domenica 10 febbraio 2008

l’Unità 10.2.08
Sinistra arcobaleno
Bertinotti: la nostra opposizione sarà creativa
Mussi: la sfida è per il governo


La battaglia della Sinistra arcobaleno parte a Torino, nella Conferenza per il lavoro simbolicamente organizzata alla ThyssenKrupp. Mentre il leader Fausto Bertinotti dichiara ormai aperta la «sfida» con il Pd. Scelta discutibile quella di Veltroni, dice il presidente della Camera, ma «del tutto legittima». Anzi, può essere «un incoraggiamento alla sinistra a fare la sua parte costruendo un soggetto unitario e plurale». Una sinistra unita che ha al suo orizzonte il governo del Paese, ma che nell’idea di Bertinotti deve passare per una fase di «opposizione creativa ed influente».
Ma, gli ribatte a distanza Mussi, «non esistono forze politiche che non partano dall’ambizione del governo», anche se può avvenire che la “Cosa rossa” finisca all’opposizione: «È la regola della democrazia, e allora si farà un’opposizione creativa come dice Bertinotti».
Il segretario del Prc Franco Giordano lancia al Pd una «sfida sull’egemonia che però non deve essere distruttiva». E intanto resta l’impegno a costruire una sinistra unita: «Tanto più sarà forte - avverte - tanto più sarà impossibile per chiunque prospettare governi di larga intesa». E, da subito, invita il governo a «mettere mano prima del 13 aprile all’art. 1 comma 4 della legge finanziaria che prevede l’utilizzo di tutto l’extragettito per il lavoro dipendente. Voglio vedere in faccia chi dice no alla detassazione del lavoro, dopo aver fatto intascare 5 miliardi di euro a Montezemolo, a interventi diretti sul tema del lavoro».
Il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio invita a dare «alla Sinistra Arcobaleno l’unico voto utile contro Berlusconi ed ipotesi di inciucio».
Ma nella Sinistra arcobaleno resta aggrovigliato il nodo delle candidature e del simbolo. Decideranno i quattro segretari nel vertice di martedì.

l’Unità 10.2.08
Russia. La mafia tra vecchi e nuovi affari
di Antonio Gramsci jr


Il mio primo contatto con la grande mafia russa avvenne nel 1990. L’impero sovietico agonizzava già da circa un anno. I banchi erano semivuoti, per comprare qualcosa di diverso dal pane e il sale bisognava resistere nelle file interminabili. Il mercato nero invece, con tutta la malavita accessoria, proliferava. Io, giovane biologo, assistente universitario, grazie al mestiere di musicista imparato dal babbo, riuscivo a incrementare il mio reddito miserabile suonando la musica classica con un piccolo complesso in diversi locali di Mosca. Nell’estate di quell’anno il proprietario di un ristorantino, ceceno di nazionalità, ci invitò a suonare musica barocca. Appena arrivati sul posto ci imbattemmo in una baraonda: una folla immensa dei caucasici sovreccitati circondò il ristorante non permettendoci di entrare. Si sentivano degli spari. La situazione diventò subito chiara quando vedemmo le macchine piene zeppe di ragazzoni con le teste rasate, scappare a grande velocità. Della polizia invece non c’era traccia. Si trattava di una banale «razborka», un regolamento dei conti. La potentissima mafia del quartiere di Solnzevo, trattandosi del «suo» territorio decise di accampare diritti sulle entrate di questo locale. I loro capi non avevano studiato storia delle guerre caucasiche e quindi non conoscevano bene l’indole del popolo ceceno. Infatti bastò una telefonata perché quasi tutta la diaspora cecena di Mosca si mobilitasse, in poco tempo, in aiuto del connazionale. Quando ho saputo dell’arresto di uno degli ex-leader della banda di Solnzevo, Semen Moghilevic, effettuato il 24 gennaio a Mosca, non ho provato contentezza maligna ma un pizzico di nostalgia per quegli anni in cui la cronaca nera, una novità per il popolo sovietico abituato alla tranquillità vegetale, ci distraeva dagli stenti del periodo transitorio. Ma chi è questo Moghilevic? Il futuro boss è nato nel 46 a Kiev, si è laureato in economia e si è distinto già negli anni ‘70 con vari imbrogli finanziari per i quali fu due volte messo in prigione. Negli anni ‘90 coordinava l’attività della banda di Solnzevo. Poi emigrò. Non si sa bene di che cosa precisamente si occupava all’estero ma è ricercato da tempo dall’Interpol su richiesta degli Usa che lo hanno incriminato con almeno 45 capi d’accusa tra i quali estorsione, riciclaggio di denaro sporco, vendita di droga, commercio illegale di armi ecc. Il suo business si estendeva a decine di Stati tra cui. E riuscito a procurarsi almeno quattro cittadinanze (ucraina, israeliana, americana e ungherese) oltre a quella russa e spesso cambiava nome. Il suo patrimonio è stimato intorno ai 10-12 miliardi di dollari. Negli ultimi anni viveva tranquillamente a Mosca, non nascondendosi da nessuno, lavorando ufficialmente come consulente della ditta «Everghite». Nel 2003 una piccola società «Eural TransGas» con la sede in Ungheria ottenne dal Cremlino il diritto esclusivo di vendere il gas del Turkmenistan in Europa. Gli osservatori stranieri con grande stupore seppero che l’effettivo padrone della società era proprio Molleggiavi, dopo di che essa sparì. Di lì a poco un’altra società mediatrice «RosUkrEnergo», specializzata in vendita del gas russo in Ucraina, ereditò i poteri della prima. È inutile dire che il nome di Moghilevic riprese a figurare in relazione all’attività di questa nuova società. Se il fatto che Moghilevic era beneficiario segreto del «RosUkrEnergo» sarà provato, lo scandalo toccherà sia il governo russo che quello ucraino. Forse per questo l’unico capo d’imputazione per cui sarà processato in Russia è molto modesto: il mancato pagamento delle tasse della rete dei negozi di profumi «Arbat Prestia» gestiti insieme a Vladimir Nekrasov, arrestato anche lui, e che riguarda solo un piccolo segmento dell’attività di Moghilevic. Tutti in Russia sanno che un’accusa del genere è spesso il pretesto con cui il regime si sbarazza dei personaggi scomodi. Le autorità russe effettuano il controllo sulle risorse del Paese in modo apparentemente del tutto legale, attraverso parenti e amici che rivelano miracolosamente doti eccezionali in economia. Quindi l’arresto di una figura importante come Moghilevic può significare che queste autorità hanno deciso di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con cui si collegavano agli «uomini d’onore». La Russia, nonostante tutto, con l’aprossimarsi delle elezioni presidenziali, vuole sembrare un Paese per bene. Un’altra interpretazione, forse più realistica, associa l’arresto del mafioso alle lotte interne alla Gazprom. Non è escluso che questo arresto sia il primo passo verso la liquidazione del «RosUkrEnergo», energicamente voluta dal nuovo primo ministro ucraino Jiulia Timoscenko, con la quale il governo russo vuole instaurare buoni rapporti. Ovviamente tutta la verità non la sapremo mai.

l’Unità 10.2.08
L’intima penombra dell’ultimo Tiziano
di Renato Barilli


GRANDI MOSTRE La rassegna veneziana celebra il maestro di Pieve di Cadore con una raccolta di dipinti degli ultimi 25 anni della sua vita. Un periodo in cui Il Vecellio predilisse le ambientazioni chiuse agli spazi aperti

Decisamente manca una buona programmazione, tra i vari eventi espositivi che costellano il nostro Paese, succede così che temi alquanto simili vengano affrontati in luoghi e in periodi di calendario assai vicini, invece di mantenere le opportune distanze. Un esempio clamoroso ci è fornito dal tema cosiddetto dell’ultimo Tiziano, affrontato sul finire dell’estate scorsa da Belluno, certo con la legittimità che veniva a quella provincia dal fatto di contenere la città natale dell’artista, Pieve di Cadore, coinvolta nella celebrazione. Ma in quell’occasione gli organizzatori hanno fatto molta fatica a procurarsi un numero apprezzabile di tele «ultime» del maestro, dovendo ricorrere ad opere meno autorevoli, di scuola o di incerta autografia. Pare incredibile che non fosse a loro conoscenza l’imminente arrivo di una rassegna assai più qualificata, sul medesimo periodo del grande Vecellio, e in una sede massimamente deputata quali le veneziane Gallerie dell’Accademia, che oltretutto si sono assicurate la collaborazione di un altro istituto maggiore, il Kunsthistorisches di Vienna, dove la mostra sarà trasferita dopo la tappa sulla Laguna. In questo caso, non c’è proprio nulla da desiderare, i capolavori tizianeschi figurano al gran completo, passeranno anni prima che si possa riproporre qualcosa di pari ricchezza.
Aprendo il catalogo, la Ferino-Pagden si chiede se sia davvero legittimo ragionare attorno a un «ultimo Tiziano», includendo nella periodizzazione all’incirca un quarto di secolo, dal 1550 fino alla morte dell’artista (1574). La sua risposta è affermativa, e anche il mio parere è assolutamente concorde, anche se beninteso l’intero percorso tizianesco si dà nel segno di una grande coerenza, riassumibile, questa, in una formula esatta per quanto scontata, quella che ne fa il massimo cultore del tonalismo. Ciò significa che tutte le sue composizioni, fin dai primi passi, sapevano magicamente realizzare il grande connubio, i corpi, pur maestosi, di prospere e gonfie anatomie, e gli oggetti risultavano immersi in ampi orizzonti, sotto la volta di cieli alti, spaziosi, ben ventilati. Un trattamento unico, in cui il colore, oltre a modellare la forma, ne indicava anche la collocazione nello spazio, incaricandosi di graduare sapientemente gli effetti atmosferici. Tutto mirabilmente orchestrato, fuso, controllato.
Che cosa succede, al Tiziano ultra-sessantenne, entrato appunto nella sua serena vecchiaia? Bisogna invocare gli acciacchi dell’età, la vista che diminuisce, la mano che trema? Certo è che l’artista, detto in termini attuali, si dà a ricorrere a zoomate successive, si approssima ai suoi temi, figure e ambienti, se li porta a breve distanza, forse perché l’occhio non domina più le grandi distanze, e la mano chiede un approccio di specie tattile, quasi da lasciar cadere il pennello e andare a dipingere con i polpastrelli, stabilendo un contatto diretto con le cose. Inoltre l’artista «da vecchio» sembra temere lo spazio aperto, la luce diurna, preferisce chiudersi in una stanza, amministrare una luce parca, endogena, prodotta da qualche torcia, da qualche fiamma, o addirittura nascente per fosforescenza dai materiali impiegati per rendere gli sfondi. Ed ecco il risultato miracoloso, così bene attestato dai capolavori qui riuniti, solo che a indicizzare tanta epifania risulta un po’ fatuo e generico il sottotitolo dato alla mirabile raccolta, «la sensualità della pittura», un’epigrafe che si adatterebbe a tanti altri pittori. Inoltre è distinzione solo di comodo quella che pretende di classificare a parte ritratti, temi sacri e temi mitologici, come se la ricetta pre-impressionista qui messa in opera non fosse unica.
Basterà andare a verificarla sul dipinto di più vaste proporzioni, quasi un quattro metri per quattro, che del resto è conservato proprio all’Accademia, la Pietà, che l’artista aveva eseguito per la sua tomba: dove i corpi, di Cristo, della Madonna, degli altri astanti, sono come sbocconcellati, frammentati, per meglio farli entrare nella nicchia del sacello, che li attende quasi come uno strato di sabbie mobili pronte a inghiottire la preda, ma intanto strani bagliori, quasi fuochi di S.Elmo, fiammelle spiritate, li illuminano di riflessi sinistri. Un altro capolavoro ben noto è quello dedicato al crudele scuoiamento di Marsia, colpevole di aver sfidato le ire del dio Apollo, ed è quasi un’opera simbolica della stessa modalità seguita dal Tiziano ultimo, che infatti fa delle azioni umane e dei dati ambientali come un tappeto continuo, un’epidermide illimitata, e poi si dà a scotennarla, come un indiano farebbe con gli scalpi, per poi andare a inchiodarla su una nuova superficie. Quanto alle Danai, che nude attendono di essere fecondate dalla pioggia di monete in cui si cela la libidine di Giove, esse affondano i loro corpi biancheggianti nella palude di coperte dozzinali, di giacigli apprestati per amori mercenari, mentre la pioggia di monete pare quasi un materializzarsi dei raggi di luce in densi granuli. Che «questo» Tiziano proceda per zoomate successive, lo si vede bene nel tema di Tarquinio e Lucrezia, affrontato più volte dall’artista, ma con riduzione progressiva delle distanze tra i due corpi, sempre più uniti nel rapporto omicida, affondanti insieme, carnefice e vittima, in un oscuro abisso.

l’Unità lettere 10.2.08
Ingerenza della Chiesa, perché l’Italia non fa come la Spagna?

L’atteggiamento della Chiesa Cattolica in Italia ed in Spagna sembra ormai uguale: intromettersi indebitamente negli affari interni dei Paesi che ne ospitano l’attività, sborsando tra l’altro somme cospicue a suo favore e sostegno: 5 miliardi di euro l’anno in Spagna, da 6 (stima de “la Repubblica) a 9 (stima del matematico Piergiorgio Odifreddi) miliardi in Italia.
Diverso è però l’atteggiamento delle istituzioni politiche verso la Chiesa Cattolica: succubi quelle italiane, gelose della propria autonomia e dignità quelle spagnole, che nei giorni scorsi hanno minacciato di ridurre i contributi statali se le autorità ecclesiastiche non si mostrano equidistanti nella contesa politica. In Italia non ho mai sentito avanzare una simile minaccia, né da destra né da sinistra, perché una spolveratina di cattolicità su programmi e comportamenti politici sembra ricercata un po’ da tutti, il coraggio della laicità è una merce sempre più rara, fenomeno di nicchia, ma se uno il coraggio non ce l’ha... come diceva Manzoni. È una democrazia molto giovane quella spagnola, ma ha già parecchio da insegnarci.
Giovan Sergio Benedetti, Lucca

Repubblica 10.2.08
Il patto democratico tra operai e borghesia
di Eugenio Scalfari


Un tema che impegnerà in pieno la nuova legislatura sarà quello delle questioni "eticamente sensibili"
Ci sono ancora, da una parte e dall´altra dei due schieramenti, larghe zone di resistenza alla collaborazione reciproca sulle riforme

L´esempio del Partito democratico è contagioso: Berlusconi si agita, il centrodestra è in subbuglio, Casini minaccia di imboccare un percorso separato se non potrà confederarsi conservando autonomia, ma anche la base di An non resterà elettoralmente indifferente alla piroetta di Fini e dei suoi colonnelli, già da tempo berlusconiani.
Alla sinistra del Partito democratico un altro processo semplificatorio è egualmente in corso. Anche lì con alcune non trascurabili difficoltà. Le sigle scompaiono ma il vento potente delle elezioni cancellerà inevitabilmente le microscopiche oligarchie dell´uno virgola che tanto hanno rallentato e debilitato il percorso del governo Prodi.
La ditta Diliberto scomparirà senza traumi rientrando nella casa da cui era uscita qualche anno fa. Per i Verdi l´abbraccio con la sinistra sarà assai meno semplice e non basta certo la parola «arcobaleno» nel logo elettorale a preservarne la missione cui del resto avevano già da tempo rinunciato.
L´esperienza dei partiti ambientalisti in Europa ci dice che essi, se non hanno la forza di presentarsi da soli al corpo elettorale, sono destinati a scomparire o debbono scegliere di fare da lievito ambientalista in un contenitore ampio. Stemperarsi nel Partito democratico poteva avere un senso, nella sinistra radicale non ha senso alcuno ed equivale ad un decesso annunciato.
La funzione rinnovatrice del Partito democratico sull´intero sistema politico è talmente evidente che tutti gli osservatori e commentatori l´hanno colta e sottolineata. Rappresenta un robusto passo avanti verso un bipolarismo meno imperfetto e, perché no? verso un bipartitismo che metterebbe finalmente il nostro paese al passo con le altre democrazie occidentali, gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Spagna, tanto per citarne le principali.
Ma gli effetti innovatori non si fermano qui. Altri se ne profilano non meno importanti e non privi di rischi.
L´appuntamento elettorale ne mette in prima fila alcuni, la fase successiva ne farà emergere altri dei quali tuttavia è fin d´ora possibile e utile segnalare la natura.
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In prima fila ci sarà il programma economico, in corso di avanzata stesura da parte d´un ristretto gruppo di competenti che si valgono di qualificati contributi: Morando, che guida l´équipe, Boeri, Visco, Bersani ed altri ancora. Si sa fin d´ora che le liberalizzazioni vi avranno ampio spazio. Il rifinanziamento dei salari e del potere d´acquisto dei redditi bassi e medi altrettanto. L´incremento di produttività e di competitività delle imprese. Il nuovo "welfare" configurato per bilanciare la flessibilità del lavoro.
Nel complesso la parte redistributiva del programma economico avrà come base i provvedimenti già predisposti da Prodi, Padoa-Schioppa e Visco nell´ultima fase di quel governo prima della crisi, con in più interventi di detassazione e di riduzione della pressione fiscale.
Questo complesso di misure che il gruppo dirigente del Partito democratico ha ben chiare in mente dovrebbe anche avere un effetto anticongiunturale e anti-recessivo. I sintomi di rallentamento economico sono ormai evidenti in Usa e in Europa; soprattutto in Germania, con effetti diffusivi nelle altre economie dell´Unione europea.
L´Italia da questo punto di vista offre possibilità di intervento anticiclico maggiori che altrove, i redditi individuali consentono e anzi richiedono incrementi capaci di rilanciare i consumi; le liberalizzazioni insieme a radicali interventi di riforma del sistema distributivo potrebbero stabilizzare i prezzi anche di fronte ad un aumento della domanda.
Per converso c´è carenza di manodopera qualificata. Questa è una strozzatura grave alla quale bisognerebbe far fronte con offerte di lavoro a tecnici e manodopera qualificata straniera.
Si tratta insomma di un insieme complicato che richiede collaborazione tra governo, sindacati, imprenditori, commercianti, agricoltori, banche. Mercato e regole di mercato. Un «mix» appropriato per un partito riformista affiancato da un patto sociale che garantisca un appoggio di base.
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Capitalismo democratico e nuovo patto sociale: così si può definire un programma idoneo all´attuale fase storica e addirittura dell´attuale andamento di «stagflation» del ciclo economico mondiale.
Per attuare un programma del genere è necessario sollecitare la collaborazione del centrodestra o offrire quella del Partito democratico, secondo che la vittoria elettorale arrida all´una o all´altra parte?
Tutti ci auguriamo che nella nuova legislatura l´opposizione sia esercitata in modo costruttivo e che la maggioranza ascolti i suggerimenti dell´opposizione, ma di qui a governi di larghe intese ci corre un mare. Io ritengo che le larghe intese siano sconsigliabili, più d´intralcio che di giovamento. La maggioranza ha il compito di stabilire le priorità e le modalità della politica economica, l´opposizione quello di suggerire modifiche e appoggiare specifiche misure di generale interesse. Niente di meno ma niente di più. Ma in altri campi la collaborazione tra le parti politiche contrapposte è invece necessaria laddove si parli di riforme istituzionali e costituzionali, non disponibili a maggioranze risicate ed occasionali.
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Ci sono ancora, da una parte e dall´altra dei due principali schieramenti, larghe zone di resistenza alla collaborazione reciproca sulle riforme istituzionali.
Bisogna vincere queste resistenze che non hanno alcuna valida motivazione. Si tratta di riformare la legge elettorale affinché il pessimo sistema attuale sia modificato recuperando la libertà degli elettori di scegliere i loro candidati, magari affidando tale compito a consultazioni primarie previste per legge. Bisogna anche varare un sistema proporzionale con elevate soglie di sbarramento, riformare i regolamenti parlamentari, e soprattutto il finanziamento pubblico: quello che è recentemente accaduto in Parlamento con la connivenza di tutti i gruppi è semplicemente vergognoso e deve essere a nostro avviso immediatamente cancellato fin dall´inizio della prossima legislatura. Infine bisognerà istituire il Senato federale in corso di legislatura.
Ma anche l´ordinamento giudiziario richiede una collaborazione bipartisan con l´occhio fisso al problema dei problemi che è quello dei tempi per una rapida giustizia. E´ imperativo che il processo sia riformato e la giurisdizione esercitata con efficienza e rapidità. Lo si promette da decenni senza che alle parole siano mai seguiti i fatti. Non è più possibile andare avanti in questo modo nell´erogazione di un servizio pubblico fondamentale.
A nostro avviso queste e non altre sono le riforme da affrontare insieme. Su tutto il resto la maggioranza e il suo governo siano responsabili di attuare il proprio programma, l´opposizione eserciti uno stretto controllo parlamentare e proponga valide alternative.
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Un tema che impegnerà in pieno la nuova legislatura sarà quello delle questioni «eticamente sensibili»; per dirlo in modo più concreto e semplice, il rapporto corretto tra i cattolici e i laici o meglio ancora tra la gerarchia ecclesiastica e le istituzioni della Repubblica, laiche per definizione.
Da questo punto di vista sono rimasto allibito (e non credo di esser stato il solo) leggendo sui giornali di ieri che Casini, dopo lo scontro con Berlusconi e Fini, si sia consultato sul da fare con il cardinale Camillo Ruini che sarebbe stato largo di suggerimenti e forse anche di interventi conciliativi tra l´una e l´altra fazione. Allibito. Qui non c´entra l´uso dello spazio pubblico che nessuno contesta alla gerarchia ecclesiastica. Qui un leader di partito sollecita l´intervento del cardinal vicario in una disputa tra forze politiche e il cardinale interviene. Così ho letto e mentre scrivo non mi risulta alcuna smentita da parte degli interessati.
Contemporaneamente Giuliano Ferrara lancia l´idea di una lista, collegata con il partito di Berlusconi e di Fini, che abbia come programma la moratoria contro l´aborto. Una lista siffatta, dopo che la gerarchia ecclesiastica con il conforto esplicito del Papa ha fatto sua la campagna di Ferrara, si configura come l´entrata in campo elettorale e politico dei vescovi italiani. In mancanza d´una pubblica sconfessione di quell´iniziativa, la lista sulla moratoria è dunque la lista della Cei. Se quest´iniziativa si materializzerà penso che il Partito democratico non possa sottrarsi a denunciare un´invasione di campo di proporzioni inaudite con tutte le inevitabili conseguenze che essa avrà sulla campagna elettorale e i contraccolpi sul rapporto fra le istituzioni laiche e quelle religiose.
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C´è ancora un aspetto dell´entrata in campo del Partito democratico che merita di essere affrontato. Sarà un partito di sinistra o di centro? Le opinioni degli osservatori sono sul merito discordi mentre quelle dei diretti interessati sono univoche: sarà un partito di sinistra riformista.
Personalmente la penso come loro: un partito di sinistra riformista che ha utilmente segnato un confine con la sinistra massimalista senza tuttavia che quel confine sia presidiato da un muro invalicabile.
La novità è notevole. Nenni aveva fatto qualche cosa di simile nel 1963, aveva rotto il patto d´unità d´azione col Pci fin dal ´57 dopo i fatti d´Ungheria, ma non c´era nessun muro tra i due partiti. Come non ci fu ai tempi di Craxi, almeno nelle parole. Ci fu nei fatti. Craxi faceva mostra di poter usare i due forni (quello della Dc e quello del Pci) per rendere ancor più forte il potere d´interdizione del suo 10 per cento dei voti e in gran parte ci riuscì.
E´ un fatto tuttavia che la sinistra massimalista o comunista ha esercitato un potere rilevante su quella riformista nel sessantennio di storia repubblicana. Il senso comune attribuisce al Pci la responsabilità di questa deformazione della democrazia italiana rispetto alle altre democrazie europee, ma non sempre il senso comune coincide col buonsenso. E´ certamente vero che il Pci ebbe in tempi di guerra fredda questa responsabilità, ma nessuno ha il buonsenso di domandarsi perché il Pci ebbe un peso determinante nella sinistra italiana mentre non lo ebbe (o addirittura non esisté) nelle altre democrazie europee.
Perché? Non è una curiosità storiografica poiché la questione ha riverberi sulla nostra attualità. La risposta potrebbe essere questa. Il Pci ebbe gran peso perché la borghesia italiana fu percorsa sempre da tentazioni trasformistiche e/o eversive e non dette mai vita ad una destra liberale di stampo europeo.
Il Partito democratico – così mi sembra – sfida oggi una destra demagogica e interpella quel poco che c´è di autentica borghesia produttiva affinché si schieri con le forze dell´innovazione che uniscono insieme i valori della libertà e dell´eguaglianza.
Dipende da questa borghesia se il partito delle riforme avrà la meglio stimolando anche – se vincerà – la destra a trasformarsi non solo nelle forme ma nella sostanza.

Corriere della Sera 10.2.08
La Cina e i diritti
Pechino non può avere una sua democrazia
di Ian Buruma


Poco più di due settimane fa, a Davos, dove si sono riuniti i Grandi & Bravi del pianeta, Kenneth Roth, direttore esecutivo dell'Ong Human Rights Watch, ha rivolto una garbata quanto pungente domanda a Pervez Musharraf, l'uomo forte del Pakistan. Come possiamo fare affidamento sulla Corte Suprema pachistana quale garante della regolarità delle future elezioni, si chiedeva Roth, quando Musharraf ha rimosso tutti i giudici contrari al suo regime autoritario? Al che, il presidente Musharraf ha perso la calma. Come poteva Roth (un americano) pretendere di «imporre » i suoi «valori europei» sul popolo pachistano? Il Pakistan, ha aggiunto, ha le proprie idee in merito a democrazia e diritti umani. Di più: quel che Musharraf sta elargendo non è un concetto qualsiasi di libertà all'occidentale, bensì «l'essenza della democrazia ».
Fu sempre Kenneth Roth a infastidire, nel giorno che ha preceduto questo avvincente scambio d'idee, un altro funzionario di un Paese extraoccidentale: l'influente diplomatico cinese Wu Jianmin. La Cina, rimarcava Roth, non è una democrazia, ragione per cui non si può pretendere che promuova la società civile nel resto del pianeta, ma può senz'altro adoperarsi maggiormente per fermare le atrocità di massa che dilaniano Paesi come il Darfur. Al che, l'ambasciatore Wu si è lanciato in un appassionato discorso intorno alla «democrazia cinese» e alla follia degli occidentali intenti a «imporre» agli altri il proprio ideale di democrazia.
Lo stesso sentimento fu esternato da una portavoce del governo cinese dopo che Hu Jia, noto attivista dei diritti umani, era stato arrestato lo scorso dicembre con l'accusa di «istigazione alla sovversione dei poteri dello Stato». Il suo reato? Aver raccontato sul proprio sito Web episodi di violazione dei diritti umani. Secondo la portavoce del ministero degli Esteri, «il popolo cinese è il miglior giudice della condizione dei diritti umani in Cina ».
Argomenti del genere non suonano nuovi e forse, complice l'uso troppo frequente, iniziano a logorarsi e sbiadire. Eppure, riecheggiano tuttora in diversi ambienti in cui la «colpa coloniale» continua ad alterare qualsiasi percezione del mondo in via di sviluppo. Ancor più importante, probabilmente, riecheggiano tra gli uomini d'affari, che avvertono il bisogno di una giustificazione morale ai profitti intascati in Paesi antidemocratici: «È la loro cultura. Chi siamo noi per imporre… ».
Tutto ciò impone alcune considerazioni. Anzitutto, l'Occidente ha molto raramente— ammesso che l'abbia mai fatto — «imposto» la democrazia su un altro Paese. Se ciò fosse avvenuto, forse il mondo sarebbe un posto migliore. Un certo qual sostegno di facciata alla democrazia è stato manifestato dopo l'invasione dell'Iraq, ma soltanto pochi membri dell'amministrazione Bush hanno nutrito un vero interesse per l'affermazione di libere istituzioni. In quanto alla questione birmana, i governi occidentali non possono fare molto di più che predicare la democrazia e i diritti umani. In Cina hanno rinunciato anche a questo. Gli interessi economici sono semplicemente troppo importanti. Senza il denaro dei cinesi, l'economia statunitense sprofonderebbe in guai persino più gravi di quelli attuali.
Ora, è pur vero che ogni Paese ha la sua storia e la sua cultura. Spesso, tuttavia, la cultura — intesa come «costumi» e «tradizioni » — altro non è che un paravento per il compromesso politico. I sostenitori della democrazia in Paesi come Cina, Pakistan o Birmania non accusano l'Occidente di volere imporre i suoi valori; solo gli autocrati lo fanno. Fino a qualche decennio fa, si faceva un gran parlare, soprattutto a Singapore e in Malaysia, di «valori asiatici». Obbedienza all'autorità, sacrificio dell'interesse personale sull'altare di quello che i governi additavano come l'«interesse nazionale», accettazione di restrizioni alla libertà di espressione: tutto ciò veniva rivendicato come una specificità asiatica, qualcosa che era insito nel Dna culturale di tutti i figli dell'Asia. In realtà, si trattava soltanto di una giustificazione alla politica autoritaria ereditata da personaggi come i primi ministri Mahathir Mohamad e Lee Kuan Yew direttamente dall'Impero britannico.
Mentre imperversava la propaganda dei «valori asiatici», i cittadini sudcoreani, taiwanesi, thailandesi, cinesi e filippini davano vita a enormi manifestazioni di protesta contro i leader autoritari dei rispettivi Paesi. In Corea del Sud e in Taiwan, così come — seppur in modo più discontinuo — in Thailandia e nelle Filippine, hanno riscosso un certo successo. E, più di recente, il popolo birmano per che cosa ha rischiato la propria vita, se non per una piena conquista di quelle che Musharraf liquida come «imposizioni culturali degli europei»? Quello a cui essi aspirano non è la nostra cultura, ovviamente, bensì il ventaglio di libertà che noi diamo ormai per scontate.
Quando entrano in ballo i diritti umani, e non soltanto quelli politici (sebbene le due categorie siano ovviamente correlate), tutto rischia di farsi più complicato. Non sempre è facile stabilire quando un «diritto umano» sussiste o meno. Il lavoro infantile, ad esempio, può risultare una necessità in Paesi estremamente poveri. Tentare di porvi fine in nome dei «diritti umani» può peggiorare le cose per la popolazione, anziché migliorarle.
Resta il fatto che, come si diceva, la cultura è sovente un misero paravento all'offesa della dignità umana. La schiavitù o la circoncisione femminile sono indubbiamente iscritte in alcune culture, proprio nella misura in cui rappresentano pratiche tradizionali. Fino a che punto l'Occidente possa — o debba — intervenire direttamente, è questione assai ardua. Il sostegno della popolazione locale è un fattore cruciale, quando sul piatto c'è la promozione di riforme e cambiamenti culturali. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, siglata nel 1948 da Cina, Birmania e Unione Sovietica, assieme a molti altri Paesi, riceverebbe indubbiamente il sostegno della maggioranza della popolazione mondiale, quale che sia la nazione di appartenenza. È arduo immaginare che il popolo cinese, pachistano, nordcoreano o dello Zimbabwe possa pronunciarsi a favore della tortura, degli arresti arbitrari o dell'illegalità per ragioni culturali.
Il problema è che tali diritti possono essere garantiti soltanto in presenza di determinate condizioni politiche. Nessun partito o leader dovrebbe essere al di sopra della legge. E i cittadini non dovrebbero essere arrestati per aver criticato in modo pacifico il proprio governo. Occorre dunque porre in essere le procedure e i meccanismi necessari per risolvere in via pacifica i conflitti d'interesse politici o cambiare il governo al potere in questo o quel Paese, se tale è la volontà della maggioranza della popolazione. Le istituzioni in grado di realizzare questi obiettivi possono ispirarsi a diversi modelli, a seconda della cultura e delle circostanze locali. Ma possono essere tutte efficacemente descritte da un'unica parola, di cui si è molto abusato in questi ultimi anni, e che tuttavia conserva ancora sufficiente potere per ispirare gli animi, a Pechino e a Rangoon non meno che a Barcellona o a Washington: democrazia.
Traduzione di Enrico Del Sero

Corriere della Sera 10.2.08
Omaggi. Firenze: 50 opere di Ottone Rosai a Palazzo Medici Riccardi
Si contraddice, ma è geniale
di Giorgio Cortenova


Firenze rende omaggio ad Ottone Rosai (1895-1957) con una rassegna di 50 lavori in cui sono racchiuse le contraddizioni di questo straordinario cantore della solitudine umana.
Si parte da Follie estive (1918), un Rosai che conosciamo, ma anche quello ancora poco noto e indagato, come nel caso di Nudo disteso ('47),
Atleta ('48), Nudo di ragazzo ('50), opere in cui la forza plastica della forma rivela tuttavia la violenza dell'essere e la corruttibilità del corpo.
Impulsivo, irrequieto, autodidatta, diverso in tutto oltre che nella sessualità, nel '13, a soli 18 anni, Rosai entra in contatto con il gruppo futurista di Soffici, Carrà, Severini, e l'anno dopo espone con loro a Roma da Sprovieri. Tra futurismi ed entusiasmi bellici, Ottone si arruola per la Grande Guerra e porta al fronte la sua esaltazione, consumando ardimenti e ricavandone medaglie. Torna ancora più arrabbiato, violento e insoddisfatto.
Nasce qui la contraddizione del suo profilo creativo. Rosai vive in un modo e dipinge in un altro: adesso guarda al Cézanne dei Giocatori di carte e la sua pittura è incline all'intimismo e alla povera vita del popolo, mentre tutti i clamori e le bravate squadriste, che spesso lo vedono protagonista, rimangono fortunatamente fuori dallo studio.
Un tale, geniale sdoppiamento di personalità, è testimoniato in mostra da opere come Via Toscanella
('22), un vero e proprio manifesto di quei silenzi che rilanciano in una sorta di respiro metafisico le realtà «minori» delle antiche viuzze fiorentine; e poi Donne alla fonte, Vallesina, Alla rotonda, altrettante tappe fondamentali del suo fare pensieroso che, a partire dagli anni Venti, arricchisce il suo percorso creativo.
Così focoso, maramaldo e perfino violento, dipinge gli emarginati forse perché emarginato si sente egli stesso, con quella sua omosessualità così poco occultata che, visti i tempi, nel '38 quasi gli procura il confino. Spesso dipinge intingendo il pennello nel colore mescolato al lattice di fico, affinché la pasta si rapprenda meglio sui vicoli che svoltano bruscamente verso gli enigmi di ogni giorno. Di quei misteri quotidiani, che opprimono e però nobilitano la sua umanità dolente, egli diventa il «narratore» inesausto, la cui grandezza è stata solo in parte riconosciuta, per ragioni alternativamente ideologiche o moralistiche.
OTTONE ROSAI Firenze, Palazzo Medici Riccardi, sino al 25 marzo. Tel. 055/2760340 Rosai: «Via Toscanella» (1922)

Liberazione 10.2.08
Il messaggio di Bertinotti
Il conflitto di lavoro, come conflitto di classe, centro della politica


Care compagne e cari compagni, vorrei non farvi mancare un partecipe augurio di buon lavoro. Ce n'è bisogno.
La sinistra in Europa si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella da cui dipende la sua stessa esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta: quel che si affaccia all'orizzonte è il rischio di un vero e proprio declino. Non ci può sfuggire che c'è l'urgenza del fare per evitare che la sinistra venga sradicata dal paese e c'è l'urgenza del fare perché una diversa prospettiva possa essere aperta. E una diversa prospettiva può essere davvero aperta. Dipende da noi.
Proprio quel che ha trasformato negli ultimi 25 anni il lavoro salariato, ridefinendo le forme dello sfruttamento e dell'alienazione, è al centro della sfida.
La precarietà ha occupato la scena sociale spezzando la coalizione del lavoro. La terribile realtà che emerge con i morti sul lavoro alla Thyssen, proprio nella città che è stata quella del modello operaio sull'ambiente e la salute, il modello di Ivar Oddone e del sindacato dei Consigli, lo dice forse più di ogni altra cosa.
Quel che è successo in questi anni è impressionante: un vero e proprio rovesciamento del rapporto tra lavoro e società rispetto al ciclo precedente, quello dell'ascesa del proletariato. In quello il lavoro è stato centrale, è stato il fondamento del conflitto di classe che ha caratterizzato, in Europa, la politica. Lo stesso pensiero liberale ne ha dovuto riconoscere il carattere progressivo. Un'intera letteratura sociologica ha studiato il conflitto come spinta all'innovazione del processo produttivo e delle relazioni sociali, e, ancora, come stimolatore dell'economia. Concretamente, quel conflitto è stato la levatrice del compromesso sociale e democratico, ha segnato le istituzioni, il diritto e la politica. Dopo aver informato di sé il processo costituzionale democratico (basti pensare agli articoli 1 e 3 della Costituzione italiana), ha, nei suoi punti alti, influenzato la legislazione (si pensi, in Italia, allo Statuto dei diritti dei lavoratori, e, in generale, alla legislazione sociale).
Se si fa il confronto con questo ciclo, quello dell'ascesa della classe operaia, non si può che giungere alla conclusione che il rapporto tra il lavoro, l'impresa e la società, in questi ultimi decenni, è stato rovesciato. Il lavoro è diventato la variabile dipendente del sistema economico. La tendenza a ridurlo ad una sola dimensione, quella di merce, e a sussumerlo tutto dentro l'accumulazione, è la base materiale (ma anche il fondamento culturale) dell'edificazione di un capitalismo totalizzante che si propone la colonizzazione della mente e del corpo come di ogni aspetto della vita. E ciò che viene usato dall'impresa è anche ciò che viene negato come riconoscimento al lavoratore, cioè la socializzazione del lavoro, la cultura e la sua esperienza di vita. La macina lavora nel profondo per ridurre la civiltà a ciò che resta compatibile con la globalizzazione capitalistica; per dissolvere la storia e il tempo nell'istante; per incanalare la vita intera nel circuito produzione-consumo di cui il mercato diventa il sovrano.
Il conflitto di lavoro, come conflitto di classe, fondamento della politica della trasformazione, torna dunque ad occupare la scena della politica. Non ci sono vie di fuga; il toro va afferrato per le corna. La sinistra deve affrontare la sfida del lavoro salariato contemporaneo, sia sul terreno pratico che teorico, sia sul versante del conflitto e della sua organizzazione, che sui rapporti sociali, sia sulle proposte per una nuova legislazione del lavoro e sociale che sui sistemi e i contenuti contrattuali, sia sui termini quotidiani della contesa che su quello strategico di società. E deve farlo in proprio, anche in nome della messa a valore dell'autonomia tra partito e sindacato. La riorganizzazione della presenza fisica delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi della decisione politica si pone, allora, non come cooptazione ma come fattore della riforma della politica e della forma partito. L'inchiesta permanente e partecipata sul lavoro non è solo un elemento di ricchezza e di qualità per la politica della sinistra e per il suo soggetto politico, essa è un utensile del lavoro sociale, politico e culturale senza il quale non si esce dalla superficialità della politica e non si imbocca la via di un approccio critico e sistematico alla grande questione che è tornata a farsi per molti versi dirimente rispetto alla natura della sinistra, la questione del lavoro.
Come diceva chi se ne intendeva, l'opera di liberazione delle lavoratrici e dei lavoratori non può essere che opera dei lavoratori stessi. Ripartiamo da qui, buon lavoro e buona fortuna.
Fausto Bertinotti

Liberazione 10.2.08
Ripartiamo da qui oppure la sinistra muore
di Piero Sansonetti


Alle ore 14 di ieri, a Roma, è morto un operaio che lavorava in un cantiere edile, schiacciato da una ruspa. E' successo a Forte Bravetta, periferia ovest. Il nome? Non lo sappiamo, e se pure lo sapessimo potete stare sicuri che nessuno ci farebbe caso a quel nome. Aveva 65 anni. Evidentemente non aveva maturato i contributi per la pensione. Voi sapete che gran parte del mondo politico italiano considera scansafatiche quelli che magari a sessant'anni, dopo una trentina di anni passati alla catena di montaggio con un un piccolo stipendio, vorrebbero andarsene il pensione a riposarsi, e pesare - senza rimorsi - sul bilancio dello Stato. L'operaio di Forte Bravetta non costerà una lira allo Stato. Non peserà.
Che gli operai esistano ancora - talvolta muoiono, sempre faticano, sempre soffrono - che la ricchezza di questo paese sia prodotta - come secoli fa - da loro, dai lavoratori, e da nessun altro; che i lavoratori vivano una situazione sempre più dura, faticosa, difficile, anche di oppressione; che per la prima volta da molte e molte decine di anni la condizione dei lavoratori sia peggiorata (dopo due secoli di conquiste e avanzamenti), sono tutti argomenti completamente assenti dal dibattito politico nazionale e dalle analisi e dai pensieri e dalle preoccupazioni dei suoi principali leader. Avete sentito parlare di queste cose nei mesi scorsi (per esempio quando sono state fatte le leggi sul mercato del lavoro, sul welfare, sulle pensioni) o ne avete sentito parlare in queste prime ore di campagna elettorale?
Non ne avete sentito parlare. Per questo la conferenza dei lavoratori organizzata dal Prc ieri a Torino, davanti alla ThyssenKrupp, è stata un avvenimento politico molto importante e originale. Voglio sbilanciarmi, osare: più importante del comizio di ieri di Berlusconi, più importante del dramma di Pierferdinando Casini offeso dai suoi amici della destra. Il Prc è partito da lì: ha chiamato i lavoratori e ha chiesto loro di parlare, di dire cosa pensano, come vivono, cosa vogliono, a cosa può servire loro la politica. Hanno risposto: «Ci sentiamo soli, siamo incazzati, abbiamo bisogno di rovesciare gli attuali rapporti di forza tra noi e la società, noi e l'impresa, noi e la fabbrica, noi e la politica. E hanno chiesto alla sinistra: davvero hai voglia di nascere e di diventare un nostro interlocutore e di porre il lavoro al centro della politica e del progetto di riorganizzazione della società e del mercato? Se è così puoi contare su di noi. Ci saremo, come ci siamo sempre stati nei momenti decisivi. Ma se non sei in grado di fare questo, se ti chiudi nei burocratismi, se pensi che la politica sia tuta tattica, accordi, diplomazie e opportunità, allora non bussare più alla nostra porta...»
La conferenza operaia del Prc è stata una grande iniziativa politica, piena di dramma e anche di speranza. Ci ha detto una cosa chiarissima: se vogliamo davvero costruire la sinistra nuova, quella del XXI secolo, dobbiamo ripartire proprio da qui, dalla lotta per smantellare le gerarchie economiche, sociali, umane che regolano la nostra società, e che negli ultimi decenni - spinte dal liberismo e dal pensiero unico - sono diventate piramidi feroci, autoritarie, prepotenti, di dominio. Oggi le grandi forze della destra e del centro moderato lavorano per rafforzare quella piramide e qul dominio (sottomettendo i lavoratori, sottomettendo le donne, gli immigrati eccetera), perché pensano che sia l'unico modo per governare una società complessa e la globalizzazione. Pe opporsi la sinistra può partire solo da un nuovo patto, una nuova alleanza coi lavorato

Liberazione 10.2.08
«Il Vaticano odia le donne. Da sempre»
di Laura Eduati


Piero Bernocchi dei Cobas è entusiasta: «L'invadenza del Vaticano spinge sempre più persone al corteo No Vat. La politica? E' naturale che non venga, terrorizzata com'è dall'apparire anti-clericale». Eppure spuntano parlamentari di Rifondazione tra le mitre di cartone "Lesbo pride" e i diavoli col "frocifisso". «Questo corteo è di movimento» commenta Titti De Simone, «meglio lasciare a loro la parola. La Sinistra l'Arcobaleno deve portare come segno distintivo la laicità, altrimenti è inutile». Con lei Elettra Deiana, Vladimir Luxuria e Imma Barbarossa.
Negli ultimi mesi sono aumentati i motivi della protesta anti-Ratzinger: dall'episodio della Sapienza all'attacco contro la 194 fino al rimprovero da parte del Pontefice, notizia di ieri, nei confronti delle politiche che cancellano la differenza tra uomo e donna.
Gay e donne nel mirino, come sempre. Ecco perché immediatamente dopo la testa del corteo sfilano le lesbiche e le femministe insieme. E sono tante le donne che chiedono di non toccare la legge sull'aborto, l'abolizione della legge 40 sulla procreazione assistita e la fine delle violenze in famiglia. Tra loro Lea Melandri, fino a poco tempo fa nel milanese Usciamo dal silenzio, Roberta Corbo di controviolenza.org e Edda Billy della Casa internazionale delle donne di Roma, tra le organizzatrici della marcia contro la violenza maschilista il 24 novembre scorso. Poco più tardi spunta Rossella Praitano, presidente del circolo Mario Mieli.
Preoccupa, poi, la moltiplicazione di aggressioni neofasciste ai danni di studenti di sinistra e omosessuali. «Il Vaticano parla, i fascisti picchiano» continua Poidimani dal sound system, chiedendo l'abolizione del Concordato firmato l'11 febbraio del 1929 proprio con il regime mussoliniano. Per i No Vat fascismo, chiesa, omofobia, oppressione delle donne e neoliberismo costituiscono un muro unico. Così al tradizionale tradizionale slogan di apertura del corteo, autodeterminazione laicità e antifascismo, sono state aggiunte le parole liberazione e cittadinanza.
Ma il No Vat è anche carnevalesco, irridente, iconoclasta. Ragazze col burqa oppure vestite da suora, mascherine di Ruini-vampiro, Ratzinger-diavolo, Binetti-queer. La new entry è Giuliano Ferrara con parrucca, contro la sua moratoria sull'aborto. Una basilica di San Pietro in foggia da deposito di Paperon de' Paperoni campeggia sul sound system, perché presi di mira sono i privilegi economici della Chiesa come l'esenzione dell'Ici. «Ratzinger paga le tasse» urlano ad una suora che si affaccia sbigottita su via Arenula, prima di chiudere violentemente la finestra.
Decine di cartelli irriverenti: "Rianimatevi il cervello", "L'unica Chiesa che illumina è la Chiesa che brucia" "Se la risposta è Dio la domanda è sbagliata". Attacco frontale, senza mediazioni politiche perché la politica ha deluso e allora tanto vale fare lo sberleffo, prendersi la soddisfazione di parlare direttamente col Papa e rinnovare uno slogan femminista degli anni '70: "Il culo è mio e me lo gestisco io".
Il corteo si indigna quando scopre che la scalinata del Campidoglio è transennata e difesa da un manipolo di agenti. «Vergogna, il municipio è un luogo pubblico!» e poi si riparte. Tanto più che, paradossalmente, l'accesso alla chiesa dell'Ara coeli è libera. Un ragazzo trascina un crocifisso di legno con catenelle infilate nella pelle dei gomiti mentre una ragazza gli lancia banconote false da 100 euro. Un coretto di ragazze canta "Il Vaticano brucia oh oh oh" e "Noi odiamo i papa-boys"sulle note di Vamos a la playa.
Corteo variegato: non soltanto gay per mano, lesbiche travestite e trans che chiedono di non essere considerati dei malati da psichiatrizzare in attesa del cambio di sesso, ma anche studenti giovani, giovanissimi, donne di una certa età, famigliole con bambini e persino cristiani evangelici come Alice di Vicenza venuta per difendere la laicità, e persone di nazionalità spagnola, americana, sudamericana e francese, a Roma per i tre giorni di dibattito organizzati al Forte Prenestino sull'omofobia, proprio in occasione del No Vat. «Fuori i preti dalle nostre mutande, dai nostri ospedali, dalle nostre scuole. Hanno venduto le nostre città alla Chiesa» continua Facciamo Breccia.
L'ingerenza della Chiesa sta tracimando gli argini, è il messaggio finale di alcuni rappresentanti del movimento, da Porpora Marcasciano del Mit agli atei razionalisti dell'Uaar. Una donna sulla cinquantina ha camminato per chilometri silenziosa, al fianco di un'amica. Appesa sulla schiena una lavagnetta di quelle che si usano in cucina per segnare la lista della spesa, con una scritta: «Il Vaticano odia le donne da sempre».

Liberazione lettere 10.2.08
Polemiche. La censura vige ancora?

Ciao, il compagno Fulvio Iannaco vi scrive ("Liberazione" del 9 febbraio) a proposito dell'articolo di Andrè Tosel. Il direttore Sansonetti prende a pretesto la censura e lo stalinismo ormai cancellati dall'operare del nostro partito e dal suo organo di stampa per giustificare la pubblicazione dello scritto di Tosel, uno dei massimi intellettuali francesi; non sia mai che un intellettuale, anche se dice immani stupidaggini, non sia degno di pubblicazione. Per i compagni militanti del partito, dissidenti dalla linea dei dirigenti, invece la censura vige ancora, visto che le lettere di forte dissenso che pervengono tutti i giorni, non solo da me ma da molti altri compagni, sono sempre neglette e sistematicamente cancellate. Per non parlare poi dello stalinismo, visto il comportamente di tutti i dirigenti nazionali che hanno cancellato un congresso e si avviano senza alcuna discussione allo scioglimento del partito che, a loro, non serve più. Piccolo esempio di stalinismo: rimosso Marco Checchi, promotore dell'Appello di Firenze "Un congresso per il rilancio dei movimenti e dell'autonomia del Prc". Fino a quando il compagno Checchi era della maggioranza tutto andava bene, ora invece lo si rimuove, perché non si vogliono dissidenti ai vertici del partito, tutto deve filare liscio come decide il segretario nazionale. La scusa della rimozione? Il tesseramento in calo. Tutti sanno, anche i sassi, che il calo del tesseramento è dovuto alla linea del partito e alle tre scissioni (Ferrando, Ricci e Cannavò) avvenute in questi mesi. Ma no! La colpa è del compagno Checchi. Anche noi abbiamo avuto un calo nel tesseramento provinciale, ma non ci siamo proprio sognati di rimuovere il compagno responsabile dell'Organizzazione, visto che la colpa non è stata sua ma delle ragioni di cui sopra e della disillusione di tanti validissimi compagni che dopo anni di militanza se ne sono andati sbattendo la porta. Saluti antistalinisti,
Roberto Fogagnoli via e-mail

"Liberazione" pubblica tutti i giorni almeno una lettera contro Bertinotti e una contro le scelte di presentarsi alle elezioni con la Sinistra l'Arcobaleno (scelta fortemente sostenuta dal giornale). Ti pregherei di fornirmi un elenco di giornali che fanno altrettanto... Con affetto
Piero Sansonetti


il manifesto 12.2.08
Il marketing e il simbolo
di Alessandro Robecchi


Tra le cose più entusiasmanti dell'attuale fase politica c'è senza dubbio la questione dei simboli, dove si intrecciano storie secolari e scienze moderne (il marketing). Non c'è bisogno di andare lontano: la croce è senza dubbio un simbolo potentissimo e millenario, uno straziante strumento di tortura che è diventato un marchio - anche ideologico - planetario. Tanto sufficiente a se stesso, verrebbe da dire, che lo vediamo spesso pendere dorato e luccicante tra le tette delle soubrette, senza che ciò provochi alcuno smottamento emotivo. Fini e i suoi postfascisti rinunciano in un quarto d'ora alla famosa fiamma, che per anni li aveva visti discutere animatamente su radici, identità e tradizioni, sempre ben ancorate all'area manganello & olio di ricino. E siccome la situazione è grave ma non seria, assisteremo probabilmente allo spegnersi di un'altra fiamma, quella dei fascisti non pentiti alla Storace, che pur di prendere il treno di Silvio la spegneranno volontieri. Nel frattempo possiamo prepararci a simboli nuovi (una rosa bianca, perché no), oppure esercitarci satiricamente sui simboli che Mastella, o Dini, potrebbero adottare (un tariffario?). E poi, naturalmente (veniamo a noi) c'è la falce e martello, simbolo secolare delle lotte delle classi subalterne. Cancellare quel simbolo? Lasciarlo? Il dibattito è straziante, ma anche un po' ridicolo. Fregiarsi di falce e martello e poi votare a favore delle missioni «di pace», per esempio, non corrisponde al crocefisso che occhieggia ammiccante dalla scollatura? Forse bisognerebbe lottare per cambiarli i simboli, non per tenerli immutabili. Per esempio se la sinistra italiana adottasse come simbolo un grafico che mostri quanto pesa la rendita, quanto il profitto e quanto il reddito da lavoro in questo modernissimo paese, lancerebbe un messaggio assai chiaro, da far sobbalzare chiunque.

il manifesto 12.2.08
Un desiderio di desideri: la malinconia Lev Tolstoj in «Anna Karenina»
Così parla l'altra voce del discorso capitalista
di Massimo Recalcati


L'organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che, nel 2020, la depressione sarà la prima causa di invalidità, dopo le malattie cardiocircolatorie, nelle cosiddette società del benessere. La sua diffusione epidemica è avvertita come un problema di sicurezza sociale, la sua minaccia incombe su tutti noi, la sua sirena mortifera sembra non conoscere argini. I governi assumono iniziative per informare i cittadini sui rischi che la depressione comporta e sui modi per vincerla. Da quattro anni a questa parte, il 9 ottobre si celebra la giornata della depressione, sia in Italia che in altri cinque paesi europei (Francia, Spagna, Belgio, Regno Unito, Germania) mentre negli Stati Uniti una iniziativa simile esiste già dal 1991. D'altronde, l'uso della diagnosi di depressione si è inflazionato a tal punto che l'etichetta di «depresso» non si nega a nessuno, nemmeno ai bambini, ai quali infatti non si risparmia, ormai da tempo, l'uso del Prozac. Mentre una tribù di specialisti assicura la conoscenza adeguata del problema e propone la sua soluzione terapeutica tecnicamente più efficace, in tutto il mondo occidentale le aziende farmaceutiche si prodigano per proporre antidepressivi sempre più aggiornati e il loro consumo è in costante crescita. Un dato è certo: l'epidemia depressiva non deprime il loro business.
Non solo un dato statistico
Ma la depressione è davvero un sintomo che contraddistingue in modo particolare il nostro tempo? Per un verso essa accompagna da sempre come un'ombra la realtà umana, essendo un affetto - ossia una situazione emotiva - attraverso il quale l'esistenza viene confrontata con se stessa, con la propria fragilità, con la propria costituzione lesa e imperfetta. Per un altro verso, però, la sua diffusione di massa ne fa un sintomo con peculiarità nuove e il suo carattere epidemico non è un dato meramente statistico, perché rivela piuttosto una paradossale congiuntura tra l'affetto depressivo e quello che Lacan aveva formalizzato come «il discorso del capitalista». Formula con la quale si intende quel tipo particolare di legame sociale sostenuto dalla pretesa illusoria di eliminare il dolore di esistere tramite la messa a disposizione di un godimento immediatamente accessibile, millantando la possibilità di sanare la lesione che attraversa la realtà umana e la rende strutturalmente precaria e mancante attraverso il consumo di oggetti del godimento.
La potenza del «discorso del capitalista» non consiste affatto nel liberare gli uomini dalla schiavitù dei loro bisogni, ma nell'alimentare continuamente la loro domanda attraverso l'offerta illimitata di oggetti-gadget. In questo contesto, le aziende farmaceutiche, protagoniste indiscusse del business intrinseco alla terapia cosiddetta antidepressiva, sono una manifestazione specifica del discorso del capitalista. Pretendendo di offrire il rimedio giusto - la pillola della felicità - lungi dal favorire la cura della depressione finiscono in realtà per incoraggiarne la diffusione. Infatti, non soltanto il consumo degli antidepressivi può rivelarsi inefficace nel trattamento della depressione, ma tende talvolta ad alimentare una spirale maligna di dipendenza. Gli psicofarmaci sono, in effetti, oggetti specifici del nostro tempo, proprio perché la fede nella loro azione condensa l'idea secondo la quale esisterebbe una cura mirata per il dolore di esistere. Dire questo non equivale a demonizzare l'uso clinico degli psicofarmaci, che in certe situazioni sono effettivamente necessari e insostituibili, bensì invitare a cogliere il significato relativo alla promozione sociale della loro azione: una azione che, facendo a meno dello scambio simbolico con l'altro, facilita l'isolamento della persona favorendo la sua depressione.
Ecco un insegnamento fondamentale della psicoanalisi: se l'angoscia proviene dall'incontro con il proprio desiderio, la depressione annulla l'angoscia e, di conseguenza, proietta il desiderio nello stagno immobile di un tempo senza avvenire. Consiste in questo, per Lacan, la viltà etica che accompagna l'affetto depressivo, ossia la scelta di indietreggiare di fronte al proprio desiderio e di preferire ad esso il rifugio in un godimento solitario e distruttivo, capace di sottrarci al campo delle relazioni umane.
Uno dei tratti fondamentali della contemporaneità consiste, in effetti, nel fatto che si è allentata la natura simbolica del legame sociale. Perciò, l'uomo contemporaneo appare alla deriva, smarrito, privo di riferimenti ideali capaci di esercitare una funzione orientativa, insofferente verso le perturbazioni che intervengono inevitabilmente nell'incontro con l'altro sesso, condizionato dall'offerta incalzante degli oggetti-gadget che si propongono come nuovi partner inumani, a portata di mano e di bocca, capaci di rimpiazzare l'incontro angosciante con l'imprevedibilità del desiderio. Il nostro è il tempo, come scriveva già Adorno in Minima Moralia, del godimento monadico, ovvero di una esasperazione autistica dell'individuo che esclude la sua dimensione sociale e collettiva.
La elettrizzante girandola degli oggetti-gadget, nella quale rientra anche l'oggetto-psicofarmaco, avvolge noi ipermoderni in un'atmosfera di maniacalità collettiva. E l'obbligo di essere felici si impone come un nuovo comandamento superegoico. In questo contesto, la depressione va letta come il rovescio del «discorso del capitalista», come la sua verità rimossa, come l'altra faccia della sua euforia maniacale. Mentre la grande meditazione filosofica (da Schopenhauer a Leopardi) ci confronta con l'esperienza del limite e dell'inconsistenza dell'universo - in questo senso la malinconia è una componente per certi versi ineliminabile dell'attitudine teoretica - la depressione contemporanea sembra legata acriticamente a una circolazione impazzita del godimento, in una sorta di contrappunto critico con «le magnifiche sorti e progressive» del mito capitalista derivato dalla rivoluzione industriale e dalla ragione tecnologica.
Il suo focus non è tanto nell'esperienza del nulla, nell'assenza di fondamento, nel limite della ragione tecnologica, ma in un troppo pieno, in un'assenza di pensiero; o, se si preferisce, in un vuoto che non ha più niente di metafisico perché è, in realtà, solo il prodotto rovesciato del pieno derivato dal godimento. È depressione da confort, da routine, da caduta del desiderio, da eccesso di conformismo, è la depressione che deriva dall'apice maniacale del divertissement.
Dove c'è il sol levante
I quotidiani giapponesi della fine degli anni '90 registravano, nelle pagine di cronaca, la diffusione inquietante di suicidi di uomini d'affari disperati dall'andamento critico del sistema economico. Uomini intorno ai cinquant'anni, per lo più manager, decidevano di togliersi la vita gettandosi sotto i treni. Per il pragmatismo giapponese uno degli effetti non trascurabili di questo fenomeno erano i frequenti ritardi che paralizzavano il traffico delle grandi città. Una compagnia di treni escogitò un rimedio installando nelle stazioni ferroviarie quelli che vennero chiamati «specchi antisuicidio». Si pensò, infatti, che vedere la propria immagine allo specchio avrebbe dovuto garantire una iniezione di narcisismo provvidenziale in persone che si percepivano come svuotate di ogni valore. Forse, il fondamento teorico degli specchi antisuicidio si trova in quella ipotesi classica del post-freudismo formulata da Judith Jacobson, secondo la quale la depressione segnala un fondamentale impoverimento narcisistico dell'Io. Tuttavia, l'uso degli specchi antisuicidio non può non mostrare la sua ingenuità, riflettendo innanzi tutto l'illusione secondo la quale l'identità individuale troverebbe la propria rassicurazione in protesi inumane come la droga, il cibo, i computer, l'alcool, gli psicofarmaci, e persino nella propria immagine speculare fornita dallo specchio. La logica che motiva gli specchi antisuicidio presuppone una nozione massimamente elementare del narcisismo, di cui la depressione anoressica ci offre una illustrazione precisa: l'immagine ideale del corpo-magro non coincide mai con quella restituita dallo specchio, perché anzi l'immagine speculare può assumere caratteri beffardi, persecutori e affliggere il soggetto proprio perché non potrà mai coincidere con l'immagine ideale di sé. Lungi dunque dall'agire come una iniezione di narcisismo, essa innesca la depressione proprio per la sua inevitabile inadeguatezza all'immagine idealizzata del corpo-magro.
La funzione positiva dell'immagine sarebbe quella di abbigliare il soggetto in modo che il reale della sua nuda vita non emerga traumaticamente, ma sia rivestito da un involucro immaginario. Se noi non ci vediamo, per esempio, come una muffa assurda (cosa che invece, letteralmente, accade in determinati deliri melanconico-ipocondriaci) è perché il reale della nostra nuda vita è stato sufficientemente rivestito dal valore narcisistico dell'immagine del corpo, e questo avviene grazie all'accompagnamento simbolico determinato dallo sguardo benefico dell'altro. È attraverso quello sguardo che - come hanno diversamente ripetuto Lacan e Winnicott - possiamo in effetti riconoscere la nostra stessa immagine. Come dimostra la melanconia grave, la vita biologica non è in sé sufficiente a fornire il sentimento della vita. Non a caso Freud nelle Nevrosi di traslazione, in una evocazione mitica, associa la melanconia all'epoca filogenetica della glaciazione: la vita spogliata da ogni supporto narcisistico appare priva del calore umano che serve alla vita, e dunque appunto gelata. Effettivamente, nelle persone che soffrono di melanconia psicotica troviamo proprio questo vuoto arcaico determinato dal fatto che lo sguardo dell'altro, nella sua severità e nella sua intransigenza, non ha permesso loro di formarsi un ideale dell'io sufficientemente strutturato. Perciò, la persona melanconica si identifica con lo scarto, con il rifiuto, con la certezza, come afferma Lacan, dell'«io non sono niente».
Diversamente, alla base della depressione nevrotica sta la perdita di un oggetto narcisistico, sia esso un lavoro prestigioso, o la percezione del tramonto della propria giovinezza, o l'immagine del proprio corpo deteriorata, o - ancora più radicalmente - la perdita di un oggetto d'amore (un marito, un genitore, un figlio). In mancanza di amore, la nostra esistenza si trova di nuovo confrontata con il suo proprio reale, con ciò che Lacan ha nominato come disgiunzione della vita dal senso. È per questa ragione che una delle congiunture di innesco più frequenti della depressione è, appunto, la crisi o la fine di una relazione amorosa. E questo spiega anche perché la radicalità del discorso amoroso esponga le donne, che non sono ipnotizzate, né ingombrate in partenza dal miraggio dell'avere fallico, a patire di più questa ferita e a percepirne il carattere difficilmente rimarginabile.
Questione di desiderio
Nello scacco depressivo, dunque, noi ci ritroviamo come fossimo senza immagine, ridotti a un oggetto di scarto, costretti a ripetere la sfasatura strutturale tra l'immagine ideale che abbiamo di noi e la nostra stupida esistenza. Mentre il «discorso del capitalista» reagisce a questa sfasatura cercando strumenti per ricomporla artificiosamente - per esempio ventilando il miraggio della pillola magica o degli specchi antisuicidio - e dunque inseguendo la finalità di riabilitare l'individuo depresso convertendolo in un buon consumatore anonimo, la psicoanalisi non riduce la depressione né a un deficit dell'umore (che lo psicofarmaco dovrebbe ricondurre alla normalità), né a un deficit dell'adattamento o dell'azione (che il buon senso psicologico vorrebbe curare con il rafforzamento della volontà indebolita del soggetto). Piuttosto riconosce nella depressione una esperienza capace di rivelare una verità profonda dell'essere umano: la difficoltà di assumere il proprio desiderio e la sua natura finita, destinata alla morte. In questo senso tutti siamo un po' depressi e le fumisterie maniacali del discorso capitalista, che vorrebbero esorcizzare questo elemento traumatico, evidenziano proprio attraverso l'epidemia depressiva, che la verità più radicale dell'uomo è estranea al potere ipnotico e seduttivo dell'oggetto del godimento.

il manifesto 12.2.08
Lager in Libia, una storia rimossa
di Enzo Collotti


Degli ebrei libici aveva parlato Renzo De Felice nei suoi studi sul fascismo e l'oriente mediterraneo, quando il fascismo pensava di sfruttare in funzione antiinglese l'influenza economica e commerciale delle colonie di ebrei italiani (specie quelli di Alessandria d'Egitto) insediate sulle rive del Mediterraneo. Un tentativo che naufragò ben presto con la svolta della guerra d'Africa, che fece rischiare lo scontro diretto con l'Inghilterra, e soprattutto con la svolta razzista della campagna contro gli ebrei a partire dal 1938. Personalmente mi sono imbattuto nella presenza degli ebrei libici (in parte cittadini inglesi, in parte cittadini italiani) nei campi di concentramento in Italia nel corso delle ricerche, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, effettuate dal gruppo di lavoro sugli ebrei in Toscana da me coordinato, che individuò tra gli internati dei campi di Villa Oliveto (a Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo) e di Bagno a Ripoli (in provincia di Firenze) numerosi ebrei provenienti dalla Libia.
Fonti scarse e frammentarie
L'episodio smentiva la vulgata dei razzisti nostrani secondo la quale gli italiani non avrebbero mai deportato nessuno, se prima di abbandonare la Libia e la Tunisia in seguito alla sconfitta militare erano stati in grado di trascinare in Italia un contingente non esiguo di ebrei libici. Al di là dell'indeterminatezza del loro numero, rimanevano da capire le ragioni di quel trasferimento coatto: l'ipotesi più plausibile era che si trattasse di ostaggi o di merce di scambio (siamo nella primavera del 1943 per eventuali trattative con gli inglesi).
Per quanto incerta rimanga, quell'ipotesi viene in parte convalidata dalla prima ricerca in qualche modo approfondita relativa alle conseguenze delle leggi razziali nella colonia libica che ci consegna ora Eric Salerno (Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana, Il Saggiatore 2008, pp. 238, euro 17). Eric Salerno non è nuovo a questo tipo di ricerche avendo fra l'altro all'attivo un libro sulle atrocità della conquista coloniale e della repressione italiana in Libia tra il 1911 e il 1931 (Genocidio in Libia, Manifestolibri 2005).
Abbiamo detto che questo nuovo libro è uno studio «in qualche modo approfondito» e non certo esauriente e tanto meno definitivo, come è consapevole per primo l'autore, per il semplice fatto che la scarsità e la frammentarietà delle fonti - pochissime le testimonianze reperibili oggi, altrettanto dispersa la documentazione tra archivi italiani, israeliani e libici in primo luogo - non consentono di andare al di là di una prima preziosa ricostruzione di un caso esemplare, la vicenda del campo di concentramento di Giado, centoottanta chilometri a sud di Tripoli nel deserto del Gebel, dove a partire dal maggio del 1942 furono rinchiusi 2527 ebrei libici, trasferiti in primo luogo dalla Cirenaica, ossia dall'area all'epoca più soggetta ai cambiamenti di fronte nel corso delle operazioni militari tra gli inglesi e le forze dell'Asse. Da lì almeno una parte fu poi trasferita in Italia per cadere dopo l'8 settembre del 1943 nelle mani dei tedeschi, che a loro volta li spedirono generalmente a Bergen Belsen, il lager speciale destinato fra l'altro a scambio di detenuti (ma di non pochi libici si sa che finirono ad Auschwitz).
Il trasporto degli ebrei libici in campo di concentramento fu la conclusione del tormentato rapporto fra il dominio italiano e la comunità ebraica della Libia. In particolare la convivenza degli ebrei tripolini con gli arabi e il loro ruolo nelle attività commerciali e artigiane non creò gravi conflitti con l'amministrazione fascista che sino all'entrata in vigore in Italia delle leggi sulla razza fu improntata a una moderazione suggerita dal governatore Balbo, salvo qualche episodio come la fustigazione dei negozianti ebrei che non volevano ottemperare all'ordine di tenere aperte le botteghe il sabato. Le disposizioni del 1938 per gli ebrei cittadini italiani furono ulteriormente inasprite per quelli residenti in Libia con norme legislative del 9 ottobre 1942, quando la presenza italiana in Libia vacillava sotto l'urto dell'offensiva inglese.
Una crudele repressione
Giado fu il principale di una serie di campi specificamente destinati agli ebrei. Salerno ne ha percorso la storia ricercando anche sul posto le tracce di ciò che rimane di questo luogo di detenzione tra le sabbie del deserto, «un pezzo - scrive - poco glorioso della storia coloniale italiana», perché qui si sommavano le nefandezze di una duplice infamia, quella coloniale e quella razzista antiebraica. Il vecchio ascaro che gli fa da guida alla visita dei resti gli addita il posto dove finivano le spoglie delle vittime: «La gente moriva nel campo e gli ebrei venivano sepolti qui». Perché la fame, gli stenti, i maltrattamenti, la calura, l'epidemia di tifo fecero strage dei detenuti di Giano: ne morirono più di cinquecento, ma di soli ottantasei morti si conoscono i nomi, uomini, donne, bambini, riportati nell'appendice del libro.
Un risultato che certo premiò gli sforzi di quei fanatici gerarchi che avevano invocato una «decisa politica razziale» anche nelle colonie dove a operare non erano i tedeschi ma gli italiani, a cominciare dalla Pai (la Polizia Africa italiana), dai militi fascisti e dalle unità militari; e qui, a detta dei pochi testimoni superstiti, «gli italiani fascisti (...) si comportavano come i tedeschi». Via via che la guerra in Nordafrica volgeva al peggio la repressione contro gli ebrei assumeva le forme più gratuite e crudeli: si moltiplicavano le accuse contro l'attività occulta e affaristica degli ebrei, secondo i più consumati stereotipi dell'antisemitismo, tornarono le esecuzioni capitali esemplari questa volta a carico degli ebrei, si praticò il lavoro forzato per gli ebrei in faticose opere stradali. Nell'andirivieni degli opposti eserciti in Cirenaica, si punirono come traditori gli ebrei che avevano accolto gli inglesi come liberatori. Nel febbraio del '42 Mussolini in persona, immemore dell'accoglienza che nel 1937 gli era stata tributata in Libia dalla comunità ebraica, diede disposizioni per la loro evacuazione dalla Cirenaica e dalla Tripolitania, prevedendo già l'«eventuale trasporto degli internati in Italia».
Sollevando il velo di oblio che copriva questa pagina poco nota Eric Salerno ci indica una ulteriore connessione nella ragnatela di implicazioni prodotte dalla persecuzione razziale, una via difficile da percorrere anche per studiosi provetti, e tuttavia suscettibile di fornire altri dettagli alla fenomenologia di questo particolare tipo di repressione in cui anche il più infimo gerarchetto si gonfiava il petto di arroganza razziale. Al di là del coinvolgimento diretto dalla Libia nell'area applicativa delle leggi razziali, l'autore richiama un episodio già ricostruito da Spartaco Capogreco nel suo libro su Ferramonti. Si tratta dell'arrivo a Bengasi nella primavera del '40 di trecento ebrei, per lo più tedeschi e austriaci profughi dai paesi della persecuzione nell'Europa centro-orientale, che dovevano fare sosta nel porto libico per proseguire presumibilmente verso l'emigrazione clandestina in Palestina. Ma dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno, i profughi furono arrestati e la prosecuzione verso la loro meta impedita. Furono rispediti con un piroscafo italiano che affrontò le insidie di un Mediterraneo in guerra e dopo altre peripezie sul suolo italiano alla fine di settembre arrivarono via terra a Ferramonti. La Libia dunque non era servita neppure come territorio di transito per facilitare la via di fuga a ebrei braccati da nazisti e fascisti.
Oltre il filo spinato
Dalle testimonianze raccolte da Eric Salerno risulta che a Giado vi fu forse anche qualche tedesco, «ma la maggioranza erano fascisti in camicia nera, carabinieri italiani, ascari libici», a guardia dei deportati rinchiusi dentro un reticolato di filo spinato. Il campo non era certo un istituto di beneficenza. «La polizia italiana era crudele» annota un testimone. Ancora non si sa bene come avvenne il trasporto degli ebrei libici dai campi di concentramento in Libia a quelli in Italia. Sappiamo solo che non fu un passaggio indolore se dopo l'8 settembre un numero cospicuo dei trasferiti in Italia (forse la maggioranza?) finì nelle mani dei tedeschi e per molti di loro la minaccia di essere uccisi, che li aveva accompagnati sin dall''internamento in Libia, divenne realtà quando, consegnati dagli italiani ai tedeschi, finirono i loro giorni a Auschwitz.
Un puntuale confronto dei nominativi raccolti da Salerno con i dati del Libro della memoria del Cdec ci darebbe la riprova di questo tragitto dalla Libia ad Auschwitz, davvero una «storia italiana», che Salerno ha fatto bene a riesumare perché non rimanga sepolta dal diniego di memoria di cui è capace questo nostro schizofrenico paese.

il manifesto 10.2.08
La sinistra contro il suo destino
di Mario Tronti


Ragioniamo su questo passaggio di crisi politica. Cerchiamo di individuarne le cause nascoste. Spesso accade che si prendano per cause quelle che sono conseguenze e viceversa. Di qui, l'attuale confusione strategica, la vera madre di tutte le sconfitte tattiche. Sgombriamo il campo dalla tentazione di dire che siamo a un passaggio decisivo, che si tratta della crisi finale di qualcosa che c'è stato fin qui. Non è vero. Non c' è nessuno stato d'eccezione. C'è una normalità che stancamente si ripete, senza che uno scarto, un'eccedenza, un esodo, un che di incomprensibile, irrompa sulla scena pubblica domandando di essere appreso col pensiero.
E', se possibile, sobriamente che dobbiamo ragionare. Ad esempio: questo terrore di un cambio di governo, francamente non riesce, con tutta la buona volontà , ad innescare qualcosa di oscuramente perturbante. Per lo stesso motivo per cui l'altra, appena trascorsa, esperienza di governo non ha suscitato qualcosa di particolarmente affascinante. Piuttosto dovremmo imparare a utilizzare i passaggi dentro una prospettiva, a strumentalizzare il momento per pensare l'altro da questo.
Insomma, per venire a parlare di cose comprensibili: è proprio vero che il nostro bipolarismo politico non funziona per via delle cattive leggi elettorali? Questa leggenda, che ci assilla da inizio anni '90, non sarebbe ora di mandarla in soffitta, insieme ai manichini dei referendari? Il bipolarismo non funziona, perché non ci sono i poli. Sono finti, sono virtuali, second life , nulla di socialmente reale, la prima vita delle persone sta fuori. Le coalizioni non sono troppo piene di sigle, sono troppo vuote di soggetti.
Appunto, la causa non è la frammentazione politica, questa è la conseguenza di una frammentazione sociale. Le coalizioni la descrivono, la rappresentano passivamente, la subiscono territorialmente, senza la capacità di leggerla, interpretarla, ordinarla politicamente. Perché le coalizioni non sono «forze politiche», come erano un tempo i partiti. Sono aggregazioni di interessi particolari, prima ancora che di ceti politici, di ceti sociali. Questa è una società cetuale. Con la scomparsa delle grandi classi, si è passati a una società di piccole caste, di corpi miniaturizzati, di famiglie-azienda in crisi. E' la «mucillagine sociale», di cui ci ha parlato l'ultimo rapporto Censis, il «sociale selvaggio» di cui parla un certo pensiero femminista, o la «coriandolizzazione» sociale che ha ripreso monsignor Bagnasco.
E' un'altra leggenda quella della politica scollata e lontana dalla società . In verità , è troppo intrisa in essa e troppo da essa condizionata. Le somiglia troppo. La cosiddetta casta politica è anch'essa un prodotto di questo corporate capitalism in sedicesima. Corpi e strati sono diffusi, favori e privilegi sono richiesti, questa virtuosa società di individui è in realtà un aggregato frantumato e informe di corrosi particolarismi. La società va messa in forma, e in forma politica. E in una storia come la nostra di Stato debole, sono necessarie organizzazioni politiche forti. L'aveva capito quel ceto politico di eccellenza, che aveva scritto la Costituzione repubblicana. Non l'ha più capito questo ceto politico di risulta della cosiddetta seconda repubblica, che si è lasciato processare sulle piazze, dopo aver dilapidato un'eredità , quella eredità , senza investire nulla in qualcosa d'altro. La crisi attuale è grave perché va oltre la messa in questione del primato della politica, passa ad attaccare con successo l'autonomia della politica. Il combinato disposto di economia, finanza, tecnica e comunicazione si è saldato, qui da noi, con un devastante senso comune di massa antipolitico.
Badate. Questa è la conseguenza vera di quel cambio di egemonia culturale da sinistra a destra, che si è realizzato dalla seconda metà degli anni '80. La crisi italiana della politica nasce lì. Perché, qui da noi, in un paese politicizzato al massimo, se non è presente sulla scena pubblica un'istanza di grande trasformazione, portata e praticata da una forza organizzata, la politica entra in crisi. E produce questo presente riduzionismo tecnicistico: la funzione dell'intellettuale ridotta a servizio di staff, l'attività politica ridotta a rito elettorale, la democrazia ridotta a conta quantitativa, per di più truccata da leggi-truffa. E non da ultimo, anzi per primo, l'azione di governo ridotta ad amministrazione di impresa. Se non mettiamo a tema che la crisi della politica, prima ancora che di carattere morale, è di carattere culturale, non riusciremo a riafferrare il bandolo della matassa.
La crisi grave chiede risposte serie. La soluzione non va cercata in una falsa coesione nazionale, ma in un buon conflitto sociale. Le alternative politiche devono ristrutturarsi su punti di vista alternativi circa il modello sociale che propongono. La competizione è su quale tra i punti di vista, parziali non particolari, sia in grado di dare rappresentazione di un interesse generale. Le proposte hanno oggi bisogno di essere prima di tutto chiare.
Bene ha fatto il Partito democratico a decidere di andare da solo. Per una ragione di fondo: perché ha bisogno, qui e ora, di misurare la sua forza nel paese reale. Solo sulla base di questa verifica potrà progettare il senso, storico non solo politico, di una sua missione, se sarà in grado di darsene una. Credo che abbia il diritto della prova. E dobbiamo darglielo. Sia benvenuta la morte dell'insipido Ulivo parisiano e la fine della confusissima Unione prodiana. L'importante è che non si cambi solo schema elettorale, ma che si metta in campo una sfida strategica. La destra segue, un po' oggi, un altro po' domani. E che segua, è già un passo su quel cammino per un nuovo cambio di egemonia, che rimane l'obiettivo di fondo: forse più importante del risultato dell'immediato confronto elettorale. Tenere l'iniziativa conta di più che vincere di misura. E comunque: ristrutturare il campo delle forze politiche è l'unico varco che permette a questo punto di uscire, in avanti, da questa vera e propria crisi repubblicana. Chi saprà farlo prima, avrà un vantaggio più duraturo.
Questo vale, forse tanto più, per quello che si muove a sinistra del Pd. Salta il vetusto, e oscuro, schema delle due sinistre. Si profila un partito di centro-sinistra e un partito di sinistra. Non è una semplificazione, è una razionalizzazione più che mai opportuna. Non serve a nulla, e non fa capire nulla, dire polemicamente: quello è il centro, noi siamo la sinistra. Anche qui devono emergere le differenze vere. In quasi tutti i sistemi di occidente, una vocazione maggioritaria si declina ormai o come centro-destra o come centro-sinistra. Questa è la condizione - formale - che costringe la sinistra a ripensare se stessa. Deve differenziarsi da un centro che guarda a sinistra e da una sinistra che guarda al centro. Non è la stessa cosa che differenziarsi da una socialdemocrazia. E' una condizione nuova. Lo spazio è più stretto. Ed è più stretto perché la condizione - materiale - spinge la sinistra ad arroccarsi, ad autoemarginarsi, a considerarsi residuale e testimoniale. Mentre costruisce il suo nuovo esperimento, la sinistra deve combattere contro questo «destino».
Il lavoro, che non è più universo ma pluriverso: è questa la difficoltà vera, dura, della sinistra politica, oggi. Sul punto, è necessario un grosso approfondimento, di analisi e di pensiero. Il lavoro è in frantumi, non più solo per la postazione del lavoratore singolo nel processo produttivo, ma per lo stato della condizione lavorativa nel rapporto sociale. Un lavoro socialmente frantumato non è politicamente visibile. Bisogna farlo vedere. Questa è la visione di cui si deve far carico la nuova sinistra. Portare alla luce questo nascondimento della condizione umana del lavoratore. Esattamente quello che il partito di centro-sinistra non può fare. Non è che non vuole farlo, non può. Per questo è partito democratico e non socialdemocratico. Con una sinistra che si rapporta al centro, vuole rappresentare, con molte ragioni di realtà , quell'opinione di sinistra, con consistenza di massa, che non ha più come riferimento il valore politico del lavoro. Questo ruolo gli va lasciato.
Però, allora, il partito della sinistra ha come compito primario quello di riportare il valore del lavoro al centro dell'agenda politica. Per farlo, ha bisogno di riportarlo per prima cosa al centro del suo progetto politico. Questa non è una pratica escludente di tutti gli altri temi, e non è nemmeno includente. Si tratta di offrire un fuoco intorno a cui aggregare per articolare. Basta sapere a chi si parla, scegliere il proprio campo di ascolto, costruire soggettività sociali certe e con esse e per esse elaborare cultura politica alterativa.
Sinistra unita, sì, ma in che senso plurale? Bisogna intendersi. La ricchezza di esperienze, movimenti, associazioni ha da trovare punti e spazi, magari inediti, di organizzazione, stabile, in lotta contro il tempo. La rete deve rendere visibile una trama. Anche qui, il pluriverso sociale va unificato politicamente. Non serve il circo Barnum. Bisogna offrire, sulle questioni decisive, un punto di vista e una forza in grado di portarlo.
Io non so se la prossima sarà una legislatura costituente. Mi pare di capire che la prossima sarà una campagna elettorale costituente. Si presentano forze politiche nuove in corso d'opera. E' positivo che si presentino nella forma partito: un passo importante per cominciare a reagire alla, ripeto, devastante ondata antipolitica. Il confronto e il risultato saranno una sorta di monitoraggio per ognuno dei soggetti in campo. Dopo, ognuno saprà meglio come procedere. Nel processo generale, il partito della sinistra deve dare il suo contributo in positivo, con lezioni di costume, creatività organizzativa, profondità culturale, autorevolezza propositiva. Le nuove armi della critica sono di questo tipo. Alzare il tiro a volte è l'unico modo per cogliete il bersaglio.

sabato 9 febbraio 2008

Corriere della Sera 9.2.08
L'intervista
Fausto Bertinotti candidato premier della «Cosa rossa»
Il Pd può andar bene Per noi della sinistra opposizione creativa
di Monica Guerzoni


Fausto Bertinotti: «La decisione del Pd di correre da solo spazza via equivoci e ambiguità. Ora la sinistra deve passare per una fase di opposizione creativa e influente»
Penso alla Epinay di Mitterrand, che pose le basi per la rivincita. Spero solo che non ci metteremo tre legislature come lui

ROMA — Alle 11.30, seduto sul divano del suo studio alla Camera sotto una magnifica tela di Sironi, Fausto Bertinotti sfoglia le agenzie di stampa e si vede che è contento per com'è andato l'incontro tra Veltroni e i segretari della sinistra. «Bene, molto bene. Vede cosa dice Mussi? "Parte la sfida". E le stesse parole usa Diliberto. Perfetto. Ci abbiamo messo un po', ma finalmente siamo arrivati».
La Cosa rossa da una parte e il Pd dall'altra. Confessi che anche lei voleva questo, presidente.
«Ovviamente è la conseguenza di una scelta del Pd che noi riteniamo discutibile, ma la decisione di Veltroni ci consente di fare di necessità virtù. L'esito dell'incontro è una presa d'atto, però spazza via equivoci e ambiguità, presenta in maniera netta il campo delle alternative alla destra e consente di progettare il futuro».
Quindi niente accordi, desistenze o altri patti elettorali?
«Constato che ognuno corre per suo conto. Tra noi e il Pd si apre la sfida su chi ha la risposta più riformatrice alla crisi del Paese. Era indispensabile che l'unità della sinistra non fosse solo un cartello elettorale, ma un nuovo soggetto. Che la seconda Repubblica sia finita oppure mai iniziata, ora comincia il processo costituente della sinistra».
Si riparte dal centrosinistra col trattino?
«Per la verità si riparte dalla sostituzione del trattino con una "e", centro e sinistra».
Tornerete a governare insieme?
«Chissà. Dobbiamo capire le ragioni della sconfitta, saltare una fase sarebbe un'operazione acrobatica. Il lutto va elaborato, altrimenti non si capirebbero le scelte che stiamo facendo, a partire da quella del Pd. Se il problema fosse il tornare al governo come eravamo, non avrebbe senso la corsa solitaria di Veltroni. La campagna elettorale è solo l'inizio e mi piace confrontarlo con l'Epinay di Mitterrand, che dopo la sconfitta pose le basi per la riconquista. Spero solo che non ci metteremo tre legislature come Mitterrand».
Lei quanto tempo si prende, per ricostruire?
«Non mettiamo il carro davanti ai buoi. La mia bussola fondamentale, per le elezioni e per dopo, è costruire un grande soggetto della sinistra per poi definire un nuovo campo delle alleanze. Il tema del governo non deve essere espulso dall'orizzonte, sebbene si debba passare per una fase di opposizione creativa e influente».
Sta teorizzando la necessità della sconfitta...
«No, questo è un argomento che non può essere usato. La scelta è del Pd. Nessuno tenti di addossare alla sinistra la causa della sconfitta».
Non teme l'accusa di aver favorito il ritorno di Berlusconi?
«Né la sinistra né il Pd devono mettere in campo l'argomento inquinante che qualcuno vuole la sconfitta. La formula di Bruno Storti, marciare divisi per colpire uniti, può essere la risposta più efficace. Nel 2006 la domanda fondamentale era cacciare Berlusconi, oggi è come cambiamo il Paese. Per proporre l'orizzonte del governo bisogna prima indagare le ragioni della sconfitta».
Si riconosce in coloro che addossano le maggiori responsabilità a Prodi?
«La colpa della sconfitta è anche di Prodi, certo. Ma la corda si è spezzata a destra. Se Dini e Mastella non avessero tolto la fiducia, con la correzione di rotta da noi indicata il governo sarebbe ancora in carica. Ora Veltroni chiede di aumentare i salari usando l'extragettito? Sempre meglio oggi che domani, ma perché non è stato fatto in Finanziaria? Abbiamo perso un'occasione e adesso è tardi, Berlusconi dirà di no».
Tra lei e Veltroni c'è un patto o solo un'intesa?
«Siamo concorrenti, però c'è rispetto reciproco, credo si ritenga il progetto dell'altro non condivisibile ma proponibile. La storia della sinistra è sempre stata la demonizzazione dell'altro, fratelli coltelli. Ecco, dobbiamo dismettere la tentazione di costruire la propria fortuna sulle disgrazie dell'altro. Credo che il Pd non risolverà i problemi, ma può anche avere successo».
E se Veltroni dovesse miracolosamente vincere?
«Fare opposizione da sinistra a un governo del Pd è una buona condizione, meglio che farla alle destre vincenti. Mi pare però difficilmente prevedibile una vittoria del Pd. Ora è astro nascente, ma in quel partito c'è un conflitto devastante, dall'aborto ai matrimoni gay. Ecco, la sinistra è strategicamente decisiva per influenzare il corso del Pd, come è successo in Germania con Die Linke ».
L'8,7 ottenuto dalla sinistra unita in Germania sarebbe per voi una vittoria o una sconfitta?
«Siamo uomini di grande ambizione, mai porre limiti alla provvidenza rossa».
E se dopo il voto Veltroni e Berlusconi dessero vita a una grande coalizione, come auspica Chiamparino?
«Segnerebbe la sconfitta del disegno di Veltroni, la contraddizione della sua vocazione. La grossa coalizione mortifica la dialettica politica e sospinge pericolosamente al centro, contrastarla è compito della sinistra».
È disposto a confrontarsi in tv con Veltroni e Berlusconi?
«Ne sarei contento, anche con il candidato della Rosa bianca».
Conferma che farà il leader per 40 giorni?
«Il candidato premier, ci tengo alla differenza. Dopodiché la mia determinazione è assoluta, non ci sono uomini per tutte le stagioni».
Lascerà a Nichi Vendola?
«Vedremo, nelle organizzazioni democratiche non ci sono eredi di sangue. Ma il problema è di facile soluzione».
Come imposterà la campagna elettorale?
«La mia bussola è chi guadagna 1.100 euro. Io immagino la Sinistra e l'arcobaleno come un grande arcipelago che sta insieme, ma in cui le isole vivono riccamente e autonomamente in una relazione di scambio e osmosi».
Se non vi alleate per le Politiche, come potrete continuare a governare sul territorio, a cominciare da Roma?
«A Roma sono assolutamente per configurare un'alleanza per Rutelli. Sarebbe un errore gravissimo far discendere dalla scelta nazionale cambiamenti delle alleanze sul territorio».
Cederà a Diliberto, che vuole falce e martello nel simbolo?
«Il simbolo è quello della sinistra e l'arcobaleno, la falce e martello non è mai stata oggetto di discussione. Il discorso è se inserire i richiami alle quattro forze, ma essendo il candidato, per me qualsiasi decisione va bene».

l’Unità
Il leader Pd, presentando il sito, ha detto che la colonna sonora della campagna saranno «Mi fido di te» di Jovanotti, e l’Inno di Mameli «perché io sono tra quelli che si emozionano ascoltandolo e bisogna recuperare il senso di una appartenenza comune».

l’Unità 9.2.08
«Archiviare il centrosinistra è un azzardo»
Mussi: c’è troppa voglia di grande coalizione
«Al Pd dico che liquidare il centrosinistra è un azzardo. E poi Berlusconi non è Angela Merkel»
di Andrea Carugati


«SENTO ARIA di gentlemen agreement verso la destra, vedo esponenti del Pd come Chiamparino che teorizzano esplicitamente accordi di governo con Berlusconi. Non voglio demonizzarlo, ma tra questo e chiudere gli occhi su una destra populista, af-
farista e clericale ce ne passa. E l’ipotesi che Berlusconi torni per la terza volta a palazzo Chigi non è una bagattella...». Fabio Mussi, ministro dell’Università e leader di Sinistra democratica è molto allarmato per la decisione del Pd di correre da solo, ribadita ieri mattina nel vertice con la Sinistra. «Non ci siamo tirati addosso i bicchierini del caffè, è stato un incontro signorile. Ma ci sono state ripetute le ragioni della corsa solitaria. Mi limito a ricordare che il Pd era nato per stabilizzare la coalizione, lo dicevano loro...»
Lei non condivide l’idea che se vi foste ripresentati tutti insieme sarebbe stata una sconfitta sicura?
«E infatti nessuno pensava di ripresentare una carovana di 10 partiti: si poteva ragionare su un quadro nuovo, con due forze come Pd e Sinistra arcobaleno a fare da perno della coalizione. Archiviare il centrosinistra tout court è un azzardo».
Crede davvero che il Pd punti alla Grande coalizione?
«Mi chiedo se, al di là di queste elezioni, si intenda lasciare aperta la porta per un nuovo centrosinistra o se invece si punti a soluzioni centriste o di Grande Coalizione. Le mie non sono supposizioni malevole, viene detto da dirigenti del Pd».
Non crede che Chiamparino si ponga il problema di dare riposte pragmatiche a problemi di una società dinamica come il Nord?
«Ma il pragmatismo senza ideali non porta da nessuna parte. Capisco che dopo un lunghissimo periodo di equilibrio tra i due blocchi ci sia la tentazione di provare a far cooperare i due eserciti più consistenti. Ricordo però le difficoltà della Germania, la Spd che sta cercando di sganciarsi e di ricollocarsi più a sinistra. E poi Berlusconi non è Angela Merkel...».
Eppure l’Unione ha fallito la prova del governo, almeno in termini di coesione...
«È giusto riconoscere che si è andata consumando una stagione politica, che le elezioni del 2006 sono state più pareggiate che vinte e che, pur sottolineando i risultati positivi del governo su risanamento e lotta all’evasione fiscale, le aspettative della nostre gente sono andate in gran parte deluse. Ma dare la colpa ai partiti minori è solo un modo per lavarsi l’anima».
La vostra sarà una campagna contro Berlusconi ma anche contro il Pd?
«Vogliamo contrastare una nuova ondata di destra, ma anche frenare una aspirazione neocentrista nel centrosinistra. Per questo c’è bisogno di una sinistra politica, che affronti i problemi per quello che sono, senza lasciarsi incantare dalla spirale vecchio-nuovo, o da una presunta modernità. Ci viene presentata come novità, per esempio, l’idea che i bassi salari e la precarietà siano inevitabili, come la pioggia. Una sciocchezza. In realtà tutto questo è determinato dai rapporti di forza, dall’”avidità del neocapitalismo”, che è un’espressione di Alan Greenspan. Per questo è necessaria una critica dell’esistente. Ci vuole una sinistra che lo dica, e dirlo non è estremismo. La competizione con il Pd sarà su questo».
Non teme di rischiare di apparire come i vecchi comunisti davanti alla novità Veltroni?
«Questi sono contenuti modernissimi. Se parlo alla gente di destra, sinistra e centro in termini politologici non si appassiona. Ma se parlo di precarietà, ambiente, coppie di fatto, e della questione morale che oggi è diventata esplosiva, allora tutto è più chiaro. Capisco la suggestione della “modernità”, ma poi, quando come diceva Marx si “sale” nel concreto, sono certo che le ragioni della Sinistra troveranno molto ascolto».
Eppure la nascita della Sinistra arcobaleno è piena di problemi...
«Dobbiamo fare in poche settimane quello che altri, compreso il Pd, hanno fatto in anni. Siamo usciti dai Ds dieci mesi fa e siamo pronti a fare una lista unica, che non sarà un cartello elettorale ma il primo passo per un soggetto unitario. A me pare un successo e la nascita di Sd ha favorito questo sbocco».
Si dice che nel suo movimento ci sia malumore per il rischio di annessione da parte di Bertinotti...
«So che il processo unitario doveva partire dal basso, ma i tempi ci sono stati imposti dalla situazione. Bertinotti è un uomo di prestigio, non è nuovo ma è uno dei più convinti sostenitori della necessità di mettere in moto un processo nuovo a sinistra».
Non crede che un candidato che annuncia che dopo il voto si farà da parte sia poco appetibile?
«Il ruolo di traghettatore verso la nascita di un nuovo soggetto è decisivo, senza i fiumi non si attraversano...».
Ci sarà il ticket con la Francescato?
«Vedremo la prossima settimana. Tutta la squadra andrà definita bene».
E i socialisti?
«Finora non hanno aderito al nostro invito, chiederò un incontro per verificare se ci sono le condizioni per un’alleanza. Ma la legge elettorale non aiuta».
Ci sono tra le vostre file nostalgie del Pd? Crucianelli vi lascia per Veltroni..
«Crucianelli vuole entrare nel Guinness dei primati per il numero di partiti cui ha aderito. Auguri. Ma non vedo pentimenti in giro».
Non crede che Veltroni tocchi un punto vero quando dice che la gente vuole una politica più semplice?
«È così, ma da parte nostra c’è altrettanto spirito innovativo e di semplificazione. Le novità sono due: il Pd e la Sinistra l’arcobaleno. Tra noi non ci sarà guerra ma sfida per il futuro».
Non dà a Veltroni nessuna possibilità di vittoria?
«Da solo, mi pare molto difficile».

l’Unità 9.2.08
La sera in cui l’Austria sparì
di Paolo Soldini


È il 12 marzo del 1938. Sono passate da poco le otto di sera. Il dottor Kurt Schuschnigg, cancelliere federale della Repubblica austriaca, sta per lasciare per sempre il palazzo sede del governo, al numero 2 della storica Ballhausplatz. Le stanze sono vuote e buie, ma nelle finestre della Sala delle Colonne, quella in cui si riuniva il Consiglio dei ministri, brilla il riverbero della festa che ha riversato migliaia di viennesi sulla Hofburg. L’Austria finisce. Sotto il grande ritratto di Francesco Giuseppe, Schuschnigg scorge nella penombra un gruppo di persone, armate e in borghese. Sono tedeschi, ma non sono soldati: sono agenti della Gestapo.
L’invasione sarà domani, ma l’Austria è finita stasera. Schuschnigg viene portato via, passerà sette anni tra Buchenwald e Dachau. Poco dopo il presidente della Repubblica Wilhelm Miklas, per evitare un massacro, cederà all’ultimo ricatto e nominerà il fedelissimo e fanatico Arthur Seyss-Inquart, che già era stato imposto al ministero dell’Interno, a capo di quella che diventerà la Marca Orientale del Terzo Reich. Hitler entrerà da trionfatore nella «sua» Linz e poi terrà un memorabile discorso sulla Hofburg gremita di austriaci in delirio. Il referendum per sancire l’Anschluss, l’annessione, sarà un plebiscito e per sette anni la Oestermark fornirà al Reich di cui è parte soldati, poliziotti, funzionari pubblici. E torturatori, e boia nei campi di sterminio.
La ricostruzione di quella sera alla Ballhaus è il racconto della Grande Contraddizione che l’Austria del dopoguerra non è riuscita ancora, dopo settant’anni, a scrollarsi di dosso. Si sa: per motivi che avevano molto a che fare con i delicatissimi equilibri della guerra fredda e molto poco con la realtà dei fatti, le grandi potenze inscenarono negli anni 40 e 50 la farsa dell’Austria «aggredita» e «soggiogata» dal potente vicino del nord, rimuovendo ogni considerazione sui fattori endogeni che avevano portato spontaneamente una buona parte dell’opinione austriaca dalla parte del «connazionale» Hitler e della sua corte feroce. Solo da qualche anno la parte più consapevole dell’intelligencija ha cominciato a valutare i danni che questo imbroglio storico fondato su una (comprensibile e per certi versi perfino ragionevole) manifestazione di Realpolitik ha prodotto nello spirito pubblico austriaco: a cominciare dalla mancanza di un dibattito critico «sulle colpe dei padri» come quello che, con tutte le debolezze e tutte le contraddizioni, ebbe luogo in Germania almeno dai processi di Auschwitz dell’inizio degli anni Sessanta in poi.
La storia non torna mai indietro e non avrebbe alcun senso ripercorrerla alla ricerca delle colpe per omissione dell’establishment politico (e più ancora culturale) in materia di riflessione sulle responsabilità che gli austriaci ebbero nella Shoah e nel grande massacro della guerra mondiale. Quello che però si può fare, e che secondo molti l’opinione austriaca non ha mai fatto abbastanza, è indagare sul perché e sul come la giovane Repubblica alpina ritagliata dentro i confini etnici tedeschi dall’impero multinazionale absburgico cedette alle pressioni del regime ultranazionalista e ferocemente antislavo del grande vicino del nord contro gli interessi e contro l’opinione che (almeno nell’establishment) era, anche dopo la reductio, largamente contraria in Austria all’ipotesi grossdeutsch, ovvero all’unificazione di tutte le nazioni europee etnicamente tedesche.
La ricostruzione accurata degli eventi che portarono all’Anschluss, resa possibile soprattutto dai verbali del Processo di Norimberga (e in particolare dagli interrogatori di Göring, dell’ex ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, di Seyss-Inquart, del Capo di Stato Maggiore Alfred Jodl e del comandante generale della Wehrmacht Wilhelm Keitel), offre alcuni spunti importanti di riflessione.
Il primo è la durezza con la quale furono trattati Schuschnigg e il suo ministro degli Esteri Guido Schmidt nell’incontro all’Obersalzberg dove Hitler li aveva convocati l’11 febbraio. Le testimonianze rese a Norimberga da Keitel e Ribbentrop fanno pensare a vere e proprie torture psicologiche, come per esempio il divieto di fumare imposto al cancelliere, affetto da un tabagismo che lo portava a consumare 50 o 60 sigarette al giorno; oppure le «sceneggiate» con cui Hitler faceva credere che l’invasione dell’Austria fosse già in atto e che Schuschnigg e Schmidt sarebbero stati arrestati, se non fucilati sul posto. Ma se alla fine il cancelliere cedette e firmò un documento in cui per gli assassini del suo predecessore Engelbert Dollfuß (ucciso nel luglio del ‘34 durante un tentativo di putsch nazista) era prevista non solo l’aministia ma l’arruolamento nella polizia austriaca, fu anche perché la situazione politica del regime era molto debole.
La dittatura clerico-fascista, antioperaia e antisemita, che era stata instaurata da Dollfuß aveva distrutto le organizzazioni della sinistra e i sindacati, ma aveva affondato il regime in una situazione di crescente isolamento, con la borghesia che era affascinata dai successi economici del Reich, il mondo intellettuale e scientifico che soffriva sotto il giogo asfittico d’una chiesa cattolica la quale, pur se inquieta per la presenza evangelica nel vicino Reich, sentiva fortemente il richiamo di Roma e della vicina Baviera alla crociata antibolscevica.
Una sola certezza aveva avuto, fino a un certo momento, il regime fascista austriaco: l’appoggio dell’Italia. Era stato Mussolini che, schierando le truppe al confine, aveva fatto fallire il putsch del ’34. E, come risulta dagli atti di Norimberga, nella fatidica notte del 12 dicembre fu solo alle 22 e 45, quando l’ambasciatore tedesco a Roma, il principe Filippo d’Assia, riferì a Hitler sull’atteggiamento del Duce, che si ebbe la certezza della riuscita del colpo di Stato. «Arrivo ora da Palazzo Venezia», telefonò l’ambasciatore al Führer: «Il Duce ha preso la cosa in modo molto amichevole e mi incarica di salutarla di cuore». «Non lo dimenticherò mai», disse Hitler, e le stesse parole le indirizzò direttamente, il giorno dopo, in un messaggio «all’amico Benito».
La ricostruzione effettuata a Norimberga, dove l’Anschluss ebbe notevole spazio nella discussione perché fu individuato, giustamente, come una delle violazioni del diritto internazionale che avrebbero portato alla guerra, permette di fissare tre punti dai quali la cultura della Repubblica, ma più ancora il suo spirito pubblico, dovrebbe trovare forse più motivi di riflessione sulla sua propria storia. Il tradimento di Mussolini ebbe conseguenze nefaste perché avvenne ai danni di un regime che era già intrinsecamente debole. La debolezza del regime diede mano libera ai dirigenti nazisti: se Schuschnigg e il pur coraggioso Miklas non fossero stati considerati nelle cancellerie europee già cadaveri politici, forse le potenze occidentali avrebbero trovato più motivi a sostenere l’indipendenza dell’Austria di quanti non ne avrebbero trovati, sei mesi dopo a Monaco, per difendere l’indipendenza della Cecoslovacchia. La storia non si fa con i «se», ma ragionarci intorno è possibile e, spesso, necessario. Forse l’Austria, a settant’anni dall’Anschluss, dovrebbe esserne più consapevole.

l’Unità 9.2.08
Sondaggio di Time, solo Obama può battere McCain
Il senatore nero sconfiggerebbe il veterano 48 a 41. Hillary invece sarebbe alla pari. Bush: avremo un candidato forte


Washington. Con nove mesi al voto e con la corsa democratica tutt’altro che definita un nuovo sondaggio di Time rivela che, in un ipotetico scontro con John McCain, il senatore dell’Illinois Barack Obama avrebbe partita vinta più facilmente di Hillary Clinton.
Il sondaggio, condotto tra il primo e il 4 febbraio, rivela che Obama vincerebbe McCain 48 a 41, mentre Hillary e McCain sarebbero alla pari, 46 a 46.
La differenza, ha spiegato Mark Schulman, l’analista che ha condotto il sondaggio, è che «gli indipendenti vanno con McCain quando lo scontro è con Hillary, ma lo abbandonano davanti alla calamita Obama». Secondo Schulman gli indipendenti sono «il vero ago della bilancia» delle prossime elezioni.
Secondo il sondaggio, Hillary resta front-runner in campo democratico 48 a 42. Tra le domande, una riguardava il «dream ticket», la possibilità che i due rivali si scelgano l’un l’altro come numero due.
Il 62 per cento vorrebbe che Hillary nominasse Obama ma solo il 51 per cento apprezzerebbe che Obama rendesse alla ex First Lady il favore.
Il supermartedì non ha sciolto il nodo della nomination in casa democratica. I due candidati hanno portato a casa un pareggio e in New Mexico la partita ancora non è chiusa. Il verdetto è appeso a 17.000 schede ancora in corso di scrutinio. Si tratta di cosiddetti «provisional ballots», il cui conteggio servirà a decidere se a vincere sia stata Hillary Clinton o Barack Obama. Alla fine del conteggio delle schede, l’ex First Lady ha un vantaggio di 1.123 voti (68.654 a 67.531).
Le 17.000 schede decisive sono quelle che sono state consegnate a elettori che si sono presentati a un seggio sbagliato, o i cui nomi non figuravano nelle liste elettorali. A votare usando i «provisional ballots» sono stati anche elettori che avevano richiesto la scheda per il voto per corrispondenza, ma hanno firmato un modulo per garantire di non aver votato. I risultati dovrebbero essere resi noti entro il fine settimana. In palio ci sono 26 delegati dei 38 che il New Mexico porterà alla convention estiva dei democratici (gli altri 12 sono cosiddetti «superdelegati»).
In casa repubblicana Mc Cain assapora la vittoria dopo la rinuncia dell’avversario Romney. La nomination sembra ormai a portata di mano e anche il presidente Bush ne prende atto. Ieri nel discorso pronunciato alle 7 del mattino, alla convention dei conservatori non ha mai nominato Mc Cain ma ha detto: «Presto avremo un candidato che terrà alta la bandiera dei conservatori alle elezioni ed oltre» e ha aggiunto: «La posta in gioco il prossimo novembre è molto alta, questa è un’elezione importante, la pace e la prosperità sono in gioco: così con la fiducia nel nostro programma e la fede nei nostri valori, andiamo avanti per la vittoria e per tenere la Casa Bianca nel 2008».

l’Unità Roma 9.2.08
Foibe, sit in antifascisti e corteo di destra
di Luciana Cimino


TENSIONI Immobile, con una solennità propria delle funzioni religiose, la giovane studentessa regge il mazzo di fiori bianchi che di lì a poco sarà deposto sull'Altare della Patria. È una delle poche donne al corteo che Blocco Studentesco, formazione vicina alla Fiamma tricolore, ha indetto per ricordare le Foibe. In mezzo al nero predominante dell'abbigliamento e all'ostentato tricolore, sfila anche un ragazzino di colore. L'unico in mezzo ai manifestanti (qualche centinaia in tutto, 2 mila per gli organizzatori). Ma non può parlare, né lui, né le ragazze dietro gli striscioni, né nessun'altro. «Non c'è bisogno - dice Francesco Polacchi, responsabile cittadino del Blocco – perché siamo un unico pensiero». Usa proprio questa espressione e poi si affretta a prendere le distanze dalla polemica del Teatro Brancaccio. «Questa manifestazione era stata indetta molto tempo fa, a prescindere dal convegno». «Intendiamoci – aggiunge Giorgio Evangelisti, vicepresidente della Consulta provinciale degli Studenti, mentre organizza un servizio d'ordine inutile giacchè la compostezza con la quale sfilano per via Cavour è marziale – se il convegno si fosse tenuto qualcuno di noi avrebbe partecipato, ma è questo corteo il modo con cui Blocco studentesco ricorda le Foibe. Punto. In comune con quelli d'Azione Studentesca abbiamo solo il tema, noi non sfruttiamo le tragedie per fini politici». La stessa accusa che, ribaltata, arriva dal sit - in di via Mecenate. Un migliaio di studenti di destra anche qui, per protestare contro l'annullamento, da parte della direzione del teatro, del convegno organizzato dall'ufficio di presidenza della consulta degli studenti, "Istria, Fiume e Dalmazia anche le pietre parlano italiano". «E' il corteo che è sbagliato – ribatte Andrea Moi, presidente dell'organismo, nonché membro di Azione Studentesca - era più appropriato un convegno». Anche se non era stato invitato nessuno storico? «Ci avevamo pensato ma non sai mai quello che possono dire». E così mentre i movimenti studenteschi di destra si accusano l'un l'altro di far propaganda sulla questione foibe, gli studenti antifascisti, in altre piazze della città, manifestano "contro ogni revisionismo", per poi convergere all'incontro sulla questione Jugoslava in corso alla casa della Memoria e della Storia. "La storia non si inventa" c'è scritto sui volantini che distribuiscono alla Garbatella, a piazza Fiume e persino a piazza Esedra, dove, solo qualche ore prima, era partita la sfilata nera della destra. «I caduti non sono tutti uguali – dice Sirio, del Liceo Tasso – di fronte alle continue strumentalizzazioni è necessario ristabilire la verità storica». In tarda mattinata la vicenda del Brancaccio sembra archiviata. «La decisione è stata dettata solo da un nostro scrupolo per la sicurezza – ha dichiarato Danila Confalonieri, dirigente del teatro diretto da Maurizio Costanzo - il clima di tensioni politiche ci ha fatto preoccupare».
Dal canto suo l'assessore alla Cultura Silvio Di Francia ribadisce le motivazioni che lo hanno spinto, già da giovedì, a non partecipare la convegno: «una componente xenofoba dei promotori dell'iniziativa aveva indetto, in concomitanza alla discussione del Brancaccio, un corteo. Accettare quell'invito avrebbe coinciso con l'avallare una finzione di pluralismo. Se la destra capitolina vorrà organizzare un dibattito sulle Foibe veramente aperto, sarò il primo a volervi partecipare».

l’Unità Roma 9.2.08
Alla casa della memoria
L’incontro dell’Anpi con gli studenti
di l.c.


Combattere la tendenza tutta italiana a piegare la storia per fini politici con la forza della verità

Il seminario organizzato dall'Anpi per gli studenti delle scuole superiori alla Casa della memoria e della Storia se lo propone fin dal titolo. «Il ricordo: tra verità e menzogne. La questione Jugoslava». Dell'illazione di alcuni quotidiani, secondo i quali l'incontro sarebbe stato nato in contrapposizione con quello del teatro Brancaccio, Massimo Rendina, presidente dell'Anpi, non vuole neppure parlare. Innanzitutto per i tempi (il seminario è stato organizzato diversi mesi fa) e poi perché, precisa, «non siamo legati ad alcuna ideologia, è una ricostruzione storica precisa. Spetta poi ai giovani prendere posizione sul piano della verità». In sala un centinaio di liceali del Tasso, del Carducci, del Vallauri, più quelli confluiti dai tre presìdi indetti dagli studenti di sinistra a piazza della Repubblica, a piazza Fiume, alla Garbatella. «Siamo stati in piazza per affermare il valore dell'antifascismo – dice Massimo, del Tasso – e ora siamo qui perchè questa iniziativa fa chiarezza su un tema su cui negli ultimi anni c'è stato un revisionismo scandaloso». Gli storici Davide Conti, Mariano Gabrile e Augusto Pompei, con giornalista la Bianca Bracci Torsi, spiegano agli studenti i rapporti tra Italia e Jugoslavia tra il 1920 ed il '45 e, nel contempo, denunciano la speculazione politica imbastita sulle foibe con la forza dell'analisi storica e dei numeri. «Gli ultimi studi parlano di 1032 morti – dice Conti – nessuno nega la brutalità delle foibe ma non bisogna dissociarle dal contesto. Non fu pulizia etnica. Basta con il mito dell'occupante italiano buono: anche tra i nostri soldati c'erano criminali di guerra». E Massimo Rendina non si stanca di ripetere che tra i morti infoibati «tanti erano i partigiani e gli antifascisti». La paura è solo una: che le esperienze passate non siano state capitalizzate. «Ci vuole un'operazione culturale seria per evitare le strumentalizzazioni e per contrastare le provocazioni neo fasciste. Scorgo una tendenza nelle forze dell'ordine, non nel prefetto, a pensare che si tratti di risse tra opposti estremismi. Non penso che sia così: il fascismo democratico è una contraddizione in termini. Attenzione».

Repubblica 9.2.08
La coscienza perduta dello Stato d'Israele
di David Grossman


Non credo alle voci secondo le quali il primo ministro Ehud Olmert, dopo aver letto il rapporto finale della commissione Winograd, abbia telefonato ad Amir Peretz dicendo "ne siamo venuti fuori". Anche se in quel momento Olmert ha forse provato un senso di sollievo sa di non essere veramente "venuto fuori" dall´ultima guerra, che continuerà a perseguitarlo.
Non ne è "venuto fuori" chi è stato direttamente colpito dalla guerra, né chi per settimane è rimasto in un rifugio, né chi un rifugio non ce l´aveva, e neppure chi ha seguito in televisione gli inefficaci sforzi dello stato e dell´esercito per difenderli. Anche costoro, dentro di sé, sanno di non essere "venuti fuori" dalla guerra.
Nessuno ne è veramente "venuto fuori" perché nessuno ha avuto ancora il coraggio di "addentrarvisi" per sondarne il significato profondo e agghiacciante.
Ma accantoniamo per un attimo il rapporto finale della commissione Winograd, ambiguo ed estremamente cauto, e torniamo ai giorni degli scontri, ai momenti dell´angoscia, alla sensazione provata nell´istante in cui abbiamo compreso che qualcosa si stava incrinando, che forse questa volta l´esercito non era in grado di salvarci, che le cose sarebbero potute finire diversamente. Una sensazione che è filtrata nel muro di rifiuto di noi israeliani di guardare in faccia alla realtà. È vero, spesso il timore per la nostra vita ci accompagna e aleggia su di noi come un´ombra, e forse proprio perché è tanto minaccioso non riusciamo ad affrontarlo lucidamente e non intraprendiamo i passi necessari per superarlo (e non mi riferisco solo a iniziative di tipo militare – in cui pure abbiamo fallito – ma a un radicale cambiamento di coscienza, indispensabile per chi vuole scongiurare un pericolo che incombe sulla sua esistenza).
Israele possiede capacità straordinarie ma durante l´ultima guerra, quando noi israeliani ci siamo guardati allo specchio, cosa abbiamo visto? Un corpo incredibilmente forte ma dai sensi semi annebbiati che arrancava a tentoni, goffo e titubante, senza sapere dove fosse diretto. Un gigante cieco che agitava le braccia in tutte le direzioni mentre creature molto più piccole e deboli di lui lo mordevano fino a farlo sanguinare, indebolendolo al punto di farlo quasi stramazzare al suolo.
L´ultima guerra è stata una brutale conferma della crescente sensazione che ciò che aveva impresso slancio al neonato stato di Israele si sta esaurendo: gli ideali, l´audacia, la fiducia in noi stessi, nei nostri obiettivi, nei nostri valori; l´aspirazione a creare uno stato che non sia solo un rifugio per gli ebrei ma espressione della peculiarità dell´esistenza ebraica in un contesto politico e civile moderno. Oggi, a sessant´anni dalla sua nascita, Israele deve riformulare contenuti che imprimano nuovo vigore a quello slancio, altrimenti faticherà a proseguire il suo cammino. Troppi fattori esterni e interni congiurano contro di esso e arriverà il momento in cui lo stato ebraico non avrà più la forza di contrastarli.
Nazioni che hanno raggiunto un certo grado di tranquillità, che non sono costrette ad affrontare minacce alla loro esistenza, possono forse rinunciare a un costante lavoro di mantenimento del legame con la loro terra, a ricrearlo generazione dopo generazione. Israele non se lo può permettere e deve compiere sforzi incessanti non solo per conservare la propria forza militare ma per tornare a essere un luogo significativo per i suoi cittadini, non un semplice rifugio o una roccaforte. Una casa verso la quale i suoi abitanti provino un senso di appartenenza, non perché non hanno scelta, ma perché in quella casa la loro esistenza acquista un valore e un senso che non avrebbe altrove.
Oggi Israele è una nazione insopportabilmente torbida. Il clima e l´atmosfera che vi si respirano non sono limpidi. Di questo stato di cose, naturalmente, non è responsabile Ehud Olmert, né l´ultima guerra. Da molti anni noi israeliani ci dilaniamo in scontri intestini al punto da avere perso la capacità di avere un quadro chiaro della situazione, di capire quali sono i veri interessi del nostro popolo e della nostra società. Talvolta sembriamo aver smarrito anche il sano e naturale istinto che dovrebbe guidare un popolo nello stabilire le sue giuste priorità, nel risolvere i suoi conflitti interni prima che sia troppo tardi, che tutto vada a catafascio. Oggi, a noi israeliani, si prospetta la sconfortante possibilità di vedere rinascere il gene distruttivo, a noi ben noto, che potrebbe condurci – Dio non voglia – a una guerra civile.
L´impressione è che dopo più di un secolo di lotte militari e politiche, di scontri, di operazioni belliche e di infinite vendette e ritorsioni, la diffidenza e l´ostilità con le quali ci siamo abituati a guardare il nemico siano diventate per noi un modo quasi automatico di pensare e di comportarci anche nei confronti di chi è solo un poco diverso da noi, non un vero nemico e forse persino un nostro "congiunto" nell´accezione più ampia del termine.
E non abbiamo compassione. Non l´abbiamo verso noi stessi e, a maggior ragione, non l´abbiamo verso gli altri. E non proviamo un senso di responsabilità reciproca. Non nella misura in cui la nostra situazione tanto delicata, ci imporrebbe. Talvolta sembriamo non nutrire nemmeno rispetto per il diritto di avere e di mantenere uno stato ebraico sovrano, accordatoci dopo migliaia di anni in cui tale diritto ci era stato negato.
La domanda che dovremmo porci oggi non è dunque se Ehud Olmert può rimanere al suo posto dopo che la commissione Winograd gli ha a malapena concesso una via di scampo, ma se è la persona giusta per avviare un processo di risanamento dei mali sopracitati.
Può Olmert, alla luce della sua condotta, dei messaggi che la sua leadership "convoglia" al popolo, della mancanza di fiducia che la maggior parte degli israeliani manifesta verso di lui, della sua nota impulsività, delle numerose ombre che oscurano la sua personalità fin da prima della guerra, e a maggior ragione dopo di essa, essere il leader che riporterà Israele sulla giusta rotta dopo anni in cui lo stato ebraico è andato alla deriva?
Se la risposta è sì allora noi cittadini dovremmo permettere a Olmert di continuare a governare. Dovremmo morderci le labbra e dire a noi stessi che, in mancanza di un´accusa chiara nella parte conclusiva del rapporto Winograd e, considerati i pericoli immediati che Israele corre, non c´è altra scelta che continuare con la sua leadership. In un certo senso questo potrebbe essere un modo per riprenderci dalle ferite dell´ultima guerra, una ripresa di cui Israele ha bisogno come di aria per respirare.
Ma la società israeliana non potrà guarire fintanto che Ehud Olmert rimarrà alla sua guida. La nostra coscienza nazionale e individuale è oppressa da un senso di disagio e, oserei dire, di peccaminosa complicità. Mille avvocati difensori non riusciranno a dissipare la sensazione che un intero stato si è arreso – per passività, per apatia, o per pura convenienza – alla determinazione di Ehud Olmert di rimanere saldamente al potere, in disprezzo a ogni regola di buon governo e di giustizia morale. Questa sensazione non ci abbandonerà fintanto che Olmert rimarrà in carica e avrà un effetto disgregante e corruttore anche su chi, in apparenza, è uscito indenne dalla guerra. Temo che, in fin dei conti, questa sensazione non permetterà a Israele di riprendersi, né di "venir fuori" dalla situazione in cui si trova.
***
Che cosa si può fare allora? Nessuno dei candidati in lizza per rimpiazzare Olmert sembra essere in grado di innescare il vitale processo di risanamento di cui Israele ha bisogno. Alcuni di loro, addirittura, non farebbero che peggiorare le cose.
Ma mentre i politici si accapigliano, o stringono accordi poco ortodossi, e gran parte della società israeliana è immersa in uno stato di semi-catatonia, coloro che ne sono capaci farebbero meglio a farsi un esame di coscienza. Non mancano infatti in Israele persone di grande competenza e responsabilità che, nonostante abbiano diverse convinzioni politiche, hanno a cuore ciò che succede e un´idea piuttosto chiara di come vorrebbero vedere lo stato e di cosa rischia di farci franare tutto addosso.
Esiste forse un modo di raggruppare queste persone in una sorta di "movimento di emergenza nazionale", apolitico e apartitico, capace di coinvolgere anche chi ne ha abbastanza – e sono in molti – di ciò che sta avvenendo qui? Chi ancora ricorda a cosa si può aspirare ed è disposto a mettere da parte grette considerazioni settoriali dinanzi al pericolo che incombe su tutti noi? Queste persone dovranno concordare su dei principi comuni, trovare un´intesa sui temi della sicurezza, della pace, su questioni sociali, culturali, civili, sui rapporti tra i diversi gruppi etnici e sociali della popolazione. E dovranno farlo al prezzo di dolorosi compromessi. Potrebbero, per esempio, formare una sorta di "governo ombra" che imposti un dibattito su argomenti di grande rilevanza scevro da meschine considerazioni politiche. Un simile "governo" potrebbe proporre all´esecutivo in carica e al popolo una linea politica alternativa, norme civili e comportamentali diverse. Al suo meglio sarebbe un efficace pungolo per il governo, perché "torni in sé" ogni qualvolta rischi di cedere a considerazioni inopportune o a lusinghe pericolose.
Sono forse un ingenuo? Può darsi. Ma nella situazione attuale, nel cinismo distruttivo in cui siamo sprofondati e che ci impedisce di credere in una qualsivoglia iniziativa o possibilità di cambiamento, un po´ di ingenuità non guasta. Idee più creative, più originali e più innovative di questa possono e devono essere proposte, ma non possiamo andare avanti con questo sfacelo. È difficile accettare l´idea che Israele si trovi in uno stato di paralisi in un ambito tanto vitale per esso. La nascita di un nuovo movimento nel vuoto politico che si è creato, la disponibilità a lottare per una causa, il fatto stesso di proclamare la nostra stanchezza di essere vittime di una classe dirigente mediocre e inetta, potrebbero innescare un processo dagli interessanti sviluppi, risvegliare forze positive e vitali nascoste nella società israeliana. Forse, allora, si libererà un´onda d´urto tanto potente che anche i nostri leader saranno costretti a prestarvi attenzione.
Fino a quel giorno, fino a che tutto questo non si avvererà, non potremo dire di essere "venuti fuori" dall´ultima guerra.

Traduzione di Alessandra Shomroni

Repubblica 9.2.08
La mente delle madri
di Simonetta Fiori


Cosa succede nella mente delle madri, quale cataclisma chimico ed emotivo scuote la coscienza d´una donna alla nascita del figlio. In un momento in cui l´attenzione pubblica si concentra sui diritti del feto e la rianimazione del neonato prematuro, un agile libretto di Massimo Ammaniti sposta la lente sulla "costellazione materna", quel particolare stato mentale intessuto di sensibilità e fantasie, paure e desideri che accompagna la maternità (Pensare per due, Laterza l´ha programmato per fine mese). Una condizione anche oscura, controversa, spesso nascosta sotto la colata di miele convenzionalmente gettata sulla donna in attesa.
Madri non si nasce, si diventa. Ammaniti utilizza recenti indagini realizzate a Yale sullo stato mentale delle madri negli ultimi mesi di gravidanza e nei primi mesi di vita del figlio. Il 73 per cento delle donne intervistate e il 66 per cento dei padri riferiscono pensieri insistenti sulla perfezione del figlio, ma ancora più urgente è la preoccupazione che qualcosa di grave possa succedere durante la gravidanza e nei primi mesi di vita (il 95 per cento). Inquietudini normali, che però possono sfociare in nevrosi ossessive e depressioni gravi. La fenomenologia materna tracciata da Ammaniti è tutt´altro che edenica. Madri "integrate", che vivono con equilibrio la nuova condizione, ma anche "ristrette" ossia distaccate, attente a salvaguardare la propria indipendenza. Madri ambivalenti, sospese tra la protezione estrema e il rifiuto, e madri a rischio depressivo, le più esposte. Nuove ricerche dimostrano che la maternità rende più intelligenti. L´ha provato Craig Howard Kinsley sui ratti: le topoline madri sono capaci di fare in tre minuti quel che le altre fanno in sette giorni. Può essere di conforto per chi teme di non farcela (anche qui la percentuale è altissima).

Repubblica 9.2.08
Tutti gli uomini del “Mondo”
di Eugenio Scalfari


La rivista coniugava eguaglianza e libertà, un equilibrio da cercare giorno per giorno e sempre a rischio

Da qualche tempo e sempre più spesso col trascorrere degli anni si ricorda Il Mondo e Mario Pannunzio che ne fu il fondatore e il direttore dal 1949 al 1967 quando quell´esperienza giornalistica culturale e politica si esaurì e pochi mesi dopo si spense prematuramente anche l´esistenza del suo animatore. Da allora gli estimatori di Pannunzio sono cresciuti di numero in maniera esponenziale così come, in parallelo, sono aumentati gli apprezzamenti e il rimpianto per Ugo La Malfa che del Mondo fu non solo amico ma punto di riferimento politico e quasi proiezione politicante di quel gruppo così vario nelle sue molteplici voci e così coeso nei valori e nei principi che ne ispirarono le opere. E´ accaduto per i "fedeli" del Mondo, di Pannunzio e di La Malfa ciò che era avvenuto per Garibaldi e i suoi "Mille" che a pochi anni di distanza dall´avventuroso viaggio da Quarto a Marsala erano diventati già molte migliaia e salirono ancora di più col passare del tempo e l´allontanarsi dei fatti.
Oggi esistono fondazioni che portano il nome di Pannunzio, premi che vengono distribuiti in sua memoria, commemorazioni e testimonianze da parte di chi da lui ha imparato il mestiere e le regole di carattere che esso comporta ed anche da chi non l´ha mai frequentato né visto e ne ha orecchiato alla lontana improbabili insegnamenti. E´ comunque un bene che quell´esperienza sia ricordata in tempi tristi. Testimonia un bisogno di pulizia e coerenza morale e può essere un buon segnale di resistenza al peggio che può ancora venire e al meglio nel quale continuiamo a sperare.
* * *
Domani saranno passati quarant´anni dalla sua morte.Ricordo che quel giorno piansi a lungo e silenziosamente per la perdita d´un maestro e perché ero stato impedito di andare ai suoi funerali. Tra lui e me c´era stata qualche anno prima una rottura politica che, a differenza di quanto avviene in casi del genere, non si era più rimarginata. Era stato infatti qualche cosa di diverso da un dissidio sulle scelte da fare: era stato il taglio d´un cordone ombelicale, da parte mia la conquista dell´autonomia, da parte sua la delusione d´un abbandono.
Oggi quei fatti così lontani mi tornano alla memoria e con essi l´inizio di quel sodalizio e come si rassodò negli anni successivi e come alla fine si consumò; una piccola e forse trascurabile (non per me) sequenza autobiografica che però si iscrisse in un racconto più vasto che riguarda quel piccolo gruppo di liberali di sinistra che per quasi vent´anni rappresentò il punto di riferimento della cultura liberale italiana, minacciata di soffocazione dalle due chiese contrapposte ma speculari, quella democristiana e quella comunista, con i loro dogmi e i loro paradisi, con le loro certezze assolute, la loro asfissiante pedagogia, la loro intolleranza settaria.
Le due chiese contrapposte dalla guerra fredda che in quegli anni aveva spaccato il pianeta avevano ciascuna il suo slogan; la chiesa democristiana inalberava il vessillo della libertà, alquanto inappropriato per un partito ispirato dalla Chiesa di Roma; quella comunista il vessillo dell´eguaglianza, altrettanto improprio per chi si ispirava ad un regime oscurantista e totalitario.
Noi del Mondo coniugavamo insieme eguaglianza e libertà: una scommessa difficile, un equilibrio da cercare giorno per giorno e sempre a rischio d´esser perduto. E poi la sproporzione immensa delle forze: un giornale, un gruppo elitario, nessuna sponda in un paese dove la borghesia era dominata dagli interessi e non nobilitata dai valori e dove l´indipendenza del pensiero era un´eccezione.
Il Partito d´azione si era già frantumato nella sua brevissima esistenza politica due anni prima che nascesse Il Mondo, ma l´intuizione di Pannunzio fu di farlo rivivere in chiave culturale depurandolo dalla sua inclinazione a dialogare con il Pci. Il piccolo miracolo fu di mettere insieme il pensiero di tre vecchi maestri spesso discordi tra loro ma tutti e tre intrisi di liberalismo democratico: Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini e - ai loro fianchi e alle loro spalle - il meglio dell´intelligenza liberal-democratica e liberal-socialsista: Omodeo, De Ruggiero, Salvatorelli, Spinelli, Ruffini, Chabod, Calogero. Sullo sfondo i fratelli Rosselli, Gobetti, la scuola meridionalista di Giustino Fortunato, Giovanni Amendola. Il cattolicesimo liberale e protestante di Arturo Carlo Jemolo.
Queste erano le divisioni (se si può usare la metafora militaresca) del gruppo del Mondo. I "soldati" in servizio permanente erano di varia estrazione: giornalisti, scrittori, politici, intellettuali. Non è il caso di ricordarli tutti ma alcuni sì perché costituirono il nerbo del gruppo. E il primo di loro, senza il quale quell´esperienza non sarebbe neppure cominciata, fu Ernesto Rossi, il suo liberismo radicale, la sua lotta perenne contro i monopoli e i "carrozzoni" burocratici, il suo antifascismo, il suo laicismo anticlericale.
Pannunzio e Rossi costituirono un tandem irripetibile. Quando quel tandem si ruppe nel 1962 Il Mondo cessò di fatto di esistere come lievito e progetto. Si trascinò stancamente per altri cinque anni, poi chiuse.
* * *
Il gruppo, se posso usare un´immagine geometrica, aveva una struttura composta di cerchi variamente intrecciati che avevano tutti Mario Pannunzio come perno centrale: un cerchio redazionale e giornalistico, un cerchio politico, un altro artistico letterario e uno fatto da amici. Del primo il personaggio più rilevante fu Ennio Flaiano che fu anche un grande scrittore e sceneggiatore. Nel secondo c´erano Carandini, Cattani, Libonati, Paggi, Villabruna, Arrigo Olivetti, Antonio Calvi, Mario Cagli, Leopoldo Piccardi. I collaboratori politici erano il meglio del giornalismo e della pubblicistica dell´epoca: De Caprariis, Panfilo Gentile, Mario Ferrara, Francesco Compagna, Spadolini, Vittorio Gorresio, Enzo Forcella, Antonio Cederna.
Nel terzo cerchio Moravia, Elsa Morante, Brancati, Sandro De Feo, Patti, Renzo Rossellini, Gian Gaspare Napolitano, Mino Maccari e Amerigo Bartoli. Poi arrivarono Ronchey e Siciliano. Tra i più giovani Giovanni Russo, Carlo Laurenzi, Guerrini. Alberto Arbasino fece sul «Mondo» le sue prime prove. Di La Malfa ho già detto. Ma debbo ancora dire d´un altro maestro che costruì una strada giornalistica parallela, destinata ad incrociarsi con quella del Mondo e sopravvivere alla sua scomparsa; parlo di Arrigo Benedetti, in quegli stessi anni fondatore e direttore de L´Europeo, poi dal 1955 de L´Espresso.
Erano nati, lui e Pannunzio, nel 1910 nella stessa città, Lucca. La prima esperienza professionale la fecero insieme a Omnibus con Leo Longanesi. Nel ´38 fondarono e diressero Oggi. In tutto quell´arco di anni, dai "Trenta" ai "Sessanta", lavorarono, pensarono, sentirono ascoltando l´uno i passi dell´altro; così accadde anche a me che, assai più giovane di loro, lavorai con tutti e due.
Ernesto ed io faticammo un bel po´ per convincere Pannunzio all´idea dei Convegni. A noi sembrava il modo migliore per affiancare con iniziative tematiche e dialoganti con la società la presenza settimanale del giornale. Mario però era comprensibilmente geloso della testata. Gli amici del Mondo era una sigla che non voleva mettere in altre mani che non fossero le sue. Alla fine si convinse anche perché l´idea gli piaceva e di noi si fidava.
I Convegni furono una dozzina dal ´56 al ´61. Una parte dedicata a temi politici: il Concordato, la scuola, la censura. Altri, più numerosi, su temi economici: il mercato petrolifero, l´energia nucleare, la nazionalizzazione dell´industria elettrica, la riforma dei mercati generali, la riforma delle società per azioni, la speculazione edilizia. Attorno ad essi si sviluppò la battaglia per la nazionalizzazione elettrica e quella contro i monopoli. Con Tullio Ascarelli, Bruno Visentini e Felice Ippolito alla testa della nostra piccola pattuglia.
Furono battaglie storiche nelle quali incontrammo Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Giorgio Amendola. Il gruppo del Mondo era anticomunista dichiarato per quanto riguarda i principi ma molti uomini del Pci furono nostri abituali interlocutori sulle cose da fare.
* * *
La rottura avvenne su una questione politica e su un pretesto. Il pretesto fu la scoperta della partecipazione di Leopoldo Piccardi ad un convegno sulla razza avvenuto in Germania poco prima dello scoppio della guerra. La vera ragione fu invece un irrigidimento dell´ala liberale del gruppo con Pannunzio alla testa, contrario all´alleanza del piccolo Partito radicale da noi fondato nel ´56 con il Partito socialista di Nenni. Pannunzio, con Cattani e Carandini, rifiutavano quell´alleanza e si arroccarono su La Malfa e sul Partito repubblicano.
Su questo scoglio il Partito radicale si sfasciò. Il tandem tra Mario ed Ernesto si ruppe e, insieme, anche il mio lungo innamoramento con Il Mondo e con il suo direttore. Ma quella storia non finì lì. Le pagine di questo giornale ne fanno testimonianza. Noi abbiamo la storia e l´insegnamento di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti nella mente e nel cuore. In tempi così agitati quel ricordo ci è di conforto e di sprone.

Corriere della Sera 9.2.08
Confronti. Il violoncellista, americano di origine cinese, riflette sui rapporti tra identità, territorio, migrazioni di popoli e idee
Bach e la globalizzazione
di Yo-Yo Ma


Una sarabanda nelle suite: modello perfetto di dialogo culturale Il politicamente corretto è inutile, il confronto definisce le tradizioni

Le cose più interessanti succedono ai margini Lungo i confini ognuno può attingere a diversi sistemi

Ormai quasi vent'anni, dei trenta della mia carriera di violoncellista, li ho trascorsi viaggiando, anni in cui ho suonato e ho conosciuto tradizioni e culture musicali. I viaggi mi hanno convinto che nel nostro mondo globalizzato le tradizioni culturali sono un elemento essenziale a sostegno della nostra identità, della stabilità sociale e della disponibilità allo scambio di esperienze.
Un mondo in continuo cambiamento come il nostro è destinato a rendere incerti i legami culturali e a indurre la gente a mettere in discussione le proprie radici. La globalizzazione sembra spesso minacciare l'identità individuale, costringendoci ad adottare regole altrui. Naturalmente questo ci mette in crisi, perché ci si chiede di cambiare abitudini inveterate. I leader del mondo attuale devono quindi porsi una domanda fondamentale: come possono le abitudini e le culture mutare per convivere in un pianeta allargato senza sacrificare le diverse identità e l'orgoglio di appartenervi?
Nel corso dei miei viaggi musicali ho capito che le interazioni prodotte dalla globalizzazione non conducono solo alla scomparsa di culture, possono anche creare nuove forme culturali e rafforzare e diffondere tradizioni che esistevano da secoli. Avviene qualcosa di simile a quello che gli ecologisti chiamano «edge effect», effetto di bordo, espressione usata per descrivere quel che accade quando due ecosistemi differenti — per esempio la foresta e la savana — si incontrano. Lungo il confine, dove c'è la minor densità e la maggior diversità di forme di vita, ogni essere vivente può avvalersi delle proprietà dei due ecosistemi. A volte le cose più interessanti succedono ai margini. Le intersezioni possono rivelare collegamenti inattesi. La cultura è un tessuto formato da apporti provenienti da ogni angolo del mondo. Un modo di scoprire il mondo è quello di scavare in profondità nelle sue tradizioni. In musica, ad esempio, al centro del repertorio di ogni violoncellista ci sono le Suite per violoncello solo di Bach, e nel mezzo di ogni suite c'è un movimento di danza chiamato sarabanda. La sarabanda ha avuto origine dalla musica dei berberi dell'Africa del Nord, dove era una danza lenta e sensuale. Poi è passata in Spagna, dove è stata proibita perché era considerata indecente, lasciva. Gli spagnoli l'hanno portata nelle Americhe, ma è anche arrivata in Francia, dove è diventata una danza di corte. Intorno al 1720 Bach ha usato la sarabanda come uno dei movimenti delle sue Suite per violoncello. Oggi io, musicista americano nato a Parigi da genitori cinesi, suono Bach. Allora a chi appartiene veramente la sarabanda? È stata adottata da tante culture diverse, ognuna delle quali l'ha investita di significati particolari, ma in realtà è di tutti, la musica appartiene a tutti noi.
Nel 1998 ho fondato il Silk Road Project per indagare sulla corrente di idee che da migliaia di anni attraversa diverse culture tra il Mediterraneo e il Pacifico. Quando suoniamo nel Silk Road Ensemble, cerchiamo di riunire sul palcoscenico una discreta rappresentanza del mondo. I membri del gruppo sono dei virtuosi, maestri di tradizioni ancora vive europee, arabe, azere, armene, persiane, russe, centro-asiatiche, indiane, mongole, cinesi, coreane o giapponesi. Tutti mettono generosamente a disposizione le loro conoscenze e sono curiosi e desiderosi di apprendere altreforme di espressione.
Negli ultimi anni abbiamo visto che tutte le tradizioni sono il risultato di invenzioni riuscite. Uno dei modi migliori per assicurare la sopravvivenza di una tradizione è portarla ad evolversi organicamente, usando tutti i mezzi oggi a nostra disposizione. Avvalendosi di registrazioni e film, frequentando musei, università, accademie e città, suonando nelle scuole e negli stadi, i musicisti del gruppo — me compreso — acquisiscono strumenti preziosi. Ritornando a casa, condividiamo con gli altri quel che abbiamo imparato, assicurando alle nostre tradizioni un posto alla tavola della cultura.
Abbiamo scoperto che portare all'estero una tradizione musicale stimola i musicisti nel Paese di origine. Soprattutto, abbiamo sviluppato una passione per la musica altrui e stabilito tra noi un legame di mutuo rispetto, amicizia e fiducia che è palpabile ogni volta che saliamo sul palco. L'interazione gioiosa è il nostro scopo principale e siamo sempre riusciti a contemperare le differenze con un dialogo amichevole. Aprendoci gli uni agli altri, gettiamo un ponte verso le tradizioni che non ci sono familiari, scacciando la paura che spesso accompagna il cambiamento e lo spaesamento. In altre parole, quando estendiamo al mondo la nostra visione, capiamo meglio noi stessi, la nostra vita e la nostra cultura. Abbiamo più cose in comune di quel che pensiamo, anche con angoli remoti del nostro piccolo pianeta.
Scoprire questi scambi tra culture è importante, ma non solo per amore dell'arte. Tante nostre città — non solo Londra, New York o Tokyo, ma ora anche città di media dimensione — vedono arrivare ondate di immigrati. Come riusciremo ad assimilare gruppi di persone che hanno tante abitudini diverse? È inevitabile che l'immigrazione porti ad avversioni e conflitti, com'è avvenuto in passato? Cosa fare con la popolazione turca in Germania, gli albanesi in Italia, i nord africani in Spagna e in Francia e ancora in Italia? Una vivace attività culturale può aiutarci a capire come i gruppi possono mescolarsi in modo pacifico, senza sacrificare l'individualità e l'identità. Non si tratta di correttezza politica. Si tratta di riconoscere quel che è prezioso per qualcuno di noi, e i doni che il nostro mondo ha ricevuto da ogni cultura.
© 2008 Global Viewpoint, distribuito da Tribune Media Services (Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 9.2.08
Massimo Piattelli Palmarini illustra la ricerca sul funzionamento del cervello
Se la medicina sconfina nella filosofia
Biologia, psicoanalisi, etica: gli sviluppi delle neuroscienze
di Edoardo Boncinelli


Gli studi La scelta
In dieci assunti Piattelli Palmarini definisce il campo del nuovo sapere Intelligenze: la mente dell'uomo nella complessità delle sue funzioni secondo S.M. Sandford (Corbis)

Si parla oggi sempre più spesso di neuroscienze, anche se alcuni usano il termine neuroscienza, al singolare, e altri parlano più specificamente di neuroscienze cognitive o direttamente di scienze cognitive. Si tratta della nuova, ultima forma di conoscenza scientifica del cervello e del suo funzionamento, che include molte conclusioni tratte dalla ricerca sperimentale nei campi della neurobiologia e della psicologia, ma anche una certa dose di interpretazione e di speculazione.
Rappresenta comunque il meglio che abbiamo saputo fare fino a oggi sulla via della comprensione del cervello e della mente. La popo-larità di questa disciplina è divenuta a poco a poco tale che ciascuno cerca di «tirarla dalla sua parte». Molte teorie psicologiche, sociologiche ed economiche — per tacere di quelle filosofiche e politiche — hanno creduto di acquistarsi un'attendibilità maggiore sostenendo che questa o quella conclusione delle neuroscienze dimostra, sostiene, o anche semplicemente non contraddice i fondamenti della propria dottrina. Per questa via si è arrivati a parlare di una neuropsicoanalisi, di una neuroeconomia, di una neuroestetica e di una neuroetica.
Ma che cosa sono effettivamente le (neuro) scienze cognitive? Che cosa affermano? Quali sono i punti essenziali della disciplina, le nozioni delle quali oggi non si dubita più? E cosa si trova invece ai confini di questa scienza, qualcosa che è probabile o quasi certo, ma ancora non definitivamente appurato e consacrato?
Non è facile per una persona non addetta soddisfare queste curiosità e ancora più difficile per il lettore medio. Il motivo è semplice. La disciplina si è sviluppata in tempi relativamente recenti e con una tale rapidità da rendere difficile per chiunque seguirne gli sviluppi. E ancora più difficile è digerire la mole dei dati e delle conclusioni e produrne una sintesi equilibrata, obbiettivo che può essere raggiunto solo in un libro scritto da un esperto del campo che abbia riflettuto a lungo sui punti essenziali e sugli snodi più significativi della materia.
Questo è proprio ciò che ha fatto Massimo Piattelli Palmarini nel suo ultimo libro Le scienze cognitive classiche: un panorama (Einaudi), steso con l'attiva collaborazione di due valenti giovani studiosi, Alessandra Gorini e Nicola Canessa.
La prudenza, quasi la circospezione, dell'autore si rivela fino dal titolo, che parla di scienze cognitive «classiche» e ce ne propone «un panorama». Come dire che non intende parlare di tutto «l'universo» delle scienze cognitive, ma solo della loro porzione ormai classica, e la vuole contemplare dall'alto, quasi a volo d'uccello.
Per il compimento di questa opera di definizione e quasi di «recinzione» della regione concettuale da esplorare è fondamentale il materiale contenuto nel primo capitolo, intitolato «Assunti centrali delle scienze cognitive».
L'autore elenca dieci di questi assunti, che secondo lui definiscono in maniera univoca il campo concettuale delle scienze cognitive. Non c'è dubbio che questi argomenti siano stati pensati e scelti con cura, ma anche con coraggio: non credo infatti che tutti sarebbero condivisi dalla generalità degli addetti ai lavori. Molti sono di carattere spiccatamente concettuale e quasi filosofico e risentono sicuramente delle frequenti conversazioni che Piattelli Palmarini intrattiene quasi quotidianamente con esponenti di spicco delle scienze cognitive statunitensi, primi fra tutti Noam Chomsky e Jerry Fodor. Dopo due capitoli altrettanto fondamentali sullo sviluppo storico della materia e sulla filosofia della mente, si passa alla illustrazione dei principali risultati raggiunti e delle conclusioni da questi tratte, cominciando dalla retina del... ranocchio. Esperimenti condotti negli anni Cinquanta del secolo scorso rivelarono quanto è curioso e sorprendente il modo che ha la rana di vedere il mondo circostante. Già nella sua retina, il tappeto di fotorecettori che rende possibile la visione, esistono cellule superspecializzate, capaci di rispondere selettivamente a stimoli sensoriali molto specifici, e fondamentali, occorre aggiungere, per la sopravvivenza di questo animale.
Ci sono cellule della sua retina che reagiscono soltanto alla visione di un moscone in volo. Un qualcosa che voli ma che non sia un moscone, o la vista di un vero moscone ma fermo, non suscitano alcuna reazione in queste cellule. Che sembrano stare lì solo per rispondere alla semplice domanda: c'è in giro un moscone vivo oppure no? Tutto il resto non le interessa. Tutto il resto non viene letteralmente nemmeno «visto». Ed è estremamente interessante osservare quante e quali conoscenze sono poi derivate da questa semplice osservazione, diciamo così, pionieristica. Ogni animale vede, e più in generale percepisce, il mondo a modo suo, e nel modo che gli è più utile. Compreso l'uomo.

Liberazione 9.2.08
Il bipolarismo non è fallito soltanto nel centrosinistra: si vedano le varie pulsioni neo-centriste
L'Italia al voto è al bivio tra bipartitismo e democrazia e il primo leit-motiv di questa campagna è l'autonomia
di Rina Gagliardi


Questa persuasione si fonda, prima di tutto, su un dato di fatto: il bipolarismo, cioè il sistema politico incentrato su due soli "grandi competitori", due maxicoalizioni che si scontrano fino all'ultimo voto e conquistano il governo, magari in alternanza tra di loro, è ormai andato in frantumi. Non ha retto alla prova della stabilità, che era per altro una delle sue issue privilegiate. Ha creato coalizioni forzate, disomogenee, nelle quali - appunto per la logica del sistema - il potere di ricatto delle zone grigie neo-centriste era altissimo. Ha alimentato perciò frammentazione e, soprattutto, trasformismo, vizio ben radicato nella cultura politica nazionale. Insomma, a differenza di quanto viene agitato a scopo propagandistico, il bipolarismo non è fallito soltanto nel centrosinistra, e nella "separazione consensuale" tra il Pd di Veltroni e la nuova coalizione della sinistra alternativa, ma anche nel centrodestra - e le fioriture di rose bianche, così come le resistenze di Casini, così come le varie pulsioni neo-centriste, ne sono un indizio palese. Tanto è evidente questo fallimento che il leit-motiv primo di questa campagna elettorale è stata la tendenza alla riconquista dell' autonomia di quasi tutte le forze o soggettività politiche - a tutt'oggi non sono pochi, a destra e a sinistra, coloro che annunciano, dichiarano o "minacciano" di volersi presentare da soli, con la loro faccia, con la loro fisionomia, con il loro programma. Un po' come se ci preparassimo ad andare a votare non con il pessimo Porcellum, ma già con quel sistema elettorale "tedesco" che ci si è ostinati, assurdamente, a non volere.
In questa situazione contraddittoria (resa ancora più contraddittoria dalla distonia, per chiamarla così, tra i processi materiali di riorganizzazione o maquillage della politica, e la forma data da una legge elettorale al tempo stesso bipolare, proporzionale e maggioritaria), esistono due sole - o principali - strade di uscita "definitiva" dallo schema bipolare. La prima, come dicevamo, è la sostanziale "americanizzazione" dell'Italia, attraverso un bipartitismo di fatto: se l'elettorato concentrerà i suoi voti sul Pd e sul Pdl, sulla competizione tra Veltroni e Berlusconi-Fini, riservando a tutti gli altri (alla sinistra, prima di tutto) un consenso marginale, ci troveremo alla fine con il più insidioso dei bipolarismi - con la proposta-principe del referendum Gazzetta anticipata dalla realtà. In questo caso, la competizione politico-istituzionale si ridurrà, drasticamente, tra Centro e Destra: di qua, un Centro, certo, che dalla storia erediterà singole figure e molte storie della sinistra, ma che sarà "segnato" con forza dalla presenza, non importa quanto concreta, di Luca Cordero di Montezemolo, degli economisti del "Corriere", di una larga componente clericale; di là una destra che oscilla tra populismo e sogni gollisti, ricca di pulsioni autoritarie, sicuritarie, selvagge. Sarebbe un grave arretramento per un Paese che, nel bene o nel male, ha sempre vissuto una dialettica ben più ricca e articolata.
L'altra via è quella per la quale ci batteremo fino all'ultima donna e all'ultimo uomo: una concreta configurazione del sistema politico a tre, una destra, un centro, una sinistra. Una di quelle tante semplicità che sono difficili a farsi, ma di cui non può sfuggire a nessuno la portata storica. Che cosa sarebbe di questo Paese senza una presenza forte e riconoscibile della sinistra nelle istituzioni? Appunto, l'Italia diventerebbe molto simile agli Stati Uniti: un grande paese, ricchissimo di proteste sociali e di movimenti, talora voglioso di change, di mutamento, ma dove l'esistenza di una sinistra politica autonoma è, semplicemente, cancellata. Ora, a dispetto di tutti i dubbi che si possono nutrire sulla "Sinistra-Arcobaleno", sulle sue liste, sulla "compatibilità" dei suoi gruppi dirigenti, sulla sua credibilità, è evidente che questa chance c'è: la si può giocare, pienamente e fino in fondo. Non solo a beneficio delle tante persone, dei milioni di lavoratori, di giovani e di donne che non possono rimanere privi di rappresentanza. Non solo per salvare una prospettiva ideale di liberazione dallo sfruttamento, dall'alienazione, dal dominio totalizzante delle merci sulle persone e sulla natura. Non solo per reiniziare un cammino virtuoso, nel corso del quale dobbiamo saper rispondere alle domande più antiche e più ineludibili - che cosa siamo e che cosa vogliamo. Ma per salvaguardare le potenzialità e la vitalità della democrazia italiana. E della stessa politica, così malata e così bisognosa di una Grande Riforma.

Liberazione 9.2.08
"La classe operaia va in Paradiso", il film che provocò la sinistra
La nebbia intorno alla fabbrica: da Elio Petri a Wilma Labate
di Serafino Murri


Le micidiali polemiche che seguirono l'uscita nel 1971 de "La classe operaia va in paradiso", inizio del percorso di Elio Petri verso la scomunica ufficiale da parte del PCI arrivata nel 1976 con Todo Modo (film tratto da Sciascia, che metteva esplicitamente i bastoni tra le ruote al compromesso storico), a guardarle oggi, fanno lo stesso effetto della nebbia del sogno finale del protagonista Lulù-Volonté: una volta abbattuto il muro che separava la classe operaia da uno smunto Paradiso fatto di pseudo-integrazione nel modello borghese di vita, diradata la nebbia di un'ideologia del riscatto di classe che non accettava deroghe dalla mitologia operista né serie né facete, quel che si presenta agli occhi degli operai sono sempre gli operai, uguali a se stessi, abbrutiti dal lavoro, lasciati soli, sbandati, senza una meta. Da allora, infatti, qualcosa è cambiato: e in peggio. Quel tasso a volte alcolico di pregiudiziale fiducia nel riscatto imminente che portava a non comprendere il film di Petri, considerato "pericolosamente reazionario" dal Movimento perché non vi si ritrovava nessun sincero odio nei confronti del lavoro, della macchina, della catena di montaggio, che portò il più marxista di tutti i registi, Jean Marie Straub, a invocare il rogo per questa pellicola "infame", è stato sostituito dal suo contrario. Gli operai di oggi sono ridotti a nebbia, resi fantasmi residuali di un discorso politico che li ignora, tende perfino a negarne l'esistenza, mentre le loro condizioni si avvicinano sempre di più a quelle selvatiche e senza speranza descritte dal film di Petri. Il protagonista Lulù Massa, nome emblematico in cui il regista e lo sceneggiatore Pirro condensavano tutto quel che l'operaio non doveva essere, e cioè una bestia da soma semianalfabeta dalle ambizioni meschine e senza un briciolo di coscienza di classe, riusciva a cogliere in anticipo, e senza disfattismo, il germe della disperazione che nasceva allora in seno alla Sinistra, il senso di fine della colossale sbornia, della festa, della gioia del '68.
Lulù Massa, fanatico del cottimo, neanche crumiro, solo qualunquista, che prende coscienza in maniera egoista e individuale, solo di fronte al licenziamento, a cui faceva da contraltare il vecchio comunista rivoluzionario impazzito Militina (Salvo Randone), agitavano lo spettro insopportabile di una classe operaia contraddittoria e spiazzata, o per usare le parole di Petri: «Degli schiavi, si potrebbe dire delle scimmie che ripetono lo stesso gesto in maniera ossessionale».
L'ostinazione di Lulù Massa nel negare l'insopportabilità della condizione operaia, che fece gridare allo scandalo la sinistra dell'epoca, invece, sarebbe diventata di dominio comune, se è vero come è vero che trentasette anni dopo si continua a morire di lavoro in condizioni contrattuali ancora meno garantite di quelle di un tempo.
Vale la pena rileggere quel che scriveva Goffredo Fofi sui "Quaderni Piacentini" del film di Petri: «Non è sufficientemente sociologico né sufficientemente psicologico, né commedia né dramma, e soprattutto assolutamente non politico se non a lontanissimi livelli, La classe operaia va in paradiso dimostra che il vecchio adagio revisionista si addice ancora ai registi del revisionismo cinematografico che "per troppo volere nulla stringono", se non in fatto di incassi. Il film sulla classe operaia resta ancora da fare. Di questo ricorderemo soltanto il suo valore di primo sbandatissimo e strombazzato sopralluogo; e la sua impossibilità e impotenza a parlarci seriamente della classe operaia, delle sue lotte, del suo presente e del suo futuro». C'è qualcosa di strano, un accanimento che, anche al di là del contesto massimale della lotta dell'epoca, prosegue a tutt'oggi in un malcelato divieto di fare della classe operaia in tutte le sue difficoltà e contraddizioni la protagonista di un film. Ancora oggi, si può solo essere celebrativi delle vittorie e del glorioso cammino operaio, continuando a perpetrare l'illusione mistificante che la classe operaia sia già in Paradiso (nel senso di defunta, ridotta a anima, santino, icona del passato). Rimettere le dita nel marasma mai chiarito della sconfitta del progetto rivoluzionario di classe, punto cruciale da cui è partita la nostra epoca di rimozione e superficializzazione sistematica delle coscienze, non è concesso. Gli operai sono ancora una cosa troppo alta per la loro storia, troppo irrappresentabili nella loro fragilità. Lo dimostra il caso di "SignorinaEffe" di Wilma Labate, altro film fatto a pezzi soprattutto dalla critica di sinistra, perché mescolerebbe il sacro delle lotte operaie col profano della storia privata, quando si propone di raccontare, oltre ad una versione più verosimile di quella passata alla storia della marcia dei 40mila, l'esatto momento in cui finisce il Sessantotto, il passaggio da quello che si allora si chiamava il "personale nel politico" (la propria vita come forma di partecipazione sociale) al "politico nel personale" (le scelte politiche come riflesso opportunistico delle esigenze personali di carriera e inserimento sociale): la malattia qualunquista in cui langue tutt'oggi l'Italia della moribonda Seconda Repubblica.

Liberazione 9.2.08
In libreria l'ultimo lavoro di Angelo d'Orsi sul 1937, dodici mesi caratterizzati da vicende terribili: mentre le bombe franchiste colpivano la cittadina basca si spegneva il dirigente comunista, i nazisti costruivano Buchenwald e Stalin rafforzava la dittatura
Annus horribilis, da Guernica alla morte di Gramsci
di Andrea Di Michele


Il 26 aprile 1937 l'aviazione nazista, con l'aiuto di aerei inviati in Spagna dall'Italia fascista, bombardava Guernica, distruggendola quasi completamente. Per quattro ore, ininterrottamente, aerei della Legion Condor scaricarono sull'antica capitale basca una quantità impressionante di ordigni esplosivi e incendiari, mitragliando a più riprese la popolazione civile.
Si trattò sicuramente di uno dei momenti più tragici della guerra civile che devastò la Spagna tra il 1936 e il 1939 e anche uno dei più noti, perché immortalato nella famosa opera di Pablo Picasso.
Per Angelo d'Orsi - che ha appena dato alle stampe per Donzelli il libro intitolato Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna (pp. 257, euro 25,00) - il bombardamento della cittadina basca assume un significato storico che va al di là di quel terribile dramma. Rappresenta il primo bombardamento a tappeto della storia. Lungi dall'essere un'operazione dettata da necessità belliche, fu un deliberato bombardamento terroristico volto ad uccidere indiscriminatamente e a seminare il terrore tra la popolazione basca ostile ai generali golpisti.
Guernica anticipò gli orrori a venire della seconda guerra mondiale, ma più in generale di tutte le guerre successive, anche quelle dei giorni nostri; guerre totali in cui è saltato completamente il confine tra eserciti combattenti e civili, con questi ultimi a pagare il prezzo più alto; guerre "posteroiche", come le chiama d'Orsi, dove l'attaccante gode di una superiorità tecnologica tale da non fargli rischiare nulla. Dopo Guernica ci sarebbe stata Dresda, completamente distrutta nel febbraio 1945 dai bombardamenti alleati che causarono più di 100.000 morti; il dramma nucleare di Hiroshima e Nagasaki; il bombardamento di Belgrado del 1999.
Ma per l'autore non è solo Guernica ad avere un significato speciale; più in generale è la guerra civile spagnola a rappresentare una drammatica anticipazione di quanto sarebbe accaduto di lì a pochi anni con la seconda guerra mondiale. La guerra civile fu il primo importante scontro tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e democrazia, tra i golpisti guidati dai generali Mola, Sanjurio, Franco e il legittimo governo repubblicano. Di fronte al sostegno armato assicurato ai golpisti dalle dittature fasciste italiana e tedesca, le democrazie europee rimasero a guardare, mentre da tutto il mondo partivano volontari pronti a combattere per la repubblica.
Senza gli eserciti fascisti l'aggressione dei militari alla repubblica sarebbe presto fallita. Il ruolo decisivo dell'intervento straniero nella guerra spagnola ha spinto d'Orsi a sostenere che non si dovrebbe parlare di guerra civile, quanto di un conflitto internazionale contraddistinto da una evidente disparità tra le forze in campo.
Guernica assume un significato paradigmatico anche come esempio di "disinformazione di guerra". Attraverso la stampa, il generale golpista Francisco Franco sostenne subito che erano stati i "rossi" a incendiare Guernica, facendola poi saltare in aria con la dinamite. In Spagna, fino alla caduta del regime questa fu la verità ufficiale. La menzogna, priva di qualsiasi fondamento, continua ad aleggiare nel campo dell'informazione, della propaganda politica e di certa storiografia. E' uno dei tanti esempi di "false notizie" create ad arte in tempo di guerra e ci rimanda all'attualissimo tema del rapporto guerra-informazione e del ruolo sociale dei giornalisti di fronte ai conflitti.
Ma nel libro di d'Orsi c'è anche dell'altro. C'è il racconto della nascita rabbiosa e scandalizzata del dipinto "Guernica" ad opera di Pablo Picasso (ispirato dalla sua musa Dora Maar), consapevole opera di denuncia della barbarie fascista, esempio di felice incontro tra arte, politica e impegno civile. Furono tantissimi gli intellettuali che sulla guerra di Spagna si schierarono apertamente e la stragrande maggioranza di loro lo fece a favore della repubblica. Molti partirono per i campi di battaglia, molti altri rimasero nei rispettivi paesi a combattere con le armi della cultura. «La Spagna fu davvero - come scrive d'Orsi - la prova generale della moralità della cultura.» Anche su questo fronte si coglie il riferimento all'attualità, un'esortazione agli intellettuali ad essere maggiormente presenti nel dibattito pubblico, a prendere posizioni chiare specie sulla questione delle guerre di oggi.
Dal punto di vista storiografico d'Orsi traccia un quadro vivissimo e partecipe di quello che lui chiama annus horribilis , il 1937, anno centrale per le vicende dell'Europa e del mondo tra le due guerre mondiali. Il 1937 è l'anno del fascismo trionfante, che celebra il primo anniversario della nascita dell'Impero dopo la conquista dell'Abissinia; dell'elaborazione dei primi piani di aggressione all'ordine europeo da parte della Germania nazista; della costruzione del lager di Buchenwald; dell'aggressione giapponese alla Cina, che ad Oriente fa iniziare la seconda guerra mondiale già nel 1937; anno centrale anche per il rafforzamento della dittatura totalitaria di Stalin in Unione Sovietica.
Le purghe staliniane non si limitarono al territorio sovietico, ma interessarono anche la Spagna, dove nelle ultime fasi della guerra civile agenti dei servizi segreti sovietici uccisero anarchici e trotzkisti. Guerra nella guerra, dramma nel dramma, la lacerazione che interessò il fronte repubblicano e che giunse a veri e propri scontri armati tra comunisti e anarchici fu uno dei motivi alla base della sconfitta della repubblica.
D'Orsi ha scritto un libro la cui lettura è godibilissima, mai faticosa, avvincente e a tratti toccante, specie laddove - all'interno delle difficili vicende del comunismo internazionale - inserisce la storia politicamente ed umanamente drammatica di Antonio Gramsci. L'intellettuale e politico sardo morì poche ore dopo il bombardamento di Guernica, a seguito di 10 anni di prigionia nelle carceri fasciste. Qualche tempo dopo, Mussolini avrebbe scritto che Gramsci era morto di malattia e non di piombo, come invece accadeva in Russia ai dissidenti di Stalin e come gli sarebbe accaduto se si fosse rifugiato a Mosca. Prima del suo arresto, Gramsci si era espresso in maniera critica nei confronti della linea staliniana e per questo le parole di Mussolini non appaiono del tutto prive di fondamento. Tragedia nella tragedia, il comunista Gramsci moriva nelle carceri di Mussolini, senza una patria politica certa da cui essere accolto.

Liberazione lettere 9.2.08
Crocefisso. Ma lo Stato non è laico?

Cara "Liberazione", una questione che riguarda il principio supremo della laicità dello Stato e quindi la stessa garanzia della vita democratica non può essere risolta per via di maggioranze. Infatti se anche il 100% degli italiani fossero cattolici, cosa che non è, lo Stato non potrebbe farsi propagatore della confessione della chiesa romana e del suo simbolo. Come hanno abbondantemente ricordato diverse sentenze della Corte Costituzionale (in particolare, 203/1989), nonché della Corte di Cassazione (in particolare, 439/2000). Se decidessimo a maggioranza che il simbolo da esporre fosse quello dell'ebraismo, o degli atei o dei musulmani, o quant'altro lo Stato repubblicano, laico, democratico, sarebbe tenuto ad ottemperare? Certamente no. Vale il principio garantito dall'art. 1 della Costituzione, quando afferma che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Solo la Costituzione, infatti, è la garanzia della libertà di tutti, senza che si venga costretti ad appartenenze che di tutti non sono affatto. Solo dalla garanzia del diritto di ognuno a veder tutelata la propria libertà di coscienza (art. 3 della Costituzione) scaturisce la pace. L'Associazione nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno", come ribadito in più occasioni, ritiene che i rappresentanti del popolo italiano, piuttosto che mobilitarsi per affiggere altre croci nei luoghi pubblici ed istituzionali, dovrebbero laicamente attivarsi per la rimozione di quelle esistenti. Ciò a tutela del supremo principio della laicità dello Stato italiano, sancito dalla Costituzione repubblicana e ribadito dalle autorevoli sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale.
Maria Mantello vicepresidente Associazione "Giordano Bruno"

L'espresso n.6 - 2008
S.O.S aborto
Intervista con Emma Bonino di Daniela Minerva


La pressione cresce. Prima Giuliano Ferrara, nel dicembre scorso, e la sua richiesta di "grande moratoria" sull’aborto, seguita dalla proposta di Sandro Bondi di modificare la legge 194. Poi i baroni romani che chiedono di rianimare i feti abortiti senza il consenso dei genitori. E Benedetto XVI che da quando siede sul soglio pontificio non passa settimana senza ricordare che la vita va salvaguardata anche prima della nascita. Circondato dai suoi vescovi: in realtà i primi, nell’agosto del 2007, a chiedere esplicitamente, sul loro quotidiano "Avvenire", una revisione della legge 194. Tutti uomini, devoti, arcigni e minacciosi. Tutti a criminalizzare, gettando luci sinistre sul dibattito politico, le donne, già devastate dal più grande dei dolori, l’interruzione volontaria di una gravidanza. E c’è già chi non può fare a meno di pensare al peggio: «La cambieranno, peggiorandola». E allora? Ma perché? E inevitabile? Davvero niente può fermare le logiche della politica e della demagogia che colpiscono la carne viva delle coppie? Anche se solo poche settimane fa nessuno pensava di dover porre queste domande, così semplicemente, senza ricamarci sopra con i "se" e i "ma anche", ora, con questo crescendo di crudeltà politiche e opportunismi medici, forse conviene porsele. Noi ne abbiamo parlato con Emma Bonino, ministro del governo Prodi e deputato della Rosa nel pugno.

Emma Bonino, pensava di trovarsi, trent’anni dopo, a ridiscutere della legge 194?
«Sono fuori di me. Tutto questo can can è puramente strumentale perché la questione dell’aborto in Italia è una non-emergenza. La legge funziona, gli aborti diminuiscono».

Perché allora un attacco così violento alla 194?
«Il tema dell’interruzione di gravidanza agita le coscienze individuali. È un tema serio e scomodo, soprattutto per noi donne. O c’è qualcuno che pensa davvero che le donne abortiscano come andare a fare la spesa? Che non sia ogni volta un dramma, un dolore indicibile? E sconcertante come non si tenga conto della sofferenza delle persone, delle difficoltà, ad esempio, di chi sceglie di interrompere una gravidanza, magari molto cercata, perché il feto è malformato. Ma la ragione di un attacco alla 194 è un’altra. E non ha molto a che vedere con i diritti delle donne, con la maternità consapevole, con la salute. E, lasciatemelo dire, nemmeno con il diritto alla vita. Tanto è vero che proprio la 194 ha conseguito la vera moratoria sull’aborto, perché ne ha ridotto drasticamente il numero, eliminando la piaga dell’aborto clandestino. E ancora di più si potrebbe ridurre se l’indignazione dei devoti non ostacolasse politiche di diffusione della contraccezione. Se la Ru486 fosse anche da noi un diritto come lo è in Europa».

L’attacco alla legge non ha a che fare col diritto alla vita, allora con cosa ha a che fare?
«Vedo scatenarsi una cagnara politica, adesso anche sempre più parascientifica, che si sta sviluppando a partire da una provocazione pretestuosa, come quella di Giuliano Ferrara corroborata da omelie che, ancorché autorevoli, non dovrebbero appartenere al dibattito politico. Lo scopo è solo quello di fare una crociata ideologica per portare scompiglio, in particolare nel centrosinistra. Leggo che Ferrara sarebbe pronto a lanciare su questo tema una "lista civetta" di stampo sanfedista, ovviamente per spaccare il Partito democratico».

Il quale, però, non sembra avere in agenda i cosiddetti temi etici. Anzi, sembra evitarli accuratamente.
«Com’è noto, io non frequento il Pd. I suoi dirigenti mi hanno definito "zavorra laicista". Ma io continuo a pensare che ci si debba rispetto. Che in Italia ci sono credenti, non credenti e diversamente credenti. E che il ruolo della politica è quello di trovare le regole in cui ognuno, senza prevaricare, esprime la propria responsabile libertà. Io non credo che sia scomponibile il binomio democrazia e laicità: la democrazia se non è laica non è democratica».

E il Pd non è laico?
«So perfettamente che c’è un dato di compromesso che va perseguito e con il tentativo di Rosy Bindi di scrivere una legge sui Dico mi sembra che fosse stato fatto con grande efficacia. Ma no, non andava bene neanche quello. Perché ormai siamo al paradosso che la libertà è considerata un tema eticamente sensibile».

Cosa è successo? Dove ha sbagliato il popolo dei centrosinistra?
«La miglior difesa è l’attacco. Con Luca Coscioni prima, e Piero Welby poi, andiamo ripetendo e lottando per lo meno dal 2001 per "i nuovi diritti civili". Cercando di far capire che il miglior modo di difendere anche le conquiste storiche dei divorzio e della maternità come scelta fosse appunto quella di occuparsi e imporre una nuova frontiera della libertà responsabile: libertà di cura, di terapia e di ricerca scientifica. Dal corpo dei malati al cuore della politica. Totalmente inascoltati, peggio messi all’indice come se si trattasse di temi disdicevoli per la politica che avrebbe cose ben più alte di cui occuparsi. Noi però non demordiamo: a Salerno, si terrà, dal 15 al 17 febbraio, il VI Congresso nazionale dell’Associazione Luca Coscioni proprio su questi temi. E lo facciamo mentre l’attenzione generale è focalizzata su un nuovo non-problema come la faccenda dei prematuri. lo ho tirato il campanello d’allarme quasi da sola per anni. Perché sono consapevole che, per come è fatto il nostro Paese, se abbassiamo la guardia sui diritti, sulle libertà, è finita».

Perché, come è fatto il nostro Paese?
«E’ fatto con una preponderanza vaticana dietro la porta, e una timidezza della classe politica che mi fa impazzire».

Ha detto che l’appello dei ginecologi romani che invitano a rianimare i neonati prematuri anche contro il volere delle madri è un non-problema. Perché?
«Come dice Umberto Veronesi, il documento non aggiunge nulla di nuovo: si sa già che un neonato prematuro va rianimato. La legge 194 è molto chiara in proposito: quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita. Per questo gli operatori della 194 si sono dati da 30 anni delle regole nel rispetto della normativa vigente. E poi, nel merito, bisogna anzitutto partire dai dati. I risultati di un lavoro durato due anni che ha impegnato ben nove società scientifiche, assieme al Comitato toscano di Bioetica e all’Ordine dei medici della Toscana, e presentato nel febbraio del 2006 ha mostrato che il 30-35 percento dei cosiddetti "grandi prematuri" (ovvero di 22, 23 0 24 settimane di gestazione) muore in sala parto; che il 45 per cento circa viene sottoposto a cure intensive e muore durante la terapia; e che la sopravvivenza è del 25 percento. Ma attenzione, il 95 per cento dei prematuri che sopravvivono riportano gravi handicap cerebrali. Alla luce di questi dati una cosa è chiara: non sta a un politico dire se bisogna rianimare o no».

Vuole rimettere tutto nelle mani dei medici?
«Un problema politico c’è: la legge non tutela a sufficienza il medico che si trova ad affrontare certe scelte. Così finisce che molti sottopongono il neonato a tutte le cure possibili, anche se sono consapevoli della loro inutilità, solo perché temono, altrimenti, di essere perseguiti per vie legali. Dico quindi che sarebbe meglio se ci fosse un regolamento che riconosca alla professionalità e alla coscienza del medico la facoltà di decidere caso per caso. Ma che questo va fatto sempre sentita preventivamente la famiglia, che ha l’ultima parola».

Come andrà a finire? La politica cambierà la 194?
«Io invito la politica a non inseguire agende fissate da altri, magari in qualche redazione di giornale, inventando emergenze che emergenze non sono, senza curarsi di quelli che sono i problemi urgenti aperti e non risolti dei nostri giorni. Poi mi auguro che i cittadini italiani sappiano giudicare chi queste convinzioni non è disposto a barattare in cambio di seggi e poltrone. Ma prova a farle crescere nel Paese e a determinare le grandi conquiste civili e politiche in grado di equiparare l’Italia agli standard degli altri paesi europei. Oggi sull’amore, sulla famiglia, sul sesso, sulle cure, sulla morte, sulla riproduzione, sulla vita, pare che per molti benpensanti e atei devoti, la libertà si riduca a mero capriccio, a consumo, desiderio. Cioè a disvalori da denunciare e porre sotto accusa, per magari sostituirli con dogmi di cui si ergono a soli arbitri e custodi».
(testo ricevuto da Paolo Izzo)

il Riformista 9.8.02
Oggi a Torino l'assemblea operaia del Prc
Contro Walter scende in campo Cipputi
di Alessandro de Angelis


Se non ci fosse Cipputi le cronache della Cosa rossa oscillerebbero tra i tanti se e i tanti ma sul simbolo e le prime tensioni sulle liste dove si annunciano note dolenti, anzi dolentissime. Ma mentre Fausto prepara la sua discesa in campo mediatica in una serie di round televisivi la prossima settimana, per ora ci pensa Cipputi ad aprire, di fatto, la campagna elettorale della Cosa rossa. E, neanche a dirlo, lo farà a Torino, città simbolo del lavoro industriale, non solo nel passato. In un luogo diventato anch'esso simbolo delle tragedie legate al lavoro industriale: quegli stabilimenti della ThyssenKrupp dove morirono arsi vivi sette operai lo scorso dicembre. Quella che si svolgerà oggi è la prima di una serie di assemblee di lavoratori organizzata da Rifondazione: «Sarà il più grande appuntamento operaio di quest'anno», dicono in via del Policlinico. Le prossime conferenze operaie, così si sarebbero chiamate una volta, si terranno in tutta Italia: a Milano (sul lavoro in Europa), a Roma (sul pubblico impiego), a Napoli (sulla nuova economia del Mezzogiorno), a Palermo (sul lavoro nel regno dell'illegalità). Con un unico obiettivo: far parlare Cipputi che, per Rifondazione non solo ha parlato poco negli ultimi tempi, ma è diventato pure invisibile, anche durante il governo di centrosinistra. «Invisibile»: è la parola che Giordano, e non solo lui, ripete in continuazione. E, ora che il suo partito si sente le mani libere, Cipputi vuole vederlo e anche farlo vedere. Quella che fu la classe operaia, è diventata, a giudizio di Rifondazione, quasi un'entità misteriosa per alcuni, vissuta dai più come sorpassata dai nuovi processi: flessibilità, liberismo, mercato. E non solo non ha più rappresentato un soggetto politico ma si è pure messa a votare tutti spiazzando la sinistra soprattutto nel Nord. E questo, per chi si dice orgogliosamente di sinistra, è inaccettabile. Ecco dunque che nella strategia di Rifondazione c'è tutto questo - la sconfitta storica di cui parla Bertinotti - ma anche altro. Alla vigilia di una nuova stagione di opposizione c'è soprattutto la volontà di provare a capire i nuovi operai, con l'ambizione di rappresentarli. Dice il responsabile Economia e lavoro di Rifondazione Maurizio Zipponi: «Vogliamo parlare di cosa significa essere operai oggi. Per noi quella parola va declinata in relazione alle grandi trasformazioni del lavoro. Gli operai di oggi sono anche i lavoratori dei call center o degli ipermercati, o anche una parte del popolo delle partite Iva. Il nostro obiettivo, nelle assemblee che promuoveremo, è parlare delle condizioni materiali del lavoro in Italia ed elaborare proposte politiche: a partire da un libro bianco sul mercato del lavoro».
Il timing, per Rifondazione, non poteva essere migliore: l'evento, pensato in un primo momento come uno degli appuntamenti che dovevano accompagnare e sollecitare dal basso la verifica di governo, acquista, dopo gli ultimi giorni, un significato tutto politico. E, dopo la separazione consensuale col Pd, fotografa due mondi che hanno davvero imboccato strade diverse: «Montezemolo si interessa al programma del Pd, la Sinistra riparte dalla Thyssen» titolava ieri Liberazione . Insomma, dicono a Rifondazione, qui c'è il lavoro, lì, inteso come Pd, c'è l'impresa. Sarà questo il terreno di sfida a Veltroni, preparato anche mediaticamente: «Resistiamo 365 giorni l'anno» è lo slogan della manifestazione di oggi. E anche nell'organizzazione si è scelto un taglio che è l'opposto del leaderismo: parleranno una quarantina tra precari, lavoratori dell'agricoltura, dell'edilizia, dei call center , badanti: gli «invisibili» di cui parla Giordano. Ci sarà pochissimo spazio per le voci istituzionali. Dice Zipponi: «Il Pd si dice equidistante tra lavoro e impresa. Significa che i due soggetti hanno la stessa forza e quindi non serve l'intervento redistributivo dello Stato, ad esempio. Noi invece stiamo dalla parte del lavoro. È un confine identitario ben preciso e noi, come sinistra arcobaleno, vogliamo partire dal lavoro per costruire il nuovo soggetto politico». E sulla Thyssen afferma: «Non è solo un luogo dove è si è verificata una tragedia isolata. È un simbolo visto che da gennaio ad oggi sono morti 110 lavoratori sul posto di lavoro. La realtà quotidiana ci dice che in questo paese ci sono due popoli e due Stati: uno fuori, uno dentro i cancelli delle fabbriche».
Il libro bianco che Rifondazione metterà sul tavolo di discussione della sinistra arcobaleno è il frutto di un lavoro di un anno e mezzo, cui hanno partecipato giuristi, avvocati e sindacalisti. Con l'obiettivo di fotografare la situazione del lavoro in Italia e offrire proposte su welfare, diritti, precarietà, democrazia sindacale. Dice Zipponi: «È una nostra idea di società "altra" rispetto a Confindustria. Ci abbiamo lavorato quando stavamo al governo e non riuscivamo a spostare diritti e ricchezza dalla parte dei lavoratori». Da oggi inizia la campagna elettorale e nella Cosa rossa parla Cipputi.

il Riformista 9.8.02
L'anniversario il 12 febbraio 1809 e le sue implicazioni sull'oggi
Darwin, una rivoluzione biologica che è evoluzione di laicità
di Orlando Franceschelli


Le sue teorie consentono di superare la «schizofrenia concettuale» tra mondo della materia inanimata e mondo della materia vivente. Approda a un agnosticismo capace di esortare anche i credenti a non scambiare la fede per conoscenza

«Scettico e razionalista«. È con questo atteggiamento che Charles Darwin, di cui proprio in questi giorni si commemora la nascita (12-2-1809), ha saputo nutrire non solo la rivoluzione biologica operata dalle sue teorie, ma anche il suo progressivo congedo dalle convinzioni religiose della giovinezza. Per approdare all'incredulità (disbelief) di un agnosticismo capace di esortare anche i credenti a non scambiare mai la loro fede per conoscenza effettiva delle cose. Una simile attitudine critica, maturata nel clima tutt'altro che tollerante dell'Inghilterra vittoriana, Darwin non l'ha mai dismessa. Ed essa, lungo la storia dell'illuminismo moderno, costituisce ancora oggi un'inaggirabile lezione di scrupoloso rispetto per la ricerca scientifica e di laica rettitudine nell'uso pubblico delle proprie convinzioni filosofiche e religiose. Una lezione di cui, proprio nell'odierno clima culturale e politico del nostro Paese, sarebbe veramente difficile esagerare l'attualità.
Darwin, come indicò anche Freud, ha completato a livello biologico la rivoluzione cosmologica avviata da Copernico. Più precisamente: le sue teorie hanno consentito di superare la «schizofrenia concettuale» (Ayala) tra mondo della materia inanimata e mondo della materia vivente. Il primo già indagabile e conoscibile mediante la scienza. Il secondo ancora sottratto a quest'ultima e spiegabile magari soltanto facendo appello a cause sovrannaturali. Grazie a Darwin, anche l'evoluzione della vita può essere studiata come ogni altro processo naturale. Governato da meccanismi soltanto fisici (variazioni casuali e azione cumulativa della selezione naturale). E del quale fa parte anche homo sapiens, incluse le sue capacità intellettuali ed etiche.
Dopo una simile rivoluzione, nulla è più come prima. Non solo l'uomo e la sua storia hanno perduto ogni primato antropocentrico rispetto al resto del mondo vivente. È stato insomma ferito per sempre, come ben vide Freud, il narcisismo o «amor proprio dell'umanità». Ma anche la teologia si è vista costretta a far subentrare al creatore e disegnatore onnipotente della tradizione il Dio umile e vulnerabile del teismo evoluzionistico, che si limita ad accompagnare con amore l'odissea evolutiva, senza intervenire direttamente neppure sul male fisico (sprechi, sofferenze, eliminazioni di specie) che ne segna i processi.
Un simile lavoro di revisione critica risulta certamente impegnativo, viste le implicazioni antropologiche, etiche e religiose che inevitabilmente comporta. Ma ad esso possono sperare di sottrarsi solo coloro che, come i vari sostenitori protestanti e cattolici del Disegno Intelligente, non esitano ad attaccare persino sul piano strettamente scientifico la teoria darwiniana dell'evoluzione. Ricordata invece, proprio in questi giorni, con le seguenti parole dalla nostra Accademia dei Lincei: essa «ha ricevuto il consenso praticamente unanime della scienza moderna». E risulta ormai sostenuta da una «quantità gigantesca» di reperti fossili, risultati sperimentali e considerazioni teoriche.
Dover ancora denunciare, come si è sentita costretta a fare la stessa Accademia, quanto siano infondate le critiche al darwinismo e alla necessità di insegnarlo nelle scuole, è certo uno dei segni più allarmanti della carenza di laicità che oggi minaccia tutta la nostra vita pubblica. Segno insomma dell'innegabile pazienza di cui i laici devono saper fare esercizio di fronte al ritorno non del sentimento religioso in quanto tale, ma del fondamentalismo protestante o dell'integralismo cattolico. Incapaci entrambi di confrontarsi con la scienza e con la filosofia moderne. Nonché con l'inaggirabile pluralismo di valori etico-politici che esse possono ispirare.
Di una simile pazienza nei confronti degli oscurantisti che attaccano proprio la teoria dell'evoluzione, diceva di averne ben poca persino un liberale del calibro di Friedrich von Hayek. Che perciò si dichiarava riluttante ad accettare per sé la definizione di conservatore. Forse nell'Italia di oggi, di pazienza ne serve di più. Della pazienza intesa come virtù, però. Non come compromesso al ribasso con chi, per dirlo proprio con le parole di Darwin, si mostra del tutto incapace di resistere alla tentazione di trasformare i propri sentimenti e le proprie intime convinzioni di fede in «prova di ciò che esiste realmente». E perciò - a cominciare dalla gerarchia cattolica - pretende di essere l'unico difensore della vera scienza, della sana laicità e della stessa dignità umana. Minacciate invece alla radice dal presunto scientismo ideologico dei laicisti.
Ecco, contro un simile ritorno neointegralista al primato pubblico della religione, c'è veramente bisogno non di cedimenti, ma della pazienza costruttiva dei laici. Sorretta sempre dall'«atteggiamento scettico e razionalista» cui spronava anche Darwin. E perciò mai rassegnata. Né cinicamente o superficialmente accomodante.