo ci dice che il nostro sentimento non ha ancora oltrepassato le mura di casa, non è ancora diventato sentimento civico, ma è rimasto confinato in quell´ambito ristretto e anche un po´ primitivo che è il delitto di famiglia, dove la violenza e la sessualità, l´amore e l´odio intrecciano i loro cupi legami.
Le morti sul lavoro non appassionano, i morti sulle strade sono dati per scontati, i morti per malasanità fatti rientrare nelle statistiche, i morti per droga confinati senza pietà nel ghetto dei disperati. Le vite infrante di bambine e bambini abusati sono coperte da un disgustoso silenzio, quelle precarie degli immigrati che muoiono in mare non destano il minimo sussulto, così come le vite randagie dei senzatetto che talvolta si lasciano morire assiderati sulle panchine delle nostre città. Solo le morti in famiglia o tra famiglie suscitano quello spasmodico seguito nelle aule dei tribunali, dove la gente si accalca alle cinque del mattino per potervi assistere, e nelle trasmissioni televisive che finiscono per essere più seguite delle fiction di successo, dove non è la pietà per i morti o per i sopravvissuti a tenere incollata la gente allo schermo, ma il gusto cupo della trama macabra.
Questo la dice lunga sul sottosuolo della nostra anima e sulle passioni che in quel sottosuolo sonnecchiano, perché se gli attori reali di quei crimini quando appaiono in televisione diventano, per la magia dello schermo, i rappresentanti delle nostre passioni che in loro possono rispecchiarsi, allora c´è da chiedersi quanto il nostro amore si è fuso e combinato con l´odio, quanto la nostra sessualità si è contaminata con l´aggressività, quanto il nostro sentimento si è inabissato nel risentimento che, proibendosi di esplodere nella realtà, trova un canale di sfogo nella rappresentazione televisiva dove, col pretesto del crimine che appassiona, esperti di ogni tipo vanno a frugare nel fondo della nostra anima mescolando le acque già torbide delle nostre passioni, anche le più truci, inespresse.
Questo scavo, che potremmo definire un´analisi selvaggia su vasta scala, produce quei fenomeni di transfert, di identificazione e di idealizzazione che sommergono gli attori dei crimini di una quantità inimmaginabile di lettere di amore o di odio a bassa definizione, dove il messaggio che si trasmette è una sorta di idolatria di chi ha avuto il coraggio di fare quel che ciascuno di noi in fondo in fondo, senza dirselo esplicitamente, ignorandolo persino, o senza volerlo ammettere, vorrebbe fare col proprio vicino di casa, col proprio figlio, con la propria moglie o col proprio marito, col proprio genitore senza averne il coraggio.
Se poi gli attori dei crimini sono telegenici o belli, se sono giovani e, nell´apatia del loro cuore, sono capaci di reggere e contrastare le accuse, allora ci si divide tra innocentisti e colpevolisti, secondo le regole del tifo a cui ci ha abituato l´overdose di calcio trasmesso in tivù.
Le prove non contano. Contano le impressioni, che sono poi i moti d´animo più primitivi perché immediati e non disturbati dall´uso della ragione che fatica a farsi largo là dove la fascinazione ha già fatto il suo lavoro.
E purtroppo la televisione è il mondo della fascinazione dove lo slogan, la frase a effetto, il dettato ipnotico sono le performance richieste per accedervi e per seppellire il ragionamento che la televisione aborre nella fretta dei suoi tempi, nella velocità degli enunciati, nella rapida successione delle immagini, perché il suo scopo è colpire lo spettatore, impressionarlo, se possibile scioccarlo, in pratica ottundergli l´uso della ragione, fino a rendergliela in ogni suo aspetto desueta. Sotto questo profilo la televisione non emancipa perché obnubila.
E perciò il torbido, che ogni delitto di famiglia porta con sé, è il suo programma preferito. E qui il circolo macabro si chiude. Le nostre passioni più truci che sonnecchiano nel nostro inconscio trovano negli attori dei crimini di famiglia la loro espressione.
La televisione, mettendole in mostra e raccontandocele a più riprese e da più punti di vista ce le fa conoscere, ma come passioni di altri e non come nostre passioni. Così facendo ci fa dono di una troppo facile innocenza che ci gratifica e non ci fa fare un passo verso la ricognizione di noi, perché la riflessione non è proprio una caratteristica della televisione. Anzi.
E così, abbarbicati a una storia che ci appassiona perché è nostra, ma che ci viene illustrata come una storia d´altri, finiamo col non riconoscere che anche il nostro amore è orlato di odio, persino l´amore materno, persino quello per i nostri genitori, per i nostri vicini di casa, per i nostri amici, per cui basta una leggera alterazione per trovarci al di là dello schermo, questa volta guardati, dopo aver a lungo seguito con interesse storie di altri che in realtà descrivevano quanto di torbido si agita in noi. E proprio nessuno ci aveva avvertito, tanto meno la televisione, che la soglia che separa la misura dall´eccesso è estremamente sottile, tenue, fragile, come neppure lontanamente siamo soliti sospettare.

Repubblica 8.2.08
Dante e le donne
La Commedia poema femminista
di Teodolinda Barolini


Si apre oggi a New York alla Casa italiana Zerilli Marimò un convegno organizzato dall´Istituto Italiano di Scienze umane e dal Dipartimento di Italianistica della New York University. All´incontro partecipano, tra gli altri, Nadia Fusini, Teodolinda Barolini (di cui pubblichiamo qui parte dell´intervento), Elisabetta Rasy, Marina Zancan, Alberto Asor Rosa.

Beatrice. Francesca da Rimini Piccarda. Sono le prime figure femminili ad avere voce e nome nella nostra letteratura Un convegno a New York
Il poeta è anche attirato dai casi di abuso in ambito familiare e dalle costrizioni cui gli uomini sottopongono le loro mogli

Dante iniziò la sua vita come poeta cortese e la terminò come autore della Divina commedia, un testo in cui le donne operano, parlano e possiedono la capacità di agire moralmente. L´interrogativo che mi si è presentato, l´interrogativo che mi ha offerto gli strumenti per superare l´approccio «donne nella Divina commedia» per arrivare alle tematiche di genere in Dante, è stato il seguente: come si spiega l´evoluzione di Dante da poeta cortese al poeta della Divina commedia, la sua trasformazione cioè in un poeta che attribuisce una capacità di agire moralmente a tutti gli esseri umani, donne incluse? In altre parole, come si spiega la trasformazione di Dante in quel poeta che diede a Francesca da Rimini, dimenticata dai cronachisti contemporanei, una voce e un nome, anzi il solo nome storico contemporaneo presente nel V canto dell´Inferno?
La risposta sta nella poesia morale matura di Dante, che scriveva dopo il suo periodo stilnovista e prima della Divina commedia. C´è una divergenza marcata tra il narcisismo della tradizione cortese e le canzoni didattiche indirizzate alle donne da Guittone d´Arezzo e da Dante, caratterizzate da un´impronta utilitaristica: si trattava di letteratura pensata per essere usata dalle donne, che attraverso di essa si istruivano e apprendevano. Questi testi, proprio in virtù del loro programma moralistico, e perfino paternalistico, dimostrano la necessità di comunicare con le donne, di trattarli come soggetti agenti che possono, e anzi devono imparare, pena la morte eterna («Oh cotal donna pera», scrive Dante nella canzone Doglia mi reca), non oggetti da desiderare ma soggetti che desiderano, spesso in modo sbagliato. Quando Dante parla del «vil vostro disire» alle donne a cui fa la predica in Doglia mi reca, compie un passo importante, da una poetica che prende in considerazione solo i desideri degli uomini a una che prende in considerazione i desideri delle donne, assegnando loro, di conseguenza, la funzione di soggetti agenti.
Il filone progressista della letteratura italiana degli albori non era quello delle meravigliose poesie cortesi e platonizzanti per cui va famosa, ma quello delle opere didattiche e moralizzanti che trattano le donne come agenti morali. Il poema didattico di Guittone sulla castità femminile, Altra fiata aggio già, donne, parlato, fornisce un primo esempio di un paradigma che Dante adotterà in una canzone morale quale Doglia mi reca, dove la moralità paternalistica sconfigge la cortesia e accresce ironicamente lo status delle donne concependole come agenti morali; Guittone, ad esempio, raccomanda la castità assoluta ma riconosce per contro il diritto della donna a scegliere chi sposare. Nel saggio Sotto benda: il genere nelle poesie di Dante e Guittone d´Arezzo, analizzo quelle canzoni in cui Guittone e Dante si rivolgono a un pubblico femminile e istruiscono le loro interlocutrici, a cui Dante, in Doglia mi reca, si riferisce con l´espressione «sotto benda», alludendo al capo coperto. Un punto di riferimento storico contemporaneo lo fornisce il medico e astrologo Cecco d´Ascoli, che nel suo Acerba attacca sprezzantemente la convinzione del sommo poeta che insegnare alle donne sia possibile e dipinge Dante come uno sciocco ingenuo, la cui convinzione che le donne siano in possesso di intelletto equivale a cercare la Vergine Maria nelle strade di Ravenna: «Maria va cercando per Ravenna / chi crede che in donna sia intellecto». Cecco ci dimostra dunque che il didattismo paternalistico di Dante nei confronti delle donne era preso sul serio e visto come una minaccia da alcuni contemporanei.
Dante svolge la funzione di storico documentatore nei confronti di Francesca da Rimini, che era stata ignorata dai cronachisti contemporanei: una cronaca menziona la «donna» di Paolo, mentre un´altra si limita ad annotare che Paolo morì causa luxuria.
Dante sembra attirato in particolare dai casi di abusi in ambito coniugale e familiare, di donne finite nella rete della costrizione e della volontà. Gli esempi di costrizione forniti da Aristostele nell´Etica - «se si è trascinati da qualche parte da un vento o da uomini che ci tengono in loro potere» (Libro III, capitolo I) – non trovano eco soltanto nel V canto dell´Inferno (i dannati trascinati dal vento), ma anche nell´episodio di Piccarda, nel III canto del Paradiso: Piccarda racconta una storia di «uomini che l´avevano in loro potere», passando poi subito dopo a una lunga meditazione sulla costrizione nella forma più cruda del rapimento e della coercizione fisica. Nella Divina commedia sono presenti donne famose, come santa Chiara d´Assisi e l´imperatrice Costanza, ma il testo dedica maggior attenzione a figure di donne che altrimenti sarebbero consegnate all´oblio della storia: la stessa Beatrice Portinari ricade in questa categoria. Chiunque voglia cercare di effettuare una valutazione seria del ruolo di Dante nella storia delle donne deve obbligatoriamente tener conto di questo fatto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica Roma 8.2.08
Così Leonardo darà spettacolo La mia lezione all'Auditorium
di Dario Fo


Caro direttore,nel 1999, in occasione della chiusura dello straordinario restauro del Cenacolo di Leonardo Da Vinci nel convento milanese di Santa Maria delle Grazie, restauro durato, in varie fasi, ben ventun anni e concluso in quegli anni dalla restauratrice Pinin Brambilla e dalla sua equipe, il ministero dei Beni culturali e la Sovrintendenza alle Belle Arti di Milano mi chiesero di tenere una lezione sul capolavoro di Leonardo.
Fu così che nel maggio di quell´anno, con l´aiuto di mia moglie Franca, ho messo in scena una lezione-spettacolo nel cortile della Pinacoteca di Brera (Milano), dove si trova anche l´Accademia di Belle Arti che ho frequentato per otto anni, avendo Funi e Carrà, straordinari pittori, per maestri nell´affresco. L´evento venne ripreso dalla RAI e trasmesso qualche mese dopo su Rai Due.
Quest´esperienza mi permise di preparare un testo con tavole da me dipinte sulla tecnica usata da Leonardo per realizzare "L´ultima cena". Il libro fu stampato dalla Franco Cosimo Panini, famosa casa editrice d´arte.
Anche nella lezione che terrò a Roma non mi limiterò a trattare delle geniali soluzioni prospettiche e scenografiche messe in atto da Leonardo nel Cenacolo, ma cercherò di trattare di lui dalle sue origini alla sua formazione presso la bottega del grande scultore e pittore Andrea Verrocchio, bottega definita "Università della conoscenza" dove si studiava e soprattutto si faceva pratica diretta di disegno, pittura, scultura, di geometria e prospettiva, di cartografia, meccanica, ingegneria; del clima politico e culturale che Leonardo incontrò e visse a Milano, non prima di aver narrato della sua straordinaria amicizia con Niccolò Machiavelli col quale condivise l´esperienza davvero rivoluzionaria che la loro città stava vivendo con la nascita della libera Repubblica fiorentina; del rapporto fra Leonardo e il suoi committenti, in particolare Lodovico il Moro, dei suoi studi sull´anatomia condotti vivisezionando cadaveri, cosa assolutamente proibita e condannata in quel tempo, e soprattutto dello scienziato Leonardo specie riguardo la meccanica e le macchine, sia quelle di guerra che quelle per regolare fiumi e canali nonché la sua esperienza con le macchine volanti.
Oltre a spiegare l´originale tecnica con cui il maestro fiorentino realizzò il suo capolavoro, vale a dire una pittura a tempera su stabilitura secca, cercherò di trattare dei restauri precedenti, lavori spesso del tutto arbitrari e poco scientifici, ma soprattutto tenterò di darne una particolare lettura critica basata sullo studio della prospettiva, della luce e sugli artifici operati da Leonardo per creare nello spettatore un´illusoria sensazione di "levitazione".
Metterò in evidenza la composizione delle figure inscritte in ritmi dinamici e cercherò di dimostrare come Leonardo si fosse giovato di movimenti che prendono abbrivio dalla gestualità mimica o meglio dalla pantomima e dalla danza. Per chiarire questo straordinario linguaggio che ricorda il movimento delle onde marine mi gioverò proprio della gestualità scenica in progressione rappresentativa, cioè come in un abbozzo danzato porrò in essere gli atteggiamenti che si susseguono passando direttamente da una positura all´altra con l´intenzione di narrare lo stato d´animo che i protagonisti stanno vivendo in quella drammatica situazione.

Corriere della Sera 8.2.08
Olimpiade, l'altra Pechino
Smog, speculazioni, quartieri distrutti Reddito pro-capite più alto, meno diritti
di Fabio Cavalera


I lavori Un milione e mezzo di persone costrette a lasciare le loro case che sono state demolite. Nei cantieri mezzo milione di operai stagionali a 60 euro al mese senza garanzie
Il sogno «One world, one dream» è lo slogan dei Giochi, ma quasi tutti i cinesi in coda per ottenere un biglietto per assistere alle gare si sono visti sbattere la porta in faccia

PECHINO — Una montagna di denaro l'ha sommersa. L'effetto Olimpiadi sulla capitale, 16 milioni di abitanti nell'area metropolitana grande quanto il Belgio, è dirompente: 43 miliardi di euro di investimenti (imprese, infrastrutture, servizi, informatizzazione) solo nel 2007.
La città sta completando la sua mutazione urbanistica e sociale. Il segno più evidente di questo ribaltone, se si escludono le icone della moderna architettura (il «Nido» lo stadio, il «Cubo» le piscine, «l'Uovo » il Teatro Nazionale, «Le Torri Pendenti» la televisione di Stato), si coglie nella distribuzione del reddito. Se cinque pechinesi su 10 si possono classificare ancora poveri, gli altri cinque sono passati in sei anni dalle difficoltà alla fascia medio- bassa, alla fascia media e a quella alta, che è composta da un'avanguardia di 500 mila imprenditori e professionisti con patrimoni importanti. Risultato: nel 2001, quando i Giochi furono assegnati, il reddito medio pro capite non raggiungeva che i mille dollari all'anno. Oggi — ha reso noto il nuovo sindaco Guo Jinlong — ha superato i 7 mila che, se rapportati al basso costo della vita, testimoniano di un progresso economico veloce e discretamente diffuso.
Le Olimpiadi hanno portato il lavoro e i soldi, saranno una vetrina piena di meraviglie, però non hanno cancellato i drammi che accompagnano il loro percorso. La Cina non li ammetterà mai. Nel 2006 e nel 2007 centoventimila appartamenti sono stati demoliti, un milione e mezzo di persone sono state costrette a lasciare le loro case, allontanate, sgomberate, trasferite ai margini della città per dare spazio ai cantieri delle nuove costruzioni, delle nuove metropolitane (tre linee realizzate in tre anni). Mezzo milione di migranti ha formato l'esercito degli operai stagionali nell'edilizia che per l'equivalente di 60 euro al mese e senza alcuna copertura sanitaria e antinfortunistica, ha tirato su gli impianti dello sport e i quartieri del lusso (vicino al villaggio olimpico ha preso casa Bill Gates).
Il piano regolatore ha subìto mille ritocchi, la speculazione ha fatto man bassa. Le ricadute ambientali del «sacco» sono state pesantissime. Gli ultimi dati rivelano trionfalisticamente che nel 2007 in quasi 7 giorni su 10 (6,7 per la precisione) «la qualità dell'aria è stata di livello 1 o 2» (parole del sindaco). Dunque «buona».
Non specificano queste rilevazioni che le soglie di pericolosità si raggiungono quando i gas tossici saturano il cielo con percentuali doppie rispetto all'Europa o agli Stati Uniti. Ciò che altrove è allarme grave a Pechino è normalità. Dietro all'ottimismo di facciata vi è la consapevole ma inconfessabile preoccupazione di una metropoli avvolta in una bolla immensa di smog. Allora, per evitare il peggio, per evitare che le gare subiscano qualche rinvio a causa della bomba di veleni, ci si affida a un provvedimento di emergenza: sarà bloccato per 30 giorni un milione e mezzo di veicoli, uno su due. Non vi sono alternative. Poi si confida nella fortuna. Forse anche nei cannoni che sparano proiettili chimici sulle nuvole e provocano temporanee piogge liberatorie.
La Cina non può fallire e cura i dettagli. Il martellamento «educativo » è partito: non si sputa, non si urla, non si fischiano le squadre avversarie, le code si rispettano, agli ospiti si sorride. Sono in fase di reclutamento 400 mila volontari che vigileranno sull'osservanza delle regole. Un record: tutti (e, davvero non uno escluso) subiscono un esame di «affidabilità politica», il controllo del partito sulle Olimpiadi sarà discreto, gentile ma capillare. Il capo del dipartimento volontari del Bocog (gli organizzatori) è Liu Jian che, guarda caso, è il numero uno della Lega dei Giovani Comunisti a Pechino. Il bon-ton è d'obbligo. E l'ordine pure. In modo che non sfugga la minima imperfezione e non si esprima il minimo dissenso. E qui si tocca un nervo scoperto: la questione dei diritti umani agita l'avvicinamento ai Giochi.
Il Quotidiano del Popolo, voce comunista, nei giorni scorsi ha pubblicato un commento al veleno contro i giornali occidentali che ha accusato di parecchie infamie: di volere politicizzare le Olimpiadi, di «disturbare i lavori di preparazione », di infangare l'immagine del Paese. Il Dragone si irrita. Ma nessuno spiega come mai le promesse del 2001, quando l'allora sindaco disse: «Alla stampa sarà garantito il massimo della libertà», siano nulla più che carta straccia.
«One World, One Dream»: è lo slogan di Beijing 2008. Uno slogan di pace, di armonia, di conciliazione. E' così? Qualche tempo fa un gruppo di intellettuali, professori e giornalisti aveva sottoscritto un appello al presidente Hu Jintao: «Noi ordinari cittadini cinesi dovremo sentirci fieri e gioiosi di uno slogan talmente bello e di potere vedere nella nostra Patria questa festa di splendore che simboleggia l'amicizia e la giustizia umana. Ma dispiace che diverse cose negative, comprese certe storie emerse nel corso della preparazione olimpica, ci costringano a domandarci quale tipo di mondo rappresenta questo One world One dream? (…) Un mondo in cui i fondamentali diritti umani non sono rispettati e garantiti è un mondo separato e spezzato dove non esistono la dignità e l'equità».
E con coraggio avevano aggiunto: «Pensiamo che lo slogan di Pechino debba essere One World, One Dream the same Human Rights (Un mondo solo, un sogno dacondividere, gli stessi Diritti Umani) ». La Cina è sorda. La repressione del dissenso, accusano le organizzazione internazionali, è persino peggiorata. La stampa non è libera. Internet è censurato. L'opposizione è schiacciata. Una cortina di ferro blinda in modo pesante e cupo un regime per ora intoccabile. E' questa la direzione che l'Impero ha scelto per marciare verso le sue Olimpiadi? Stupire il mondo preparandosi con un trucco splendido, indossando un costume meraviglioso da ammirare. Maschere che rischiano di illudere.
Milioni di cinesi sono in coda per un biglietto. Ma i biglietti sono spariti. Uno piccolo scandalo: 9,9 richieste su 10 sono state respinte con una letterina: «Gentile Signore, la vogliamo ringraziare per avere richiesto i biglietti. Dopo un processo di selezione a random siamo spiacenti di informarla che non le sarà consegnato alcun ticket e che nulla le sarà addebitato… Grazie per la sua partecipazione».
L'ultima è una pignoleria tutta cinese. Già: l'importante è partecipare. Il posto assicurato nei 26 impianti olimpici di Pechino — ci mancherebbe — lo hanno già i pezzi da novanta del partito, dello Stato, della burocrazia amministrativa. E poi gli amici e gli amici degli amici. Così, grazie a un meccanismo di assegnazione affidato alla discrezione di qualche computer programmato ad arte, a godere sono i soliti. E gode pure il mercato nero (5 mila dollari per la cerimonia inaugurale). La gente o brontola o sorride rassegnata.
Che la Cina susciti passioni contrastanti è nella storia degli ultimi 30 anni. Che vi sia la tendenza all'ipercriticismo è fuori di dubbio. Ma c'è pure dell'altro: che Pechino stia provando tutte le tecniche per non raccontare che cosa c'è dietro al bellissimo palcoscenico olimpico è una fastidiosa verità. L'apparato della Propaganda merita la prima medaglia d'oro: per le bugie.

Corriere della Sera 8.2.08
I dissidenti Tra appelli e minacce
Arresti e controlli. La sfida del regime ai «guastafeste»
di Marco Del Corona

Ci saranno le gare negli stadi, a Pechino e in altre città, con il pubblico, le tv, tutto l'apparato del caso. E ci sarà, anzi c'è già, invisibile, un'altra sfida: quella tra le autorità cinesi e chi vorrà dire la sua, far sapere che non tutto nella Pechino olimpica è meraviglia, che nella Repubblica Popolare i diritti umani nell'accezione occidentale del termine non sono un dato acquisito. Gatto e topo, regime e dissidenti. Un altro match. Il Partito comunista ha inasprito i controlli, avviato un'ulteriore blindatura di Internet, avvertito i «sediziosi», temendo adesso azioni di disturbo e, a Giochi avviati, gesti clamorosi che possano rovinare la festa e far perdere la faccia. Le organizzazioni non governative lo sanno e invitano il mondo alla vigilanza sulla macchina propagandistica e sulle misure «di sicurezza ».
«Non ho idea di quali gruppi possano emergere in pubblico in agosto per fare annunci o altro. Suppongo che non lo sappia neppure il regime. Che quindi si starà preparando a tutto»: Andrew J. Nathan, una cattedra alla Columbia University di New York e un lavoro importante come storico, vicino alla diaspora e alla dissidenza cinese, ritiene che il regime sia «bene all'erta». Oltre a dissidenti politici ed esponenti delle minoranze etniche (le più problematiche agli occhi delle autorità sono i tibetani e i musulmani uiguri del Xingjiang), Nathan calcola i praticanti del Falun Gong (culto avversato con particolare virulenza da Pechino), attivisti «provenienti dall'estero con obiettivi diversi» e, infine, «emarginati sul piano economico e/o sociale, tipo contadini cui siano state confiscate le terre, operai licenziati, pensionati senza pensione, e così via», spiega al Corriere.
Ed è sicuro, Nathan: «Sì, prevedo che attivisti cinesi e stranieri cercheranno di sfruttare il periodo dei Giochi per attrarre attenzione sui temi cruciali».
Le organizzazioni per i diritti umani si sono mosse. Già due anni fa un rapporto di Amnesty International indicava che «le promesse in quest'ambito non vengono mantenute». Anzi, «i preparativi per i Giochi hanno un impatto negativo sullo sviluppo dei diritti umani in Cina», nota Sophie Richardson, responsabile per l'Asia di Human Rights Watch (Hrw). Hrw segnala diverse tipologie di «abusi legati all'Olimpiade »: dalle «campagne indiscriminate per deportare dalla capitale gli indesiderabili, siano essi persone che presentano petizioni o lamentele al governo, immigrati dalle campagne senza lavoro, malati mentali, prostitute» fino alla «chiusura delle scuole per i figli dei lavoratori immigrati», dalla «stretta censoria su Internet» ai controlli sulle Ong e i gruppi della società civile. C'è delusione, perché — ricorda Hrw — nel pacchetto di impegni che portarono all'assegnazione dei Giochi a Pechino c'era proprio l'impegno a «migliorare concretamente» i diritti civili. E un comunicato di due giorni fa parla apertamente di escalation della «repressione sistematica» e stila una lista delle voci più autorevoli messe a tacere.
Nessuno pronuncia più la parola boicottaggio, mai davvero entrata fra le ipotesi di pressione delle cancellerie occidentali. Le stesse organizzazioni più ascoltate preferiscono appellarsi al Comitato Olimpico o ai governi occidentali perché a loro volta chiedano impegni agli interlocutori cinesi. Qualche concessione alla libertà di informazione per i media stranieri è stata riconosciuta, questa settimana è stato liberato Ching Cheong, giornalista di Hong Kong, corrispondente per lo
Straits Times di Singapore, imprigionato per 5 anni con l'accusa di «spionaggio ». Tuttavia è la sorte degli attivisti cinesi che più preoccupa: secondo Reporters Sans Frontères restano in cella 35 giornalisti e 51 cyber-dissidenti. L'arresto di Hu Jia — oppositore vivacissimo, stakanovista della controinformazione, ideatore e primo firmatario della «lettera dei Mille» recapitata ai media stranieri lo scorso agosto — viene letto come la prova che il regime non ha voglia di scherzare. Riflette Andrew J. Nathan da New York: «Non credo che l'attenzione del mondo eviterà l'accanimento delle autorità cinesi. Vale il vecchio adagio, la stabilità politica innanzi tutto, e per loro la stabilità politica si ottiene reprimendo chi la mette alla prova con troppa decisione». Amnesty e Hrw temono il massiccio ricorso agli arresti domiciliari per i guastafeste, con telefoni muti e Internet bloccato, un modo per isolarli definitivamente in una società che comunque guarda altrove.
Da parte cinese si insiste sulla sicurezza. E si guarda al bicchiere mezzo pieno: il professor Shan Bo, vicepreside della Scuola di giornalismo e comunicazione dell'università di Wuhan, invita a considerare che «la Cina si è enormemente sviluppata sul piano sociale ed economico, assorbendo alcuni dei principi occidentali circa i diritti umani, vedi la proprietà privata e la libertà di parola. Il processo non si è esaurito. Ma non dovete aspettarvi — aggiunge al Corriere — che la Cina conformi le sue posizioni alle vostre, non dovete usare con noi il vostro metro. La politica è sempre più aperta, qui. Il governo, a differenti livelli ha imparato come trattare con i portavoce, comunicare ». Shan elabora una tesi canonica degli autoritarismi asiatici. E continua: «Onestamente, neppure il sistema informativo dell'Occidente è perfetto, come ha mostrato Chomsky. Quanto al Web, non è poi così facile controllarlo ». Eppure, la ventina di agenti in borghese che hanno portato via Hu Jia mentre la moglie faceva il bagnetto alla bimba di pochi mesi incombono sul dibattito sul modo della Cina di aprirsi al mondo. Teng Biao, amico di Hu Jia e attivista a sua volta, non si fida, Olimpiade o non Olimpiade: «Il suo arresto è un messaggio a tutti: guardate cose vi capita se non fate i bravi».
Minoranze e culti nel mirino
Svanita l'ipotesi boicottaggio le Ong accusano: tradite le promesse di libertà. La replica: l'Occidente non ci giudichi

Corriere della Sera 8.2.08
Palazzo Venezia. Del Piombo, 80 capolavori


Si è inaugurata ieri a Palazzo Venezia la mostra su Sebastiano del Piombo, organizzata in collaborazione con la Gemaldegalerie di Berlino, dalla quale provengono molte delle opere esposte. Il «Ritratto del Cardinale Ferry Carondelet», del 1511 (foto sopra),
arriva invece dal museo Tyssen di Madrid. La rassegna, che presenta ottanta capolavori del pittore veneto nell'allestimento curato da Luca Ronconi e Margherita Palli, resterà aperta fino al 18 maggio.

Il gran colpo di teatro, entrando nel primo salone di Palazzo Venezia, è l'incompiuto «Giudizio di Salomone» sullo sfondo: il suo mirabile equilibrio monumentale è l'eloquente preavviso delle emozioni che attendono i visitatori della prima rassegna monografica mai dedicata a Sebastiano del Piombo.
Ottanta opere esposte, grandi tavole e soprattutto quei cristallini ritratti a grandezza naturale che fecero la sua fortuna in vita. E poi piccoli schizzi preparatori, i preziosi dipinti su lavagna, testimonianza della cura con cui mise a punto una sua personalissima, inedita tecnica: la pittura su pietra.
La mostra è una scommessa culturale nata dalla stretta collaborazione europea tra due grandi istituzioni: il polo Museale Romano, diretto da Claudio Strinati, Soprintendente speciale e curatore della mostra, e la Gemaldegalerie di Berlino, dove la mostra si sposterà dopo la chiusura della tappa romana prevista per il 18 maggio. La catena di prestiti internazionali include il Metropolitan di New York, il Fine Arts di Huston, il Prado e il Thyssen-Bornemisza di Madrid.
E visto che si tratta della prima mostra monografica dedicata al pittore nato a Venezia nel 1485 e morto a Roma nel 1547, gli organizzatori di MondoMostre hanno allestito una vera e propria «prima» firmata da Luca Ronconi e Margherita Palli, per l'allestimento, e da A.J. Weissbard, per l'accurata scelta di luci speciali Led. Il risultato è una immensa scatola magica ricoperta di velluto verde marcio in cui si aprono riquadri vasti quanto le opere esposte che così si stagliano sul tessuto scuro e compatto: un modo per regalare l'adeguata prospettiva a ciascuna delle opere, e insieme per proteggerle dagli «sconfinamenti » del pubblico. Ma anche per regalare a ciascun pezzo un autonomo spazio mentale di attenzione e di riguardo da parte del pubblico. Perché Ronconi ha deciso di non lasciare il visitatore-spettatore solo nella sua ricerca ma di aiutarlo a «scoprire» Sebastiano del Piombo aprendo e chiudendo continuamente un varco dopo l'altro per ciascun pezzo in mostra.
Le luci Led di Weissbarg (collaboratore di Peter Greenway) assicurano un'illuminazione piena, fin nel dettaglio, alle tele lasciando i saloni quasi nella penombra colorata. Intorno alla scatola magica, tre variazioni cromatiche sulle pareti delle sale, proprio per insistere sul registro teatrale-cinematografico: prima un arancio-rossastro, poi il verde oro, infine un blu-lavanda.
Un contesto classico-contemporaneo per fare i conti, anche critici, con un artista completo (era anche un ottimo musicista) contemporaneo di Leonardo, Michelangelo, Giorgione e Tiziano.
La sua stretta alleanza personale con Michelangelo, in funzione anti-Raffaello, fa parte dei miti più citati della storia dell'arte. Un sodalizio che trascina con sé un altro, citatissimo sospetto: cioè che Buonarroti lo aiutasse nei disegni preparatori. E qui si andrebbe ben oltre la semplice influenza. Ma come scrive Claudio Strinati «la verità è che Sebastiano del Piombo è artista del tutto autonomo e personale e che dovette essere proprio la sconcertante situazione di una Roma apparentemente favorevolissima alle arti ma sostanzialmente chiusa e asfittica sul piano della grande produzione culturale a provocare il suo genio verso l'elaborazione di una forma pittorica in dialettico contrasto sia con Raffaello sia con Michelangelo ma lontanissima da entrambi».
Bernd Lindemann, direttore della Gemaldgalerie di Berlino, spera in una nuova fortuna critica di Sebastiano del Piombo: «Avvertiamo come nostro dovere avvicinare per esigenza scientifica settori artistici da tempo trascurati. Il nostro lavoro di mediazione non può esaurirsi con l'offrire continuamente al pubblico il già acquisito con formulazioni critiche modificate solo in termini irrilevanti. È più remunerativo investigare i capitoli della storia dell'arte caduti nell'oblio».
Per Sebastiano del Piombo forse non si può parlare di oblio. Ma attraversare la mostra allestita da Luca Ronconi e Margherita Palli significa rendersi conto della originalissima grandezza di un protagonista del Rinascimento. E chiedersi il perché, per dirla ancora con Lindemann, «di quella smarrita notorietà».
Paolo Conti Magnetismo
A sinistra, «Triplo ritratto» e «Sacra Conversazione», tra i dipinti a Palazzo Venezia. A destra, Ronconi con «Ritratto di uomo in arme»: il regista ha curato l'allestimento della mostra (foto Benvegnù/Guaitoli)

Corriere della Sera 8.2.08
Alleanze e rivalità Le trame di Tiziano contro Tintoretto. E Reni dovette fuggire da Napoli
Veleni, vendette, pugnali: vita d'artista
di Francesca Bonazzoli

Maurizio Cattelan contro Francesco Vezzoli come cinquecento anni fa Michelangelo e Sebastiano del Piombo contro Raffaello? Sarebbe una storia improponibile: oggi fra le star dell'arte è tutto un complimentarsi reciproco, un embrassons-nous diventato etichetta,
savoir vivre fra un ricevimento a Palazzo Grassi con il tycoon del lusso François Pinault e un roof party con l'onnipotente direttore della Tate Modern, Nicolas Serota, fra un aperitivo nel loft con la collezionista alla moda Miuccia Prada e la cena con il direttore della grande banca.
Impossibile immaginare le nefandezze di 500 anni fa, le meschinità e le mediocrità plebee, gli avvelenamenti e gli omicidi, il lezzo da bassifondi che emanava dalle contese fra gli artisti del passato. Trame da romanzo — tutte sesso, sangue e vendette, come quella che Dumas scrisse sulla avventurosa vita di Benvenuto Cellini, pluriassassino, donnaiolo e sublime orafo di papi e re — non ce ne sono più.
E nemmeno personalità ciniche e spregiudicate come Tiziano, il quale, per arginare il giovane allievo Paris Bordon che a soli diciott'anni, racconta il Vasari, aveva ricevuto la commissione di un dipinto per la chiesa di San Nicolò, «fece tanto con mezzi e con favori, che gliele tolse di mano, o per impedirgli che non potesse così tosto mostrare la sua virtù, o pure tirato dal disiderio di guadagnare». Allo stesso modo, quando si trattò di decorare la nuova Libreria costruita dal Sansovino, Tiziano propose ai procuratori di San Marco una rosa di pittori da cui mancava il nome di un altro giovane rivale, il Tintoretto, e invece compariva quello del Veronese, personalità più docile, manovrabile come una pedina contro il talentuoso Tintoretto.
Sempre per eliminare la concorrenza, si era persino mormorato di sicari prezzolati riguardo all'improvvisa morte per avvelenamento del Pordenone arrivato a Venezia riscuotendo subito le lodi di tutti e minando così l'assoluta autorità di Tiziano. Costui godeva di una fama talmente cattiva che quando il figlio Orazio si recò a Milano per incassare dei soldi, lo scultore Leone Leoni gli tese un agguato e lo pugnalò, spedendolo all'ospedale in fin di vita. Forse Tiziano aveva pestato i piedi al Leoni quando entrambi si trovavano ad Augusta, dall'imperatore, oppure aveva ricevuto il messaggio di non provare nemmeno a mettere piede a Milano per accaparrarsi anche lì tutti i lavori. Un avvertimento simile era arrivato nel 1622 al bolognese Guido Reni, quando accettò l'incarico di decorare la cappella di San Gennaro, a Napoli. Appena messo piede nella più grande e putrescente metropoli d'Europa, il suo servo cadde in un agguato e il Reni, capito il segnale, ripartì subito.
Più imprudente, il Domenichino accettò e nel 1641 ci lasciò le penne. I pittori locali Battistello e Belisario, assieme al Ribera, cominciarono a parlare male di lui e a sabotargli il lavoro finché un giorno lo trovarono morto, senza aver potuto terminare l'opera. A Roma, invece, Borromini mise fine da solo, buttandosi sulla spada, a una vita avvelenata dalle maldicenze e dalla concorrenza spietata del Bernini. Era un mondo adulto, direbbe Paolo Conte, dove si sbagliava da professionisti. Oggi, invece, grazie a Dio, è un cocktail party.

Corriere della Sera 8.2.08
I motivi di un'intesa
Una «scialuppa» per i tormenti del Buonarroti
di Carlo Bertelli

Tutto venne da Agostino Chigi, il banchiere colto, bello, elegante. Fu lui che fece venire da Venezia Sebastiano Luciani. Lo chiamò a dipingere nella sua villa sul Tevere, la Farnesina, sotto la volta affrescata da Baldassarre Peruzzi con l'oroscopo dello stesso Agostino. Compagno del veneziano, nella stessa sala, fu Raffaello. Così Agostino Chigi aveva consacrato Sebastiano ai vertici della pittura italiana. Raffaello aveva dipinto la ninfa Galatea, bianca come il latte e le spume delle onde, circondata da una corte di tritoni. Un amore in volo scoccava verso di lei una freccia. In un angolo, in alto, Sebastiano dipinse Polifemo, solo e sconsolato che guarda la ninfa irraggiungibile. Avrà riconosciuto se stesso in quel Polifemo, Michelangelo? Non l'avrebbe raffigurato ugualmente solo Raffaello nella Scuola d'Atene? Sebastiano possedeva ciò che a Michelangelo mancava. Quell'incanto davanti alla bellezza d'un volto femminile — come in mostra, nella «Dorotea» di Berlino —, l'immediatezza degli sguardi, come nello stupendo «Giudizio di Salomone» e, nello stesso quadro, il calore di un corpo nudo.
Avrebbe aiutato, il giovane veneziano, a rompere l'isolamento doloroso del maestro fiorentino? L'alleanza fu quasi inevitabile. Forse Sebastiano avrebbe dovuto cedere qualcosa. La Madonna, nella «Pietà» di Viterbo, non ha nulla della materna fragilità che conosciamo nelle altre Madonne dolenti. Stringe virilmente i pugni, chiusa nella tunica e nel manto color della notte. Ma — e qui Sebastiano si conferma pienamente veneziano — il suo sguardo è rivolto alla luna che appare in uno squarcio tra le nubi e che arriva a illuminare il corpo livido del Cristo morto e la sua candida sindone. Sulla fedeltà di Sebastiano verso Michelangelo si è sempre insistito, da Vasari in poi. Secondo Vasari, anche la «Resurrezione di Lazzaro», realizzata in gara con Raffaello, che dipingeva la «Trasfigurazione», sarebbe stata eseguita «sotto ordine e disegno di Michelangelo». Di fatto gli «sbattimenti di luce» di questo quadro, come avrebbe detto un osservatore del Seicento, sono tali da lasciar capire come Raffaello e Sebastiano si fossero guardati a vicenda.

Corriere della Sera 8.2.08
Colpi di fulmine Lo scrittore di «Lolita» esalta la Dorotea in una novella
E attorno alla sua Gioconda la «pochade» di Nabokov
di Antonio D’Orrico

L'inaccessibile bellezza
Dietro la sarabanda degli innamoramenti e dei tradimenti si cela il tema doloroso del confronto impietoso fra arte e vita

Dicevano i maligni dell'epoca (1511, il gossip non l'abbiamo inventato noi) che Papa Giulio II chiamò Sebastiano Luciani (poi detto del Piombo) da Venezia a Roma non tanto per le sue doti di pittore quanto per quelle di musicista. Sebastiano suonava divinamente il liuto ed era addirittura il frontman di una band.
Sull'arte del pettegolezzo attorno a Sebastiano si cimentò anche Vladimir Nabokov, il maestro di Lolita, scrivendo che il pittore veneziano non aveva molta simpatia per Raffaello e non solo per questioni di gelosia artistica. C'era anche una gelosia più terra terra. Pare che Sebastiano «non fosse indifferente » a Margherita Luti, la donna che Raffaello avrebbe immortalato come la Fornarina.
Nabokov descrisse Sebastiano come uno che seppe approfittare delle contraddizioni dello stato (pontificio) assistenziale: «Quindici anni prima di morire prese i voti dopo aver ottenuto da Clemente VII una carica poco impegnativa quanto lucrosa. È da allora che viene chiamato Fra Bastiano del Piombo. Giacché il suo incarico consisteva nell'apporre enormi sigilli di piombo sulle infiammate bolle papali».
A Nabokov si deve l'epitaffio più bello scritto sul maestro: «Fu un monaco dissoluto, amava gozzovigliare, scriveva sonetti mediocri. Ma che artista!».
Cosa hanno in comune lo scrittore russo (nato a Pietroburgo nel 1899, esule a causa della Rivoluzione e morto in Svizzera nel 1977), capace di diventare il più grande romanziere americano del Ventesimo secolo (Saul Bellow ci perdoni, ma è la verità), e Sebastiano del Piombo di cui Vasari, il Gianni Brera dei pittori, scrisse che dipingeva piedi e mani «bellissimi» e stoffe degne di Armani («per tacere quanto erano ben fatti i velluti, le fodere, i rasi»)? In comune c'è il fatto che Nabokov, dopo essersi laureato a Cambridge (dove aveva brillato anche come portiere di calcio), si era trasferito a Berlino in una casa vicinissima al museo dove era ospitato uno dei quadri più famosi di Fra Sebastiano, il Ritratto di giovane romana
detta Dorotea (detto anche la Gioconda berlinese), e ne rimase così colpito da farlo protagonista di La veneziana, uno dei suoi racconti più belli (la raccolta completa dei racconti dello scrittore sta per essere pubblicata da Adelphi).
La veneziana si inserisce nella tradizione letteraria affascinante e un po' sinistra del dipinto che prende vita. Come Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe, storia di un quadro- vampiro che succhia l'anima alla modella. Come, naturalmente, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, il dipinto più citato e inquietante nella storia della letteratura mondiale. La cosa più strana (per quanto ci riguarda in questa sede) è che Luigi Capuana, una ventina d'anni prima di Nabokov, scrisse un racconto horroreggiante, Il benefattore,
con protagonista un altro ritratto di donna di Sebastiano: quello della presunta Fornarina (per carità, niente pettegolezzi).
La storia di Nabokov è quasi un giallo (ci sta perfino per scappare il morto) e sicuramente è una pochade (con tresca extra- matrimoniale ambientata in un maniero inglese e fuga finale degli amanti in Rolls-Royce). Tutto comincia quando il Colonnello, un aristocratico appassionato di pittura, compra da McGore, restauratore e suo pusher di dipinti, il Ritratto di veneziana di Sebastiano del Piombo (che è in realtà il Ritratto della giovane romana di Berlino).
Guardiamo il dipinto con gli occhi (e le parole impareggiabili) di Nabokov: «Il quadro era veramente magnifico. Luciani aveva ritratto di tre quarti, su un caldo sfondo nero, una bellezza veneziana. Un roseo tessuto scopriva un possente collo ambrato con pieghe di straordinaria dolcezza sotto l'orecchio, dalla spalla sinistra ricadevano le grigie pelli di lince che bordavano la mantella color ciliegia. Con le lunghe dita della mano destra divaricate, il medio stretto all'anulare, sembrava che un attimo prima la donna stesse per rimettere a posto le pelli che le scivolavano dalle spalle: era rimasta immobile in quell'attitudine e fissava languidamente dalla tela con i suoi occhi castani tutti scuri. La mano sinistra, avvolta da bianche crespe di batista intorno al polso, reggeva un cestino pieno di frutti gialli, una cuffia riluceva sui capelli castano scuro come una sottile coroncina».
Un goffo studente di teologia, amico del figlio del colonnello, si accorge che il ritratto somiglia in maniera impressionante a Maureen, la moglie del restauratore McGore. L'aspirante teologo si innamora del dipinto al punto da sfiorare la pazzia: «Come sarebbe stato bello cingere con un braccio le spalle della Veneziana, prenderle dalla mano sinistra il cestino con i frutti gialli, andarsene tranquillamente con lei lungo quel bianco sentiero». La Veneziana in carne e ossa, cioè la bella Maureen, è invece l'amante del figlio del colonnello (se ne accorge lo stesso colonnello quando, chinatosi sotto il tavolo per raccogliere una carta caduta durante una partita di bridge, vede il figlio e Maureen che si fanno piedino, anzi ginocchino).
Nel vaudeville di Nabokov al povero quadro accade di tutto. Ma dietro la sarabanda degli innamoramenti e dei tradimenti c'è il tema doloroso del confronto impietoso tra la «perfetta e inaccessibile bellezza» dell'arte e la miseria della vita reale. Non fidatevi mai, però, di Nabokov. C'è sempre il trucco: il quadro si rivelerà alla fine, una copia, un falso. La vera Veneziana resta inaccessibile nella sua bellezza.

l’Unità Roma 8.2.08
Un veneziano a Palazzo Venezia
Sebastiano del Piombo, il grande artista oscurato da Raffaello e Leonardo
di Flavia Matitti

FAMA Ma oggi, vista la grande fama di cui gode Raffaello rispetto all’assai minore notorietà di Sebastiano, si stenta a credere che l’Urbinate potesse davvero sentirsi minacciato e brigasse, fino alla morte, sopraggiunta nel 1520, pur di evitare il confronto. La vicenda comunque è significativa perché mostra come Sebastiano fosse considerato dai contemporanei uno dei maggiori artisti e l'unico a poter contare sull’appoggio e l’amicizia di Michelangelo, prodigo con lui di idee e disegni.
In seguito, però, la figura di Sebastiano del Piombo ha goduto di sempre minor fortuna e la coscienza della sua importanza nel panorama artistico del Rinascimento, accanto a Raffaello, Leonardo, Michelangelo e Tiziano, si è venuta perdendo, tanto che a questo pittore non era mai stata dedicata una mostra monografica.
A rendere finalmente il giusto merito a Sebastiano Luciani (poi noto come “del Piombo” perché nel 1531 gli venne assegnato l’incarico di piombatore pontificio) ora un’ampia rassegna, ordinata nelle sale di Palazzo Venezia, curata da Claudio Strinati, Soprintendente Speciale per il Polo Museale Romano, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e organizzata da Mondomostre (catalogo Federico Motta Editore).
Nata dalla collaborazione tra il Polo Museale e la Gemäldegalerie di Berlino, città nella quale la mostra approderà in giugno, la retrospettiva si avvale di un allestimento d’eccezione, ideato da Luca Ronconi e Margherita Palli, teso a valorizzare appieno ogni singolo dipinto, anche tramite un sistema di illuminazione all’avanguardia, curato da un “lighting designer” americano. Il risultato è molto scenografico e di grande suggestione, perché mano mano che si avanza lungo il percorso espositivo, si ha quasi l’impressione che ciascun quadro appaia in quel momento davanti a noi, unico protagonista di un teatrino immaginario. Appare però sacrificato l'effetto d’insieme.
L’itinerario inizia con il periodo veneziano di Sebastiano del Piombo, città nella quale l’artista nasce nel 1485 e dove assimila la lezione di Giovanni Bellini e di Giorgione. Due tavolette pendant con la “Nascita e Morte di Adone” testimoniano l’adesione al gusto giorgionesco. Dominano la sala le grandi portelle d’organo della chiesa di San Bartolomeo di Rialto (1509), che nelle eroiche figure di santi ritratti a grandezza naturale rivelano un pittore ormai pienamente maturo. La seconda sezione presenta una serie di magnifici ritratti realizzati a Roma, dove Sebastiano giunge ventiseienne nel 1511, al seguito del banchiere Agostino Chigi, e dove morirà nel 1547. Sono ritratti che coniugano il cromatismo, la capacità introspettiva ed il sentimento della natura degli anni veneziani con una consistenza volumetrica “michelangiolesca”. La terza sala riunisce un nucleo di quadri di soggetto sacro, tra i quali spiccano i notturni della “Pietà” (1516) e della “Flagellazione di Cristo” (1525) conservati a Viterbo. Vi sono poi alcuni dipinti raffiguranti il Cristo Portacroce, un soggetto dalla spiritualità sofferta ed interiore, che avrà molto successo nella Controriforma, sia in Italia che in Spagna. Lungo il percorso una sala è dedicata alla grafica. Dell’artista, infatti, sono sopravvissuti una quarantina di disegni, metà dei quali sono esposti a Roma mentre un’altra ventina sarà presentata a Berlino.
Palazzo Venezia (fino al 18/05) orari: 10.00 – 20.00 venerdì e sabato fino alle 22.00 Tel. 06.681.922.30

Repubblica Roma 8.2.08
Sebastiano dal Piombo. Il genio del Rinascimento con la regia di Ronconi
Ottanta capolavori dell´amico di Michelangelo che imparò a dipingere con Giorgione e Bellini
di Ludovico Pratesi

A Venezia studiava le pale d´altare di Giovanni Bellini e gli affreschi di Giorgione, a Roma dipingeva accanto a Raffaello ed era amico di Michelangelo. Eppure, nonostante la sua frequentazione con i più famosi maestri del Rinascimento, fino ad oggi non aveva mai avuto l´onore di essere celebrato con una grande mostra, che rendesse giustizia al suo talento artistico. Soltanto oggi, cinquecento anni dopo, anche per Sebastiano Luciani, detto Sebastiano dal Piombo (1485-1547) è arrivata la gloria tanto attesa, grazie ad una retrospettiva da non perdere, che si è inaugurata ieri, a palazzo Venezia. E a dare una mano a Sebastiano è arrivato anche un partner d´eccezione, il regista Luca Ronconi, che firma l´allestimento dell´esposizione, curata da Claudio Strinati e organizzata da Mondomostre. Ottanta opere provenienti dai musei di tutto il mondo ripercorrono così l´avventurosa e contraddittoria carriera di Sebastiano, che si apre sotto i migliori auspici sui canali di Venezia. Nella Serenissima il giovane Luciani si forma prima con Bellini e poi con Giorgione, che gli insegna la forza del colore ma anche quel pizzico di ambiguità che rende i suoi capolavori misteriosi e magnetici. E lo dimostra la Sacra conversazione (1509) del Metropolitan, mirabile esempio del suo precoce talento, già sbocciato prima di quella chiamata a Roma che arriva da uno degli uomini più potenti d´Italia, il banchiere senese Agostino Chigi. È il 1511 quando il pittore lascia Venezia per Roma, dove si ritrova nelle sale della villa di Agostino, sulle rive del Tevere, a lavorare fianco a fianco con il giovane Raffaello Sanzio, brillante e ambiziosa cometa nell´affollato firmamento dell´arte europea. Nei primi anni romani Sebastiano, diventato nel frattempo "piombatore" (cioè responsabile dell´ufficio protocollo della cancelleria papale) realizza una serie di capolavori da mozzare il fiato, come il Ritratto di Dorotea (1512) e il Ritratto d´Uomo (1515) ma soprattutto la straordinaria Pietà (1516) che arriva in mostra dal Museo Civico di Viterbo. Un´opera chiave per comprendere il rapporto tra Sebastiano e Michelangelo: un sodalizio durato diversi anni per contrastare la fama di Raffaello. Si dice che il primo non sapesse disegnare, e si facesse aiutare dal Buonarroti, che avrebbe eseguito il disegno del corpo perfetto di Cristo nella pala di Viterbo. Vero o falso che sia, in mostra ci sono diversi disegni di Sebastiano, caratterizzati da un tratto nervoso e irrequieto, ma molto espressivo. Un´espressività inquietante e drammatica, che ritroviamo anche nelle sue opere più tarde, come la Flagellazione (1525), intrisa di memorie michelangiolesche. Un altra prova del genio di un artista sorprendentemente moderno e innovativo.

Agi 8.2.08
GIORDANO: SFIDA LEALE A PD ANDREMO CON NOSTRO SIMBOLO
"Tra noi e il Partito democratico si e' aperta una sfida a chi rappresenta meglio l'alternativa a una destra aggressiva e pericolosa". Lo dice il segretario del Prc, Franco Giordano, al termine dell'incontro tra i leader della Sinistra-arcobaleno e i vertici del Pd. Giordano ha sottolineato che le forze di sinistra si presenteranno "in un'unica lista, con un nostro candidato e leader che e' Fausto Bertinotti, e con un nostro simbolo che presenteremo al piu' presto, forse gia' martedi'".

Secondo il segretario di Rifondazione "ci sara' alle prossime elezioni una destra, un centro che e' il Pd e una sinistra che intende rappresentare le speranze del mondo del lavoro e dei precari: la sfida - ha proseguito - e' su chi rappresenta meglio l'alternativa alle destre". Secondo Giordano "la sfida dovra' essere leale tra la sinistra e il Pd e non dovranno esserci elementi distruttivi". Per questo, ha concluso, e' ancora ipotizzabile qualche accordo a livello locale: "bisogna evitare che la destra sia avvantaggiata, non bisogna consegnare le citta' importanti al centrodestra". Alla domanda dei giornalisti che chiedevano se ad esempio possa essere appoggiata la candidatura di Anna Finocchiaro in Sicilia, Giordano ha risposto: "vedremo".


il Riformista 8.2.08
Sinistra Ieri il confronto nel movimento di Mussi
Con un po' di mal di pancia Sd si affida a Fausto
Gli ex ds nel simbolo non vogliono falci e martelli
di Alessandro De Angelis


Sd è appesa a un filo, anzi a un simbolo. Meglio ancora: a quattro simboletti. Nel senso che se la Cosa rossa correrà con l'arcobaleno senza i loghi dei quattro partiti della sinistra-sinistra, sia pur con un fortissimo mal di pancia, Sd seguirà compatta Mussi, e sosterrà la candidatura di Fausto Bertinotti. Altrimenti, se così non dovesse essere, ognuno si sentirà libero di seguire il proprio destino, o quasi. Perché quell'eventualità, dicono, sarebbe un vero e proprio cedimento su tutta la linea. Ma più dei simboletti è stata proprio la leadership di Bertinotti l'oggetto vero di una tesa (tesissima) direzione di Sd, dove non sono mancate critiche, anche aspre, a Mussi: reo, a giudizio di molti dei suoi, di aver ceduto su Fausto senza aver avuto garanzie in cambio.
Riassumendo. Alla vigilia dell'incontro tra i quattro segretari della Cosa rossa di martedì scorso, Mussi aveva ricevuto mandato dai suoi di spingere per un'alleanza di tutta la sinistra con Veltroni. E di accettare la candidatura di Bertinotti solo dopo aver verificato che non sussistevano le possibilità di costruire un «nuovo centrosinistra» tra Pd e Cosa rossa. E, in tal caso, solo dopo aver accertato che nel simbolo della Sinistra arcobaleno non ci fossero falci e martelli. Obiettivo: evitare che la Cosa rossa venga vissuta e percepita come una Rifondazione allargata. Alla riunione di martedì invece Mussi ha dato il via libera su Bertinotti senza portare a casa il simbolo. Se a ciò si aggiunge che Veltroni ha onorato fino in fondo il patto con Fausto per una separazione consensuale tra Pd e sinistra-sinistra senza dare sponda a Mussi, il malcontento della riunione di ieri era largamente prevedibile. In sostanza ha preso forma, per alcuni, lo scenario opposto rispetto a quello auspicato all'atto di nascita: quando si diceva che bisognava «superare la distinzione tra radicali e riformisti» o si sottolineava il saldo ancoraggio al socialismo europeo o si sosteneva che «il Pd non è un nemico ma un alleato», e si insisteva per unificare la sinistra, intesa però come sinistra di governo.
Titti Di Salvo, tra i dirigenti più critici nei giorni scorsi, prova a metterla in positivo: «Lavoreremo perché non ci siano due sinistre. Visto che, oltre tutto, il Pd si profila come un partito di centro, a noi spetta la costruzione di una sinistra unita, popolare e di governo. Spero che con Bertinotti ci sia una squadra che si impegni in tal senso». Fulvia Bandoli usa invece meno diplomazia: «Su Bertinotti non mi ha convinto il metodo di designazione che è stato poco democratico. E ritenevo che, per rappresentare tutte le culture politiche della sinistra, non fosse la figura migliore. Ciò premesso ora mi aspetto che Bertinotti lavori per la costruzione di una nuova sinistra e rimetta in campo le riflessioni sul socialismo del XXI secolo e sul superamento dei partiti esistenti che ha fatto qualche mese fa. Ecco perché il simbolo è importante: non può esprimere solo un cartello elettorale».
Ora Mussi, che nel tempo ha perso pezzi che condividevano questa idea di sinistra - prima i socialisti di Angius e Spini, poi i sindacalisti della Cgil - non può permettersi di perdere la partita del simbolo. È «ir-ri-nun-cia-bi-le», scandiscono gli ex ds, che lo hanno pure messo nero su bianco in un documento approvato all'unanimità. Dalla sua il leader di Sd ha un sondaggio che darebbe l'arcobaleno al dodici per cento; mentre con la presenza delle sigle dei partiti scenderebbe di ben quattro punti. Ma soprattutto può contare proprio sull'appoggio di Bertinotti, nonostante l'insofferenza di una buona parte del suo partito, e su un atteggiamento più morbido dello stesso Pdci. Cesare Salvi taglia corto: «Certo che nelle riunioni si discute e ci si confronta… Io credo che Bertinotti nella riflessione di una nuova sinistra stia più avanti di tutti e spero se la giochi bene in campagna elettorale spingendo nella direzione di un soggetto politico unitario della sinistra». In ogni caso, seppure a microfoni spenti, molti dentro Sd dicono che a Fausto era impossibile dire di no. E, forse, è davvero finita Sd, da qualunque parte la si veda. Chissà se quest'epilogo non fosse già scritto all'atto di nascita. Era il cinque maggio dell'anno scorso. C'era tanto rosso, in sala e sul palco. Ai militanti venivano distribuite copie di Liberazione , il quotidiano di Rifondazione comunista, con un titolo a tutta pagina «La sinistra ha la sua grande occasione». E la colonna sonora era quella delle grandi occasioni: Bella ciao (in versione Modena City Ramblers) e l'Internazionale . Sullo sfondo, l'arcobaleno, sia pure iscritto nel simbolo di Sd, era ben visibile. Mancava solo Fausto.

il manifesto 8.2.08
Soli ma non troppo Luca dice sì al Pd
Il capo di Confindustria: «Il vostro programma mi interessa». Così Walter conquista il suo elettore più grande. Parte dall'Umbria il Veltrontour, toccherà tutte le province. Niente primarie ma «ampia consultazione» per comporre le liste. Però nella riunione dello stato maggiore, i big parlano per cinque minuti ciascuno
di Daniela Preziosi


Il «ma anche» più grande di Walter Veltroni arriva durante l'interruzione di un dibattito. Merito di un allarme che disturba il dialogo fra il candidato del Pd e il presidente di Confindustria. I due si appartano, si dicono qualcosa. Poi Luca Cordero di Montezemolo lascia scivolare un: «A noi interessa molto il programma del partito democratico. Siamo interessati a capire i contenuti delle proposte del Pd». Il Pd cerca i voti degli operai candidando (forse) un sopravvissuto al rogo della ThyssenKrupp. «Ma anche» i voti degli imprenditori, e il loro capo non si fa pregare per dare un segnale di disponibilità. Dopo Montezemolo attenua, assicura che farà incontri con tutte le forze politiche. Ma quando il dibattito riprende (è la presentazione del libro Cowboy democratici di Maurizio Molinari), Cordero fa di più: «Il partito democratico americano non è un monolite chiuso, solido e imperscrutabile ma è un partito aperto ad opinioni diverse e a contrasti che non defluiscono in tanti partitini, ma in un obiettivo e una condivisione comune», dice. Una forza «aperta agli apporti della società civile, che non vengono mai visti come una invasione di campo». Vietato, conclude, fare «paragoni scontati e provinciali» con l'Italia Ma il riferimento alla strada che dovrà percorrere il partito democratico è evidente. Veltroni incassa l'avvicinamento pubblico e plateale, il colpaccio è tale che neanche commenta.
Il Pd andrà da solo, dunque, ma neanche tanto se nella corsa elettorale si ritroverà in compagnia degli imprenditori del salotto buono italiano. Due ore prima, Veltroni aveva incassato il sì più sofferto, quello dello stato maggiore del suo partito riunito nel loft romano di Sant'Anastasia. Lo ha fatto usando argomenti razionali, toni bassi e sondaggi alla mano. L'astensionismo al momento si attesta fra il 20 e il 25 per cento, il distacco fra i poli al 10. Gli elettori chiedono governabilità, e l'unica chance, per il segretario del Pd, è cambiare schema rispetto alla vecchia coalizione: correre da soli, «la nostra carta vincente», con un programma chiaro e il candidato premier nel simbolo elettorale. Per Veltroni, che in mattinata aveva ricevuto il sondaggista Nando Pagnoncelli, la situazione è paragonabile al '93-'94, quando nacque Forza Italia e i sondaggi non rilevarono nulla se non a pochi giorni del voto. Il paragone è più che benaugurante.
Alla fine i big sono stati quasi tutti conquistati - silenziati in qualche caso. D'accordo Romano Prodi, che anzi ha usato parole lusinghiere dentro la riunione e addirittura entusiastiche all'uscita, «c'è voglia di vincere». Anche gli ulivisti più irriducibili, come Rosy Bindi, alla fine si sono arresi, chiedendo uno sforzino per provare a trovare l'accordo almeno con Di Pietro, i socialisti di Boselli e anche i radicali. Ma c'è anche chi tira dall'altra parte. Marco Follini, per esempio, per il quale la solitudine è una regola da seguire «senza eccezioni». Per i leader della Cosa rossa, che stamattina saranno ricevuti nel loft, neanche uno spiraglio. A meno che non decidano la resa unilaterale. Il ragionamento che circolava ieri suonava così: «Nessun accordo. Nemmeno patti di desistenza. Se poi loro vogliono farlo...ma da parte nostra non arriverà nessuna offerta».
Le primarie, che durante la riunione Enrico Letta ha di nuovo chiesto, non si faranno. Ma per la compilazione delle liste - per presentarle c'è tempo fino al 9 marzo - ci sarà «un'ampia consultazione», ha assicurato Veltroni. Peccato che ieri ai big però è toccato un intervento di «cinque minuti a testa», ha fatto notare Massimo D'Alema. Verranno tempi migliori. Per ora è certo che Luciano Violante e Giuliano Amato hanno scelto di non candidarsi, ed è probabile che un sacrificio sarà chiesto anche a Ciriaco De Mita. La partita delle liste è delicata e tutta aperta. Ma intanto la macchina elettorale deve partire, e la campagna elettorale inizierà domenica prossima in Umbria, «il cuore dell'Italia», terra operosa di santi e pacifisti. Il pullman del Veltrontour partirà invece il 16 febbraio direttamente dall'assemblea costituente alla Nuova fiera di Roma, dove verrà approvato lo statuto. Toccherà tutte le province italiane. Prime tappe in Abruzzo: Pescara, Teramo e L'Aquila.

Il manifesto 8.2.08
Il traduttore di Platone in nome del Profeta
Incontri Il volume, curato da Massimo Campanini, sarà presentato oggi alle 18 nella Biblioteca Ambrosiana di Milano Repubblica dell'imam Raccolti gli scritti politici di al-Fârâbî, lo studioso arabo che ha traghettato il pensiero greco nella filosofia islamica
di Augusto Illuminati


Con il titolo Scritti politici di al-Fârâbî, Massimo Campanini ha curato per la Utet (pp. 403), con una introduzione analitica e un denso apparato, la traduzione dei saggi fondamentali di quello che per il medioevo islamico ed ebraico fu «il secondo maestro», da sotto il cui mantello escono Avicenna, Averroé e Maimonide. (Il volume sarà presentato oggi a Milano, alle ore 18, presso la Biblioteca Ambrosiana (Piazza Pio XI, 2). Si tratta degli scritti più programmaticamente politici, anche se vi sono riepilogate vaste parti di metafisica e logica trattate in altre sedi: Il conseguimento della felicità, Gli aforismi dell'uomo di stato, Le idee degli abitanti della città virtuosa, Il libro dell'ordinamento politico, Il libro della religione - tutti in prima versione italiana, eccetto La città virtuosa, tradotta con qualche variante dallo stesso Campanini per la Rizzoli nel 1996.
Nato in Persia o nel Turkestan probabilmente nell'870 e morto nel 950 a Damasco, al-Fârâbî fu il traghettatore decisivo del pensiero greco in ambito islamico, riproponendo la concordanza fra il «divino» Platone e il più conosciuto Aristotele e sussumendovi anche il neo-platonismo (la cosiddetta Theologia Aristotelis, che in realtà è un centone delle Enneadi plotiniane). L'omologazione era, oltre tutto, imposta dall'esigenza di non indebolire, evidenziando le divergenze, lo statuto della filosofia rispetto alla tradizione religiosa. Campanini insiste tuttavia soprattutto sulla collocazione islamica dell'autore e l'elaborazione originale, rifiutando di schiacciarlo sulla dimensione traduttiva e in sostanza dipendente dalla tradizione ellenica. Per questo, oltre a collocarlo biograficamente nella crisi del califfato sunnita e nell'ascesa politica dello sciismo e dell'ismâ'îlismo nel X secolo, CAmpanini tende a mettere in rilievo l'uso che al-Fârâbî fa di alcune figure e motivi fondamentali di quelle correnti: il profetismo, l'imâm come guida carismatica, la gerarchizzazione cosmologica e civile ben corrispondente alle dottrine neoplatoniche. Più in generale, il curatore del volume ritiene che i falâsifa musulmani furono prima musulmani che filosofi e utilizzarono la speculazione greca come uno strumento per comprendere e migliorare l'Islam.
Stiamo inoltre in una certa tensione polemica con quell'interpretazione che più ha reso (relativamente) popolare al-Fârâbî, cioè la lettura di Leo Strauss, ripresa poi dal suo editore e commentatore in inglese Muhsin Mahdi. Per Strauss abbiamo un caso tipico di reticenza (in lui e nel seguace Maimonide), di insegnamento esoterico per occultare e difendere il pensiero filosofico più profondo e quindi le ragioni ultime dell'umanità dall'ideologia religiosa che nel contempo è anche ordine sociale, la Legge degli Ebrei e dei musulmani, legge civile e culturale nel contempo, con cui il filosofo deve necessariamente confrontarsi, contestandola prudentemente dall'interno. Lo statuto di minorità della falsâfa (filosofia), rispetto al legalismo del fiqh e del talmud, l'esonera per fortuna dalla supervisione religiosa, così tipica del Cristianesimo. Per Campanini invece si dà una sostanziale armonia, in ambito islamico, fra scienza razionale e fede.
Vi sia o meno tale doppiezza intrinseca, vi è certamente un'evoluzione interna nell'opera di al-Fârâbî e anche una contraddittorietà fra testi: per esempio nella giovanile Epistola sull'intelletto il meccanismo emanativo comprende quello delle forme naturali sublunari contingenti da parte dell'«Intelligenza Agente», come avverrà per il dator formarum del suo seguace Avicenna, mentre nelle opere della piena maturità essa non produce forme ma soltanto perfeziona l'intelletto e l'immaginazione degli uomini, consentendo la formazione degli intelligibili e attraendo alla congiunzione i più sapienti. Nell'età estrema, nel perduto commento all'Etica Nicomachea, scoraggiato, abbandona la dottrina della congiunzione dell'intelletto umano con l'«Intelligenza Agente», definendola «una favola da vecchie». Petite phrase carica di conseguenze, la cui tonalità scettica (invero straordinariamente moderna) è testimoniata e aspramente rimproverata da Tufayl, Averroé e Avempace.
I passaggi più geniali delle opere politiche sono quelli in cui identifica il governatore-profeta, l'imâm, con il re-filosofo della Repubblica platonica, facendo intervenire l'Intelligenza Agente non solo, come era scontato, nei processi dell'astrazione, ma sulla facoltà inferiore dell'immaginazione. A metà fra sensi e ragione, essa si costruisce uno spazio imitativo degli uni e dell'altra, preziosissimo per innestare e regolare la pratica. Di regola fornisce similitudini, ma in alcuni casi è talmente potente da cortocircuitare la facoltà razionale, saltando la fase riflessiva, e rendendo possibile la conoscenza delle cose divine e dei particolari futuri. Non solo ciò permette di elaborare programmi politici di ampio respiro, ma chi ha una possente immaginazione può entrare in risonanza con l'immaginazione delle masse e guidarle - ciò che mai riuscirebbe alle argomentazione dimostrative del filosofo. Modello implicito Maometto, è probabile, ma perché no?, anche il popolarissimo Alessandro Magno. Il profeta-legislatore (con il corollario delle doti militari) è decisivo per la fondazione non per la sopravvivenza della città virtuosa, che può accontentarsi di surrogati e collegi (pur sempre comprendenti un filosofo). Abbiamo qui, con dieci secoli di anticipo, il noto meccanismo weberiano per cui il potere carismatico è quello che fonda religioni e imperi per poi raffreddarsi in gestione burocratica e periodicamente tornare a vivificare una società irrigidita (come gli imâm nascosti sciiti). La coesistenza (qui secolarizzata) di afflato gnostico-profetico e organizzazione gerarchica è del resto un buon punto di confluenza fra macchina neoplatonica e settarismo isma'îlita, che lascia indecisi i problemi interpretativi sopra accennati, tanto la lettura straussiana quanto il ruolo dell'influenza ellenica.