mercoledì 13 febbraio 2008

l’Unità 13.2.08
Sinistra, niente falce e martello nel simbolo. Bertinotti: no i socialisti
Oggi la presentazione, Diliberto cede. Presto la scelta sul ticket con la Borsellino. Lunedì la bozza del programma


Francescato e le altre donne spingono per una rappresentanza «rosa» del 50%nelle liste

La Sinistra arcobaleno presenterà ufficialmente il simbolo per la corsa alle elezioni politiche questa mattina, a Roma. Dalla riunione dei propri leader, ieri, è però già chiaro che il simbolo con cui Prc, Verdi, Pdci e Sd concorreranno alle prossime consultazioni sarà fondamentalmente quello emerso dagli Stati generali dell’8 e 9 dicembre scorsi.
Su campo bianco, i sette colori dell’iride e la scritta «La Sinistra - L’Arcobaleno» in formato più grande rispetto all’emblema varato in dicembre. Niente simboli dei partiti costituenti: niente Sole che Ride, e, anche, niente falce e martello. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci che si era battuto per il riconoscimento dei singoli simboli di partito, alla fine ha votato con gli altri leader.
Di certo, ad oggi, la costituente socialista di Boselli e Angius, ai quali ieri mattina erano stati costruiti sulla riva sinistra ponti dagli esponenti di Sd Massimo Villone e Francesco Barra, non sarò parte del progetto. «Rispetto molto la scelta dei socialisti ma c’è una differenza programmatica rilevante - stoppa subito il candidato premier della Sinistra Fausto Bertinotti - Nel momento in cui le elezioni politiche vengono combattute, da questo punto di vista giustamente, su un terreno programmatico c’è una sfida a presentare programmi compatti e omogenei». Boselli, dal canto suo, ribadisce, che non era nell’orizzonte politico un accordo con la Sinistra Arcobaleno. Resta, per i socialisti, la terza via, non facile: correranno da soli con il proprio simbolo e la propria lista. Restando alla Sinistra Arcobaleno, rimane ancora nell’orizzonte delle possibilità il ticket tra l’attuale Presidente della Camera e Rita Borsellino. Sul versante della rappresentanza di genere, su richiesta di Grazia Francescato e di diverse esponenti della coalizione, è già in agenda un incontro con Bertinotti. Sulle liste è già stato disposto un tavolo tecnico dedicato. Ne fanno parte gli esponenti di Rifondazione Ciccio Ferrare e Walter De Cesaris, i Comunisti italiani Pino Sgobio e Fabio Galante, i Verdi Angelo Bonelli e Marco Lion, gli esponenti di Sd Titti Di Salvo e Marco Fumagalli.
Per adesso si studiano i criteri per la formazione delle liste. Bertinotti, salvo sorprese, non potrà essere candidato in tutte le circoscrizioni come inizialmente previsto. La bozza del programma (un documento snello di 15-20 punti) sarà presentata lunedì.

Repubblica 13.2.08
Oggi il logo della Sinistra arcobaleno. "Quell´antico emblema è nel nostro cuore ma nel XXI secolo serve altro"
Bertinotti congeda falce e martello "Prodi timido su salari e pensioni"
"Mi chiedete chi voglio che vinca tra Veltroni e Berlusconi? Innanzitutto preferisco che perda il Cavaliere"
di Umberto Rosso

ROMA - Domanda: meglio che vinca Berlusconi o Veltroni? Risposta, di Fausto Bertinotti: «Mettiamola così: preferirei che a perdere fosse Berlusconi». Tremonti lo incalza, quindi meglio che non vinca Veltroni? «Qui mi fermo, ho detto, come parlavano i capi indiani...». Ma, e lo aveva già spiegato all´inizio, «il vero voto utile è per la sinistra». Scende il campo il candidato premier della Cosa rossa. Il simbolo c´è, i quattro segretari (fra le sofferenze e le proteste di Oliviero Diliberto) l´hanno licenziato nel pomeriggio. Sinistra-Arcobaleno, senza falce e martello. L´ha spuntata (con caratteri leggermente più grandi) il logo che aveva debuttato agli stati generali dei quattro partiti. Non ci sarà nel "cerchietto" neanche il nome di Fausto Bertinotti. Ma, anche se non "dentro" il marchio elettorale, il presidente della Camera è ormai ufficialmente in campo come candidato premier della sinistra. Il debutto ieri sera, ospite di "Ballarò" insieme a Tremonti, Franceschini, Pezzotta, e le prime parole sono state appunto per sottolineare la rinuncia alla falce e martello, «che fa parte dei simboli importanti, pesanti, che continueremo a portarci nel cuore ma noi vogliamo costruire la sinistra del XXI secolo». Da soli, sinistra unita, perché l´alleanza con i riformisti del Pd «non è possibile, anche se in questi anni abbiamo tentato di tutto, comprese le acrobazie elettorali come la desistenza». Lista unica e unico gruppo in futuro alle Camere, annuncia Bertinotti, «ci sarà un gruppo parlamentare espressione di questa lista», e prevede già da subito delle «pre-iscrizioni» al nuovo soggetto (nei giorni scorsi è partita un´iniziativa in questo senso lanciata dalle associazioni vicine a Pietro Folena). Rivolte a movimenti e organizzazioni esterne. «Uso con cautela il termine partito perchè penso che oggi ci sia bisogno di una riforma profonda della politica e che questo soggetto unitario e plurale non debba essere fatto soltanto dalle quattro forze politiche che oggi lo compongono ma di altre voci, di tantissime associazioni, organizzazioni, movimenti, singole persone».
Polemico, il presidente della Camera, su alcune scelte del governo. La riforma delle pensioni, «c´era bisogno dei morti per capire che alcuni lavoratori devono andare in pensione prima?», e la gestione del tesoretto. «Siamo andati perfino sotto il 2 per cento che ci chiedeva l´Europa nel rapporto fra deficit e Pil. Mi chiedo: invece di arrivare all´1,3, non si potevano aumentare salari e stipendi?». Anche il Pd nel mirino del presidente della Camera, sia pure sempre con toni soft e con il riconoscimento della necessità di una complessiva riorganizzazione del sistema politico. «Ma sotto il cielo ci sono molte più cose che quelle che si possono immaginare, per cui voler imprigionare tutto in un sistema bipartitico sarebbe un´operazione disastrosa». Così come - anticipando quello che sarà un leit motiv della sua campagna elettorale - Bertinotti ha contestato a Franceschini una marcia indietro del Pd sui temi del diritti civili. «I grandi partiti in realtà al loro interno si comportano come coalizioni. Il Pd sulle unioni di fatto e sull´aborto sta con la Binetti o con il riconoscimento di questi diritti, previsti nel programma del governo Prodi? E sul contratto dei metalmeccanici, con la Fiom o la Federmeccanica?». Risposta del numero due del Pd: «La 194 deve restare così com´è, orribile usare questi temi per la campagna elettorale. E le coppie di fatto vanno regolamentate anche se non equiparate ad una famiglia».
Toni distesi sfida leale. Già nel pomeriggio, a domanda, del resto Bertinotti rispondeva di non poter escludere in via di principio la possibilità «che un elettore di sinistra possa votare Pd». Una battuta appena che però non è piaciuta per niente al ministro verde Pecoraro Scanio. «Bertinotti è troppo signore per attaccare frontalmente il Pd. E´ il presidente della Camera ma anche il nostro candidato premier. Come dovrebbe votare un elettore di sinistra che vuole meno precarietà, per il Pd che offre la candidatura a Montezemolo o per noi che vogliamo abrogare la legge 30?».

l’Unità 13.2.08
Blitz per interrogare la donna che abortisce
Napoli: una chiamata al 113 fa scattare gli agenti in ospedale. «194 rispettata». Turco: caccia alle streghe
di Anna Tarquini


IMMAGINATEVI la scena: sette poliziotti che irrompono in una corsia d’ospedale liberi di entrare nella stanza dove una donna ha appena finito di partorire un feto morto per aborto terapeutico alla ventunesima settimana (cioè perché gravemente malforma-
to). La interrogano, le mettono sotto il naso quel corpicino domandando «È suo figlio?», poi si rivolgono alla vicina di letto: «Lei cosa sa? O parla con noi o lo farà in tribunale», infine sequestrano insieme cartella clinica e «aborto» e formulano un capo d’imputazione: feticidio, articolo 578 del codice penale. È l’effetto Ferrara, l’effetto della moratoria sull’aborto, della lettera-denuncia dei medici che diceva «il feto abortito deve essere rianimato» e del clima che si sta creando in campagna elettorale intorno alle questioni etiche. Ma è anche la storia, vera, accaduta lunedì pomeriggio a una donna di 39 anni ricoverata all’ospedale Federico II di Napoli. E non ha precedenti. Tanto che il ministro della salute Turco dice: «È una caccia alle streghe».
Tutto inizia, e questo forse è l’aspetto più grave della vicenda perché rappresenta bene il clima, tutto nasce dicevamo da una telefonata al 113 mentre la donna stava abortendo. Qualcuno che dall’altro capo del filo avvisava la polizia: «Correte, in quell’ospedale si sta eseguendo un aborto illegale, si sta praticando un infanticidio». Non sappiamo se il denunciante sia rimasto anonimo, ma sappiamo dalla questura di Napoli che subito dopo la telefonata al 113 arrivata nel tardo pomeriggio è stato avvisato il magistrato e due pattuglie sono state inviate al Policlinico. Poi è arrivata la denuncia dell’Udi. S.S., la donna, era stata appena portata in sala operatoria per un raschiamento dopo aver espulso il feto come si fa in questi casi, cioè per parto indotto. Primo figlio, desiderato. Ma quando S.S. lo scorso 31 gennaio è andata a ritirare i risultati dell’amniocentesi: l’analisi diceva sindrome di Klinefelter. Un cromosoma in più, 6 neonati affetti ogni mille nati vivi. Il quadro clinico dice: insufficiente virilizzazione, testicoli piccoli, sterilità, elevata statura, ritardo mentale, difficoltà verbali. S.S non se l’è sentita. E così, nel rispetto e nei limiti della legge 194 come affermano gli stessi medici, è ricorsa all’aborto terapeutico. «Il feto presentava un’alterazione cromosomica - spiega ora il professor Nappi direttore di Ostetricia - . Se la gravidanza fosse stata portata a termine ci sarebbe stato il 40% di possibilità di un deficit mentale. La donna ha presentato un certificato psichiatrico della stessa struttura universitaria sul rischio di grave danno alla salute psichica, che ha autorizzato l’intervento».
Nei limiti della 194. Ma la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta e soprattutto la polizia ha fatto irruzione in un reparto. «Capisco che gli agenti fossero lì per fare il proprio lavoro - spiega il dottor Leone, il medico che ha in cura la donna - , ma in un momento tanto delicato e doloroso per una donna era necessario avere un po’ più di riguardo per la mia paziente. Era appena uscita dalla sala parto per un aborto». Parla S.S.: «Mi è stato chiesto se per abortire avevo pagato ed ho spiegato che non era stato così. I risultati dell’amniocentesi avevano accertato che il feto soffriva di un’anomalia cromosomica. Ero alla ventesima settimana, inizio della ventunesima». Dal punto di vista della legge - spiega Silvio Viale, ginecologo all’Ospedale S.Anna di Torino ed esponente Radicale - non vi è stata alcuna violazione e la procedura è stata applicata correttamente. «Per il cosiddetto aborto terapeutico è previsto l’utilizzo di farmaci, le prostaglandine, che hanno la funzione di indurre il travaglio. Se tali farmaci non hanno l’effetto previsto dopo la somministrazione di cinque candelette la procedura prevede un periodo di sospensione del trattamento, trascorso il quale si comincia un nuovo ciclo. Proprio ciò che hanno fatto i medici in questo caso. Questione diversa è invece quella relativa alla malformazione da cui era affetto il feto abortito, ovvero la sindrome di Klinefelter. Secondo alcuni - spiega detto Viale - non si tratterebbe di una malformazione tanto grave da meritare un aborto terapeutico. Tuttavia la 194 non prevede la possibilità di aborto oltre i 90 giorni per la malformazione del feto, ma solo per gli eventuali, gravi effetti psicologici che tale situazione può avere sulla madre». Ed è quello che è successo come spiega ancora il dottore Leone: «Nonostante 5 candelette di prostaglandina venerdì non c’è stata alcuna espulsione del feto. Abbiamo ripreso la stimolazione lunedì mattina, ed alle 12 il feto era già morto. La paziente è scesa in sala parto verso le 18 e quando è risalita intorno alle 20 ha trovato gli agenti ad aspettarla».

l’Unità 13.2.08
Biblioteche, il sapere si ferma al tornello
di Tobia Zevi


DAL NORD AL SUD, quelle italiane sono ricche di libri eppure non reggono il confronto con l’Europa. I loro problemi? Iniziano all’ingresso, con uno sbarramento...Poi ci sono i disservizi: l’orario, la prenotazione e un tetto per le richieste

Nell’era del business dei beni culturali, rischiamo di dimenticarcene uno: il libro. Le biblioteche italiane sono generalmente trascurate, pur essendo spesso assai ricche. Quali sono i loro problemi? «Basta entrare per percepire la differenza con quelle estere» spiega Matteo Motolese, associato di Storia della Lingua italiana alla Sapienza, che in pochi anni le ha frequentate da studente e poi come dottorando e ricercatore. «All’ingresso ti accoglie uno sbarramento, per esempio un tornello. Negli altri paesi, invece, l’accesso all’edificio è libero, mentre ci si accredita nelle sale di lettura». Potremmo disquisire sul rapporto tra testo e pubblico in una società protestante e in una cattolica, ma restiamo sul concreto: «La biblioteca deve essere uno strumento di condivisione del sapere» prosegue il professore «e l’architettura può agevolare l’incremento dei lettori. Non è solo un luogo di lavoro per studiosi, ma anche occasione di promozione culturale. Penso alla Public library di Seattle: una sezione per i bambini, un’ altra per l’analfabetismo, un’area centrale a forma di cuore, che rappresenta il fulcro dell’edificio». Da noi sembrerebbe un’eresia. «Dobbiamo unire la capacità di conservare a quella di coinvolgere, come facemmo 20 anni fa con i musei. La Biblioteca nazionale centrale di Roma ha cominciato questo percorso».
E proprio da questo gigante, con pregi e difetti, bisogna partire. Sette milioni di volumi tra cui quasi 120 mila autografi e una media di 50 mila acquisizioni ogni anno; 350 mila visitatori accompagnati da 315 dipendenti di ruolo; circa 28 chilometri di scaffalature, che moltiplicate per dieci piani fanno più o meno la distanza tra Roma e Napoli. Perché qui arriva tutto, in virtù della legge sul «deposito legale» riformata nel 2004: secondo questa norma ogni nuova pubblicazione deve essere inviata alle due Biblioteche nazionali centrali (Roma, appunto, e la gemella Firenze) e ad alcuni enti locali, sia che si tratti di un testo di valore sia che si tratti di un opuscolo qualunque. E quindi numeri da capogiro. «Ma gli utenti, giustamente, cercano l’informazione ed il servizio collegato (fotografie, fotocopie). Naturalmente in tempi brevi e ad un prezzo basso. Un po’ come quando, da militare di leva, chiedevo «una bevanda fresca, abbondante e che costi poco». E mi guadagnavo un gavettone.... L’ormai ex-soldato è Osvaldo Avallone, direttore della Biblioteca nazionale di Roma: «Abbiamo fatto grandissimi passi in avanti negli ultimi anni, nonostante i finanziamenti, tra 2001 e 2006, siano passati da 3,2 milioni di euro a circa 2,2. Ogni biblioteca ha i suoi problemi, che di solito sono strutturali, ed anche noi abbiamo i nostri».
La Biblioteca fu istituita al Collegio romano nel 1876 per volontà del ministro Ruggero Bonghi, essenzialmente composta dalla Biblioteca maior dei Gesuiti e dai fondi delle altre congregazioni religiose soppresse; l’operazione frettolosa fu gravida di conseguenze nel tempo, come dimostrarono numerose commissioni d’inchiesta. Rispetto all’altra biblioteca centrale, quella di Firenze (ospitata in un palazzo del 1936), l’edificio costruito nel 1975 al Castro Pretorio è assai più funzionale: «La dicotomia tra Roma e Firenze potrebbe essere risolta sul modello della Deutsche Bibliothek, tre sedi ma un’ unica amministrazione» ci spiegano dall’Associazione italiana biblioteche (AIB), «anche perché esistono differenze sostanziali: a Firenze viene circa un terzo del pubblico romano, ma più qualificato. Inoltre il nuovo regolamento ministeriale di fine 2007 consente a questi due enti un’ autonomia speciale anche dal punto di vista finanziario, con l’introduzione di meccanismi di fund-raising per migliorare i servizi». La Biblioteca di Roma è oggi un luogo gradevole, talvolta aperto ad eventi come la celebre Notte bianca, con in più una buona tavola calda. Anche se permangono disservizi ingiustificabili: il tetto di tre richieste contemporanee; i pomeriggi senza distribuzione; un orario estivo (il periodo degli studiosi stranieri) da terzo mondo; l’assenza di bibliografia internazionale; l’impossibilità di prenotare i libri sul web. «Si dovrebbe ripartire dal wireless» afferma deciso il professor Motolese «perché la rete oggi rappresenta l’accesso ai testi. Un modo di condividere un patrimonio ad un livello alto, superando la cultura dei congressi». Con le poche risorse a disposizione qui si sono fatti miracoli: «C’è il deficit di spazio. Ma un’altra grande questione è quella del personale» conclude Avallone «sono qui da cinque anni e sono al quarto contratto. Non c’è, in questo settore, un’ attenzione alle risorse umane. I dirigenti non sono tutelati alla scadenza del vincolo, e potrebbero non essere ricollocati. Per non parlare di tutte gli atipici - servizio civile, volontari, stagisti - senza i quali non potremmo andare avanti e che, senza garanzie, non possono fidelizzarsi, pur essendo spesso motivati e preparati».
Un problema, questo del lavoro precario tra i bibliotecari, che da qualche anno ha trovato in rete la sua valvola di sfogo: www.biblioatipici.it racconta di storie professionali fondate sull’incertezza, acuite dalla sensazione di essere diversi («sono un atipico tra gli atipici»). Un tema di grande attualità perché in questo campo l’ultimo concorso nazionale per funzionari risale al 1983 e i posti a tempo indeterminato - già nell’ordine delle poche decine - diminuiscono di anno in anno. Per non parlare di una ricerca del 2003 della Regione Sardegna (peraltro tra le più virtuose), citata dal Rapporto sulle biblioteche italiane dell’Aib 2005-2006, che attestava i lavoratori atipici al 180,9% rispetto ai bibliotecari di ruolo. Quasi il doppio.
«In Italia il patrimonio librario è ricco e la preparazione degli addetti è cresciuta negli ultimi anni, ma nel complesso risulta difficile essere ottimisti...» spiega Paolo Traniello, ordinario di Bibliografia e Biblioteconomia a Roma 3 ed autore per il Mulino del libro Storia delle biblioteche in Italia dall’Unità ad oggi. «Ci sono servizi che funzionano ma anche un deficit in termini di qualità di gestione e di fondi. Bisogna considerare che il sistema bibliotecario è assai variegato: vi sono le biblioteche pubbliche statali (circa 40), tra cui quelle dei ministeri, dei tribunali e di alcuni monumenti nazionali (per esempio Montecassino); poi tutte le locali, previste dall’articolo 117 che attribuisce alle Regioni la responsabilità in materia. E poi tutte quelle ecclesiastiche e dei monasteri...». Negli anni l’importanza delle biblioteche nell’Europa a 25 non sembra essere calata: sono circa 138 milioni gli europei - dati sempre Rapporto AIB - che le frequentano e ogni europeo vi si reca in media 7 volte all’anno, quasi 8 nell’Europa a 15. Vanno assai più forte le istituzioni locali ed universitarie (anche grazie all’enorme aumento degli studenti), mentre le biblioteche nazionali, oggetto di investimenti straordinari (per i nuovi edifici di Parigi, Londra e Francoforte), mostrano segnali di sofferenza. «Negli ultimi anni - ci dice ancora il professor Traniello - si sono sviluppati, a livello locale, soprattutto comunale, molti poli d’eccellenza con servizi di ottima qualità. Si pensi alla “Berio” di Genova, alla “Sala Borsa” di Bologna, alla “S. Giorgio” di Pistoia, ma anche, per esempio, a Vimercate, che nei primi anni Novanta ha avuto finanziamenti per sette miliardi e mezzo di lire. Un fermento che manca a livello di amministrazione centrale. E che purtroppo non tocca il Mezzogiorno, con l’eccezione significativa della Sardegna».
Un capitolo a parte merita la digitalizzazione, che ha compiuto straordinari progressi: l’indice OPAC mette in rete la maggioranza delle biblioteche italiane (www.opac.sbn.it), e sono già partiti i grandi progetti per rendere scaricabili cinquecentine (Edit16) e manoscritti. Il tutto nel quadro della Biblioteca Digitale Italiana, varata nel 2000 dal Ministero dei per i Beni Culturali e coordinata dalla Direzione dei Beni librari. Una mole gigantesca di lavoro ed una vera rivoluzione potenziale, con il dubbio amletico se debbano essere informatizzati solamente gli indici o tutto il testo, come Google sta già facendo. «Il valore storico e civile di una biblioteca nella comunità non è sostituibile da una biblioteca digitale, che è una prospettiva positiva e realistica, ma non esclusiva» chiosa ancora Traniello. E sono in molti tra gli addetti ai lavori che, un po’ per difendere il posto un po’ per affetto verso la carta stampata, ripetono: «Una biblioteca è una biblioteca anche in presenza delle nuove tecnologie».

Corriere della Sera 13.2.08
Il «giuramento» di Pannella «Chiederò un impegno su giustizia e riforme economiche»
«Con Walter non farò il laicista»
di Andrea Garibaldi


ROMA — «Abbiamo conquistato un incontro con Veltroni — dice Marco Pannella — Finora avevamo solo letto sui giornali i rifiuti del Pd nei confronti dei radicali...».
L'incontro è per questa mattina, ore 9 e 30, al loft del Pd, piazza Sant'Anastasia. Come pensano i radicali di convincere Veltroni a fare coalizione con loro? «Diremo: mettiamo al centro del programma due temi. La giustizia e le riforme economiche e strutturali richieste da Bankitalia, dalla Ue, dal Fondo monetario internazionale e dall'Osce, riforme come quelle sollecitate dagli economisti Ichino e Boeri». Quindi, nessuna pregiudiziale laicista? «Non chiediamo giuramenti laicisti. Non possiamo pretendere che Veltroni e Rutelli si mettano a fare i laici. Anche se...». Anche se? «Fuori dall'incontro del loft, noto che la Binetti si è dichiarata totalmente d'accordo con Berlusconi e Ferrara, sull'aborto».
Pannella, Bonino, Cappato e Bernardini diranno altre cose a Veltroni per convincerlo. Per esempio, che una coalizione permetterebbe di «non rassegnarsi a perdere». Secondo Pannella, «la destra si presenta gravata da condizionamenti vari, in base ai quali Berlusconi, fino all'ultimo momento, aprirà o chiuderà porte. Noi invece possiamo davvero unire le forze riformatrici e creare una valida alternativa politica non agibile fino ad oggi».
Spiega Pannella che «il mondo comunista conservatore» non fa più parte della possibile coalizione e lo stesso vale per Mastella: «Ci si può quindi presentare con prestigio e autorevolezza per mettere mano alle riforme sociali ed economiche che tutto il mondo ci chiede. Dare finalmente il via a un rinnovamento libero dalle precedenti pesantezze, con una coalizione omogenea, di sicuro più forte della gestione monarchica di un partito».
Se nell'incontro di questa mattina Veltroni proponesse ai radicali di entrare nelle liste Pd, senza simbolo né nome? La risposta è di Emma Bonino: «La nostra proposta è chiara. Se loro ne faranno altre, staremo a sentire».

Liberazione 13.2.08
Franco Giordano: «Lavoro, moralità, laicità. Questa la sfida»
Dal forum di Rifondazione, intervento a tutto campo del segretario:
«Il nuovo progetto politico non può essere un mero cartello elettorale»
di Castalda Musacchio


«Ci sono cose che appaiono e sono incomprensibili. E' legge dello Stato l'utilizzo delle risorse dell'extragettito solo ed esclusivamente a favore del lavoro dipendente. Sinora si è costantemente sottostimata la crescita e così sono risultati non spesi svariati milioni di euro. Le risorse ci sono, è un dovere morale detassare il lavoro dipendente e intervenire su retribuzioni e pensioni. Chi deve vivere con mille euro al mese non può aspettare ancora. Il Governo proponga immediatamente in Parlamento questo provvedimento. Vogliamo vedere in faccia coloro che si opporranno a questa elementare e sacrosanta norma di redistribuzione sociale». E' così che, mentre il calo delle tasse e l'aumento dei salari scalda la campagna elettorale, e si accende la nuova polemica sul "Tesoretto" che Franco Giordano, il segretario di Rifondazione, puntualizza quali sono i nuovi temi della battaglia politica che la Sinistra - l'Arcobaleno dovrà affrontare. E, tra una replica a Padoa Schioppa, e le risposte, tante, fornite sul forum a disposizione di tutti del sito di Rifondazione (www.rifondazione.it) non manca occasione per fissare su un timone preciso quale è la rotta che la nuova Sinistra è decisa ad inseguire: non solo redistribuzione del reddito ma diritti. Diritti civili, sociali, individuali che continuano ad essere negati ai più. E ancora lavoro, lotta alla precarietà, difesa dell'ambiente inteso come un no netto al nucleare e sì fermo alle energie rinnovabili, e ancora laicità. In uno slogan: riscoperta di «una moralità pubblica che deve tornare ad essere questione centrale nel paese».
E così le risposte ai tanti che affollano il forum toccano i temi al centro del dibattito che vede ben delineati gli schieramenti che si oppongono. Da una parte il Pd e il Pdl, dall'altra l'altra Sinistra, quel nuovo progetto che, sottolinea Giordano, «non può essere un mero cartello elettorale, ma deve, al contrario, coinvolgere, far partecipare e decidere anche i tanti, forse i più, che sono fuori dalle quattro formazioni politiche». Un progetto su cui Rifondazione comunista ha puntato, anzi lo ha inserito «al centro della sua scelta strategica» e - sottolinea Giordano - «anche congressuale». Ed è a questo proposito che - spiega ancora il segretario Prc - «raccogliamo l'appello di diverse associazioni ad aprire immediatamente nel paese una fase costituente in cui soggetti politici organizzati, associazioni, realtà di movimento, esperienze di conflitto sociale, singoli individui decidono di aderire direttamente al soggetto unitario e cominciano sin d'ora a dargli corpo». Il percorso non è solo avviato ma si va corposamente costruendo. E si esprime con chiarezza. Nei contenuti soprattutto. A partire da quel tema della democrazia di genere che - sottolinea ancora Giordano - «è assolutamente fondativo». A tal proposito la Sinistra - auspica il segretario Prc - «proporrà liste che abbiano l'alternanza uomo/donna e la certezza che questa alternanza possa trovare uno sbocco nella rappresentanza». Del resto Rifondazione già due anni fa risultò essere la forza che portò in parlamento il 40% di donne, «in assoluto la forza che ne ha portate di gran lunga di più. Oggi si tratterebbe di fare uno sforzo, tutti insieme, per un 10% in più». Dalla questione di genere al riconoscimento di quei diritti che sono negati il passo è breve. «Tanto più forte sarà la Sinistra», aggiunge, «tanto più avremo un'influenza parlamentare sulla materia dei diritti civili». Piena sintonia dunque con il movimento Lgbtq, «sintonia su ciascuna delle proposte avanzate». «Il nostro - puntualizza Giordano - da questo punto di vista resta un paese del tutto incivile. Abbiamo dovuto fare mediazioni pur di ottenere un qualche risultato, ma le contraddizioni interne al Pd hanno reso impossibile tutto. Oggi è bene che l'identità della Sinistra faccia emergere in tutta la sua forza il tema della laicità». E proprio la laicità sarà il perno intorno a cui si muoverà la Sinistra-l'Arcobaleno. Laicità che coinvolge il rispetto di tutti e, soprattutto, di tutte. «Non c'è ombra di dubbio infatti: siamo contrari a qualsiasi ipotesi di moratoria per l'aborto, l'autodeterminazione delle donne è principio non derogabile su una materia delicata come questa». E proprio su questo tema «il Pd è inaffidabile». Toccherà alla nuova Sinistra «contrastare ogni tentativo di mediazione al ribasso su leggi importanti a partire dalla 194». Laicità dunque ma anche moralità «che deve tornare ad essere questione centrale nel paese». Così come la riduzione dei costi e dei privilegi della politica che resta un'altra delle battaglie su cui la Sinistra è decisa ad incidere. «Abbiamo depositato per primi - ricorda - un testo di legge che prevede, per tutti i lavori pubblici, un minimo ed un massimo senza grandi sperequazioni. Ma in Italia - aggiunge il segretario di Rifondazione - esiste una questione morale che è fatta di degrado della politica, di commistione con il malaffare di plurincarichi. Credo sia altresì utile - sottolinea - valorizzare le risorse pubbliche e ridurre consulenze e Cda». Moralità dunque, laicità, lavoro, diritti: sono questi i temi su cui la nuova Sinistra si appresta a lanciare la sua sfida. «E - conclude - dopo la scelta del simbolo non si può che accelerare per la costruzione del nuovo».

Liberazione 13.2.08
Non esiste il reato di feticidio, casomai esiste l'infanticidio
di Laura Eduati


Non esiste il reato di feticidio, casomai esiste l'infanticidio. Nel codice penale italiano viene definita così la soppressione di un bambino appena nato con parto naturale.
Ma il feticidio no, è un'invenzione degli agenti che hanno fatto irruzione nella sala di interruzione di gravidanza del Policlinico Ferdinando II di Napoli. Seminando lo sgomento tra i medici e le donne impegnate a difendere la 194.
«Un fatto di enorme gravità» commenta a caldo l'avvocata femminista milanese Maria Grazia Campari. «A mia memoria non è mai successo qualcosa del genere negli ultimi 30 anni. E sicuramente è colpa di un clima anti-abortista pompato dal Papa e dalla moratoria di Ferrara che purtroppo trova simpatizzanti a destra e a manca».
L'Udi, l'Unione delle donne in Italia che ha denunciato l'episodio, ha deciso di scendere in piazza giovedì a Napoli per protestare. «Manifestare non è più sufficiente» continua, amara, Campari. «I movimenti femminili sono stati carenti negli aspetti giuridici, ora è tempo di ricorrere ai tribunali». Per denunciare cosa? «Beh, ad esempio quegli ospedali che non garantiscono l'interruzione di gravidanza perché tutti i medici sono obiettori, come accade in Lombardia».
Tempi duri, prosegue la ginecologa Mirella Parachini del S. Filippo Neri di Roma. Dal semplice dibattito sui giornali, dice, si è passati alle vie di fatto. Parachini è membro dell'associazione Luca Coscioni, da sempre in prima linea per la difesa del diritto all'aborto: «L'articolo 9 della legge è completamente disatteso: quando un ospedale non può garantire l'aborto è obbligato a cercare una struttura dove sia possibile fare l'intervento. Ma questo non succede».
La 194 garantisce l'aborto terapeutico (oltre il novantesimo giorno) quando la gravidanza comporta seri rischi alla salute della donna o in caso di gravi malformazioni del feto con conseguente pericolo per la salute fisica e psichica della gestante. La legge, approvata nel 1978, non precisa i limiti per l'aborto terapeutico che oggi sono fissati convenzionalmente attorno alla 22-23ma settimana; e impone che nel caso il feto sia provvisto di vita autonoma, il medico deve fare in modo di salvaguardarne l'esistenza.
Il dibattito di queste settimane, come quello scaturito in seguito al documento dei quattro ginecologi romani che ordina la rianimazione dei feti anche contro la volontà della madre, sta tutto qui. E tra l'altro sono soltanto lo 0,7% gli aborti oltre la ventesima settimana, cioè gli interventi che in via eccezionale potrebbero fare abortire feti vivi. «Due di quei quattro ginecologi romani lavorano in strutture ospedaliere universitarie dove manca il reparto di ostetricia» denuncia Parachini, «e dunque perché fanno la morale a persone che hanno le mani in pasta tutti i giorni?».
Il tempo delle parole, sembra di capire, è finito. Campari propone azioni giuridiche, la ginecologa del San Filippo Neri controbatte: «Sì, dovremmo diventare più aggressive. Ma ricordiamo che le donne che scelgono di abortire soffrono e non hanno voglia di lottare. In questo senso allora serve il movimento, ma chi lotta da 30 anni accusa stanchezza mentre le nuove generazioni sembrano non percepire il pericolo».
Un ginecologo che pratica un aborto non può commettere il reato di infanticidio, semmai può violare la 194 nel caso non dia le cure necessarie ad un feto dotato di vita autonoma o pratica l'aborto terapeutico senza giustificazione medica (da uno a quattro anni di carcere). Lo stabilisce la legge.
Un compromesso che tiene conto della possibilità di autodeterminazione della donna e vieta il cosiddetto aborto selvaggio. La magistratura, confermano gli esperti consultati da Liberazione , ha certo il diritto di verificare se esistono i presupposti per l'aborto terapeutico, se è vero che la malformazione del feto provoca gravi disagi psichici alla donna che desidera abortire. Ma non sfugge la crescente criminalizzazione delle donne, dipinte come assassine di bambini indifesi da un fronte ultracattolico, quando invece è una legge dello Stato che garantisce l'intervento.
«Soltanto la donna può gestire il proprio corpo» sbotta l'avvocata Teresa Manente di Differenza donna, associazione in difesa delle vittime della violenza domestica. Stupefatta, Manente cerca di trovare le parole giuste per esprimere la rabbia: «C'è la voglia di far riesplodere la cultura patriarcale, l'uomo vuole gestire il potere naturale delle donne, quello di procreare».
«Questo è solo l'inizio» dice una giudice milanese che preferisce rimanere anonima.

Liberazione 13.2.08
Marramao evoca Benjamin
la politica è azione nell'attimo
di Giacomo Marramao


Nel suo ultimo libro "La passione del presente" lo studioso ridà alla filosofia il compito di analizzare il proprio tempo. E riprende il pensiero del filosofo tedesco per il quale la potenza rivoluzionaria del messianico è tale quando è colta nella sua specificità

Pubblichiamo stralci dell'ultimo libro di Giacomo Marramao "La passione del presente" (Bollati Boringhieri, pp. 291, euro 10,00).

Nessun autore come Walter Benjamin è riuscito a esprimere la segreta cifra messianica che percorre, come una fenditura verticale, la struttura antagonistica della nostra modernità-mondo. E' questa decisiva circostanza a fare delle tesi «sul concetto di storia» un testo letteralmente estremo: a un tempo testamentario e testimoniale. Un testo che pare rivolto direttamente a noi: a noi tutti, collettivamente intesi, ma anche a ciascuno di noi, a chiunque sia in grado di coglierne la straordinaria tensione interna.
La chiave di lettura delle tesi Über den Begriff der Geschichte , che intendo qui prospettare, è espressa in forma deliberatamente provocatoria da un ossimoro: messianismo senza attesa . Sintagma letteralmente para-dossale : in contrasto con la doxa , con ogni common sense o opinione corrente circa i caratteri tradizionalmente attribuiti al «messianico». Come può darsi, in senso proprio, messianismo senza «orizzonte di aspettativa»: a prescindere, appunto, dalla dimensione dell'attesa messianica? E il venir meno dell'attesa non costituisce, allora, ragion sufficiente del dissolvimento della tensione messianica in quanto tale? Si trova qui racchiusa - è mia ferma convinzione - la cifra segreta di un testo a un tempo translucido ed enigmatico, che può ricevere un senso compiuto solo ricomponendo la costellazione multipolare dei suoi referenti concettuali e simbolici: reinterpretando, cioè, la radicalità del suo nucleo teologico-politico nella forma di un messianismo non semplicemente secolarizzato (come accade alle filosofie della storia stigmatizzate criticamente da Karl Löwith), ma - insieme - postsecolare e postreligioso. In breve: il tratto paradossale del messaggio benjaminiano di «redenzione» consiste nel suo simultaneo collocarsi al di là del profilo ancipite, del volto di Giano, del Futurismus occidentale, simboleggiato per un verso dalla promessa di salvezza delle religioni monoteistiche, per l'altro dalla Fortschrittsgläubigkeit della moderna filosofia della storia. Cercherò, dunque, di dimostrare come la singolare figura di un messianismo-senza-attesa si leghi in Benjamin alla proposta di un «Begriff der Geschichte» non dopo la fine della Storia, bensì dopo la fine della fede nella Storia.

Fine dei tempi e tempo della fine
La chiave esplicativa ci è fornita da quella che - nell'importante versione dattiloscritta rinvenuta da Giorgio Agamben - si trova numerata come tesi XVIII. Si tratta di una tesi cruciale, la cui traiettoria prospetta una declinazione del messianismo esattamente nella direzione che abbiamo prima messo in evidenza. Afferma Benjamin nell'incipit della tesi: «Nell'idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l'idea del tempo messianico». E subito dopo aggiunge: «Ed era giusto così». La degenerazione avviene più tardi, nel momento in cui la veduta ideologica affermatasi nel movimento operaio socialdemocratico opera una sorta di sublimazione della Vorstellung in Ideal . «La sciagura sopravviene per il fatto che la socialdemocrazia elevò a "ideale" questa idea». Il piano inclinato verso la disattivazione della carica politico-messianica ha luogo, pertanto, con la dottrina neokantiana del «compito infinito» (divenuta la Schulphilosophie , la «scolastica», del Partito socialdemocratico - precisa Benjamin - con intellettuali e dirigenti come Robert Schmidt, August Stadler, Paul Natorp e Karl Vorländer). Ma, una volta definito il fine della società senza classi come un movimento asintotico orientato da uno schema ideale, «il tempo omogeneo e vuoto si trasformò, per così dire, in un'anticamera nella quale si poteva attendere, con maggiore o minore tranquillità, l'ingresso della situazione rivoluzionaria». Il carattere passivo dell'attesa non è, allora, una prerogativa del messianico, ma piuttosto di un concetto trascendentale e indifferenziato del tempo storico, incapace di cogliere la costellazione insieme singolare e «vertebrata» del presente. E infatti, proseguendo nella lettura della stessa tesi, troviamo il tema dell'«attimo» ( Augenblick ). E' ormai acclarato, grazie ai risultati dell'esegesi benjaminiana degli ultimi anni, che la categoria di Augenblick svolge, nel corpo delle tesi, una funzione nettamente distinta da quella di Jetztzeit : dell'«adesso» o del «tempo-ora». Perché, dunque, in questo cruciale passaggio della tesi, si parla di Augenblick e non di Jetztzeit : di attimo e non di tempo dell'adesso? A questa domanda non vi è, a mio avviso, che una sola plausibile risposta: perché soltanto se noi agiamo per affrettare l'avvento, l'azione rivoluzionaria può essere definita un'azione propriamente messianica. Ma - qui sta il punto decisivo - ogni monade del tempo storico è suscettibile, se adeguatamente afferrata nel concetto, di essere trasformata in messianische Endzeit : in messianico tempo-della-fine. Ma andiamo, allora, direttamente al testo: «In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria - essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L'ingresso in questa stanza coincide del tutto con l'azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un'azione messianica».

L'attimo del pericolo
Reinterpretato alla luce di questo cruciale passaggio delle tesi, il messianico benjaminiano acquista un senso nuovo e più intenso. Più precisamente: esso si colloca al punto di incrocio tra «attimo» ( Augenblick ) e «passato» ( Vergangenheit ) - fuori di ogni simbolica infuturante dell'attesa. Ogni istante reca in sé la dynamis , la potenza o virtualità del messianico: a condizione che esso venga concepito - begriffen : ossia, alla lettera, «colto, afferrato» - nella sua singolare, irripetibile, specificità. E solo quando l'azione politica si fa riconoscere come azione messianica, la Jetztzeit si converte in Augenblick . Ma vi è di più. Le costellazioni del tempo-ora si convertono nell'attimo non in virtù di una tensione utopica verso il futuro, ma per il fatto che il «ricordo» ( Erinnerung ) del passato degli oppressi - com'è detto nella tesi VI - «balena in un attimo di pericolo». E' nell'immagine del passato, dunque, e non in una qualche «progettazione» del futuro, che si trova depositata la chiave della conversione reciproca di messianismo e materialismo storico: «Per il materialismo storico
l'importante è trattenere un'immagine del passato [ Bild der Vergangenheit ] nel modo in cui si impone imprevista nell'attimo del pericolo». E' in quell'imprevisto e imprevedibile «balenare» che deve entrare in campo l'azione rivoluzionaria. Ed è precisamente in quell'attimo che ci troviamo nel tempo propriamente messianico. Ma se messianico non è in senso proprio il tempo dell'attesa, esso non è neppure la mera Jetztzeit . La densità monadica del Nunc , dell'Ora, dell'Adesso, è piuttosto l'oggetto dell'interprete: dello storico capace di cogliere la costellazione determinata del presente nella Darstellung . Il tempo messianico è invece tempo dell'azione: poiché solo nell'azione si diviene soggetti rivoluzionari, soggetti in grado di operare una conversione del politico nel messianico.

il Riformista 13.2.08
L'Arcobaleno, anomalia positiva
La leadership di Bertinotti non dovrebbe preoccupare
di Federico Coen


La crisi del governo Prodi, per il modo in cui è avvenuta e per gli sviluppi politici che ne sono seguiti, non fa che aggravare l'anomalia italiana rispetto all'Europa. Prima di tutto, la coalizione del cosiddetto Ulivo è andata in crisi non per il fallimento di alcuni dei suoi impegni programmatici ma per il capriccio di un personaggio come Mastella al quale era stata incautamente assegnata la funzione di ministro della Giustizia e che di questa sua carica si è servito a lungo per bloccare le inchieste giudiziarie nelle quali era personalmente coinvolto, anziché darsi carico dell'inefficienza e della paralisi ben nota del nostro sistema giudiziario.
In secondo luogo, nonostante i meritori tentativi contrari compiuti dal presidente Napolitano, saremo costretti a eleggere il 13 aprile il nuovo Parlamento sulla base di una legge elettorale che tutti i partiti di destra e di sinistra considerano pessima, senza tuttavia impegnarsi a radicalmente modificarla. Una contraddizione che non ha riscontro in nessuna delle altre elezioni politiche che si svolgono in Europa, e che avrà inevitabilmente le sue ripercussioni sul futuro Parlamento nazionale.
L'anomalia italiana si riproduce nel modo in cui i partiti politici si vanno preparando al voto di aprile. Sul lato sinistro, la novità predicata da Walter Veltroni con il suo Partito democratico appare niente altro che un ritorno al passato: a un passato remoto come quello che nell'Assemblea Costituente unì i comunisti e i democristiani nel voto sul famigerato articolo 7 della Costituzione che costituzionalizzò i Patti Lateranensi; a un passato prossimo come quello che ancora una volta è destinato a mantenere la sinistra italiana fuori dello schieramento socialista europeo. Non è un caso se la Costituente Socialista di Enrico Boselli è stata tenuta fuori dal partito di Veltroni e di Rutelli, ed è costretta a raccogliere un gruppetto di socialisti craxiani senza nessuna prospettiva.
Tuttavia, di fronte a queste anomalie negative, c'è finalmente un'anomalia positiva, con la nascita della cosiddetta Sinistra Arcobaleno, in cui la sinistra del vecchio partito dei Ds, ormai sepolto, si unisce alla ex sinistra massimalista di Rifondazione in un progetto innovativo.
A tale proposito, la leadership di Fausto Bertinotti non dovrebbe suscitare preoccupazioni, dal momento che il personaggio - come ha notato Giovanni Pieraccini nell'articolo pubblicato sul Riformista il 29 gennaio scorso - si è liberato ormai da un pezzo del massimalismo operista di stampo marxista che coltivava in passato. Resta naturalmente da chiarire quali saranno in concreto le principali opzioni programmatiche della Sinistra Arcobaleno. In politica estera, la scelta principale dovrà consistere ovviamente nell'adesione al Pse a cui Veltroni e i suoi seguaci margheritini sono nettamente contrari.
Non meno importante sarà la tutela della laicità dello Stato contro l'invadenza della Chiesa cattolica che si avvale dei Patti Lateranensi per mantenere immensi privilegi fiscali che non hanno riscontro nel resto d'Europa, e che negli ultimi tempi ha sferrato pesanti attacchi contro la legislazione italiana in materia di aborto e di divorzio.
Non meno importante sarà un programma finalizzato a sanare due piaghe che colpiscono la vita quotidiana degli italiani: la paralisi della giustizia penale e civile e la crisi dell'assistenza sanitaria che ha il suo epicentro nelle regioni meridionali.
E ancora l'opzione ambientalista assunta dalla Sinistra Arcobaleno dovrà tradursi in un programma specifico per porre fine alla manomissione dell'ambiente naturale che colpisce gran parte dell'agricoltura italiana. Ed è forse superfluo ricordare a chi se ne occupa da sempre la condizione di precarietà in cui vive tanta parte dei lavoratori dipendenti; una condizione che ha il suo riflesso nella moltiplicazione in Italia più che altrove delle cosiddette "morti bianche".
A mio avviso, non si tratta di stipulare specifici accordi programmatici con i veltroniani o con altri eventuali soggetti di sinistra. Si tratta piuttosto di coinvolgere nel sostegno ai programmi della Sinistra Arcobaleno le tante organizzazioni che già istituzionalmente se ne danno carico: dai sindacati di tutte le Confederazioni alle numerose associazioni dei consumatori, alla Lega Ambiente, ai Medici Senza Frontiere, e così via. E si tratta soprattutto di coinvolgere tutte queste organizzazioni nella scelta dei candidati alle elezioni di primavera, superando la tradizionale tendenza dei partiti storici a imporre dall'alto le proprie scelte elettorali. Così davvero l'Italia potrà cambiare!

il Riformista 13.2.08
La fermezza del Psoe
Caro direttore, mercoledì scorso il suo giornale apriva con un bellissimo commento sul tifo e l'invidia suscitati, nei nostri cuori teocratizzati, dalla fermezza del Psoe spagnolo in tema di laicità dello Stato. Ora a questa verità si aggiunge la notizia che possiamo invidiare gli spagnoli in genere, dal momento che la loro voglia di libertà è tale da suggerire persino al Partito popolare di Rajoy di tenere la Chiesa fuori dalla campagna elettorale e di affermare che le leggi in tema di diritti civili firmate da Zapatero non verrebbero toccate in caso di avvicendamento al governo. Da noi? Giusto il contrario. E mentre qui manca pochissimo che nei programmi elettorali bipartisan venga inserito il concorso in omicidio per le donne che abortiscono spontaneamente, chiediamo ai cugini spagnoli se non hanno per caso un posticino in Galizia, chessò a Santiago de Compostela, per ospitare un'enclave vaticana e lenire almeno parzialmente la nostra invidia?
Paolo Izzo

martedì 12 febbraio 2008

l’Unità 12.2.08
Coppie gay e «no» alla legge Biagi: Bertinotti inizia la corsa
Il leader di Sinistra arcobaleno entra in campagna elettorale. E lancia frecciate a Prodi...
di Giuseppe Vittori


Parte la «competition» con il Pd: il voto a sinistra influenzerà le scelte dei democratici

HA GIÀ CHIARE le parole della sua campagna elettorale, Fausto Bertinotti: dal riconoscimento delle coppie gay, al «no» alla legge Biagi, passando per il 50% di candidature rosa. Il presidente della Camera e leader della Sinistra arcobaleno ieri ha di fatto «rotto gli argini» in una serie di appuntamenti mediatici, nei quali ha fissato i suoi paletti e ha fatto intendere come sarà la sua competition con il Pd. In cui non mancano frecciate agli inciampi del governo Prodi. La giornata era iniziata con una intervista a Radio 105, in cui ha spaziato dall’apprezzamento per Berlusconi - «anche se ci separano distanze politiche abissali» - fino alle sue presenze abituali ai salotti politici, rivendicata con fermezza»: «Non mi pento di frequentarli. Da sempre Lella ed io abbiamo fatto della frequentazione dei tempi non impegnati della politica una scelta di assoluta libertà. Penso che una società chiusa, dove ognuno sta nel suo mondo, piace tanto solo ai conservatori. La reclusione e il ghetto sono scelte verso cui ci battiamo moltissimo». Poi i capisaldi: «Se dovessimo tornare al governo sia subito archiviata la legge Biagi. Del resto era già così nel precedente programma del centro-sinistra e purtroppo non è stato fatto». Poi capitolo diritti civili: «Nel programma del centrosinistra avevamo il riconoscimento delle unioni di fatto che non è stato realizzato per la pressione delle forze centriste e moderate. Se andassimo al Governo riprenderei da lì, proponendo certamente il nostro sì alle unioni gay». «Penso che i diritti della persona - prosegue - siano una frontiera necessaria all’Europa per il presente ed il futuro, e che su questo terreno ci voglia un riconoscimento delle diversità e dei diritti della persona come elemento fondativo della nuova cittadinanza». Quote rosa: «Per noi il 50% delle candidature rosa rimane un obiettivo primario». Emergenza rifiuti: «Il governo è stato fatto cadere non dall’immondizia ma da Mastella. Quanto alla vicenda campana, ci sono responsabilità oggettive, colpevoli complicità con il peso dominante di grandi aziende, che hanno fatto il bello ed il cattivo tempo». Con stoccata a Bassolino: non può diventare un capro espiatorio, ma occorre che ora decida lui se fare un passo indietro. In serata chiusura con il Tg1: «Il voto utile - dice contestando l’invito di Berlusconi - è quello dato alla Sinistra arcobaleno: utilissimo, persino influente», perché quanto più forte sarà la sinistra, tanto più il Pd invece di essere «un soggetto di centro» dovrà tenere conto delle istanze della sinistra.

l’Unità 12.2.08
Il vertice della sinistra
Oggi i leader scioglieranno il nodo del simbolo


ROMA Due «tavoli», uno al mattino sul programma, uno nel pomeriggio sul simbolo, con i segretari, sullo sfondo la direzione del Pdci riunita per dare via libera a Oliviero Diliberto, finora strenuo difensore dei simboli di partito (e quindi della falce e martello); infine, in serata, Fausto Bertinotti ospite di Ballarò, su Rai tre: se non si impunteranno sull’ennesimo braccio di ferro, oggi le forze della Sinistra arcobaleno (Prc, Pdci, Verdi e Sd) daranno il via alla campagna elettorale. Il tempo stringe ma in realtà sono molte le questioni ancora aperte: sul simbolo decideranno i segretari, ma nei giorni scorsi da Rifondazione avevano annunciato un sondaggio sul quesito “arcobaleno da solo o con i simboli di partito?”. Sondaggio del quale si sono perse le tracce: ai vertici del Prc e degli altri partiti nessuno sa nemmeno a quale agenzia sia stato affidato, c’è chi a mezza voce ne esclude perfino l’esistenza. «Del resto, qualunque fosse l’esito di un eventuale sondaggio, dopo la pregiudiziale posta da Sd non si potrebbe certo reinserire la falce e martello», fa notare una fonte Arcobaleno. Dal momento che grandi distanze programmatiche tra i quattro partiti non si intravedono, la partita si giocherà soprattutto sulla composizione delle liste.

Repubblica 12.2.08
Iniziativa dedicata ai firmatari dell'appello della Sapienza. Domenica dibattito con Bernardini, Cosmelli e Frova
"Darwin day" per i fisici del no a Ratzinger


ROMA - Tornano i Darwin Day dedicati quest´anno ai fisici della Sapienza, perché «hanno dato il segnale di essere laici in un panorama culturale e politico che non lo è».
L´Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uarr) che organizza gli eventi per ricordare i valori della scienza e del pensiero razionale ha deciso di rendere omaggio al gesto dei professori, la lettera al rettore in cui si esprimevano perplessità sull´invito al Papa in occasione dell´inaugurazione dell´anno accademico.
«Questa dedica è un supporto alla loro iniziativa in favore della laicità dell´università pubblica», dice Francesco Paoletti, membro del comitato direttivo nazionale dell´Uaar. Che chiarisce: «La laicità non è monopolio dei non credenti, è un codice comportamentale che si adotta per relazionarsi con il prossimo».
Più di 30 eventi sono previsti oggi in tutta Italia per ricordare il 199mo anniversario della nascita di Darwin, altri tutta la settimana. E domenica a Roma tornano a parlare i protagonisti della polemica che si è innescata dopo la rinuncia di Ratzinger alla visita dell´ateneo: Carlo Bernardini, Carlo Cosmelli e Andrea Frova animeranno l´incontro "Fisici, atto secondo". Non temono nuove polemiche dall´iniziativa dell´Uaar i "fisici", già accusati di essere cattivi maestri. «Non siamo naturalisti filosofici, ma metodologici», racconta Cosmelli. «Sono cattolico come altri che hanno firmato la lettera. E poi la questione della Sapienza è chiusa, ora è il momento di parlare di cose serie». Punto e a capo, dice il professore. Ecco, che cosa è quindi per voi "l´atto secondo" come dal tema dell´incontro? «Significa iniziare ragionare a partire dai temi concreti su cui si esercita l´influenza della chiesa nell´etica e nella morale degli stati laici».
(p. co.)

Repubblica 12.2.08
L’America di Mc Carthy ossessionata dal nemico
di Vittorio Zucconi


L’ostrakon
Dal coccio che gli ateniesi usavano per esiliare un personaggio sgradito, al "blackballing", escludere con la pallina nera, che ebbe la sua apoteosi nella caccia alle streghe del New England
Anche una democrazia forte come quella statunitense può degenerare. Il caso Nixon

Il "memorandum", la proposta segreta, atterrò sulla scrivania del presidente Richard Nixon il 16 agosto del 1971. Firmata dall´avvocato Chuck Colson, consigliere legale della Casa Bianca, andava diritta al punto, nel linguaggio un po´ ruvido tanto caro al presidente. «... Per dirla chiara, mister president, dobbiamo cercare di usare tutte le leve del potere federale, dall´ufficio della tasse all´Fbi, per cercare di fottere i nostri avversari e oppositori...». Alla proposta, era acclusa una lista iniziale di 20 nomi che il consigliere aveva compilato come nemici da "fottere" al più presto. Senatori, deputati, uomini d´affari, attori come Paul Newman, Jane Fonda, Barbra Streisand e Bill Cosby, giornalisti come i direttori del Washington Post e del Los Angeles Times, produttori di Hollywood come Arnold Picker della United Artists, sindacalisti come Leonard Woodcock dei "Lavoratori dell´automobile", brillavano in un "who´s who" di personalità che formarono quella che nei processi e nelle inchieste fu conosciuta come la "Nixon´s Blacklist", la lista nera di Nixon. E passò alla storia americana come il primo esempio pubblico di un´operazione governativa lanciata per ostracizzare, marginalizzare e distruggere i nemici politici di un Presidente.
Neppure le indimenticabili "liste di proscrizione" volute dalla commissione della Camera per le Attività antiamericane del senatore Joseph McCarthy avevano raggiunto l´incostituzionalità della persecuzione che il primo consigliere legale del Presidente aveva proposto per impedire "a quei cervelli di pensare" e di nuocere al regime nixoniano, secondo la classica prescrizione mussolinana contro Gramsci. Nessun capo dello stato americano, non in maniera così esplicita, aveva accarezzato l´idea di adoperare le agenzie e i servizi del governo nazionale per eliminare impeccabili cittadini colpevoli soltanto di essere irritanti oppositori. La blacklist di Colson e Nixon, la loro lista nera, misericordiosamente finita nel cassonetto delle peggiori vergogne americane insieme con chi la volle (Colson fu condannato a tre anni di carcere e radiato dall´ordine, Nixon fu il primo presidente costretto a dimettersi nel 1974) fu il segnale che nessuna società, nessuna cultura, nessuna nazione in nessun tempo è mai completamente immune dalla tentazione di zittire, escludere ed eliminare chi per religione, colore, razza, tribù o ideologia è considerato indesiderabile.
Se l´origine storica di queste liste di "nemici" da allontanare, ostracizzare o sterminare è nell´ostrakon, nel coccio che i cittadini ateniesi usavano per esiliare un personaggio sgradito, il blacklisting o il suo sinonimo blackballing, escludere con la pallina nera, trovò nel mondo dei framassoni inglese, dei freemasons, il proprio rinascimento ed ebbe, nel Nuovo Mondo, quella tragica, ma fortunatamente breve, apoteosi della caccia alle streghe del New England. Sotto l´attenta guida di pastori calvinisti eruditi nei manuali per la caccia alle consortorie diaboliche scritti dai saggi del seminario di Harvard, a Boston, i Mather padre e figlio, le comunità attorno a Salem dovevano tenere accurati registri di uomini, ma soprattutto donne, denunciate o sospettare di stregoneria, portandole spesso fino all´estrema conseguenza della lista nera, l´impiccagione o la morte sotto macigni per schiacciamento.
Non ammesse pubblicamente, ma consultate e aggiornate con cura, furono poi le liste, ironicamente davvero "nere", degli schiavi fuggiti, o liberati per tenere conto di ogni stilla di sangue africano nelle loro vene, fino agli octaroon, a coloro che avevano un bisnonno o una bisnonna di colore e dunque erano da considerare per un ottavo ancora negroes, onde evitare rischi di matrimoni misti ai rampolli della famiglie razzialmente "pure" nel Sud, dove la miscegenation, il divieto legale contro i matrimoni misti era ancora in vigore in 16 Stati, fino alla sentenza della Corte Suprema nel 1967. Se una signora chiamata Ann Durham avesse abitato nel Kansas natale, anziché nelle Hawaii, non avrebbe potuto sposare un africano del Kenya. E non sarebbe mai nato Barack Obama, venuto al mondo nel 1961, quando la legge per la purezza delle unioni ancora vigeva.
Finire nelle liste nere è un destino che può colpire chiunque, perché la trasgressione, la "indegnità", il peccato è sempre negli occhi di chi guarda. Lo scoprì uno dei geni, e dei padri, della satira sociale e politica moderna, Lenny Bruce, il comico che fu distrutto, fino al suicidio da overdose di eroina, dalla temerarietà del suo umorismo sboccato e tagliente. Elenchi di "indesiderabili" da tenere alla larga spuntano ovunque, nei quartieri eleganti dove fino agli anni 60 gli agenti immobiliari sapevano, senza ammetterlo, che acquirenti di colore, stranieri o ebrei erano da scoraggiare. Un quartiere elegante di Washington, chiamato Spring Valley, fu scardinato negli anni ‘60 quando l´ambasciatore greco si vide respingere una proposta di acquisto perché "straniero" e per di più "di origine mediterranea", dunque nella lista nera dei "no". Il furibondo diplomatico marciò sul Dipartimento di Stato con una protesta formale e la casa gli fu venduta. Anche a una Agnelli, Susanna, toccò l´onta della black ball, quando i condomini di Manhattan respinsero l´acquisto di un appartamento perché la sua notorietà avrebbe portato troppo trambusto nel palazzo. Ironicamente, lo stesso Nixon fu rifiutato da una cooperativa sempre di Manhattan semplicemente perché indesiderabile.
Ma fu necessaria la grande psicosi "rossa" del dopoguerra perché il blacklisting divenisse quel melodramma politico, e umano, che sarebbe stato etichettato come "maccarthysmo". In uno dei primi esempi di quelli che poi sarebbero stati chiamati "processi" e "gogne mediatiche", grazie alle prime trasmissioni televisive in diretta, il lavoro della commissione presieduta dal senatore del Wisconsin e assistita da giovani ed entusiasti avvocati pieni di fervore anti comunista come Robert Kennedy, la caccia alle talpe di Stalin produsse risme di liste nere, puntando sulla massima spettacolarizzazione dello show maccarthysta, dunque su Hollywood.
Tra il grottesco e il tragico, centinaia di funzionari pubblici, militari di carriera, attori, registi, sceneggiatori (il 25 per cento degli "imputati" appartenevano al mondo del cinema) sfilarono davanti all´inquisizione maccarthysta. Per salvarsi da quegli elenchi micidiali, che garantivano l´esclusione dal lavoro e la censura, inoffensive attrici comiche quali Lucille Ball, forse sospetta per la sua fiammeggiante capigliatura rossa, furono costrette a farfuglianti confessioni. Nell´orgia di ostracismi reciproci, perché chi di liste nere ferisce di liste nere può perire, il grande Elia Kazan, che aveva partecipato alla caccia, fu messo nella lista nera di Hollywood e guardato come un traditore, mentre altri furono costretti a scrivere, produrre o dirigere sotto pseudonimi, un trucco ovviamente impossibile per gli attori. Bertolt Brecht se ne andò disgustato. Charlie Chaplin si rifugiò nella sua Inghilterra. Pochi anni prima, migliaia di americani di origine giapponese erano finiti automaticamente in un´altra tragica blacklist, quella delle possibili quinte colonne e internati fino al 1945, con la famiglie e i bambini, in campi di concentramento.
E il duello fra la necessaria vigilanza e la paranoia razziale o politica ricomincia a ogni generazione, che riconosce, o immagina, o confonde, nuovi pericoli mortali, sporchi stranieri, da esorcizzare od ostracizzare. La nuova blacklist, oggi, ha nomi scritti in arabo.

Repubblica 12.2.08
Perché il fantasma della cospirazione immaginaria continua a fare proseliti
Quella lunga storia del complotto ebraico
di Adriano Prosperi


I "protocolli"
Nella tradizione più vicina a noi c´è il famigerato apocrifo dei "Protocolli dei Savi di Sion", che aveva in appendice un elenco per cognomi di 9.800 famiglie di ebrei. Nel 1938, con le leggi razziali di Mussolini, quell´elenco diventò un´arma

Questo documento anonimo contro la "lobby ebraica" è cosa grave ma non seria. Non più dei cori nazistoidi alle partite di calcio. Certo, anche le cose non serie fanno male e possono essere pericolose. L´antisemitismo italiano non era "serio" come il razzismo naturalistico tedesco col quale rivaleggiava: le sue radici erano nell´antigiudaismo cristiano con la sua preghiera per i "perfidi" Giudei e nella versione idealistica dell´idea della superiorità razziale. Eppure ha fatto molto male e la retorica istituzionale delle giornate della memoria non ne ha nemmeno sfiorato le radici, anche perché l´orizzonte storico del "secolo breve" è troppo breve per la variante italiana dell´antisemitismo. Intanto, nel venir meno delle forme tradizionali di trasmissione dell´esperienza – la famiglia, la scuola – la smemoratezza generale ci pone davanti al riaffiorare di frammenti che l´archeologia del nazifascismo e quella dello stalinismo riconoscerebbero come loro ma che sono esibiti con candida e orgogliosa ignoranza: di qua le adunate in camicia verde, il culto della terra e del fiume natio, di là l´antisionismo urlante delle manifestazioni di piazza che confonde gli ebrei con lo Stato d´Israele e lo Stato di Israele coi suoi governi. La tragedia si ripete come farsa, ancora una volta. Ricordare le tragedie potrà evitare che la farsa si rovesci di nuovo in tragedia? proviamo.
Una lobby influente, un partito di intellettuali, un nemico nascosto: non sono la stessa cosa ma possono allearsi, sovrapporsi, fondersi in una sola entità. È già avvenuto. Il collante che li ha saldati e continua a saldarli è lo stesso: l´ossessione del pericolo ebraico. Per riconoscere la differenza radicale di quella che era l´unica presenza religiosa diversa consentita e per evitare il pericolo che portava con sé – pericolo di inquinamento, di infezione, di deliberata e segreta aggressione – la società cristiana europea fissò regole rigide: segni speciali sugli abiti, restrizioni spaziali (ghetti), divieti severissimi di rapporti e di scambi, soprattutto di sangue e di sesso. Ma questo sistema entrò in crisi quando e dove gli ebrei cessarono di essere tali e vennnero battezzati con nomi cristiani (in forma forzata e collettiva in Spagna nel 1492, subito dopo in Portogallo). A partire da questo momento, con la scomparsa della segregazione e della visibilità della differenza religiosa, nacque l´altra grande molla dell´odio, l´idea della differenza di sangue: sangue puro ("limpio") quello dei cristiani d´annata, impuro quello dei "nuovi". Per evitare ogni rischio di legami parentali dei primi coi secondi ci fu chi ebbe l´idea di fare una lista dei nomi già in uso nelle famiglie di ebrei coi nomi nuovi assunti dopo il battesimo: nacque così il Libro verde dell´Aragona. Insieme ai nomi vi erano riportati i documenti (apocrifi) di una congiura organizzata dagli ebrei spagnoli d´accordo con gli ebrei di Costantinopoli. Ecco i termini del complotto: gli ebrei si erano decisi a battezzarsi ma allo scopo di mandare in rovina chi li costringeva a farlo. Si erano detti: «ci tolgono i nostri beni? allora i nostri figli faranno i mercanti e manderanno in rovina i cristiani; ci tolgono la vita ma i nostri figli faranno i medici e li faranno morire fingendo di curarli; ci distruggono le sinagoghe ma i nostri figli diventeranno sacerdoti cristiani e manderanno in rovina la loro chiesa».
Non era la prima volta che la paura di congiure ebraiche si diffondeva in Europa. Ma questa volta gli ebrei erano doppiamente minacciosi perché irriconoscibili, nascosti sotto nomi e comportamenti di cristiani. E l´immiserita società iberica era pronta a scatenarsi contro la minoranza ricca, colta e intraprendente dei "marrani" (gli ebrei convertiti): non più diversi per religione, dovevano diventare diversi per sangue. Era l´embrione del moderno antisemitismo. Il successo fu inevitabile: la capacità di spiegare tutti i mali del mondo con una causa elementare e vicina possedeva l´invincibile fascino della semplificazione. Il movimento complicato e imprevedibile dei processi storici si chiariva come la realizzazione del lucido programma di una minoranza in possesso di speciali mezzi di pressione – il danaro, la cultura. Quest´idea fu ripresa con obbiettivi mutati negli anni della Rivoluzione francese dalla celebre tesi del reazionario abate Barruel : per lui tutto quello che stava accadendo di terribile era il risultato della cospirazione di una setta dominata da Voltaire e da Rousseau.
La lista dei nomi è il parto della sorella stupida della semplicità: la semplificazione. Ma ancor più stupido sarebbe sottovalutare la funesta efficacia di questa caricatura della spiegazione. Si pensi al prodotto di questa tradizione più vicino a noi, il famigerato apocrifo dei Protocolli dei Savi di Sion, della cui origine e diffusione sappiamo ormai tutto anche se questo non impedisce che lo si continui a usare come strumento di aggressione antisemita. Nell´edizione italiana (L´Internazionale Ebraica. I "Protocolli" dei "Savi anziani" di Sion, versione italiana con appendice e introduzione, Roma, "La vita italiana", direttore Giovanni Preziosi, 1938. XVI dell´era fascista) recava in appendice un elenco per cognomi di 9800 famiglie di ebrei. Preziosi non l´aveva costruito, lo aveva preso in prestito. Nel 1938 quell´elenco diventava un´arma: le leggi razziali volute da Mussolini e firmate dal re nel settembre di quell´anno furono la vittoria di quello speciale razzismo e antisemitismo italiano che era robustamente radicato nella cultura accademica e nell´ostilità cattolica ai "perfidi giudei". Un elenco di nomi: quanto potesse servire a denunzie interessate e premiate lo si vide subito.
Ma tutto questo non è forse sprofondato nel gorgo di Auschwitz e della Shoah? Michele Battini ricordò anni fa (Il Foglio, sabato 6 nov. 2004) che tutta la letteratura culminata nelle leggi razziali – non solo giornalisti e retori del nazionalismo fascista, ma medici, antropologi, biologi che avevano attinto all´antigiudaismo cristiano rappresentato da figure di primo piano della Chiesa degli anni Trenta – «sembra scomparire nel nulla dopo il 1945»; che era intervenuta la grande cesura di una Chiesa cattolica che aveva rinunciato alla «tentazione di sostituirsi a Israele» chiedendone la conversione; in conclusione – e su questo si può essere ancora d´accordo con lui - quello che oggi rimarrebbe è un antisemitismo che ha cambiato natura, è l´antisionismo come avversione allo Stato d´Israele, eredità dello stalinismo del passato e frutto dell´islamismo fanatico del presente. Ma – anche Battini lo ammetteva - il fantasma del complotto immaginario con la sua disarmante semplicità è sempre attraente e la tradizione dell´antisemitismo è di quelle che producono sempre nuovi germogli quando se ne creano le occasioni.

Corriere della Sera 12.2.08
Le convivenze sono più di 500 mila. E i figli nati fuori dal matrimonio il 18,6%
Coppie di fatto in aumento E i Comuni le riconoscono
di Francesca Basso


La legge. Falliti i tentativi di fare una norma nazionale. La scelta delle amministrazioni
Atti anagrafici in oltre 60 realtà locali

Partiamo dalle cifre. In Italia le convivenze sono circa mezzo milione e secondo l'Istat sono in crescita. Il 18,6% dei bambini nati nel 2007 ha genitori che convivono senza essere sposati. Manca però in Italia, a differenza di Francia, Spagna o Gran Bretagna, una legge che disciplini le unioni civili: nessun diritto, ad esempio, ad assistere il partner in ospedale o subentrare nel contratto d'affitto della casa comune. I Dico, partoriti a fatica dal governo Prodi, sono stati accantonati. E nemmeno il Cus di Cesare Salvi ha avuto fortuna.
Eppure una sessantina di Comuni, negli ultimi dieci anni, ha cercato una soluzione per fare in modo che le coppie di fatto non si sentano cittadini di serie B: si sono dotati di registri delle unioni civili oppure rilasciano certificati di «famiglia anagrafica basata su vincoli affettivi e di convivenza» (in tre città: Bologna, Padova, Bari). Tutte iniziative singole, politicamente esplosive e infatti sempre precedute da forti scontri e spesso seguite da ricorsi al Tar. L'Anci non ha nemmeno l'elenco di questi Comuni. Ma ci sono. Monfalcone, ad esempio, anche se una sola coppia è iscritta. O Ferrara, con quattro: «Il registro è un tentativo politico — spiega l'assessore ai Servizi demografici Mariella Michelini — per tenere viva l'attenzione su questo tema». E si discute. Come accade a Genova: il Pd si è spaccato di fronte alla proposta difesa dal sindaco Marta Vincenzi di certificare la «famiglia anagrafica basata su vincoli affettivi», con l'ala cattolica che non ne vuole sapere. Del resto a Roma non è andata meglio e a dicembre le due delibere che proponevano l'istituzione di un registro delle unioni civili hanno incassato il no del Pd «perché non serve a nulla».
Che non produca effetti giuridici non hanno difficoltà ad ammetterlo a Firenze, il secondo Comune in ordine di tempo dopo Pisa, ad avere istituito nel 1998 il registro. L'assessore ai Sevizi demografici di Firenze, Lucia De Siervo, mentre dà le cifre ci tiene però a sottolinearne «il valore simbolico, è un passo in più per una coppia di fatto»: le coppie iscritte sono 54, con un crescendo ogni anno (3 nel 2001, 12 nel 2007). Che il Comune ci creda lo dimostra il sito, che fornisce tutte le informazioni utili. Cosa non scontata, non tutte le città che hanno il servizio lo illustrano in modo chiaro. Bolzano sì e bene ma Padova, ad esempio, no. Un anno fa ha aperto alle unioni affettive, rilasciando il certificato. Era il 3 febbraio e le prime due coppie, una omosessuale e una etero, mostravano soddisfatte il pezzo di carta tra gli strali dell'Osservatore Romano
che parlava di «iniziativa inaccettabile» e un timido sindaco Flavio Zanonato che tagliava corto: «Caricare simbolicamente una cerimonia che dovrebbe rientrare nella normalità potrebbe essere anche controproducente». Insomma, troppo rumore. E sul sito del Comune, infatti, si trova la delibera ma il dove come quando ottenere il certificato non è dato saperlo. Tuttavia Padova ha avuto un buon successo, perché in un anno le attestazioni emesse sono state 25. Eppure il consigliere Alessandro Zan, che propose la mozione per regolamentare la «famiglia anagrafica » non è soddisfatto e lamenta «una mancata pubblicizzazione. Il riscontro positivo — spiega — è legato solo al fatto che noi rilasciamo un pezzo di carta da opporre a terzi per dimostrare che si è una coppia di fatto, un attestato da esibire come nel caso dell'ospedale. Insomma, è uno strumento più utile del registro».
I numeri non sono molto confortanti. A Pisa, Comune apripista che ha il registro dal 1998, le coppie iscritte sono 41, di cui 7 omosessuali. Ma «noi non abbiamo le cancellazioni delle unioni», avverte il vicesindaco Cosentino Cavallaro, che ha la delega ai Servizi demografici e celebra quasi tutti i matrimoni civili: «L'anno scorso — racconta — hanno fatto domanda due coppie, i matrimoni civili sono stati 163. Comunque ad alcuni diritti, come l'assegnazione delle case popolari, i conviventi concorrono senza bisogno del registro». Un po' come succede a Bologna, la prima in Italia a rilasciare l'attestato.
Al Sud la vita è più dura. Fa eccezione la Puglia. Una legge regionale ha esteso ai conviventi, anche gay, alcuni benefici a cui avevano accesso solo le coppie sposate. E a Bari da meno di un anno rilasciano l'attestato di famiglia affettiva. In Sicilia, invece, l'unico comune con il registro delle unioni civili è Bagheria: «Lo abbiamo dal 2003 — racconta il responsabile Piero Montana —. Si era iscritta una coppia lesbica però circa una settimana fa ha chiesto la cancellazione. Non dà diritti, ma in Sicilia c'è proprio una legge regionale che fa divieto ai conviventi di avere gli stessi benefici delle coppie sposate». Comunque, anche dove è previsto, i conviventi etero od omosessuali reagiscono con poco entusiasmo. «Perché iscriversi? — conclude polemico Aurelio Mancuso, presidente dell'Arcigay — Registro e certificato non danno diritti e non a tutti basta l'atto simbolico».

Corriere della Sera 12.2.08
Fra la chiesa e lo Stato una guerra continua
risponde Sergio Romano


Pensa che stiamo scivolando verso un oscurantismo religioso da Grande Inquisizione, con un reale pericolo per le libertà di pensiero e di ricerca? La firma di documenti e appelli di illustri cattedratici contro le ingerenze vaticane nel mondo accademico, che vengono viste come minaccia alla libertà dell'insegnamento e della ricerca, fa infatti temere il peggio. Perché altrimenti tanto impegno per arrestare, con sprezzo del pericolo, l'ingerente avanzata dei clericali nei templi del sapere? Oppure finirà tutto in girotondi?
Francesco Milazzo

Non è mai stato facile tracciare il confine tra l'autorità della Chiesa e il potere degli Stati. Le guerre internazionali di religione sono terminate con i Trattati di Westfalia, ma i conflitti si combattono da allora, anche se con lunghi intervalli di pace, all'interno degli Stati. La Rivoluzione francese fu anche una guerra fra la nuova Repubblica e la Chiesa Romana. La Restaurazione, dopo le guerre napoleoniche, non fu soltanto il ritorno dei re nei loro territori. Fu anche la rivincita della Chiesa, e la vittoria venne celebrata in alcuni Paesi con la costruzione simbolica di grandi templi in segno di espiazione: la Madeleine a Parigi, la Grande Madre di Dio a Torino. Le due maggiori unificazioni del XIX secolo, quella italiana e quella tedesca, avvennero contro la Chiesa, e provocarono guerre culturali che si placarono soltanto dopo forti tensioni. La rivoluzione bolscevica fu anche una guerra contro la Chiesa ortodossa e il suo ruolo nello Stato russo. La guerra civile spagnola non fu soltanto una guerra difensiva della Repubblica contro il putsch franchista. Fu anche una guerra aggressiva della Spagna repubblicana contro la Chiesa di Roma.
Vi sono momenti in cui il conflitto si conclude con un trattato di pace — il Concordato — che mette fine alle ostilità: quello napoleonico del 1811, quello mussoliniano del 1929, quello hitleriano del 1933. Ma la pace è spesso soltanto un armistizio, destinato a durare sino a quando un'alterazione nell'equilibrio dei rapporti fra i due poteri rimette in discussione le regole della convivenza. Dopo la Seconda guerra mondiale la Chiesa ottenne che il Concordato con l'Italia diventasse parte integrante della Costituzione repubblicana. Dopo il Concilio Vaticano II e la ventata libertaria degli anni Settanta, il governo Craxi, nel 1984, ottenne che lo Stato riconquistasse una parte del terreno perduto.
Esistono altri fattori che possono riaprire il conflitto. Accade quando i mutamenti delle mentalità sociali, le scoperte scientifiche e le nuove tecnologie rendono desiderabile, lecito e possibile ciò che era in altri tempi esecrabile, condannabile o più difficilmente realizzabile. La Chiesa è diventata più aggressiva, in questi ultimi anni, perché la modernità sta modificando i passaggi fondamentali dell'esistenza. Per nascere, procreare, unirsi in matrimonio e morire esistono oggi, molto più di quanto non accadesse in passato, opzioni diverse. Quando una parte della società chiede che queste nuove opzioni (fecondazione artificiale, aborto, unione fra omosessuali, adozioni da parte di coppie di uomini o di donne, eutanasia) vengano riconosciute dalla legge, la Chiesa insorge, proclama la sua autorità, nega allo Stato il diritto di legiferare in queste materie. E il successo delle sue offensive è tanto maggiore quanto più trova sulla sua strada, come in Italia, uno Stato debole e diviso. Alla sua domanda, caro Milazzo, non so rispondere. La guerra è in corso e non riesco a intravedere per ora il prossimo armistizio.

Corriere della Sera 12.2.08
L’Italia con troppa politica. Il conformismo ghibellino
di Ernesto Galli Della Loggia


La discussione Il ruolo pubblico crescente della religione, le trasformazioni della società e i timori dei laici
Non c'è la Chiesa dietro alla temuta «ondata neoguelfa»

È una bella immagine quella dell' «ondata neoguelfa », uscita dalla penna di Aldo Schiavone in un articolo di qualche giorno fa su la Repubblica. A stare al quale nell'Italia di oggi, a causa del degrado della vita politica e dell'etica pubblica, starebbe andando ancora una volta in scena «un'antica tentazione» della nostra storia politica e intellettuale, vale a dire «la rinuncia allo Stato », percepito come qualcosa di fragile che «non ce la può fare», e la sua sostituzione con una sorta di «protettorato super partes» attribuito al Papa: fino al punto di fare del magistero della Chiesa «il custode più alto della stessa unità morale della nazione ». Insomma, un vero meccanismo di supplenza, alimentato dall'illusione che «una religione possa occupare il posto della politica e del suo discorso». L'analisi di Schiavone ha precedenti illustri. Che la statualità italiana da un lato, e la Chiesa e il cattolicesimo romano dall'altra, siano due termini sostanzialmente antitetici fu opinione corrente durante il nostro Risorgimento. Che non a caso si compiacque di riprendere l'antica esecrazione antichiesastica di Machiavelli e Guicciardini (puntualmente citata anche da Schiavone), additando altresì nella Controriforma una delle massime fonti della rovina d'Italia: «Quando a noi toccò la parrocchia — scrive anche il nostro autore — mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati». Qualunque sia l'effettiva plausibilità di questa interpretazione della nostra storia, dubito assai che essa possa farci capire quanto sta accadendo nell'Italia attuale. Riportare sempre tutto, anche fenomeni palesemente e radicalmente nuovi (che dimostrano di essere tali, tra l'altro, proprio tendendo a ridisegnare secondo linee inedite gli schieramenti del passato), riportare sempre tutto, dicevo, come ama fare la maggior parte della cultura italiana, nell'ambito tradizionale delle dicotomie Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista, mostra solo quanto quella cultura sembri interessata più che alla realtà, più che a comprendere la novità dei tempi, a mantenere ad ogni costo saldo e credibile l'antico universo dei suoi valori e dei suoi riferimenti.
Com'è possibile, mi chiedo, non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca — di cui le dicotomie italiane di cui sopra sono parte — sta oggi diventando un reperto archeologico? Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni — e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia industriale- capitalistica a tutto il mondo, e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera più intima del
bios — tutta la nostra vita sociale, a cominciare dalla politica, con le sue confortevoli certezze culturali e i suoi valori, deve essere ripensata e ridefinita?
Come non accorgersi che è per l'appunto questa pervadente crisi di senso, e dunque questo drammatico interrogativo sul futuro, a segnare l'attuale drammatico passaggio tra due epoche storiche? E che sono per l'appunto questi fatti, non altro, che rilegittimano potentemente la dimensione religiosa candidandola a occupare nuovamente, in tutto l'Occidente, uno spazio pubblico? Ma se le cose stanno a questo modo— mi domando ancora — chi potrà mai scandalizzarsi se in un Paese come il nostro, con la sua tradizione, il risveglio della dimensione religiosa implichi immediatamente anche il risveglio della voce e della presenza della Chiesa cattolica?
Va bene, si obietta, ma si tratta di una voce e di una presenza assolutamente fuori misura. In realtà a me pare che l'impressione di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente sui temi etici (che poi sono anche politici e viceversa, come troppo spesso i denunciatori dell'«ingerenza » non vogliono vedere) è in grande misura favorita dal carattere intellettualmente pigro e ideologicamente conformista della nostra cultura, diciamo pure dalla sua assenza. Il rilievo non riguarda certo Aldo Schiavone che anzi con il suo Storia e destino (Einaudi 2007) ha rappresentato un caso di riflessione originale e coraggiosa sui grandi temi della rivoluzione tecnoscientifica in atto. Ma un caso raro. È un fatto che invece la cultura laica italiana si è perlopiù abituata oramai a sposare in modo sostanzialmente acritico tutto ciò che abbia a qualunque titolo il crisma della scienza. Non ne parliamo poi se la novità ha modo di presentarsi come qualcosa che possa rientrare nella sfera di un diritto quale che sia. Una sorta di idolatria della scienza opportunamente insaporita da un libertarismo da cubiste è così divenuto la versione aggiornata e dominante del progressismo e del politicamente corretto nostrani. Invano, da noi, si cercherebbe un Habermas, un Gauchet, un Didier Sicard che animano di dubbi e di domande la discussione in altri Paesi. I fari dello spirito pubblico italiano sono ormai Umberto Veronesi e Piergiorgio Odifreddi. Tutto il resto è silenzio.
In questa stupefacente condizione di resa intellettuale ai tempi, non c'è da meravigliarsi se la dimensione religiosa e la Chiesa, rimaste di fatto le sole voci significative a obiettare e a parlare una lingua diversa, raccolgano un'attenzione e un ascolto nuovi da parte di chi pensa che esistano cose ben più importanti della scienza. E che anche per ciò, dunque, esse sembrino assumere contorni di particolare rilievo superiori alla loro effettiva realtà. Inevitabilmente nel silenzio ogni sussurro sembra un grido.
Tutto ciò ha poco a che fare con qualche supposto vuoto di politica e di Stato che caratterizzerebbe l'Italia di oggi, secondo quello che invece mostra di credere Schiavone. Se infatti il punto realmente critico della condizione italiana, come a me pare, è l'assenza da parte della nostra cultura di vera discussione pubblica intorno ai grandi temi del Paese e dell'epoca, nonché l'appiattimento conformistico di quella medesima cultura, ebbene allora una parte non piccola di responsabilità ne porta proprio non già il vuoto, ma l'eccesso di politica, in cui siamo stati fino ad oggi immersi. È stata la crescente, spasmodica, politicizzazione del discorso pubblico, di qualunque discorso pubblico, che ha imprigionato l'intellettualità italiana riducendola oggi, checché se ne dica, a una delle meno vivaci e meno interessanti d'Europa. Facendone altresì, da sempre, in mille ambiti, e tranne pochissime eccezioni, un'articolazione di fatto del sistema politico e della sua ideologia, e dunque rendendola incapace di alimentare la politica stessa di valori e di punti di vista nuovi.
Questo corto circuito politica-cultura viene da lontano. Risale alla nascita stessa dello Stato italiano, alla cui origine vi fu una supplenza decisiva: quella per l'appunto rappresentata dalla necessaria iperpoliticizzazione (allora «rivoluzionaria », ma non solo allora) di alcune minoranze — e tra queste la cultura e gli intellettuali furono come si sa in prima fila — al fine di ovviare ad un vuoto decisivo: l'assenza dell'anima profonda del Paese e del suo consenso generale, l'assenza della nazione. È stata altresì questa iperpoliticizzazione — diciamo così — originaria della compagine statale italiana la responsabile immediata dell'ipertrofia statalista che ci accompagna dal 1861. Per potersi esercitare su una società riluttante e lontana di cos'altro poteva servirsi la politica, infatti, se non dello Stato? Insomma, in un implacabile gioco di rimandi, solo all'apparenza contraddittori, il deficit di Stato nazionale ha reso inevitabile l'ipertrofia dello Stato. Ma di uno Stato che non ha potuto essere, nella sostanza, che uno Stato politico-amministrativo: per giunta quasi sempre monopolio politicamente di una parte e amministrativamente quasi sempre inefficiente. Tutt'altra cosa cioè dallo Stato della nazione, capace invece di incarnare una dimensione realmente rappresentativa di istanze comuni a tutti i cittadini nonché di un'etica pubblica diffusa.
Insomma, appellarsi oggi in astratto, come è tentato di fare Schiavone, allo Stato e alle culture politiche come dimensioni in quanto tali salvifiche — per resistere all'«ondata neoguelfa», così come per qualunque altro scopo — serve solo a nascondere il vero dramma dell'Italia, la quale cela proprio nell'ambito dello Stato e della politica le contraddizioni sempre più paralizzanti della sua storia.

Repubblica 12.2.08
Un Bertolt sconosciuto nel diario in via di pubblicazione in Germania
Brecht: “Ho paura del comunismo”
di Andrea Tarquini


Non un marxista duro e puro ma un uomo roso dal dubbio, legato all´individualismo borghese, non un ateo convinto ma un´anima tentata dalla fede

BERLINO. Non mi trovo a mio agio nel mondo che auspico». La confessione segreta delle contraddizioni intime - comunista e moralista implacabile in pubblico ma amante del bel vivere e dell´individualismo nel privato - è di Bertolt Brecht. Emerge a sorpresa, decenni e decenni dopo la sua morte, negli appunti dei suoi diari inediti che Peter Villwock e altri studiosi di letteratura dell´accademia delle scienze di Heidelberg hanno decifrato e si accingono a pubblicare. Cinquantaquattro taccuini, nella scrittura indecifrabile a zampe di gallina di Brecht, che per una spesa di 70mila euro il Deutsches Literaturfonds si appresta a digitalizzare. Ne emerge un Brecht inedito, assolutamente in controtendenza rispetto all´immagine di sé che egli scelse di dare ai contemporanei e di trasmettere ai posteri: non marxista duro ma uomo roso dal dubbio, non eroe fideista dell´interesse collettivo bensì intellettuale legato all´individualismo borghese. Non "macho" implacabile ma invece maschio a volte a disagio che si sentiva con le spalle al muro davanti a donne forti, non ateo convinto bensì anima tentata dalla fede.
Nei giorni scorsi, Der Spiegel ha dedicato un lungo servizio ai diari inediti di Brecht, con succose anticipazioni. Alcuni passi dei taccuini dell´autore dell´Opera da tre soldi verranno letti tra pochi giorni in un teatro a Berlino. E´ la scoperta sensazionale di un nuovo Brecht, finora sconosciuto. Ecco i dubbi su ideali e lotta del movimento socialista e comunista: «Come potrà essere garantita l´unicità del singolo individuo? Attraverso la sua appartenenza a qualcosa di più che non un collettivo». Il mito marxista dell´intellettuale collettivo è ben servito.
Non è finita. «Nel mondo di cui auspico la nascita non mi trovo a mio agio», annota Brecht in uno dei 54 volumetti dei diari. Alcuni sono piccoli taccuini in cuoio nero da giornalista, altri voluminosi quaderni in formato Din A4. Tutti furono vergati con la calligrafia incomprensibile del drammaturgo, spesso a matita. Conservarli, restaurarli, renderli leggibili è stata un´opera difficile e costosa. Solo le moderne tecnologie di oggi hanno reso possibile rivelarci questa verità d´una personalità nascosta, doppia, ambivalente.
«Non lo ammetto volentieri, ma disprezzo chi è infelice e in disgrazia», annota Brecht nel 1928, mentre socialdemocratici e comunisti si battono per i poveri, mentre le convulsioni dell´inflazione, della disoccupazione di massa, della guerra civile quotidiana tra i suoi "rossi" e l´ultradestra nelle strade di Berlino già scavano la fossa alla Repubblica di Weimar e spianano la strada alla vittoria di Hitler. L´«io» dei diari è ben diverso dall´«io» autobiografico, eroe della sinistra, che Brecht fece di tutto per tramandare. Proprio in quegli anni in cui la scelta di campo appariva inevitabile, egli riflette di nascosto per iscritto sul rapporto tra individuo e collettivismo marxista: «In un Collettivo che cresce si finirà con una riduzione in brandelli dell´individuo».
Brecht amava anche l´edonismo borghese, quel bel vivere spesso rapace e insaziabile dei ricchi nella Berlino di Weimar che in pubblico egli additava al disprezzo morale. Ecco versi dei diari inediti: «Beviamo ancora un bicchiere/poi non andiamo ancora a casa/poi ancora un bicchiere/poi solo una pausa, non la via di casa». Esteta delle beuty farms maschili ante litteram, lodava nei diari segreti la cura del suo corpo, che concedeva poligamo a Helene Weigel, a Ruth Berlau e ad altre donne del suo harem rosso: «Mercoledì bagno in vasca. Giovedì doccia scozzese. Martedì dopo massaggio con l´acquavite terapeutica, poi colpirsi con asciugamani ghiacciati e oliarsi».
Difficoltà e sentimento di debolezza, come emerge dai diari finora segreti, "BB" li provava quando una delle sue donne era troppo assertiva per i suoi gusti. Come l´attrice Carola Neher, che interpretò per lui l´Opera da tre soldi e poi volle "avere" il maestro. Ma insieme a lui possedeva altri uomini: «Lei ti prende, poi abbandona la sua voglia di possesso e diventa indistruttibile».
Dubbi e confessione d´incertezza affiorano anche sulla religione, in lui ufficialmente ateo convinto. «Come in un esperimento di Pavlov, ogni volta che sento suonare le campane si scatenano in me processi, sicuramente di natura chimica, che mi spingono a pensieri in direzione della metafisica». Oppure: «So bene che c´è qualcosa che non si chiama credere, eppure al tempo stesso è credere, eccome».

Corriere della Sera 12.2.08
Vizi privati e debolezze del drammaturgo negli appunti segreti pubblicati in Germania
Brecht: disprezzo i diseredati
«Non lo confesso volentieri ma detesto coloro che vivono nell'infelicità» Progettò un musical su Lenin. Un testo erotico dopo i versi alla madre morta
di Danilo Taino

BERLINO — Brecht privato non meno fulminante di quello pubblico, delle grandi opere. Ma del tutto diverso, molto meno politicamente corretto e tutto d'un pezzo di quanto si tenda a disegnarlo. Meno gigante. Più somigliante a quel ragazzo in giacca di pelle e sigaro tra i denti di una famosa fotografia che al drammaturgo e al poeta celebrato dal socialismo reale ieri e oggi. «Quel che non confesso volentieri — scrive per esempio nei suoi ricchissimi taccuini personali — è che disprezzo coloro che vivono nell'infelicità (o nel bisogno, ndr) ». Non poco, per un moralista che doveva amare il proletariato.
Oppure: «L'uomo non è un nuotatore, l'uomo non è un aviatore. È di quel genere che sta sdraiato sulla schiena». Anche qui, mica male la considerazione per un'umanità che avrebbe dovuto essere in marcia verso la propria liberazione. Sono alcuni appunti tratti dai 54 quaderni che — dal 1918 alla morte, nel 1956 — Bertolt Brecht compilò senza interruzioni, quasi fosse una dipendenza.
Saranno pubblicati da quest'anno per anni a venire dalla casa editrice Suhrkamp: una buona parte di frasi, riflessioni e versi conosciuti e un terzo inediti. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato ieri l'anticipazione del primo volume dell'opera, che riguarda per lo più gli anni che vanno dal 1927 al 1930, quelli in cui raggiunse la fama e fu celebrato come un rivoluzionario del teatro da un pezzo della Repubblica di Weimar. «Addio a Beton-Brecht», al Brecht di cemento, titola il settimanale.
Che la personalità dello scrittore fosse complessa è un fatto ovvio e conosciuto. Il suo rapporto con le donne — spesso numerose e sovrapposte, usate e allontanate — è stato ad esempio oggetto di discussioni e polemiche. Ma altri fatti e altri pensieri sono una scoperta. In uno dei Notizbücher in via di pubblicazione — conservati nell'Archivio Brecht dell'Accademia delle Arti a Berlino — sostiene per esempio di avere scritto una poesia pubblicitaria per un'automobile Steyr (casa austriaca)— questo era noto — e di avere ricevuto una macchina in regalo, scoperta che a non tutti gli estimatori della sua implacabilità morale farà piacere. In un altro, riflette su se stesso e dice che in un'occasione avrebbe dovuto mantenere la promessa data ma non lo fece. «Perché? », si chiede. «Non ne avevo voglia », risponde.
I quaderni, nella loro interezza, pare siano di un certo interesse per focalizzare l'uomo, le sue passioni, le aspettative, le ambizioni. Si scopre per esempio che Brecht aveva una scarsa considerazione dell'umanità, persino un fastidio per chi tende a non lottare, nella vita. E un'idea originale nell'accostare i sentimenti. Finora, per dire, si conosceva l'appunto-poesia «Mia madre è scomparsa il 1˚maggio. La primavera si è levata. Il cielo sorrideva senza pudore». Ma non si sapeva che questa canzone per la madre morta è subito seguita, nel tempo e nel taccuino, da una erotica «cantata per un'amante».
La penna di Brecht correva sui quaderni personali — che conservava come tesori da proteggere — con la stessa forza che c'è nelle sue opere di maggiore impatto. «Il borghese è necessario come un vespasiano — scriveva in un appunto —. Come sarebbe immorale la vita pubblica senza queste due istituzioni ». Ma, allo stesso tempo, dai taccuini emergono anche i dubbi ideologici. Si scopre ad esempio l'ammirazione di Brecht per Lenin e l'intenzione, in qualche modo già passata a fase di progetto, di un'opera musicata sul leader bolscevico: avrebbe dovuto essere qualcosa di molto popolare, facile e riconoscibile dal popolo. Poi, però, vi rinunciò: temeva la banalità e non voleva passare per un semplice strumento di propaganda.
Ambivalenza verso la politica e il potere della quale si è molto discusso, in passato. Quando, il 17 giugno 1953, una sollevazione nella Germania dell'Est provocò la repressione violenta dello Stato, Brecht sostenne l'intervento dell'esercito, incluso quello dei soldati sovietici presenti a Berlino Est. Ma al peggio seguì poi il meglio. «Dopo la sollevazione del 17 di giugno — scrisse — il segretario dell'Unione degli Scrittori ha distribuito pamphlet sulla Stalinallee, dice che il popolo ha gettato via la fiducia dello Stato. E può riaverla solo se raddoppia gli sforzi. Non sarebbe stato più facile, in quel caso per il governo, sciogliere il popolo ed eleggerne un altro? ». È questo Brecht — contraddizione e lampo — che raccontano i quaderni- diario. Non era un monumento di marmo.

Corriere della Sera 12.2.08
La personalità. Il fascino di essere contraddittorio
di Paola Capriolo

Da buon seguace della dialettica marxista, Bertolt Brecht amava le contraddizioni; ma soprattutto le incarnava, come si può toccare con mano leggendo le prime estrapolazioni dai Notizbücher. Se per intere generazioni la sua figura ha rappresentato il massimo esempio di «scrittore impegnato», devoto, sia pure con le debite riserve critiche, alla causa di un nuovo ordine sociale, d'altra parte non c'è neppure bisogno di sfogliare i diari privati per rendersi conto di quanto persistesse in lui la fascinazione espressionista per l'irregolarità, per l'eccesso, insomma, per tutto ciò che costituisce l'esatto contrario non solo della «morale borghese», ma anche, e forse più, di quella «proletaria» («nel mondo che auspico — annota lucidamente — non c'è posto per me»). La sua istintiva simpatia non va a «chi vive nel bisogno»; anzi, egli confessa addirittura di «disprezzare» tale categoria. Forse non è un caso che il suo più importante personaggio di quegli anni non sia una vittima, ma un predatore: il Macheath dell'Opera da tre soldi. E chissà che nel progettato musical su Lenin a sedurlo non fossero anche, o soprattutto, i lati più oscuri e meno «filantropici» di quella figura storicamente così controversa. Sarebbe persino ingenuo interrogarsi sulla «sincerità» della fede comunista che pure Brecht professò per tutta la vita, pagando per essa i prezzi più alti: alla sincerità egli ha sempre preferito esplicitamente l'ambiguità, alla coerenza dogmatica la forza inquietante e dissolvente del «dubbio». Di qui la modernità che la sua opera ancora possiede, nonostante il fallimento dell'utopia politica cui l'autore volle consacrarla.

il Riformista 12.2.08
Formica vuole allearsi con Fausto
«La scelta è obbligata. Il Ps è a rischio di estinzione»
di Alessandro De Angelis


Dopo l'incontro di ieri tra Veltroni e i socialisti i margini per un accordo, se mai ci sono stati, non ci sono più. E oggi lo stato maggiore del Ps si riunirà per decidere se tentare la corsa solitaria oppure cercare un accordo con la Cosa rossa: da Sd, o almeno da una parte di Sd, arrivano segnali di interesse. Ma anche tra i socialisti l'idea non è più un tabù. Per Rino Formica, anzi, la via di un'intesa elettorale con Bertinotti è addirittura obbligata. E al Riformista spiega: «Il Pd nasce da una premessa giusta: unire i riformismi. Ma le dà un seguito sbagliato: la sinistra non vince perché non ha i colori del centro e quindi Veltroni vuole distruggere tutto ciò che sta a sinistra del centro». Di questo disegno farebbe parte anche l'ultima offerta fatta ai socialisti di entrare nelle liste del Pd. Dice Formica: «Lo schiaffo del loft? Il loft, in Inghilterra, è la canteria della chiesa dove il coro dei cantori intona l'inno della salvezza. Nel loft veltroniano invece i socialisti non hanno trovato il coro della salvezza ma un commissario di pubblica sicurezza con l'ordine di sciogliere la radunata sediziosa». Formica non cela il suo disappunto neppure verso i suoi compagni di partito che l'intesa con Veltroni l'hanno cercata, eccome: «L'ingenuità nella vita fa tenerezza, ma in politica è uno strazio. Venti giorni fa alla Camera Veltroni è stato accusato di voler fagocitare i piccoli partiti e il giorno dopo ci si è presentati dal fagocitatore dicendogli: perché non facciamo un programma assieme?». E aggiunge: «Ora, dopo l'editto Bettini-Veltroni, i socialisti sono costretti a rialzare la bandiera che avevano abbassato a mezz'asta perché portavano il lutto di Prodi. Ma lasciamo stare le responsabilità pregresse: il rallentamento del percorso della Costituente, il rinvio di un chiarimento con Prodi, il comportamento difensivo durante il governo Marini, la poco edificante attesa di un atto di clemenza da parte di Veltroni».
Guardando al futuro, per Formica, i socialisti sono a un bivio: «Come si risponde alla protervia dei repressori? Si può affrontare eroicamente lo sterminatore con l'impianto generoso e suicida della cavalleria polacca contro i panzer tedeschi oppure organizzare la guerriglia». Fuor di metafora? «Poiché i socialisti da soli hanno oggettivamente difficoltà a superare gli sbarramenti, sia alla Camera che al Senato, il partito è a rischio di estinzione».

il Riformista 12.2.08
Scalfari allibisce solo con Casini
di Emanuele Macaluso


Domenica scorsa Eugenio Scalfari su "Repubblica" ha scritto di essere rimasto «allibito» leggendo sui giornali che Casini, dopo lo scontro con Berlusconi e Fini, si sarebbe consultato col cardinale Ruini che sarebbe stato «largo di suggerimenti e forse anche di interventi conciliatori tra l'una e l'altra fazione». Il fondatore di "Repubblica" ha più di una ragione per essere «allibito» per ciò che accade nel rapporto destra-cardinali. Mi stupisce però che non abbia provato lo stesso sentimento quando Veltroni, appena eletto segretario del Partito democratico, ha fatto la sua prima visita al segretario di Stato in Vaticano. E non è senza significato che sul "Sole-24Ore" di sabato 2 febbraio si legge che Ruini sta con la destra, ma «il cardinale Tarcisio Bertone ha un canale aperto con Prodi e Veltroni». E si afferma che la candidatura di Rutelli al Comune, che al momento sembra presentarsi come poco più di una passeggiata, non può che rafforzare il sentimento positivo verso il Pd: «l'ex presidente della Margherita è l'interlocutore più apprezzato Oltretevere e il suo ritorno al Campidoglio è una scelta che pesa parecchio». Sempre Oltretevere. Senza che nessuno, nel Pd e a "Repubblica" allibisca!

Liberazione 12.2.08
Bertinotti: il voto utile è alla Sinistra
Per i diritti civili, il lavoro. E contare
di Angela Mauro


Il candidato premier de "la Sinistra l'Arcobaleno" apre la campagna elettorale: «Va costruita quella sinistra che rischia di scomparire, ma che può rinascere come soggetto unitario e plurale», «che il Pd sia di centro o che si sposti a sinistra dipende dal peso che questa nuova sinistra avrà». Domani il simbolo

Non siamo negli Usa. Il sistema di voto è italiano, il quadro politico pure, non c'è bisogno di Yes, we can e suonano fuori luogo quelle campagne elettorali che parlano di un mondo a noi lontano. Il sogno non può essere americano per Fausto Bertinotti. In lizza, in Italia, non ci sono solo due candidati, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi. E vanno ostacolati i loro sforzi di ridurre la corsa al voto a un sistema binario che magari poi, dopo le elezioni, si intreccia in un'unico governo di larghe intese. Va contrastata la tendenza a omologare il panorama politico. Va costruita quella sinistra che «rischia di scomparire, ma che può rinascere come soggetto unitario e plurale».
Ai microfoni del Tg1 , il Bertinotti candidato premier de "la Sinistra l'Arcobaleno" comincia a declinare i motivi per cui vale la pena scegliere l'unione tra Prc, Sd, Verdi e Pdci sulla scheda elettorale. «Il voto per la sinistra è utilissimo», sottolinea, perchè «che il Pd sia di centro o che si sposti a sinistra dipende dal peso che questa nuova sinistra avrà, da quanto potrà condizionare le sue scelte politiche». Piedi saldi sul terreno. «Votiamo in Italia - precisa Bertinotti - non negli Stati Uniti. E la presenza della sinistra è fondamentale per il futuro del paese».
Salari, precarietà, riconoscimento delle unioni di fatto. Parole citate - una più, una meno - nel programma dell'Unione, quello accantonato dopo il voto del 2006. Parole centrali nella delusione degli elettori sul governo di centrosinistra appena caduto. Il candidato Bertinotti scalda i muscoli in un'intervista mattutina a Radio 105 : stasera la prima sfida tv della campagna elettorale, con Franceschini e Tremonti a Ballarò . Riprende il tema del fallimento del programma. Sulle unioni civili, il programma «non è stato realizzato per la pressione delle forze centriste e moderate - ricorda - se andassimo al governo, riprenderei da lì, proponendo certamente il nostro sì alle unioni gay perchè i diritti della persona sono una frontiera necessaria all'Europa per il presente e il futuro». E nel programma del centrosinistra c'era anche il superamento della legge Biagi. Di nuovo: «Se dovessimo tornare al governo, sia subito archiviata».
Dichiarazioni di principio che servono più che altro a caratterizzare "la Sinistra l'Arcobaleno", a costruirla. Le prossime settimane serviranno da «fase costituente del nuovo soggetto», ha più volte specificato Bertinotti in questi giorni. E la risoluzione del nodo principale, quello sul simbolo, dovrebbe spianare la strada ad una marcia verso il voto compatta e senza intoppi. Il simbolo unitario verrà infatti presentato domattina, in un'iniziativa pubblica a Roma che donerà la cornice ufficiale alla candidatura di Bertinotti premier.
Alla luce dei suggerimenti di esperti sondaggisti, il simbolo unitario della "Cosa rossa" dovrebbe essere quello presentato come segno grafico all'assemblea dell'8 e 9 dicembre scorsi, di poco modificato. Si trattava della dicitura "La Sinistra, l'Arcobaleno" accompagnata dagli stessi colori dell'iride. Con molta probabilità, nel simbolo unitario non dovrebbero figurare i loghi dei quattro partiti. Si attende per oggi il via libera definitivo del Pdci che riunisce la direzione sul tema, dopo mesi di insistenza da parte del leader Diliberto sull'opportunità di mantenere la falce e martello.
Il luogo scelto per ospitare la kermesse della Sinistra domani mattina (alle ore 11) dovrebbe essere il Capranichetta, a Roma. In corso la discussione sul nome che dovrebbe accompagnare quello di Bertinotti in un eventuale ticket per la premiership. Spunta il nome di Rita Borsellino. Resta in campo quello di Grazia Francescato. Probabilmente domani entrambe saranno presenti alla presentazione del simbolo.
E i partiti sono al lavoro anche per la definizione delle candidature per liste unitarie che impongono un ridimensionamento delle rappresentanze di ogni singola forza. Da parte sua, il candidato premier specifica il principio generale: «Per noi il 50 per cento delle candidature rosa rimane un obiettivo primario. Credo che in tutte le istituzioni pubbliche, locali e nazionali, ci debba essere una rappresentazione di entrambi i sessi». La curiosità: «Non candiderei mia moglie Lella. Lunga vita insieme tutta immersa in politica. Ed è proprio l'idea che abbiamo della politica che ci tiene lontani dall'ipotesi che lei si candidi».
E' per questo che resta in piedi l'idea del ticket, anche se la "signora anti-mafia" Borsellino non fa mistero di preferire una prosecuzione dell'impegno politico in Sicilia. Regione nella quale l'ipotesi di una sua candidatura a governatore è sostenuta da movimenti e associazioni della società civile, nonchè dalla stessa Sinistra Arcobaleno che, sottolinea il segretario regionale del Prc Rosario Rappa, non a caso invita «il Pd a sciogliere, entro la fine della settimana, il nodo tra lei e la Finocchiaro a favore della prima». Si discosta il Pdci siciliano, che vorrebbe candidare il "proprio" sindaco anti-mafia di Gela, Rosario Crocetta. Ad ogni modo, l'eventuale discesa in campo della Borsellino a livello nazionale riceve il placet dei Verdi. «Sarebbe un segnale forte», dice il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli, magari anche per stemperare le perplessità di Sd sulla iniziale indicazione (tutta ufficiosa) della Francescato.
A proposito del movimento di Mussi: non è un mistero quanto fosse critico sulla candidatura di Bertinotti. La questione è stata risolta nel corso del direttivo della settimana scorsa e senza fratture con i partners del processo unitario. Ma, a conferma del malessere interno, ieri un sondaggio sul sito "Aprileonline" esibiva un 63 per cento di contrari al "Fausto leader", a fronte di un 35 per cento di favorevoli, il 3 per cento non sa. Totale votanti: circa 1.500.
Fuori dai partiti, il Bertinotti delle prime ore di campagna elettorale piace all'Arcigay, non senza rilievi critici. «Accogliamo con favore l'accenno del Presidente della Camera, a nome della Sinistra Arcobaleno, in sostegno delle Unioni Civili», premette il presidente Aurelio Mancuso, sottolineando che la «Sinistra europea di qualsiasi provenienza e matrice essa sia, sostiene l'uguaglianza piena dei diritti e dei doveri per le cittadine e i cittadini lesbiche e gay». Il richiamo invoca «strumenti giuridici differenti dalle passate formulazioni adottate dall'Unione, tra cui gli orrendi e pasticciati Dico». Il tema dei diritti civili, critica Mancuso, non deve essere «una delle tante questioni in campo, ma costitutivo della propria caratterizzazione politica». Il primo e il 2 marzo, l'Arcigay terrà una convention a Bologna, sede del Pride di quest'anno, «dove renderemo pubblici gli orientamenti rispetto alle politiche e alle amministrative»,afferma Mancuso.

Liberazione 12.2.08
Domenica centinaia di persone hanno risposto all'appello "Fare presto" lanciato da una settantina di sigle "autoconvocate"
Movimenti per la Sinistra l'Arcobaleno: «Adesione diretta al nuovo soggetto»
di Checchino Antonini


Dentro il Farnese quasi non si entrava, domenica mattina. Nel cinema di Campo de' Fiori centinaia di persone hanno risposto all'appello "Fare presto" lanciato da una settantina di sigle "autoconvocate" riassunte dal cartello Movimenti per la Sinistra-L'Arcobaleno . Hanno discusso per quattr'ore con una quarantina di interventi, il più applaudito e più volte citato quello dell'intervento del fisico Marcello Cini sul «sequestro della cultura» da parte del capitalismo. Età media - è stato notato - non bassissima, ma la partecipazione all'evento era tra le più assortite: "pezzi" di movimenti, di ong, di lavoro sul campo, amministratori locali, parlamentari e dirigenti di Prc e Ds, fino al segretario della Fiom, Rinaldini, a un segretario di partito, Franco Giordano, e a componenti di quella che è stata la delegazione della sinistra nel governo Prodi: Paolo Ferrero, Patrizia Sentinelli, Danielle Mazzonis. Mussi, assente per motivi di salute, è stato sostituito da Pasqualina Napolitano. Un buon inizio che non ha impedito a Piero Di Siena, di Sd, di notare quanto si fosse ancora «troppi e troppo pochi» anziché «di più e più uniti».
Posta in gioco dell'evento tra le più alte: da qui alla scadenza dei termini di presentazione delle liste, c'è da gettare le basi per il lavoro unitario lanciato agli Stati generali un paio di mesi prima ma poi restato in balìa di «resistenze», come è stato più volte sottolineato («ci sono ma possono essere battute», dirà Giordano, in un contesto determinato dall'«americanizzazione sociale e politica» per adoperare le parole di Gianni Rinaldini. Proprio per questo, la chiamata a un'«azione trasversale», come la definisce Pietro Folena di Uniti a sinistra, s'era posta alcuni obiettivi precisi: una carta delle regole, la realizzazione delle case della sinistra e di laboratori sociali (luoghi di aggregazione, sarà specificato nel dibattito, ma anche di nuovo mutualismo) e una campagna di adesione diretta al nuovo soggetto della sinistra che avrà il suo momento-clou nelle assemblee popolari e nelle iniziative pubbliche che si terranno tra l'1 e il 2 marzo con una consultazione popolare autogestita sui principali punti programmatici.
«Le urgenze - spiega al termine Folena - erano di trovare nel linguaggio, nella comunicazione, nello scambio, un tratto comune tra associazioni e territori per costruire un movimento politico con un pluralità di posizioni, unito sul punto che la nuova sinistra sia una grande costruzione non l'assemblaggio di ceti dirigenti». Obiettivi raggiunti? «C'è stato un consenso unanime - segnala Bianca Pomeranzi della rete Femminista - l'assunzione di tre ordini del giorno, due dei quali delle donne, e la decisione di formare un coordinamento». A gestire alcuni dei passaggi ci saranno una settantina di persone indicate dalle reti, ciascuna una donna e un uomo, che formeranno un coordinamento sia per proseguire la campagna unitaria, in sintonia coi quattro partiti, sia - attraverso un nucleo esecutivo che potrebbe coincidere in buona parte col gruppo informale che ha preparato l'assemblea del Farnese, che aprirà un tavolo su liste e programmi da ratificare nelle istanze territoriali, come proposto dall'odg letto dal sardista Claudio Cugusi. Tra i numerosi elementi di analisi e suggerimenti di percorso, la Rete Femminista, in uno degli odg letto da Lea Melandri (l'altro riguarda la centralità della libertà e responsabilità femminile nel discorso pubblico e nelle pratiche sociali), ha stimolato i movimenti a superare la politica come «affare di uomini» che mette al bando l'esperienza umana e personale, sollecitando una «cessione di sovranità nei luoghi decisionali e nei processi di selezione della rappresentanza». E' quello che Eleonora Forenza chiamerà «soggettivazione» della politica, l'opposto della «riesumazione, delle forme leaderistiche del consenso». «Qualcuno faccia un passo indietro», dirà anche anche Andrea Alzetta, il Tarzan di Action, attento al «rapporto bloccato tra politica e società». Un rapporto tutto da «ricucire» secondo il romano Roberto Latella, di Sinistra sociale. Francesca Foti, una delle voci più giovani, ha introdotto il tema dell'intreccio tra democrazia della rappresentanza e democrazia della partecipazione: «Bisogna diversificare le forme di aggregazione». Un cartello elettorale, in sala, non soddisferebbe nessuno. Il Prc «ci sta», ripete Giordano che punta al «massimo dell'innovazione per il nuovo soggetto». Ferrero avverte la necessità di un «sistema di regole» per la ricostruzione della comunità partendo dalla rottura della divisione tra vertice e base e chiederà criteri di rotazione e una riflessione sul ruolo degli eletti.
il manifesto 12.2.08
La scommessa arcobaleno parte dalle liste
di Giacomo Sette


Associazioni, comitati, reti e movimenti provano a costruire la sinistra dal basso. Il fardello del governo è ormai alle spalle. Via al «pre-tesseramento» ma occhi puntati sulle candidature: serve una rotazione con i partiti

Roma. E' sinistra solo se nasce anche dal basso. Domenica al cinema romano Farnese associazioni, comitati ambientalisti, reti territoriali, collettivi femministi, hanno battuto un colpo per affrontare insieme «la nuova sfida» della sinistra arcobaleno. «Nessuna quinta gamba - spiega Ciro Pisacane - il processo costituente deve avvenire con e non contro i quattro partiti». E' in ballo l'esistenza della sinistra e non si può delegare alle segreterie. «Non basta un cartello elettorale tra Prc, Pdci, Verdi e Sd, ci vuole una costituente aperta ai movimenti», spiegano gli organizzatori dell'incontro. La scommessa è alta: la creazione di un soggetto unitario, plurale, radicato nei territori, nei luoghi di lavoro come tra gli studenti. Come? Con la creazione di case della sinistra. O meglio circoli arcobaleno in cui sarà possibile il pre-tesseramento: luoghi di incontro e di conflitto sociale della sinistra.
«Bisogna fare presto», sostengono i costituenti. E dall'assemblea non escono solo parole: l'1 e il 2 marzo saranno nelle piazze per lanciare l'adesione alla sinistra arcobaleno. «Ci teniamo - sottolinea uno dei portavoce - che quei giorni vengano anche gli esponenti di partito. Il nuovo soggetto deve fondere le varie differenze». «Tra di noi ci sono culture, pratiche, esperienze diverse, ma oggi dobbiamo stringere un patto comune», afferma Pietro Folena, leader di Uniti a sinistra, che punta il dito sui trascorsi di governo: «Il maggioritario coatto ha annullato la cultura politica di sinistra che ora corre il rischio di sparire. Abbiamo bisogno di un nuovo inizio». Toni forti che manifestano un malcontento generale in una platea, sì numerosa ma con un tasso d'età abbastanza alto, che desidera partecipare. «L'obiettivo - conclude Folena - è costruire un nuovo senso comunitario e un mutualismo tra le varie associazioni. O sarà una sinistra federata dai territori o non sarà». Qualcun altro dal palco pone la questione morale: «Il problema non è la falce e martello ma creare un soggetto che entusiasmi, susciti passione e crei immaginario collettivo». Si discute di far tornare la centralità del lavoro, ma anche sul come affrontare i temi della privatizzazione della cultura. «Non basta candidare un operaio nelle proprie liste. Ci vogliono politiche di redistribuzione» esclamano in molti riferendosi all'idea del Pd di aprire le porte ai dipendenti della ThyssenKrupp.
Ai partiti vengono chieste nuove politiche. Lea Melandri e Maria Luisa Boccia pongono la necessità di contrastare la cultura maschilista dominante: «Ci vuole un passo indietro della rappresentanza maschile». Tra i più applauditi il fisico Marcello Cini («Tutto merito di Vespa», si schernisce) che parla di mercificazione dei saperi e di difesa della laicità: «Adesso che torneremo all'opposizione - dice - bisogna trovare risposte collettive». E' una sinistra che vuole chiudere la parentesi governativa. «Bisogna riconquistare quella parte di movimento della pace che ci siamo persi con scelte discutibili, come l'Afghanistan o la promozione di De Gennaro», afferma l'europarlamentare Vittorio Agnoletto. Presenti anche leader del Prc come Paolo Ferrero e Franco Giordano. E mentre il segretario di Rifondazione strappa applausi sancendo la sfida come aperta, dalla platea arriva un urlo: «Le liste».
La questione più spinosa. Il popolo della costituente ha chiuso con l'esperienza delle candidature indipendenti nei partiti e ora vuole spazio e regole ferree per i candidati, come la rotazione e il divieto di candidature plurime. «La società - dichiara Andrea Alzetta del movimento Action - deve irrompere nel terreno politico. Basta coi politici pompieri dei conflitti sociali». Nella prossima legislatura verosimilmente l'Arcobaleno passerà da 150 parlamentari a 60-70. E difficilmente le segreterie di partito lasceranno molti posti. «La discussione sulle liste - sentenzia Gianni Rinaldini della Fiom - aprirà liti furibonde». Sulla stessa scia Alzetta, che sottolinea come anche le associazioni e le coop possano diventare piccole lobby: «Il nodo vero della sinistra è fare società, concepire il rapporto con le istituzioni in modo mobile».