Sinistra arcobaleno
Bertinotti: la nostra opposizione sarà creativa
Mussi: la sfida è per il governo
La battaglia della Sinistra arcobaleno parte a Torino, nella Conferenza per il lavoro simbolicamente organizzata alla ThyssenKrupp. Mentre il leader Fausto Bertinotti dichiara ormai aperta la «sfida» con il Pd. Scelta discutibile quella di Veltroni, dice il presidente della Camera, ma «del tutto legittima». Anzi, può essere «un incoraggiamento alla sinistra a fare la sua parte costruendo un soggetto unitario e plurale». Una sinistra unita che ha al suo orizzonte il governo del Paese, ma che nell’idea di Bertinotti deve passare per una fase di «opposizione creativa ed influente».
Ma, gli ribatte a distanza Mussi, «non esistono forze politiche che non partano dall’ambizione del governo», anche se può avvenire che la “Cosa rossa” finisca all’opposizione: «È la regola della democrazia, e allora si farà un’opposizione creativa come dice Bertinotti».
Il segretario del Prc Franco Giordano lancia al Pd una «sfida sull’egemonia che però non deve essere distruttiva». E intanto resta l’impegno a costruire una sinistra unita: «Tanto più sarà forte - avverte - tanto più sarà impossibile per chiunque prospettare governi di larga intesa». E, da subito, invita il governo a «mettere mano prima del 13 aprile all’art. 1 comma 4 della legge finanziaria che prevede l’utilizzo di tutto l’extragettito per il lavoro dipendente. Voglio vedere in faccia chi dice no alla detassazione del lavoro, dopo aver fatto intascare 5 miliardi di euro a Montezemolo, a interventi diretti sul tema del lavoro».
Il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio invita a dare «alla Sinistra Arcobaleno l’unico voto utile contro Berlusconi ed ipotesi di inciucio».
Ma nella Sinistra arcobaleno resta aggrovigliato il nodo delle candidature e del simbolo. Decideranno i quattro segretari nel vertice di martedì.
l’Unità 10.2.08
Russia. La mafia tra vecchi e nuovi affari
di Antonio Gramsci jr
Il mio primo contatto con la grande mafia russa avvenne nel 1990. L’impero sovietico agonizzava già da circa un anno. I banchi erano semivuoti, per comprare qualcosa di diverso dal pane e il sale bisognava resistere nelle file interminabili. Il mercato nero invece, con tutta la malavita accessoria, proliferava. Io, giovane biologo, assistente universitario, grazie al mestiere di musicista imparato dal babbo, riuscivo a incrementare il mio reddito miserabile suonando la musica classica con un piccolo complesso in diversi locali di Mosca. Nell’estate di quell’anno il proprietario di un ristorantino, ceceno di nazionalità, ci invitò a suonare musica barocca. Appena arrivati sul posto ci imbattemmo in una baraonda: una folla immensa dei caucasici sovreccitati circondò il ristorante non permettendoci di entrare. Si sentivano degli spari. La situazione diventò subito chiara quando vedemmo le macchine piene zeppe di ragazzoni con le teste rasate, scappare a grande velocità. Della polizia invece non c’era traccia. Si trattava di una banale «razborka», un regolamento dei conti. La potentissima mafia del quartiere di Solnzevo, trattandosi del «suo» territorio decise di accampare diritti sulle entrate di questo locale. I loro capi non avevano studiato storia delle guerre caucasiche e quindi non conoscevano bene l’indole del popolo ceceno. Infatti bastò una telefonata perché quasi tutta la diaspora cecena di Mosca si mobilitasse, in poco tempo, in aiuto del connazionale. Quando ho saputo dell’arresto di uno degli ex-leader della banda di Solnzevo, Semen Moghilevic, effettuato il 24 gennaio a Mosca, non ho provato contentezza maligna ma un pizzico di nostalgia per quegli anni in cui la cronaca nera, una novità per il popolo sovietico abituato alla tranquillità vegetale, ci distraeva dagli stenti del periodo transitorio. Ma chi è questo Moghilevic? Il futuro boss è nato nel 46 a Kiev, si è laureato in economia e si è distinto già negli anni ‘70 con vari imbrogli finanziari per i quali fu due volte messo in prigione. Negli anni ‘90 coordinava l’attività della banda di Solnzevo. Poi emigrò. Non si sa bene di che cosa precisamente si occupava all’estero ma è ricercato da tempo dall’Interpol su richiesta degli Usa che lo hanno incriminato con almeno 45 capi d’accusa tra i quali estorsione, riciclaggio di denaro sporco, vendita di droga, commercio illegale di armi ecc. Il suo business si estendeva a decine di Stati tra cui. E riuscito a procurarsi almeno quattro cittadinanze (ucraina, israeliana, americana e ungherese) oltre a quella russa e spesso cambiava nome. Il suo patrimonio è stimato intorno ai 10-12 miliardi di dollari. Negli ultimi anni viveva tranquillamente a Mosca, non nascondendosi da nessuno, lavorando ufficialmente come consulente della ditta «Everghite». Nel 2003 una piccola società «Eural TransGas» con la sede in Ungheria ottenne dal Cremlino il diritto esclusivo di vendere il gas del Turkmenistan in Europa. Gli osservatori stranieri con grande stupore seppero che l’effettivo padrone della società era proprio Molleggiavi, dopo di che essa sparì. Di lì a poco un’altra società mediatrice «RosUkrEnergo», specializzata in vendita del gas russo in Ucraina, ereditò i poteri della prima. È inutile dire che il nome di Moghilevic riprese a figurare in relazione all’attività di questa nuova società. Se il fatto che Moghilevic era beneficiario segreto del «RosUkrEnergo» sarà provato, lo scandalo toccherà sia il governo russo che quello ucraino. Forse per questo l’unico capo d’imputazione per cui sarà processato in Russia è molto modesto: il mancato pagamento delle tasse della rete dei negozi di profumi «Arbat Prestia» gestiti insieme a Vladimir Nekrasov, arrestato anche lui, e che riguarda solo un piccolo segmento dell’attività di Moghilevic. Tutti in Russia sanno che un’accusa del genere è spesso il pretesto con cui il regime si sbarazza dei personaggi scomodi. Le autorità russe effettuano il controllo sulle risorse del Paese in modo apparentemente del tutto legale, attraverso parenti e amici che rivelano miracolosamente doti eccezionali in economia. Quindi l’arresto di una figura importante come Moghilevic può significare che queste autorità hanno deciso di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con cui si collegavano agli «uomini d’onore». La Russia, nonostante tutto, con l’aprossimarsi delle elezioni presidenziali, vuole sembrare un Paese per bene. Un’altra interpretazione, forse più realistica, associa l’arresto del mafioso alle lotte interne alla Gazprom. Non è escluso che questo arresto sia il primo passo verso la liquidazione del «RosUkrEnergo», energicamente voluta dal nuovo primo ministro ucraino Jiulia Timoscenko, con la quale il governo russo vuole instaurare buoni rapporti. Ovviamente tutta la verità non la sapremo mai.
l’Unità 10.2.08
L’intima penombra dell’ultimo Tiziano
di Renato Barilli
GRANDI MOSTRE La rassegna veneziana celebra il maestro di Pieve di Cadore con una raccolta di dipinti degli ultimi 25 anni della sua vita. Un periodo in cui Il Vecellio predilisse le ambientazioni chiuse agli spazi aperti
Decisamente manca una buona programmazione, tra i vari eventi espositivi che costellano il nostro Paese, succede così che temi alquanto simili vengano affrontati in luoghi e in periodi di calendario assai vicini, invece di mantenere le opportune distanze. Un esempio clamoroso ci è fornito dal tema cosiddetto dell’ultimo Tiziano, affrontato sul finire dell’estate scorsa da Belluno, certo con la legittimità che veniva a quella provincia dal fatto di contenere la città natale dell’artista, Pieve di Cadore, coinvolta nella celebrazione. Ma in quell’occasione gli organizzatori hanno fatto molta fatica a procurarsi un numero apprezzabile di tele «ultime» del maestro, dovendo ricorrere ad opere meno autorevoli, di scuola o di incerta autografia. Pare incredibile che non fosse a loro conoscenza l’imminente arrivo di una rassegna assai più qualificata, sul medesimo periodo del grande Vecellio, e in una sede massimamente deputata quali le veneziane Gallerie dell’Accademia, che oltretutto si sono assicurate la collaborazione di un altro istituto maggiore, il Kunsthistorisches di Vienna, dove la mostra sarà trasferita dopo la tappa sulla Laguna. In questo caso, non c’è proprio nulla da desiderare, i capolavori tizianeschi figurano al gran completo, passeranno anni prima che si possa riproporre qualcosa di pari ricchezza.
Aprendo il catalogo, la Ferino-Pagden si chiede se sia davvero legittimo ragionare attorno a un «ultimo Tiziano», includendo nella periodizzazione all’incirca un quarto di secolo, dal 1550 fino alla morte dell’artista (1574). La sua risposta è affermativa, e anche il mio parere è assolutamente concorde, anche se beninteso l’intero percorso tizianesco si dà nel segno di una grande coerenza, riassumibile, questa, in una formula esatta per quanto scontata, quella che ne fa il massimo cultore del tonalismo. Ciò significa che tutte le sue composizioni, fin dai primi passi, sapevano magicamente realizzare il grande connubio, i corpi, pur maestosi, di prospere e gonfie anatomie, e gli oggetti risultavano immersi in ampi orizzonti, sotto la volta di cieli alti, spaziosi, ben ventilati. Un trattamento unico, in cui il colore, oltre a modellare la forma, ne indicava anche la collocazione nello spazio, incaricandosi di graduare sapientemente gli effetti atmosferici. Tutto mirabilmente orchestrato, fuso, controllato.
Che cosa succede, al Tiziano ultra-sessantenne, entrato appunto nella sua serena vecchiaia? Bisogna invocare gli acciacchi dell’età, la vista che diminuisce, la mano che trema? Certo è che l’artista, detto in termini attuali, si dà a ricorrere a zoomate successive, si approssima ai suoi temi, figure e ambienti, se li porta a breve distanza, forse perché l’occhio non domina più le grandi distanze, e la mano chiede un approccio di specie tattile, quasi da lasciar cadere il pennello e andare a dipingere con i polpastrelli, stabilendo un contatto diretto con le cose. Inoltre l’artista «da vecchio» sembra temere lo spazio aperto, la luce diurna, preferisce chiudersi in una stanza, amministrare una luce parca, endogena, prodotta da qualche torcia, da qualche fiamma, o addirittura nascente per fosforescenza dai materiali impiegati per rendere gli sfondi. Ed ecco il risultato miracoloso, così bene attestato dai capolavori qui riuniti, solo che a indicizzare tanta epifania risulta un po’ fatuo e generico il sottotitolo dato alla mirabile raccolta, «la sensualità della pittura», un’epigrafe che si adatterebbe a tanti altri pittori. Inoltre è distinzione solo di comodo quella che pretende di classificare a parte ritratti, temi sacri e temi mitologici, come se la ricetta pre-impressionista qui messa in opera non fosse unica.
Basterà andare a verificarla sul dipinto di più vaste proporzioni, quasi un quattro metri per quattro, che del resto è conservato proprio all’Accademia, la Pietà, che l’artista aveva eseguito per la sua tomba: dove i corpi, di Cristo, della Madonna, degli altri astanti, sono come sbocconcellati, frammentati, per meglio farli entrare nella nicchia del sacello, che li attende quasi come uno strato di sabbie mobili pronte a inghiottire la preda, ma intanto strani bagliori, quasi fuochi di S.Elmo, fiammelle spiritate, li illuminano di riflessi sinistri. Un altro capolavoro ben noto è quello dedicato al crudele scuoiamento di Marsia, colpevole di aver sfidato le ire del dio Apollo, ed è quasi un’opera simbolica della stessa modalità seguita dal Tiziano ultimo, che infatti fa delle azioni umane e dei dati ambientali come un tappeto continuo, un’epidermide illimitata, e poi si dà a scotennarla, come un indiano farebbe con gli scalpi, per poi andare a inchiodarla su una nuova superficie. Quanto alle Danai, che nude attendono di essere fecondate dalla pioggia di monete in cui si cela la libidine di Giove, esse affondano i loro corpi biancheggianti nella palude di coperte dozzinali, di giacigli apprestati per amori mercenari, mentre la pioggia di monete pare quasi un materializzarsi dei raggi di luce in densi granuli. Che «questo» Tiziano proceda per zoomate successive, lo si vede bene nel tema di Tarquinio e Lucrezia, affrontato più volte dall’artista, ma con riduzione progressiva delle distanze tra i due corpi, sempre più uniti nel rapporto omicida, affondanti insieme, carnefice e vittima, in un oscuro abisso.
l’Unità lettere 10.2.08
Ingerenza della Chiesa, perché l’Italia non fa come la Spagna?
L’atteggiamento della Chiesa Cattolica in Italia ed in Spagna sembra ormai uguale: intromettersi indebitamente negli affari interni dei Paesi che ne ospitano l’attività, sborsando tra l’altro somme cospicue a suo favore e sostegno: 5 miliardi di euro l’anno in Spagna, da 6 (stima de “la Repubblica) a 9 (stima del matematico Piergiorgio Odifreddi) miliardi in Italia.
Diverso è però l’atteggiamento delle istituzioni politiche verso la Chiesa Cattolica: succubi quelle italiane, gelose della propria autonomia e dignità quelle spagnole, che nei giorni scorsi hanno minacciato di ridurre i contributi statali se le autorità ecclesiastiche non si mostrano equidistanti nella contesa politica. In Italia non ho mai sentito avanzare una simile minaccia, né da destra né da sinistra, perché una spolveratina di cattolicità su programmi e comportamenti politici sembra ricercata un po’ da tutti, il coraggio della laicità è una merce sempre più rara, fenomeno di nicchia, ma se uno il coraggio non ce l’ha... come diceva Manzoni. È una democrazia molto giovane quella spagnola, ma ha già parecchio da insegnarci.
Giovan Sergio Benedetti, Lucca
Repubblica 10.2.08
Il patto democratico tra operai e borghesia
di Eugenio Scalfari
Un tema che impegnerà in pieno la nuova legislatura sarà quello delle questioni "eticamente sensibili"
Ci sono ancora, da una parte e dall´altra dei due schieramenti, larghe zone di resistenza alla collaborazione reciproca sulle riforme
L´esempio del Partito democratico è contagioso: Berlusconi si agita, il centrodestra è in subbuglio, Casini minaccia di imboccare un percorso separato se non potrà confederarsi conservando autonomia, ma anche la base di An non resterà elettoralmente indifferente alla piroetta di Fini e dei suoi colonnelli, già da tempo berlusconiani.
Alla sinistra del Partito democratico un altro processo semplificatorio è egualmente in corso. Anche lì con alcune non trascurabili difficoltà. Le sigle scompaiono ma il vento potente delle elezioni cancellerà inevitabilmente le microscopiche oligarchie dell´uno virgola che tanto hanno rallentato e debilitato il percorso del governo Prodi.
La ditta Diliberto scomparirà senza traumi rientrando nella casa da cui era uscita qualche anno fa. Per i Verdi l´abbraccio con la sinistra sarà assai meno semplice e non basta certo la parola «arcobaleno» nel logo elettorale a preservarne la missione cui del resto avevano già da tempo rinunciato.
L´esperienza dei partiti ambientalisti in Europa ci dice che essi, se non hanno la forza di presentarsi da soli al corpo elettorale, sono destinati a scomparire o debbono scegliere di fare da lievito ambientalista in un contenitore ampio. Stemperarsi nel Partito democratico poteva avere un senso, nella sinistra radicale non ha senso alcuno ed equivale ad un decesso annunciato.
La funzione rinnovatrice del Partito democratico sull´intero sistema politico è talmente evidente che tutti gli osservatori e commentatori l´hanno colta e sottolineata. Rappresenta un robusto passo avanti verso un bipolarismo meno imperfetto e, perché no? verso un bipartitismo che metterebbe finalmente il nostro paese al passo con le altre democrazie occidentali, gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Spagna, tanto per citarne le principali.
Ma gli effetti innovatori non si fermano qui. Altri se ne profilano non meno importanti e non privi di rischi.
L´appuntamento elettorale ne mette in prima fila alcuni, la fase successiva ne farà emergere altri dei quali tuttavia è fin d´ora possibile e utile segnalare la natura.
* * *
In prima fila ci sarà il programma economico, in corso di avanzata stesura da parte d´un ristretto gruppo di competenti che si valgono di qualificati contributi: Morando, che guida l´équipe, Boeri, Visco, Bersani ed altri ancora. Si sa fin d´ora che le liberalizzazioni vi avranno ampio spazio. Il rifinanziamento dei salari e del potere d´acquisto dei redditi bassi e medi altrettanto. L´incremento di produttività e di competitività delle imprese. Il nuovo "welfare" configurato per bilanciare la flessibilità del lavoro.Nel complesso la parte redistributiva del programma economico avrà come base i provvedimenti già predisposti da Prodi, Padoa-Schioppa e Visco nell´ultima fase di quel governo prima della crisi, con in più interventi di detassazione e di riduzione della pressione fiscale.
Questo complesso di misure che il gruppo dirigente del Partito democratico ha ben chiare in mente dovrebbe anche avere un effetto anticongiunturale e anti-recessivo. I sintomi di rallentamento economico sono ormai evidenti in Usa e in Europa; soprattutto in Germania, con effetti diffusivi nelle altre economie dell´Unione europea.
L´Italia da questo punto di vista offre possibilità di intervento anticiclico maggiori che altrove, i redditi individuali consentono e anzi richiedono incrementi capaci di rilanciare i consumi; le liberalizzazioni insieme a radicali interventi di riforma del sistema distributivo potrebbero stabilizzare i prezzi anche di fronte ad un aumento della domanda.
Per converso c´è carenza di manodopera qualificata. Questa è una strozzatura grave alla quale bisognerebbe far fronte con offerte di lavoro a tecnici e manodopera qualificata straniera.
Si tratta insomma di un insieme complicato che richiede collaborazione tra governo, sindacati, imprenditori, commercianti, agricoltori, banche. Mercato e regole di mercato. Un «mix» appropriato per un partito riformista affiancato da un patto sociale che garantisca un appoggio di base.
* * *
Capitalismo democratico e nuovo patto sociale: così si può definire un programma idoneo all´attuale fase storica e addirittura dell´attuale andamento di «stagflation» del ciclo economico mondiale.Per attuare un programma del genere è necessario sollecitare la collaborazione del centrodestra o offrire quella del Partito democratico, secondo che la vittoria elettorale arrida all´una o all´altra parte?
Tutti ci auguriamo che nella nuova legislatura l´opposizione sia esercitata in modo costruttivo e che la maggioranza ascolti i suggerimenti dell´opposizione, ma di qui a governi di larghe intese ci corre un mare. Io ritengo che le larghe intese siano sconsigliabili, più d´intralcio che di giovamento. La maggioranza ha il compito di stabilire le priorità e le modalità della politica economica, l´opposizione quello di suggerire modifiche e appoggiare specifiche misure di generale interesse. Niente di meno ma niente di più. Ma in altri campi la collaborazione tra le parti politiche contrapposte è invece necessaria laddove si parli di riforme istituzionali e costituzionali, non disponibili a maggioranze risicate ed occasionali.
* * *
Ci sono ancora, da una parte e dall´altra dei due principali schieramenti, larghe zone di resistenza alla collaborazione reciproca sulle riforme istituzionali.Bisogna vincere queste resistenze che non hanno alcuna valida motivazione. Si tratta di riformare la legge elettorale affinché il pessimo sistema attuale sia modificato recuperando la libertà degli elettori di scegliere i loro candidati, magari affidando tale compito a consultazioni primarie previste per legge. Bisogna anche varare un sistema proporzionale con elevate soglie di sbarramento, riformare i regolamenti parlamentari, e soprattutto il finanziamento pubblico: quello che è recentemente accaduto in Parlamento con la connivenza di tutti i gruppi è semplicemente vergognoso e deve essere a nostro avviso immediatamente cancellato fin dall´inizio della prossima legislatura. Infine bisognerà istituire il Senato federale in corso di legislatura.
Ma anche l´ordinamento giudiziario richiede una collaborazione bipartisan con l´occhio fisso al problema dei problemi che è quello dei tempi per una rapida giustizia. E´ imperativo che il processo sia riformato e la giurisdizione esercitata con efficienza e rapidità. Lo si promette da decenni senza che alle parole siano mai seguiti i fatti. Non è più possibile andare avanti in questo modo nell´erogazione di un servizio pubblico fondamentale.
A nostro avviso queste e non altre sono le riforme da affrontare insieme. Su tutto il resto la maggioranza e il suo governo siano responsabili di attuare il proprio programma, l´opposizione eserciti uno stretto controllo parlamentare e proponga valide alternative.
* * *
Un tema che impegnerà in pieno la nuova legislatura sarà quello delle questioni «eticamente sensibili»; per dirlo in modo più concreto e semplice, il rapporto corretto tra i cattolici e i laici o meglio ancora tra la gerarchia ecclesiastica e le istituzioni della Repubblica, laiche per definizione.Da questo punto di vista sono rimasto allibito (e non credo di esser stato il solo) leggendo sui giornali di ieri che Casini, dopo lo scontro con Berlusconi e Fini, si sia consultato sul da fare con il cardinale Camillo Ruini che sarebbe stato largo di suggerimenti e forse anche di interventi conciliativi tra l´una e l´altra fazione. Allibito. Qui non c´entra l´uso dello spazio pubblico che nessuno contesta alla gerarchia ecclesiastica. Qui un leader di partito sollecita l´intervento del cardinal vicario in una disputa tra forze politiche e il cardinale interviene. Così ho letto e mentre scrivo non mi risulta alcuna smentita da parte degli interessati.
Contemporaneamente Giuliano Ferrara lancia l´idea di una lista, collegata con il partito di Berlusconi e di Fini, che abbia come programma la moratoria contro l´aborto. Una lista siffatta, dopo che la gerarchia ecclesiastica con il conforto esplicito del Papa ha fatto sua la campagna di Ferrara, si configura come l´entrata in campo elettorale e politico dei vescovi italiani. In mancanza d´una pubblica sconfessione di quell´iniziativa, la lista sulla moratoria è dunque la lista della Cei. Se quest´iniziativa si materializzerà penso che il Partito democratico non possa sottrarsi a denunciare un´invasione di campo di proporzioni inaudite con tutte le inevitabili conseguenze che essa avrà sulla campagna elettorale e i contraccolpi sul rapporto fra le istituzioni laiche e quelle religiose.
* * *
C´è ancora un aspetto dell´entrata in campo del Partito democratico che merita di essere affrontato. Sarà un partito di sinistra o di centro? Le opinioni degli osservatori sono sul merito discordi mentre quelle dei diretti interessati sono univoche: sarà un partito di sinistra riformista.Personalmente la penso come loro: un partito di sinistra riformista che ha utilmente segnato un confine con la sinistra massimalista senza tuttavia che quel confine sia presidiato da un muro invalicabile.
La novità è notevole. Nenni aveva fatto qualche cosa di simile nel 1963, aveva rotto il patto d´unità d´azione col Pci fin dal ´57 dopo i fatti d´Ungheria, ma non c´era nessun muro tra i due partiti. Come non ci fu ai tempi di Craxi, almeno nelle parole. Ci fu nei fatti. Craxi faceva mostra di poter usare i due forni (quello della Dc e quello del Pci) per rendere ancor più forte il potere d´interdizione del suo 10 per cento dei voti e in gran parte ci riuscì.
E´ un fatto tuttavia che la sinistra massimalista o comunista ha esercitato un potere rilevante su quella riformista nel sessantennio di storia repubblicana. Il senso comune attribuisce al Pci la responsabilità di questa deformazione della democrazia italiana rispetto alle altre democrazie europee, ma non sempre il senso comune coincide col buonsenso. E´ certamente vero che il Pci ebbe in tempi di guerra fredda questa responsabilità, ma nessuno ha il buonsenso di domandarsi perché il Pci ebbe un peso determinante nella sinistra italiana mentre non lo ebbe (o addirittura non esisté) nelle altre democrazie europee.
Perché? Non è una curiosità storiografica poiché la questione ha riverberi sulla nostra attualità. La risposta potrebbe essere questa. Il Pci ebbe gran peso perché la borghesia italiana fu percorsa sempre da tentazioni trasformistiche e/o eversive e non dette mai vita ad una destra liberale di stampo europeo.
Il Partito democratico – così mi sembra – sfida oggi una destra demagogica e interpella quel poco che c´è di autentica borghesia produttiva affinché si schieri con le forze dell´innovazione che uniscono insieme i valori della libertà e dell´eguaglianza.
Dipende da questa borghesia se il partito delle riforme avrà la meglio stimolando anche – se vincerà – la destra a trasformarsi non solo nelle forme ma nella sostanza.
Corriere della Sera 10.2.08
La Cina e i diritti
Pechino non può avere una sua democrazia
di Ian Buruma
Poco più di due settimane fa, a Davos, dove si sono riuniti i Grandi & Bravi del pianeta, Kenneth Roth, direttore esecutivo dell'Ong Human Rights Watch, ha rivolto una garbata quanto pungente domanda a Pervez Musharraf, l'uomo forte del Pakistan. Come possiamo fare affidamento sulla Corte Suprema pachistana quale garante della regolarità delle future elezioni, si chiedeva Roth, quando Musharraf ha rimosso tutti i giudici contrari al suo regime autoritario? Al che, il presidente Musharraf ha perso la calma. Come poteva Roth (un americano) pretendere di «imporre » i suoi «valori europei» sul popolo pachistano? Il Pakistan, ha aggiunto, ha le proprie idee in merito a democrazia e diritti umani. Di più: quel che Musharraf sta elargendo non è un concetto qualsiasi di libertà all'occidentale, bensì «l'essenza della democrazia ».
Fu sempre Kenneth Roth a infastidire, nel giorno che ha preceduto questo avvincente scambio d'idee, un altro funzionario di un Paese extraoccidentale: l'influente diplomatico cinese Wu Jianmin. La Cina, rimarcava Roth, non è una democrazia, ragione per cui non si può pretendere che promuova la società civile nel resto del pianeta, ma può senz'altro adoperarsi maggiormente per fermare le atrocità di massa che dilaniano Paesi come il Darfur. Al che, l'ambasciatore Wu si è lanciato in un appassionato discorso intorno alla «democrazia cinese» e alla follia degli occidentali intenti a «imporre» agli altri il proprio ideale di democrazia.
Lo stesso sentimento fu esternato da una portavoce del governo cinese dopo che Hu Jia, noto attivista dei diritti umani, era stato arrestato lo scorso dicembre con l'accusa di «istigazione alla sovversione dei poteri dello Stato». Il suo reato? Aver raccontato sul proprio sito Web episodi di violazione dei diritti umani. Secondo la portavoce del ministero degli Esteri, «il popolo cinese è il miglior giudice della condizione dei diritti umani in Cina ».
Argomenti del genere non suonano nuovi e forse, complice l'uso troppo frequente, iniziano a logorarsi e sbiadire. Eppure, riecheggiano tuttora in diversi ambienti in cui la «colpa coloniale» continua ad alterare qualsiasi percezione del mondo in via di sviluppo. Ancor più importante, probabilmente, riecheggiano tra gli uomini d'affari, che avvertono il bisogno di una giustificazione morale ai profitti intascati in Paesi antidemocratici: «È la loro cultura. Chi siamo noi per imporre… ».
Tutto ciò impone alcune considerazioni. Anzitutto, l'Occidente ha molto raramente— ammesso che l'abbia mai fatto — «imposto» la democrazia su un altro Paese. Se ciò fosse avvenuto, forse il mondo sarebbe un posto migliore. Un certo qual sostegno di facciata alla democrazia è stato manifestato dopo l'invasione dell'Iraq, ma soltanto pochi membri dell'amministrazione Bush hanno nutrito un vero interesse per l'affermazione di libere istituzioni. In quanto alla questione birmana, i governi occidentali non possono fare molto di più che predicare la democrazia e i diritti umani. In Cina hanno rinunciato anche a questo. Gli interessi economici sono semplicemente troppo importanti. Senza il denaro dei cinesi, l'economia statunitense sprofonderebbe in guai persino più gravi di quelli attuali.
Ora, è pur vero che ogni Paese ha la sua storia e la sua cultura. Spesso, tuttavia, la cultura — intesa come «costumi» e «tradizioni » — altro non è che un paravento per il compromesso politico. I sostenitori della democrazia in Paesi come Cina, Pakistan o Birmania non accusano l'Occidente di volere imporre i suoi valori; solo gli autocrati lo fanno. Fino a qualche decennio fa, si faceva un gran parlare, soprattutto a Singapore e in Malaysia, di «valori asiatici». Obbedienza all'autorità, sacrificio dell'interesse personale sull'altare di quello che i governi additavano come l'«interesse nazionale», accettazione di restrizioni alla libertà di espressione: tutto ciò veniva rivendicato come una specificità asiatica, qualcosa che era insito nel Dna culturale di tutti i figli dell'Asia. In realtà, si trattava soltanto di una giustificazione alla politica autoritaria ereditata da personaggi come i primi ministri Mahathir Mohamad e Lee Kuan Yew direttamente dall'Impero britannico.
Mentre imperversava la propaganda dei «valori asiatici», i cittadini sudcoreani, taiwanesi, thailandesi, cinesi e filippini davano vita a enormi manifestazioni di protesta contro i leader autoritari dei rispettivi Paesi. In Corea del Sud e in Taiwan, così come — seppur in modo più discontinuo — in Thailandia e nelle Filippine, hanno riscosso un certo successo. E, più di recente, il popolo birmano per che cosa ha rischiato la propria vita, se non per una piena conquista di quelle che Musharraf liquida come «imposizioni culturali degli europei»? Quello a cui essi aspirano non è la nostra cultura, ovviamente, bensì il ventaglio di libertà che noi diamo ormai per scontate.
Quando entrano in ballo i diritti umani, e non soltanto quelli politici (sebbene le due categorie siano ovviamente correlate), tutto rischia di farsi più complicato. Non sempre è facile stabilire quando un «diritto umano» sussiste o meno. Il lavoro infantile, ad esempio, può risultare una necessità in Paesi estremamente poveri. Tentare di porvi fine in nome dei «diritti umani» può peggiorare le cose per la popolazione, anziché migliorarle.
Resta il fatto che, come si diceva, la cultura è sovente un misero paravento all'offesa della dignità umana. La schiavitù o la circoncisione femminile sono indubbiamente iscritte in alcune culture, proprio nella misura in cui rappresentano pratiche tradizionali. Fino a che punto l'Occidente possa — o debba — intervenire direttamente, è questione assai ardua. Il sostegno della popolazione locale è un fattore cruciale, quando sul piatto c'è la promozione di riforme e cambiamenti culturali. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, siglata nel 1948 da Cina, Birmania e Unione Sovietica, assieme a molti altri Paesi, riceverebbe indubbiamente il sostegno della maggioranza della popolazione mondiale, quale che sia la nazione di appartenenza. È arduo immaginare che il popolo cinese, pachistano, nordcoreano o dello Zimbabwe possa pronunciarsi a favore della tortura, degli arresti arbitrari o dell'illegalità per ragioni culturali.
Il problema è che tali diritti possono essere garantiti soltanto in presenza di determinate condizioni politiche. Nessun partito o leader dovrebbe essere al di sopra della legge. E i cittadini non dovrebbero essere arrestati per aver criticato in modo pacifico il proprio governo. Occorre dunque porre in essere le procedure e i meccanismi necessari per risolvere in via pacifica i conflitti d'interesse politici o cambiare il governo al potere in questo o quel Paese, se tale è la volontà della maggioranza della popolazione. Le istituzioni in grado di realizzare questi obiettivi possono ispirarsi a diversi modelli, a seconda della cultura e delle circostanze locali. Ma possono essere tutte efficacemente descritte da un'unica parola, di cui si è molto abusato in questi ultimi anni, e che tuttavia conserva ancora sufficiente potere per ispirare gli animi, a Pechino e a Rangoon non meno che a Barcellona o a Washington: democrazia.
Traduzione di Enrico Del Sero
Corriere della Sera 10.2.08
Omaggi. Firenze: 50 opere di Ottone Rosai a Palazzo Medici Riccardi
Si contraddice, ma è geniale
di Giorgio Cortenova
Firenze rende omaggio ad Ottone Rosai (1895-1957) con una rassegna di 50 lavori in cui sono racchiuse le contraddizioni di questo straordinario cantore della solitudine umana.
Si parte da Follie estive (1918), un Rosai che conosciamo, ma anche quello ancora poco noto e indagato, come nel caso di Nudo disteso ('47),
Atleta ('48), Nudo di ragazzo ('50), opere in cui la forza plastica della forma rivela tuttavia la violenza dell'essere e la corruttibilità del corpo.
Impulsivo, irrequieto, autodidatta, diverso in tutto oltre che nella sessualità, nel '13, a soli 18 anni, Rosai entra in contatto con il gruppo futurista di Soffici, Carrà, Severini, e l'anno dopo espone con loro a Roma da Sprovieri. Tra futurismi ed entusiasmi bellici, Ottone si arruola per la Grande Guerra e porta al fronte la sua esaltazione, consumando ardimenti e ricavandone medaglie. Torna ancora più arrabbiato, violento e insoddisfatto.
Nasce qui la contraddizione del suo profilo creativo. Rosai vive in un modo e dipinge in un altro: adesso guarda al Cézanne dei Giocatori di carte e la sua pittura è incline all'intimismo e alla povera vita del popolo, mentre tutti i clamori e le bravate squadriste, che spesso lo vedono protagonista, rimangono fortunatamente fuori dallo studio.
Un tale, geniale sdoppiamento di personalità, è testimoniato in mostra da opere come Via Toscanella
('22), un vero e proprio manifesto di quei silenzi che rilanciano in una sorta di respiro metafisico le realtà «minori» delle antiche viuzze fiorentine; e poi Donne alla fonte, Vallesina, Alla rotonda, altrettante tappe fondamentali del suo fare pensieroso che, a partire dagli anni Venti, arricchisce il suo percorso creativo.
Così focoso, maramaldo e perfino violento, dipinge gli emarginati forse perché emarginato si sente egli stesso, con quella sua omosessualità così poco occultata che, visti i tempi, nel '38 quasi gli procura il confino. Spesso dipinge intingendo il pennello nel colore mescolato al lattice di fico, affinché la pasta si rapprenda meglio sui vicoli che svoltano bruscamente verso gli enigmi di ogni giorno. Di quei misteri quotidiani, che opprimono e però nobilitano la sua umanità dolente, egli diventa il «narratore» inesausto, la cui grandezza è stata solo in parte riconosciuta, per ragioni alternativamente ideologiche o moralistiche.
OTTONE ROSAI Firenze, Palazzo Medici Riccardi, sino al 25 marzo. Tel. 055/2760340 Rosai: «Via Toscanella» (1922)
Liberazione 10.2.08
Il messaggio di Bertinotti
Il conflitto di lavoro, come conflitto di classe, centro della politica
Care compagne e cari compagni, vorrei non farvi mancare un partecipe augurio di buon lavoro. Ce n'è bisogno.
La sinistra in Europa si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella da cui dipende la sua stessa esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta: quel che si affaccia all'orizzonte è il rischio di un vero e proprio declino. Non ci può sfuggire che c'è l'urgenza del fare per evitare che la sinistra venga sradicata dal paese e c'è l'urgenza del fare perché una diversa prospettiva possa essere aperta. E una diversa prospettiva può essere davvero aperta. Dipende da noi.
Proprio quel che ha trasformato negli ultimi 25 anni il lavoro salariato, ridefinendo le forme dello sfruttamento e dell'alienazione, è al centro della sfida.
La precarietà ha occupato la scena sociale spezzando la coalizione del lavoro. La terribile realtà che emerge con i morti sul lavoro alla Thyssen, proprio nella città che è stata quella del modello operaio sull'ambiente e la salute, il modello di Ivar Oddone e del sindacato dei Consigli, lo dice forse più di ogni altra cosa.
Quel che è successo in questi anni è impressionante: un vero e proprio rovesciamento del rapporto tra lavoro e società rispetto al ciclo precedente, quello dell'ascesa del proletariato. In quello il lavoro è stato centrale, è stato il fondamento del conflitto di classe che ha caratterizzato, in Europa, la politica. Lo stesso pensiero liberale ne ha dovuto riconoscere il carattere progressivo. Un'intera letteratura sociologica ha studiato il conflitto come spinta all'innovazione del processo produttivo e delle relazioni sociali, e, ancora, come stimolatore dell'economia. Concretamente, quel conflitto è stato la levatrice del compromesso sociale e democratico, ha segnato le istituzioni, il diritto e la politica. Dopo aver informato di sé il processo costituzionale democratico (basti pensare agli articoli 1 e 3 della Costituzione italiana), ha, nei suoi punti alti, influenzato la legislazione (si pensi, in Italia, allo Statuto dei diritti dei lavoratori, e, in generale, alla legislazione sociale).
Se si fa il confronto con questo ciclo, quello dell'ascesa della classe operaia, non si può che giungere alla conclusione che il rapporto tra il lavoro, l'impresa e la società, in questi ultimi decenni, è stato rovesciato. Il lavoro è diventato la variabile dipendente del sistema economico. La tendenza a ridurlo ad una sola dimensione, quella di merce, e a sussumerlo tutto dentro l'accumulazione, è la base materiale (ma anche il fondamento culturale) dell'edificazione di un capitalismo totalizzante che si propone la colonizzazione della mente e del corpo come di ogni aspetto della vita. E ciò che viene usato dall'impresa è anche ciò che viene negato come riconoscimento al lavoratore, cioè la socializzazione del lavoro, la cultura e la sua esperienza di vita. La macina lavora nel profondo per ridurre la civiltà a ciò che resta compatibile con la globalizzazione capitalistica; per dissolvere la storia e il tempo nell'istante; per incanalare la vita intera nel circuito produzione-consumo di cui il mercato diventa il sovrano.
Il conflitto di lavoro, come conflitto di classe, fondamento della politica della trasformazione, torna dunque ad occupare la scena della politica. Non ci sono vie di fuga; il toro va afferrato per le corna. La sinistra deve affrontare la sfida del lavoro salariato contemporaneo, sia sul terreno pratico che teorico, sia sul versante del conflitto e della sua organizzazione, che sui rapporti sociali, sia sulle proposte per una nuova legislazione del lavoro e sociale che sui sistemi e i contenuti contrattuali, sia sui termini quotidiani della contesa che su quello strategico di società. E deve farlo in proprio, anche in nome della messa a valore dell'autonomia tra partito e sindacato. La riorganizzazione della presenza fisica delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi della decisione politica si pone, allora, non come cooptazione ma come fattore della riforma della politica e della forma partito. L'inchiesta permanente e partecipata sul lavoro non è solo un elemento di ricchezza e di qualità per la politica della sinistra e per il suo soggetto politico, essa è un utensile del lavoro sociale, politico e culturale senza il quale non si esce dalla superficialità della politica e non si imbocca la via di un approccio critico e sistematico alla grande questione che è tornata a farsi per molti versi dirimente rispetto alla natura della sinistra, la questione del lavoro.
Come diceva chi se ne intendeva, l'opera di liberazione delle lavoratrici e dei lavoratori non può essere che opera dei lavoratori stessi. Ripartiamo da qui, buon lavoro e buona fortuna.
Fausto Bertinotti
Liberazione 10.2.08
Ripartiamo da qui oppure la sinistra muore
di Piero Sansonetti
Alle ore 14 di ieri, a Roma, è morto un operaio che lavorava in un cantiere edile, schiacciato da una ruspa. E' successo a Forte Bravetta, periferia ovest. Il nome? Non lo sappiamo, e se pure lo sapessimo potete stare sicuri che nessuno ci farebbe caso a quel nome. Aveva 65 anni. Evidentemente non aveva maturato i contributi per la pensione. Voi sapete che gran parte del mondo politico italiano considera scansafatiche quelli che magari a sessant'anni, dopo una trentina di anni passati alla catena di montaggio con un un piccolo stipendio, vorrebbero andarsene il pensione a riposarsi, e pesare - senza rimorsi - sul bilancio dello Stato. L'operaio di Forte Bravetta non costerà una lira allo Stato. Non peserà.
Che gli operai esistano ancora - talvolta muoiono, sempre faticano, sempre soffrono - che la ricchezza di questo paese sia prodotta - come secoli fa - da loro, dai lavoratori, e da nessun altro; che i lavoratori vivano una situazione sempre più dura, faticosa, difficile, anche di oppressione; che per la prima volta da molte e molte decine di anni la condizione dei lavoratori sia peggiorata (dopo due secoli di conquiste e avanzamenti), sono tutti argomenti completamente assenti dal dibattito politico nazionale e dalle analisi e dai pensieri e dalle preoccupazioni dei suoi principali leader. Avete sentito parlare di queste cose nei mesi scorsi (per esempio quando sono state fatte le leggi sul mercato del lavoro, sul welfare, sulle pensioni) o ne avete sentito parlare in queste prime ore di campagna elettorale?
Non ne avete sentito parlare. Per questo la conferenza dei lavoratori organizzata dal Prc ieri a Torino, davanti alla ThyssenKrupp, è stata un avvenimento politico molto importante e originale. Voglio sbilanciarmi, osare: più importante del comizio di ieri di Berlusconi, più importante del dramma di Pierferdinando Casini offeso dai suoi amici della destra. Il Prc è partito da lì: ha chiamato i lavoratori e ha chiesto loro di parlare, di dire cosa pensano, come vivono, cosa vogliono, a cosa può servire loro la politica. Hanno risposto: «Ci sentiamo soli, siamo incazzati, abbiamo bisogno di rovesciare gli attuali rapporti di forza tra noi e la società, noi e l'impresa, noi e la fabbrica, noi e la politica. E hanno chiesto alla sinistra: davvero hai voglia di nascere e di diventare un nostro interlocutore e di porre il lavoro al centro della politica e del progetto di riorganizzazione della società e del mercato? Se è così puoi contare su di noi. Ci saremo, come ci siamo sempre stati nei momenti decisivi. Ma se non sei in grado di fare questo, se ti chiudi nei burocratismi, se pensi che la politica sia tuta tattica, accordi, diplomazie e opportunità, allora non bussare più alla nostra porta...»
La conferenza operaia del Prc è stata una grande iniziativa politica, piena di dramma e anche di speranza. Ci ha detto una cosa chiarissima: se vogliamo davvero costruire la sinistra nuova, quella del XXI secolo, dobbiamo ripartire proprio da qui, dalla lotta per smantellare le gerarchie economiche, sociali, umane che regolano la nostra società, e che negli ultimi decenni - spinte dal liberismo e dal pensiero unico - sono diventate piramidi feroci, autoritarie, prepotenti, di dominio. Oggi le grandi forze della destra e del centro moderato lavorano per rafforzare quella piramide e qul dominio (sottomettendo i lavoratori, sottomettendo le donne, gli immigrati eccetera), perché pensano che sia l'unico modo per governare una società complessa e la globalizzazione. Pe opporsi la sinistra può partire solo da un nuovo patto, una nuova alleanza coi lavorato
Liberazione 10.2.08
«Il Vaticano odia le donne. Da sempre»
di Laura Eduati
Piero Bernocchi dei Cobas è entusiasta: «L'invadenza del Vaticano spinge sempre più persone al corteo No Vat. La politica? E' naturale che non venga, terrorizzata com'è dall'apparire anti-clericale». Eppure spuntano parlamentari di Rifondazione tra le mitre di cartone "Lesbo pride" e i diavoli col "frocifisso". «Questo corteo è di movimento» commenta Titti De Simone, «meglio lasciare a loro la parola. La Sinistra l'Arcobaleno deve portare come segno distintivo la laicità, altrimenti è inutile». Con lei Elettra Deiana, Vladimir Luxuria e Imma Barbarossa.
Negli ultimi mesi sono aumentati i motivi della protesta anti-Ratzinger: dall'episodio della Sapienza all'attacco contro la 194 fino al rimprovero da parte del Pontefice, notizia di ieri, nei confronti delle politiche che cancellano la differenza tra uomo e donna.
Gay e donne nel mirino, come sempre. Ecco perché immediatamente dopo la testa del corteo sfilano le lesbiche e le femministe insieme. E sono tante le donne che chiedono di non toccare la legge sull'aborto, l'abolizione della legge 40 sulla procreazione assistita e la fine delle violenze in famiglia. Tra loro Lea Melandri, fino a poco tempo fa nel milanese Usciamo dal silenzio, Roberta Corbo di controviolenza.org e Edda Billy della Casa internazionale delle donne di Roma, tra le organizzatrici della marcia contro la violenza maschilista il 24 novembre scorso. Poco più tardi spunta Rossella Praitano, presidente del circolo Mario Mieli.
Preoccupa, poi, la moltiplicazione di aggressioni neofasciste ai danni di studenti di sinistra e omosessuali. «Il Vaticano parla, i fascisti picchiano» continua Poidimani dal sound system, chiedendo l'abolizione del Concordato firmato l'11 febbraio del 1929 proprio con il regime mussoliniano. Per i No Vat fascismo, chiesa, omofobia, oppressione delle donne e neoliberismo costituiscono un muro unico. Così al tradizionale tradizionale slogan di apertura del corteo, autodeterminazione laicità e antifascismo, sono state aggiunte le parole liberazione e cittadinanza.
Ma il No Vat è anche carnevalesco, irridente, iconoclasta. Ragazze col burqa oppure vestite da suora, mascherine di Ruini-vampiro, Ratzinger-diavolo, Binetti-queer. La new entry è Giuliano Ferrara con parrucca, contro la sua moratoria sull'aborto. Una basilica di San Pietro in foggia da deposito di Paperon de' Paperoni campeggia sul sound system, perché presi di mira sono i privilegi economici della Chiesa come l'esenzione dell'Ici. «Ratzinger paga le tasse» urlano ad una suora che si affaccia sbigottita su via Arenula, prima di chiudere violentemente la finestra.
Decine di cartelli irriverenti: "Rianimatevi il cervello", "L'unica Chiesa che illumina è la Chiesa che brucia" "Se la risposta è Dio la domanda è sbagliata". Attacco frontale, senza mediazioni politiche perché la politica ha deluso e allora tanto vale fare lo sberleffo, prendersi la soddisfazione di parlare direttamente col Papa e rinnovare uno slogan femminista degli anni '70: "Il culo è mio e me lo gestisco io".
Il corteo si indigna quando scopre che la scalinata del Campidoglio è transennata e difesa da un manipolo di agenti. «Vergogna, il municipio è un luogo pubblico!» e poi si riparte. Tanto più che, paradossalmente, l'accesso alla chiesa dell'Ara coeli è libera. Un ragazzo trascina un crocifisso di legno con catenelle infilate nella pelle dei gomiti mentre una ragazza gli lancia banconote false da 100 euro. Un coretto di ragazze canta "Il Vaticano brucia oh oh oh" e "Noi odiamo i papa-boys"sulle note di Vamos a la playa.
Corteo variegato: non soltanto gay per mano, lesbiche travestite e trans che chiedono di non essere considerati dei malati da psichiatrizzare in attesa del cambio di sesso, ma anche studenti giovani, giovanissimi, donne di una certa età, famigliole con bambini e persino cristiani evangelici come Alice di Vicenza venuta per difendere la laicità, e persone di nazionalità spagnola, americana, sudamericana e francese, a Roma per i tre giorni di dibattito organizzati al Forte Prenestino sull'omofobia, proprio in occasione del No Vat. «Fuori i preti dalle nostre mutande, dai nostri ospedali, dalle nostre scuole. Hanno venduto le nostre città alla Chiesa» continua Facciamo Breccia.
L'ingerenza della Chiesa sta tracimando gli argini, è il messaggio finale di alcuni rappresentanti del movimento, da Porpora Marcasciano del Mit agli atei razionalisti dell'Uaar. Una donna sulla cinquantina ha camminato per chilometri silenziosa, al fianco di un'amica. Appesa sulla schiena una lavagnetta di quelle che si usano in cucina per segnare la lista della spesa, con una scritta: «Il Vaticano odia le donne da sempre».
Liberazione lettere 10.2.08
Polemiche. La censura vige ancora?
Ciao, il compagno Fulvio Iannaco vi scrive ("Liberazione" del 9 febbraio) a proposito dell'articolo di Andrè Tosel. Il direttore Sansonetti prende a pretesto la censura e lo stalinismo ormai cancellati dall'operare del nostro partito e dal suo organo di stampa per giustificare la pubblicazione dello scritto di Tosel, uno dei massimi intellettuali francesi; non sia mai che un intellettuale, anche se dice immani stupidaggini, non sia degno di pubblicazione. Per i compagni militanti del partito, dissidenti dalla linea dei dirigenti, invece la censura vige ancora, visto che le lettere di forte dissenso che pervengono tutti i giorni, non solo da me ma da molti altri compagni, sono sempre neglette e sistematicamente cancellate. Per non parlare poi dello stalinismo, visto il comportamente di tutti i dirigenti nazionali che hanno cancellato un congresso e si avviano senza alcuna discussione allo scioglimento del partito che, a loro, non serve più. Piccolo esempio di stalinismo: rimosso Marco Checchi, promotore dell'Appello di Firenze "Un congresso per il rilancio dei movimenti e dell'autonomia del Prc". Fino a quando il compagno Checchi era della maggioranza tutto andava bene, ora invece lo si rimuove, perché non si vogliono dissidenti ai vertici del partito, tutto deve filare liscio come decide il segretario nazionale. La scusa della rimozione? Il tesseramento in calo. Tutti sanno, anche i sassi, che il calo del tesseramento è dovuto alla linea del partito e alle tre scissioni (Ferrando, Ricci e Cannavò) avvenute in questi mesi. Ma no! La colpa è del compagno Checchi. Anche noi abbiamo avuto un calo nel tesseramento provinciale, ma non ci siamo proprio sognati di rimuovere il compagno responsabile dell'Organizzazione, visto che la colpa non è stata sua ma delle ragioni di cui sopra e della disillusione di tanti validissimi compagni che dopo anni di militanza se ne sono andati sbattendo la porta. Saluti antistalinisti,
Roberto Fogagnoli via e-mail
"Liberazione" pubblica tutti i giorni almeno una lettera contro Bertinotti e una contro le scelte di presentarsi alle elezioni con la Sinistra l'Arcobaleno (scelta fortemente sostenuta dal giornale). Ti pregherei di fornirmi un elenco di giornali che fanno altrettanto... Con affetto
Piero Sansonetti
il manifesto 12.2.08
Il marketing e il simbolo
di Alessandro Robecchi
Tra le cose più entusiasmanti dell'attuale fase politica c'è senza dubbio la questione dei simboli, dove si intrecciano storie secolari e scienze moderne (il marketing). Non c'è bisogno di andare lontano: la croce è senza dubbio un simbolo potentissimo e millenario, uno straziante strumento di tortura che è diventato un marchio - anche ideologico - planetario. Tanto sufficiente a se stesso, verrebbe da dire, che lo vediamo spesso pendere dorato e luccicante tra le tette delle soubrette, senza che ciò provochi alcuno smottamento emotivo. Fini e i suoi postfascisti rinunciano in un quarto d'ora alla famosa fiamma, che per anni li aveva visti discutere animatamente su radici, identità e tradizioni, sempre ben ancorate all'area manganello & olio di ricino. E siccome la situazione è grave ma non seria, assisteremo probabilmente allo spegnersi di un'altra fiamma, quella dei fascisti non pentiti alla Storace, che pur di prendere il treno di Silvio la spegneranno volontieri. Nel frattempo possiamo prepararci a simboli nuovi (una rosa bianca, perché no), oppure esercitarci satiricamente sui simboli che Mastella, o Dini, potrebbero adottare (un tariffario?). E poi, naturalmente (veniamo a noi) c'è la falce e martello, simbolo secolare delle lotte delle classi subalterne. Cancellare quel simbolo? Lasciarlo? Il dibattito è straziante, ma anche un po' ridicolo. Fregiarsi di falce e martello e poi votare a favore delle missioni «di pace», per esempio, non corrisponde al crocefisso che occhieggia ammiccante dalla scollatura? Forse bisognerebbe lottare per cambiarli i simboli, non per tenerli immutabili. Per esempio se la sinistra italiana adottasse come simbolo un grafico che mostri quanto pesa la rendita, quanto il profitto e quanto il reddito da lavoro in questo modernissimo paese, lancerebbe un messaggio assai chiaro, da far sobbalzare chiunque.
il manifesto 12.2.08
Un desiderio di desideri: la malinconia Lev Tolstoj in «Anna Karenina»
Così parla l'altra voce del discorso capitalista
di Massimo Recalcati
L'organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che, nel 2020, la depressione sarà la prima causa di invalidità, dopo le malattie cardiocircolatorie, nelle cosiddette società del benessere. La sua diffusione epidemica è avvertita come un problema di sicurezza sociale, la sua minaccia incombe su tutti noi, la sua sirena mortifera sembra non conoscere argini. I governi assumono iniziative per informare i cittadini sui rischi che la depressione comporta e sui modi per vincerla. Da quattro anni a questa parte, il 9 ottobre si celebra la giornata della depressione, sia in Italia che in altri cinque paesi europei (Francia, Spagna, Belgio, Regno Unito, Germania) mentre negli Stati Uniti una iniziativa simile esiste già dal 1991. D'altronde, l'uso della diagnosi di depressione si è inflazionato a tal punto che l'etichetta di «depresso» non si nega a nessuno, nemmeno ai bambini, ai quali infatti non si risparmia, ormai da tempo, l'uso del Prozac. Mentre una tribù di specialisti assicura la conoscenza adeguata del problema e propone la sua soluzione terapeutica tecnicamente più efficace, in tutto il mondo occidentale le aziende farmaceutiche si prodigano per proporre antidepressivi sempre più aggiornati e il loro consumo è in costante crescita. Un dato è certo: l'epidemia depressiva non deprime il loro business.
Non solo un dato statistico
Ma la depressione è davvero un sintomo che contraddistingue in modo particolare il nostro tempo? Per un verso essa accompagna da sempre come un'ombra la realtà umana, essendo un affetto - ossia una situazione emotiva - attraverso il quale l'esistenza viene confrontata con se stessa, con la propria fragilità, con la propria costituzione lesa e imperfetta. Per un altro verso, però, la sua diffusione di massa ne fa un sintomo con peculiarità nuove e il suo carattere epidemico non è un dato meramente statistico, perché rivela piuttosto una paradossale congiuntura tra l'affetto depressivo e quello che Lacan aveva formalizzato come «il discorso del capitalista». Formula con la quale si intende quel tipo particolare di legame sociale sostenuto dalla pretesa illusoria di eliminare il dolore di esistere tramite la messa a disposizione di un godimento immediatamente accessibile, millantando la possibilità di sanare la lesione che attraversa la realtà umana e la rende strutturalmente precaria e mancante attraverso il consumo di oggetti del godimento.
La potenza del «discorso del capitalista» non consiste affatto nel liberare gli uomini dalla schiavitù dei loro bisogni, ma nell'alimentare continuamente la loro domanda attraverso l'offerta illimitata di oggetti-gadget. In questo contesto, le aziende farmaceutiche, protagoniste indiscusse del business intrinseco alla terapia cosiddetta antidepressiva, sono una manifestazione specifica del discorso del capitalista. Pretendendo di offrire il rimedio giusto - la pillola della felicità - lungi dal favorire la cura della depressione finiscono in realtà per incoraggiarne la diffusione. Infatti, non soltanto il consumo degli antidepressivi può rivelarsi inefficace nel trattamento della depressione, ma tende talvolta ad alimentare una spirale maligna di dipendenza. Gli psicofarmaci sono, in effetti, oggetti specifici del nostro tempo, proprio perché la fede nella loro azione condensa l'idea secondo la quale esisterebbe una cura mirata per il dolore di esistere. Dire questo non equivale a demonizzare l'uso clinico degli psicofarmaci, che in certe situazioni sono effettivamente necessari e insostituibili, bensì invitare a cogliere il significato relativo alla promozione sociale della loro azione: una azione che, facendo a meno dello scambio simbolico con l'altro, facilita l'isolamento della persona favorendo la sua depressione.
Ecco un insegnamento fondamentale della psicoanalisi: se l'angoscia proviene dall'incontro con il proprio desiderio, la depressione annulla l'angoscia e, di conseguenza, proietta il desiderio nello stagno immobile di un tempo senza avvenire. Consiste in questo, per Lacan, la viltà etica che accompagna l'affetto depressivo, ossia la scelta di indietreggiare di fronte al proprio desiderio e di preferire ad esso il rifugio in un godimento solitario e distruttivo, capace di sottrarci al campo delle relazioni umane.
Uno dei tratti fondamentali della contemporaneità consiste, in effetti, nel fatto che si è allentata la natura simbolica del legame sociale. Perciò, l'uomo contemporaneo appare alla deriva, smarrito, privo di riferimenti ideali capaci di esercitare una funzione orientativa, insofferente verso le perturbazioni che intervengono inevitabilmente nell'incontro con l'altro sesso, condizionato dall'offerta incalzante degli oggetti-gadget che si propongono come nuovi partner inumani, a portata di mano e di bocca, capaci di rimpiazzare l'incontro angosciante con l'imprevedibilità del desiderio. Il nostro è il tempo, come scriveva già Adorno in Minima Moralia, del godimento monadico, ovvero di una esasperazione autistica dell'individuo che esclude la sua dimensione sociale e collettiva.
La elettrizzante girandola degli oggetti-gadget, nella quale rientra anche l'oggetto-psicofarmaco, avvolge noi ipermoderni in un'atmosfera di maniacalità collettiva. E l'obbligo di essere felici si impone come un nuovo comandamento superegoico. In questo contesto, la depressione va letta come il rovescio del «discorso del capitalista», come la sua verità rimossa, come l'altra faccia della sua euforia maniacale. Mentre la grande meditazione filosofica (da Schopenhauer a Leopardi) ci confronta con l'esperienza del limite e dell'inconsistenza dell'universo - in questo senso la malinconia è una componente per certi versi ineliminabile dell'attitudine teoretica - la depressione contemporanea sembra legata acriticamente a una circolazione impazzita del godimento, in una sorta di contrappunto critico con «le magnifiche sorti e progressive» del mito capitalista derivato dalla rivoluzione industriale e dalla ragione tecnologica.
Il suo focus non è tanto nell'esperienza del nulla, nell'assenza di fondamento, nel limite della ragione tecnologica, ma in un troppo pieno, in un'assenza di pensiero; o, se si preferisce, in un vuoto che non ha più niente di metafisico perché è, in realtà, solo il prodotto rovesciato del pieno derivato dal godimento. È depressione da confort, da routine, da caduta del desiderio, da eccesso di conformismo, è la depressione che deriva dall'apice maniacale del divertissement.
Dove c'è il sol levante
I quotidiani giapponesi della fine degli anni '90 registravano, nelle pagine di cronaca, la diffusione inquietante di suicidi di uomini d'affari disperati dall'andamento critico del sistema economico. Uomini intorno ai cinquant'anni, per lo più manager, decidevano di togliersi la vita gettandosi sotto i treni. Per il pragmatismo giapponese uno degli effetti non trascurabili di questo fenomeno erano i frequenti ritardi che paralizzavano il traffico delle grandi città. Una compagnia di treni escogitò un rimedio installando nelle stazioni ferroviarie quelli che vennero chiamati «specchi antisuicidio». Si pensò, infatti, che vedere la propria immagine allo specchio avrebbe dovuto garantire una iniezione di narcisismo provvidenziale in persone che si percepivano come svuotate di ogni valore. Forse, il fondamento teorico degli specchi antisuicidio si trova in quella ipotesi classica del post-freudismo formulata da Judith Jacobson, secondo la quale la depressione segnala un fondamentale impoverimento narcisistico dell'Io. Tuttavia, l'uso degli specchi antisuicidio non può non mostrare la sua ingenuità, riflettendo innanzi tutto l'illusione secondo la quale l'identità individuale troverebbe la propria rassicurazione in protesi inumane come la droga, il cibo, i computer, l'alcool, gli psicofarmaci, e persino nella propria immagine speculare fornita dallo specchio. La logica che motiva gli specchi antisuicidio presuppone una nozione massimamente elementare del narcisismo, di cui la depressione anoressica ci offre una illustrazione precisa: l'immagine ideale del corpo-magro non coincide mai con quella restituita dallo specchio, perché anzi l'immagine speculare può assumere caratteri beffardi, persecutori e affliggere il soggetto proprio perché non potrà mai coincidere con l'immagine ideale di sé. Lungi dunque dall'agire come una iniezione di narcisismo, essa innesca la depressione proprio per la sua inevitabile inadeguatezza all'immagine idealizzata del corpo-magro.
La funzione positiva dell'immagine sarebbe quella di abbigliare il soggetto in modo che il reale della sua nuda vita non emerga traumaticamente, ma sia rivestito da un involucro immaginario. Se noi non ci vediamo, per esempio, come una muffa assurda (cosa che invece, letteralmente, accade in determinati deliri melanconico-ipocondriaci) è perché il reale della nostra nuda vita è stato sufficientemente rivestito dal valore narcisistico dell'immagine del corpo, e questo avviene grazie all'accompagnamento simbolico determinato dallo sguardo benefico dell'altro. È attraverso quello sguardo che - come hanno diversamente ripetuto Lacan e Winnicott - possiamo in effetti riconoscere la nostra stessa immagine. Come dimostra la melanconia grave, la vita biologica non è in sé sufficiente a fornire il sentimento della vita. Non a caso Freud nelle Nevrosi di traslazione, in una evocazione mitica, associa la melanconia all'epoca filogenetica della glaciazione: la vita spogliata da ogni supporto narcisistico appare priva del calore umano che serve alla vita, e dunque appunto gelata. Effettivamente, nelle persone che soffrono di melanconia psicotica troviamo proprio questo vuoto arcaico determinato dal fatto che lo sguardo dell'altro, nella sua severità e nella sua intransigenza, non ha permesso loro di formarsi un ideale dell'io sufficientemente strutturato. Perciò, la persona melanconica si identifica con lo scarto, con il rifiuto, con la certezza, come afferma Lacan, dell'«io non sono niente».
Diversamente, alla base della depressione nevrotica sta la perdita di un oggetto narcisistico, sia esso un lavoro prestigioso, o la percezione del tramonto della propria giovinezza, o l'immagine del proprio corpo deteriorata, o - ancora più radicalmente - la perdita di un oggetto d'amore (un marito, un genitore, un figlio). In mancanza di amore, la nostra esistenza si trova di nuovo confrontata con il suo proprio reale, con ciò che Lacan ha nominato come disgiunzione della vita dal senso. È per questa ragione che una delle congiunture di innesco più frequenti della depressione è, appunto, la crisi o la fine di una relazione amorosa. E questo spiega anche perché la radicalità del discorso amoroso esponga le donne, che non sono ipnotizzate, né ingombrate in partenza dal miraggio dell'avere fallico, a patire di più questa ferita e a percepirne il carattere difficilmente rimarginabile.
Questione di desiderio
Nello scacco depressivo, dunque, noi ci ritroviamo come fossimo senza immagine, ridotti a un oggetto di scarto, costretti a ripetere la sfasatura strutturale tra l'immagine ideale che abbiamo di noi e la nostra stupida esistenza. Mentre il «discorso del capitalista» reagisce a questa sfasatura cercando strumenti per ricomporla artificiosamente - per esempio ventilando il miraggio della pillola magica o degli specchi antisuicidio - e dunque inseguendo la finalità di riabilitare l'individuo depresso convertendolo in un buon consumatore anonimo, la psicoanalisi non riduce la depressione né a un deficit dell'umore (che lo psicofarmaco dovrebbe ricondurre alla normalità), né a un deficit dell'adattamento o dell'azione (che il buon senso psicologico vorrebbe curare con il rafforzamento della volontà indebolita del soggetto). Piuttosto riconosce nella depressione una esperienza capace di rivelare una verità profonda dell'essere umano: la difficoltà di assumere il proprio desiderio e la sua natura finita, destinata alla morte. In questo senso tutti siamo un po' depressi e le fumisterie maniacali del discorso capitalista, che vorrebbero esorcizzare questo elemento traumatico, evidenziano proprio attraverso l'epidemia depressiva, che la verità più radicale dell'uomo è estranea al potere ipnotico e seduttivo dell'oggetto del godimento.
il manifesto 12.2.08
Lager in Libia, una storia rimossa
di Enzo Collotti
Degli ebrei libici aveva parlato Renzo De Felice nei suoi studi sul fascismo e l'oriente mediterraneo, quando il fascismo pensava di sfruttare in funzione antiinglese l'influenza economica e commerciale delle colonie di ebrei italiani (specie quelli di Alessandria d'Egitto) insediate sulle rive del Mediterraneo. Un tentativo che naufragò ben presto con la svolta della guerra d'Africa, che fece rischiare lo scontro diretto con l'Inghilterra, e soprattutto con la svolta razzista della campagna contro gli ebrei a partire dal 1938. Personalmente mi sono imbattuto nella presenza degli ebrei libici (in parte cittadini inglesi, in parte cittadini italiani) nei campi di concentramento in Italia nel corso delle ricerche, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, effettuate dal gruppo di lavoro sugli ebrei in Toscana da me coordinato, che individuò tra gli internati dei campi di Villa Oliveto (a Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo) e di Bagno a Ripoli (in provincia di Firenze) numerosi ebrei provenienti dalla Libia.
Fonti scarse e frammentarie
L'episodio smentiva la vulgata dei razzisti nostrani secondo la quale gli italiani non avrebbero mai deportato nessuno, se prima di abbandonare la Libia e la Tunisia in seguito alla sconfitta militare erano stati in grado di trascinare in Italia un contingente non esiguo di ebrei libici. Al di là dell'indeterminatezza del loro numero, rimanevano da capire le ragioni di quel trasferimento coatto: l'ipotesi più plausibile era che si trattasse di ostaggi o di merce di scambio (siamo nella primavera del 1943 per eventuali trattative con gli inglesi).
Per quanto incerta rimanga, quell'ipotesi viene in parte convalidata dalla prima ricerca in qualche modo approfondita relativa alle conseguenze delle leggi razziali nella colonia libica che ci consegna ora Eric Salerno (Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana, Il Saggiatore 2008, pp. 238, euro 17). Eric Salerno non è nuovo a questo tipo di ricerche avendo fra l'altro all'attivo un libro sulle atrocità della conquista coloniale e della repressione italiana in Libia tra il 1911 e il 1931 (Genocidio in Libia, Manifestolibri 2005).
Abbiamo detto che questo nuovo libro è uno studio «in qualche modo approfondito» e non certo esauriente e tanto meno definitivo, come è consapevole per primo l'autore, per il semplice fatto che la scarsità e la frammentarietà delle fonti - pochissime le testimonianze reperibili oggi, altrettanto dispersa la documentazione tra archivi italiani, israeliani e libici in primo luogo - non consentono di andare al di là di una prima preziosa ricostruzione di un caso esemplare, la vicenda del campo di concentramento di Giado, centoottanta chilometri a sud di Tripoli nel deserto del Gebel, dove a partire dal maggio del 1942 furono rinchiusi 2527 ebrei libici, trasferiti in primo luogo dalla Cirenaica, ossia dall'area all'epoca più soggetta ai cambiamenti di fronte nel corso delle operazioni militari tra gli inglesi e le forze dell'Asse. Da lì almeno una parte fu poi trasferita in Italia per cadere dopo l'8 settembre del 1943 nelle mani dei tedeschi, che a loro volta li spedirono generalmente a Bergen Belsen, il lager speciale destinato fra l'altro a scambio di detenuti (ma di non pochi libici si sa che finirono ad Auschwitz).
Il trasporto degli ebrei libici in campo di concentramento fu la conclusione del tormentato rapporto fra il dominio italiano e la comunità ebraica della Libia. In particolare la convivenza degli ebrei tripolini con gli arabi e il loro ruolo nelle attività commerciali e artigiane non creò gravi conflitti con l'amministrazione fascista che sino all'entrata in vigore in Italia delle leggi sulla razza fu improntata a una moderazione suggerita dal governatore Balbo, salvo qualche episodio come la fustigazione dei negozianti ebrei che non volevano ottemperare all'ordine di tenere aperte le botteghe il sabato. Le disposizioni del 1938 per gli ebrei cittadini italiani furono ulteriormente inasprite per quelli residenti in Libia con norme legislative del 9 ottobre 1942, quando la presenza italiana in Libia vacillava sotto l'urto dell'offensiva inglese.
Una crudele repressione
Giado fu il principale di una serie di campi specificamente destinati agli ebrei. Salerno ne ha percorso la storia ricercando anche sul posto le tracce di ciò che rimane di questo luogo di detenzione tra le sabbie del deserto, «un pezzo - scrive - poco glorioso della storia coloniale italiana», perché qui si sommavano le nefandezze di una duplice infamia, quella coloniale e quella razzista antiebraica. Il vecchio ascaro che gli fa da guida alla visita dei resti gli addita il posto dove finivano le spoglie delle vittime: «La gente moriva nel campo e gli ebrei venivano sepolti qui». Perché la fame, gli stenti, i maltrattamenti, la calura, l'epidemia di tifo fecero strage dei detenuti di Giano: ne morirono più di cinquecento, ma di soli ottantasei morti si conoscono i nomi, uomini, donne, bambini, riportati nell'appendice del libro.
Un risultato che certo premiò gli sforzi di quei fanatici gerarchi che avevano invocato una «decisa politica razziale» anche nelle colonie dove a operare non erano i tedeschi ma gli italiani, a cominciare dalla Pai (la Polizia Africa italiana), dai militi fascisti e dalle unità militari; e qui, a detta dei pochi testimoni superstiti, «gli italiani fascisti (...) si comportavano come i tedeschi». Via via che la guerra in Nordafrica volgeva al peggio la repressione contro gli ebrei assumeva le forme più gratuite e crudeli: si moltiplicavano le accuse contro l'attività occulta e affaristica degli ebrei, secondo i più consumati stereotipi dell'antisemitismo, tornarono le esecuzioni capitali esemplari questa volta a carico degli ebrei, si praticò il lavoro forzato per gli ebrei in faticose opere stradali. Nell'andirivieni degli opposti eserciti in Cirenaica, si punirono come traditori gli ebrei che avevano accolto gli inglesi come liberatori. Nel febbraio del '42 Mussolini in persona, immemore dell'accoglienza che nel 1937 gli era stata tributata in Libia dalla comunità ebraica, diede disposizioni per la loro evacuazione dalla Cirenaica e dalla Tripolitania, prevedendo già l'«eventuale trasporto degli internati in Italia».
Sollevando il velo di oblio che copriva questa pagina poco nota Eric Salerno ci indica una ulteriore connessione nella ragnatela di implicazioni prodotte dalla persecuzione razziale, una via difficile da percorrere anche per studiosi provetti, e tuttavia suscettibile di fornire altri dettagli alla fenomenologia di questo particolare tipo di repressione in cui anche il più infimo gerarchetto si gonfiava il petto di arroganza razziale. Al di là del coinvolgimento diretto dalla Libia nell'area applicativa delle leggi razziali, l'autore richiama un episodio già ricostruito da Spartaco Capogreco nel suo libro su Ferramonti. Si tratta dell'arrivo a Bengasi nella primavera del '40 di trecento ebrei, per lo più tedeschi e austriaci profughi dai paesi della persecuzione nell'Europa centro-orientale, che dovevano fare sosta nel porto libico per proseguire presumibilmente verso l'emigrazione clandestina in Palestina. Ma dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno, i profughi furono arrestati e la prosecuzione verso la loro meta impedita. Furono rispediti con un piroscafo italiano che affrontò le insidie di un Mediterraneo in guerra e dopo altre peripezie sul suolo italiano alla fine di settembre arrivarono via terra a Ferramonti. La Libia dunque non era servita neppure come territorio di transito per facilitare la via di fuga a ebrei braccati da nazisti e fascisti.
Oltre il filo spinato
Dalle testimonianze raccolte da Eric Salerno risulta che a Giado vi fu forse anche qualche tedesco, «ma la maggioranza erano fascisti in camicia nera, carabinieri italiani, ascari libici», a guardia dei deportati rinchiusi dentro un reticolato di filo spinato. Il campo non era certo un istituto di beneficenza. «La polizia italiana era crudele» annota un testimone. Ancora non si sa bene come avvenne il trasporto degli ebrei libici dai campi di concentramento in Libia a quelli in Italia. Sappiamo solo che non fu un passaggio indolore se dopo l'8 settembre un numero cospicuo dei trasferiti in Italia (forse la maggioranza?) finì nelle mani dei tedeschi e per molti di loro la minaccia di essere uccisi, che li aveva accompagnati sin dall''internamento in Libia, divenne realtà quando, consegnati dagli italiani ai tedeschi, finirono i loro giorni a Auschwitz.
Un puntuale confronto dei nominativi raccolti da Salerno con i dati del Libro della memoria del Cdec ci darebbe la riprova di questo tragitto dalla Libia ad Auschwitz, davvero una «storia italiana», che Salerno ha fatto bene a riesumare perché non rimanga sepolta dal diniego di memoria di cui è capace questo nostro schizofrenico paese.
il manifesto 10.2.08
La sinistra contro il suo destino
di Mario Tronti
Ragioniamo su questo passaggio di crisi politica. Cerchiamo di individuarne le cause nascoste. Spesso accade che si prendano per cause quelle che sono conseguenze e viceversa. Di qui, l'attuale confusione strategica, la vera madre di tutte le sconfitte tattiche. Sgombriamo il campo dalla tentazione di dire che siamo a un passaggio decisivo, che si tratta della crisi finale di qualcosa che c'è stato fin qui. Non è vero. Non c' è nessuno stato d'eccezione. C'è una normalità che stancamente si ripete, senza che uno scarto, un'eccedenza, un esodo, un che di incomprensibile, irrompa sulla scena pubblica domandando di essere appreso col pensiero.
E', se possibile, sobriamente che dobbiamo ragionare. Ad esempio: questo terrore di un cambio di governo, francamente non riesce, con tutta la buona volontà , ad innescare qualcosa di oscuramente perturbante. Per lo stesso motivo per cui l'altra, appena trascorsa, esperienza di governo non ha suscitato qualcosa di particolarmente affascinante. Piuttosto dovremmo imparare a utilizzare i passaggi dentro una prospettiva, a strumentalizzare il momento per pensare l'altro da questo.
Insomma, per venire a parlare di cose comprensibili: è proprio vero che il nostro bipolarismo politico non funziona per via delle cattive leggi elettorali? Questa leggenda, che ci assilla da inizio anni '90, non sarebbe ora di mandarla in soffitta, insieme ai manichini dei referendari? Il bipolarismo non funziona, perché non ci sono i poli. Sono finti, sono virtuali, second life , nulla di socialmente reale, la prima vita delle persone sta fuori. Le coalizioni non sono troppo piene di sigle, sono troppo vuote di soggetti.
Appunto, la causa non è la frammentazione politica, questa è la conseguenza di una frammentazione sociale. Le coalizioni la descrivono, la rappresentano passivamente, la subiscono territorialmente, senza la capacità di leggerla, interpretarla, ordinarla politicamente. Perché le coalizioni non sono «forze politiche», come erano un tempo i partiti. Sono aggregazioni di interessi particolari, prima ancora che di ceti politici, di ceti sociali. Questa è una società cetuale. Con la scomparsa delle grandi classi, si è passati a una società di piccole caste, di corpi miniaturizzati, di famiglie-azienda in crisi. E' la «mucillagine sociale», di cui ci ha parlato l'ultimo rapporto Censis, il «sociale selvaggio» di cui parla un certo pensiero femminista, o la «coriandolizzazione» sociale che ha ripreso monsignor Bagnasco.
E' un'altra leggenda quella della politica scollata e lontana dalla società . In verità , è troppo intrisa in essa e troppo da essa condizionata. Le somiglia troppo. La cosiddetta casta politica è anch'essa un prodotto di questo corporate capitalism in sedicesima. Corpi e strati sono diffusi, favori e privilegi sono richiesti, questa virtuosa società di individui è in realtà un aggregato frantumato e informe di corrosi particolarismi. La società va messa in forma, e in forma politica. E in una storia come la nostra di Stato debole, sono necessarie organizzazioni politiche forti. L'aveva capito quel ceto politico di eccellenza, che aveva scritto la Costituzione repubblicana. Non l'ha più capito questo ceto politico di risulta della cosiddetta seconda repubblica, che si è lasciato processare sulle piazze, dopo aver dilapidato un'eredità , quella eredità , senza investire nulla in qualcosa d'altro. La crisi attuale è grave perché va oltre la messa in questione del primato della politica, passa ad attaccare con successo l'autonomia della politica. Il combinato disposto di economia, finanza, tecnica e comunicazione si è saldato, qui da noi, con un devastante senso comune di massa antipolitico.
Badate. Questa è la conseguenza vera di quel cambio di egemonia culturale da sinistra a destra, che si è realizzato dalla seconda metà degli anni '80. La crisi italiana della politica nasce lì. Perché, qui da noi, in un paese politicizzato al massimo, se non è presente sulla scena pubblica un'istanza di grande trasformazione, portata e praticata da una forza organizzata, la politica entra in crisi. E produce questo presente riduzionismo tecnicistico: la funzione dell'intellettuale ridotta a servizio di staff, l'attività politica ridotta a rito elettorale, la democrazia ridotta a conta quantitativa, per di più truccata da leggi-truffa. E non da ultimo, anzi per primo, l'azione di governo ridotta ad amministrazione di impresa. Se non mettiamo a tema che la crisi della politica, prima ancora che di carattere morale, è di carattere culturale, non riusciremo a riafferrare il bandolo della matassa.
La crisi grave chiede risposte serie. La soluzione non va cercata in una falsa coesione nazionale, ma in un buon conflitto sociale. Le alternative politiche devono ristrutturarsi su punti di vista alternativi circa il modello sociale che propongono. La competizione è su quale tra i punti di vista, parziali non particolari, sia in grado di dare rappresentazione di un interesse generale. Le proposte hanno oggi bisogno di essere prima di tutto chiare.
Bene ha fatto il Partito democratico a decidere di andare da solo. Per una ragione di fondo: perché ha bisogno, qui e ora, di misurare la sua forza nel paese reale. Solo sulla base di questa verifica potrà progettare il senso, storico non solo politico, di una sua missione, se sarà in grado di darsene una. Credo che abbia il diritto della prova. E dobbiamo darglielo. Sia benvenuta la morte dell'insipido Ulivo parisiano e la fine della confusissima Unione prodiana. L'importante è che non si cambi solo schema elettorale, ma che si metta in campo una sfida strategica. La destra segue, un po' oggi, un altro po' domani. E che segua, è già un passo su quel cammino per un nuovo cambio di egemonia, che rimane l'obiettivo di fondo: forse più importante del risultato dell'immediato confronto elettorale. Tenere l'iniziativa conta di più che vincere di misura. E comunque: ristrutturare il campo delle forze politiche è l'unico varco che permette a questo punto di uscire, in avanti, da questa vera e propria crisi repubblicana. Chi saprà farlo prima, avrà un vantaggio più duraturo.
Questo vale, forse tanto più, per quello che si muove a sinistra del Pd. Salta il vetusto, e oscuro, schema delle due sinistre. Si profila un partito di centro-sinistra e un partito di sinistra. Non è una semplificazione, è una razionalizzazione più che mai opportuna. Non serve a nulla, e non fa capire nulla, dire polemicamente: quello è il centro, noi siamo la sinistra. Anche qui devono emergere le differenze vere. In quasi tutti i sistemi di occidente, una vocazione maggioritaria si declina ormai o come centro-destra o come centro-sinistra. Questa è la condizione - formale - che costringe la sinistra a ripensare se stessa. Deve differenziarsi da un centro che guarda a sinistra e da una sinistra che guarda al centro. Non è la stessa cosa che differenziarsi da una socialdemocrazia. E' una condizione nuova. Lo spazio è più stretto. Ed è più stretto perché la condizione - materiale - spinge la sinistra ad arroccarsi, ad autoemarginarsi, a considerarsi residuale e testimoniale. Mentre costruisce il suo nuovo esperimento, la sinistra deve combattere contro questo «destino».
Il lavoro, che non è più universo ma pluriverso: è questa la difficoltà vera, dura, della sinistra politica, oggi. Sul punto, è necessario un grosso approfondimento, di analisi e di pensiero. Il lavoro è in frantumi, non più solo per la postazione del lavoratore singolo nel processo produttivo, ma per lo stato della condizione lavorativa nel rapporto sociale. Un lavoro socialmente frantumato non è politicamente visibile. Bisogna farlo vedere. Questa è la visione di cui si deve far carico la nuova sinistra. Portare alla luce questo nascondimento della condizione umana del lavoratore. Esattamente quello che il partito di centro-sinistra non può fare. Non è che non vuole farlo, non può. Per questo è partito democratico e non socialdemocratico. Con una sinistra che si rapporta al centro, vuole rappresentare, con molte ragioni di realtà , quell'opinione di sinistra, con consistenza di massa, che non ha più come riferimento il valore politico del lavoro. Questo ruolo gli va lasciato.
Però, allora, il partito della sinistra ha come compito primario quello di riportare il valore del lavoro al centro dell'agenda politica. Per farlo, ha bisogno di riportarlo per prima cosa al centro del suo progetto politico. Questa non è una pratica escludente di tutti gli altri temi, e non è nemmeno includente. Si tratta di offrire un fuoco intorno a cui aggregare per articolare. Basta sapere a chi si parla, scegliere il proprio campo di ascolto, costruire soggettività sociali certe e con esse e per esse elaborare cultura politica alterativa.
Sinistra unita, sì, ma in che senso plurale? Bisogna intendersi. La ricchezza di esperienze, movimenti, associazioni ha da trovare punti e spazi, magari inediti, di organizzazione, stabile, in lotta contro il tempo. La rete deve rendere visibile una trama. Anche qui, il pluriverso sociale va unificato politicamente. Non serve il circo Barnum. Bisogna offrire, sulle questioni decisive, un punto di vista e una forza in grado di portarlo.
Io non so se la prossima sarà una legislatura costituente. Mi pare di capire che la prossima sarà una campagna elettorale costituente. Si presentano forze politiche nuove in corso d'opera. E' positivo che si presentino nella forma partito: un passo importante per cominciare a reagire alla, ripeto, devastante ondata antipolitica. Il confronto e il risultato saranno una sorta di monitoraggio per ognuno dei soggetti in campo. Dopo, ognuno saprà meglio come procedere. Nel processo generale, il partito della sinistra deve dare il suo contributo in positivo, con lezioni di costume, creatività organizzativa, profondità culturale, autorevolezza propositiva. Le nuove armi della critica sono di questo tipo. Alzare il tiro a volte è l'unico modo per cogliete il bersaglio.