sabato 9 febbraio 2008

Corriere della Sera 9.2.08
L'intervista
Fausto Bertinotti candidato premier della «Cosa rossa»
Il Pd può andar bene Per noi della sinistra opposizione creativa
di Monica Guerzoni


Fausto Bertinotti: «La decisione del Pd di correre da solo spazza via equivoci e ambiguità. Ora la sinistra deve passare per una fase di opposizione creativa e influente»
Penso alla Epinay di Mitterrand, che pose le basi per la rivincita. Spero solo che non ci metteremo tre legislature come lui

ROMA — Alle 11.30, seduto sul divano del suo studio alla Camera sotto una magnifica tela di Sironi, Fausto Bertinotti sfoglia le agenzie di stampa e si vede che è contento per com'è andato l'incontro tra Veltroni e i segretari della sinistra. «Bene, molto bene. Vede cosa dice Mussi? "Parte la sfida". E le stesse parole usa Diliberto. Perfetto. Ci abbiamo messo un po', ma finalmente siamo arrivati».
La Cosa rossa da una parte e il Pd dall'altra. Confessi che anche lei voleva questo, presidente.
«Ovviamente è la conseguenza di una scelta del Pd che noi riteniamo discutibile, ma la decisione di Veltroni ci consente di fare di necessità virtù. L'esito dell'incontro è una presa d'atto, però spazza via equivoci e ambiguità, presenta in maniera netta il campo delle alternative alla destra e consente di progettare il futuro».
Quindi niente accordi, desistenze o altri patti elettorali?
«Constato che ognuno corre per suo conto. Tra noi e il Pd si apre la sfida su chi ha la risposta più riformatrice alla crisi del Paese. Era indispensabile che l'unità della sinistra non fosse solo un cartello elettorale, ma un nuovo soggetto. Che la seconda Repubblica sia finita oppure mai iniziata, ora comincia il processo costituente della sinistra».
Si riparte dal centrosinistra col trattino?
«Per la verità si riparte dalla sostituzione del trattino con una "e", centro e sinistra».
Tornerete a governare insieme?
«Chissà. Dobbiamo capire le ragioni della sconfitta, saltare una fase sarebbe un'operazione acrobatica. Il lutto va elaborato, altrimenti non si capirebbero le scelte che stiamo facendo, a partire da quella del Pd. Se il problema fosse il tornare al governo come eravamo, non avrebbe senso la corsa solitaria di Veltroni. La campagna elettorale è solo l'inizio e mi piace confrontarlo con l'Epinay di Mitterrand, che dopo la sconfitta pose le basi per la riconquista. Spero solo che non ci metteremo tre legislature come Mitterrand».
Lei quanto tempo si prende, per ricostruire?
«Non mettiamo il carro davanti ai buoi. La mia bussola fondamentale, per le elezioni e per dopo, è costruire un grande soggetto della sinistra per poi definire un nuovo campo delle alleanze. Il tema del governo non deve essere espulso dall'orizzonte, sebbene si debba passare per una fase di opposizione creativa e influente».
Sta teorizzando la necessità della sconfitta...
«No, questo è un argomento che non può essere usato. La scelta è del Pd. Nessuno tenti di addossare alla sinistra la causa della sconfitta».
Non teme l'accusa di aver favorito il ritorno di Berlusconi?
«Né la sinistra né il Pd devono mettere in campo l'argomento inquinante che qualcuno vuole la sconfitta. La formula di Bruno Storti, marciare divisi per colpire uniti, può essere la risposta più efficace. Nel 2006 la domanda fondamentale era cacciare Berlusconi, oggi è come cambiamo il Paese. Per proporre l'orizzonte del governo bisogna prima indagare le ragioni della sconfitta».
Si riconosce in coloro che addossano le maggiori responsabilità a Prodi?
«La colpa della sconfitta è anche di Prodi, certo. Ma la corda si è spezzata a destra. Se Dini e Mastella non avessero tolto la fiducia, con la correzione di rotta da noi indicata il governo sarebbe ancora in carica. Ora Veltroni chiede di aumentare i salari usando l'extragettito? Sempre meglio oggi che domani, ma perché non è stato fatto in Finanziaria? Abbiamo perso un'occasione e adesso è tardi, Berlusconi dirà di no».
Tra lei e Veltroni c'è un patto o solo un'intesa?
«Siamo concorrenti, però c'è rispetto reciproco, credo si ritenga il progetto dell'altro non condivisibile ma proponibile. La storia della sinistra è sempre stata la demonizzazione dell'altro, fratelli coltelli. Ecco, dobbiamo dismettere la tentazione di costruire la propria fortuna sulle disgrazie dell'altro. Credo che il Pd non risolverà i problemi, ma può anche avere successo».
E se Veltroni dovesse miracolosamente vincere?
«Fare opposizione da sinistra a un governo del Pd è una buona condizione, meglio che farla alle destre vincenti. Mi pare però difficilmente prevedibile una vittoria del Pd. Ora è astro nascente, ma in quel partito c'è un conflitto devastante, dall'aborto ai matrimoni gay. Ecco, la sinistra è strategicamente decisiva per influenzare il corso del Pd, come è successo in Germania con Die Linke ».
L'8,7 ottenuto dalla sinistra unita in Germania sarebbe per voi una vittoria o una sconfitta?
«Siamo uomini di grande ambizione, mai porre limiti alla provvidenza rossa».
E se dopo il voto Veltroni e Berlusconi dessero vita a una grande coalizione, come auspica Chiamparino?
«Segnerebbe la sconfitta del disegno di Veltroni, la contraddizione della sua vocazione. La grossa coalizione mortifica la dialettica politica e sospinge pericolosamente al centro, contrastarla è compito della sinistra».
È disposto a confrontarsi in tv con Veltroni e Berlusconi?
«Ne sarei contento, anche con il candidato della Rosa bianca».
Conferma che farà il leader per 40 giorni?
«Il candidato premier, ci tengo alla differenza. Dopodiché la mia determinazione è assoluta, non ci sono uomini per tutte le stagioni».
Lascerà a Nichi Vendola?
«Vedremo, nelle organizzazioni democratiche non ci sono eredi di sangue. Ma il problema è di facile soluzione».
Come imposterà la campagna elettorale?
«La mia bussola è chi guadagna 1.100 euro. Io immagino la Sinistra e l'arcobaleno come un grande arcipelago che sta insieme, ma in cui le isole vivono riccamente e autonomamente in una relazione di scambio e osmosi».
Se non vi alleate per le Politiche, come potrete continuare a governare sul territorio, a cominciare da Roma?
«A Roma sono assolutamente per configurare un'alleanza per Rutelli. Sarebbe un errore gravissimo far discendere dalla scelta nazionale cambiamenti delle alleanze sul territorio».
Cederà a Diliberto, che vuole falce e martello nel simbolo?
«Il simbolo è quello della sinistra e l'arcobaleno, la falce e martello non è mai stata oggetto di discussione. Il discorso è se inserire i richiami alle quattro forze, ma essendo il candidato, per me qualsiasi decisione va bene».

l’Unità
Il leader Pd, presentando il sito, ha detto che la colonna sonora della campagna saranno «Mi fido di te» di Jovanotti, e l’Inno di Mameli «perché io sono tra quelli che si emozionano ascoltandolo e bisogna recuperare il senso di una appartenenza comune».

l’Unità 9.2.08
«Archiviare il centrosinistra è un azzardo»
Mussi: c’è troppa voglia di grande coalizione
«Al Pd dico che liquidare il centrosinistra è un azzardo. E poi Berlusconi non è Angela Merkel»
di Andrea Carugati


«SENTO ARIA di gentlemen agreement verso la destra, vedo esponenti del Pd come Chiamparino che teorizzano esplicitamente accordi di governo con Berlusconi. Non voglio demonizzarlo, ma tra questo e chiudere gli occhi su una destra populista, af-
farista e clericale ce ne passa. E l’ipotesi che Berlusconi torni per la terza volta a palazzo Chigi non è una bagattella...». Fabio Mussi, ministro dell’Università e leader di Sinistra democratica è molto allarmato per la decisione del Pd di correre da solo, ribadita ieri mattina nel vertice con la Sinistra. «Non ci siamo tirati addosso i bicchierini del caffè, è stato un incontro signorile. Ma ci sono state ripetute le ragioni della corsa solitaria. Mi limito a ricordare che il Pd era nato per stabilizzare la coalizione, lo dicevano loro...»
Lei non condivide l’idea che se vi foste ripresentati tutti insieme sarebbe stata una sconfitta sicura?
«E infatti nessuno pensava di ripresentare una carovana di 10 partiti: si poteva ragionare su un quadro nuovo, con due forze come Pd e Sinistra arcobaleno a fare da perno della coalizione. Archiviare il centrosinistra tout court è un azzardo».
Crede davvero che il Pd punti alla Grande coalizione?
«Mi chiedo se, al di là di queste elezioni, si intenda lasciare aperta la porta per un nuovo centrosinistra o se invece si punti a soluzioni centriste o di Grande Coalizione. Le mie non sono supposizioni malevole, viene detto da dirigenti del Pd».
Non crede che Chiamparino si ponga il problema di dare riposte pragmatiche a problemi di una società dinamica come il Nord?
«Ma il pragmatismo senza ideali non porta da nessuna parte. Capisco che dopo un lunghissimo periodo di equilibrio tra i due blocchi ci sia la tentazione di provare a far cooperare i due eserciti più consistenti. Ricordo però le difficoltà della Germania, la Spd che sta cercando di sganciarsi e di ricollocarsi più a sinistra. E poi Berlusconi non è Angela Merkel...».
Eppure l’Unione ha fallito la prova del governo, almeno in termini di coesione...
«È giusto riconoscere che si è andata consumando una stagione politica, che le elezioni del 2006 sono state più pareggiate che vinte e che, pur sottolineando i risultati positivi del governo su risanamento e lotta all’evasione fiscale, le aspettative della nostre gente sono andate in gran parte deluse. Ma dare la colpa ai partiti minori è solo un modo per lavarsi l’anima».
La vostra sarà una campagna contro Berlusconi ma anche contro il Pd?
«Vogliamo contrastare una nuova ondata di destra, ma anche frenare una aspirazione neocentrista nel centrosinistra. Per questo c’è bisogno di una sinistra politica, che affronti i problemi per quello che sono, senza lasciarsi incantare dalla spirale vecchio-nuovo, o da una presunta modernità. Ci viene presentata come novità, per esempio, l’idea che i bassi salari e la precarietà siano inevitabili, come la pioggia. Una sciocchezza. In realtà tutto questo è determinato dai rapporti di forza, dall’”avidità del neocapitalismo”, che è un’espressione di Alan Greenspan. Per questo è necessaria una critica dell’esistente. Ci vuole una sinistra che lo dica, e dirlo non è estremismo. La competizione con il Pd sarà su questo».
Non teme di rischiare di apparire come i vecchi comunisti davanti alla novità Veltroni?
«Questi sono contenuti modernissimi. Se parlo alla gente di destra, sinistra e centro in termini politologici non si appassiona. Ma se parlo di precarietà, ambiente, coppie di fatto, e della questione morale che oggi è diventata esplosiva, allora tutto è più chiaro. Capisco la suggestione della “modernità”, ma poi, quando come diceva Marx si “sale” nel concreto, sono certo che le ragioni della Sinistra troveranno molto ascolto».
Eppure la nascita della Sinistra arcobaleno è piena di problemi...
«Dobbiamo fare in poche settimane quello che altri, compreso il Pd, hanno fatto in anni. Siamo usciti dai Ds dieci mesi fa e siamo pronti a fare una lista unica, che non sarà un cartello elettorale ma il primo passo per un soggetto unitario. A me pare un successo e la nascita di Sd ha favorito questo sbocco».
Si dice che nel suo movimento ci sia malumore per il rischio di annessione da parte di Bertinotti...
«So che il processo unitario doveva partire dal basso, ma i tempi ci sono stati imposti dalla situazione. Bertinotti è un uomo di prestigio, non è nuovo ma è uno dei più convinti sostenitori della necessità di mettere in moto un processo nuovo a sinistra».
Non crede che un candidato che annuncia che dopo il voto si farà da parte sia poco appetibile?
«Il ruolo di traghettatore verso la nascita di un nuovo soggetto è decisivo, senza i fiumi non si attraversano...».
Ci sarà il ticket con la Francescato?
«Vedremo la prossima settimana. Tutta la squadra andrà definita bene».
E i socialisti?
«Finora non hanno aderito al nostro invito, chiederò un incontro per verificare se ci sono le condizioni per un’alleanza. Ma la legge elettorale non aiuta».
Ci sono tra le vostre file nostalgie del Pd? Crucianelli vi lascia per Veltroni..
«Crucianelli vuole entrare nel Guinness dei primati per il numero di partiti cui ha aderito. Auguri. Ma non vedo pentimenti in giro».
Non crede che Veltroni tocchi un punto vero quando dice che la gente vuole una politica più semplice?
«È così, ma da parte nostra c’è altrettanto spirito innovativo e di semplificazione. Le novità sono due: il Pd e la Sinistra l’arcobaleno. Tra noi non ci sarà guerra ma sfida per il futuro».
Non dà a Veltroni nessuna possibilità di vittoria?
«Da solo, mi pare molto difficile».

l’Unità 9.2.08
La sera in cui l’Austria sparì
di Paolo Soldini


È il 12 marzo del 1938. Sono passate da poco le otto di sera. Il dottor Kurt Schuschnigg, cancelliere federale della Repubblica austriaca, sta per lasciare per sempre il palazzo sede del governo, al numero 2 della storica Ballhausplatz. Le stanze sono vuote e buie, ma nelle finestre della Sala delle Colonne, quella in cui si riuniva il Consiglio dei ministri, brilla il riverbero della festa che ha riversato migliaia di viennesi sulla Hofburg. L’Austria finisce. Sotto il grande ritratto di Francesco Giuseppe, Schuschnigg scorge nella penombra un gruppo di persone, armate e in borghese. Sono tedeschi, ma non sono soldati: sono agenti della Gestapo.
L’invasione sarà domani, ma l’Austria è finita stasera. Schuschnigg viene portato via, passerà sette anni tra Buchenwald e Dachau. Poco dopo il presidente della Repubblica Wilhelm Miklas, per evitare un massacro, cederà all’ultimo ricatto e nominerà il fedelissimo e fanatico Arthur Seyss-Inquart, che già era stato imposto al ministero dell’Interno, a capo di quella che diventerà la Marca Orientale del Terzo Reich. Hitler entrerà da trionfatore nella «sua» Linz e poi terrà un memorabile discorso sulla Hofburg gremita di austriaci in delirio. Il referendum per sancire l’Anschluss, l’annessione, sarà un plebiscito e per sette anni la Oestermark fornirà al Reich di cui è parte soldati, poliziotti, funzionari pubblici. E torturatori, e boia nei campi di sterminio.
La ricostruzione di quella sera alla Ballhaus è il racconto della Grande Contraddizione che l’Austria del dopoguerra non è riuscita ancora, dopo settant’anni, a scrollarsi di dosso. Si sa: per motivi che avevano molto a che fare con i delicatissimi equilibri della guerra fredda e molto poco con la realtà dei fatti, le grandi potenze inscenarono negli anni 40 e 50 la farsa dell’Austria «aggredita» e «soggiogata» dal potente vicino del nord, rimuovendo ogni considerazione sui fattori endogeni che avevano portato spontaneamente una buona parte dell’opinione austriaca dalla parte del «connazionale» Hitler e della sua corte feroce. Solo da qualche anno la parte più consapevole dell’intelligencija ha cominciato a valutare i danni che questo imbroglio storico fondato su una (comprensibile e per certi versi perfino ragionevole) manifestazione di Realpolitik ha prodotto nello spirito pubblico austriaco: a cominciare dalla mancanza di un dibattito critico «sulle colpe dei padri» come quello che, con tutte le debolezze e tutte le contraddizioni, ebbe luogo in Germania almeno dai processi di Auschwitz dell’inizio degli anni Sessanta in poi.
La storia non torna mai indietro e non avrebbe alcun senso ripercorrerla alla ricerca delle colpe per omissione dell’establishment politico (e più ancora culturale) in materia di riflessione sulle responsabilità che gli austriaci ebbero nella Shoah e nel grande massacro della guerra mondiale. Quello che però si può fare, e che secondo molti l’opinione austriaca non ha mai fatto abbastanza, è indagare sul perché e sul come la giovane Repubblica alpina ritagliata dentro i confini etnici tedeschi dall’impero multinazionale absburgico cedette alle pressioni del regime ultranazionalista e ferocemente antislavo del grande vicino del nord contro gli interessi e contro l’opinione che (almeno nell’establishment) era, anche dopo la reductio, largamente contraria in Austria all’ipotesi grossdeutsch, ovvero all’unificazione di tutte le nazioni europee etnicamente tedesche.
La ricostruzione accurata degli eventi che portarono all’Anschluss, resa possibile soprattutto dai verbali del Processo di Norimberga (e in particolare dagli interrogatori di Göring, dell’ex ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, di Seyss-Inquart, del Capo di Stato Maggiore Alfred Jodl e del comandante generale della Wehrmacht Wilhelm Keitel), offre alcuni spunti importanti di riflessione.
Il primo è la durezza con la quale furono trattati Schuschnigg e il suo ministro degli Esteri Guido Schmidt nell’incontro all’Obersalzberg dove Hitler li aveva convocati l’11 febbraio. Le testimonianze rese a Norimberga da Keitel e Ribbentrop fanno pensare a vere e proprie torture psicologiche, come per esempio il divieto di fumare imposto al cancelliere, affetto da un tabagismo che lo portava a consumare 50 o 60 sigarette al giorno; oppure le «sceneggiate» con cui Hitler faceva credere che l’invasione dell’Austria fosse già in atto e che Schuschnigg e Schmidt sarebbero stati arrestati, se non fucilati sul posto. Ma se alla fine il cancelliere cedette e firmò un documento in cui per gli assassini del suo predecessore Engelbert Dollfuß (ucciso nel luglio del ‘34 durante un tentativo di putsch nazista) era prevista non solo l’aministia ma l’arruolamento nella polizia austriaca, fu anche perché la situazione politica del regime era molto debole.
La dittatura clerico-fascista, antioperaia e antisemita, che era stata instaurata da Dollfuß aveva distrutto le organizzazioni della sinistra e i sindacati, ma aveva affondato il regime in una situazione di crescente isolamento, con la borghesia che era affascinata dai successi economici del Reich, il mondo intellettuale e scientifico che soffriva sotto il giogo asfittico d’una chiesa cattolica la quale, pur se inquieta per la presenza evangelica nel vicino Reich, sentiva fortemente il richiamo di Roma e della vicina Baviera alla crociata antibolscevica.
Una sola certezza aveva avuto, fino a un certo momento, il regime fascista austriaco: l’appoggio dell’Italia. Era stato Mussolini che, schierando le truppe al confine, aveva fatto fallire il putsch del ’34. E, come risulta dagli atti di Norimberga, nella fatidica notte del 12 dicembre fu solo alle 22 e 45, quando l’ambasciatore tedesco a Roma, il principe Filippo d’Assia, riferì a Hitler sull’atteggiamento del Duce, che si ebbe la certezza della riuscita del colpo di Stato. «Arrivo ora da Palazzo Venezia», telefonò l’ambasciatore al Führer: «Il Duce ha preso la cosa in modo molto amichevole e mi incarica di salutarla di cuore». «Non lo dimenticherò mai», disse Hitler, e le stesse parole le indirizzò direttamente, il giorno dopo, in un messaggio «all’amico Benito».
La ricostruzione effettuata a Norimberga, dove l’Anschluss ebbe notevole spazio nella discussione perché fu individuato, giustamente, come una delle violazioni del diritto internazionale che avrebbero portato alla guerra, permette di fissare tre punti dai quali la cultura della Repubblica, ma più ancora il suo spirito pubblico, dovrebbe trovare forse più motivi di riflessione sulla sua propria storia. Il tradimento di Mussolini ebbe conseguenze nefaste perché avvenne ai danni di un regime che era già intrinsecamente debole. La debolezza del regime diede mano libera ai dirigenti nazisti: se Schuschnigg e il pur coraggioso Miklas non fossero stati considerati nelle cancellerie europee già cadaveri politici, forse le potenze occidentali avrebbero trovato più motivi a sostenere l’indipendenza dell’Austria di quanti non ne avrebbero trovati, sei mesi dopo a Monaco, per difendere l’indipendenza della Cecoslovacchia. La storia non si fa con i «se», ma ragionarci intorno è possibile e, spesso, necessario. Forse l’Austria, a settant’anni dall’Anschluss, dovrebbe esserne più consapevole.

l’Unità 9.2.08
Sondaggio di Time, solo Obama può battere McCain
Il senatore nero sconfiggerebbe il veterano 48 a 41. Hillary invece sarebbe alla pari. Bush: avremo un candidato forte


Washington. Con nove mesi al voto e con la corsa democratica tutt’altro che definita un nuovo sondaggio di Time rivela che, in un ipotetico scontro con John McCain, il senatore dell’Illinois Barack Obama avrebbe partita vinta più facilmente di Hillary Clinton.
Il sondaggio, condotto tra il primo e il 4 febbraio, rivela che Obama vincerebbe McCain 48 a 41, mentre Hillary e McCain sarebbero alla pari, 46 a 46.
La differenza, ha spiegato Mark Schulman, l’analista che ha condotto il sondaggio, è che «gli indipendenti vanno con McCain quando lo scontro è con Hillary, ma lo abbandonano davanti alla calamita Obama». Secondo Schulman gli indipendenti sono «il vero ago della bilancia» delle prossime elezioni.
Secondo il sondaggio, Hillary resta front-runner in campo democratico 48 a 42. Tra le domande, una riguardava il «dream ticket», la possibilità che i due rivali si scelgano l’un l’altro come numero due.
Il 62 per cento vorrebbe che Hillary nominasse Obama ma solo il 51 per cento apprezzerebbe che Obama rendesse alla ex First Lady il favore.
Il supermartedì non ha sciolto il nodo della nomination in casa democratica. I due candidati hanno portato a casa un pareggio e in New Mexico la partita ancora non è chiusa. Il verdetto è appeso a 17.000 schede ancora in corso di scrutinio. Si tratta di cosiddetti «provisional ballots», il cui conteggio servirà a decidere se a vincere sia stata Hillary Clinton o Barack Obama. Alla fine del conteggio delle schede, l’ex First Lady ha un vantaggio di 1.123 voti (68.654 a 67.531).
Le 17.000 schede decisive sono quelle che sono state consegnate a elettori che si sono presentati a un seggio sbagliato, o i cui nomi non figuravano nelle liste elettorali. A votare usando i «provisional ballots» sono stati anche elettori che avevano richiesto la scheda per il voto per corrispondenza, ma hanno firmato un modulo per garantire di non aver votato. I risultati dovrebbero essere resi noti entro il fine settimana. In palio ci sono 26 delegati dei 38 che il New Mexico porterà alla convention estiva dei democratici (gli altri 12 sono cosiddetti «superdelegati»).
In casa repubblicana Mc Cain assapora la vittoria dopo la rinuncia dell’avversario Romney. La nomination sembra ormai a portata di mano e anche il presidente Bush ne prende atto. Ieri nel discorso pronunciato alle 7 del mattino, alla convention dei conservatori non ha mai nominato Mc Cain ma ha detto: «Presto avremo un candidato che terrà alta la bandiera dei conservatori alle elezioni ed oltre» e ha aggiunto: «La posta in gioco il prossimo novembre è molto alta, questa è un’elezione importante, la pace e la prosperità sono in gioco: così con la fiducia nel nostro programma e la fede nei nostri valori, andiamo avanti per la vittoria e per tenere la Casa Bianca nel 2008».

l’Unità Roma 9.2.08
Foibe, sit in antifascisti e corteo di destra
di Luciana Cimino


TENSIONI Immobile, con una solennità propria delle funzioni religiose, la giovane studentessa regge il mazzo di fiori bianchi che di lì a poco sarà deposto sull'Altare della Patria. È una delle poche donne al corteo che Blocco Studentesco, formazione vicina alla Fiamma tricolore, ha indetto per ricordare le Foibe. In mezzo al nero predominante dell'abbigliamento e all'ostentato tricolore, sfila anche un ragazzino di colore. L'unico in mezzo ai manifestanti (qualche centinaia in tutto, 2 mila per gli organizzatori). Ma non può parlare, né lui, né le ragazze dietro gli striscioni, né nessun'altro. «Non c'è bisogno - dice Francesco Polacchi, responsabile cittadino del Blocco – perché siamo un unico pensiero». Usa proprio questa espressione e poi si affretta a prendere le distanze dalla polemica del Teatro Brancaccio. «Questa manifestazione era stata indetta molto tempo fa, a prescindere dal convegno». «Intendiamoci – aggiunge Giorgio Evangelisti, vicepresidente della Consulta provinciale degli Studenti, mentre organizza un servizio d'ordine inutile giacchè la compostezza con la quale sfilano per via Cavour è marziale – se il convegno si fosse tenuto qualcuno di noi avrebbe partecipato, ma è questo corteo il modo con cui Blocco studentesco ricorda le Foibe. Punto. In comune con quelli d'Azione Studentesca abbiamo solo il tema, noi non sfruttiamo le tragedie per fini politici». La stessa accusa che, ribaltata, arriva dal sit - in di via Mecenate. Un migliaio di studenti di destra anche qui, per protestare contro l'annullamento, da parte della direzione del teatro, del convegno organizzato dall'ufficio di presidenza della consulta degli studenti, "Istria, Fiume e Dalmazia anche le pietre parlano italiano". «E' il corteo che è sbagliato – ribatte Andrea Moi, presidente dell'organismo, nonché membro di Azione Studentesca - era più appropriato un convegno». Anche se non era stato invitato nessuno storico? «Ci avevamo pensato ma non sai mai quello che possono dire». E così mentre i movimenti studenteschi di destra si accusano l'un l'altro di far propaganda sulla questione foibe, gli studenti antifascisti, in altre piazze della città, manifestano "contro ogni revisionismo", per poi convergere all'incontro sulla questione Jugoslava in corso alla casa della Memoria e della Storia. "La storia non si inventa" c'è scritto sui volantini che distribuiscono alla Garbatella, a piazza Fiume e persino a piazza Esedra, dove, solo qualche ore prima, era partita la sfilata nera della destra. «I caduti non sono tutti uguali – dice Sirio, del Liceo Tasso – di fronte alle continue strumentalizzazioni è necessario ristabilire la verità storica». In tarda mattinata la vicenda del Brancaccio sembra archiviata. «La decisione è stata dettata solo da un nostro scrupolo per la sicurezza – ha dichiarato Danila Confalonieri, dirigente del teatro diretto da Maurizio Costanzo - il clima di tensioni politiche ci ha fatto preoccupare».
Dal canto suo l'assessore alla Cultura Silvio Di Francia ribadisce le motivazioni che lo hanno spinto, già da giovedì, a non partecipare la convegno: «una componente xenofoba dei promotori dell'iniziativa aveva indetto, in concomitanza alla discussione del Brancaccio, un corteo. Accettare quell'invito avrebbe coinciso con l'avallare una finzione di pluralismo. Se la destra capitolina vorrà organizzare un dibattito sulle Foibe veramente aperto, sarò il primo a volervi partecipare».

l’Unità Roma 9.2.08
Alla casa della memoria
L’incontro dell’Anpi con gli studenti
di l.c.


Combattere la tendenza tutta italiana a piegare la storia per fini politici con la forza della verità

Il seminario organizzato dall'Anpi per gli studenti delle scuole superiori alla Casa della memoria e della Storia se lo propone fin dal titolo. «Il ricordo: tra verità e menzogne. La questione Jugoslava». Dell'illazione di alcuni quotidiani, secondo i quali l'incontro sarebbe stato nato in contrapposizione con quello del teatro Brancaccio, Massimo Rendina, presidente dell'Anpi, non vuole neppure parlare. Innanzitutto per i tempi (il seminario è stato organizzato diversi mesi fa) e poi perché, precisa, «non siamo legati ad alcuna ideologia, è una ricostruzione storica precisa. Spetta poi ai giovani prendere posizione sul piano della verità». In sala un centinaio di liceali del Tasso, del Carducci, del Vallauri, più quelli confluiti dai tre presìdi indetti dagli studenti di sinistra a piazza della Repubblica, a piazza Fiume, alla Garbatella. «Siamo stati in piazza per affermare il valore dell'antifascismo – dice Massimo, del Tasso – e ora siamo qui perchè questa iniziativa fa chiarezza su un tema su cui negli ultimi anni c'è stato un revisionismo scandaloso». Gli storici Davide Conti, Mariano Gabrile e Augusto Pompei, con giornalista la Bianca Bracci Torsi, spiegano agli studenti i rapporti tra Italia e Jugoslavia tra il 1920 ed il '45 e, nel contempo, denunciano la speculazione politica imbastita sulle foibe con la forza dell'analisi storica e dei numeri. «Gli ultimi studi parlano di 1032 morti – dice Conti – nessuno nega la brutalità delle foibe ma non bisogna dissociarle dal contesto. Non fu pulizia etnica. Basta con il mito dell'occupante italiano buono: anche tra i nostri soldati c'erano criminali di guerra». E Massimo Rendina non si stanca di ripetere che tra i morti infoibati «tanti erano i partigiani e gli antifascisti». La paura è solo una: che le esperienze passate non siano state capitalizzate. «Ci vuole un'operazione culturale seria per evitare le strumentalizzazioni e per contrastare le provocazioni neo fasciste. Scorgo una tendenza nelle forze dell'ordine, non nel prefetto, a pensare che si tratti di risse tra opposti estremismi. Non penso che sia così: il fascismo democratico è una contraddizione in termini. Attenzione».

Repubblica 9.2.08
La coscienza perduta dello Stato d'Israele
di David Grossman


Non credo alle voci secondo le quali il primo ministro Ehud Olmert, dopo aver letto il rapporto finale della commissione Winograd, abbia telefonato ad Amir Peretz dicendo "ne siamo venuti fuori". Anche se in quel momento Olmert ha forse provato un senso di sollievo sa di non essere veramente "venuto fuori" dall´ultima guerra, che continuerà a perseguitarlo.
Non ne è "venuto fuori" chi è stato direttamente colpito dalla guerra, né chi per settimane è rimasto in un rifugio, né chi un rifugio non ce l´aveva, e neppure chi ha seguito in televisione gli inefficaci sforzi dello stato e dell´esercito per difenderli. Anche costoro, dentro di sé, sanno di non essere "venuti fuori" dalla guerra.
Nessuno ne è veramente "venuto fuori" perché nessuno ha avuto ancora il coraggio di "addentrarvisi" per sondarne il significato profondo e agghiacciante.
Ma accantoniamo per un attimo il rapporto finale della commissione Winograd, ambiguo ed estremamente cauto, e torniamo ai giorni degli scontri, ai momenti dell´angoscia, alla sensazione provata nell´istante in cui abbiamo compreso che qualcosa si stava incrinando, che forse questa volta l´esercito non era in grado di salvarci, che le cose sarebbero potute finire diversamente. Una sensazione che è filtrata nel muro di rifiuto di noi israeliani di guardare in faccia alla realtà. È vero, spesso il timore per la nostra vita ci accompagna e aleggia su di noi come un´ombra, e forse proprio perché è tanto minaccioso non riusciamo ad affrontarlo lucidamente e non intraprendiamo i passi necessari per superarlo (e non mi riferisco solo a iniziative di tipo militare – in cui pure abbiamo fallito – ma a un radicale cambiamento di coscienza, indispensabile per chi vuole scongiurare un pericolo che incombe sulla sua esistenza).
Israele possiede capacità straordinarie ma durante l´ultima guerra, quando noi israeliani ci siamo guardati allo specchio, cosa abbiamo visto? Un corpo incredibilmente forte ma dai sensi semi annebbiati che arrancava a tentoni, goffo e titubante, senza sapere dove fosse diretto. Un gigante cieco che agitava le braccia in tutte le direzioni mentre creature molto più piccole e deboli di lui lo mordevano fino a farlo sanguinare, indebolendolo al punto di farlo quasi stramazzare al suolo.
L´ultima guerra è stata una brutale conferma della crescente sensazione che ciò che aveva impresso slancio al neonato stato di Israele si sta esaurendo: gli ideali, l´audacia, la fiducia in noi stessi, nei nostri obiettivi, nei nostri valori; l´aspirazione a creare uno stato che non sia solo un rifugio per gli ebrei ma espressione della peculiarità dell´esistenza ebraica in un contesto politico e civile moderno. Oggi, a sessant´anni dalla sua nascita, Israele deve riformulare contenuti che imprimano nuovo vigore a quello slancio, altrimenti faticherà a proseguire il suo cammino. Troppi fattori esterni e interni congiurano contro di esso e arriverà il momento in cui lo stato ebraico non avrà più la forza di contrastarli.
Nazioni che hanno raggiunto un certo grado di tranquillità, che non sono costrette ad affrontare minacce alla loro esistenza, possono forse rinunciare a un costante lavoro di mantenimento del legame con la loro terra, a ricrearlo generazione dopo generazione. Israele non se lo può permettere e deve compiere sforzi incessanti non solo per conservare la propria forza militare ma per tornare a essere un luogo significativo per i suoi cittadini, non un semplice rifugio o una roccaforte. Una casa verso la quale i suoi abitanti provino un senso di appartenenza, non perché non hanno scelta, ma perché in quella casa la loro esistenza acquista un valore e un senso che non avrebbe altrove.
Oggi Israele è una nazione insopportabilmente torbida. Il clima e l´atmosfera che vi si respirano non sono limpidi. Di questo stato di cose, naturalmente, non è responsabile Ehud Olmert, né l´ultima guerra. Da molti anni noi israeliani ci dilaniamo in scontri intestini al punto da avere perso la capacità di avere un quadro chiaro della situazione, di capire quali sono i veri interessi del nostro popolo e della nostra società. Talvolta sembriamo aver smarrito anche il sano e naturale istinto che dovrebbe guidare un popolo nello stabilire le sue giuste priorità, nel risolvere i suoi conflitti interni prima che sia troppo tardi, che tutto vada a catafascio. Oggi, a noi israeliani, si prospetta la sconfortante possibilità di vedere rinascere il gene distruttivo, a noi ben noto, che potrebbe condurci – Dio non voglia – a una guerra civile.
L´impressione è che dopo più di un secolo di lotte militari e politiche, di scontri, di operazioni belliche e di infinite vendette e ritorsioni, la diffidenza e l´ostilità con le quali ci siamo abituati a guardare il nemico siano diventate per noi un modo quasi automatico di pensare e di comportarci anche nei confronti di chi è solo un poco diverso da noi, non un vero nemico e forse persino un nostro "congiunto" nell´accezione più ampia del termine.
E non abbiamo compassione. Non l´abbiamo verso noi stessi e, a maggior ragione, non l´abbiamo verso gli altri. E non proviamo un senso di responsabilità reciproca. Non nella misura in cui la nostra situazione tanto delicata, ci imporrebbe. Talvolta sembriamo non nutrire nemmeno rispetto per il diritto di avere e di mantenere uno stato ebraico sovrano, accordatoci dopo migliaia di anni in cui tale diritto ci era stato negato.
La domanda che dovremmo porci oggi non è dunque se Ehud Olmert può rimanere al suo posto dopo che la commissione Winograd gli ha a malapena concesso una via di scampo, ma se è la persona giusta per avviare un processo di risanamento dei mali sopracitati.
Può Olmert, alla luce della sua condotta, dei messaggi che la sua leadership "convoglia" al popolo, della mancanza di fiducia che la maggior parte degli israeliani manifesta verso di lui, della sua nota impulsività, delle numerose ombre che oscurano la sua personalità fin da prima della guerra, e a maggior ragione dopo di essa, essere il leader che riporterà Israele sulla giusta rotta dopo anni in cui lo stato ebraico è andato alla deriva?
Se la risposta è sì allora noi cittadini dovremmo permettere a Olmert di continuare a governare. Dovremmo morderci le labbra e dire a noi stessi che, in mancanza di un´accusa chiara nella parte conclusiva del rapporto Winograd e, considerati i pericoli immediati che Israele corre, non c´è altra scelta che continuare con la sua leadership. In un certo senso questo potrebbe essere un modo per riprenderci dalle ferite dell´ultima guerra, una ripresa di cui Israele ha bisogno come di aria per respirare.
Ma la società israeliana non potrà guarire fintanto che Ehud Olmert rimarrà alla sua guida. La nostra coscienza nazionale e individuale è oppressa da un senso di disagio e, oserei dire, di peccaminosa complicità. Mille avvocati difensori non riusciranno a dissipare la sensazione che un intero stato si è arreso – per passività, per apatia, o per pura convenienza – alla determinazione di Ehud Olmert di rimanere saldamente al potere, in disprezzo a ogni regola di buon governo e di giustizia morale. Questa sensazione non ci abbandonerà fintanto che Olmert rimarrà in carica e avrà un effetto disgregante e corruttore anche su chi, in apparenza, è uscito indenne dalla guerra. Temo che, in fin dei conti, questa sensazione non permetterà a Israele di riprendersi, né di "venir fuori" dalla situazione in cui si trova.
***
Che cosa si può fare allora? Nessuno dei candidati in lizza per rimpiazzare Olmert sembra essere in grado di innescare il vitale processo di risanamento di cui Israele ha bisogno. Alcuni di loro, addirittura, non farebbero che peggiorare le cose.
Ma mentre i politici si accapigliano, o stringono accordi poco ortodossi, e gran parte della società israeliana è immersa in uno stato di semi-catatonia, coloro che ne sono capaci farebbero meglio a farsi un esame di coscienza. Non mancano infatti in Israele persone di grande competenza e responsabilità che, nonostante abbiano diverse convinzioni politiche, hanno a cuore ciò che succede e un´idea piuttosto chiara di come vorrebbero vedere lo stato e di cosa rischia di farci franare tutto addosso.
Esiste forse un modo di raggruppare queste persone in una sorta di "movimento di emergenza nazionale", apolitico e apartitico, capace di coinvolgere anche chi ne ha abbastanza – e sono in molti – di ciò che sta avvenendo qui? Chi ancora ricorda a cosa si può aspirare ed è disposto a mettere da parte grette considerazioni settoriali dinanzi al pericolo che incombe su tutti noi? Queste persone dovranno concordare su dei principi comuni, trovare un´intesa sui temi della sicurezza, della pace, su questioni sociali, culturali, civili, sui rapporti tra i diversi gruppi etnici e sociali della popolazione. E dovranno farlo al prezzo di dolorosi compromessi. Potrebbero, per esempio, formare una sorta di "governo ombra" che imposti un dibattito su argomenti di grande rilevanza scevro da meschine considerazioni politiche. Un simile "governo" potrebbe proporre all´esecutivo in carica e al popolo una linea politica alternativa, norme civili e comportamentali diverse. Al suo meglio sarebbe un efficace pungolo per il governo, perché "torni in sé" ogni qualvolta rischi di cedere a considerazioni inopportune o a lusinghe pericolose.
Sono forse un ingenuo? Può darsi. Ma nella situazione attuale, nel cinismo distruttivo in cui siamo sprofondati e che ci impedisce di credere in una qualsivoglia iniziativa o possibilità di cambiamento, un po´ di ingenuità non guasta. Idee più creative, più originali e più innovative di questa possono e devono essere proposte, ma non possiamo andare avanti con questo sfacelo. È difficile accettare l´idea che Israele si trovi in uno stato di paralisi in un ambito tanto vitale per esso. La nascita di un nuovo movimento nel vuoto politico che si è creato, la disponibilità a lottare per una causa, il fatto stesso di proclamare la nostra stanchezza di essere vittime di una classe dirigente mediocre e inetta, potrebbero innescare un processo dagli interessanti sviluppi, risvegliare forze positive e vitali nascoste nella società israeliana. Forse, allora, si libererà un´onda d´urto tanto potente che anche i nostri leader saranno costretti a prestarvi attenzione.
Fino a quel giorno, fino a che tutto questo non si avvererà, non potremo dire di essere "venuti fuori" dall´ultima guerra.

Traduzione di Alessandra Shomroni

Repubblica 9.2.08
La mente delle madri
di Simonetta Fiori


Cosa succede nella mente delle madri, quale cataclisma chimico ed emotivo scuote la coscienza d´una donna alla nascita del figlio. In un momento in cui l´attenzione pubblica si concentra sui diritti del feto e la rianimazione del neonato prematuro, un agile libretto di Massimo Ammaniti sposta la lente sulla "costellazione materna", quel particolare stato mentale intessuto di sensibilità e fantasie, paure e desideri che accompagna la maternità (Pensare per due, Laterza l´ha programmato per fine mese). Una condizione anche oscura, controversa, spesso nascosta sotto la colata di miele convenzionalmente gettata sulla donna in attesa.
Madri non si nasce, si diventa. Ammaniti utilizza recenti indagini realizzate a Yale sullo stato mentale delle madri negli ultimi mesi di gravidanza e nei primi mesi di vita del figlio. Il 73 per cento delle donne intervistate e il 66 per cento dei padri riferiscono pensieri insistenti sulla perfezione del figlio, ma ancora più urgente è la preoccupazione che qualcosa di grave possa succedere durante la gravidanza e nei primi mesi di vita (il 95 per cento). Inquietudini normali, che però possono sfociare in nevrosi ossessive e depressioni gravi. La fenomenologia materna tracciata da Ammaniti è tutt´altro che edenica. Madri "integrate", che vivono con equilibrio la nuova condizione, ma anche "ristrette" ossia distaccate, attente a salvaguardare la propria indipendenza. Madri ambivalenti, sospese tra la protezione estrema e il rifiuto, e madri a rischio depressivo, le più esposte. Nuove ricerche dimostrano che la maternità rende più intelligenti. L´ha provato Craig Howard Kinsley sui ratti: le topoline madri sono capaci di fare in tre minuti quel che le altre fanno in sette giorni. Può essere di conforto per chi teme di non farcela (anche qui la percentuale è altissima).

Repubblica 9.2.08
Tutti gli uomini del “Mondo”
di Eugenio Scalfari


La rivista coniugava eguaglianza e libertà, un equilibrio da cercare giorno per giorno e sempre a rischio

Da qualche tempo e sempre più spesso col trascorrere degli anni si ricorda Il Mondo e Mario Pannunzio che ne fu il fondatore e il direttore dal 1949 al 1967 quando quell´esperienza giornalistica culturale e politica si esaurì e pochi mesi dopo si spense prematuramente anche l´esistenza del suo animatore. Da allora gli estimatori di Pannunzio sono cresciuti di numero in maniera esponenziale così come, in parallelo, sono aumentati gli apprezzamenti e il rimpianto per Ugo La Malfa che del Mondo fu non solo amico ma punto di riferimento politico e quasi proiezione politicante di quel gruppo così vario nelle sue molteplici voci e così coeso nei valori e nei principi che ne ispirarono le opere. E´ accaduto per i "fedeli" del Mondo, di Pannunzio e di La Malfa ciò che era avvenuto per Garibaldi e i suoi "Mille" che a pochi anni di distanza dall´avventuroso viaggio da Quarto a Marsala erano diventati già molte migliaia e salirono ancora di più col passare del tempo e l´allontanarsi dei fatti.
Oggi esistono fondazioni che portano il nome di Pannunzio, premi che vengono distribuiti in sua memoria, commemorazioni e testimonianze da parte di chi da lui ha imparato il mestiere e le regole di carattere che esso comporta ed anche da chi non l´ha mai frequentato né visto e ne ha orecchiato alla lontana improbabili insegnamenti. E´ comunque un bene che quell´esperienza sia ricordata in tempi tristi. Testimonia un bisogno di pulizia e coerenza morale e può essere un buon segnale di resistenza al peggio che può ancora venire e al meglio nel quale continuiamo a sperare.
* * *
Domani saranno passati quarant´anni dalla sua morte.Ricordo che quel giorno piansi a lungo e silenziosamente per la perdita d´un maestro e perché ero stato impedito di andare ai suoi funerali. Tra lui e me c´era stata qualche anno prima una rottura politica che, a differenza di quanto avviene in casi del genere, non si era più rimarginata. Era stato infatti qualche cosa di diverso da un dissidio sulle scelte da fare: era stato il taglio d´un cordone ombelicale, da parte mia la conquista dell´autonomia, da parte sua la delusione d´un abbandono.
Oggi quei fatti così lontani mi tornano alla memoria e con essi l´inizio di quel sodalizio e come si rassodò negli anni successivi e come alla fine si consumò; una piccola e forse trascurabile (non per me) sequenza autobiografica che però si iscrisse in un racconto più vasto che riguarda quel piccolo gruppo di liberali di sinistra che per quasi vent´anni rappresentò il punto di riferimento della cultura liberale italiana, minacciata di soffocazione dalle due chiese contrapposte ma speculari, quella democristiana e quella comunista, con i loro dogmi e i loro paradisi, con le loro certezze assolute, la loro asfissiante pedagogia, la loro intolleranza settaria.
Le due chiese contrapposte dalla guerra fredda che in quegli anni aveva spaccato il pianeta avevano ciascuna il suo slogan; la chiesa democristiana inalberava il vessillo della libertà, alquanto inappropriato per un partito ispirato dalla Chiesa di Roma; quella comunista il vessillo dell´eguaglianza, altrettanto improprio per chi si ispirava ad un regime oscurantista e totalitario.
Noi del Mondo coniugavamo insieme eguaglianza e libertà: una scommessa difficile, un equilibrio da cercare giorno per giorno e sempre a rischio d´esser perduto. E poi la sproporzione immensa delle forze: un giornale, un gruppo elitario, nessuna sponda in un paese dove la borghesia era dominata dagli interessi e non nobilitata dai valori e dove l´indipendenza del pensiero era un´eccezione.
Il Partito d´azione si era già frantumato nella sua brevissima esistenza politica due anni prima che nascesse Il Mondo, ma l´intuizione di Pannunzio fu di farlo rivivere in chiave culturale depurandolo dalla sua inclinazione a dialogare con il Pci. Il piccolo miracolo fu di mettere insieme il pensiero di tre vecchi maestri spesso discordi tra loro ma tutti e tre intrisi di liberalismo democratico: Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini e - ai loro fianchi e alle loro spalle - il meglio dell´intelligenza liberal-democratica e liberal-socialsista: Omodeo, De Ruggiero, Salvatorelli, Spinelli, Ruffini, Chabod, Calogero. Sullo sfondo i fratelli Rosselli, Gobetti, la scuola meridionalista di Giustino Fortunato, Giovanni Amendola. Il cattolicesimo liberale e protestante di Arturo Carlo Jemolo.
Queste erano le divisioni (se si può usare la metafora militaresca) del gruppo del Mondo. I "soldati" in servizio permanente erano di varia estrazione: giornalisti, scrittori, politici, intellettuali. Non è il caso di ricordarli tutti ma alcuni sì perché costituirono il nerbo del gruppo. E il primo di loro, senza il quale quell´esperienza non sarebbe neppure cominciata, fu Ernesto Rossi, il suo liberismo radicale, la sua lotta perenne contro i monopoli e i "carrozzoni" burocratici, il suo antifascismo, il suo laicismo anticlericale.
Pannunzio e Rossi costituirono un tandem irripetibile. Quando quel tandem si ruppe nel 1962 Il Mondo cessò di fatto di esistere come lievito e progetto. Si trascinò stancamente per altri cinque anni, poi chiuse.
* * *
Il gruppo, se posso usare un´immagine geometrica, aveva una struttura composta di cerchi variamente intrecciati che avevano tutti Mario Pannunzio come perno centrale: un cerchio redazionale e giornalistico, un cerchio politico, un altro artistico letterario e uno fatto da amici. Del primo il personaggio più rilevante fu Ennio Flaiano che fu anche un grande scrittore e sceneggiatore. Nel secondo c´erano Carandini, Cattani, Libonati, Paggi, Villabruna, Arrigo Olivetti, Antonio Calvi, Mario Cagli, Leopoldo Piccardi. I collaboratori politici erano il meglio del giornalismo e della pubblicistica dell´epoca: De Caprariis, Panfilo Gentile, Mario Ferrara, Francesco Compagna, Spadolini, Vittorio Gorresio, Enzo Forcella, Antonio Cederna.
Nel terzo cerchio Moravia, Elsa Morante, Brancati, Sandro De Feo, Patti, Renzo Rossellini, Gian Gaspare Napolitano, Mino Maccari e Amerigo Bartoli. Poi arrivarono Ronchey e Siciliano. Tra i più giovani Giovanni Russo, Carlo Laurenzi, Guerrini. Alberto Arbasino fece sul «Mondo» le sue prime prove. Di La Malfa ho già detto. Ma debbo ancora dire d´un altro maestro che costruì una strada giornalistica parallela, destinata ad incrociarsi con quella del Mondo e sopravvivere alla sua scomparsa; parlo di Arrigo Benedetti, in quegli stessi anni fondatore e direttore de L´Europeo, poi dal 1955 de L´Espresso.
Erano nati, lui e Pannunzio, nel 1910 nella stessa città, Lucca. La prima esperienza professionale la fecero insieme a Omnibus con Leo Longanesi. Nel ´38 fondarono e diressero Oggi. In tutto quell´arco di anni, dai "Trenta" ai "Sessanta", lavorarono, pensarono, sentirono ascoltando l´uno i passi dell´altro; così accadde anche a me che, assai più giovane di loro, lavorai con tutti e due.
Ernesto ed io faticammo un bel po´ per convincere Pannunzio all´idea dei Convegni. A noi sembrava il modo migliore per affiancare con iniziative tematiche e dialoganti con la società la presenza settimanale del giornale. Mario però era comprensibilmente geloso della testata. Gli amici del Mondo era una sigla che non voleva mettere in altre mani che non fossero le sue. Alla fine si convinse anche perché l´idea gli piaceva e di noi si fidava.
I Convegni furono una dozzina dal ´56 al ´61. Una parte dedicata a temi politici: il Concordato, la scuola, la censura. Altri, più numerosi, su temi economici: il mercato petrolifero, l´energia nucleare, la nazionalizzazione dell´industria elettrica, la riforma dei mercati generali, la riforma delle società per azioni, la speculazione edilizia. Attorno ad essi si sviluppò la battaglia per la nazionalizzazione elettrica e quella contro i monopoli. Con Tullio Ascarelli, Bruno Visentini e Felice Ippolito alla testa della nostra piccola pattuglia.
Furono battaglie storiche nelle quali incontrammo Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Giorgio Amendola. Il gruppo del Mondo era anticomunista dichiarato per quanto riguarda i principi ma molti uomini del Pci furono nostri abituali interlocutori sulle cose da fare.
* * *
La rottura avvenne su una questione politica e su un pretesto. Il pretesto fu la scoperta della partecipazione di Leopoldo Piccardi ad un convegno sulla razza avvenuto in Germania poco prima dello scoppio della guerra. La vera ragione fu invece un irrigidimento dell´ala liberale del gruppo con Pannunzio alla testa, contrario all´alleanza del piccolo Partito radicale da noi fondato nel ´56 con il Partito socialista di Nenni. Pannunzio, con Cattani e Carandini, rifiutavano quell´alleanza e si arroccarono su La Malfa e sul Partito repubblicano.
Su questo scoglio il Partito radicale si sfasciò. Il tandem tra Mario ed Ernesto si ruppe e, insieme, anche il mio lungo innamoramento con Il Mondo e con il suo direttore. Ma quella storia non finì lì. Le pagine di questo giornale ne fanno testimonianza. Noi abbiamo la storia e l´insegnamento di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti nella mente e nel cuore. In tempi così agitati quel ricordo ci è di conforto e di sprone.

Corriere della Sera 9.2.08
Confronti. Il violoncellista, americano di origine cinese, riflette sui rapporti tra identità, territorio, migrazioni di popoli e idee
Bach e la globalizzazione
di Yo-Yo Ma


Una sarabanda nelle suite: modello perfetto di dialogo culturale Il politicamente corretto è inutile, il confronto definisce le tradizioni

Le cose più interessanti succedono ai margini Lungo i confini ognuno può attingere a diversi sistemi

Ormai quasi vent'anni, dei trenta della mia carriera di violoncellista, li ho trascorsi viaggiando, anni in cui ho suonato e ho conosciuto tradizioni e culture musicali. I viaggi mi hanno convinto che nel nostro mondo globalizzato le tradizioni culturali sono un elemento essenziale a sostegno della nostra identità, della stabilità sociale e della disponibilità allo scambio di esperienze.
Un mondo in continuo cambiamento come il nostro è destinato a rendere incerti i legami culturali e a indurre la gente a mettere in discussione le proprie radici. La globalizzazione sembra spesso minacciare l'identità individuale, costringendoci ad adottare regole altrui. Naturalmente questo ci mette in crisi, perché ci si chiede di cambiare abitudini inveterate. I leader del mondo attuale devono quindi porsi una domanda fondamentale: come possono le abitudini e le culture mutare per convivere in un pianeta allargato senza sacrificare le diverse identità e l'orgoglio di appartenervi?
Nel corso dei miei viaggi musicali ho capito che le interazioni prodotte dalla globalizzazione non conducono solo alla scomparsa di culture, possono anche creare nuove forme culturali e rafforzare e diffondere tradizioni che esistevano da secoli. Avviene qualcosa di simile a quello che gli ecologisti chiamano «edge effect», effetto di bordo, espressione usata per descrivere quel che accade quando due ecosistemi differenti — per esempio la foresta e la savana — si incontrano. Lungo il confine, dove c'è la minor densità e la maggior diversità di forme di vita, ogni essere vivente può avvalersi delle proprietà dei due ecosistemi. A volte le cose più interessanti succedono ai margini. Le intersezioni possono rivelare collegamenti inattesi. La cultura è un tessuto formato da apporti provenienti da ogni angolo del mondo. Un modo di scoprire il mondo è quello di scavare in profondità nelle sue tradizioni. In musica, ad esempio, al centro del repertorio di ogni violoncellista ci sono le Suite per violoncello solo di Bach, e nel mezzo di ogni suite c'è un movimento di danza chiamato sarabanda. La sarabanda ha avuto origine dalla musica dei berberi dell'Africa del Nord, dove era una danza lenta e sensuale. Poi è passata in Spagna, dove è stata proibita perché era considerata indecente, lasciva. Gli spagnoli l'hanno portata nelle Americhe, ma è anche arrivata in Francia, dove è diventata una danza di corte. Intorno al 1720 Bach ha usato la sarabanda come uno dei movimenti delle sue Suite per violoncello. Oggi io, musicista americano nato a Parigi da genitori cinesi, suono Bach. Allora a chi appartiene veramente la sarabanda? È stata adottata da tante culture diverse, ognuna delle quali l'ha investita di significati particolari, ma in realtà è di tutti, la musica appartiene a tutti noi.
Nel 1998 ho fondato il Silk Road Project per indagare sulla corrente di idee che da migliaia di anni attraversa diverse culture tra il Mediterraneo e il Pacifico. Quando suoniamo nel Silk Road Ensemble, cerchiamo di riunire sul palcoscenico una discreta rappresentanza del mondo. I membri del gruppo sono dei virtuosi, maestri di tradizioni ancora vive europee, arabe, azere, armene, persiane, russe, centro-asiatiche, indiane, mongole, cinesi, coreane o giapponesi. Tutti mettono generosamente a disposizione le loro conoscenze e sono curiosi e desiderosi di apprendere altreforme di espressione.
Negli ultimi anni abbiamo visto che tutte le tradizioni sono il risultato di invenzioni riuscite. Uno dei modi migliori per assicurare la sopravvivenza di una tradizione è portarla ad evolversi organicamente, usando tutti i mezzi oggi a nostra disposizione. Avvalendosi di registrazioni e film, frequentando musei, università, accademie e città, suonando nelle scuole e negli stadi, i musicisti del gruppo — me compreso — acquisiscono strumenti preziosi. Ritornando a casa, condividiamo con gli altri quel che abbiamo imparato, assicurando alle nostre tradizioni un posto alla tavola della cultura.
Abbiamo scoperto che portare all'estero una tradizione musicale stimola i musicisti nel Paese di origine. Soprattutto, abbiamo sviluppato una passione per la musica altrui e stabilito tra noi un legame di mutuo rispetto, amicizia e fiducia che è palpabile ogni volta che saliamo sul palco. L'interazione gioiosa è il nostro scopo principale e siamo sempre riusciti a contemperare le differenze con un dialogo amichevole. Aprendoci gli uni agli altri, gettiamo un ponte verso le tradizioni che non ci sono familiari, scacciando la paura che spesso accompagna il cambiamento e lo spaesamento. In altre parole, quando estendiamo al mondo la nostra visione, capiamo meglio noi stessi, la nostra vita e la nostra cultura. Abbiamo più cose in comune di quel che pensiamo, anche con angoli remoti del nostro piccolo pianeta.
Scoprire questi scambi tra culture è importante, ma non solo per amore dell'arte. Tante nostre città — non solo Londra, New York o Tokyo, ma ora anche città di media dimensione — vedono arrivare ondate di immigrati. Come riusciremo ad assimilare gruppi di persone che hanno tante abitudini diverse? È inevitabile che l'immigrazione porti ad avversioni e conflitti, com'è avvenuto in passato? Cosa fare con la popolazione turca in Germania, gli albanesi in Italia, i nord africani in Spagna e in Francia e ancora in Italia? Una vivace attività culturale può aiutarci a capire come i gruppi possono mescolarsi in modo pacifico, senza sacrificare l'individualità e l'identità. Non si tratta di correttezza politica. Si tratta di riconoscere quel che è prezioso per qualcuno di noi, e i doni che il nostro mondo ha ricevuto da ogni cultura.
© 2008 Global Viewpoint, distribuito da Tribune Media Services (Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 9.2.08
Massimo Piattelli Palmarini illustra la ricerca sul funzionamento del cervello
Se la medicina sconfina nella filosofia
Biologia, psicoanalisi, etica: gli sviluppi delle neuroscienze
di Edoardo Boncinelli


Gli studi La scelta
In dieci assunti Piattelli Palmarini definisce il campo del nuovo sapere Intelligenze: la mente dell'uomo nella complessità delle sue funzioni secondo S.M. Sandford (Corbis)

Si parla oggi sempre più spesso di neuroscienze, anche se alcuni usano il termine neuroscienza, al singolare, e altri parlano più specificamente di neuroscienze cognitive o direttamente di scienze cognitive. Si tratta della nuova, ultima forma di conoscenza scientifica del cervello e del suo funzionamento, che include molte conclusioni tratte dalla ricerca sperimentale nei campi della neurobiologia e della psicologia, ma anche una certa dose di interpretazione e di speculazione.
Rappresenta comunque il meglio che abbiamo saputo fare fino a oggi sulla via della comprensione del cervello e della mente. La popo-larità di questa disciplina è divenuta a poco a poco tale che ciascuno cerca di «tirarla dalla sua parte». Molte teorie psicologiche, sociologiche ed economiche — per tacere di quelle filosofiche e politiche — hanno creduto di acquistarsi un'attendibilità maggiore sostenendo che questa o quella conclusione delle neuroscienze dimostra, sostiene, o anche semplicemente non contraddice i fondamenti della propria dottrina. Per questa via si è arrivati a parlare di una neuropsicoanalisi, di una neuroeconomia, di una neuroestetica e di una neuroetica.
Ma che cosa sono effettivamente le (neuro) scienze cognitive? Che cosa affermano? Quali sono i punti essenziali della disciplina, le nozioni delle quali oggi non si dubita più? E cosa si trova invece ai confini di questa scienza, qualcosa che è probabile o quasi certo, ma ancora non definitivamente appurato e consacrato?
Non è facile per una persona non addetta soddisfare queste curiosità e ancora più difficile per il lettore medio. Il motivo è semplice. La disciplina si è sviluppata in tempi relativamente recenti e con una tale rapidità da rendere difficile per chiunque seguirne gli sviluppi. E ancora più difficile è digerire la mole dei dati e delle conclusioni e produrne una sintesi equilibrata, obbiettivo che può essere raggiunto solo in un libro scritto da un esperto del campo che abbia riflettuto a lungo sui punti essenziali e sugli snodi più significativi della materia.
Questo è proprio ciò che ha fatto Massimo Piattelli Palmarini nel suo ultimo libro Le scienze cognitive classiche: un panorama (Einaudi), steso con l'attiva collaborazione di due valenti giovani studiosi, Alessandra Gorini e Nicola Canessa.
La prudenza, quasi la circospezione, dell'autore si rivela fino dal titolo, che parla di scienze cognitive «classiche» e ce ne propone «un panorama». Come dire che non intende parlare di tutto «l'universo» delle scienze cognitive, ma solo della loro porzione ormai classica, e la vuole contemplare dall'alto, quasi a volo d'uccello.
Per il compimento di questa opera di definizione e quasi di «recinzione» della regione concettuale da esplorare è fondamentale il materiale contenuto nel primo capitolo, intitolato «Assunti centrali delle scienze cognitive».
L'autore elenca dieci di questi assunti, che secondo lui definiscono in maniera univoca il campo concettuale delle scienze cognitive. Non c'è dubbio che questi argomenti siano stati pensati e scelti con cura, ma anche con coraggio: non credo infatti che tutti sarebbero condivisi dalla generalità degli addetti ai lavori. Molti sono di carattere spiccatamente concettuale e quasi filosofico e risentono sicuramente delle frequenti conversazioni che Piattelli Palmarini intrattiene quasi quotidianamente con esponenti di spicco delle scienze cognitive statunitensi, primi fra tutti Noam Chomsky e Jerry Fodor. Dopo due capitoli altrettanto fondamentali sullo sviluppo storico della materia e sulla filosofia della mente, si passa alla illustrazione dei principali risultati raggiunti e delle conclusioni da questi tratte, cominciando dalla retina del... ranocchio. Esperimenti condotti negli anni Cinquanta del secolo scorso rivelarono quanto è curioso e sorprendente il modo che ha la rana di vedere il mondo circostante. Già nella sua retina, il tappeto di fotorecettori che rende possibile la visione, esistono cellule superspecializzate, capaci di rispondere selettivamente a stimoli sensoriali molto specifici, e fondamentali, occorre aggiungere, per la sopravvivenza di questo animale.
Ci sono cellule della sua retina che reagiscono soltanto alla visione di un moscone in volo. Un qualcosa che voli ma che non sia un moscone, o la vista di un vero moscone ma fermo, non suscitano alcuna reazione in queste cellule. Che sembrano stare lì solo per rispondere alla semplice domanda: c'è in giro un moscone vivo oppure no? Tutto il resto non le interessa. Tutto il resto non viene letteralmente nemmeno «visto». Ed è estremamente interessante osservare quante e quali conoscenze sono poi derivate da questa semplice osservazione, diciamo così, pionieristica. Ogni animale vede, e più in generale percepisce, il mondo a modo suo, e nel modo che gli è più utile. Compreso l'uomo.

Liberazione 9.2.08
Il bipolarismo non è fallito soltanto nel centrosinistra: si vedano le varie pulsioni neo-centriste
L'Italia al voto è al bivio tra bipartitismo e democrazia e il primo leit-motiv di questa campagna è l'autonomia
di Rina Gagliardi


Questa persuasione si fonda, prima di tutto, su un dato di fatto: il bipolarismo, cioè il sistema politico incentrato su due soli "grandi competitori", due maxicoalizioni che si scontrano fino all'ultimo voto e conquistano il governo, magari in alternanza tra di loro, è ormai andato in frantumi. Non ha retto alla prova della stabilità, che era per altro una delle sue issue privilegiate. Ha creato coalizioni forzate, disomogenee, nelle quali - appunto per la logica del sistema - il potere di ricatto delle zone grigie neo-centriste era altissimo. Ha alimentato perciò frammentazione e, soprattutto, trasformismo, vizio ben radicato nella cultura politica nazionale. Insomma, a differenza di quanto viene agitato a scopo propagandistico, il bipolarismo non è fallito soltanto nel centrosinistra, e nella "separazione consensuale" tra il Pd di Veltroni e la nuova coalizione della sinistra alternativa, ma anche nel centrodestra - e le fioriture di rose bianche, così come le resistenze di Casini, così come le varie pulsioni neo-centriste, ne sono un indizio palese. Tanto è evidente questo fallimento che il leit-motiv primo di questa campagna elettorale è stata la tendenza alla riconquista dell' autonomia di quasi tutte le forze o soggettività politiche - a tutt'oggi non sono pochi, a destra e a sinistra, coloro che annunciano, dichiarano o "minacciano" di volersi presentare da soli, con la loro faccia, con la loro fisionomia, con il loro programma. Un po' come se ci preparassimo ad andare a votare non con il pessimo Porcellum, ma già con quel sistema elettorale "tedesco" che ci si è ostinati, assurdamente, a non volere.
In questa situazione contraddittoria (resa ancora più contraddittoria dalla distonia, per chiamarla così, tra i processi materiali di riorganizzazione o maquillage della politica, e la forma data da una legge elettorale al tempo stesso bipolare, proporzionale e maggioritaria), esistono due sole - o principali - strade di uscita "definitiva" dallo schema bipolare. La prima, come dicevamo, è la sostanziale "americanizzazione" dell'Italia, attraverso un bipartitismo di fatto: se l'elettorato concentrerà i suoi voti sul Pd e sul Pdl, sulla competizione tra Veltroni e Berlusconi-Fini, riservando a tutti gli altri (alla sinistra, prima di tutto) un consenso marginale, ci troveremo alla fine con il più insidioso dei bipolarismi - con la proposta-principe del referendum Gazzetta anticipata dalla realtà. In questo caso, la competizione politico-istituzionale si ridurrà, drasticamente, tra Centro e Destra: di qua, un Centro, certo, che dalla storia erediterà singole figure e molte storie della sinistra, ma che sarà "segnato" con forza dalla presenza, non importa quanto concreta, di Luca Cordero di Montezemolo, degli economisti del "Corriere", di una larga componente clericale; di là una destra che oscilla tra populismo e sogni gollisti, ricca di pulsioni autoritarie, sicuritarie, selvagge. Sarebbe un grave arretramento per un Paese che, nel bene o nel male, ha sempre vissuto una dialettica ben più ricca e articolata.
L'altra via è quella per la quale ci batteremo fino all'ultima donna e all'ultimo uomo: una concreta configurazione del sistema politico a tre, una destra, un centro, una sinistra. Una di quelle tante semplicità che sono difficili a farsi, ma di cui non può sfuggire a nessuno la portata storica. Che cosa sarebbe di questo Paese senza una presenza forte e riconoscibile della sinistra nelle istituzioni? Appunto, l'Italia diventerebbe molto simile agli Stati Uniti: un grande paese, ricchissimo di proteste sociali e di movimenti, talora voglioso di change, di mutamento, ma dove l'esistenza di una sinistra politica autonoma è, semplicemente, cancellata. Ora, a dispetto di tutti i dubbi che si possono nutrire sulla "Sinistra-Arcobaleno", sulle sue liste, sulla "compatibilità" dei suoi gruppi dirigenti, sulla sua credibilità, è evidente che questa chance c'è: la si può giocare, pienamente e fino in fondo. Non solo a beneficio delle tante persone, dei milioni di lavoratori, di giovani e di donne che non possono rimanere privi di rappresentanza. Non solo per salvare una prospettiva ideale di liberazione dallo sfruttamento, dall'alienazione, dal dominio totalizzante delle merci sulle persone e sulla natura. Non solo per reiniziare un cammino virtuoso, nel corso del quale dobbiamo saper rispondere alle domande più antiche e più ineludibili - che cosa siamo e che cosa vogliamo. Ma per salvaguardare le potenzialità e la vitalità della democrazia italiana. E della stessa politica, così malata e così bisognosa di una Grande Riforma.

Liberazione 9.2.08
"La classe operaia va in Paradiso", il film che provocò la sinistra
La nebbia intorno alla fabbrica: da Elio Petri a Wilma Labate
di Serafino Murri


Le micidiali polemiche che seguirono l'uscita nel 1971 de "La classe operaia va in paradiso", inizio del percorso di Elio Petri verso la scomunica ufficiale da parte del PCI arrivata nel 1976 con Todo Modo (film tratto da Sciascia, che metteva esplicitamente i bastoni tra le ruote al compromesso storico), a guardarle oggi, fanno lo stesso effetto della nebbia del sogno finale del protagonista Lulù-Volonté: una volta abbattuto il muro che separava la classe operaia da uno smunto Paradiso fatto di pseudo-integrazione nel modello borghese di vita, diradata la nebbia di un'ideologia del riscatto di classe che non accettava deroghe dalla mitologia operista né serie né facete, quel che si presenta agli occhi degli operai sono sempre gli operai, uguali a se stessi, abbrutiti dal lavoro, lasciati soli, sbandati, senza una meta. Da allora, infatti, qualcosa è cambiato: e in peggio. Quel tasso a volte alcolico di pregiudiziale fiducia nel riscatto imminente che portava a non comprendere il film di Petri, considerato "pericolosamente reazionario" dal Movimento perché non vi si ritrovava nessun sincero odio nei confronti del lavoro, della macchina, della catena di montaggio, che portò il più marxista di tutti i registi, Jean Marie Straub, a invocare il rogo per questa pellicola "infame", è stato sostituito dal suo contrario. Gli operai di oggi sono ridotti a nebbia, resi fantasmi residuali di un discorso politico che li ignora, tende perfino a negarne l'esistenza, mentre le loro condizioni si avvicinano sempre di più a quelle selvatiche e senza speranza descritte dal film di Petri. Il protagonista Lulù Massa, nome emblematico in cui il regista e lo sceneggiatore Pirro condensavano tutto quel che l'operaio non doveva essere, e cioè una bestia da soma semianalfabeta dalle ambizioni meschine e senza un briciolo di coscienza di classe, riusciva a cogliere in anticipo, e senza disfattismo, il germe della disperazione che nasceva allora in seno alla Sinistra, il senso di fine della colossale sbornia, della festa, della gioia del '68.
Lulù Massa, fanatico del cottimo, neanche crumiro, solo qualunquista, che prende coscienza in maniera egoista e individuale, solo di fronte al licenziamento, a cui faceva da contraltare il vecchio comunista rivoluzionario impazzito Militina (Salvo Randone), agitavano lo spettro insopportabile di una classe operaia contraddittoria e spiazzata, o per usare le parole di Petri: «Degli schiavi, si potrebbe dire delle scimmie che ripetono lo stesso gesto in maniera ossessionale».
L'ostinazione di Lulù Massa nel negare l'insopportabilità della condizione operaia, che fece gridare allo scandalo la sinistra dell'epoca, invece, sarebbe diventata di dominio comune, se è vero come è vero che trentasette anni dopo si continua a morire di lavoro in condizioni contrattuali ancora meno garantite di quelle di un tempo.
Vale la pena rileggere quel che scriveva Goffredo Fofi sui "Quaderni Piacentini" del film di Petri: «Non è sufficientemente sociologico né sufficientemente psicologico, né commedia né dramma, e soprattutto assolutamente non politico se non a lontanissimi livelli, La classe operaia va in paradiso dimostra che il vecchio adagio revisionista si addice ancora ai registi del revisionismo cinematografico che "per troppo volere nulla stringono", se non in fatto di incassi. Il film sulla classe operaia resta ancora da fare. Di questo ricorderemo soltanto il suo valore di primo sbandatissimo e strombazzato sopralluogo; e la sua impossibilità e impotenza a parlarci seriamente della classe operaia, delle sue lotte, del suo presente e del suo futuro». C'è qualcosa di strano, un accanimento che, anche al di là del contesto massimale della lotta dell'epoca, prosegue a tutt'oggi in un malcelato divieto di fare della classe operaia in tutte le sue difficoltà e contraddizioni la protagonista di un film. Ancora oggi, si può solo essere celebrativi delle vittorie e del glorioso cammino operaio, continuando a perpetrare l'illusione mistificante che la classe operaia sia già in Paradiso (nel senso di defunta, ridotta a anima, santino, icona del passato). Rimettere le dita nel marasma mai chiarito della sconfitta del progetto rivoluzionario di classe, punto cruciale da cui è partita la nostra epoca di rimozione e superficializzazione sistematica delle coscienze, non è concesso. Gli operai sono ancora una cosa troppo alta per la loro storia, troppo irrappresentabili nella loro fragilità. Lo dimostra il caso di "SignorinaEffe" di Wilma Labate, altro film fatto a pezzi soprattutto dalla critica di sinistra, perché mescolerebbe il sacro delle lotte operaie col profano della storia privata, quando si propone di raccontare, oltre ad una versione più verosimile di quella passata alla storia della marcia dei 40mila, l'esatto momento in cui finisce il Sessantotto, il passaggio da quello che si allora si chiamava il "personale nel politico" (la propria vita come forma di partecipazione sociale) al "politico nel personale" (le scelte politiche come riflesso opportunistico delle esigenze personali di carriera e inserimento sociale): la malattia qualunquista in cui langue tutt'oggi l'Italia della moribonda Seconda Repubblica.

Liberazione 9.2.08
In libreria l'ultimo lavoro di Angelo d'Orsi sul 1937, dodici mesi caratterizzati da vicende terribili: mentre le bombe franchiste colpivano la cittadina basca si spegneva il dirigente comunista, i nazisti costruivano Buchenwald e Stalin rafforzava la dittatura
Annus horribilis, da Guernica alla morte di Gramsci
di Andrea Di Michele


Il 26 aprile 1937 l'aviazione nazista, con l'aiuto di aerei inviati in Spagna dall'Italia fascista, bombardava Guernica, distruggendola quasi completamente. Per quattro ore, ininterrottamente, aerei della Legion Condor scaricarono sull'antica capitale basca una quantità impressionante di ordigni esplosivi e incendiari, mitragliando a più riprese la popolazione civile.
Si trattò sicuramente di uno dei momenti più tragici della guerra civile che devastò la Spagna tra il 1936 e il 1939 e anche uno dei più noti, perché immortalato nella famosa opera di Pablo Picasso.
Per Angelo d'Orsi - che ha appena dato alle stampe per Donzelli il libro intitolato Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna (pp. 257, euro 25,00) - il bombardamento della cittadina basca assume un significato storico che va al di là di quel terribile dramma. Rappresenta il primo bombardamento a tappeto della storia. Lungi dall'essere un'operazione dettata da necessità belliche, fu un deliberato bombardamento terroristico volto ad uccidere indiscriminatamente e a seminare il terrore tra la popolazione basca ostile ai generali golpisti.
Guernica anticipò gli orrori a venire della seconda guerra mondiale, ma più in generale di tutte le guerre successive, anche quelle dei giorni nostri; guerre totali in cui è saltato completamente il confine tra eserciti combattenti e civili, con questi ultimi a pagare il prezzo più alto; guerre "posteroiche", come le chiama d'Orsi, dove l'attaccante gode di una superiorità tecnologica tale da non fargli rischiare nulla. Dopo Guernica ci sarebbe stata Dresda, completamente distrutta nel febbraio 1945 dai bombardamenti alleati che causarono più di 100.000 morti; il dramma nucleare di Hiroshima e Nagasaki; il bombardamento di Belgrado del 1999.
Ma per l'autore non è solo Guernica ad avere un significato speciale; più in generale è la guerra civile spagnola a rappresentare una drammatica anticipazione di quanto sarebbe accaduto di lì a pochi anni con la seconda guerra mondiale. La guerra civile fu il primo importante scontro tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e democrazia, tra i golpisti guidati dai generali Mola, Sanjurio, Franco e il legittimo governo repubblicano. Di fronte al sostegno armato assicurato ai golpisti dalle dittature fasciste italiana e tedesca, le democrazie europee rimasero a guardare, mentre da tutto il mondo partivano volontari pronti a combattere per la repubblica.
Senza gli eserciti fascisti l'aggressione dei militari alla repubblica sarebbe presto fallita. Il ruolo decisivo dell'intervento straniero nella guerra spagnola ha spinto d'Orsi a sostenere che non si dovrebbe parlare di guerra civile, quanto di un conflitto internazionale contraddistinto da una evidente disparità tra le forze in campo.
Guernica assume un significato paradigmatico anche come esempio di "disinformazione di guerra". Attraverso la stampa, il generale golpista Francisco Franco sostenne subito che erano stati i "rossi" a incendiare Guernica, facendola poi saltare in aria con la dinamite. In Spagna, fino alla caduta del regime questa fu la verità ufficiale. La menzogna, priva di qualsiasi fondamento, continua ad aleggiare nel campo dell'informazione, della propaganda politica e di certa storiografia. E' uno dei tanti esempi di "false notizie" create ad arte in tempo di guerra e ci rimanda all'attualissimo tema del rapporto guerra-informazione e del ruolo sociale dei giornalisti di fronte ai conflitti.
Ma nel libro di d'Orsi c'è anche dell'altro. C'è il racconto della nascita rabbiosa e scandalizzata del dipinto "Guernica" ad opera di Pablo Picasso (ispirato dalla sua musa Dora Maar), consapevole opera di denuncia della barbarie fascista, esempio di felice incontro tra arte, politica e impegno civile. Furono tantissimi gli intellettuali che sulla guerra di Spagna si schierarono apertamente e la stragrande maggioranza di loro lo fece a favore della repubblica. Molti partirono per i campi di battaglia, molti altri rimasero nei rispettivi paesi a combattere con le armi della cultura. «La Spagna fu davvero - come scrive d'Orsi - la prova generale della moralità della cultura.» Anche su questo fronte si coglie il riferimento all'attualità, un'esortazione agli intellettuali ad essere maggiormente presenti nel dibattito pubblico, a prendere posizioni chiare specie sulla questione delle guerre di oggi.
Dal punto di vista storiografico d'Orsi traccia un quadro vivissimo e partecipe di quello che lui chiama annus horribilis , il 1937, anno centrale per le vicende dell'Europa e del mondo tra le due guerre mondiali. Il 1937 è l'anno del fascismo trionfante, che celebra il primo anniversario della nascita dell'Impero dopo la conquista dell'Abissinia; dell'elaborazione dei primi piani di aggressione all'ordine europeo da parte della Germania nazista; della costruzione del lager di Buchenwald; dell'aggressione giapponese alla Cina, che ad Oriente fa iniziare la seconda guerra mondiale già nel 1937; anno centrale anche per il rafforzamento della dittatura totalitaria di Stalin in Unione Sovietica.
Le purghe staliniane non si limitarono al territorio sovietico, ma interessarono anche la Spagna, dove nelle ultime fasi della guerra civile agenti dei servizi segreti sovietici uccisero anarchici e trotzkisti. Guerra nella guerra, dramma nel dramma, la lacerazione che interessò il fronte repubblicano e che giunse a veri e propri scontri armati tra comunisti e anarchici fu uno dei motivi alla base della sconfitta della repubblica.
D'Orsi ha scritto un libro la cui lettura è godibilissima, mai faticosa, avvincente e a tratti toccante, specie laddove - all'interno delle difficili vicende del comunismo internazionale - inserisce la storia politicamente ed umanamente drammatica di Antonio Gramsci. L'intellettuale e politico sardo morì poche ore dopo il bombardamento di Guernica, a seguito di 10 anni di prigionia nelle carceri fasciste. Qualche tempo dopo, Mussolini avrebbe scritto che Gramsci era morto di malattia e non di piombo, come invece accadeva in Russia ai dissidenti di Stalin e come gli sarebbe accaduto se si fosse rifugiato a Mosca. Prima del suo arresto, Gramsci si era espresso in maniera critica nei confronti della linea staliniana e per questo le parole di Mussolini non appaiono del tutto prive di fondamento. Tragedia nella tragedia, il comunista Gramsci moriva nelle carceri di Mussolini, senza una patria politica certa da cui essere accolto.

Liberazione lettere 9.2.08
Crocefisso. Ma lo Stato non è laico?

Cara "Liberazione", una questione che riguarda il principio supremo della laicità dello Stato e quindi la stessa garanzia della vita democratica non può essere risolta per via di maggioranze. Infatti se anche il 100% degli italiani fossero cattolici, cosa che non è, lo Stato non potrebbe farsi propagatore della confessione della chiesa romana e del suo simbolo. Come hanno abbondantemente ricordato diverse sentenze della Corte Costituzionale (in particolare, 203/1989), nonché della Corte di Cassazione (in particolare, 439/2000). Se decidessimo a maggioranza che il simbolo da esporre fosse quello dell'ebraismo, o degli atei o dei musulmani, o quant'altro lo Stato repubblicano, laico, democratico, sarebbe tenuto ad ottemperare? Certamente no. Vale il principio garantito dall'art. 1 della Costituzione, quando afferma che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Solo la Costituzione, infatti, è la garanzia della libertà di tutti, senza che si venga costretti ad appartenenze che di tutti non sono affatto. Solo dalla garanzia del diritto di ognuno a veder tutelata la propria libertà di coscienza (art. 3 della Costituzione) scaturisce la pace. L'Associazione nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno", come ribadito in più occasioni, ritiene che i rappresentanti del popolo italiano, piuttosto che mobilitarsi per affiggere altre croci nei luoghi pubblici ed istituzionali, dovrebbero laicamente attivarsi per la rimozione di quelle esistenti. Ciò a tutela del supremo principio della laicità dello Stato italiano, sancito dalla Costituzione repubblicana e ribadito dalle autorevoli sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale.
Maria Mantello vicepresidente Associazione "Giordano Bruno"

L'espresso n.6 - 2008
S.O.S aborto
Intervista con Emma Bonino di Daniela Minerva


La pressione cresce. Prima Giuliano Ferrara, nel dicembre scorso, e la sua richiesta di "grande moratoria" sull’aborto, seguita dalla proposta di Sandro Bondi di modificare la legge 194. Poi i baroni romani che chiedono di rianimare i feti abortiti senza il consenso dei genitori. E Benedetto XVI che da quando siede sul soglio pontificio non passa settimana senza ricordare che la vita va salvaguardata anche prima della nascita. Circondato dai suoi vescovi: in realtà i primi, nell’agosto del 2007, a chiedere esplicitamente, sul loro quotidiano "Avvenire", una revisione della legge 194. Tutti uomini, devoti, arcigni e minacciosi. Tutti a criminalizzare, gettando luci sinistre sul dibattito politico, le donne, già devastate dal più grande dei dolori, l’interruzione volontaria di una gravidanza. E c’è già chi non può fare a meno di pensare al peggio: «La cambieranno, peggiorandola». E allora? Ma perché? E inevitabile? Davvero niente può fermare le logiche della politica e della demagogia che colpiscono la carne viva delle coppie? Anche se solo poche settimane fa nessuno pensava di dover porre queste domande, così semplicemente, senza ricamarci sopra con i "se" e i "ma anche", ora, con questo crescendo di crudeltà politiche e opportunismi medici, forse conviene porsele. Noi ne abbiamo parlato con Emma Bonino, ministro del governo Prodi e deputato della Rosa nel pugno.

Emma Bonino, pensava di trovarsi, trent’anni dopo, a ridiscutere della legge 194?
«Sono fuori di me. Tutto questo can can è puramente strumentale perché la questione dell’aborto in Italia è una non-emergenza. La legge funziona, gli aborti diminuiscono».

Perché allora un attacco così violento alla 194?
«Il tema dell’interruzione di gravidanza agita le coscienze individuali. È un tema serio e scomodo, soprattutto per noi donne. O c’è qualcuno che pensa davvero che le donne abortiscano come andare a fare la spesa? Che non sia ogni volta un dramma, un dolore indicibile? E sconcertante come non si tenga conto della sofferenza delle persone, delle difficoltà, ad esempio, di chi sceglie di interrompere una gravidanza, magari molto cercata, perché il feto è malformato. Ma la ragione di un attacco alla 194 è un’altra. E non ha molto a che vedere con i diritti delle donne, con la maternità consapevole, con la salute. E, lasciatemelo dire, nemmeno con il diritto alla vita. Tanto è vero che proprio la 194 ha conseguito la vera moratoria sull’aborto, perché ne ha ridotto drasticamente il numero, eliminando la piaga dell’aborto clandestino. E ancora di più si potrebbe ridurre se l’indignazione dei devoti non ostacolasse politiche di diffusione della contraccezione. Se la Ru486 fosse anche da noi un diritto come lo è in Europa».

L’attacco alla legge non ha a che fare col diritto alla vita, allora con cosa ha a che fare?
«Vedo scatenarsi una cagnara politica, adesso anche sempre più parascientifica, che si sta sviluppando a partire da una provocazione pretestuosa, come quella di Giuliano Ferrara corroborata da omelie che, ancorché autorevoli, non dovrebbero appartenere al dibattito politico. Lo scopo è solo quello di fare una crociata ideologica per portare scompiglio, in particolare nel centrosinistra. Leggo che Ferrara sarebbe pronto a lanciare su questo tema una "lista civetta" di stampo sanfedista, ovviamente per spaccare il Partito democratico».

Il quale, però, non sembra avere in agenda i cosiddetti temi etici. Anzi, sembra evitarli accuratamente.
«Com’è noto, io non frequento il Pd. I suoi dirigenti mi hanno definito "zavorra laicista". Ma io continuo a pensare che ci si debba rispetto. Che in Italia ci sono credenti, non credenti e diversamente credenti. E che il ruolo della politica è quello di trovare le regole in cui ognuno, senza prevaricare, esprime la propria responsabile libertà. Io non credo che sia scomponibile il binomio democrazia e laicità: la democrazia se non è laica non è democratica».

E il Pd non è laico?
«So perfettamente che c’è un dato di compromesso che va perseguito e con il tentativo di Rosy Bindi di scrivere una legge sui Dico mi sembra che fosse stato fatto con grande efficacia. Ma no, non andava bene neanche quello. Perché ormai siamo al paradosso che la libertà è considerata un tema eticamente sensibile».

Cosa è successo? Dove ha sbagliato il popolo dei centrosinistra?
«La miglior difesa è l’attacco. Con Luca Coscioni prima, e Piero Welby poi, andiamo ripetendo e lottando per lo meno dal 2001 per "i nuovi diritti civili". Cercando di far capire che il miglior modo di difendere anche le conquiste storiche dei divorzio e della maternità come scelta fosse appunto quella di occuparsi e imporre una nuova frontiera della libertà responsabile: libertà di cura, di terapia e di ricerca scientifica. Dal corpo dei malati al cuore della politica. Totalmente inascoltati, peggio messi all’indice come se si trattasse di temi disdicevoli per la politica che avrebbe cose ben più alte di cui occuparsi. Noi però non demordiamo: a Salerno, si terrà, dal 15 al 17 febbraio, il VI Congresso nazionale dell’Associazione Luca Coscioni proprio su questi temi. E lo facciamo mentre l’attenzione generale è focalizzata su un nuovo non-problema come la faccenda dei prematuri. lo ho tirato il campanello d’allarme quasi da sola per anni. Perché sono consapevole che, per come è fatto il nostro Paese, se abbassiamo la guardia sui diritti, sulle libertà, è finita».

Perché, come è fatto il nostro Paese?
«E’ fatto con una preponderanza vaticana dietro la porta, e una timidezza della classe politica che mi fa impazzire».

Ha detto che l’appello dei ginecologi romani che invitano a rianimare i neonati prematuri anche contro il volere delle madri è un non-problema. Perché?
«Come dice Umberto Veronesi, il documento non aggiunge nulla di nuovo: si sa già che un neonato prematuro va rianimato. La legge 194 è molto chiara in proposito: quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita. Per questo gli operatori della 194 si sono dati da 30 anni delle regole nel rispetto della normativa vigente. E poi, nel merito, bisogna anzitutto partire dai dati. I risultati di un lavoro durato due anni che ha impegnato ben nove società scientifiche, assieme al Comitato toscano di Bioetica e all’Ordine dei medici della Toscana, e presentato nel febbraio del 2006 ha mostrato che il 30-35 percento dei cosiddetti "grandi prematuri" (ovvero di 22, 23 0 24 settimane di gestazione) muore in sala parto; che il 45 per cento circa viene sottoposto a cure intensive e muore durante la terapia; e che la sopravvivenza è del 25 percento. Ma attenzione, il 95 per cento dei prematuri che sopravvivono riportano gravi handicap cerebrali. Alla luce di questi dati una cosa è chiara: non sta a un politico dire se bisogna rianimare o no».

Vuole rimettere tutto nelle mani dei medici?
«Un problema politico c’è: la legge non tutela a sufficienza il medico che si trova ad affrontare certe scelte. Così finisce che molti sottopongono il neonato a tutte le cure possibili, anche se sono consapevoli della loro inutilità, solo perché temono, altrimenti, di essere perseguiti per vie legali. Dico quindi che sarebbe meglio se ci fosse un regolamento che riconosca alla professionalità e alla coscienza del medico la facoltà di decidere caso per caso. Ma che questo va fatto sempre sentita preventivamente la famiglia, che ha l’ultima parola».

Come andrà a finire? La politica cambierà la 194?
«Io invito la politica a non inseguire agende fissate da altri, magari in qualche redazione di giornale, inventando emergenze che emergenze non sono, senza curarsi di quelli che sono i problemi urgenti aperti e non risolti dei nostri giorni. Poi mi auguro che i cittadini italiani sappiano giudicare chi queste convinzioni non è disposto a barattare in cambio di seggi e poltrone. Ma prova a farle crescere nel Paese e a determinare le grandi conquiste civili e politiche in grado di equiparare l’Italia agli standard degli altri paesi europei. Oggi sull’amore, sulla famiglia, sul sesso, sulle cure, sulla morte, sulla riproduzione, sulla vita, pare che per molti benpensanti e atei devoti, la libertà si riduca a mero capriccio, a consumo, desiderio. Cioè a disvalori da denunciare e porre sotto accusa, per magari sostituirli con dogmi di cui si ergono a soli arbitri e custodi».
(testo ricevuto da Paolo Izzo)

il Riformista 9.8.02
Oggi a Torino l'assemblea operaia del Prc
Contro Walter scende in campo Cipputi
di Alessandro de Angelis


Se non ci fosse Cipputi le cronache della Cosa rossa oscillerebbero tra i tanti se e i tanti ma sul simbolo e le prime tensioni sulle liste dove si annunciano note dolenti, anzi dolentissime. Ma mentre Fausto prepara la sua discesa in campo mediatica in una serie di round televisivi la prossima settimana, per ora ci pensa Cipputi ad aprire, di fatto, la campagna elettorale della Cosa rossa. E, neanche a dirlo, lo farà a Torino, città simbolo del lavoro industriale, non solo nel passato. In un luogo diventato anch'esso simbolo delle tragedie legate al lavoro industriale: quegli stabilimenti della ThyssenKrupp dove morirono arsi vivi sette operai lo scorso dicembre. Quella che si svolgerà oggi è la prima di una serie di assemblee di lavoratori organizzata da Rifondazione: «Sarà il più grande appuntamento operaio di quest'anno», dicono in via del Policlinico. Le prossime conferenze operaie, così si sarebbero chiamate una volta, si terranno in tutta Italia: a Milano (sul lavoro in Europa), a Roma (sul pubblico impiego), a Napoli (sulla nuova economia del Mezzogiorno), a Palermo (sul lavoro nel regno dell'illegalità). Con un unico obiettivo: far parlare Cipputi che, per Rifondazione non solo ha parlato poco negli ultimi tempi, ma è diventato pure invisibile, anche durante il governo di centrosinistra. «Invisibile»: è la parola che Giordano, e non solo lui, ripete in continuazione. E, ora che il suo partito si sente le mani libere, Cipputi vuole vederlo e anche farlo vedere. Quella che fu la classe operaia, è diventata, a giudizio di Rifondazione, quasi un'entità misteriosa per alcuni, vissuta dai più come sorpassata dai nuovi processi: flessibilità, liberismo, mercato. E non solo non ha più rappresentato un soggetto politico ma si è pure messa a votare tutti spiazzando la sinistra soprattutto nel Nord. E questo, per chi si dice orgogliosamente di sinistra, è inaccettabile. Ecco dunque che nella strategia di Rifondazione c'è tutto questo - la sconfitta storica di cui parla Bertinotti - ma anche altro. Alla vigilia di una nuova stagione di opposizione c'è soprattutto la volontà di provare a capire i nuovi operai, con l'ambizione di rappresentarli. Dice il responsabile Economia e lavoro di Rifondazione Maurizio Zipponi: «Vogliamo parlare di cosa significa essere operai oggi. Per noi quella parola va declinata in relazione alle grandi trasformazioni del lavoro. Gli operai di oggi sono anche i lavoratori dei call center o degli ipermercati, o anche una parte del popolo delle partite Iva. Il nostro obiettivo, nelle assemblee che promuoveremo, è parlare delle condizioni materiali del lavoro in Italia ed elaborare proposte politiche: a partire da un libro bianco sul mercato del lavoro».
Il timing, per Rifondazione, non poteva essere migliore: l'evento, pensato in un primo momento come uno degli appuntamenti che dovevano accompagnare e sollecitare dal basso la verifica di governo, acquista, dopo gli ultimi giorni, un significato tutto politico. E, dopo la separazione consensuale col Pd, fotografa due mondi che hanno davvero imboccato strade diverse: «Montezemolo si interessa al programma del Pd, la Sinistra riparte dalla Thyssen» titolava ieri Liberazione . Insomma, dicono a Rifondazione, qui c'è il lavoro, lì, inteso come Pd, c'è l'impresa. Sarà questo il terreno di sfida a Veltroni, preparato anche mediaticamente: «Resistiamo 365 giorni l'anno» è lo slogan della manifestazione di oggi. E anche nell'organizzazione si è scelto un taglio che è l'opposto del leaderismo: parleranno una quarantina tra precari, lavoratori dell'agricoltura, dell'edilizia, dei call center , badanti: gli «invisibili» di cui parla Giordano. Ci sarà pochissimo spazio per le voci istituzionali. Dice Zipponi: «Il Pd si dice equidistante tra lavoro e impresa. Significa che i due soggetti hanno la stessa forza e quindi non serve l'intervento redistributivo dello Stato, ad esempio. Noi invece stiamo dalla parte del lavoro. È un confine identitario ben preciso e noi, come sinistra arcobaleno, vogliamo partire dal lavoro per costruire il nuovo soggetto politico». E sulla Thyssen afferma: «Non è solo un luogo dove è si è verificata una tragedia isolata. È un simbolo visto che da gennaio ad oggi sono morti 110 lavoratori sul posto di lavoro. La realtà quotidiana ci dice che in questo paese ci sono due popoli e due Stati: uno fuori, uno dentro i cancelli delle fabbriche».
Il libro bianco che Rifondazione metterà sul tavolo di discussione della sinistra arcobaleno è il frutto di un lavoro di un anno e mezzo, cui hanno partecipato giuristi, avvocati e sindacalisti. Con l'obiettivo di fotografare la situazione del lavoro in Italia e offrire proposte su welfare, diritti, precarietà, democrazia sindacale. Dice Zipponi: «È una nostra idea di società "altra" rispetto a Confindustria. Ci abbiamo lavorato quando stavamo al governo e non riuscivamo a spostare diritti e ricchezza dalla parte dei lavoratori». Da oggi inizia la campagna elettorale e nella Cosa rossa parla Cipputi.

il Riformista 9.8.02
L'anniversario il 12 febbraio 1809 e le sue implicazioni sull'oggi
Darwin, una rivoluzione biologica che è evoluzione di laicità
di Orlando Franceschelli


Le sue teorie consentono di superare la «schizofrenia concettuale» tra mondo della materia inanimata e mondo della materia vivente. Approda a un agnosticismo capace di esortare anche i credenti a non scambiare la fede per conoscenza

«Scettico e razionalista«. È con questo atteggiamento che Charles Darwin, di cui proprio in questi giorni si commemora la nascita (12-2-1809), ha saputo nutrire non solo la rivoluzione biologica operata dalle sue teorie, ma anche il suo progressivo congedo dalle convinzioni religiose della giovinezza. Per approdare all'incredulità (disbelief) di un agnosticismo capace di esortare anche i credenti a non scambiare mai la loro fede per conoscenza effettiva delle cose. Una simile attitudine critica, maturata nel clima tutt'altro che tollerante dell'Inghilterra vittoriana, Darwin non l'ha mai dismessa. Ed essa, lungo la storia dell'illuminismo moderno, costituisce ancora oggi un'inaggirabile lezione di scrupoloso rispetto per la ricerca scientifica e di laica rettitudine nell'uso pubblico delle proprie convinzioni filosofiche e religiose. Una lezione di cui, proprio nell'odierno clima culturale e politico del nostro Paese, sarebbe veramente difficile esagerare l'attualità.
Darwin, come indicò anche Freud, ha completato a livello biologico la rivoluzione cosmologica avviata da Copernico. Più precisamente: le sue teorie hanno consentito di superare la «schizofrenia concettuale» (Ayala) tra mondo della materia inanimata e mondo della materia vivente. Il primo già indagabile e conoscibile mediante la scienza. Il secondo ancora sottratto a quest'ultima e spiegabile magari soltanto facendo appello a cause sovrannaturali. Grazie a Darwin, anche l'evoluzione della vita può essere studiata come ogni altro processo naturale. Governato da meccanismi soltanto fisici (variazioni casuali e azione cumulativa della selezione naturale). E del quale fa parte anche homo sapiens, incluse le sue capacità intellettuali ed etiche.
Dopo una simile rivoluzione, nulla è più come prima. Non solo l'uomo e la sua storia hanno perduto ogni primato antropocentrico rispetto al resto del mondo vivente. È stato insomma ferito per sempre, come ben vide Freud, il narcisismo o «amor proprio dell'umanità». Ma anche la teologia si è vista costretta a far subentrare al creatore e disegnatore onnipotente della tradizione il Dio umile e vulnerabile del teismo evoluzionistico, che si limita ad accompagnare con amore l'odissea evolutiva, senza intervenire direttamente neppure sul male fisico (sprechi, sofferenze, eliminazioni di specie) che ne segna i processi.
Un simile lavoro di revisione critica risulta certamente impegnativo, viste le implicazioni antropologiche, etiche e religiose che inevitabilmente comporta. Ma ad esso possono sperare di sottrarsi solo coloro che, come i vari sostenitori protestanti e cattolici del Disegno Intelligente, non esitano ad attaccare persino sul piano strettamente scientifico la teoria darwiniana dell'evoluzione. Ricordata invece, proprio in questi giorni, con le seguenti parole dalla nostra Accademia dei Lincei: essa «ha ricevuto il consenso praticamente unanime della scienza moderna». E risulta ormai sostenuta da una «quantità gigantesca» di reperti fossili, risultati sperimentali e considerazioni teoriche.
Dover ancora denunciare, come si è sentita costretta a fare la stessa Accademia, quanto siano infondate le critiche al darwinismo e alla necessità di insegnarlo nelle scuole, è certo uno dei segni più allarmanti della carenza di laicità che oggi minaccia tutta la nostra vita pubblica. Segno insomma dell'innegabile pazienza di cui i laici devono saper fare esercizio di fronte al ritorno non del sentimento religioso in quanto tale, ma del fondamentalismo protestante o dell'integralismo cattolico. Incapaci entrambi di confrontarsi con la scienza e con la filosofia moderne. Nonché con l'inaggirabile pluralismo di valori etico-politici che esse possono ispirare.
Di una simile pazienza nei confronti degli oscurantisti che attaccano proprio la teoria dell'evoluzione, diceva di averne ben poca persino un liberale del calibro di Friedrich von Hayek. Che perciò si dichiarava riluttante ad accettare per sé la definizione di conservatore. Forse nell'Italia di oggi, di pazienza ne serve di più. Della pazienza intesa come virtù, però. Non come compromesso al ribasso con chi, per dirlo proprio con le parole di Darwin, si mostra del tutto incapace di resistere alla tentazione di trasformare i propri sentimenti e le proprie intime convinzioni di fede in «prova di ciò che esiste realmente». E perciò - a cominciare dalla gerarchia cattolica - pretende di essere l'unico difensore della vera scienza, della sana laicità e della stessa dignità umana. Minacciate invece alla radice dal presunto scientismo ideologico dei laicisti.
Ecco, contro un simile ritorno neointegralista al primato pubblico della religione, c'è veramente bisogno non di cedimenti, ma della pazienza costruttiva dei laici. Sorretta sempre dall'«atteggiamento scettico e razionalista» cui spronava anche Darwin. E perciò mai rassegnata. Né cinicamente o superficialmente accomodante.