martedì 12 febbraio 2008

l’Unità 12.2.08
Coppie gay e «no» alla legge Biagi: Bertinotti inizia la corsa
Il leader di Sinistra arcobaleno entra in campagna elettorale. E lancia frecciate a Prodi...
di Giuseppe Vittori


Parte la «competition» con il Pd: il voto a sinistra influenzerà le scelte dei democratici

HA GIÀ CHIARE le parole della sua campagna elettorale, Fausto Bertinotti: dal riconoscimento delle coppie gay, al «no» alla legge Biagi, passando per il 50% di candidature rosa. Il presidente della Camera e leader della Sinistra arcobaleno ieri ha di fatto «rotto gli argini» in una serie di appuntamenti mediatici, nei quali ha fissato i suoi paletti e ha fatto intendere come sarà la sua competition con il Pd. In cui non mancano frecciate agli inciampi del governo Prodi. La giornata era iniziata con una intervista a Radio 105, in cui ha spaziato dall’apprezzamento per Berlusconi - «anche se ci separano distanze politiche abissali» - fino alle sue presenze abituali ai salotti politici, rivendicata con fermezza»: «Non mi pento di frequentarli. Da sempre Lella ed io abbiamo fatto della frequentazione dei tempi non impegnati della politica una scelta di assoluta libertà. Penso che una società chiusa, dove ognuno sta nel suo mondo, piace tanto solo ai conservatori. La reclusione e il ghetto sono scelte verso cui ci battiamo moltissimo». Poi i capisaldi: «Se dovessimo tornare al governo sia subito archiviata la legge Biagi. Del resto era già così nel precedente programma del centro-sinistra e purtroppo non è stato fatto». Poi capitolo diritti civili: «Nel programma del centrosinistra avevamo il riconoscimento delle unioni di fatto che non è stato realizzato per la pressione delle forze centriste e moderate. Se andassimo al Governo riprenderei da lì, proponendo certamente il nostro sì alle unioni gay». «Penso che i diritti della persona - prosegue - siano una frontiera necessaria all’Europa per il presente ed il futuro, e che su questo terreno ci voglia un riconoscimento delle diversità e dei diritti della persona come elemento fondativo della nuova cittadinanza». Quote rosa: «Per noi il 50% delle candidature rosa rimane un obiettivo primario». Emergenza rifiuti: «Il governo è stato fatto cadere non dall’immondizia ma da Mastella. Quanto alla vicenda campana, ci sono responsabilità oggettive, colpevoli complicità con il peso dominante di grandi aziende, che hanno fatto il bello ed il cattivo tempo». Con stoccata a Bassolino: non può diventare un capro espiatorio, ma occorre che ora decida lui se fare un passo indietro. In serata chiusura con il Tg1: «Il voto utile - dice contestando l’invito di Berlusconi - è quello dato alla Sinistra arcobaleno: utilissimo, persino influente», perché quanto più forte sarà la sinistra, tanto più il Pd invece di essere «un soggetto di centro» dovrà tenere conto delle istanze della sinistra.

l’Unità 12.2.08
Il vertice della sinistra
Oggi i leader scioglieranno il nodo del simbolo


ROMA Due «tavoli», uno al mattino sul programma, uno nel pomeriggio sul simbolo, con i segretari, sullo sfondo la direzione del Pdci riunita per dare via libera a Oliviero Diliberto, finora strenuo difensore dei simboli di partito (e quindi della falce e martello); infine, in serata, Fausto Bertinotti ospite di Ballarò, su Rai tre: se non si impunteranno sull’ennesimo braccio di ferro, oggi le forze della Sinistra arcobaleno (Prc, Pdci, Verdi e Sd) daranno il via alla campagna elettorale. Il tempo stringe ma in realtà sono molte le questioni ancora aperte: sul simbolo decideranno i segretari, ma nei giorni scorsi da Rifondazione avevano annunciato un sondaggio sul quesito “arcobaleno da solo o con i simboli di partito?”. Sondaggio del quale si sono perse le tracce: ai vertici del Prc e degli altri partiti nessuno sa nemmeno a quale agenzia sia stato affidato, c’è chi a mezza voce ne esclude perfino l’esistenza. «Del resto, qualunque fosse l’esito di un eventuale sondaggio, dopo la pregiudiziale posta da Sd non si potrebbe certo reinserire la falce e martello», fa notare una fonte Arcobaleno. Dal momento che grandi distanze programmatiche tra i quattro partiti non si intravedono, la partita si giocherà soprattutto sulla composizione delle liste.

Repubblica 12.2.08
Iniziativa dedicata ai firmatari dell'appello della Sapienza. Domenica dibattito con Bernardini, Cosmelli e Frova
"Darwin day" per i fisici del no a Ratzinger


ROMA - Tornano i Darwin Day dedicati quest´anno ai fisici della Sapienza, perché «hanno dato il segnale di essere laici in un panorama culturale e politico che non lo è».
L´Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uarr) che organizza gli eventi per ricordare i valori della scienza e del pensiero razionale ha deciso di rendere omaggio al gesto dei professori, la lettera al rettore in cui si esprimevano perplessità sull´invito al Papa in occasione dell´inaugurazione dell´anno accademico.
«Questa dedica è un supporto alla loro iniziativa in favore della laicità dell´università pubblica», dice Francesco Paoletti, membro del comitato direttivo nazionale dell´Uaar. Che chiarisce: «La laicità non è monopolio dei non credenti, è un codice comportamentale che si adotta per relazionarsi con il prossimo».
Più di 30 eventi sono previsti oggi in tutta Italia per ricordare il 199mo anniversario della nascita di Darwin, altri tutta la settimana. E domenica a Roma tornano a parlare i protagonisti della polemica che si è innescata dopo la rinuncia di Ratzinger alla visita dell´ateneo: Carlo Bernardini, Carlo Cosmelli e Andrea Frova animeranno l´incontro "Fisici, atto secondo". Non temono nuove polemiche dall´iniziativa dell´Uaar i "fisici", già accusati di essere cattivi maestri. «Non siamo naturalisti filosofici, ma metodologici», racconta Cosmelli. «Sono cattolico come altri che hanno firmato la lettera. E poi la questione della Sapienza è chiusa, ora è il momento di parlare di cose serie». Punto e a capo, dice il professore. Ecco, che cosa è quindi per voi "l´atto secondo" come dal tema dell´incontro? «Significa iniziare ragionare a partire dai temi concreti su cui si esercita l´influenza della chiesa nell´etica e nella morale degli stati laici».
(p. co.)

Repubblica 12.2.08
L’America di Mc Carthy ossessionata dal nemico
di Vittorio Zucconi


L’ostrakon
Dal coccio che gli ateniesi usavano per esiliare un personaggio sgradito, al "blackballing", escludere con la pallina nera, che ebbe la sua apoteosi nella caccia alle streghe del New England
Anche una democrazia forte come quella statunitense può degenerare. Il caso Nixon

Il "memorandum", la proposta segreta, atterrò sulla scrivania del presidente Richard Nixon il 16 agosto del 1971. Firmata dall´avvocato Chuck Colson, consigliere legale della Casa Bianca, andava diritta al punto, nel linguaggio un po´ ruvido tanto caro al presidente. «... Per dirla chiara, mister president, dobbiamo cercare di usare tutte le leve del potere federale, dall´ufficio della tasse all´Fbi, per cercare di fottere i nostri avversari e oppositori...». Alla proposta, era acclusa una lista iniziale di 20 nomi che il consigliere aveva compilato come nemici da "fottere" al più presto. Senatori, deputati, uomini d´affari, attori come Paul Newman, Jane Fonda, Barbra Streisand e Bill Cosby, giornalisti come i direttori del Washington Post e del Los Angeles Times, produttori di Hollywood come Arnold Picker della United Artists, sindacalisti come Leonard Woodcock dei "Lavoratori dell´automobile", brillavano in un "who´s who" di personalità che formarono quella che nei processi e nelle inchieste fu conosciuta come la "Nixon´s Blacklist", la lista nera di Nixon. E passò alla storia americana come il primo esempio pubblico di un´operazione governativa lanciata per ostracizzare, marginalizzare e distruggere i nemici politici di un Presidente.
Neppure le indimenticabili "liste di proscrizione" volute dalla commissione della Camera per le Attività antiamericane del senatore Joseph McCarthy avevano raggiunto l´incostituzionalità della persecuzione che il primo consigliere legale del Presidente aveva proposto per impedire "a quei cervelli di pensare" e di nuocere al regime nixoniano, secondo la classica prescrizione mussolinana contro Gramsci. Nessun capo dello stato americano, non in maniera così esplicita, aveva accarezzato l´idea di adoperare le agenzie e i servizi del governo nazionale per eliminare impeccabili cittadini colpevoli soltanto di essere irritanti oppositori. La blacklist di Colson e Nixon, la loro lista nera, misericordiosamente finita nel cassonetto delle peggiori vergogne americane insieme con chi la volle (Colson fu condannato a tre anni di carcere e radiato dall´ordine, Nixon fu il primo presidente costretto a dimettersi nel 1974) fu il segnale che nessuna società, nessuna cultura, nessuna nazione in nessun tempo è mai completamente immune dalla tentazione di zittire, escludere ed eliminare chi per religione, colore, razza, tribù o ideologia è considerato indesiderabile.
Se l´origine storica di queste liste di "nemici" da allontanare, ostracizzare o sterminare è nell´ostrakon, nel coccio che i cittadini ateniesi usavano per esiliare un personaggio sgradito, il blacklisting o il suo sinonimo blackballing, escludere con la pallina nera, trovò nel mondo dei framassoni inglese, dei freemasons, il proprio rinascimento ed ebbe, nel Nuovo Mondo, quella tragica, ma fortunatamente breve, apoteosi della caccia alle streghe del New England. Sotto l´attenta guida di pastori calvinisti eruditi nei manuali per la caccia alle consortorie diaboliche scritti dai saggi del seminario di Harvard, a Boston, i Mather padre e figlio, le comunità attorno a Salem dovevano tenere accurati registri di uomini, ma soprattutto donne, denunciate o sospettare di stregoneria, portandole spesso fino all´estrema conseguenza della lista nera, l´impiccagione o la morte sotto macigni per schiacciamento.
Non ammesse pubblicamente, ma consultate e aggiornate con cura, furono poi le liste, ironicamente davvero "nere", degli schiavi fuggiti, o liberati per tenere conto di ogni stilla di sangue africano nelle loro vene, fino agli octaroon, a coloro che avevano un bisnonno o una bisnonna di colore e dunque erano da considerare per un ottavo ancora negroes, onde evitare rischi di matrimoni misti ai rampolli della famiglie razzialmente "pure" nel Sud, dove la miscegenation, il divieto legale contro i matrimoni misti era ancora in vigore in 16 Stati, fino alla sentenza della Corte Suprema nel 1967. Se una signora chiamata Ann Durham avesse abitato nel Kansas natale, anziché nelle Hawaii, non avrebbe potuto sposare un africano del Kenya. E non sarebbe mai nato Barack Obama, venuto al mondo nel 1961, quando la legge per la purezza delle unioni ancora vigeva.
Finire nelle liste nere è un destino che può colpire chiunque, perché la trasgressione, la "indegnità", il peccato è sempre negli occhi di chi guarda. Lo scoprì uno dei geni, e dei padri, della satira sociale e politica moderna, Lenny Bruce, il comico che fu distrutto, fino al suicidio da overdose di eroina, dalla temerarietà del suo umorismo sboccato e tagliente. Elenchi di "indesiderabili" da tenere alla larga spuntano ovunque, nei quartieri eleganti dove fino agli anni 60 gli agenti immobiliari sapevano, senza ammetterlo, che acquirenti di colore, stranieri o ebrei erano da scoraggiare. Un quartiere elegante di Washington, chiamato Spring Valley, fu scardinato negli anni ‘60 quando l´ambasciatore greco si vide respingere una proposta di acquisto perché "straniero" e per di più "di origine mediterranea", dunque nella lista nera dei "no". Il furibondo diplomatico marciò sul Dipartimento di Stato con una protesta formale e la casa gli fu venduta. Anche a una Agnelli, Susanna, toccò l´onta della black ball, quando i condomini di Manhattan respinsero l´acquisto di un appartamento perché la sua notorietà avrebbe portato troppo trambusto nel palazzo. Ironicamente, lo stesso Nixon fu rifiutato da una cooperativa sempre di Manhattan semplicemente perché indesiderabile.
Ma fu necessaria la grande psicosi "rossa" del dopoguerra perché il blacklisting divenisse quel melodramma politico, e umano, che sarebbe stato etichettato come "maccarthysmo". In uno dei primi esempi di quelli che poi sarebbero stati chiamati "processi" e "gogne mediatiche", grazie alle prime trasmissioni televisive in diretta, il lavoro della commissione presieduta dal senatore del Wisconsin e assistita da giovani ed entusiasti avvocati pieni di fervore anti comunista come Robert Kennedy, la caccia alle talpe di Stalin produsse risme di liste nere, puntando sulla massima spettacolarizzazione dello show maccarthysta, dunque su Hollywood.
Tra il grottesco e il tragico, centinaia di funzionari pubblici, militari di carriera, attori, registi, sceneggiatori (il 25 per cento degli "imputati" appartenevano al mondo del cinema) sfilarono davanti all´inquisizione maccarthysta. Per salvarsi da quegli elenchi micidiali, che garantivano l´esclusione dal lavoro e la censura, inoffensive attrici comiche quali Lucille Ball, forse sospetta per la sua fiammeggiante capigliatura rossa, furono costrette a farfuglianti confessioni. Nell´orgia di ostracismi reciproci, perché chi di liste nere ferisce di liste nere può perire, il grande Elia Kazan, che aveva partecipato alla caccia, fu messo nella lista nera di Hollywood e guardato come un traditore, mentre altri furono costretti a scrivere, produrre o dirigere sotto pseudonimi, un trucco ovviamente impossibile per gli attori. Bertolt Brecht se ne andò disgustato. Charlie Chaplin si rifugiò nella sua Inghilterra. Pochi anni prima, migliaia di americani di origine giapponese erano finiti automaticamente in un´altra tragica blacklist, quella delle possibili quinte colonne e internati fino al 1945, con la famiglie e i bambini, in campi di concentramento.
E il duello fra la necessaria vigilanza e la paranoia razziale o politica ricomincia a ogni generazione, che riconosce, o immagina, o confonde, nuovi pericoli mortali, sporchi stranieri, da esorcizzare od ostracizzare. La nuova blacklist, oggi, ha nomi scritti in arabo.

Repubblica 12.2.08
Perché il fantasma della cospirazione immaginaria continua a fare proseliti
Quella lunga storia del complotto ebraico
di Adriano Prosperi


I "protocolli"
Nella tradizione più vicina a noi c´è il famigerato apocrifo dei "Protocolli dei Savi di Sion", che aveva in appendice un elenco per cognomi di 9.800 famiglie di ebrei. Nel 1938, con le leggi razziali di Mussolini, quell´elenco diventò un´arma

Questo documento anonimo contro la "lobby ebraica" è cosa grave ma non seria. Non più dei cori nazistoidi alle partite di calcio. Certo, anche le cose non serie fanno male e possono essere pericolose. L´antisemitismo italiano non era "serio" come il razzismo naturalistico tedesco col quale rivaleggiava: le sue radici erano nell´antigiudaismo cristiano con la sua preghiera per i "perfidi" Giudei e nella versione idealistica dell´idea della superiorità razziale. Eppure ha fatto molto male e la retorica istituzionale delle giornate della memoria non ne ha nemmeno sfiorato le radici, anche perché l´orizzonte storico del "secolo breve" è troppo breve per la variante italiana dell´antisemitismo. Intanto, nel venir meno delle forme tradizionali di trasmissione dell´esperienza – la famiglia, la scuola – la smemoratezza generale ci pone davanti al riaffiorare di frammenti che l´archeologia del nazifascismo e quella dello stalinismo riconoscerebbero come loro ma che sono esibiti con candida e orgogliosa ignoranza: di qua le adunate in camicia verde, il culto della terra e del fiume natio, di là l´antisionismo urlante delle manifestazioni di piazza che confonde gli ebrei con lo Stato d´Israele e lo Stato di Israele coi suoi governi. La tragedia si ripete come farsa, ancora una volta. Ricordare le tragedie potrà evitare che la farsa si rovesci di nuovo in tragedia? proviamo.
Una lobby influente, un partito di intellettuali, un nemico nascosto: non sono la stessa cosa ma possono allearsi, sovrapporsi, fondersi in una sola entità. È già avvenuto. Il collante che li ha saldati e continua a saldarli è lo stesso: l´ossessione del pericolo ebraico. Per riconoscere la differenza radicale di quella che era l´unica presenza religiosa diversa consentita e per evitare il pericolo che portava con sé – pericolo di inquinamento, di infezione, di deliberata e segreta aggressione – la società cristiana europea fissò regole rigide: segni speciali sugli abiti, restrizioni spaziali (ghetti), divieti severissimi di rapporti e di scambi, soprattutto di sangue e di sesso. Ma questo sistema entrò in crisi quando e dove gli ebrei cessarono di essere tali e vennnero battezzati con nomi cristiani (in forma forzata e collettiva in Spagna nel 1492, subito dopo in Portogallo). A partire da questo momento, con la scomparsa della segregazione e della visibilità della differenza religiosa, nacque l´altra grande molla dell´odio, l´idea della differenza di sangue: sangue puro ("limpio") quello dei cristiani d´annata, impuro quello dei "nuovi". Per evitare ogni rischio di legami parentali dei primi coi secondi ci fu chi ebbe l´idea di fare una lista dei nomi già in uso nelle famiglie di ebrei coi nomi nuovi assunti dopo il battesimo: nacque così il Libro verde dell´Aragona. Insieme ai nomi vi erano riportati i documenti (apocrifi) di una congiura organizzata dagli ebrei spagnoli d´accordo con gli ebrei di Costantinopoli. Ecco i termini del complotto: gli ebrei si erano decisi a battezzarsi ma allo scopo di mandare in rovina chi li costringeva a farlo. Si erano detti: «ci tolgono i nostri beni? allora i nostri figli faranno i mercanti e manderanno in rovina i cristiani; ci tolgono la vita ma i nostri figli faranno i medici e li faranno morire fingendo di curarli; ci distruggono le sinagoghe ma i nostri figli diventeranno sacerdoti cristiani e manderanno in rovina la loro chiesa».
Non era la prima volta che la paura di congiure ebraiche si diffondeva in Europa. Ma questa volta gli ebrei erano doppiamente minacciosi perché irriconoscibili, nascosti sotto nomi e comportamenti di cristiani. E l´immiserita società iberica era pronta a scatenarsi contro la minoranza ricca, colta e intraprendente dei "marrani" (gli ebrei convertiti): non più diversi per religione, dovevano diventare diversi per sangue. Era l´embrione del moderno antisemitismo. Il successo fu inevitabile: la capacità di spiegare tutti i mali del mondo con una causa elementare e vicina possedeva l´invincibile fascino della semplificazione. Il movimento complicato e imprevedibile dei processi storici si chiariva come la realizzazione del lucido programma di una minoranza in possesso di speciali mezzi di pressione – il danaro, la cultura. Quest´idea fu ripresa con obbiettivi mutati negli anni della Rivoluzione francese dalla celebre tesi del reazionario abate Barruel : per lui tutto quello che stava accadendo di terribile era il risultato della cospirazione di una setta dominata da Voltaire e da Rousseau.
La lista dei nomi è il parto della sorella stupida della semplicità: la semplificazione. Ma ancor più stupido sarebbe sottovalutare la funesta efficacia di questa caricatura della spiegazione. Si pensi al prodotto di questa tradizione più vicino a noi, il famigerato apocrifo dei Protocolli dei Savi di Sion, della cui origine e diffusione sappiamo ormai tutto anche se questo non impedisce che lo si continui a usare come strumento di aggressione antisemita. Nell´edizione italiana (L´Internazionale Ebraica. I "Protocolli" dei "Savi anziani" di Sion, versione italiana con appendice e introduzione, Roma, "La vita italiana", direttore Giovanni Preziosi, 1938. XVI dell´era fascista) recava in appendice un elenco per cognomi di 9800 famiglie di ebrei. Preziosi non l´aveva costruito, lo aveva preso in prestito. Nel 1938 quell´elenco diventava un´arma: le leggi razziali volute da Mussolini e firmate dal re nel settembre di quell´anno furono la vittoria di quello speciale razzismo e antisemitismo italiano che era robustamente radicato nella cultura accademica e nell´ostilità cattolica ai "perfidi giudei". Un elenco di nomi: quanto potesse servire a denunzie interessate e premiate lo si vide subito.
Ma tutto questo non è forse sprofondato nel gorgo di Auschwitz e della Shoah? Michele Battini ricordò anni fa (Il Foglio, sabato 6 nov. 2004) che tutta la letteratura culminata nelle leggi razziali – non solo giornalisti e retori del nazionalismo fascista, ma medici, antropologi, biologi che avevano attinto all´antigiudaismo cristiano rappresentato da figure di primo piano della Chiesa degli anni Trenta – «sembra scomparire nel nulla dopo il 1945»; che era intervenuta la grande cesura di una Chiesa cattolica che aveva rinunciato alla «tentazione di sostituirsi a Israele» chiedendone la conversione; in conclusione – e su questo si può essere ancora d´accordo con lui - quello che oggi rimarrebbe è un antisemitismo che ha cambiato natura, è l´antisionismo come avversione allo Stato d´Israele, eredità dello stalinismo del passato e frutto dell´islamismo fanatico del presente. Ma – anche Battini lo ammetteva - il fantasma del complotto immaginario con la sua disarmante semplicità è sempre attraente e la tradizione dell´antisemitismo è di quelle che producono sempre nuovi germogli quando se ne creano le occasioni.

Corriere della Sera 12.2.08
Le convivenze sono più di 500 mila. E i figli nati fuori dal matrimonio il 18,6%
Coppie di fatto in aumento E i Comuni le riconoscono
di Francesca Basso


La legge. Falliti i tentativi di fare una norma nazionale. La scelta delle amministrazioni
Atti anagrafici in oltre 60 realtà locali

Partiamo dalle cifre. In Italia le convivenze sono circa mezzo milione e secondo l'Istat sono in crescita. Il 18,6% dei bambini nati nel 2007 ha genitori che convivono senza essere sposati. Manca però in Italia, a differenza di Francia, Spagna o Gran Bretagna, una legge che disciplini le unioni civili: nessun diritto, ad esempio, ad assistere il partner in ospedale o subentrare nel contratto d'affitto della casa comune. I Dico, partoriti a fatica dal governo Prodi, sono stati accantonati. E nemmeno il Cus di Cesare Salvi ha avuto fortuna.
Eppure una sessantina di Comuni, negli ultimi dieci anni, ha cercato una soluzione per fare in modo che le coppie di fatto non si sentano cittadini di serie B: si sono dotati di registri delle unioni civili oppure rilasciano certificati di «famiglia anagrafica basata su vincoli affettivi e di convivenza» (in tre città: Bologna, Padova, Bari). Tutte iniziative singole, politicamente esplosive e infatti sempre precedute da forti scontri e spesso seguite da ricorsi al Tar. L'Anci non ha nemmeno l'elenco di questi Comuni. Ma ci sono. Monfalcone, ad esempio, anche se una sola coppia è iscritta. O Ferrara, con quattro: «Il registro è un tentativo politico — spiega l'assessore ai Servizi demografici Mariella Michelini — per tenere viva l'attenzione su questo tema». E si discute. Come accade a Genova: il Pd si è spaccato di fronte alla proposta difesa dal sindaco Marta Vincenzi di certificare la «famiglia anagrafica basata su vincoli affettivi», con l'ala cattolica che non ne vuole sapere. Del resto a Roma non è andata meglio e a dicembre le due delibere che proponevano l'istituzione di un registro delle unioni civili hanno incassato il no del Pd «perché non serve a nulla».
Che non produca effetti giuridici non hanno difficoltà ad ammetterlo a Firenze, il secondo Comune in ordine di tempo dopo Pisa, ad avere istituito nel 1998 il registro. L'assessore ai Sevizi demografici di Firenze, Lucia De Siervo, mentre dà le cifre ci tiene però a sottolinearne «il valore simbolico, è un passo in più per una coppia di fatto»: le coppie iscritte sono 54, con un crescendo ogni anno (3 nel 2001, 12 nel 2007). Che il Comune ci creda lo dimostra il sito, che fornisce tutte le informazioni utili. Cosa non scontata, non tutte le città che hanno il servizio lo illustrano in modo chiaro. Bolzano sì e bene ma Padova, ad esempio, no. Un anno fa ha aperto alle unioni affettive, rilasciando il certificato. Era il 3 febbraio e le prime due coppie, una omosessuale e una etero, mostravano soddisfatte il pezzo di carta tra gli strali dell'Osservatore Romano
che parlava di «iniziativa inaccettabile» e un timido sindaco Flavio Zanonato che tagliava corto: «Caricare simbolicamente una cerimonia che dovrebbe rientrare nella normalità potrebbe essere anche controproducente». Insomma, troppo rumore. E sul sito del Comune, infatti, si trova la delibera ma il dove come quando ottenere il certificato non è dato saperlo. Tuttavia Padova ha avuto un buon successo, perché in un anno le attestazioni emesse sono state 25. Eppure il consigliere Alessandro Zan, che propose la mozione per regolamentare la «famiglia anagrafica » non è soddisfatto e lamenta «una mancata pubblicizzazione. Il riscontro positivo — spiega — è legato solo al fatto che noi rilasciamo un pezzo di carta da opporre a terzi per dimostrare che si è una coppia di fatto, un attestato da esibire come nel caso dell'ospedale. Insomma, è uno strumento più utile del registro».
I numeri non sono molto confortanti. A Pisa, Comune apripista che ha il registro dal 1998, le coppie iscritte sono 41, di cui 7 omosessuali. Ma «noi non abbiamo le cancellazioni delle unioni», avverte il vicesindaco Cosentino Cavallaro, che ha la delega ai Servizi demografici e celebra quasi tutti i matrimoni civili: «L'anno scorso — racconta — hanno fatto domanda due coppie, i matrimoni civili sono stati 163. Comunque ad alcuni diritti, come l'assegnazione delle case popolari, i conviventi concorrono senza bisogno del registro». Un po' come succede a Bologna, la prima in Italia a rilasciare l'attestato.
Al Sud la vita è più dura. Fa eccezione la Puglia. Una legge regionale ha esteso ai conviventi, anche gay, alcuni benefici a cui avevano accesso solo le coppie sposate. E a Bari da meno di un anno rilasciano l'attestato di famiglia affettiva. In Sicilia, invece, l'unico comune con il registro delle unioni civili è Bagheria: «Lo abbiamo dal 2003 — racconta il responsabile Piero Montana —. Si era iscritta una coppia lesbica però circa una settimana fa ha chiesto la cancellazione. Non dà diritti, ma in Sicilia c'è proprio una legge regionale che fa divieto ai conviventi di avere gli stessi benefici delle coppie sposate». Comunque, anche dove è previsto, i conviventi etero od omosessuali reagiscono con poco entusiasmo. «Perché iscriversi? — conclude polemico Aurelio Mancuso, presidente dell'Arcigay — Registro e certificato non danno diritti e non a tutti basta l'atto simbolico».

Corriere della Sera 12.2.08
Fra la chiesa e lo Stato una guerra continua
risponde Sergio Romano


Pensa che stiamo scivolando verso un oscurantismo religioso da Grande Inquisizione, con un reale pericolo per le libertà di pensiero e di ricerca? La firma di documenti e appelli di illustri cattedratici contro le ingerenze vaticane nel mondo accademico, che vengono viste come minaccia alla libertà dell'insegnamento e della ricerca, fa infatti temere il peggio. Perché altrimenti tanto impegno per arrestare, con sprezzo del pericolo, l'ingerente avanzata dei clericali nei templi del sapere? Oppure finirà tutto in girotondi?
Francesco Milazzo

Non è mai stato facile tracciare il confine tra l'autorità della Chiesa e il potere degli Stati. Le guerre internazionali di religione sono terminate con i Trattati di Westfalia, ma i conflitti si combattono da allora, anche se con lunghi intervalli di pace, all'interno degli Stati. La Rivoluzione francese fu anche una guerra fra la nuova Repubblica e la Chiesa Romana. La Restaurazione, dopo le guerre napoleoniche, non fu soltanto il ritorno dei re nei loro territori. Fu anche la rivincita della Chiesa, e la vittoria venne celebrata in alcuni Paesi con la costruzione simbolica di grandi templi in segno di espiazione: la Madeleine a Parigi, la Grande Madre di Dio a Torino. Le due maggiori unificazioni del XIX secolo, quella italiana e quella tedesca, avvennero contro la Chiesa, e provocarono guerre culturali che si placarono soltanto dopo forti tensioni. La rivoluzione bolscevica fu anche una guerra contro la Chiesa ortodossa e il suo ruolo nello Stato russo. La guerra civile spagnola non fu soltanto una guerra difensiva della Repubblica contro il putsch franchista. Fu anche una guerra aggressiva della Spagna repubblicana contro la Chiesa di Roma.
Vi sono momenti in cui il conflitto si conclude con un trattato di pace — il Concordato — che mette fine alle ostilità: quello napoleonico del 1811, quello mussoliniano del 1929, quello hitleriano del 1933. Ma la pace è spesso soltanto un armistizio, destinato a durare sino a quando un'alterazione nell'equilibrio dei rapporti fra i due poteri rimette in discussione le regole della convivenza. Dopo la Seconda guerra mondiale la Chiesa ottenne che il Concordato con l'Italia diventasse parte integrante della Costituzione repubblicana. Dopo il Concilio Vaticano II e la ventata libertaria degli anni Settanta, il governo Craxi, nel 1984, ottenne che lo Stato riconquistasse una parte del terreno perduto.
Esistono altri fattori che possono riaprire il conflitto. Accade quando i mutamenti delle mentalità sociali, le scoperte scientifiche e le nuove tecnologie rendono desiderabile, lecito e possibile ciò che era in altri tempi esecrabile, condannabile o più difficilmente realizzabile. La Chiesa è diventata più aggressiva, in questi ultimi anni, perché la modernità sta modificando i passaggi fondamentali dell'esistenza. Per nascere, procreare, unirsi in matrimonio e morire esistono oggi, molto più di quanto non accadesse in passato, opzioni diverse. Quando una parte della società chiede che queste nuove opzioni (fecondazione artificiale, aborto, unione fra omosessuali, adozioni da parte di coppie di uomini o di donne, eutanasia) vengano riconosciute dalla legge, la Chiesa insorge, proclama la sua autorità, nega allo Stato il diritto di legiferare in queste materie. E il successo delle sue offensive è tanto maggiore quanto più trova sulla sua strada, come in Italia, uno Stato debole e diviso. Alla sua domanda, caro Milazzo, non so rispondere. La guerra è in corso e non riesco a intravedere per ora il prossimo armistizio.

Corriere della Sera 12.2.08
L’Italia con troppa politica. Il conformismo ghibellino
di Ernesto Galli Della Loggia


La discussione Il ruolo pubblico crescente della religione, le trasformazioni della società e i timori dei laici
Non c'è la Chiesa dietro alla temuta «ondata neoguelfa»

È una bella immagine quella dell' «ondata neoguelfa », uscita dalla penna di Aldo Schiavone in un articolo di qualche giorno fa su la Repubblica. A stare al quale nell'Italia di oggi, a causa del degrado della vita politica e dell'etica pubblica, starebbe andando ancora una volta in scena «un'antica tentazione» della nostra storia politica e intellettuale, vale a dire «la rinuncia allo Stato », percepito come qualcosa di fragile che «non ce la può fare», e la sua sostituzione con una sorta di «protettorato super partes» attribuito al Papa: fino al punto di fare del magistero della Chiesa «il custode più alto della stessa unità morale della nazione ». Insomma, un vero meccanismo di supplenza, alimentato dall'illusione che «una religione possa occupare il posto della politica e del suo discorso». L'analisi di Schiavone ha precedenti illustri. Che la statualità italiana da un lato, e la Chiesa e il cattolicesimo romano dall'altra, siano due termini sostanzialmente antitetici fu opinione corrente durante il nostro Risorgimento. Che non a caso si compiacque di riprendere l'antica esecrazione antichiesastica di Machiavelli e Guicciardini (puntualmente citata anche da Schiavone), additando altresì nella Controriforma una delle massime fonti della rovina d'Italia: «Quando a noi toccò la parrocchia — scrive anche il nostro autore — mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati». Qualunque sia l'effettiva plausibilità di questa interpretazione della nostra storia, dubito assai che essa possa farci capire quanto sta accadendo nell'Italia attuale. Riportare sempre tutto, anche fenomeni palesemente e radicalmente nuovi (che dimostrano di essere tali, tra l'altro, proprio tendendo a ridisegnare secondo linee inedite gli schieramenti del passato), riportare sempre tutto, dicevo, come ama fare la maggior parte della cultura italiana, nell'ambito tradizionale delle dicotomie Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista, mostra solo quanto quella cultura sembri interessata più che alla realtà, più che a comprendere la novità dei tempi, a mantenere ad ogni costo saldo e credibile l'antico universo dei suoi valori e dei suoi riferimenti.
Com'è possibile, mi chiedo, non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca — di cui le dicotomie italiane di cui sopra sono parte — sta oggi diventando un reperto archeologico? Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni — e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia industriale- capitalistica a tutto il mondo, e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera più intima del
bios — tutta la nostra vita sociale, a cominciare dalla politica, con le sue confortevoli certezze culturali e i suoi valori, deve essere ripensata e ridefinita?
Come non accorgersi che è per l'appunto questa pervadente crisi di senso, e dunque questo drammatico interrogativo sul futuro, a segnare l'attuale drammatico passaggio tra due epoche storiche? E che sono per l'appunto questi fatti, non altro, che rilegittimano potentemente la dimensione religiosa candidandola a occupare nuovamente, in tutto l'Occidente, uno spazio pubblico? Ma se le cose stanno a questo modo— mi domando ancora — chi potrà mai scandalizzarsi se in un Paese come il nostro, con la sua tradizione, il risveglio della dimensione religiosa implichi immediatamente anche il risveglio della voce e della presenza della Chiesa cattolica?
Va bene, si obietta, ma si tratta di una voce e di una presenza assolutamente fuori misura. In realtà a me pare che l'impressione di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente sui temi etici (che poi sono anche politici e viceversa, come troppo spesso i denunciatori dell'«ingerenza » non vogliono vedere) è in grande misura favorita dal carattere intellettualmente pigro e ideologicamente conformista della nostra cultura, diciamo pure dalla sua assenza. Il rilievo non riguarda certo Aldo Schiavone che anzi con il suo Storia e destino (Einaudi 2007) ha rappresentato un caso di riflessione originale e coraggiosa sui grandi temi della rivoluzione tecnoscientifica in atto. Ma un caso raro. È un fatto che invece la cultura laica italiana si è perlopiù abituata oramai a sposare in modo sostanzialmente acritico tutto ciò che abbia a qualunque titolo il crisma della scienza. Non ne parliamo poi se la novità ha modo di presentarsi come qualcosa che possa rientrare nella sfera di un diritto quale che sia. Una sorta di idolatria della scienza opportunamente insaporita da un libertarismo da cubiste è così divenuto la versione aggiornata e dominante del progressismo e del politicamente corretto nostrani. Invano, da noi, si cercherebbe un Habermas, un Gauchet, un Didier Sicard che animano di dubbi e di domande la discussione in altri Paesi. I fari dello spirito pubblico italiano sono ormai Umberto Veronesi e Piergiorgio Odifreddi. Tutto il resto è silenzio.
In questa stupefacente condizione di resa intellettuale ai tempi, non c'è da meravigliarsi se la dimensione religiosa e la Chiesa, rimaste di fatto le sole voci significative a obiettare e a parlare una lingua diversa, raccolgano un'attenzione e un ascolto nuovi da parte di chi pensa che esistano cose ben più importanti della scienza. E che anche per ciò, dunque, esse sembrino assumere contorni di particolare rilievo superiori alla loro effettiva realtà. Inevitabilmente nel silenzio ogni sussurro sembra un grido.
Tutto ciò ha poco a che fare con qualche supposto vuoto di politica e di Stato che caratterizzerebbe l'Italia di oggi, secondo quello che invece mostra di credere Schiavone. Se infatti il punto realmente critico della condizione italiana, come a me pare, è l'assenza da parte della nostra cultura di vera discussione pubblica intorno ai grandi temi del Paese e dell'epoca, nonché l'appiattimento conformistico di quella medesima cultura, ebbene allora una parte non piccola di responsabilità ne porta proprio non già il vuoto, ma l'eccesso di politica, in cui siamo stati fino ad oggi immersi. È stata la crescente, spasmodica, politicizzazione del discorso pubblico, di qualunque discorso pubblico, che ha imprigionato l'intellettualità italiana riducendola oggi, checché se ne dica, a una delle meno vivaci e meno interessanti d'Europa. Facendone altresì, da sempre, in mille ambiti, e tranne pochissime eccezioni, un'articolazione di fatto del sistema politico e della sua ideologia, e dunque rendendola incapace di alimentare la politica stessa di valori e di punti di vista nuovi.
Questo corto circuito politica-cultura viene da lontano. Risale alla nascita stessa dello Stato italiano, alla cui origine vi fu una supplenza decisiva: quella per l'appunto rappresentata dalla necessaria iperpoliticizzazione (allora «rivoluzionaria », ma non solo allora) di alcune minoranze — e tra queste la cultura e gli intellettuali furono come si sa in prima fila — al fine di ovviare ad un vuoto decisivo: l'assenza dell'anima profonda del Paese e del suo consenso generale, l'assenza della nazione. È stata altresì questa iperpoliticizzazione — diciamo così — originaria della compagine statale italiana la responsabile immediata dell'ipertrofia statalista che ci accompagna dal 1861. Per potersi esercitare su una società riluttante e lontana di cos'altro poteva servirsi la politica, infatti, se non dello Stato? Insomma, in un implacabile gioco di rimandi, solo all'apparenza contraddittori, il deficit di Stato nazionale ha reso inevitabile l'ipertrofia dello Stato. Ma di uno Stato che non ha potuto essere, nella sostanza, che uno Stato politico-amministrativo: per giunta quasi sempre monopolio politicamente di una parte e amministrativamente quasi sempre inefficiente. Tutt'altra cosa cioè dallo Stato della nazione, capace invece di incarnare una dimensione realmente rappresentativa di istanze comuni a tutti i cittadini nonché di un'etica pubblica diffusa.
Insomma, appellarsi oggi in astratto, come è tentato di fare Schiavone, allo Stato e alle culture politiche come dimensioni in quanto tali salvifiche — per resistere all'«ondata neoguelfa», così come per qualunque altro scopo — serve solo a nascondere il vero dramma dell'Italia, la quale cela proprio nell'ambito dello Stato e della politica le contraddizioni sempre più paralizzanti della sua storia.

Repubblica 12.2.08
Un Bertolt sconosciuto nel diario in via di pubblicazione in Germania
Brecht: “Ho paura del comunismo”
di Andrea Tarquini


Non un marxista duro e puro ma un uomo roso dal dubbio, legato all´individualismo borghese, non un ateo convinto ma un´anima tentata dalla fede

BERLINO. Non mi trovo a mio agio nel mondo che auspico». La confessione segreta delle contraddizioni intime - comunista e moralista implacabile in pubblico ma amante del bel vivere e dell´individualismo nel privato - è di Bertolt Brecht. Emerge a sorpresa, decenni e decenni dopo la sua morte, negli appunti dei suoi diari inediti che Peter Villwock e altri studiosi di letteratura dell´accademia delle scienze di Heidelberg hanno decifrato e si accingono a pubblicare. Cinquantaquattro taccuini, nella scrittura indecifrabile a zampe di gallina di Brecht, che per una spesa di 70mila euro il Deutsches Literaturfonds si appresta a digitalizzare. Ne emerge un Brecht inedito, assolutamente in controtendenza rispetto all´immagine di sé che egli scelse di dare ai contemporanei e di trasmettere ai posteri: non marxista duro ma uomo roso dal dubbio, non eroe fideista dell´interesse collettivo bensì intellettuale legato all´individualismo borghese. Non "macho" implacabile ma invece maschio a volte a disagio che si sentiva con le spalle al muro davanti a donne forti, non ateo convinto bensì anima tentata dalla fede.
Nei giorni scorsi, Der Spiegel ha dedicato un lungo servizio ai diari inediti di Brecht, con succose anticipazioni. Alcuni passi dei taccuini dell´autore dell´Opera da tre soldi verranno letti tra pochi giorni in un teatro a Berlino. E´ la scoperta sensazionale di un nuovo Brecht, finora sconosciuto. Ecco i dubbi su ideali e lotta del movimento socialista e comunista: «Come potrà essere garantita l´unicità del singolo individuo? Attraverso la sua appartenenza a qualcosa di più che non un collettivo». Il mito marxista dell´intellettuale collettivo è ben servito.
Non è finita. «Nel mondo di cui auspico la nascita non mi trovo a mio agio», annota Brecht in uno dei 54 volumetti dei diari. Alcuni sono piccoli taccuini in cuoio nero da giornalista, altri voluminosi quaderni in formato Din A4. Tutti furono vergati con la calligrafia incomprensibile del drammaturgo, spesso a matita. Conservarli, restaurarli, renderli leggibili è stata un´opera difficile e costosa. Solo le moderne tecnologie di oggi hanno reso possibile rivelarci questa verità d´una personalità nascosta, doppia, ambivalente.
«Non lo ammetto volentieri, ma disprezzo chi è infelice e in disgrazia», annota Brecht nel 1928, mentre socialdemocratici e comunisti si battono per i poveri, mentre le convulsioni dell´inflazione, della disoccupazione di massa, della guerra civile quotidiana tra i suoi "rossi" e l´ultradestra nelle strade di Berlino già scavano la fossa alla Repubblica di Weimar e spianano la strada alla vittoria di Hitler. L´«io» dei diari è ben diverso dall´«io» autobiografico, eroe della sinistra, che Brecht fece di tutto per tramandare. Proprio in quegli anni in cui la scelta di campo appariva inevitabile, egli riflette di nascosto per iscritto sul rapporto tra individuo e collettivismo marxista: «In un Collettivo che cresce si finirà con una riduzione in brandelli dell´individuo».
Brecht amava anche l´edonismo borghese, quel bel vivere spesso rapace e insaziabile dei ricchi nella Berlino di Weimar che in pubblico egli additava al disprezzo morale. Ecco versi dei diari inediti: «Beviamo ancora un bicchiere/poi non andiamo ancora a casa/poi ancora un bicchiere/poi solo una pausa, non la via di casa». Esteta delle beuty farms maschili ante litteram, lodava nei diari segreti la cura del suo corpo, che concedeva poligamo a Helene Weigel, a Ruth Berlau e ad altre donne del suo harem rosso: «Mercoledì bagno in vasca. Giovedì doccia scozzese. Martedì dopo massaggio con l´acquavite terapeutica, poi colpirsi con asciugamani ghiacciati e oliarsi».
Difficoltà e sentimento di debolezza, come emerge dai diari finora segreti, "BB" li provava quando una delle sue donne era troppo assertiva per i suoi gusti. Come l´attrice Carola Neher, che interpretò per lui l´Opera da tre soldi e poi volle "avere" il maestro. Ma insieme a lui possedeva altri uomini: «Lei ti prende, poi abbandona la sua voglia di possesso e diventa indistruttibile».
Dubbi e confessione d´incertezza affiorano anche sulla religione, in lui ufficialmente ateo convinto. «Come in un esperimento di Pavlov, ogni volta che sento suonare le campane si scatenano in me processi, sicuramente di natura chimica, che mi spingono a pensieri in direzione della metafisica». Oppure: «So bene che c´è qualcosa che non si chiama credere, eppure al tempo stesso è credere, eccome».

Corriere della Sera 12.2.08
Vizi privati e debolezze del drammaturgo negli appunti segreti pubblicati in Germania
Brecht: disprezzo i diseredati
«Non lo confesso volentieri ma detesto coloro che vivono nell'infelicità» Progettò un musical su Lenin. Un testo erotico dopo i versi alla madre morta
di Danilo Taino

BERLINO — Brecht privato non meno fulminante di quello pubblico, delle grandi opere. Ma del tutto diverso, molto meno politicamente corretto e tutto d'un pezzo di quanto si tenda a disegnarlo. Meno gigante. Più somigliante a quel ragazzo in giacca di pelle e sigaro tra i denti di una famosa fotografia che al drammaturgo e al poeta celebrato dal socialismo reale ieri e oggi. «Quel che non confesso volentieri — scrive per esempio nei suoi ricchissimi taccuini personali — è che disprezzo coloro che vivono nell'infelicità (o nel bisogno, ndr) ». Non poco, per un moralista che doveva amare il proletariato.
Oppure: «L'uomo non è un nuotatore, l'uomo non è un aviatore. È di quel genere che sta sdraiato sulla schiena». Anche qui, mica male la considerazione per un'umanità che avrebbe dovuto essere in marcia verso la propria liberazione. Sono alcuni appunti tratti dai 54 quaderni che — dal 1918 alla morte, nel 1956 — Bertolt Brecht compilò senza interruzioni, quasi fosse una dipendenza.
Saranno pubblicati da quest'anno per anni a venire dalla casa editrice Suhrkamp: una buona parte di frasi, riflessioni e versi conosciuti e un terzo inediti. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato ieri l'anticipazione del primo volume dell'opera, che riguarda per lo più gli anni che vanno dal 1927 al 1930, quelli in cui raggiunse la fama e fu celebrato come un rivoluzionario del teatro da un pezzo della Repubblica di Weimar. «Addio a Beton-Brecht», al Brecht di cemento, titola il settimanale.
Che la personalità dello scrittore fosse complessa è un fatto ovvio e conosciuto. Il suo rapporto con le donne — spesso numerose e sovrapposte, usate e allontanate — è stato ad esempio oggetto di discussioni e polemiche. Ma altri fatti e altri pensieri sono una scoperta. In uno dei Notizbücher in via di pubblicazione — conservati nell'Archivio Brecht dell'Accademia delle Arti a Berlino — sostiene per esempio di avere scritto una poesia pubblicitaria per un'automobile Steyr (casa austriaca)— questo era noto — e di avere ricevuto una macchina in regalo, scoperta che a non tutti gli estimatori della sua implacabilità morale farà piacere. In un altro, riflette su se stesso e dice che in un'occasione avrebbe dovuto mantenere la promessa data ma non lo fece. «Perché? », si chiede. «Non ne avevo voglia », risponde.
I quaderni, nella loro interezza, pare siano di un certo interesse per focalizzare l'uomo, le sue passioni, le aspettative, le ambizioni. Si scopre per esempio che Brecht aveva una scarsa considerazione dell'umanità, persino un fastidio per chi tende a non lottare, nella vita. E un'idea originale nell'accostare i sentimenti. Finora, per dire, si conosceva l'appunto-poesia «Mia madre è scomparsa il 1˚maggio. La primavera si è levata. Il cielo sorrideva senza pudore». Ma non si sapeva che questa canzone per la madre morta è subito seguita, nel tempo e nel taccuino, da una erotica «cantata per un'amante».
La penna di Brecht correva sui quaderni personali — che conservava come tesori da proteggere — con la stessa forza che c'è nelle sue opere di maggiore impatto. «Il borghese è necessario come un vespasiano — scriveva in un appunto —. Come sarebbe immorale la vita pubblica senza queste due istituzioni ». Ma, allo stesso tempo, dai taccuini emergono anche i dubbi ideologici. Si scopre ad esempio l'ammirazione di Brecht per Lenin e l'intenzione, in qualche modo già passata a fase di progetto, di un'opera musicata sul leader bolscevico: avrebbe dovuto essere qualcosa di molto popolare, facile e riconoscibile dal popolo. Poi, però, vi rinunciò: temeva la banalità e non voleva passare per un semplice strumento di propaganda.
Ambivalenza verso la politica e il potere della quale si è molto discusso, in passato. Quando, il 17 giugno 1953, una sollevazione nella Germania dell'Est provocò la repressione violenta dello Stato, Brecht sostenne l'intervento dell'esercito, incluso quello dei soldati sovietici presenti a Berlino Est. Ma al peggio seguì poi il meglio. «Dopo la sollevazione del 17 di giugno — scrisse — il segretario dell'Unione degli Scrittori ha distribuito pamphlet sulla Stalinallee, dice che il popolo ha gettato via la fiducia dello Stato. E può riaverla solo se raddoppia gli sforzi. Non sarebbe stato più facile, in quel caso per il governo, sciogliere il popolo ed eleggerne un altro? ». È questo Brecht — contraddizione e lampo — che raccontano i quaderni- diario. Non era un monumento di marmo.

Corriere della Sera 12.2.08
La personalità. Il fascino di essere contraddittorio
di Paola Capriolo

Da buon seguace della dialettica marxista, Bertolt Brecht amava le contraddizioni; ma soprattutto le incarnava, come si può toccare con mano leggendo le prime estrapolazioni dai Notizbücher. Se per intere generazioni la sua figura ha rappresentato il massimo esempio di «scrittore impegnato», devoto, sia pure con le debite riserve critiche, alla causa di un nuovo ordine sociale, d'altra parte non c'è neppure bisogno di sfogliare i diari privati per rendersi conto di quanto persistesse in lui la fascinazione espressionista per l'irregolarità, per l'eccesso, insomma, per tutto ciò che costituisce l'esatto contrario non solo della «morale borghese», ma anche, e forse più, di quella «proletaria» («nel mondo che auspico — annota lucidamente — non c'è posto per me»). La sua istintiva simpatia non va a «chi vive nel bisogno»; anzi, egli confessa addirittura di «disprezzare» tale categoria. Forse non è un caso che il suo più importante personaggio di quegli anni non sia una vittima, ma un predatore: il Macheath dell'Opera da tre soldi. E chissà che nel progettato musical su Lenin a sedurlo non fossero anche, o soprattutto, i lati più oscuri e meno «filantropici» di quella figura storicamente così controversa. Sarebbe persino ingenuo interrogarsi sulla «sincerità» della fede comunista che pure Brecht professò per tutta la vita, pagando per essa i prezzi più alti: alla sincerità egli ha sempre preferito esplicitamente l'ambiguità, alla coerenza dogmatica la forza inquietante e dissolvente del «dubbio». Di qui la modernità che la sua opera ancora possiede, nonostante il fallimento dell'utopia politica cui l'autore volle consacrarla.

il Riformista 12.2.08
Formica vuole allearsi con Fausto
«La scelta è obbligata. Il Ps è a rischio di estinzione»
di Alessandro De Angelis


Dopo l'incontro di ieri tra Veltroni e i socialisti i margini per un accordo, se mai ci sono stati, non ci sono più. E oggi lo stato maggiore del Ps si riunirà per decidere se tentare la corsa solitaria oppure cercare un accordo con la Cosa rossa: da Sd, o almeno da una parte di Sd, arrivano segnali di interesse. Ma anche tra i socialisti l'idea non è più un tabù. Per Rino Formica, anzi, la via di un'intesa elettorale con Bertinotti è addirittura obbligata. E al Riformista spiega: «Il Pd nasce da una premessa giusta: unire i riformismi. Ma le dà un seguito sbagliato: la sinistra non vince perché non ha i colori del centro e quindi Veltroni vuole distruggere tutto ciò che sta a sinistra del centro». Di questo disegno farebbe parte anche l'ultima offerta fatta ai socialisti di entrare nelle liste del Pd. Dice Formica: «Lo schiaffo del loft? Il loft, in Inghilterra, è la canteria della chiesa dove il coro dei cantori intona l'inno della salvezza. Nel loft veltroniano invece i socialisti non hanno trovato il coro della salvezza ma un commissario di pubblica sicurezza con l'ordine di sciogliere la radunata sediziosa». Formica non cela il suo disappunto neppure verso i suoi compagni di partito che l'intesa con Veltroni l'hanno cercata, eccome: «L'ingenuità nella vita fa tenerezza, ma in politica è uno strazio. Venti giorni fa alla Camera Veltroni è stato accusato di voler fagocitare i piccoli partiti e il giorno dopo ci si è presentati dal fagocitatore dicendogli: perché non facciamo un programma assieme?». E aggiunge: «Ora, dopo l'editto Bettini-Veltroni, i socialisti sono costretti a rialzare la bandiera che avevano abbassato a mezz'asta perché portavano il lutto di Prodi. Ma lasciamo stare le responsabilità pregresse: il rallentamento del percorso della Costituente, il rinvio di un chiarimento con Prodi, il comportamento difensivo durante il governo Marini, la poco edificante attesa di un atto di clemenza da parte di Veltroni».
Guardando al futuro, per Formica, i socialisti sono a un bivio: «Come si risponde alla protervia dei repressori? Si può affrontare eroicamente lo sterminatore con l'impianto generoso e suicida della cavalleria polacca contro i panzer tedeschi oppure organizzare la guerriglia». Fuor di metafora? «Poiché i socialisti da soli hanno oggettivamente difficoltà a superare gli sbarramenti, sia alla Camera che al Senato, il partito è a rischio di estinzione».

il Riformista 12.2.08
Scalfari allibisce solo con Casini
di Emanuele Macaluso


Domenica scorsa Eugenio Scalfari su "Repubblica" ha scritto di essere rimasto «allibito» leggendo sui giornali che Casini, dopo lo scontro con Berlusconi e Fini, si sarebbe consultato col cardinale Ruini che sarebbe stato «largo di suggerimenti e forse anche di interventi conciliatori tra l'una e l'altra fazione». Il fondatore di "Repubblica" ha più di una ragione per essere «allibito» per ciò che accade nel rapporto destra-cardinali. Mi stupisce però che non abbia provato lo stesso sentimento quando Veltroni, appena eletto segretario del Partito democratico, ha fatto la sua prima visita al segretario di Stato in Vaticano. E non è senza significato che sul "Sole-24Ore" di sabato 2 febbraio si legge che Ruini sta con la destra, ma «il cardinale Tarcisio Bertone ha un canale aperto con Prodi e Veltroni». E si afferma che la candidatura di Rutelli al Comune, che al momento sembra presentarsi come poco più di una passeggiata, non può che rafforzare il sentimento positivo verso il Pd: «l'ex presidente della Margherita è l'interlocutore più apprezzato Oltretevere e il suo ritorno al Campidoglio è una scelta che pesa parecchio». Sempre Oltretevere. Senza che nessuno, nel Pd e a "Repubblica" allibisca!

Liberazione 12.2.08
Bertinotti: il voto utile è alla Sinistra
Per i diritti civili, il lavoro. E contare
di Angela Mauro


Il candidato premier de "la Sinistra l'Arcobaleno" apre la campagna elettorale: «Va costruita quella sinistra che rischia di scomparire, ma che può rinascere come soggetto unitario e plurale», «che il Pd sia di centro o che si sposti a sinistra dipende dal peso che questa nuova sinistra avrà». Domani il simbolo

Non siamo negli Usa. Il sistema di voto è italiano, il quadro politico pure, non c'è bisogno di Yes, we can e suonano fuori luogo quelle campagne elettorali che parlano di un mondo a noi lontano. Il sogno non può essere americano per Fausto Bertinotti. In lizza, in Italia, non ci sono solo due candidati, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi. E vanno ostacolati i loro sforzi di ridurre la corsa al voto a un sistema binario che magari poi, dopo le elezioni, si intreccia in un'unico governo di larghe intese. Va contrastata la tendenza a omologare il panorama politico. Va costruita quella sinistra che «rischia di scomparire, ma che può rinascere come soggetto unitario e plurale».
Ai microfoni del Tg1 , il Bertinotti candidato premier de "la Sinistra l'Arcobaleno" comincia a declinare i motivi per cui vale la pena scegliere l'unione tra Prc, Sd, Verdi e Pdci sulla scheda elettorale. «Il voto per la sinistra è utilissimo», sottolinea, perchè «che il Pd sia di centro o che si sposti a sinistra dipende dal peso che questa nuova sinistra avrà, da quanto potrà condizionare le sue scelte politiche». Piedi saldi sul terreno. «Votiamo in Italia - precisa Bertinotti - non negli Stati Uniti. E la presenza della sinistra è fondamentale per il futuro del paese».
Salari, precarietà, riconoscimento delle unioni di fatto. Parole citate - una più, una meno - nel programma dell'Unione, quello accantonato dopo il voto del 2006. Parole centrali nella delusione degli elettori sul governo di centrosinistra appena caduto. Il candidato Bertinotti scalda i muscoli in un'intervista mattutina a Radio 105 : stasera la prima sfida tv della campagna elettorale, con Franceschini e Tremonti a Ballarò . Riprende il tema del fallimento del programma. Sulle unioni civili, il programma «non è stato realizzato per la pressione delle forze centriste e moderate - ricorda - se andassimo al governo, riprenderei da lì, proponendo certamente il nostro sì alle unioni gay perchè i diritti della persona sono una frontiera necessaria all'Europa per il presente e il futuro». E nel programma del centrosinistra c'era anche il superamento della legge Biagi. Di nuovo: «Se dovessimo tornare al governo, sia subito archiviata».
Dichiarazioni di principio che servono più che altro a caratterizzare "la Sinistra l'Arcobaleno", a costruirla. Le prossime settimane serviranno da «fase costituente del nuovo soggetto», ha più volte specificato Bertinotti in questi giorni. E la risoluzione del nodo principale, quello sul simbolo, dovrebbe spianare la strada ad una marcia verso il voto compatta e senza intoppi. Il simbolo unitario verrà infatti presentato domattina, in un'iniziativa pubblica a Roma che donerà la cornice ufficiale alla candidatura di Bertinotti premier.
Alla luce dei suggerimenti di esperti sondaggisti, il simbolo unitario della "Cosa rossa" dovrebbe essere quello presentato come segno grafico all'assemblea dell'8 e 9 dicembre scorsi, di poco modificato. Si trattava della dicitura "La Sinistra, l'Arcobaleno" accompagnata dagli stessi colori dell'iride. Con molta probabilità, nel simbolo unitario non dovrebbero figurare i loghi dei quattro partiti. Si attende per oggi il via libera definitivo del Pdci che riunisce la direzione sul tema, dopo mesi di insistenza da parte del leader Diliberto sull'opportunità di mantenere la falce e martello.
Il luogo scelto per ospitare la kermesse della Sinistra domani mattina (alle ore 11) dovrebbe essere il Capranichetta, a Roma. In corso la discussione sul nome che dovrebbe accompagnare quello di Bertinotti in un eventuale ticket per la premiership. Spunta il nome di Rita Borsellino. Resta in campo quello di Grazia Francescato. Probabilmente domani entrambe saranno presenti alla presentazione del simbolo.
E i partiti sono al lavoro anche per la definizione delle candidature per liste unitarie che impongono un ridimensionamento delle rappresentanze di ogni singola forza. Da parte sua, il candidato premier specifica il principio generale: «Per noi il 50 per cento delle candidature rosa rimane un obiettivo primario. Credo che in tutte le istituzioni pubbliche, locali e nazionali, ci debba essere una rappresentazione di entrambi i sessi». La curiosità: «Non candiderei mia moglie Lella. Lunga vita insieme tutta immersa in politica. Ed è proprio l'idea che abbiamo della politica che ci tiene lontani dall'ipotesi che lei si candidi».
E' per questo che resta in piedi l'idea del ticket, anche se la "signora anti-mafia" Borsellino non fa mistero di preferire una prosecuzione dell'impegno politico in Sicilia. Regione nella quale l'ipotesi di una sua candidatura a governatore è sostenuta da movimenti e associazioni della società civile, nonchè dalla stessa Sinistra Arcobaleno che, sottolinea il segretario regionale del Prc Rosario Rappa, non a caso invita «il Pd a sciogliere, entro la fine della settimana, il nodo tra lei e la Finocchiaro a favore della prima». Si discosta il Pdci siciliano, che vorrebbe candidare il "proprio" sindaco anti-mafia di Gela, Rosario Crocetta. Ad ogni modo, l'eventuale discesa in campo della Borsellino a livello nazionale riceve il placet dei Verdi. «Sarebbe un segnale forte», dice il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli, magari anche per stemperare le perplessità di Sd sulla iniziale indicazione (tutta ufficiosa) della Francescato.
A proposito del movimento di Mussi: non è un mistero quanto fosse critico sulla candidatura di Bertinotti. La questione è stata risolta nel corso del direttivo della settimana scorsa e senza fratture con i partners del processo unitario. Ma, a conferma del malessere interno, ieri un sondaggio sul sito "Aprileonline" esibiva un 63 per cento di contrari al "Fausto leader", a fronte di un 35 per cento di favorevoli, il 3 per cento non sa. Totale votanti: circa 1.500.
Fuori dai partiti, il Bertinotti delle prime ore di campagna elettorale piace all'Arcigay, non senza rilievi critici. «Accogliamo con favore l'accenno del Presidente della Camera, a nome della Sinistra Arcobaleno, in sostegno delle Unioni Civili», premette il presidente Aurelio Mancuso, sottolineando che la «Sinistra europea di qualsiasi provenienza e matrice essa sia, sostiene l'uguaglianza piena dei diritti e dei doveri per le cittadine e i cittadini lesbiche e gay». Il richiamo invoca «strumenti giuridici differenti dalle passate formulazioni adottate dall'Unione, tra cui gli orrendi e pasticciati Dico». Il tema dei diritti civili, critica Mancuso, non deve essere «una delle tante questioni in campo, ma costitutivo della propria caratterizzazione politica». Il primo e il 2 marzo, l'Arcigay terrà una convention a Bologna, sede del Pride di quest'anno, «dove renderemo pubblici gli orientamenti rispetto alle politiche e alle amministrative»,afferma Mancuso.

Liberazione 12.2.08
Domenica centinaia di persone hanno risposto all'appello "Fare presto" lanciato da una settantina di sigle "autoconvocate"
Movimenti per la Sinistra l'Arcobaleno: «Adesione diretta al nuovo soggetto»
di Checchino Antonini


Dentro il Farnese quasi non si entrava, domenica mattina. Nel cinema di Campo de' Fiori centinaia di persone hanno risposto all'appello "Fare presto" lanciato da una settantina di sigle "autoconvocate" riassunte dal cartello Movimenti per la Sinistra-L'Arcobaleno . Hanno discusso per quattr'ore con una quarantina di interventi, il più applaudito e più volte citato quello dell'intervento del fisico Marcello Cini sul «sequestro della cultura» da parte del capitalismo. Età media - è stato notato - non bassissima, ma la partecipazione all'evento era tra le più assortite: "pezzi" di movimenti, di ong, di lavoro sul campo, amministratori locali, parlamentari e dirigenti di Prc e Ds, fino al segretario della Fiom, Rinaldini, a un segretario di partito, Franco Giordano, e a componenti di quella che è stata la delegazione della sinistra nel governo Prodi: Paolo Ferrero, Patrizia Sentinelli, Danielle Mazzonis. Mussi, assente per motivi di salute, è stato sostituito da Pasqualina Napolitano. Un buon inizio che non ha impedito a Piero Di Siena, di Sd, di notare quanto si fosse ancora «troppi e troppo pochi» anziché «di più e più uniti».
Posta in gioco dell'evento tra le più alte: da qui alla scadenza dei termini di presentazione delle liste, c'è da gettare le basi per il lavoro unitario lanciato agli Stati generali un paio di mesi prima ma poi restato in balìa di «resistenze», come è stato più volte sottolineato («ci sono ma possono essere battute», dirà Giordano, in un contesto determinato dall'«americanizzazione sociale e politica» per adoperare le parole di Gianni Rinaldini. Proprio per questo, la chiamata a un'«azione trasversale», come la definisce Pietro Folena di Uniti a sinistra, s'era posta alcuni obiettivi precisi: una carta delle regole, la realizzazione delle case della sinistra e di laboratori sociali (luoghi di aggregazione, sarà specificato nel dibattito, ma anche di nuovo mutualismo) e una campagna di adesione diretta al nuovo soggetto della sinistra che avrà il suo momento-clou nelle assemblee popolari e nelle iniziative pubbliche che si terranno tra l'1 e il 2 marzo con una consultazione popolare autogestita sui principali punti programmatici.
«Le urgenze - spiega al termine Folena - erano di trovare nel linguaggio, nella comunicazione, nello scambio, un tratto comune tra associazioni e territori per costruire un movimento politico con un pluralità di posizioni, unito sul punto che la nuova sinistra sia una grande costruzione non l'assemblaggio di ceti dirigenti». Obiettivi raggiunti? «C'è stato un consenso unanime - segnala Bianca Pomeranzi della rete Femminista - l'assunzione di tre ordini del giorno, due dei quali delle donne, e la decisione di formare un coordinamento». A gestire alcuni dei passaggi ci saranno una settantina di persone indicate dalle reti, ciascuna una donna e un uomo, che formeranno un coordinamento sia per proseguire la campagna unitaria, in sintonia coi quattro partiti, sia - attraverso un nucleo esecutivo che potrebbe coincidere in buona parte col gruppo informale che ha preparato l'assemblea del Farnese, che aprirà un tavolo su liste e programmi da ratificare nelle istanze territoriali, come proposto dall'odg letto dal sardista Claudio Cugusi. Tra i numerosi elementi di analisi e suggerimenti di percorso, la Rete Femminista, in uno degli odg letto da Lea Melandri (l'altro riguarda la centralità della libertà e responsabilità femminile nel discorso pubblico e nelle pratiche sociali), ha stimolato i movimenti a superare la politica come «affare di uomini» che mette al bando l'esperienza umana e personale, sollecitando una «cessione di sovranità nei luoghi decisionali e nei processi di selezione della rappresentanza». E' quello che Eleonora Forenza chiamerà «soggettivazione» della politica, l'opposto della «riesumazione, delle forme leaderistiche del consenso». «Qualcuno faccia un passo indietro», dirà anche anche Andrea Alzetta, il Tarzan di Action, attento al «rapporto bloccato tra politica e società». Un rapporto tutto da «ricucire» secondo il romano Roberto Latella, di Sinistra sociale. Francesca Foti, una delle voci più giovani, ha introdotto il tema dell'intreccio tra democrazia della rappresentanza e democrazia della partecipazione: «Bisogna diversificare le forme di aggregazione». Un cartello elettorale, in sala, non soddisferebbe nessuno. Il Prc «ci sta», ripete Giordano che punta al «massimo dell'innovazione per il nuovo soggetto». Ferrero avverte la necessità di un «sistema di regole» per la ricostruzione della comunità partendo dalla rottura della divisione tra vertice e base e chiederà criteri di rotazione e una riflessione sul ruolo degli eletti.
il manifesto 12.2.08
La scommessa arcobaleno parte dalle liste
di Giacomo Sette


Associazioni, comitati, reti e movimenti provano a costruire la sinistra dal basso. Il fardello del governo è ormai alle spalle. Via al «pre-tesseramento» ma occhi puntati sulle candidature: serve una rotazione con i partiti

Roma. E' sinistra solo se nasce anche dal basso. Domenica al cinema romano Farnese associazioni, comitati ambientalisti, reti territoriali, collettivi femministi, hanno battuto un colpo per affrontare insieme «la nuova sfida» della sinistra arcobaleno. «Nessuna quinta gamba - spiega Ciro Pisacane - il processo costituente deve avvenire con e non contro i quattro partiti». E' in ballo l'esistenza della sinistra e non si può delegare alle segreterie. «Non basta un cartello elettorale tra Prc, Pdci, Verdi e Sd, ci vuole una costituente aperta ai movimenti», spiegano gli organizzatori dell'incontro. La scommessa è alta: la creazione di un soggetto unitario, plurale, radicato nei territori, nei luoghi di lavoro come tra gli studenti. Come? Con la creazione di case della sinistra. O meglio circoli arcobaleno in cui sarà possibile il pre-tesseramento: luoghi di incontro e di conflitto sociale della sinistra.
«Bisogna fare presto», sostengono i costituenti. E dall'assemblea non escono solo parole: l'1 e il 2 marzo saranno nelle piazze per lanciare l'adesione alla sinistra arcobaleno. «Ci teniamo - sottolinea uno dei portavoce - che quei giorni vengano anche gli esponenti di partito. Il nuovo soggetto deve fondere le varie differenze». «Tra di noi ci sono culture, pratiche, esperienze diverse, ma oggi dobbiamo stringere un patto comune», afferma Pietro Folena, leader di Uniti a sinistra, che punta il dito sui trascorsi di governo: «Il maggioritario coatto ha annullato la cultura politica di sinistra che ora corre il rischio di sparire. Abbiamo bisogno di un nuovo inizio». Toni forti che manifestano un malcontento generale in una platea, sì numerosa ma con un tasso d'età abbastanza alto, che desidera partecipare. «L'obiettivo - conclude Folena - è costruire un nuovo senso comunitario e un mutualismo tra le varie associazioni. O sarà una sinistra federata dai territori o non sarà». Qualcun altro dal palco pone la questione morale: «Il problema non è la falce e martello ma creare un soggetto che entusiasmi, susciti passione e crei immaginario collettivo». Si discute di far tornare la centralità del lavoro, ma anche sul come affrontare i temi della privatizzazione della cultura. «Non basta candidare un operaio nelle proprie liste. Ci vogliono politiche di redistribuzione» esclamano in molti riferendosi all'idea del Pd di aprire le porte ai dipendenti della ThyssenKrupp.
Ai partiti vengono chieste nuove politiche. Lea Melandri e Maria Luisa Boccia pongono la necessità di contrastare la cultura maschilista dominante: «Ci vuole un passo indietro della rappresentanza maschile». Tra i più applauditi il fisico Marcello Cini («Tutto merito di Vespa», si schernisce) che parla di mercificazione dei saperi e di difesa della laicità: «Adesso che torneremo all'opposizione - dice - bisogna trovare risposte collettive». E' una sinistra che vuole chiudere la parentesi governativa. «Bisogna riconquistare quella parte di movimento della pace che ci siamo persi con scelte discutibili, come l'Afghanistan o la promozione di De Gennaro», afferma l'europarlamentare Vittorio Agnoletto. Presenti anche leader del Prc come Paolo Ferrero e Franco Giordano. E mentre il segretario di Rifondazione strappa applausi sancendo la sfida come aperta, dalla platea arriva un urlo: «Le liste».
La questione più spinosa. Il popolo della costituente ha chiuso con l'esperienza delle candidature indipendenti nei partiti e ora vuole spazio e regole ferree per i candidati, come la rotazione e il divieto di candidature plurime. «La società - dichiara Andrea Alzetta del movimento Action - deve irrompere nel terreno politico. Basta coi politici pompieri dei conflitti sociali». Nella prossima legislatura verosimilmente l'Arcobaleno passerà da 150 parlamentari a 60-70. E difficilmente le segreterie di partito lasceranno molti posti. «La discussione sulle liste - sentenzia Gianni Rinaldini della Fiom - aprirà liti furibonde». Sulla stessa scia Alzetta, che sottolinea come anche le associazioni e le coop possano diventare piccole lobby: «Il nodo vero della sinistra è fare società, concepire il rapporto con le istituzioni in modo mobile».

lunedì 11 febbraio 2008

con una intervista a Massimo Fagioli e al regista fatta da Enrico Magrelli
Corriere della Sera 11.2.08
Da «Nel nome del padre» al «Principe di Homburg» e «La balia»
Bellocchio, regista di passioni racconta le divisioni di classe
di Paolo Mereghetti


Con l'uscita del cofanetto I capolavori di Marco Bellocchio, l'Istituto Luce e General Video iniziano quella che dovrebbe essere una sistematica ripubblicazione delle opere del regista piacentino, che ne ha curato personalmente gli extra. In questa confezione sono raccolti Nel nome del padre (1972), La condanna (1990), Il principe di Homburg (1997) e La balia (1999), tutti già disponibili in dvd singolo (ed è l'appunto più grande che si può fare all'operazione: ci sono film di Bellocchio che non hanno ancora avuto un'edizione in dvd e che forse il pubblico aspettava di più).
Pur lontani nel tempo, i quattro film sono tenuti insieme da un forte legame ideale, quello dei rapporti ambigui che si instaurano tra realtà e sogno, conscio e inconscio, passioni umane e divisioni di classe: elementi che hanno da sempre attraversato l'opera bellocchiana ma che qui assumono forme quasi programmatiche.
Nel nome del padre è ancora attraversato dalla «rabbia » sessantottina e dalla voglia provocatoria di frantumare le sicurezze del pubblico (perfettamente sintetizzate dalla scena finale, con il taglio del «pero miracoloso» sotto cui si riunivano i fedeli), mentre La balia, di trentasette anni più tardo, è costruito con uno spirito più disteso e verrebbe voglia di dire più contemplativo. Cambiano i toni — grottesco e iconoclasta il primo; letterario, vista anche la derivazione da Pirandello, e pessimista il secondo — eppure resta identica la capacità di leggere la società attraverso i rapporti di classe che la attraversano e il lucido pessimismo che guida l'analisi e che fa concludere nel fallimento i due tentativi di sovvertire le regole sociali.
Più decisamente influenzati da letture psicoanalitiche, La condanna e Il principe di Homburg sono entrambi costruiti su contraddittorie interpretazioni del reale, che spingono la protagonista del primo (Claire Nebout) a denunciare come stupratore l'uomo con cui ha fatto l'amore e, nel secondo, a confondere razionalità e inconscio mettendo a confronto l'autonomia di giudizio con la necessità delle legge e dell'ordine. Si sente in entrambi l'influenza dell'insegnamento analitico di Massimo Fagioli e giustamente come extra a La condanna c'è una intervista allo psicoanalista e al regista fatta da Enrico Magrelli.
Se tutti i film sono accompagnati da interviste, disegni e provini, è particolarmente interessante il quinto dvd, che raccoglie il documentario di Bellocchio Addio del passato (sull'influenza di Verdi nella cultura piacentina) e al film di Stefano Incerti sul regista Stessa rabbia stessa primavera.

l’Unità 11.2.08
Sinistra arcobaleno
Bertinotti-Borsellino, arriva l’idea ticket


La proposta l’avrebbe fatta lo stesso Bertinotti alla Borsellino: affiancami nel percorso di aggregazione della Sinistra arcobaleno. La notizia è trapelata ieri da Enna, dove si sono riuniti i comitati a sostegno della candidatura Borsellino alla presidenza della Regione siciliana dopo le dimissioni di Cuffaro legate alla condanna a 5 anni dell’ex governatore. Secondo indiscrezioni, Bertinotti avrebbe pensato a un ticket con la Borsellino nella probabile candidatura a premier, espressione dei partiti della Sinistra arcobaleno.

l’Unità 11.2.08
Diliberto polemico: «Silvio e Walter promessi sposi»


Non è solo la destra a non avere parole tenere per Veltroni. Il leader dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto ha detto che «Veltroni e Berlusconi sono i promessi sposi della politica italiana: dopo le elezioni faranno il governo insieme». Diliberto ha anche sostenuto che «per evitare questo patto scellerato bisogna dare più forza alla sinistra». Il segretario del Pdci torna a parlare anche della decisione del Pd di correre da solo definendola una scelta che «è autolesionismo e lesionismo allo stesso tempo: una pulsione omicida e una suicida». Critico anche Pecoraro Scanio: «Le proposte del Pd e del Popolo delle Libertà sono simili e lasciano intendere la possibilità di larghe intese domani. L’unica vera alternativa alla destra oggi è la Sinistra riformatrice, ambientalista e plurale». Franco Giordano, segretario di Rifondazione, torna invece sulle larghe intese: «Già vedo messaggi inquietanti: questa sinistra non farà mai le larghe intese. Chiunque vuole che il proprio voto resti ancorato a sinistra sa bene che questa è una sinistra di alternativa e trasformazione», ha detto a margine dell’assemblea del movimento «Fare presto», la rete di associazioni legate alla Sinistra arcobaleno, che si è svolta ieri a Roma.
«Sull’ipotesi di patto di consultazione lanciato da Veltroni - ha aggiunto Giordano - penso che sia stato indotto dalla spinta del senso di responsabilità. Noi però siamo una forza alternativa alla destra: la sinistra si muove esattamente su questo terreno ed è una sfida leale e costruttiva con il Pd a chi rappresenta meglio l’alternativa alla destra». Circa l’invito lanciato dai leader del Pdl e del Pd a evitare voti inutili, infine, Giordano ha ricordato che «il voto per la sinistra in Italia non è mai stato inutile».

l’Unità 11.2.08
La campagna elettorale di Ruini per salvare lo «scudo crociato»
di Roberto Monteforte


Il direttore di Avvenire al Tg1: importante che nel centrodestra ci sia un partito in cui i cattolici si riconoscano»
Il messaggio ruiniano è stato affidato alle mani sicure di Gianni Letta, l’uomo delle mediazioni

LA CHIESA È IN CAMPO. Partecipa alla «guerra dei simboli». Vuole garantita la visibilità dei cattolici e dei loro raggruppamenti alle prossime elezioni. Che poi, in concreto, vuole dire: lo «scudo crociato» dell’Udc deve restare in campo ben visibile nel polo del centrodestra. Nessuna annessione nel berlusconiano Popolo delle libertà e piena visibilità per il leader cattolico Pier Ferdinando Casini. La gerarchia ha scelto. Il potente «vicario» della diocesi di Roma, cardinale Camillo Ruini, ancora ascoltatissima guida politica dei vescovi italiani è sceso apertamente in appoggio al leader «cattolico» del centrodestra. Stando alle cronache di questi giorni, mai smentite, si è adoperato in una difficile opera di pressione per convincere il Cavaliere e il suo alleato Gianfranco Fini a raccogliere la raccomandazione: «Quel partito va salvaguardato». «I cattolici in politica non possono essere condannati all’irrilevanza». Ruini tifa con convinzione per il centrodestra. Benedice. Ma occorre che all’Udc sia assicurata visibilità. Sì all’alleanza organica con il Popolo delle Libertà, ma con il proprio simbolo.
Il messaggio ruiniano, chiaro e forte, è stato lanciato. È stato affidato a mani sicure, a quelle di Gianni Letta, uomo chiave per le mediazioni impossibili nei momenti di tensione tra le gerarchie ecclesiastiche e Silvio Berlusconi. Ma alla fine si è fatto esplicito attraverso le inusuali dichiarazione rese sabato scorso ai microfoni del Tg1 nell’edizione delle 20, quella di massimo ascolto, da un laico «ruiniano doc», il direttore del quotidiano della Cei, l’Avvenire, Dino Boffo. «A me pare che sia interesse dei cattolici e che possa essere interesse anche dello stesso Polo che sia salvaguardata la persistenza di un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana» ha scandito. Quindi, a scanso di equivoci, ha aggiunto: «È importante che nel centrodestra ci sia un partito di riferimento in cui i cristiani possano riconoscersi».
Più di così era difficile esporsi a favore di Casini. È una scelta politica. È la Chiesa, attraverso suoi autorevolissimi esponenti che «tratta» con Silvio Berlusconi, perdendo così in autorevolezza e credibilità, perché rinuncia ad essere al disopra delle parti. Viene meno quella regola datasi sin dalla scomparsa della Dc: giocare a tutto campo, condizionando le politiche dei diversi schieramenti attraverso l’azione di quei «cattolici» presenti al loro interno.
Una cosa è spronarli ad avere un peso e piena visibilità, ad essere in grado di influenzarne le scelte sui temi decisivi, altro è «trattare» questa visibilità con Berlusconi, arrivando a difendere un simbolo elettorale. Sarà il Cavaliere a decidere. Un atto politico che rischia di umiliare la Chiesa e il suo rapporto con i tanti cattolici che non si riconoscono in quello schieramento e che le chiedono di essere loro vicina. Non un «soggetto politico».
Ruini gioca la sua partita. Prima facendosi sponda dell’iniziativa per «una moratoria dell’aborto» e una messa in discussione della legge 194 del direttore del Foglio, Giuliano Ferrara. Poi tornando a dettare la linea della Chiesa italiana. Linea di scontro.
A lui si attribuisce l’«ispirazione» del duro attacco del Papa e vescovo di Roma al sindaco della Capitale, Walter Veltroni, accusato per il degrado che colpirebbe la Città eterna. Poi la Santa Sede puntualizzerà, pare per pressioni della segreteria di Stato, riconoscendo al sindaco il suo impegno a favore della solidarietà. Ruini sarebbe stato anche l’ispiratore della durissima prolusione del cardinale Angelo Bagnasco, suo successore alla guida della Cei, in occasione dell’ultimo Consiglio permanente. È stata anche del cardinale vicario l’iniziativa di chiamare i romani ad accorrere in massa all’Angelus di domenica 20 gennaio in segno di solidarietà per la mancata visita del Papa all’Università «La Sapienza». Un gesto «riparatore» che, malgrado gli sforzi per attenuarne la portata, ha avuto un evidente peso politico nei confronti del governo Prodi. Lo si è visto con la presenza di tanti esponenti del centrodestra in piazza san Pietro. Vi era anche Clemente Mastella che il giorno dopo farà cadere l’esecutivo. Che si fosse consumato il rapporto di fiducia con il governo Prodi lo rende evidente la polemica con il Viminale sulle responsabilità per la mancata visita del Papa all’ateneo romano.
Il prossimo 19 febbraio, il porporato di Sassuolo compirà 77 anni. È il giorno in cui presso l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede si celebrerà l’anniversario della firma dei Patti Lateranensi. Anche quest’anno, malgrado la crisi di governo, sarà l’occasione per un confronto diretto tra le massime autorità dello Stato italiane e quelle della Chiesa. Si vedrà se prevarrà la freddezza o la capacità di mantenere vivo il dialogo auspicato dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Al centro vi sarà il sempre più difficile tema del confronto tra Chiesa e mondo laico sui temi etici.
A giugno vi dovrebbe essere un cambio della guardia al palazzo apostolico di san Giovanni in Laterano, ma chiunque sarà il suo successore, per Ruini il futuro è gia delineato. Il consiglio permanente della Cei lo vuole per cinque anni alla guida di un apposito Comitato «finalizzato a promuovere» quel Progetto culturale voluto dallo stesso Ruini. Sarà la mente e lo stratega delle iniziative della Chiesa sui valori e sui temi eticamente sensibili e politicamente decisivi. Il confronto con il mondo laico è assicurato. Sarà alla Ruini.

l’Unità 11.2.08
E se arrivasse un nuovo '68?
di Bruno Ugolini


Affiorano qua e la i primi tentativi di celebrare in qualche modo i quarant’anni del lontano 1968, anno degli studenti e anno di uno scossone libertario. Premessa, anche, alla stagione, più intensa e duratura, degli operai e del mondo del lavoro in generale. C’è nello stesso tempo qualcuno, nei talk show televisivi, che allude, pensando ai nostri giorni, ad un possibile avvento di un nuovo ’68 sociale capace di contrassegnare questo 2008. Un’ipotesi che parte dall’idea che quel sommovimento - soprattutto nel campo del lavoro subordinato - avesse delle caratteristiche tutte spontanee. Ignorando così gli sforzi organizzativi che erano stati alla base della riscossa nelle fabbriche iniziata negli anni ’60. Con alla testa dirigenti del calibro di Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto. Ma anche col contributo decisivo di migliaia di «funzionari» e semplici lavoratori sparsi nei territori, soprattutto nel Nord est. Non fu insomma un «miracolo». Furono messe in campo idee, esperienze, proposte, capaci di trascinare milioni di donne e di uomini. Fino all’autunno caldo del 1969. Non fu solo il tentativo di «interpretare» pedissequamente un clima di protesta e di attesa, non fu la sponsorizzare di una somma di richieste le più diverse. Fu la capacità di scegliere, indirizzare. E di collegare le questioni materiali (il salario) a questioni di libertà e di potere (i diritti, i Consigli). Una visione assai diversa da quella diffusa (ma presente anche in settori del sindacato, Cgil compresa) dai vari gruppi cosiddetti «extraparlamentari». Tutti intenti a far leva solo sulle questioni pur sacrosante della busta paga.
Oggi c’è qualcosa che ricorda quei giorni? Certo il malessere sta crescendo. Non solo attorno alla difficoltà di poter vedere all’orizzonte, dato il permanere dell’attuale legge elettorale, una stabilità governativa. Non solo per il diffondersi di quella che è chiamata antipolitica e che è in realtà una critica alla politica intesa come un affastellarsi di clientelismi, favoritismi, prebende. C’è il crescere di un sentimento di ingiustizia sociale che tocca in particolare non l’intero mondo dei «produttori», proprietari d’impresa compresi, bensì quelli che prestano la propria forza lavoro. E ancora una volta gli aspetti appaiono intrecciati. C’è quello ancora una volta dei salari e c’è quello, tragico, delle morti bianche. E per questo secondo punto, così illuminato dall’eccidio di Torino, è rimbalzato in primo piano il tema delle condizioni di lavoro oggi, del venir meno di una presa, di una presenza, di un potere, di un controllo dei lavoratori in prima persona attraverso i loro rappresentanti sindacali.
Certo fa impressione attorno alle tematiche salariali il coro dei consensi. Come se tutti, dal centrodestra al centrosinistra, dal manovale al manager ben remunerato, fossero d’accordo. Se però si scava nelle diverse opinioni ci si accorge che sono in campo concezioni non simili. C’è chi pensa - vedi l’esempio di Diego Della Valle - a elargizioni una tantum da far calare nella propria azienda, estromettendo ogni contrattazione sindacale. C’è chi pensa a salari solo collegati alla cosiddetta produttività come se la produttività nascesse solo dalla fatica e non anche dalla innovazione e da elementi esterni alla stessa azienda. E come se l’opposizione ad allargare al massimo l’area della contrattazione di secondo livello (tra parentesi: grande conquista dell’autunno caldo) provenisse dai sindacati e non, nei fatti, dagli imprenditori, soprattutto nelle aziende minori.
C’è poi chi cerca di fare un discorso più complesso e sono i sindacati. Che hanno ben compreso come l’attacco alle buste paga (e alle pensioni) non provenga solo da imprenditori che non rinnovano i contratti ma anche dai prezzi che lievitano senza ragioni oggettive e da tariffe non equilibrate dai governi in carica. Nonché da un fisco esoso proprio nei confronti di chi non può evadere neanche di un centesimo. Sono stati dunque preveggenti Cgil Cisl e Uil quando di fronte al governo Prodi hanno avanzato una piattaforma organica su tutti questi punti. Erano già pronti i tavoli di una concertazione risolutiva. Sono stati fatti saltare. Certo sarebbe bello rimetterli in piedi subito, senza aspettare l’esito elettorale, come ha suggerito Walter Veltroni (nonché il sottosegretario Alfiero Grandi). Temiamo però che la scelta di destinare il cosiddetto «extragettito» al lavoro dipendente risulti un’operazione assai difficile. Ma intanto, almeno, sarebbe bene che le diverse forze, anche nel centrosinistra, i diversi candidati, alcuni di gran nome proprio nel campo degli studi sociali, dicessero un parere su quella piattaforma. La facessero propria. Dicessero da che parte stanno. Sapendo che sul salario (e sui diritti) le opzioni non sono tutte eguali.
http://ugolini.blogspot.com

l’Unità 11.2.08
Il potere si sposta a Est
di Ignacio Ramonet


Il taglio dei tassi annunciato dalla Federal Reserve degli Stati Uniti riuscirà ad impedire la recessione in America e a sventare lo spettro di un collasso mondiale? Molti esperti ritengono di sì. Nel peggiore dei casi ritengono che potrebbe intervenire un rallentamento della crescita. Altri osservatori dei Paesi capitalisti sono molto preoccupati. In Francia, Jacques Attali prevede un crollo a Wall Street, sede della Borsa di New York e garante ultimo della piramide dei mutui, mentre Michel Rocard è convinto che sia imminente una crisi mondiale e che il sistema sia sul punto di esplodere.
Ci sono molti segnali di allarme. C’è un rinnovato interesse per le riserve aurifere e c’è una corsa a comprare - il prezzo dell’oro è cresciuto del 32% nel 2007. Tutte le principali istituzioni economiche, compresi il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), prevedono tassi di crescita più bassi in tutto il mondo.
Il tutto è cominciato quando nel 2001 è scoppiata la bolla di Internet. Per salvare gli investitori, l’allora presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, decise di incoraggiare il mercato immobiliare inaugurando una politica di tassi bassi e riducendo gli oneri fiscali sulle proprietà immobiliari. In questo modo gli intermediari finanziari e gli agenti immobiliari si sentirono incentivati a convincere un maggior numero di persone ad investire nel mattone.
Di qui il sistema dei mutui subprime, i rischiosissimi mutui a tasso variabile per le famiglie a basso reddito o per le famiglie che potevano offrire scarse garanzie. Ma nel 2005 la Federal Reserve alzò quegli stessi tassi che aveva appena ridotto. L’intero sistema andò in tilt e le conseguenze sul sistema bancario internazionale si sono fatte sentire nell’agosto del 2007.
Con tre milioni di famiglie americane in stato di insolvenza e debiti per un totale di 200 miliardi di dollari, alcuni importanti istituti di credito si sono trovati a corto di liquidità. Per far fronte a questa situazione hanno venduto ad altre banche crediti tutt’altro che sicuri. Le banche li hanno inseriti in fondi di investimento speculativi e i fondi sono stati rivenduti alle banche di tutto il mondo. In questo modo la crisi si è diffusa a macchia d’olio investendo l’intero sistema bancario.
Importanti istituti finanziari, tra cui la Citigroup e la Merryl Lynch negli Stati Uniti, la Northern Rock in Gran Bretagna, la Swiss Re e l’UBS in Svizzera e la Societé Generale in Francia, hanno subito perdite enormi - e temo che altre ancora ne debbano subire. Per limitare i danni, molte grosse banche hanno dovuto accettare fondi provenienti da istituti controllati dalle potenze emergenti dell’Asia e dai regimi ricchi di risorse petrolifere.
Il vero ammontare dei danni non è ancora chiaro. Le banche centrali degli Stati Uniti, dell’Europa, del Regno Unito, della Svizzera e del Giappone hanno immesso nell’economia miliardi di dollari dall’agosto del 2007 senza però riuscire a restituire fiducia agli operatori. La crisi si è diffusa dal settore finanziario al resto dell’economia. Diversi fattori - il repentino crollo dei prezzi degli immobili negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Irlanda e in Spagna, la caduta del dollaro, la stretta creditizia - fanno prevedere un declino della crescita. A questo si aggiunga l’incremento del prezzo del petrolio, delle materie prime e dei prodotti alimentari. Sono tutti ingredienti di una crisi destinata a durare, la crisi più grave da quando la struttura dell’economia mondiale si basa sulla globalizzazione.
L’esito dipende dalla capacità o meno delle economie asiatiche di sostituirsi agli Stati Uniti come locomotive dell’economia mondiale. Un altro segno, forse, del declino dell’Occidente e del fatto che il centro dell’economia mondiale sta per spostarsi dagli Stati Uniti alla Cina. Questa crisi potrebbe segnare la fine di un’era.

Ignacio Ramonet è un giornalista e scrittore spagnolo è redattore capo di Le Monde diplomatique © 2008
Le Monde diplomatique Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 11.2.08
Siena ultima frontiera: viaggio tra i «clandestini» della Ru-486
Alle «Scotte» arrivano donne da tutta Italia: le analisi, la somministrazione. «Ma riusciamo a evitare lo choc del ricovero»
di Sonia Renzini


Il ginecologo Facchini: «Tutto nel rispetto della 194. C’è un iter complesso da seguire molte rinunciano»
«Rispetto all’intervento la Ru-486 coinvolge di più la donna. Con il farmaco “libero” gli aborti calerebbero»

ARRIVANO da Padova, Verona, Palermo. Qualche volta sono sole, altre giungono insieme al partner, all’amica, alla mamma. Ognuna con il suo carico di soffe-
renza, la sua storia, il suo percorso a ostacoli. Perché, l’aborto per una donna non è mai una passeggiata. Tanto meno quello farmacologico.
Ne sanno qualcosa gli operatori del reparto di ginecologia delle Scotte di Siena, ormai un punto di riferimento nazionale per molte donne. Soprattutto per quelle che risiedono fuori Regione stimate intorno al 95%: per lo più straniere, dell’Europa dell’Est nel 60% dei casi, nordafricane, cinesi e filippine per il 30%, italiane per il restante 10%. Qui, al secondo piano di una palazzina di un complesso ospedaliero che ha un bacino di utenza di 250mila abitanti, le donne che entrano vengono sottoposte a una lunga serie di esami, secondo la procedura prevista dal protocollo della Regione Toscana.
Una prassi consolidata che va avanti dal 2006, subito dopo la sperimentazione dell’ospedale di Pontedera che è stato capofila. «Si tratta di un protocollo molto restrittivo stilato rispettando al massimo lo spirito della 194 - dice il ginecologo Cosimo Facchini, responsabile del servizio di tutela sociale per la maternità - Tanto per cominciare la donna è tenuta a venire due volte in ospedale: la prima per accettare il protocollo, la seconda per la somministrazione della pillola Ru486. Inoltre, deve sottoporsi a continui controlli, insomma c’è un iter complesso da seguire che induce molte a rinunciare».
La selezione è già rigida dall’inizio, visto che l’aborto farmacologico può essere praticato solo in epoca precocissima, entro la settima settimana, quando molte non sanno neppure di essere incinta. Chi invece lo sa e decide per la pillola abortiva viene accuratamente visitata per verificare se rientra nei parametri stabiliti. Poi c’è il protocollo, una volta che la paziente ne ha presa visione e lo ha accettato, parte la richiesta del farmaco che è ad personam e arriva nell’arco di 2 o 3 giorni. A questo punto l’azienda si assume l’onere di sdoganarlo all’aereoporto, dopodiché la donna viene ricoverata e sottoposta di nuovo ad esami: sono previste dalle 5 alle 6 ecografie per ognuna oltre a colloqui con psicologi e assistenti sociali. Se tutto è nella norma si procede alla somministrazione, dopo un’ora o due molte lasciano l’ospedale, nel caso di non avvenuta espulsione del feto vengono richiamate e sottoposte ad assunzione di prostaglandina per indurre le contrazioni uterine. Questa fase può essere anche molto dolorosa e si risolve nell’arco di qualche ora. In ogni caso dopo 15 giorni le pazienti vengono richiamate per il controllo finale.
A Siena in poche rispettano l’obbligo di ricovero di tre giorni previsto dall’ex ministro alla Salute Francesco Storace: almeno la metà delle donne firma per le dimissioni, ma è vincolata a rimanere in zona per prevenire eventuali emorragie o complicanze. In genere alloggiano negli alberghi vicini convenzionati con l’ospedale a prezzi ridotti per loro e per i familiari.
È una procedura lunga che scoraggia molte fin dall’inizio e finisce per persuadere gran parte delle altre che è meglio desistere. Risultato: su 40 richieste di interruzione farmacologica che arrivano ogni mese alle Scotte, solo 10 vengono soddisfatte.
«La maggiore parte decide di portare avanti la gravidanza - racconta Cosimo Facchini - il punto di svolta generalmente è rappresentato dall’ecografia. Appena vedono il battito non ce la fanno più ad abortire, soprattutto le musulmane».
Alle Scotte di storie così ce ne sono di continuo. Proprio l’altra mattina è stata la volta di una signora arrivata dalla Sicilia che ha scelto di continuare la gravidanza subito dopo avere effettuato l’ecografia. C’è anche il caso di una donna di Verona che ha deciso di partorire dopo essersi sottoposta senza risultato all’aborto farmacologico. Nel 2% dei casi la terapia può fallire, così per qualcuna viene letto come un segno del destino e funziona da deterente. «A differenza dell’intervento chirurgico dove basta il certificato del medico per fissare l’intervento anche telefonicamente le donne sono molto più responsabilizzate - conclude Facchini - Con il metodo chirurgico la donna arriva in ospedale, le viene praticato il raschiamento in anestesia e poi rimandata a casa. Con la Ru486 la procedura è molto più lunga e coinvolge molto di più la donna nella sua scelta, non c’è dubbio che se il farmaco fosse liberalizzato ci sarebbe un calo significativo degli aborti».

LA 194:In 30 anni evitati un milione di aborti clandestini
Compie quest’anno 30 anni la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) e, a suo favore, porta numeri che non possono essere ignorati: nel trentennio, sono state evitate oltre 3.300.000 ivg, di cui 1.000.000 di aborti clandestini, e sono stati scongiurati centinaia di decessi legati appunto alla clandestinità. Un bilancio senza dubbio positivo. Non mancano però le difficoltà legate soprattutto a due nodi: il numero limitato di consultori e i medici obiettori. Nei servizi sanitari pubblici - secondo l’Istituto superiore di sanità - è obiettore il 60% dei ginecologi, il 46% degli anestesisti e il 39% del personale non medico. Capitolo consultori: sono 2.063 su tutto il territorio nazionale, solo 0,7 per 20.000 abitanti, mentre una legge del 1996 ne prevede 1 per ogni 20.000 abitanti. A ciò si aggiunge la «forbice» Nord-Sud: i consultori sono 914 al Nord, 428 nell’Italia centrale, 514 nell’Italia meridionale e 207 nelle isole.

Le femministe: ora giù le mani dalla nostra legge
Ancora in difesa della 194, ancora in difesa del diritto di scelta. Un gruppo di donne appartenenti a collettivi femministi di Bologna hanno manifestato ieri mattina in via Guinizzelli davanti alla sede dell’Antoniano dove era in corso un convegno sulla legge 194 organizzato dal Movimento per la vita. Le donne facevano parte della Rete delle Donne e dei collettivi «Quelle che non ci stanno» e «Figlie femmine». Le donne reggevano alcuni striscioni: «no agli scambi politici sul corpo delle donne», «non ci avete bruciato tutte», e, quelle dei collettivi lesbici, «la miglior contraccezione è il lesbismo». L’appuntamento di Bologna segue di un giorno quello di Roma, dove ancora donne, collettivi e associazioni avevano protestato«l’ingerenza del Vaticano e del Papa nella sfera pubblica». Sotto accusa la legge 40 sulla procreazione assistita e la legge sull’aborto, che «impediscono alle donne di decidere autonomamente del proprio corpo».

l’Unità 11.2.08
Ha uno stile personale il pianista polacco vincitore del premio Chopin nel 2005 e in tour nel nostro paese
Blechaz, brilla il nuovo astro della tastiera
di Luca Del Fra


«Un musicista deve sentire un compositore come suo anche nella vita»
La Deutsche Grammophon si è accaparrata il contratto con Blechaz per cinque anni

Il pubblico entusiasta, la giuria unanime: nel 2005 il Concorso Chopin di Varsavia ha incoronato vincitore Rafal Blechacz, così vincitore che gli sono stati conferiti anche tre premi speciali in tutte le categorie, tanto che non c’era spazio per un secondo. Era dal 1975 che un polacco (Krystian Zimmerman) non vinceva, e lo «Chopin», la più importante competizione mondiale per il pianoforte classico, negli 87 anni della sua attività ha lanciato pianisti del calibro di Maurizio Pollini e Martha Argerich.
Blechacz è in tournée in Italia - dopo sabato alla Pergola di Firenze e ieri al San Carlo di Napoli, domani è all’Università la Sapienza di Roma per la Iuc (www.amicimusica.fi.it, www.teatrosancarlo.it, www.concertiiuc.it): in programma la Sonata K 311 di Mozart, Estampes di Debussy, Variazioni op. 3 di Szymanowski e soprattutto l’op. 28 di Chopin, quei Preludes con cui ha debuttato discograficamente con Deutsche Grammophon, che subito si è accaparrata l’esclusiva di Blechacz per cinque anni. I motivi di tanto entusiasmo ad ascoltare il disco sono presto detti: il pianista appena ventiduenne non è contagiato da quello stile internazionale e omologato che affligge la musica classica. Sarà lui il prossimo astro europeo della tastiera? Per capire un pianista classico occorre ascoltarlo suonare dal vivo, e magari anche parlarci.
Come ha cambiato la sua vita il Premio Chopin?
«L’ha cambiata profondamente. La mia agenda è piena fino al 2010. Ma cerco di non superare i 40 concerti l’anno. Devo anche studiare, preparare nuovi programmi: un concerto per piano e orchestra e una, al massimo due sonate l’anno. Ma non è detto le suoni in pubblico se non sono soddisfatto».
Quanto riesce a studiare?
«Anche sette ore al giorno quando sono a Naklo (sua città natale dove continua a risiedere, ndr), ma fare concerti dà l’opportunità d’incontrare altri musicisti, come i direttori d’orchestra che possono essere molto stimolanti: è un altro modo di studiare».
Qual è il suo rapporto con la musica di Chopin? Non teme di venir associato troppo a questo compositore?
«Emozioni, clima, paesaggio sonoro: sono legato alla sua musica ben oltre il dato culturale. Penso alla melanconia dei Preludes, una componente che mi tocca, e spesso viene messa in secondo piano dalla magnitudo del virtuosismo. D’altra parte il pubblico si aspetta che li suoni, ma naturalmente mi interessa anche altra musica, Bach, o per esempio Debussy: la sua ricerca timbrica è fondamentale per interpretare Chopin. Il mio prossimo disco comunque sarà dedicato alle Sonate di Haydn, Mozart e Beethoven».
Studiare molto, interpretare?
«A febbraio Zimmerman mi ha detto che entrare nelle intenzioni di un compositore significa sentirlo non solo nella musica ma anche nella vita. È un principio che vorrei seguire: occorre tempo per acquistare il massimo della sicurezza in un pezzo e poi suonarlo con tale naturalezza da lasciare spazio a qualcosa di personale, intimo».
E la musica contemporanea?
«Ho poco tempo per occuparmene adesso, nei concerti mi chiedono soprattutto il repertorio cui cerco di aggiungere altri autori polacchi come Szymanowski e Lutoslawski. Mi piacerebbe interessarmene in futuro, così come suonare in trio o in duo musica da camera».

Repubblica 11.2.08
Israele e palestinesi, guerra dei censimenti
Arabi cresciuti del 30%: "Vi sorpassiamo". Gerusalemme: "È falso"
di Alberto Stabile


Per Gerusalemme quei numeri sono "privi di fondamento". Ed è ancora scontro
La differenza si è ridotta ad appena 200mila unità. I dati raccolti da duemila volontari

GERUSALEMME - Negli ultimi dieci anni la popolazione dei Territori, compresa Gerusalemme Est, è cresciuta di 870 mila unità, passando da poco meno di 2 milioni e 900 mila del 1997 a poco meno di 3 milioni e 800 mila nel 2006. Se i dati raccolti dal censimento eseguito l´anno scorso dall´Autorità palestinese sono corretti, e in Israele c´è chi ne dubita, questo vuol dire un incremento superiore al 30 per cento dovuto esclusivamente ad un alto tasso di natalità. E poiché da queste parti anche la demografia fa parte dell´armamentario del conflitto, la crescita denunciata dai palestinesi non fa altro che confermare il timore dei vertici politici israeliani verso la cosiddetta «bomba demografica».
Il censimento, condotto da 2006 volontari, è stato occasione di polemica tra le due parti. Presentando i primi risultati della ricerca, il direttore dell´ufficio centrale di statistica di Ramallah Loai Shabana ha lamentato la scarsa collaborazione delle autorità israeliane. Mentre a Gaza il censimento è stato condotto sotto l´occhio vigile del Movimento islamico, Hamas, nei Territori è stato eseguito in regime d´occupazione e a Gerusalemme Est, secondo Shabana, è stato in sostanza impedito.
Sta di fatto che appare incoerente il dato relativo a Gerusalemme Est dove la popolazione araba, rispetto al 97 sarebbe addirittura diminuita passando da 210 mila a 208 mila. Al contrario, in Cisgiordania e a Gaza, il censimento mostra un vero e proprio boom demografico: maggiore a Gaza, dove la crescita in dieci anni è stata del 45 per cento, minore nella West bank dove il tasso di natalità è più basso e di conseguenza la popolazione è cresciuta «soltanto del 36,7 per cento».
«Dati privi di fondamento», ha subito commentato Yoram Ettinger, un ex diplomatico israeliano animatore, con alcuni colleghi americani, di un team di demografi che si sono dati il compito di stabilire l´esatta dimensione della popolazione palestinese. Citando anche un recente studio della Banca mondiale, Ettinger sostiene che i palestinesi hanno gonfiato le cifre: nella West bank sarebbero 1 milione e 600 mila e non 2 milioni e 300 mila e nella Striscia di Gaza vivrebbero un milione e 100 mila persone e non un milione e 400 mila.
Secondo un altro esperto, il professore Sergio Della Pergola della Hebrew University, le statistiche mostrerebbero una crescita annuale del 2,66 per cento nell´arco di dieci anni, dal 97 al 2006, e non del 3,3 per cento come affermano i responsabili del censimento. «Secondo le proiezioni pubblicate in anni recenti i palestinesi si aspettavano di superare i quattro milioni di abitanti nel 2007. La differenza di 250 mila in meno sembra riflettere il saldo negativo dell´emigrazione e un certo rallentamento nella natalità», sostiene Della Pergola.
Che la crescita dei palestinesi rappresenti una minaccia reale per il carattere ebraico dello Stato d´Israele, vale a dire per uno stato che vuol mantenere all´interno dei suoi confini una salda maggioranza ebraica, è assai discutibile. Se si andrà verso una soluzione del conflitto basata su due stati separati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza, come recita la formula di George Bush, non si vede come la crescita dei palestinesi possa minacciare lo stato ebraico che continuerà a godere dell´apporto dell´immigrazione. Ma se si considera lo spazio geografico tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, dove insistono Israele e i Territori palestinesi, qui la demografia sembra giocare progressivamente a favore della popolazione araba.
Se, infatti, ai quasi 3 milioni e 800 mila palestinesi si aggiungono gli oltre un milione e 400 mila arabi israeliani, il totale della popolazione araba assomma a circa 5 milioni e 200 mila, contro i 5 milioni e 400 mila ebrei. Quasi fifty fifty, ma con un tasso di natalità che potrebbe favorire in pochi anni il sorpasso degli arabi.

Repubblica 11.2.08
In un libro i saggi dell'artista apparsi su "Valori plastici"
Quando Savinio spiegò cos'era la metafisica
di Fabrizio D’Amico


Non era tesa alla ricerca del bello, l´arte, nei propositi di Alberto Savinio: da quando martellava selvaggiamente (ma vestito come un dandy) sui tasti del pianoforte, lasciando esterrefatto e al contempo sedotto Guillaume Apollinaire, durante «le petit concert» che il giovane Alberto (nato, come il fratello Giorgio de Chirico, in Grecia, nel 1891) aveva offerto all´amico, nei suoi primi anni parigini - prima della grande guerra. Poi era venuta, quella guerra, attesa da tanti, e della quale ancora nel ´19 Savinio, tutto preso da furori nazionalisti, scriveva che fosse stata «una fatalità felice».
Non inseguiva il bello: così che l´unico riconoscimento che si sentiva di fare agli amici cubisti, pittori che peraltro non lo interessavano punto («rozzi pennellatori», arriva a battezzarli), era questo: che essi fossero stati «buoni liberatori» dal vigente «estetismo tradizionale», vale a dire, appunto, da quel costringere l´arte all´imitazione lirica della realtà e ad una puristica ricerca del bello, adatta - al più - a consolare «la donna».
Quanto alla passione per l´Italia e gli italiani, gli passò presto; invece durò, e crebbe di motivazioni e spessore critico, quell´idea che lo sorresse poi sempre nella molteplice attività di scrittore, teorico, pittore, musicista, scenografo: che l´arte dovesse essere cosa mentale, intellettiva, anzi «cerebrale», e che il «genio» che l´avrebbe avuta per compagna avrebbe dovuto essere soprattutto «amico della conoscenza», rifiutando ogni barriera fra le varie discipline e disinteressandosi ad ogni maestria puramente tecnica (Croce e Duchamp possono stare assieme alle spalle di questo giudizio, come ha scritto Pia Vivarelli) per raggiungere quello «stato dell´intelligenza» in cui soltanto era da ravvisarsi un esito autentico della prassi artistica. Cambierà qualche corollario, negli anni, ma l´idea dell´arte come atto di conoscenza non lo lascerà. Idea che è già colma alla fine degli anni Dieci, ai primi del decennio seguente, quando Savinio pubblica una serie di saggi sulla rivista romana Valori Plastici, fondata da Mario Broglio (ad essa destinando non gli unici, ma certo i più impegnativi fra i suoi momenti di riflessione teorica di quel torno d´anni). Uscita fra ´18 e ´22, la rivista, al contrario d´ogni sua consorella, s´occupava unicamente di arte figurativa; vi pubblicarono le loro opere de Chirico e Carrà (autori anche, sulle stesse pagine, di saggi teorici importanti), Morandi, Arturo Martini, Edita Broglio, Soffici e molti altri, non solo italiani. Valori Plastici ebbe così enorme peso sulla cultura artistica italiana, occupando un tempo intermedio fra metafisica e realismo magico; ed è stata indicata - meno correttamente - come incunabolo del futuro «ritorno all´ordine».
Oggi i saggi di Savinio su Valori Plastici sono raccolti in volume (La nascita di Venere, a cura di Giuseppe Montesano e Vincenzo Trione, Adelphi, pagg. 164, euro 12), e rileggerli assieme riserva conferme e qualche sorpresa. Molto cambia, intanto, fra i primi scritti, usciti in rapida sequenza nei numeri inaugurali della rivista (fra ´18 e ´19) e gli ultimi, datati al ´21. Hanno tono messianico, i primi («entriamo ormai nell´epoca di un grande riprincipio», si legge ad esempio ad incipit di "Fini dell´Arte"), e d´invettiva a tratti insolente e, a rileggerla oggi, non fondata (sulla pittura francese, sempre e solo ad esempio).
Pure, cadono in questi primi saggi perle d´intuizione (il «fantasmico» come «stato iniziale del momento di scoperta»; o la «ragione classica») che saranno poi sviluppate nei "Primi saggi di filosofia delle arti" che, in tre puntate, occuperanno i numeri ultimi della rivista. Se così in "Fini dell´Arte" Savinio offre una bella definizione della pittura metafisica («tutto ciò che della realtà continua l´essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima»), nei "Primi saggi" si postula a soggetto della pittura «la vita non come è, ma come dovrebbe essere»: detratto dunque da essa l´aspetto drammatico (che si risolve in movimento illusorio, in «ritmo»), e sancita all´opposto, come metro di forma, «l´immobilità, bene supremo» (in opposizione all´illusione della vita: e anche qui torna forse, insieme a una precisa memoria di Schopenhauer, una suggestione pirandelliana), e attraverso essa, e grazie all´azione della «memoria», «l´eternità terrena, fecondissima per le arti».
Inattesa per qualche verso, soprattutto a riguardare la sua futura pittura, ma infine conseguente, è infine la svalutazione che Savinio fa del sogno, come fallace avventura sottratta al governo dello stato felice dell´intelligenza; e il recupero dell´«elemento lirico», prima individuato come infecondo, e adesso intuito come momento cruciale della creazione, in opposizione a quello drammatico, troppo proclive alla mimesi della realtà. Fra intuizioni e ritorni oscillano dunque questi scritti di Savinio: che, pur con qualche oscurità, vi parlò a più riprese dell´«ironia» come momento irrinunciabile della pittura metafisica, attitudine del creatore capace di corrodere l´ambiguità e l´inganno del reale e di ricostituirlo atto alla forma. Attitudine che affonda in una crisi, in uno stato doloroso in cui, dopo le ottimistiche e declamate certezze proclamate nei primi saggi su Valori Plastici, Savinio vede avvolto l´atto stesso della creazione. Ed in tal senso il monito - certamente cruciale, seppur un poco paludato - che si legge nei "Fini dell´Arte", ove è messa in questione persino la normatività del classico («Classicismo che, beninteso, non è ritorno a forme antecedenti, prestabilite e consacrate da un´epoca trascorsa; ma è raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica - la quale non esclude affatto le novità di espressione, anzi le include, anzi le esige») ripropone la necessità di intendere il pensiero estetico di Savinio come problematicamente interno ai dilemmi della modernità, e molto lontano dall´annunciare le tanto più vane certezze che saranno proclamate nel successivo clima del «ritorno all´ordine».

Repubblica 11.2.08
Poussin. Una promenade nel paesaggio
di Anna Ottani Cavina


Una pittura che non vuole essere lo specchio del vero, ma elegia e ideale
La desolazione dell´Agro romano "inventato" con un nuovo canone di bellezza
A New York al Metropolitan una grande rassegna sul pittore francese con i celebri dipinti della campagna romana

Dal 12 febbraio all´11 maggio, i paesaggi di Nicolas Poussin saranno esposti al Metropolitan Museum di New York. La mostra "Poussin and Nature", curata da Pierre Rosenberg e Keith Christiansen, presenta i capolavori di una vita vissuta a Roma, dalle favole pastorali della giovinezza alle "meditazioni filosofiche" sulla natura della maturità. Il testo di queste pagine è stralciato dal saggio introduttivo di Anna Ottani Cavina, pubblicato nel catalogo.

Poussin, pittore solitario e grandissimo, estraneo alla sensualità del barocco, appare per la prima volta nella sua toccante bellezza di pittore della natura: soltanto paesaggi, che al tempo della giovinezza hanno i colori smaltati della fiaba e del mito e poi le intonazioni accorate che accompagnano il destino misterioso dell´uomo.
Di un artista, che nell´area di Roma ha condotto l´intera esistenza, è possibile misurare lo scarto fra i luoghi quotidianamente vissuti e i luoghi che lui ha dipinto? A quali principi obbediva, in tema di paesaggio, il processo di depurazione dai segni del tempo e dai segni del lavoro dell´uomo se Poussin ha espresso nel modo più profondo il sentimento misterioso e panico della natura? Quel sentimento, scriveva Cézanne, che gli aveva permesso di fondere «le curve delle donne con le spalle delle colline».
I paesaggi dipinti sono fatalmente paesaggi di idee, non lo specchio di luoghi vissuti. Eppure è così forte, nella storiografia di Poussin, nelle fonti e nella leggenda, il leitmotiv della campagna romana, percorsa a piedi e a cavallo, da solo e con gli amici, da meritare qualche riflessione, se tutto questo ha avuto più tardi una cristallizzazione figurativa nella famosa Promenade de Poussin lungo le rive settentrionali del Tevere. Famosa soprattutto per l´interpretazione che ne ha dato Corot nel dipinto oggi al Louvre.
Risalendo il corso del Tevere, che a Roma entra dalle parti di Ponte Milvio, si incontrano i luoghi della Promenade de Poussin. A nord della città, il sentiero, raccontato con emozione anche da Goethe, costeggiava il fiume lungo le rive dell´Acqua Acetosa, nella zona di Tor di Quinto, non lontano dalla via Flaminia. Attraversava un paesaggio di pascoli, macchie arboree, acquitrini, rari campi coltivati aperti, secondo le forme di un sistema agrario che contemplava i campi e l´erba e dove - in pieno Seicento - il pascolo brado aveva preso il sopravvento sui terreni plasmati dal lavoro dell´uomo.
Il degrado dell´Agro Romano, riconquistato dalla palude e dalla malaria, rientrava infatti, al tempo di Poussin, in un più vasto processo di rifeudalizzazione della società italiana che favoriva il regresso verso il latifondo, verso un regime di pascoli, selve, acquitrini. Inospitale e deserto, l´Agro Romano era molto vicino a quello che Gaspard Dughet ha raffigurato negli affreschi di San Martino ai Monti, ambientando le vicende dei profeti entro scenari grandiosi dove uomini e bufali si affannano nella fatica primordiale di conquistare terreni paludosi e ingrati.
Il paesaggio dipinto da Poussin invece non voleva essere lo specchio del vero, anche se il pittore aveva frequentato e amato quei luoghi nell´arco dell´intera esistenza. Non è il paese reale, contemporaneo, quello su cui si stagliano le storie di Focione, di Diogene, di Orfeo e Euridice, di Piramo e Tisbe, dei ciechi di Gerico. La natura in Poussin non si ispira alle lande malsane e desolate, che si profilavano oltre le porte di Roma e nemmeno alle terre lavorate del paesaggio agrario italiano. Tendeva piuttosto alle forme ritmate e intatte di un paesaggio elegiaco, ideale.
Basterebbe una ricognizione botanica, anche molto sommaria, per sancire il distacco di quegli scenari dipinti dalle colline italiane popolate di viti e di ulivi, e dalle pianure del Lazio solcate da pioppi, cipressi, pini marittimi. Poussin non riflette la varietà delle speci che caratterizzano la campagna romana. Riproposto in numerose varianti, l´albero dominante è decisamente la quercia, raffigurata nella magnitudine del suo portamento o nella fragilità dei virgulti flessibili al vento. Una quercia naturale, non potata, riconoscibile nella chioma sontuosa ed espansa e nelle foglie dentate, che il pittore raffigura con qualche libertà, perché lo sguardo di Poussin non è quello di un naturalista e il suo livello di definizione non è quello della cultura scientifica, fondata sulla ricognizione analitica, sull´esattezza della percezione, sulla organizzazione dei dati rilevati dall´occhio.
Del tutto insensibile alla varietà della macchia mediterranea, la natura di Poussin è costruita sull´iterazione di un albero, utilizzato per il suo forte impatto visivo e per la sua valenza simbolica. Sacra a Giove, la quercia evocava la forza, la virtù eroica e invincibile. Presenza tangibile del divino nella natura, strumento di comunicazione fra il cielo e la terra, la quercia poteva vantare una tradizione di nobili preferenze pittoriche, da Annibale Carracci a Domenichino.
Se dunque i paesaggi di Poussin non reggono a un esame di realtà, nella loro bellezza e vastità dovevano assolvere a una funzione diversa e più alta. Non quella di sfondo modellato sul paese reale, ma quella di commentario alla storia dipinta, nonostante che, come molti pittori del Seicento, Poussin fosse mosso dal bisogno di conoscere la natura dal vivo. Lo testimoniano i suoi studi dal vero e il reportage citatissimo di un viaggiatore francese: «... Poussin... l´ho visto portarsi via in un fazzoletto dei sassi, del muschio, dei fiori e altre cose che egli intendeva dipingere esattamente dal vero». Ma non è questo il canone che regola la rappresentazione della natura in Poussin, per il quale l´esperienza visiva era inscindibile dai principi ordinatori dell´arte, dalla tensione a regolarizzare le forme. Pertanto la poesia di un luogo reale e mutevole, disegnato sul posto, viene sintetizzata sulla tela nelle forme laconiche e ricorrenti di un lessico universale, dove le costanti dei fenomeni diventano paradigmi di un alfabeto che interpreta la Natura come un insieme razionale e organico: «L´Ordine è il padre della Bellezza».
È questo lo stigma che impronta la visione della natura in Poussin, tesa a ricondurre le varianti della realtà entro i tracciati ordinati del pensiero. Una natura lontanissima dai luoghi vissuti, dai luoghi dove si abita e si lavora, dai luoghi raccontati per così dire dal basso, dalla piazza o dai campi. Prospetticamente ordinati lungo un asse il più delle volte centrale, i paesaggi dipinti da Poussin attingono una dimensione eroica e fuori dal tempo nella scansione orizzontale dei piani, ritmati dalla presenza maestosa delle querce. Le grandi querce servono a strutturare lo spazio, a contrastare l´ombra e la luce, ad ambientare il soggetto nei "modi" che gli antichi associavano alla sfera morale e a quella delle passioni. È all´interno di quella cornice simbolica che gli alberi, come le architetture, assecondano una chiave di volta in volta veemente, furiosa, austera, grave, cui la quercia offre una sagoma ciclica e ricorrente, forma quintessenziale che riassume e sublima ogni specie di albero.
Si riconferma una lettura ideale e filosofica del paesaggio in Poussin, dove il punto essenziale non è misurare la capacità di "ritrarre" la natura che stava intorno a Poussin, ma valutare piuttosto come quei luoghi, che nessuno prima aveva dipinto, nessuno dopo ha potuto vedere con occhi diversi da quelli carichi di irrealtà (ma pieni di poesia) di un pittore che, en promenade nella desolazione dell´Agro Romano, aveva "inventato" - nel quadro di Berlino - la religiosa bellezza dell´Acqua Acetosa in contrappunto alla religiosa intimità dell´angelo e di Matteo.

Corriere della Sera 11.2.08
L'opera «La quinta colonna» fu censurata nel '40
New York, va in scena il dramma «comunista» di Ernest Hemingway
di Ennio Caretto


Broadway «riabilita» lo scrittore. Il soggettista che adattò l'opera 70 anni fa trovò inaccettabili le simpatie per i «rossi» e la relazione tra i protagonisti
1937. La data di «nascita» della commedia La quinta colonna di Ernest Hemingway, sulla guerra civile spagnola. La scrisse a Madrid, dove si trovava come corrispondente di guerra per la North American Newspaper Alliance, che lo pagava un dollaro a parola, uno stipendio allora principesco

WASHINGTON — A quasi mezzo secolo dalla morte di Ernest Hemingway, l'America vedrà per la prima volta nella sua versione originale una delle due sole commedie da lui scritte, La quinta colonna, sulla guerra civile spagnola. L'opera, rappresentata in tutto il mondo — nel 1963 persino nell'Urss — è sconosciuta agli americani. La mise brevemente in scena il Theater Guild di New York nel '40 su regia del grande Lee Strasberg, ma in una versione così censurata e corretta che Hemingway dovette disconoscerla. Per rappresentarla e intascarne metà dei proventi, il romanziere, perennemente indebitato, l'aveva fatta adattare da Benjamin Glazer, il soggettista e produttore del primo dei due film di Hollywood tratti dal suo capolavoro
Addio alle armi. Un errore di cui si pentì subito.
A propiziare il recupero de La quinta colonna, che risale al '37 quando Hemingway era corrispondente di guerra a Madrid per la North American Newspaper Alliance,
che lo pagava un dollaro a parola, uno stipendio allora principesco, è stata la scoperta di una sua lettera inedita di 7 pagine su di essa. L'autore della scoperta, Jonathan Bank, il regista del Mint Theater di Manhattan, che metterà in scena la commedia il 26 febbraio, ha dichiarato che la lettera lo ha spinto a confrontare il testo originale con «l'adattamento » di Glazer. «Mi sono reso conto che Glazer lo aveva cambiato all'80 per cento. Non so perché Hemingway, che lo aveva scritto all'Hotel Florida, durante i cannoneggiamenti di Franco, non ne vietò la rappresentazione, forse aveva firmato un contratto capestro».
Il titolo della commedia è dovuto all'asserzione di Franco che il suo esercito, schierato per la corona, aveva quattro colonne pronte a marciare su Madrid e una quinta nascosta in città. Ma i protagonisti sono due giornalisti americani, Philip Rawlings e Dorothy Bridges — in realtà lo stesso Hemingway e Martha Gellhorn, sua collega, amante e futura terza moglie — di simpatie comuniste, due spie repubblicane. Stando a Bank, Glazer non trovò solo politicamente inaccettabile la presa di posizione del romanziere a favore dei «rossi», ma giudicò anche la giornalista «una ninfomane», perché nella commedia lasciava un uomo sposato per unirsi al nuovo compagno. «Per renderne la figura meno scandalosa — ha riferito Bank — paradossalmente Glazer inserì una scena in cui Rawlings la stuprava».
Nella lettera su La quinta colonna, Hemingway ne ricostruisce la stesura. Il romanziere narra che durante i cannoneggiamenti tutti i giornalisti si rifugiavano nelle stanze 112-113, sul lato più basso e riparato dell'albergo, assieme ad altri ospiti che si proteggevano con strati di materassi. Tra di essi vi erano personaggi pittoreschi come Sidney Franklyn, un ex torero che lavorava per lui percependo il 10 per cento del suo stipendio, o il nobile francese Antoine de Saint Exupéry, che tra la polvere e i calcinacci distribuiva grappoli d'uva ai presenti. La commedia, spiega Hemingway, è scaturita dai dialoghi tra i cannoneggiati: «Mi è stato più facile e rapido ultimarla che non ultimare un libro, ho usato la macchina da scrivere anziché la penna come mio solito. Mi sembra buona».
In verità, ha ammesso Bank, Hemingway non fu un commediografo di vaglia e fece un fiasco colossale con il suo dramma precedente Oggi è venerdì, del 1926, sulla crocifissione di Cristo. Ma La quinta colonna, ha aggiunto il regista, conserva un certo valore letterario e storico. Di essa parlò nelle sue memorie altresì Martha Gellhorn, una delle donne più corteggiate del suo tempo.
Sembra che in Spagna la giornalista e scrittrice, in continua competizione professionale con il romanziere, ebbe un fugace flirt anche con Randolfo Pacciardi, il capo della Brigata Garibaldi che combatté contro Franco e futuro ministro della Difesa della Repubblica italiana, cosa che lei negò sempre. Hemingway, che sapeva quanto le donne trovassero Pacciardi galante e affascinante, ne fu gelosissimo.
Nell’immagine Ernest Hemingway con un comandante delle forze repubblicane in Spagna, 1938 (Ap)

il Riformista 11.2.08
Rivoluzioni dal bipolarismo coatto al bipartitismo temperato in 72 ore
I tre giorni che sconvolsero il mondo
di Paolo Franchi


Volevo tornare brevemente sulla discussione che si è aperta sul Riformista a proposito dell'identità del Pd, partito di centro o di centrosinistra o della sinistra riformista tout court, come sostiene Eugenio Scalfari. Volevo. Ma questo fine settimana, dopo le forti scosse dei giorni precedenti, ci ha riservato una specie di terremoto che dovrebbe cambiare in profondità tutta la scena politica. Dunque da qui, dal terremoto, bisogna partire.
Per quindici anni siamo stati prigionieri di un bipolarismo forzato e muscolare, fondato su coalizioni tirate su mettendo assieme, per vincere, tutto e il contrario di tutto, e proprio per questo dannate, dopo la vittoria, alla rissosità interna e assieme all'impotenza. Bene. A prendere alla lettera quanto è avvenuto tra venerdì e domenica, dovremmo dire che questa stagione stiamo lasciandocela, se dio vuole, alle spalle. In luogo di coalizioni composte di un'infinità di partiti, partitini e sottopartitini, ci attende una sorta di bipartitismo temperato. Di qua (cioè dalle parti nostre) il Partito democratico, che con la decisione di Walter Veltroni di correre da solo ha avuto per primo il coraggio di rompere le vecchie catene, anche se forse non ci guadagnerà un mondo. Di là (cioè dalle parti loro) il Partito delle libertà, che è stato al gioco di Walter e anzi ha rilanciato alla grande, grazie alla riscoperta, da parte di Silvio Berlusconi, dello spirit of the running board (per i più semplici: dello spirito del predellino): una riscoperta che gli ha consentito di indurre a mitissimi consigli Gianfranco Fini e molto probabilmente gli consentirà di placare senza troppi problemi anche Pier Ferdinando Casini, peraltro già rinfrancato dalle buone parole del cardinal vicario. Dimenticavamo: a far da contorno ci saranno, nella misura in cui lo permetteranno elettori e legge elettorale, una Cosina Bianca in luogo del centro postdemocristiano, una Cosetta Rossa in luogo della sinistra neo, vetero o post comunista e, a quanto pare, una Cosuccia Nera. Dei socialisti, dei radicali, dei laici vil razza dannata, naturalmente non è il caso di occuparsi.
Chi vincerà, anche se a occhio e croce continueremmo a dire Berlusconi, naturalmente non lo sappiamo. Ma, se abbiamo capito bene, la cosa non è poi così importante. L'importante è che si volti pagina. Deve proprio essere così, se Berlusconi, che è uomo notoriamente di sostanza, arringando il popolo della Brambilla ha voluto ricordare l'inutilità, anzi, la pericolosità di ogni voto che non finisca al Pdl o al Pd: non un voto vada disperso, non un voto vada perduto, come diceva il Pci quando eravamo ragazzi. Deve essere proprio così, se l'idea di dar vita, dopo il voto, a una Grande Coalizione che faccia le riforme (e non solo) non è più tabù, e in ogni caso non viene più rappresentata alla stregua di un inciucione o di un'immonda ammucchiata. Scalfari esprime sì la sua contrarietà, ma molto, molto pacatamente, e Renato Mannheimer ci rende noto, sul Corriere, che già adesso un italiano su tre sarebbe favorevole. In ogni caso, il tempo delle coalizioni "contro" sta proprio finendo.
Un terremoto? Di più: una rivoluzione, seppure, si capisce, nelle forme proprie di un Paese dove le rivoluzioni non si fanno perché ci conosciamo tutti. Noi, fessacchiotti, ci eravamo premurati di avvisare che, avvicinandosi le elezioni, probabilmente avrebbero cominciato a volare anche i cazzotti, primo perché le campagne elettorali sono fatte così, e secondo perché se c'è in giro tanta voglia di procedere insieme ai cambiamenti elettorali e istituzionali necessari non si capisce bene come mai sia stato fatto rapidamente fallire il tentativo affidato da Giorgio Napolitano a Franco Marini. Prendiamo atto che questo week end sembra smentire le nostre previsioni, ma teniamo il punto. Per tigna, ovviamente, ma anche perché molti conti non ci tornano. Prima di tutti quelli che riguardano i protagonisti del bipartitismo temperato prossimo venturo. Il bombardamento mediatico è fortissimo. Ma non così forte da far automaticamente dimenticare che il Pd ha un leader, investito dal voto di milioni di italiani, e poco più, a parte il fatto che, per dargli vita, Ds e Margherita si sono comunque sciolti. E che il Pdl un leader ce l'ha pure lui, eccome, ma per costituirlo non si è sciolto nessuno, e allo stato attuale non sappiamo neanche se stiamo parlando di un partito, sia pure allo stato nascente, o di un listone elettorale. Quisquilie, per carità, quando si fanno le rivoluzioni non si sta lì andare tanto per il sottile. Ma che ci volete fare, i riformisti sono fatti così. Gli cambia il mondo attorno, e loro spaccano in quattro il capello.