giovedì 14 febbraio 2008

l’Unità 14.2.08
Prodi: la missione continua
La Sinistra arcobaleno: subito via
di Gabriel Bertinetto


Il capo del governo in carica, il ministro degli Esteri, ed il candidato premier del Partito democratico alle elezioni di aprile riconfermano con fermezza il sostegno alla missione militare italiana in Afghanistan.
Prodi, D’Alema e Veltroni manifestano prodondo cordoglio per la morte del maresciallo Giovanni Pezzulo, ma riconfermano la volontà di mantenere gli impegni presi con la comunità internazionale e con le autorità di Kabul. Una presa di posizione in linea con l’orientamento del Pd sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero nell’imminenza del voto alla Camera sul decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 28 gennaio scorso. Martedì prossimo il testo approderà in aula per essere convertito in legge. L’altro giorno le commissioni congiunte Difesa e Esteri di Montecitorio hanno già dato il via libera al provvedimento con il solo voto contrario dei deputati della Sinistra arcobaleno.
«Questo momento di lutto -afferma il presidente del Consiglio- non deve essere occasione per aprire un dibattito». «Occorre avere il senso delle cose», continua Prodi secondo il quale la tragica morte del nostro connazionale «non può cambiare le conclusioni politiche su questo tema». Per Prodi «è il momento di sottolineare che i soldati italiani sono impegnati nella ricostruzione civile e materiale dell’Afghanistan. Dobbiamo essere uniti e piangere il maresciallo Pezzulo».
Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema affida a una nota della Farnesina «il più vivo cordoglio ai familiari della vittima, l’auspicio di una pronta guarigione del militare ferito, solidarietà e riconoscenza alle forze militari italiane presenti in un’area di importanza cruciale e in una difficile missione di mantenimento della pace». «L’Italia -prosegue la dichiarazione- rimane fortemente impegnata assieme alla comunità internazionale nell’opera di stabilizzazione dell’Afghanistan, per favorire il consolidamento democratico e porre le condizioni per lo sviluppo sociale ed economico del Paese».
Simili i concetti espressi da Walter Veltroni, che sottolinea come il militare ucciso fosse «impegnato in attività di cooperazione civile e militare e di sostegno sanitario alla popolazione». E conclude: «Confermiamo l’impegno del Partito democratico a sostegno delle nostre missioni e dei nostri militari».
Con diverse sfumature invece i quattro partiti della Sinistra arcobaleno traggono dal nuovo episodio di violenza in Afghanistan la convalida del loro dissenso sull’opportunità di restare ancora in quel Paese. Il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano precisa tuttavia che le posizioni di Rc sul conflitto afghano sono note da tempo, e non derivano dalla tragica sorte subita dal povero Pezzulo. «Eravamo e siamo convinti -dice Giordano- che il conflittto debba essere affrontato e risolto con mezzi diversi da quelli militari. Ma oggi non è il momento della polemica, è il momento del lutto e della solidarietà più sincera e sentita alla famiglia della vittima e a quella del suo commilitone ferito». Cordoglio anche dal leader dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto, che aggiunge lapidario: «Le truppe italiane debbono andarsene». Cesare Salvi, di Sinistra democratica, sostiene che «la vita dei nostri eroici militari è messa a rischio per una causa ingiusta. I bombardamenti della Nato mietono vittime nella popolazione civile suscitando l’ostilità della popolazione Aafghana». Per Salvi in Afghanistan «è in corso una guerra inutile ed anzi dannosa rispetto all’obiettivo dichiarato: la lotta al terrorismo». Il presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, parla di situazione afghana «sempre più drammatica», tale da richiedere «una svolta soprattutto per risparmiare altre sofferenze alla popolazione civile».
Su questo aspetto della politica estera la spaccatura fra Partito democratico e Sinistra arcobaleno era già consumata e si sarebbe manifestata comunque con il voto sul decreto legge la settimana prossima. L’assassinio del maresciallo Giovanni Pezzulo, pur accomunando tutte le forze politiche nel «dolore» e nel «cordoglio», mette a nudo quelle divergenze di fronte all’opinione pubblica.
La missione in Afghanistan insieme a tutte le altre in cui sono impegnate le forze armate italiane dal Kosovo al Ciad, dalla Bosnia al Libano, sarà approvata con i voti del Pd e degli altri partiti dell’ex-maggioranza (esclusi i quattro di Sinistra arcobaleno), e con il concorso dei gruppi del centrodestra. Ma se il Pd conferma l’impegno in Afghanistan, a destra si chiede addirittura un aumento delle truppe. L’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu invoca una riflessione sull’adeguatezza delle «condizioni operative» in cui si trovano ad agire i militari italiani. Il senatore De Gregorio, di «Italiani nel mondo», ritiene che siano «necessari più uomini e più mezzi per tutelare i nostri soldati».

l’Unità 14.2.08
Fausto leader Arcobaleno rispolvera il ’68. «On s’engage...»
La risposta a «We can», con un adagio che rinvia a Sartre. «Noi siamo la sinistra in questo Paese»
di Simone Collini


«ON S’ENGAGE». Et voilà Fausto il rosso, fedele alla linea anche mentre si lascia alle spalle falce e martello. Se Veltroni rilancia il «yes, we can» a stelle e strisce, Bertinotti ufficializza la sua candidatura alla presidenza del Consiglio rispolverando l’«engagement» di sessantottina memoria. Il presidente della Camera presenta il simbolo della Sinistra arcobaleno insieme ai vertici di Prc, Pdci, Verdi e Sd in un caffè poco distante da Montecitorio, e a chi gli domanda se per il 13 e 14 aprile confidi in un risultato a due cifre risponde: «On s’engage». Ci si impegna per questo, con un’espressione che rimanda al maggio francese, a Sartre, alla figura dell’intellettuale politicamente impegnato nel processo di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali. Del resto, dice Bertinotti, quella che si avvicina «non è solo una sfida elettorale» perché «la sinistra sparirebbe se vincesse l’omologazione in salsa americana»: «Vogliamo far nascere una nuova sinistra in Italia, che cambi la società e non si arrenda a un duopolio che cancellerebbe la sinistra». Una sfida che esclude, in caso di sconfitta di Berlusconi, un governo Pd-Sinistra: «Non è alle porte. Il Pd dovrebbe modificare profondamente i propri orientamenti politici. Noi lavoreremo per contaminare da sinistra il Pd».
L’impresa di dar vita a un soggetto unitario sarà tutt’altro che semplice. Insieme a Bertinotti presentano il simbolo Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio e Titti Di Salvo (Mussi è ricoverato per un trapianto di reni), e se anche l’ipotesi è di dar vita nella prossima legislatura a gruppi unici alla Camera e al Senato, i prossimi passi dell’operazione dipenderanno molto dal risultato elettorale. Diliberto ribadisce anche durante la presentazione del simbolo che era «contrario» alla cancellazione della falce e martello, e il Pdci di fronte a una percentuale insoddisfacente è pronto a dare battaglia. Bertinotti lo sa e difende la scelta: «Il Pci e il Psi di Togliatti e Nenni, nel ‘48, si presentarono con l’immagine di Garibaldi». La decisione di sciogliere Prc, Pdci, Verdi e Sd sarà presa dai partiti, dice, ma per quanto lo riguarda è convinto della necessità di dar vita a una forza nuova, «colorata e plurale», che nasce con «allegria, da radici antiche ma con immaginazione per il futuro», per «dare voce a coloro che rischiano di restare fuori» e per «costruire le domande di cambiamento della società».
Colorata com’è l’aria che si respira nel bar in cui viene presentato il simbolo della Sinistra: «È un luogo affascinante ma molto disagevole», riconosce il presidente della Camera rendendosi conto della difficoltà a muoversi e ascoltare di giornalisti e cameramen stipati nello spazio angusto, «ma può dare il senso dell’impresa: divertente, difficile, un po’ incasinata». E poi: «Tutti i luoghi hanno vocazione alla politica, il bar è uno dei più vocati». Uno spirito che servirà quando comincerà il confronto sulle candidature. Bertinotti non sarà capolista ovunque («non c’è bisogno di una personalizzazione eccessiva»), ma già fa discutere lo schema prospettato all’incontro riservato tra Bertinotti e i quattro leader, che prevede il 45% di candidature scelte dal Prc, il 20% ciascuno per Verdi e Pdci e il 15% per Sd.

l’Unità 14.2.08
«Tutte in piazza, no alle crociate»
Dopo l’irruzione della polizia in ospedale, oggi manifestazione a Napoli. Sit-in anche a Roma
di Virginia Lori


LA RISCOSSA. Dopo il blitz anti-194 di Napoli le donne si contano, si fanno vedere: basta con questo «clima che sta montando contro di noi», basta con questa «crociata contro il nostro corpo». Mobilitazione: dalle associazioni ali sindacati. E oggi alle 17 in piazza Vanvitelli proprio nel capoluogo partenopeo l’Udi (Unione donne in Italia) ha convocato una manifestazione. Quanto avvenuto al Policlinico Federico II di Napoli «è una dichiarazione di guerra» attacca l’assemblea della Casa internazionale delle donne di Roma che per questo pomeriggio ha organizzato un sit in di fronte al ministero della salute. «La campagna antiabortista in atto è diventata ben presto, ma non poteva essere altrimenti, violenza sulle donne» rincara la Segreteria nazionale della Cgil: «Le modalità con cui si sono svolti i drammatici fatti ledono i principi del funzionamento democratico del nostro paese: la denuncia anonima che determina l’intervento di un magistrato che non effettua verifiche, l’irruzione in un ospedale, l’intimidazione di altre pazienti. Non solo si è superato ogni limite di rispetto nei confronti di una donna già provata da un’esperienza drammatica quale è un’interruzione di gravidanza dettata da ragioni terapeutiche, ma rappresenta uno dei frutti avvelenati di una campagna condotta con furore ideologico e fanatismo contro una legge che, in realtà, nel corso di questi anni ha ridotto drasticamente il ricorso all’interruzione di gravidanza ed ha posto fine alla piaga dell’aborto clandestino».
Di «crociata contro le donne» parla invece «Usciamo dal silenzio», il movimento di donne nato più di un anno fa a Milano proprio per difendere la legge 194 dagli attacchi di alcuni esponenti del mondo politico e cattolico. Il movimento milanese sottolinea inoltre che «il diritto di scelta e la cura delle vite sono la nostra esperienza quotidiana e sono oggi minacciate dalla campagna contro l’aborto che assume via via i toni di una feroce crociata contro le donne e invade la campagna elettorale».
In campo anche «Arcidonna»: è «grave» quanto successo a Napoli, l’8 marzo tutte in piazza a difesa della legge 194. Mentre «Telefono rosa» ha offerto assistenza legale e psicologica alla donna che l’altro giorno a Napoli è stata involontaria protagonista di un blitz della polizia. «Quanto è avvenuto è allucinante - dice il presidente dell’associazione, Maria Gabriella Moscatelli - Pensare che una donna ancora sotto anestesia può essere interrogata nel momento più doloroso è pazzesco. Stiamo vivendo un periodo di restaurazione».
E anche il mondo politico si muove. «Saremo in tante a dire basta, a rispondere all’offensiva in atto contro la libertà e la responsabilità femminili» spiega il ministro Pollastrini. «Chiediamo che si faccia chiarezza su quanto è accaduto al nuovo Policlinico di Napoli, sono troppi gli attacchi alla libertà femminile» dice Anna Finocchiaro. E mentre Ferrara non resiste alla provocazione - «Se non vado errato in quell’ospedale ieri è morto un bambino. Chissà se nei commenti di stampa qualcuno se ne ricorderà» - sono in molti a dare solidarietà alle donne. «L’episodio di Napoli di ieri è di una assoluta gravità, un pesante attacco alla dignità delle donne e ai loro diritti» le parole del ministro Ferrero. E solidarietà è arrivata anche da Chiara Acciarini, Sottosegretario alle politiche per la famiglia, e da Marina Sereni: «Chi alimenta questo clima di scontro - dice - si assume una grave responsabilità».

Repubblica 14.2.08
Se è in pericolo il destino dei diritti
di Stefano Rodotà


Quale sarà il destino dei diritti e delle libertà civili nel nuovo tempo della politica che si è appena annunciato, e che assumerà tratti più netti dopo il voto del 13 aprile? Da Napoli è appena arrivata una inquietante risposta, tanto più grave perché dà la misura di un mutamento di clima.
Un mutamento di clima che, senza bisogno di cambiare le norme in vigore, determina una vera e propria aggressione nei confronti di chi altro non ha fatto che valersi dei diritti che le riconosce la legge sull´interruzione della gravidanza.
Il racconto della donna è davvero un caso di scuola di violazione della dignità della persona, dunque di uno dei principi fondativi della convivenza, come si legge nella nostra Costituzione e nell´articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Non basta dire, infatti, che s´era ricevuta una segnalazione anonima e che era necessario effettuare accertamenti. Proprio il carattere anonimo delle segnalazioni esige sempre prudenza nella loro utilizzazione, altrimenti la libertà e la dignità di ciascuno di noi vengono consegnate nelle mani di qualsiasi mascalzone. Vi erano molti modi per accertare se davvero si stava violando la legge, senza bisogno di piombare addosso alla donna e di farle domande assolutamente illegittime, come quella riguardante il padre. Ma ci si comporta così quando si ritiene di essere assistiti da un consenso sociale, quando si pensa che l´aria sia cambiata e che nell´agenda politica ed istituzionale a diritti e libertà spetta ormai un posto marginale. La vicenda napoletana ci ha purtroppo dato la tragica conferma di una regressione civile già in atto. Sarebbero urgenti, a questo punto, una reazione politica ed una istituzionale.
Chiunque abbia il senso delle istituzioni, merce purtroppo sempre più rara, dovrebbe esigere, nell´interesse di tutti, un chiarimento del modo in cui magistratura e polizia si sono comportate a Napoli, e l´individuazione delle specifiche responsabilità, come hanno chiesto le componenti del Csm. Siamo di fronte ad una violenza di Stato, che esige un immediato e pubblico ristabilimento della legalità. Solo così sarà possibile cancellare, almeno in parte, l´effetto intimidatorio che quella irruzione può avere nei confronti di tutte le donne che intendono far ricorso alla legge 194. Per quanto riguarda la reazione politica, sono ovviamente benvenute le proteste, le condanne. Ma non bastano. Non siamo di fronte ad un caso isolato ed isolabile, ma appunto alla rivelazione di un clima. E questo clima può essere cambiato solo se, con adeguata forza, si rifiuta l´agenda politica che l´ha determinato e a questa se ne oppone una più civile, rispettosa delle persone e della loro umanità, che rimetta al primo posto il riconoscimento e il rispetto dei diritti.
Dal centrodestra sono venuti segnali insistiti e chiarissimi. La radicale messa in discussione dell´aborto è netta, ha ormai una forte evidenza nella campagna elettorale, ben poco offuscata dalle variazioni tattiche di Berlusconi rispetto alla lista di Giuliano Ferrara, visto che lo stesso Berlusconi ha rilanciato proprio la parola d´ordine di Ferrara di proporre all´Onu ben più di una moratoria sull´aborto - il pieno riconoscimento del diritto alla vita del concepito. A queste proposte si aggiungono la posizione ostile ad ogni aggiustamento della legge sulla procreazione assistita, anche a quelli che una provvida giurisprudenza ha rigorosamente introdotto, mettendo in evidenza gli eccessi di potere del governo Berlusconi; la dura linea sulle questioni della sicurezza; la "questione privacy" proposta sostanzialmente come mezzo per limitare il ricorso alle intercettazioni anche in materie dove appaiono necessarie e per incidere sulla libertà d´informazione; e l´ipotesi di procedere ad una revisione anche della prima parte della Costituzione, quella appunto delle libertà e dei diritti.
Se questo è il catalogo, ormai evidentissimo, del centrodestra, quali segnali sono venuti dal Partito democratico e dalla Sinistra arcobaleno? Flebili, comunque privi finora della evidenza necessaria per presentarsi come un programma forte e coeso, capace di imporsi all´attenzione dell´opinione pubblica e modificare così l´agenda politica. Per il Partito democratico questo è anche il frutto di una difficoltà interna, testimoniata dalla pubblica adesione della senatrice Binetti alla proposta berlusconiana sull´aborto. Per la Sinistra arcobaleno è probabilmente l´effetto determinato dal ritardo di una effettiva elaborazione comune.
La passata legislatura lascia un´eredità pesante. Testamento biologico, unioni di fatto, disciplina delle intercettazioni sono lì a ricordarci una impotenza dell´Unione, la difficoltà estrema nel gestire politicamente situazioni complesse. Soprattutto per i primi due casi, si constatò in modo sbrigativo che non v´era la necessaria maggioranza parlamentare, e questo favorì all´interno dell´Unione le operazioni di chi volle chiudere nel cassetto testi significativi. Non si tenne conto che si trattava di materie che riguardano la vita di tutti, le decisioni sul morire e l´organizzazione delle relazioni affettive (e il nascere, legato alle nuove linee guida sulla procreazione assistita), sì che sarebbe stato necessario avere non solo un più netto atteggiamento davanti all´opinione pubblica, ma anche più coraggio parlamentare, portando in assemblea i disegni di legge, obbligando i senatori ad assumere esplicitamente le loro responsabilità e consentendo così ai cittadini di valutare meriti e colpe all´interno di entrambi gli schieramenti. In altre materie, quelle legate alla sicurezza pubblica in particolare, vi è stata una eccessiva propensione a soluzioni sbrigative, con una riduzione di problemi complessi a questioni di puro ordine pubblico, rendendo indistinguibile la posizione del governo da quella dell´opposizione. Di queste debolezze si è avuta una conferma ulteriore nelle materie sbrigativamente indicate con il termine privacy, che sono poi quelle che riassumono molti dei diritti legati al diffondersi delle nuove tecnologie. Un solo esempio. Con il decreto "milleproroghe" si è portato ad otto anni e mezzo il tempo di conservazione dei dati sul traffico telefonico, un non invidiabile record mondiale.
Che cosa potrà accadere nel prossimo Parlamento? La previsione più facile induce a concludere che, se prevarrà il centrodestra, la linea sarà quella della riduzione dell´autonomia delle persone nel decidere della loro vita (ricorso alla procreazione assistita, aborto, rifiuto di cure, decisioni di fine vita, unioni di fatto), dell´indebolimento delle garanzie in nome della sicurezza, della limitazione del controllo di legalità da parte dei giudici, che è una componente essenziale della tutela dei diritti. Ma questo non significherà necessariamente abbandono di una nuova normativa sul testamento biologico o sulla procreazione assistita. Regole su queste materie potrebbero servire per una finalità esattamente opposta a quella per la quale erano state finora pensate: chiudere ogni varco alla possibilità di giungere comunque al riconoscimento di diritti delle persone sulla base delle norme della Costituzione, come hanno fatto con grande rigore alcuni giudici.
La necessità di un diverso e chiaro programma in materia dei diritti è evidente. Questo programma, in primo luogo, deve essere dichiaratamente "conservatore", nel senso che deve consistere in una intransigente difesa dei principi costituzionali e in un loro coerente sviluppo nelle direzioni segnate dall´innovazione scientifica e tecnologica. È vero che queste innovazioni ci obbligano a confrontarci in modo assolutamente inedito con i temi della vita, dell´umano. Ma questa riflessione, e le conseguenze pratiche che se ne traggono, devono trovare la loro collocazione nel quadro di valori democraticamente definito, appunto quello costituzionale. Questo non esclude il confronto, la discussione, la prospettazione di punti di vista anche radicalmente diversi. Esclude, invece, la pretesa di imporre un altro quadro di principi, imposto autoritativamente, ritenuto "non negoziabile" perché espressione di verità non discutibili.
Giungiamo così al vero nodo politico e culturale, alla revisione costituzionale di fatto che si vuole realizzare avendo le prescrizioni delle gerarchie ecclesiastiche come unica tavola dei valori. Questo è uno dei punti condivisi di cui si vanta il Popolo delle libertà. Questa è la vera radice del rischio che corrono libertà e diritti, che non ha nulla a che vedere con l´anticlericalismo o con il "laicismo", ma ha molto a che fare con la democrazia. Un rischio che si aggrava ogni giorno, visto che l´interventismo delle gerarchie vaticane si traduce sempre più spesso in una precettistica minuta. Quale società si sta delineando?
Le debolezze politiche e culturali del passato centrosinistra sono nate anche su questo terreno, e si è rivelata sbagliata la linea di chi ha ritenuto che un atteggiamento morbido avrebbe consentito un progressivo superamento delle difficoltà. Il "politicismo" del rapporto esclusivo con le gerarchie vaticane non ha pagato e, anzi, ha aperto varchi sempre più ampi al loro intervento, mentre veniva trascurato e mortificato il rapporto con il mondo cattolico più aperto. Chiedere maggiore consapevolezza di questa situazione non significa incitare allo scontro. Significa mettere in chiaro, nella fase democraticamente essenziale della campagna elettorale, i propositi e le prospettive di azione di ciascuno. Anche su questo si costruirà il consenso delle forze politiche di centrosinistra e di sinistra.

Repubblica 14.2.08
"Infrante le regole-base della buona medicina"
Veronesi: dovevano proteggere quella donna
di Carlo Brambilla


Al risveglio da un aborto la paziente prende a poco a poco coscienza del proprio corpo e del figlio che non c´è più. In quel momento così delicato c´è stato l´interrogatorio

MILANO - «Inammissibile. Sono state infrante con la forza e con modalità primordiali le regole elementari della buona medicina. Superare in questo modo le barriere sanitarie, come ha fatto la polizia a Napoli, è un reato dal punto di vista morale e deontologico». Umberto Veronesi, direttore scientifico dell´Istituto Europeo di Oncologia, condanna senza mezze misure il blitz condotto dalle forze dell´ordine al Nuovo Policlinico di Napoli. Critica il personale medico che ha permesso agli agenti di entrare nella stanza della paziente per interrogarla e denuncia le tensioni create dalle crociate contro la legge 194.
Professor Veronesi, come avrebbero dovuto comportarsi i medici davanti all´irruzione della polizia?
«Sono dispiaciuto che il personale medico non si sia opposto subito con maggiore decisione. Posso immaginare il loro iniziale stupore e lo smarrimento di fronte a un´irruzione che, a quanto descritto, aveva tutto l´aspetto spettacolare di una retata. Ma un medico deve essere pronto a tutto per difendere il suo paziente. Deve mantenere la massima lucidità. Soprattutto quando il suo paziente si trova in un momento di estrema debolezza fisica e psichica. Tanto più se si trova dentro l´ospedale che dovrebbe essere il luogo di protezione e tutela totale della persona malata».
Si è parlato di clima da caccia alle streghe, di crudeltà ideologica, di clima da Inquisizione. Quale è stato secondo lei l´aspetto più negativo di questo intervento?
«Il paziente che esce dalla sala operatoria entra in una precisa fase della cura, nella quale riceve, oltre all´assistenza post-operatoria (il controllo del dolore, la somministrazione dei farmaci e così via) anche il sostegno psicologico e quell´insieme di gesti e di atteggiamenti tesi a trasmettere la serenità e il coraggio. Si tratta di un vero e proprio momento della terapia. E come tale non può essere violato da un blitz delle forze dell´ordine. Si è mai vista una squadra di Polizia con tanto di pistole spianate entrare in sala operatoria con il paziente sotto i ferri? Neppure nei telefilm americani».
Tanta urgenza per indagare su un´ipotesi di aborto fuori dai termini di legge sembra difficile da capire.
«L´irruzione è grave se pensiamo che, posto che l´accertamento andasse fatto, non c´era nessuna urgenza. Poteva essere effettuato tranquillamente nei giorni successivi. Perizie su aborti terapeutici sono state fatte a Milano settimane o mesi dopo la dismissione delle pazienti».
L´intervento della polizia ha interferito nel processo di cura? Sono aumentati i rischi per la salute della paziente?
«Sì. Il fatto che stiamo parlando di aborto rende tutto più grave. Concentriamoci per una volta sul dramma dell´aborto. Non c´è donna né medico al mondo che voglia fare un aborto. Quando una donna si trova nella tragica situazione di farlo la sua decisione la fa precipitare in una situazione psicologica estremamente fragile in cui aumenta il suo rischio personale di scivolare nella malattia della depressione».
Il blitz è arrivato proprio nel momento più delicato. Quello immediatamente successivo all´intervento.
«Esattamente. Quando la donna si risveglia dall´anestesia prende progressivamente coscienza del suo corpo, che non accoglie più il futuro figlio. E viene assalita da una vera e propria sindrome di abbattimento e di abbandono che va curata attentamente e prontamente perché non degeneri in patologia aggiungendo dramma a dramma».
Ritiene che abbiano influito in questa vicenda le recenti campagne contro l´aborto e la legge 194?
«Le tensioni create da queste crociate e dalle relative contro-crociate sono sotto gli occhi di tutti».

Corriere della Sera 14.2.08
L'analisi Bauman teme la «globalizzazione cattiva»
Illuminismo addio: comincia il secolo delle paure «liquide»
di Giuseppe Galasso


«Questo libro», dice Zygmunt Bauman, «è un inventario delle paure liquido- moderne», e tenta di individuare le loro radici comuni e i modi di vincerle.
La «modernità liquida» è per lui il mondo post-moderno, in cui «la vita liquida scorre da una sfida all'altra, da un episodio all'altro, e per la consuetudine che abbiamo con le sfide e gli episodi, essi tendono a non durare a lungo». Per le paure è lo stesso. La speranza illuministica di tagliarne le radici non si è realizzata. Anzi, «nel contesto liquido-moderno la lotta contro le paure si è rivelata un compito a vita », e i pericoli per cui nascono sono diventati «compagni permanenti e inseparabili della vita umana ».
Preoccupante è poi specialmente la prospettiva politica alla quale per Bauman il dilagare della paura sembra destinare l'umanità del XXI secolo. «La nostra globalizzazione negativa — egli scrive — oscilla tra il togliere la sicurezza a chi è libero e l'offrire sicurezza sotto forma di illibertà». Di più non c'è da sperare, e Bauman, che certo non pecca di incoerenza e non difetta di spirito consequenziario, ne deduce, infatti, che «ciò renderà la catastrofe "ineluttabile"».
D'altra parte, egli non si pone, però, come un catastrofista assoluto. Ci lascia una via d'uscita, la cui porta, se eventualmente non si rivelasse comoda, avrebbe sempre il pregio di essere aperta e praticabile. Solo ritenendo ineluttabile la catastrofe, afferma altrettanto categoricamente, solo prendendola davvero sul serio, l'umanità ha speranza «di renderla evitabile». E ciò significa che il secolo in cui siamo appena entrati «può essere un'epoca di catastrofe definitiva», ma anche essere l'epoca «in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità».
Dalle ceneri del profeta di sciagura, che si augura dalla storia una solenne e liquidatoria smentita delle proprie profezie, viene fuori, così, trepidante, ma sicuro di sé, un neo-illuminista (o almeno un neo-positivista), che vede nella ragione l'arma decisiva per vincere la paura, cioè un atteggiamento per nulla razionale, e pensa con fiducia all'arca di un'alleanza tra
philosophes (o scienziati) e popolo, tra la ragione e ciò che vi rilutta e si condanna, così, da sé. E questo scenario, che chiude il libro, non è il coup de théâtre di uno spirito a corto d'argomenti. Si sente a fior di pelle la realtà della scommessa che Bauman intende fare e proporre quando termina esprimendo la speranza «di poter ancora scegliere tra questi due futuri», la catastrofe, cioè, o quell'alleanza.
Bauman non è, però, solo un predicatore di alternative estreme. La sua analisi dell'insinuarsi della paura (di innumerevoli paure) nel mondo liquido-moderno per effetto di quella che definisce «globalizzazione negativa» è minuziosa e impressionante, ed è forse ciò che nel suo libro colpisce di più. A suo avviso, questa globalizzazione è, peraltro, l'opera di una «sovraclasse globale», che così «continua a gratificare se stessa su una scala sbalorditiva, senza essere disturbata», e, anzi, con «grandi guadagni» e «scarsissimi rischi». Ma, mi chiedo, non c'è qui un po' troppo di «forze oscure della reazione», operanti nell'ombra per continuare nei loro privilegi? Non si riflette qui, fin troppo, la matrice marxistica di Bauman, con questa visione di una «internazionale del denaro», che fa e disfa tutto a suo vantaggio?
Credo di si. E così pure credo che la prevedibilità («uno degli attributi di cui più si avverte la mancanza nel mondo liquido-moderno globalizzato negativamente») sia solo una condizione permanente dell'esperienza umana. Chi, un po' prima, avrebbe previsto la rivoluzione in Francia nel 1789 o, nei primi mesi del 1914, la «grande guerra» in Europa? L'imprevedibilità è solo ciò a cui ci mette di fronte la volontà (distruttiva quanto creativa) delle forze che fanno la storia. Pensare di eliminare imprevedibilità e paure equivale a credere a un'umanità e a uomini diversi da quelli che conosciamo da sempre. Proprio per questo, però, conoscere le paure e considerare l'imprevedibile è essenziale nella vita dei singoli e delle collettività, nonché nell'azione di chi le governa. E su questo piano il libro di Bauman è certo di non comune acume e interesse per ciò che dice delle paure nel mondo da lui definito liquido-moderno (che, però, va pur detto, è un mondo di uomini non diversi da quelli di ogni altro mondo, anche solido, se ve ne sono mai stati).

Corriere della Sera 14.2.08
Balla tutta l'energia del mondo
Pitture, sculture, scenografie, bozzetti L'uomo che mandò in orbita il Futurismo
di Francesca Montorfano


Giacomo Balla e Milano. Un incontro che a prima vista può apparire ovvio, naturale, perché nell'immaginario collettivo entrambi, l'artista e la città, riportano a visioni di dinamismo, di velocità, di auto che sfrecciano per le strade, di luci che si riflettono nelle vetrine moltiplicandosi in mille bagliori. Ma è anche un incontro che appare come una sfida, un'incursione in quella che è la patria culturale per eccellenza di un altro dei grandi protagonisti della stagione futurista, Umberto Boccioni. Tuttavia, se è stato quest'ultimo a formulare il programma della nuova pittura, sarà proprio Balla a rielaborarlo ed arricchirlo nel suo personalissimo linguaggio, avventurandosi in terre ancora inesplorate fino a investire l'intera realtà della vita e a diventare il punto di riferimento delle avanguardie italiane.
È il febbraio del 1910 quando Giacomo Balla firma il Manifesto dei pittori futuristi, confermando così la sua adesione alla battaglia di una generazione di intellettuali critici verso l'arte del passato, impegnati a rinnovare tematiche e mezzi espressivi con sperimentazioni rivoluzionarie, che eserciteranno un'enorme influenza sulle correnti artistiche europee contemporanee e successive. «Il Futurismo ha riportato nel dibattito europeo l'Italia che ne era stata esclusa dall'epoca di Tiepolo e di Canova — afferma Livia Velani, curatrice insieme a Giovanni Lista e a Paolo Baldacci della grande retrospettiva che si apre a Palazzo Reale —. E Milano vuole sottolinearne tutta l'importanza con una mostra dedicata all'uomo che ne è stato protagonista d'eccezione e artista totale, pittore, scultore, fotografo, progettista, pubblicitario. Indagando non solo il periodo del Futurismo cosiddetto "storico" che si concluderà con la Grande Guerra, ma tutti gli anni Venti del Novecento, vissuti dall'artista nel segno di una multidisciplinarità che lo condurrà a una ricostruzione dell'universo in chiave futurista e metterà in luce anche l'aspetto spensierato e ludico della sua arte».
Nel suo slancio di rinnovamento totale del quotidiano Balla opererà anche un'incursione nel campo del design e della moda, creando giocattoli e fiori artificiali dalle forme geometriche e i colori squillanti e disegnando abiti anticonvenzionali per i «nuovi uomini». Modelli che lui stesso indosserà nelle serate futuriste: pantaloni a quadretti minuti, gilet e camicia multicolori, giacca scura a punta con revers viola come la paglietta e l'immancabile bastone «quadro».
Oltre 200 sono le opere esposte a Palazzo Reale. Dipinti a tempera e ad olio, pastelli, acquarelli, disegni, assemblaggi, sculture, scenografie e bozzetti di costumi. La mostra si apre con l'esperienza divisionista che l'artista declina in moduli inediti, con audaci tagli fotografici e soggetti che dal mondo famigliare, dal noto ritratto della madre, arrivano al documento sociale e ad una rappresentazione panteistica della natura, come in «Fallimento » del 1902, nella «Giornata dell'operaio » del 1904 o nel grande polittico di Villa Borghese «Parco dei daini » del 1910, prestito straordinario della Galleria d'Arte Moderna di Roma. Ma toccherà ad opere celebri come «Bambina che corre sul balcone» del 1912 sancire l'irruzione nel pieno Futurismo, che l'artista intraprende con sperimentazioni sempre più radicali sui temi che lo appassionano: la vita frenetica della città, il progresso tecnologico, la velocità, la scomposizione della forma in movimento, la simultaneità della visione. Che si tratti di automobili o di corpi celesti, gli oggetti che adesso Balla studia non appaiono più sulla tela. A renderne la presenza in movimento sono linee, prismi, vortici e colori, forme astratte e concettuali che daranno vita a capolavori come «Automobile in corsa» del Moma di New York (mai esposto in Italia), «Orbite celesti» o la serie di «Mercurio passa davanti al sole», realizzata dopo l'eclissi del 1914.
«Saranno quindi gli anni dal 1916 al 1929, che la mostra prende in esame — commenta Paolo Baldacci — a documentare come nell'ultimo periodo futurista la poetica di Balla si allontani dagli aspetti più meccanici e tecnologici per avvicinarsi a una visione in chiave energetica della natura, che metta in contatto l'uomo con la totalità cosmica».

Corriere della Sera 14.2.08
L'intervista. Il critico Bonito Oliva spiega come lo spirito e lo stile del Movimento influenzi l'arte di oggi
«Dalla performance alla video art, tutto nasce lì»
di Francesca Bonazzoli

C' è un'eredità del Futurismo che attraversa tutto il Novecento e arriva all'arte contemporanea: l'aspirazione a catturare il movimento e la velocità nelle immagini, l'uso delle macchine intonarumori, la scrittura sonora, il teatro di varietà, le scazzottature, l'improvvisazione scenica, i collage, trovano compimento nel secondo Novecento nella videoarte, nella performance, negli happening, nella body art, nell'uso anarchico di ogni tipo di materiale, persino i resti di un pranzo, come nei «quadri trappola» di Daniel Spoerri che ricordano «La tavola tattile» di Marinetti (1921) con una grattugia, una spazzola, un tappo di sughero, una spugna, degli stracci e un piumino appiccicati su un pannello di legno. Proprio a questo tema Achille Bonito Oliva ha dedicato la mostra intitolata «Minimalia. Da Giacomo Balla a ...», allestita nel 1997 a Venezia, nel '98 a Roma e infine nel '99 a New York.
Perché è partito da Balla e non da Marinetti?
«Marinetti è il teorico del Futurismo, mentre Balla ne è l'estensore visivo, colui che porta al massimo della purezza, espressiva e spirituale, i principi del movimento. Se partiamo dalle "Compenetrazioni iridescenti" del 1912, per esempio, possiamo vedere che Balla procede attraverso un doppio movimento: uno analitico, che parte dalla forma di una foglia, e un altro che arriva alla geometria che ne rappresenta l'essenza. Questo spirito sintetico corre all'interno dell'arte italiana fin dal XV secolo: basta guardare la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello e già vediamo presente il gioco fra astrazione e narrazione».
A questo proposito lei citava la frase di Leonardo da Vinci: «La pittura è cosa mentale».
«La frase di Leonardo è fondamentale per capire Balla. Mentre in Boccioni prevale il vitalismo, una scelta più espressiva, in Balla c'è un futurismo non materialista, premonitore di un minimalismo mediterraneo. Ovvero l'adozione della linea curva e non di quella retta. L'arte nordamericana — che ha uno spirito protestante, puritano, e alle spalle anche la cultura aniconica ebraica — adotta la geometria della linea retta (il grattacielo stesso è una forma retta minimale), al contrario i Futuristi hanno la capacità di tenere la natura, la vita, il momento organico in una linea curva ed essenziale. Per questo Balla è uno dei grandi fondatori dell'astrazione, ma lo fa attraverso un'analisi analitica della natura».
Come è riuscito il Futurismo ad arrivare fino a noi?
«Perché era un movimento interventista che dava una risposta a tutti i temi proposti dalla città moderna. Interveniva sulla realtà a 360 gradi: sulla guerra, sulla cucina, sulla donna, sulla radio. Pensava a una ricostruzione futurista dell'universo attraverso l'estetizzazione della realtà. Per questo hanno anticipato tutto: dalla radio fino alla performance. L'idea performativa dell'arte, dell'arte come intervento sulla realtà, nasce col Futurismo».
Perché l'arte è oggi meno coinvolta nella pratica sociale?
«Le avanguardie storiche vivevano la felice utopia di trasformare il mondo attraverso l'arte; poi arrivano le dittature e le avanguardie si ritirarono. Da allora è subentrata un'idea dell'arte che trasforma solo se stessa, la propria storia e il linguaggio».
Non esistono più nemmeno le avanguardie?
«L'ultimo movimento di gruppo è stato la Transavanguardia. Dopo, dagli anni Ottanta, gli artisti procedono in fila indiana, ognuno cavaliere solitario. Gli ultimi ad aver posseduto lo spirito utopistico del Futurismo sono stati il Situazionismo, il Lettrismo e Fluxus, specialmente quest'ultimo per la sua qualità cosmopolita, libertaria e anarchica, vissuta ai bordi del sistema dell'arte. L'ultimo movimento con un'etica resistenziale ».

Noi futuristi...
Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l'universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all'invisibile, all'impalpabile, all'imponderabile, all'impercettibile.
Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell'universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto
La ricostruzione futurista dell'universo Eccentrico
Balla nel suo studio. L'artista torinese oltre a dipingere creava oggetti a 360 gradi

Corriere della Sera 14.2.08
Arte e scienza Un astrofisico commenta i dipinti cosmici
Quell'eclissi dipinta col telescopio
Non gli interessava il fenomeno ma la legge fisica che lo regolava
di Piero Benvenuti

Il senso di partecipazione all'infinito che la visione del cielo naturalmente produce nell'uomo, è stato fonte di ispirazione filosofica, poetica ed artistica sin dall'antichità. Ad accrescere fascino e misteriosità si aggiungono poi i «fenomeni» astronomici, sia quelli regolari che sembrano determinare lo scorrere del tempo, sia quelli rari e a volte imprevisti, come un'eclissi di Sole o l'apparire di una cometa. La curiosità per l'astronomia è evidente in Giacomo Balla, ma la sua interpretazione artistica dei fenomeni celesti, mediata dalla sua passione per la scienza e la tecnica, è completamente diversa da quella di altri artisti che l'hanno preceduto. Balla non è interessato a riprodurre il fenomeno, ma a farne risaltare il significato profondo e invisibile, quasi la legge fisica che regge e governa ciò che si manifesta ai nostri sensi.
Il caso più evidente di questa sua introspezione è rappresentato dai due quadri del 1914 che si ispirano al passaggio di Mercurio sul disco del Sole, evento molto raro che Balla osservò con un suo telescopio, preparandosi con meticolosità e affumicando egli stesso — come racconta la figlia — i vetrini da porre di fronte alla lente per proteggere gli occhi dalla luce accecante del Sole. La «riproduzione » dell'evento (il piccolo disco scuro di Mercurio che si staglia sul disco luminoso del Sole) è sì presente, ma sembra quasi un pretesto per sviluppare gli elementi scientifici e geometrici che «spiegano » il fenomeno: il Sole si espande su piani successivi fino a diventare orbita che si interseca con altre orbite ellittiche e paraboliche per significare come l'eclissi si realizzi per il raro congiungersi nello spazio di invisibili piani, resi manifesti dal pittore.
Nel secondo quadro (non esposto in questa mostra), dominano i coni d'ombra, anch'essi invisibili elementi del fenomeno che Balla vuole rendere evidenti. Questa interpretazione è suffragata da opere precedenti, come Orbite celesti e Tutto si muove, del 1913, e altre: le sezioni coniche che si riproducono intersecandosi con tenui sfumature di colore in un regolare intreccio cosmico, sono l'elemento di fondo che ritroviamo con le stesse forme, ma con colori più solari e ferrigni nelle due opere «astronomiche » del 1914.
La curiosità e la sensibilità scientifica di Balla emergono, all'occhio attento, anche ne La lampada ad arco (1909), ove gli elementi di luce che si irradiano con dimensione crescente dal lampione, hanno la forma e l'orientazione caratteristiche dell'aberrazione di coma, ben nota agli esperti di fotografia astronomica. È del tutto plausibile che a Balla giungessero in quegli anni gli echi della profonda rivoluzione del pensiero scientifico provocata dalle teorie della relatività di Einstein.
La rappresentazione del movimento, congelato ma evidente nella sua scomposizione e sovrapposizione delle forme in molte opere di quel periodo (Velocità d'automobile, Dinamismo di un cane al guinzaglio, Le mani del violinista,…), richiamano la relatività della simultaneità e uno spazio-tempo nel quale gli «eventi» non scorrono, ma «sono». Ammirando oggi queste opere, in un'epoca post-einsteiniana nella quale per interpretare il Cosmo si propongono spazi a dodici e più dimensioni e quintessenze celate alla percezione, si sente il desiderio di artisti e poeti che, con sensibilità scientifica, come Giacomo Balla ci facciano sentire e vedere ciò che è nascosto e inimmaginabile.
Piero Benvenuti è docente di Astronomia all'Università di Padova

Aprile on line 13.2.08
Oggi come nel marzo del 1947
di Carlo Patrignani


Oggi come nel marzo del 1947 Dibattito Da dove viene e perché torna l'ennesima ‘crociata cattolica' che, a 60 anni dall'elevazione a norma costituzionale dei Patti Lateranensi, vuole cancellare, con la legge 194, la donna e, con la libera ricerca scientifica, la possibilità di cura e quindi il benessere della gente? Solo coazione a ripetere o che altro?


Uno spettro s'aggira per l'Italia: non il comunismo che, per quello realizzato, distante anni luce dalle idee libertarie di Carlo Marx, è miseramente fallito, ma l'ennesima ‘crociata cattolica' che, tra inframmettenze clericali e campagne di stampa ‘pro-life' dirette da chi ha avuto, guarda il caso, natali comunisti, sta invadendo gli spazi istituzionali, universitari, informativi e sociali. E senza nessuna reazione da parte delle sinistre: anzi, si assiste a genuflessioni quotidiane, a richiami felpati ad una ricerca di religiosità, come il San Paolo folgorato sulla ‘via di Damasco', a contorsioni per tentar di metter assieme Dio e il socialismo.

Da dove viene e perché torna l'ennesima ‘crociata cattolica' che, a 60 anni dall'elevazione a norma costituzionale dei Patti Lateranensi, stipulati l'11 febbraio 1929 da Mussolini, per Pio XI° ‘Uomo della Provvidenza', e dal cardinal Gasparri a nome della Santa Sede, vuole cancellare, con la legge 194, la donna e, con la libera ricerca scientifica, la possibilità di cura e quindi il benessere della gente? Solo coazione a ripetere o che altro, se non la constatazione che ancora una volta si è buttata via la possibilità di avere una società socialista che affermi "il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti' e "da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni"?

Si rivive il marzo del 1947: c'è solo da decifrare i personaggi di oggi che rimandano a quelli di sessant'anni fa. "Quello che è avvenuto martedì alla Costituente non è un avvenimento di carattere meramente parlamentare del quale ci sia possibile disfarci con una generica deplorazione del malcostume politico e una retorica condanna dello spirito di compromesso: si tratta di un avvenimento politico che occorre interpretare bene allo scopo di trarne conseguenze politiche". Così l'ingegnere socialista Riccardo Lombardi commentava, il 28 marzo 1947, il voto ‘a sorpresa' con cui il Pci di Palmiro Togliatti e la Dc di Alcide De Gasperi insieme alle destre, inserivano nella Costituzione i Patti Lateranensi, il Concordato tra lo Stato Fascista e il Vaticano.

All'ingegnere socialista interessava ed è sempre interessato che "i partiti socialisti, se vogliono uscire dallo stato di sonnolenza e di corpulenza" devono "essere se stessi vale a dire, prima di tutto, non essere altri. E' un problema che non si può risolvere con espedienti ma che si pone in termini di anni: quanti ce ne vogliono per ridarsi un'anima e una coscienza autonoma prima che un corpo e un'organizzazione", sosteneva perché il suo obiettivo di una vita è stato "dare alle sinistre una direzione socialista se le sinistre e il socialismo non vogliono morire, o meglio, se vogliono nascere". Orbene, siamo ancora al 1947: anche oggi non c'è alcuna direzione socialista, anzi la tradizione socialista è, al di la' delle parole, fuori gioco.
"Il Partito Comunista dopo una preparazione circondata da riserbo che non poteva ingannare alcuno, ha deciso di votare l'art.7 del progetto di Costituzione e aggiungendo i voti compatti del suo gruppo parlamentare a quelli delle destre, della Dc ha permesso l'inserimento dei Patti Lateranensi nella Carta Costituzionale Repubblicana: Togliatti - rimarcava Lombardi - ha detto con ‘lodevole freddezza' che così il Pci non faceva altro che seguire la linea politica che si era imposta". E l'art.7 passò con 350 sì e 149 no.

Ma perché la conversione di Togliatti? "Un fatto inserito - continuava il primo prefetto della Repubblica - in tutta una linea politica coerente e conseguente, un ‘segmento' di tale linea e niente affatto una deroga, quasi una frattura occasionale, una concessione peccaminosa ma transitoria, quale i critici più benevoli che sagaci pensano già a prospettare. A fatti come questi sarebbe puerile e perfino sciocco reagire con movimenti di malumore o di stizza: la reazione non può essere che politica e condurre a determinazioni politiche". Del resto, "un atteggiamento sdegnoso quasi di fidanzato offeso dai giri di valzer dell'amato bene, ma persuaso di poterlo ricondurre alla giurata fedeltà, sarebbe da parte delle sinistre il segno più sicuro di un pericoloso rammollimento cerebrale oltreché di una definitiva incapacità di giudizio politico". Dunque, "la verità è che il colpo del concordato non è né occasionale né estemporaneo e neppure la conseguenza di quella tale diabolica furberia nella quale ci si immagina troppo spesso che i partiti comunisti europei trovino la soddisfazione di chi sa quale perversità connaturale al sistema politico: la linea politica del Pci anche in questa occasione è stata limpida, chiara, coerente e se si poté manifestare sorpresa e perfino sdegno per la ‘svolta' di Salerno, non ha più il diritto a reazioni sentimentali analoghe oggi". Così, "piaccia o non piaccia, e a me non piace affatto, la politica comunista vuole legare a sé le sinistre, ma non si ritiene legata per suo conto alle sinistre: essa ne è del tutto indipendente, ubbidendo a criteri e a finalità che in larga misura sono estranee alla politica di sinistra e ne ignorano deliberatamente non poche fondamentali postulazioni".
Insomma, "l'apporto delle sinistre è indispensabile al Pci ma non già allo scopo di realizzare una maggioranza nella quale il Pci avrebbe il posto e il peso pari alla sua potenza organizzativa e alla sua ammirevole tradizione di lotta". E "anche questa volta come già in altre precedenti il Pci passando sulla testa delle sinistre alleate, ha teso la mano alla Dc raggiungendo un obiettivo politico importante, importantissimo, ma che è proprio l'obiettivo contro il raggiungimento del quale tutte le sinistre erano impegnate". Per Lombardi l'acomunista ante-litteram, "la politica del Pci è impegnata a coprirsi verso destra; essa non si preoccupa perché non teme di scoprirsi a sinistra: questa è la realtà dura ed indigesta, quanto si vuole, ma tuttavia realtà e da essa le sinistre debbono trarre conseguenze che ne condizionano la stessa esistenza. Il problema che si pone alle sinistre italiane è perciò quello stesso che si va ponendo a tutte le sinistre europee: quello della direzione politica. Accettare la direzione politica comunista significa rinunciare a una politica di sinistra, cosciente dei suoi fini e non perché il Pci non sia democratico o perché non sia onesto o perché non ci sia da fidarsi di esso: solo che non si può delegargli, per comodità o fiacchezza, le finalità che sono specifiche delle sinistre". E' con questo voto sul Concordato fascista che inizia il catto-comunismo, la fine di ogni passaggio al socialismo come avvenuto in tutte le democrazie europee nelle cui Costituzioni non c'è un pari art.7 che riconosce la religione cattolica come religione di Stato.

La convergenza fra mondo comunista e cattolicesimo inaugurata da Togliatti, proseguì con Enrico Berlinguer: influenti consiglieri, da Franco Rodano ad Antonio Tatò, sono stati gli eredi di questo filone culturale e il "compromesso storico" del 1973 e il suo tentativo di concretizzazione nel 1976-1979, ne sono stati i riflessi naturali. Anche la ‘svolta della Bolognina' risentì di questa prassi nella scelta nominalistica di non avere riferimenti socialisti, socialdemocratici o laburisti nel nuovo nome da dare al partito.
Fino alla scelta, nel 1996 e nel 2006, di un candidato cattolico per il raggruppamento di centro-sinistra, Romano Prodi, invece che un laico, da Carlo Azeglio Ciampi a Umberto Veronesi, a Giuliano Amato, o addirittura di rischiare la candidatura in prima persona del leader del principale partito della coalizione, Massimo D'Alema.
"All'azione rivoluzionaria deve seguire, senza soste e senza debolezze, l'azione riformatrice, dico riformatrice non riformista, in modo da pervenire il più rapidamente possibile alla riforma della struttura dello Stato", affermava con ostinazione Lombardi.

Già, il suo vecchio pallino delle "riforme di struttura", che invocherà inutilmente per tutti gli anni Sessanta e Settanta, non senza qualche significativo risultato pratico, come la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Idee chiare animarono il galantuomo siciliano che ebbe il rispetto di tutti gli avversari, uno che sapeva prendere le distanze dalla politica come professione: "Che cosa è essenziale per la democrazia in Italia? E' essenziale che il Paese sia attivizzato, che il più gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno stato democratico, al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in pericolo; abbattere le strutture corporative che sono le eredità più persistenti del fascismo e che ancora oggi sono profondamente radicate nella coscienza non soltanto dei singoli ma perfino dei partiti e dei partiti sedicenti rivoluzionari; riformare l'apparato burocratico dello Stato; frenare le inframmettenze clericali". Fu facile profeta di un democrazia zoppa e ben poco laica ed autonoma.

Cosa ci manca di Lombardi? La sua onestà, la coerenza tra dire e fare, l'ateismo vissuto e praticato, la sua scommessa non vinta ma indicata tenacemente di tenere insieme la democrazia e l'idea di un socialismo radicale, dove non c'è posto per Dio, perché, come affermava Marx, "è l'uomo che fa la religione, non è la religione che fa l'uomo" che per sua natura è "essere sociale: ed il suo essere sociale determina la sua coscienza".

Liberazione 14.2.08
L'attacco alla libertà nel nome di Dio (e del mercato)
di Piero Sansonetti


Non so se è giusto dirlo in modo così brusco, apocalittico, ma non trovo una forma più "lieve": ho l'impressione che ci troviamo di fronte a una forte ondata reazionaria, con tratti eversivi, guidata da forze potenti, vastissime, e anche diverse tra loro, le quali mirano a ristrutturare profondamente la nostra società, ristabilendo un meccanismo piramidale e gerarchizzato. Una sorta di catena di comando, con grandissime capacità di controllo sociale e di orientamento del senso comune, che diventi lo scheletro di una nuova idea del liberismo, nella quale tutti gli interessi generali sono ricondotti al mercato e tutte le libertà sono ridotte a una sola libertà, essa stessa interna e subordinata al mercato.
E' su questa ipotesi "neo-autoritaria"- mi scuso di nuovo per la rudezza delle parole, ma di nuovo vi dico che non ne trovo altre - la borghesia italiana, scompaginata negli ultimi vent'anni dalla sua debolezza politica e dalla sua fragilità intellettuale, sta cercando di ricomporsi e di riprendere in mano le redini. Il passaggio decisivo per la riuscita o il fallimento di questo disegno sono le elezioni di aprile. E la borghesia italiana intende vincere le elezioni giocando non solo su un "cavallo", ma sull'intero schieramento politico di centro e di centro destra. Più avanti vedremo come.
Ne abbiamo discusso ieri, a lungo, nella riunione di redazione, e sebbene ciascuno di noi usasse parole diverse, sfumature, angoli di vista che non coincidevano perfettamente, ci siamo trovati d'accordo sul segno generale di questa operazione, di questa fase storica. Che procede appoggiandosi sulle gambe di diverse forze politiche e di diversi leader. Montezemolo, che è il più lucido, quello con il disegno più preciso. Berlusconi, il quale ha capito che non ce la fa a vincere da solo e ha bisogno dell'appoggio di tutte le classi dirigenti e non solo di quelle più amiche. E poi Casini, Ferrara e altri ancora, che cercano il loro spazio, il loro compito, portando robusti argomenti e specifiche idee di restaurazione. E infine, con un ruolo defilato, incerto, ma che può diventare decisivo, il partito democratico, che ancora è dilaniato dal contrasto tra la forza delle sue tradizioni, delle radici riformiste, e la tentazione di cercare una propria vocazione egemonica nella dialettica senza rete e senza "paletti" col centrodestra, e in una nuova e definitiva investitura da parte della grande borghesia e dei grandi poteri.
Mettiamo in fila due o tre cose, e vediamo se poi si trova il filo che le unisce.
Prima cosa, la barbarica irruzione dei carabinieri in una clinica per fermare un aborto legale. Azione incredibilmente simile a quelle che in America, ogni tanto, sono condotte dai gruppi terroristi antifemministi. Irruzione avvenuta nel mezzo di una campagna furibonda, condotta dalla Chiesa, da pezzi dello schieramento politico cattolico, da Giuliano Ferrara, da molti intellettuali e giornalisti conservatori, tesa alla criminalizzazione dell'aborto, e delle donne che lo praticano o ne contemplano la possibilità. Conta poco il fatto che molti di loro dicano di non voler toccare la legge 194 (quella che autorizza l'interruzione della gravidanza). Conta che questa campagna per la moratoria (sostenuta direttamente dal pontefice) punta a screditare quella legge, svuotandola dei valori e dei diritti che essa afferma. Provo a spiegarmi con un esempio: noi potremmo decidere che non intendiamo mettere in discussione il diritto alla proprietà privata, ma invitiamo i cittadini a violarlo, dichiariamo comunque che la proprietà privata è un furto e che occorre fare qualcosa, in tutto il mondo, per impedire che questo furto (che ha alienato quasi tutta la ricchezza disponibile) continui ad essere perpetrato. Non sarebbe una campagna illegittima, da nessun punto di vista, ma certo non potremmo negare che avrebbe un carattere sovversivo.
Secondo argomento: il lavoro, la precarietà, la riduzione dei diritti individuali e collettivi, l'attacco al contratto collettivo di lavoro, l'idea di iniziare a smantellare lo Statuto dei lavoratori. Tutti temi molto forti nei programmi elettorali di Berlusconi e sui quali nel Pd avanza la tentazione di accodarsi, almeno in parte (è vero che il ministro Damiano è stato messo a margine nell'elaborazione del programma economico, sostituito da Ichino, perché considerato eccessivamente sindacalizzato? Corre voce...). Cosa rappresenta questa linea politica? La volontà di ristabilire la totale subordinazione del lavoro al profitto, e dei singoli lavoratori ai loro capi e alla loro impresa.
Terzo argomento, la nuova smania di semplificazione politica. Aboliamo i partiti piccoli, riduciamo gli assemblearismi, semplifichiamo la politica, tagliamo gli enti locali, le assemblee, il decentramento...
Naturalmente una modesta dose di semplificazione in una politica eccessivamente frastagliata è giusta, perché permette alla politica di non venire travolta dagli altri poteri. Ma la politica e la democrazia sono complesse, e la libertà è molto, molto complessa. L'eccesso di semplificazioni l'uccide. L'eccesso di semplificazione però è funzionale al "comando". Più è semplificata la struttura della democrazia, più è facile decidere. Meno è forte la partecipazione più funziona il comando e la gerarchia.
Ecco il comune denominatore tra questi tre fenomeni: quello del fondamentalismo religioso antiabortista, quello della competitività in fabbrica, quello della semplificazione del sistema politico (e dell'invocazione presidenzialista e gollista). La restaurazione. Il ristabilimento delle gerarchie come chiave di volta delle relazioni sociali, civili e politiche. La fissazione di autorità assolute che poi, alla fine, diventano due sole: Dio e il mercato. Dio (badate: dio maschio) e il mercato hanno diritto assoluto sulla mente e sui corpi. Anche il diritto di prendersi la libertà di tutti, sussumendola nella propria libertà. E affermando il proprio dominio legittimo. Innanzitutto sui corpi delle donne, che sono loro strumenti, e devono accettare il senso di questa missione e capire il valore dell'obbedienza e della loro funzione. E poi su corpi, la mente, le mani, la forza fisica e intellettuale degli operai, dei lavoratori dipendenti, soprattutto dei precari, i quali devono diventare essi stessi mezzi di produzione al servizio della competitività, cioè dell'impresa alla quale appartengono, cioè del mercato che ogni cosa regola e ordina. E infine, Dio e il mercato - e l'interesse generale che si riferisce alla loro gloria - hanno il diritto di limitare le libertà politiche, riducendo la complessità e cancellando o marginalizzando il dissenso e la libertà di pensiero.
La gerarchia è la nuova frontiera del liberismo. Non c'è più contrapposizione tra libertà e uguaglianza. La libertà diventa nemica in quanto portatrice di "rischi" di uguaglianza, cioè di disordine, cioè di perdita di gerarchia.
Alle prossime elezioni questo disegno sarà messo alla prova. Badate che il suo successo o la sua sconfitta non sarà determinato dall'equilibrio tra destra e centro, tra Berlusconi e Veltroni. Dipenderà dalla forza che riuscirà ad ottenere la sinistra, cioè l'opposizione. E dipenderà anche dalla capacità della sinistra di mettere insieme le tre questioni: la libertà delle donne (e delle persone), la libertà e i diritti del lavoro, la libertà politica. La sinistra spesso somma queste tre grandi battaglie. Ci è riuscita per esempio il 20 ottobre, con quel grande corteo a Roma. Non è mai riuscita però a fonderli, a capire che sono legati, coordinati e subordinati l'uno a l'altro. Dovrebbe fare un grande sforzo su questo campo, se pensa di potere avere uno scatto di qualità nella sua presenza politica. Ci sarebbe bisogno di una grande mobilitazione intellettuale.

il manifesto 14.2.08
Missione italiana, ora la sinistra dice no e il Pd si fa bipartisan
Con il governo in proroga e le camere sciolte la Cosa rossa si fa intransigente e il rifinanziamento passerà alla camera con il sì del centrodestra
di A. Fab.


«No», adesso si può dire. Due giorni fa, prima dunque della morte del maresciallo Pezzullo, tutta la sinistra parlamentare aveva per la prima volta da quando è al governo votato contro il rinnovo della missione in Afghanistan. E di tutte le missioni all'estero, perché il disegno di legge numero 3395 che è passato in commissione e da martedì sarà all'esame dell'aula della camera tiene insieme il finanziamento per l'Afghanistan, il Libano, il Kosovo e tutto il resto. Un primo no destinato a replicarsi anche se forse nella forma più sfumata dell'uscita dall'aula. In ogni caso non decisivo: i novanta e passa deputati della sinistra arcobaleno saranno più che compensati dai rappresentanti di tutto il centrodestra. Per «senso di responsabilità».
Ieri sera Berlusconi l'ha detto chiaramente: «La missione italiana per portare la pace in Afghanistan deve continuare». Poi ha aggiunto con la consueta scarsa eleganza: «I familiari del povero maresciallo Pezzullo mi considerino a loro disposizione».
Il lutto per la dodicesima vittima italiana in Afghanistan non impedisce alla sinistra di ribadire la sua contrarietà alla missione e soprattutto, questa volta, di annunciare comportamenti conseguenti. Nel 2006 e nel 2007 non era stato così ma adesso il governo è dimissionario, le camere già sciolte e non c'è alcun accordo con il partito democratico per le prossime elezioni.
Prodi non cambia di una virgola la sua posizione: «E' una missione di lungo periodo che deve continuare». Veltroni annuncia il sì del resto scontato del suo partito - «sarebbe l'errore più grave venire via e lasciare l'Afghanistan al dominio dei talebani» - e gli dà un significato in prospettiva bipartisan: «In politica estera io penso che l'obiettivo sia la condivisione e bisogna tendere a creare le condizioni per una convergenza». Condizioni già in atto: con il Pd voteranno Forza Italia, An e Udc. Ma è chiaro che Veltroni guarda al futuro, alla prossima legislatura quando le convergenze sulla politica estera potrebbero aprire la via ad accordi più generali.
La sinistra arcobaleno voterà invece no e per la prima volta riuscirà ad evitare di litigare perché non c'è più chi accusa gli altri di speculazione di fronte alla morte di un soldato. Anche i rappresentanti dei verdi e di sinistra democratica, in genere più accorti, liberati dal vincolo del governo spingono sul tasto del ritiro. «Una svolta è indispensabile», dice Alfonso Pecoraro Scanio (verdi). «In Afghanistan è in corso una guerra inutile anzi dannosa, ci si risparmi la retorica di una pretesa missione umanitaria» rincara Cesare Salvi (Sd).
«No al rifinanziamento» proclama a questo punto la capogruppo dei Comunisti italiani Manuela Palermi, «i nostri militari sono visti come forze di occupazione e rischiano ogni giorno». E da Rifondazione se Franco Giordano come è sempre stato in questi venti mesi evita commenti di fronte alla notizia di un'altra vittima limitandosi al cordoglio, Paolo Ferrero che è ministro in proroga dichiara che «non si può continuare la missione come se nulla fosse, il governo deve prenderne atto».
Per i 2.350 militari che sono la presenza media in Afghanistan il disegno di legge che andrà in votazione la prossima settimana alla camera prevede una spesa annua (2008) di 337.695.621 euro, contro i circa 310 milioni dell'anno scorso.
Ma in quel disegno di legge sono stanziati i fondi anche per le missioni in Libano, Sudan, Kosovo, Somalia, Ciad, Cipro e ancora Iraq dove permane un piccolo contingente italiano.
Nel frattempo, nella stessa riunione della commissione difesa di martedì scorso nella quale la sinistra per la prima volta ha votato contro il rifinanziamento delle missioni, è passato il parere favorevole all'acquisto di quattro nuovi aerei senza pilota Predator. Si tratta di un modello nuovo richiesto dalla Difesa che consente di trasportare missili dunque in teoria utilizzabile come mezzo d'attacco. La sinistra arcobaleno ha votato contro, ma non è servito. Due settimane fa invece aveva disertato la riunione per far saltare il numero legale.

mercoledì 13 febbraio 2008

l’Unità 13.2.08
Sinistra, niente falce e martello nel simbolo. Bertinotti: no i socialisti
Oggi la presentazione, Diliberto cede. Presto la scelta sul ticket con la Borsellino. Lunedì la bozza del programma


Francescato e le altre donne spingono per una rappresentanza «rosa» del 50%nelle liste

La Sinistra arcobaleno presenterà ufficialmente il simbolo per la corsa alle elezioni politiche questa mattina, a Roma. Dalla riunione dei propri leader, ieri, è però già chiaro che il simbolo con cui Prc, Verdi, Pdci e Sd concorreranno alle prossime consultazioni sarà fondamentalmente quello emerso dagli Stati generali dell’8 e 9 dicembre scorsi.
Su campo bianco, i sette colori dell’iride e la scritta «La Sinistra - L’Arcobaleno» in formato più grande rispetto all’emblema varato in dicembre. Niente simboli dei partiti costituenti: niente Sole che Ride, e, anche, niente falce e martello. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci che si era battuto per il riconoscimento dei singoli simboli di partito, alla fine ha votato con gli altri leader.
Di certo, ad oggi, la costituente socialista di Boselli e Angius, ai quali ieri mattina erano stati costruiti sulla riva sinistra ponti dagli esponenti di Sd Massimo Villone e Francesco Barra, non sarò parte del progetto. «Rispetto molto la scelta dei socialisti ma c’è una differenza programmatica rilevante - stoppa subito il candidato premier della Sinistra Fausto Bertinotti - Nel momento in cui le elezioni politiche vengono combattute, da questo punto di vista giustamente, su un terreno programmatico c’è una sfida a presentare programmi compatti e omogenei». Boselli, dal canto suo, ribadisce, che non era nell’orizzonte politico un accordo con la Sinistra Arcobaleno. Resta, per i socialisti, la terza via, non facile: correranno da soli con il proprio simbolo e la propria lista. Restando alla Sinistra Arcobaleno, rimane ancora nell’orizzonte delle possibilità il ticket tra l’attuale Presidente della Camera e Rita Borsellino. Sul versante della rappresentanza di genere, su richiesta di Grazia Francescato e di diverse esponenti della coalizione, è già in agenda un incontro con Bertinotti. Sulle liste è già stato disposto un tavolo tecnico dedicato. Ne fanno parte gli esponenti di Rifondazione Ciccio Ferrare e Walter De Cesaris, i Comunisti italiani Pino Sgobio e Fabio Galante, i Verdi Angelo Bonelli e Marco Lion, gli esponenti di Sd Titti Di Salvo e Marco Fumagalli.
Per adesso si studiano i criteri per la formazione delle liste. Bertinotti, salvo sorprese, non potrà essere candidato in tutte le circoscrizioni come inizialmente previsto. La bozza del programma (un documento snello di 15-20 punti) sarà presentata lunedì.

Repubblica 13.2.08
Oggi il logo della Sinistra arcobaleno. "Quell´antico emblema è nel nostro cuore ma nel XXI secolo serve altro"
Bertinotti congeda falce e martello "Prodi timido su salari e pensioni"
"Mi chiedete chi voglio che vinca tra Veltroni e Berlusconi? Innanzitutto preferisco che perda il Cavaliere"
di Umberto Rosso

ROMA - Domanda: meglio che vinca Berlusconi o Veltroni? Risposta, di Fausto Bertinotti: «Mettiamola così: preferirei che a perdere fosse Berlusconi». Tremonti lo incalza, quindi meglio che non vinca Veltroni? «Qui mi fermo, ho detto, come parlavano i capi indiani...». Ma, e lo aveva già spiegato all´inizio, «il vero voto utile è per la sinistra». Scende il campo il candidato premier della Cosa rossa. Il simbolo c´è, i quattro segretari (fra le sofferenze e le proteste di Oliviero Diliberto) l´hanno licenziato nel pomeriggio. Sinistra-Arcobaleno, senza falce e martello. L´ha spuntata (con caratteri leggermente più grandi) il logo che aveva debuttato agli stati generali dei quattro partiti. Non ci sarà nel "cerchietto" neanche il nome di Fausto Bertinotti. Ma, anche se non "dentro" il marchio elettorale, il presidente della Camera è ormai ufficialmente in campo come candidato premier della sinistra. Il debutto ieri sera, ospite di "Ballarò" insieme a Tremonti, Franceschini, Pezzotta, e le prime parole sono state appunto per sottolineare la rinuncia alla falce e martello, «che fa parte dei simboli importanti, pesanti, che continueremo a portarci nel cuore ma noi vogliamo costruire la sinistra del XXI secolo». Da soli, sinistra unita, perché l´alleanza con i riformisti del Pd «non è possibile, anche se in questi anni abbiamo tentato di tutto, comprese le acrobazie elettorali come la desistenza». Lista unica e unico gruppo in futuro alle Camere, annuncia Bertinotti, «ci sarà un gruppo parlamentare espressione di questa lista», e prevede già da subito delle «pre-iscrizioni» al nuovo soggetto (nei giorni scorsi è partita un´iniziativa in questo senso lanciata dalle associazioni vicine a Pietro Folena). Rivolte a movimenti e organizzazioni esterne. «Uso con cautela il termine partito perchè penso che oggi ci sia bisogno di una riforma profonda della politica e che questo soggetto unitario e plurale non debba essere fatto soltanto dalle quattro forze politiche che oggi lo compongono ma di altre voci, di tantissime associazioni, organizzazioni, movimenti, singole persone».
Polemico, il presidente della Camera, su alcune scelte del governo. La riforma delle pensioni, «c´era bisogno dei morti per capire che alcuni lavoratori devono andare in pensione prima?», e la gestione del tesoretto. «Siamo andati perfino sotto il 2 per cento che ci chiedeva l´Europa nel rapporto fra deficit e Pil. Mi chiedo: invece di arrivare all´1,3, non si potevano aumentare salari e stipendi?». Anche il Pd nel mirino del presidente della Camera, sia pure sempre con toni soft e con il riconoscimento della necessità di una complessiva riorganizzazione del sistema politico. «Ma sotto il cielo ci sono molte più cose che quelle che si possono immaginare, per cui voler imprigionare tutto in un sistema bipartitico sarebbe un´operazione disastrosa». Così come - anticipando quello che sarà un leit motiv della sua campagna elettorale - Bertinotti ha contestato a Franceschini una marcia indietro del Pd sui temi del diritti civili. «I grandi partiti in realtà al loro interno si comportano come coalizioni. Il Pd sulle unioni di fatto e sull´aborto sta con la Binetti o con il riconoscimento di questi diritti, previsti nel programma del governo Prodi? E sul contratto dei metalmeccanici, con la Fiom o la Federmeccanica?». Risposta del numero due del Pd: «La 194 deve restare così com´è, orribile usare questi temi per la campagna elettorale. E le coppie di fatto vanno regolamentate anche se non equiparate ad una famiglia».
Toni distesi sfida leale. Già nel pomeriggio, a domanda, del resto Bertinotti rispondeva di non poter escludere in via di principio la possibilità «che un elettore di sinistra possa votare Pd». Una battuta appena che però non è piaciuta per niente al ministro verde Pecoraro Scanio. «Bertinotti è troppo signore per attaccare frontalmente il Pd. E´ il presidente della Camera ma anche il nostro candidato premier. Come dovrebbe votare un elettore di sinistra che vuole meno precarietà, per il Pd che offre la candidatura a Montezemolo o per noi che vogliamo abrogare la legge 30?».

l’Unità 13.2.08
Blitz per interrogare la donna che abortisce
Napoli: una chiamata al 113 fa scattare gli agenti in ospedale. «194 rispettata». Turco: caccia alle streghe
di Anna Tarquini


IMMAGINATEVI la scena: sette poliziotti che irrompono in una corsia d’ospedale liberi di entrare nella stanza dove una donna ha appena finito di partorire un feto morto per aborto terapeutico alla ventunesima settimana (cioè perché gravemente malforma-
to). La interrogano, le mettono sotto il naso quel corpicino domandando «È suo figlio?», poi si rivolgono alla vicina di letto: «Lei cosa sa? O parla con noi o lo farà in tribunale», infine sequestrano insieme cartella clinica e «aborto» e formulano un capo d’imputazione: feticidio, articolo 578 del codice penale. È l’effetto Ferrara, l’effetto della moratoria sull’aborto, della lettera-denuncia dei medici che diceva «il feto abortito deve essere rianimato» e del clima che si sta creando in campagna elettorale intorno alle questioni etiche. Ma è anche la storia, vera, accaduta lunedì pomeriggio a una donna di 39 anni ricoverata all’ospedale Federico II di Napoli. E non ha precedenti. Tanto che il ministro della salute Turco dice: «È una caccia alle streghe».
Tutto inizia, e questo forse è l’aspetto più grave della vicenda perché rappresenta bene il clima, tutto nasce dicevamo da una telefonata al 113 mentre la donna stava abortendo. Qualcuno che dall’altro capo del filo avvisava la polizia: «Correte, in quell’ospedale si sta eseguendo un aborto illegale, si sta praticando un infanticidio». Non sappiamo se il denunciante sia rimasto anonimo, ma sappiamo dalla questura di Napoli che subito dopo la telefonata al 113 arrivata nel tardo pomeriggio è stato avvisato il magistrato e due pattuglie sono state inviate al Policlinico. Poi è arrivata la denuncia dell’Udi. S.S., la donna, era stata appena portata in sala operatoria per un raschiamento dopo aver espulso il feto come si fa in questi casi, cioè per parto indotto. Primo figlio, desiderato. Ma quando S.S. lo scorso 31 gennaio è andata a ritirare i risultati dell’amniocentesi: l’analisi diceva sindrome di Klinefelter. Un cromosoma in più, 6 neonati affetti ogni mille nati vivi. Il quadro clinico dice: insufficiente virilizzazione, testicoli piccoli, sterilità, elevata statura, ritardo mentale, difficoltà verbali. S.S non se l’è sentita. E così, nel rispetto e nei limiti della legge 194 come affermano gli stessi medici, è ricorsa all’aborto terapeutico. «Il feto presentava un’alterazione cromosomica - spiega ora il professor Nappi direttore di Ostetricia - . Se la gravidanza fosse stata portata a termine ci sarebbe stato il 40% di possibilità di un deficit mentale. La donna ha presentato un certificato psichiatrico della stessa struttura universitaria sul rischio di grave danno alla salute psichica, che ha autorizzato l’intervento».
Nei limiti della 194. Ma la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta e soprattutto la polizia ha fatto irruzione in un reparto. «Capisco che gli agenti fossero lì per fare il proprio lavoro - spiega il dottor Leone, il medico che ha in cura la donna - , ma in un momento tanto delicato e doloroso per una donna era necessario avere un po’ più di riguardo per la mia paziente. Era appena uscita dalla sala parto per un aborto». Parla S.S.: «Mi è stato chiesto se per abortire avevo pagato ed ho spiegato che non era stato così. I risultati dell’amniocentesi avevano accertato che il feto soffriva di un’anomalia cromosomica. Ero alla ventesima settimana, inizio della ventunesima». Dal punto di vista della legge - spiega Silvio Viale, ginecologo all’Ospedale S.Anna di Torino ed esponente Radicale - non vi è stata alcuna violazione e la procedura è stata applicata correttamente. «Per il cosiddetto aborto terapeutico è previsto l’utilizzo di farmaci, le prostaglandine, che hanno la funzione di indurre il travaglio. Se tali farmaci non hanno l’effetto previsto dopo la somministrazione di cinque candelette la procedura prevede un periodo di sospensione del trattamento, trascorso il quale si comincia un nuovo ciclo. Proprio ciò che hanno fatto i medici in questo caso. Questione diversa è invece quella relativa alla malformazione da cui era affetto il feto abortito, ovvero la sindrome di Klinefelter. Secondo alcuni - spiega detto Viale - non si tratterebbe di una malformazione tanto grave da meritare un aborto terapeutico. Tuttavia la 194 non prevede la possibilità di aborto oltre i 90 giorni per la malformazione del feto, ma solo per gli eventuali, gravi effetti psicologici che tale situazione può avere sulla madre». Ed è quello che è successo come spiega ancora il dottore Leone: «Nonostante 5 candelette di prostaglandina venerdì non c’è stata alcuna espulsione del feto. Abbiamo ripreso la stimolazione lunedì mattina, ed alle 12 il feto era già morto. La paziente è scesa in sala parto verso le 18 e quando è risalita intorno alle 20 ha trovato gli agenti ad aspettarla».

l’Unità 13.2.08
Biblioteche, il sapere si ferma al tornello
di Tobia Zevi


DAL NORD AL SUD, quelle italiane sono ricche di libri eppure non reggono il confronto con l’Europa. I loro problemi? Iniziano all’ingresso, con uno sbarramento...Poi ci sono i disservizi: l’orario, la prenotazione e un tetto per le richieste

Nell’era del business dei beni culturali, rischiamo di dimenticarcene uno: il libro. Le biblioteche italiane sono generalmente trascurate, pur essendo spesso assai ricche. Quali sono i loro problemi? «Basta entrare per percepire la differenza con quelle estere» spiega Matteo Motolese, associato di Storia della Lingua italiana alla Sapienza, che in pochi anni le ha frequentate da studente e poi come dottorando e ricercatore. «All’ingresso ti accoglie uno sbarramento, per esempio un tornello. Negli altri paesi, invece, l’accesso all’edificio è libero, mentre ci si accredita nelle sale di lettura». Potremmo disquisire sul rapporto tra testo e pubblico in una società protestante e in una cattolica, ma restiamo sul concreto: «La biblioteca deve essere uno strumento di condivisione del sapere» prosegue il professore «e l’architettura può agevolare l’incremento dei lettori. Non è solo un luogo di lavoro per studiosi, ma anche occasione di promozione culturale. Penso alla Public library di Seattle: una sezione per i bambini, un’ altra per l’analfabetismo, un’area centrale a forma di cuore, che rappresenta il fulcro dell’edificio». Da noi sembrerebbe un’eresia. «Dobbiamo unire la capacità di conservare a quella di coinvolgere, come facemmo 20 anni fa con i musei. La Biblioteca nazionale centrale di Roma ha cominciato questo percorso».
E proprio da questo gigante, con pregi e difetti, bisogna partire. Sette milioni di volumi tra cui quasi 120 mila autografi e una media di 50 mila acquisizioni ogni anno; 350 mila visitatori accompagnati da 315 dipendenti di ruolo; circa 28 chilometri di scaffalature, che moltiplicate per dieci piani fanno più o meno la distanza tra Roma e Napoli. Perché qui arriva tutto, in virtù della legge sul «deposito legale» riformata nel 2004: secondo questa norma ogni nuova pubblicazione deve essere inviata alle due Biblioteche nazionali centrali (Roma, appunto, e la gemella Firenze) e ad alcuni enti locali, sia che si tratti di un testo di valore sia che si tratti di un opuscolo qualunque. E quindi numeri da capogiro. «Ma gli utenti, giustamente, cercano l’informazione ed il servizio collegato (fotografie, fotocopie). Naturalmente in tempi brevi e ad un prezzo basso. Un po’ come quando, da militare di leva, chiedevo «una bevanda fresca, abbondante e che costi poco». E mi guadagnavo un gavettone.... L’ormai ex-soldato è Osvaldo Avallone, direttore della Biblioteca nazionale di Roma: «Abbiamo fatto grandissimi passi in avanti negli ultimi anni, nonostante i finanziamenti, tra 2001 e 2006, siano passati da 3,2 milioni di euro a circa 2,2. Ogni biblioteca ha i suoi problemi, che di solito sono strutturali, ed anche noi abbiamo i nostri».
La Biblioteca fu istituita al Collegio romano nel 1876 per volontà del ministro Ruggero Bonghi, essenzialmente composta dalla Biblioteca maior dei Gesuiti e dai fondi delle altre congregazioni religiose soppresse; l’operazione frettolosa fu gravida di conseguenze nel tempo, come dimostrarono numerose commissioni d’inchiesta. Rispetto all’altra biblioteca centrale, quella di Firenze (ospitata in un palazzo del 1936), l’edificio costruito nel 1975 al Castro Pretorio è assai più funzionale: «La dicotomia tra Roma e Firenze potrebbe essere risolta sul modello della Deutsche Bibliothek, tre sedi ma un’ unica amministrazione» ci spiegano dall’Associazione italiana biblioteche (AIB), «anche perché esistono differenze sostanziali: a Firenze viene circa un terzo del pubblico romano, ma più qualificato. Inoltre il nuovo regolamento ministeriale di fine 2007 consente a questi due enti un’ autonomia speciale anche dal punto di vista finanziario, con l’introduzione di meccanismi di fund-raising per migliorare i servizi». La Biblioteca di Roma è oggi un luogo gradevole, talvolta aperto ad eventi come la celebre Notte bianca, con in più una buona tavola calda. Anche se permangono disservizi ingiustificabili: il tetto di tre richieste contemporanee; i pomeriggi senza distribuzione; un orario estivo (il periodo degli studiosi stranieri) da terzo mondo; l’assenza di bibliografia internazionale; l’impossibilità di prenotare i libri sul web. «Si dovrebbe ripartire dal wireless» afferma deciso il professor Motolese «perché la rete oggi rappresenta l’accesso ai testi. Un modo di condividere un patrimonio ad un livello alto, superando la cultura dei congressi». Con le poche risorse a disposizione qui si sono fatti miracoli: «C’è il deficit di spazio. Ma un’altra grande questione è quella del personale» conclude Avallone «sono qui da cinque anni e sono al quarto contratto. Non c’è, in questo settore, un’ attenzione alle risorse umane. I dirigenti non sono tutelati alla scadenza del vincolo, e potrebbero non essere ricollocati. Per non parlare di tutte gli atipici - servizio civile, volontari, stagisti - senza i quali non potremmo andare avanti e che, senza garanzie, non possono fidelizzarsi, pur essendo spesso motivati e preparati».
Un problema, questo del lavoro precario tra i bibliotecari, che da qualche anno ha trovato in rete la sua valvola di sfogo: www.biblioatipici.it racconta di storie professionali fondate sull’incertezza, acuite dalla sensazione di essere diversi («sono un atipico tra gli atipici»). Un tema di grande attualità perché in questo campo l’ultimo concorso nazionale per funzionari risale al 1983 e i posti a tempo indeterminato - già nell’ordine delle poche decine - diminuiscono di anno in anno. Per non parlare di una ricerca del 2003 della Regione Sardegna (peraltro tra le più virtuose), citata dal Rapporto sulle biblioteche italiane dell’Aib 2005-2006, che attestava i lavoratori atipici al 180,9% rispetto ai bibliotecari di ruolo. Quasi il doppio.
«In Italia il patrimonio librario è ricco e la preparazione degli addetti è cresciuta negli ultimi anni, ma nel complesso risulta difficile essere ottimisti...» spiega Paolo Traniello, ordinario di Bibliografia e Biblioteconomia a Roma 3 ed autore per il Mulino del libro Storia delle biblioteche in Italia dall’Unità ad oggi. «Ci sono servizi che funzionano ma anche un deficit in termini di qualità di gestione e di fondi. Bisogna considerare che il sistema bibliotecario è assai variegato: vi sono le biblioteche pubbliche statali (circa 40), tra cui quelle dei ministeri, dei tribunali e di alcuni monumenti nazionali (per esempio Montecassino); poi tutte le locali, previste dall’articolo 117 che attribuisce alle Regioni la responsabilità in materia. E poi tutte quelle ecclesiastiche e dei monasteri...». Negli anni l’importanza delle biblioteche nell’Europa a 25 non sembra essere calata: sono circa 138 milioni gli europei - dati sempre Rapporto AIB - che le frequentano e ogni europeo vi si reca in media 7 volte all’anno, quasi 8 nell’Europa a 15. Vanno assai più forte le istituzioni locali ed universitarie (anche grazie all’enorme aumento degli studenti), mentre le biblioteche nazionali, oggetto di investimenti straordinari (per i nuovi edifici di Parigi, Londra e Francoforte), mostrano segnali di sofferenza. «Negli ultimi anni - ci dice ancora il professor Traniello - si sono sviluppati, a livello locale, soprattutto comunale, molti poli d’eccellenza con servizi di ottima qualità. Si pensi alla “Berio” di Genova, alla “Sala Borsa” di Bologna, alla “S. Giorgio” di Pistoia, ma anche, per esempio, a Vimercate, che nei primi anni Novanta ha avuto finanziamenti per sette miliardi e mezzo di lire. Un fermento che manca a livello di amministrazione centrale. E che purtroppo non tocca il Mezzogiorno, con l’eccezione significativa della Sardegna».
Un capitolo a parte merita la digitalizzazione, che ha compiuto straordinari progressi: l’indice OPAC mette in rete la maggioranza delle biblioteche italiane (www.opac.sbn.it), e sono già partiti i grandi progetti per rendere scaricabili cinquecentine (Edit16) e manoscritti. Il tutto nel quadro della Biblioteca Digitale Italiana, varata nel 2000 dal Ministero dei per i Beni Culturali e coordinata dalla Direzione dei Beni librari. Una mole gigantesca di lavoro ed una vera rivoluzione potenziale, con il dubbio amletico se debbano essere informatizzati solamente gli indici o tutto il testo, come Google sta già facendo. «Il valore storico e civile di una biblioteca nella comunità non è sostituibile da una biblioteca digitale, che è una prospettiva positiva e realistica, ma non esclusiva» chiosa ancora Traniello. E sono in molti tra gli addetti ai lavori che, un po’ per difendere il posto un po’ per affetto verso la carta stampata, ripetono: «Una biblioteca è una biblioteca anche in presenza delle nuove tecnologie».

Corriere della Sera 13.2.08
Il «giuramento» di Pannella «Chiederò un impegno su giustizia e riforme economiche»
«Con Walter non farò il laicista»
di Andrea Garibaldi


ROMA — «Abbiamo conquistato un incontro con Veltroni — dice Marco Pannella — Finora avevamo solo letto sui giornali i rifiuti del Pd nei confronti dei radicali...».
L'incontro è per questa mattina, ore 9 e 30, al loft del Pd, piazza Sant'Anastasia. Come pensano i radicali di convincere Veltroni a fare coalizione con loro? «Diremo: mettiamo al centro del programma due temi. La giustizia e le riforme economiche e strutturali richieste da Bankitalia, dalla Ue, dal Fondo monetario internazionale e dall'Osce, riforme come quelle sollecitate dagli economisti Ichino e Boeri». Quindi, nessuna pregiudiziale laicista? «Non chiediamo giuramenti laicisti. Non possiamo pretendere che Veltroni e Rutelli si mettano a fare i laici. Anche se...». Anche se? «Fuori dall'incontro del loft, noto che la Binetti si è dichiarata totalmente d'accordo con Berlusconi e Ferrara, sull'aborto».
Pannella, Bonino, Cappato e Bernardini diranno altre cose a Veltroni per convincerlo. Per esempio, che una coalizione permetterebbe di «non rassegnarsi a perdere». Secondo Pannella, «la destra si presenta gravata da condizionamenti vari, in base ai quali Berlusconi, fino all'ultimo momento, aprirà o chiuderà porte. Noi invece possiamo davvero unire le forze riformatrici e creare una valida alternativa politica non agibile fino ad oggi».
Spiega Pannella che «il mondo comunista conservatore» non fa più parte della possibile coalizione e lo stesso vale per Mastella: «Ci si può quindi presentare con prestigio e autorevolezza per mettere mano alle riforme sociali ed economiche che tutto il mondo ci chiede. Dare finalmente il via a un rinnovamento libero dalle precedenti pesantezze, con una coalizione omogenea, di sicuro più forte della gestione monarchica di un partito».
Se nell'incontro di questa mattina Veltroni proponesse ai radicali di entrare nelle liste Pd, senza simbolo né nome? La risposta è di Emma Bonino: «La nostra proposta è chiara. Se loro ne faranno altre, staremo a sentire».

Liberazione 13.2.08
Franco Giordano: «Lavoro, moralità, laicità. Questa la sfida»
Dal forum di Rifondazione, intervento a tutto campo del segretario:
«Il nuovo progetto politico non può essere un mero cartello elettorale»
di Castalda Musacchio


«Ci sono cose che appaiono e sono incomprensibili. E' legge dello Stato l'utilizzo delle risorse dell'extragettito solo ed esclusivamente a favore del lavoro dipendente. Sinora si è costantemente sottostimata la crescita e così sono risultati non spesi svariati milioni di euro. Le risorse ci sono, è un dovere morale detassare il lavoro dipendente e intervenire su retribuzioni e pensioni. Chi deve vivere con mille euro al mese non può aspettare ancora. Il Governo proponga immediatamente in Parlamento questo provvedimento. Vogliamo vedere in faccia coloro che si opporranno a questa elementare e sacrosanta norma di redistribuzione sociale». E' così che, mentre il calo delle tasse e l'aumento dei salari scalda la campagna elettorale, e si accende la nuova polemica sul "Tesoretto" che Franco Giordano, il segretario di Rifondazione, puntualizza quali sono i nuovi temi della battaglia politica che la Sinistra - l'Arcobaleno dovrà affrontare. E, tra una replica a Padoa Schioppa, e le risposte, tante, fornite sul forum a disposizione di tutti del sito di Rifondazione (www.rifondazione.it) non manca occasione per fissare su un timone preciso quale è la rotta che la nuova Sinistra è decisa ad inseguire: non solo redistribuzione del reddito ma diritti. Diritti civili, sociali, individuali che continuano ad essere negati ai più. E ancora lavoro, lotta alla precarietà, difesa dell'ambiente inteso come un no netto al nucleare e sì fermo alle energie rinnovabili, e ancora laicità. In uno slogan: riscoperta di «una moralità pubblica che deve tornare ad essere questione centrale nel paese».
E così le risposte ai tanti che affollano il forum toccano i temi al centro del dibattito che vede ben delineati gli schieramenti che si oppongono. Da una parte il Pd e il Pdl, dall'altra l'altra Sinistra, quel nuovo progetto che, sottolinea Giordano, «non può essere un mero cartello elettorale, ma deve, al contrario, coinvolgere, far partecipare e decidere anche i tanti, forse i più, che sono fuori dalle quattro formazioni politiche». Un progetto su cui Rifondazione comunista ha puntato, anzi lo ha inserito «al centro della sua scelta strategica» e - sottolinea Giordano - «anche congressuale». Ed è a questo proposito che - spiega ancora il segretario Prc - «raccogliamo l'appello di diverse associazioni ad aprire immediatamente nel paese una fase costituente in cui soggetti politici organizzati, associazioni, realtà di movimento, esperienze di conflitto sociale, singoli individui decidono di aderire direttamente al soggetto unitario e cominciano sin d'ora a dargli corpo». Il percorso non è solo avviato ma si va corposamente costruendo. E si esprime con chiarezza. Nei contenuti soprattutto. A partire da quel tema della democrazia di genere che - sottolinea ancora Giordano - «è assolutamente fondativo». A tal proposito la Sinistra - auspica il segretario Prc - «proporrà liste che abbiano l'alternanza uomo/donna e la certezza che questa alternanza possa trovare uno sbocco nella rappresentanza». Del resto Rifondazione già due anni fa risultò essere la forza che portò in parlamento il 40% di donne, «in assoluto la forza che ne ha portate di gran lunga di più. Oggi si tratterebbe di fare uno sforzo, tutti insieme, per un 10% in più». Dalla questione di genere al riconoscimento di quei diritti che sono negati il passo è breve. «Tanto più forte sarà la Sinistra», aggiunge, «tanto più avremo un'influenza parlamentare sulla materia dei diritti civili». Piena sintonia dunque con il movimento Lgbtq, «sintonia su ciascuna delle proposte avanzate». «Il nostro - puntualizza Giordano - da questo punto di vista resta un paese del tutto incivile. Abbiamo dovuto fare mediazioni pur di ottenere un qualche risultato, ma le contraddizioni interne al Pd hanno reso impossibile tutto. Oggi è bene che l'identità della Sinistra faccia emergere in tutta la sua forza il tema della laicità». E proprio la laicità sarà il perno intorno a cui si muoverà la Sinistra-l'Arcobaleno. Laicità che coinvolge il rispetto di tutti e, soprattutto, di tutte. «Non c'è ombra di dubbio infatti: siamo contrari a qualsiasi ipotesi di moratoria per l'aborto, l'autodeterminazione delle donne è principio non derogabile su una materia delicata come questa». E proprio su questo tema «il Pd è inaffidabile». Toccherà alla nuova Sinistra «contrastare ogni tentativo di mediazione al ribasso su leggi importanti a partire dalla 194». Laicità dunque ma anche moralità «che deve tornare ad essere questione centrale nel paese». Così come la riduzione dei costi e dei privilegi della politica che resta un'altra delle battaglie su cui la Sinistra è decisa ad incidere. «Abbiamo depositato per primi - ricorda - un testo di legge che prevede, per tutti i lavori pubblici, un minimo ed un massimo senza grandi sperequazioni. Ma in Italia - aggiunge il segretario di Rifondazione - esiste una questione morale che è fatta di degrado della politica, di commistione con il malaffare di plurincarichi. Credo sia altresì utile - sottolinea - valorizzare le risorse pubbliche e ridurre consulenze e Cda». Moralità dunque, laicità, lavoro, diritti: sono questi i temi su cui la nuova Sinistra si appresta a lanciare la sua sfida. «E - conclude - dopo la scelta del simbolo non si può che accelerare per la costruzione del nuovo».

Liberazione 13.2.08
Non esiste il reato di feticidio, casomai esiste l'infanticidio
di Laura Eduati


Non esiste il reato di feticidio, casomai esiste l'infanticidio. Nel codice penale italiano viene definita così la soppressione di un bambino appena nato con parto naturale.
Ma il feticidio no, è un'invenzione degli agenti che hanno fatto irruzione nella sala di interruzione di gravidanza del Policlinico Ferdinando II di Napoli. Seminando lo sgomento tra i medici e le donne impegnate a difendere la 194.
«Un fatto di enorme gravità» commenta a caldo l'avvocata femminista milanese Maria Grazia Campari. «A mia memoria non è mai successo qualcosa del genere negli ultimi 30 anni. E sicuramente è colpa di un clima anti-abortista pompato dal Papa e dalla moratoria di Ferrara che purtroppo trova simpatizzanti a destra e a manca».
L'Udi, l'Unione delle donne in Italia che ha denunciato l'episodio, ha deciso di scendere in piazza giovedì a Napoli per protestare. «Manifestare non è più sufficiente» continua, amara, Campari. «I movimenti femminili sono stati carenti negli aspetti giuridici, ora è tempo di ricorrere ai tribunali». Per denunciare cosa? «Beh, ad esempio quegli ospedali che non garantiscono l'interruzione di gravidanza perché tutti i medici sono obiettori, come accade in Lombardia».
Tempi duri, prosegue la ginecologa Mirella Parachini del S. Filippo Neri di Roma. Dal semplice dibattito sui giornali, dice, si è passati alle vie di fatto. Parachini è membro dell'associazione Luca Coscioni, da sempre in prima linea per la difesa del diritto all'aborto: «L'articolo 9 della legge è completamente disatteso: quando un ospedale non può garantire l'aborto è obbligato a cercare una struttura dove sia possibile fare l'intervento. Ma questo non succede».
La 194 garantisce l'aborto terapeutico (oltre il novantesimo giorno) quando la gravidanza comporta seri rischi alla salute della donna o in caso di gravi malformazioni del feto con conseguente pericolo per la salute fisica e psichica della gestante. La legge, approvata nel 1978, non precisa i limiti per l'aborto terapeutico che oggi sono fissati convenzionalmente attorno alla 22-23ma settimana; e impone che nel caso il feto sia provvisto di vita autonoma, il medico deve fare in modo di salvaguardarne l'esistenza.
Il dibattito di queste settimane, come quello scaturito in seguito al documento dei quattro ginecologi romani che ordina la rianimazione dei feti anche contro la volontà della madre, sta tutto qui. E tra l'altro sono soltanto lo 0,7% gli aborti oltre la ventesima settimana, cioè gli interventi che in via eccezionale potrebbero fare abortire feti vivi. «Due di quei quattro ginecologi romani lavorano in strutture ospedaliere universitarie dove manca il reparto di ostetricia» denuncia Parachini, «e dunque perché fanno la morale a persone che hanno le mani in pasta tutti i giorni?».
Il tempo delle parole, sembra di capire, è finito. Campari propone azioni giuridiche, la ginecologa del San Filippo Neri controbatte: «Sì, dovremmo diventare più aggressive. Ma ricordiamo che le donne che scelgono di abortire soffrono e non hanno voglia di lottare. In questo senso allora serve il movimento, ma chi lotta da 30 anni accusa stanchezza mentre le nuove generazioni sembrano non percepire il pericolo».
Un ginecologo che pratica un aborto non può commettere il reato di infanticidio, semmai può violare la 194 nel caso non dia le cure necessarie ad un feto dotato di vita autonoma o pratica l'aborto terapeutico senza giustificazione medica (da uno a quattro anni di carcere). Lo stabilisce la legge.
Un compromesso che tiene conto della possibilità di autodeterminazione della donna e vieta il cosiddetto aborto selvaggio. La magistratura, confermano gli esperti consultati da Liberazione , ha certo il diritto di verificare se esistono i presupposti per l'aborto terapeutico, se è vero che la malformazione del feto provoca gravi disagi psichici alla donna che desidera abortire. Ma non sfugge la crescente criminalizzazione delle donne, dipinte come assassine di bambini indifesi da un fronte ultracattolico, quando invece è una legge dello Stato che garantisce l'intervento.
«Soltanto la donna può gestire il proprio corpo» sbotta l'avvocata Teresa Manente di Differenza donna, associazione in difesa delle vittime della violenza domestica. Stupefatta, Manente cerca di trovare le parole giuste per esprimere la rabbia: «C'è la voglia di far riesplodere la cultura patriarcale, l'uomo vuole gestire il potere naturale delle donne, quello di procreare».
«Questo è solo l'inizio» dice una giudice milanese che preferisce rimanere anonima.

Liberazione 13.2.08
Marramao evoca Benjamin
la politica è azione nell'attimo
di Giacomo Marramao


Nel suo ultimo libro "La passione del presente" lo studioso ridà alla filosofia il compito di analizzare il proprio tempo. E riprende il pensiero del filosofo tedesco per il quale la potenza rivoluzionaria del messianico è tale quando è colta nella sua specificità

Pubblichiamo stralci dell'ultimo libro di Giacomo Marramao "La passione del presente" (Bollati Boringhieri, pp. 291, euro 10,00).

Nessun autore come Walter Benjamin è riuscito a esprimere la segreta cifra messianica che percorre, come una fenditura verticale, la struttura antagonistica della nostra modernità-mondo. E' questa decisiva circostanza a fare delle tesi «sul concetto di storia» un testo letteralmente estremo: a un tempo testamentario e testimoniale. Un testo che pare rivolto direttamente a noi: a noi tutti, collettivamente intesi, ma anche a ciascuno di noi, a chiunque sia in grado di coglierne la straordinaria tensione interna.
La chiave di lettura delle tesi Über den Begriff der Geschichte , che intendo qui prospettare, è espressa in forma deliberatamente provocatoria da un ossimoro: messianismo senza attesa . Sintagma letteralmente para-dossale : in contrasto con la doxa , con ogni common sense o opinione corrente circa i caratteri tradizionalmente attribuiti al «messianico». Come può darsi, in senso proprio, messianismo senza «orizzonte di aspettativa»: a prescindere, appunto, dalla dimensione dell'attesa messianica? E il venir meno dell'attesa non costituisce, allora, ragion sufficiente del dissolvimento della tensione messianica in quanto tale? Si trova qui racchiusa - è mia ferma convinzione - la cifra segreta di un testo a un tempo translucido ed enigmatico, che può ricevere un senso compiuto solo ricomponendo la costellazione multipolare dei suoi referenti concettuali e simbolici: reinterpretando, cioè, la radicalità del suo nucleo teologico-politico nella forma di un messianismo non semplicemente secolarizzato (come accade alle filosofie della storia stigmatizzate criticamente da Karl Löwith), ma - insieme - postsecolare e postreligioso. In breve: il tratto paradossale del messaggio benjaminiano di «redenzione» consiste nel suo simultaneo collocarsi al di là del profilo ancipite, del volto di Giano, del Futurismus occidentale, simboleggiato per un verso dalla promessa di salvezza delle religioni monoteistiche, per l'altro dalla Fortschrittsgläubigkeit della moderna filosofia della storia. Cercherò, dunque, di dimostrare come la singolare figura di un messianismo-senza-attesa si leghi in Benjamin alla proposta di un «Begriff der Geschichte» non dopo la fine della Storia, bensì dopo la fine della fede nella Storia.

Fine dei tempi e tempo della fine
La chiave esplicativa ci è fornita da quella che - nell'importante versione dattiloscritta rinvenuta da Giorgio Agamben - si trova numerata come tesi XVIII. Si tratta di una tesi cruciale, la cui traiettoria prospetta una declinazione del messianismo esattamente nella direzione che abbiamo prima messo in evidenza. Afferma Benjamin nell'incipit della tesi: «Nell'idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l'idea del tempo messianico». E subito dopo aggiunge: «Ed era giusto così». La degenerazione avviene più tardi, nel momento in cui la veduta ideologica affermatasi nel movimento operaio socialdemocratico opera una sorta di sublimazione della Vorstellung in Ideal . «La sciagura sopravviene per il fatto che la socialdemocrazia elevò a "ideale" questa idea». Il piano inclinato verso la disattivazione della carica politico-messianica ha luogo, pertanto, con la dottrina neokantiana del «compito infinito» (divenuta la Schulphilosophie , la «scolastica», del Partito socialdemocratico - precisa Benjamin - con intellettuali e dirigenti come Robert Schmidt, August Stadler, Paul Natorp e Karl Vorländer). Ma, una volta definito il fine della società senza classi come un movimento asintotico orientato da uno schema ideale, «il tempo omogeneo e vuoto si trasformò, per così dire, in un'anticamera nella quale si poteva attendere, con maggiore o minore tranquillità, l'ingresso della situazione rivoluzionaria». Il carattere passivo dell'attesa non è, allora, una prerogativa del messianico, ma piuttosto di un concetto trascendentale e indifferenziato del tempo storico, incapace di cogliere la costellazione insieme singolare e «vertebrata» del presente. E infatti, proseguendo nella lettura della stessa tesi, troviamo il tema dell'«attimo» ( Augenblick ). E' ormai acclarato, grazie ai risultati dell'esegesi benjaminiana degli ultimi anni, che la categoria di Augenblick svolge, nel corpo delle tesi, una funzione nettamente distinta da quella di Jetztzeit : dell'«adesso» o del «tempo-ora». Perché, dunque, in questo cruciale passaggio della tesi, si parla di Augenblick e non di Jetztzeit : di attimo e non di tempo dell'adesso? A questa domanda non vi è, a mio avviso, che una sola plausibile risposta: perché soltanto se noi agiamo per affrettare l'avvento, l'azione rivoluzionaria può essere definita un'azione propriamente messianica. Ma - qui sta il punto decisivo - ogni monade del tempo storico è suscettibile, se adeguatamente afferrata nel concetto, di essere trasformata in messianische Endzeit : in messianico tempo-della-fine. Ma andiamo, allora, direttamente al testo: «In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria - essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L'ingresso in questa stanza coincide del tutto con l'azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un'azione messianica».

L'attimo del pericolo
Reinterpretato alla luce di questo cruciale passaggio delle tesi, il messianico benjaminiano acquista un senso nuovo e più intenso. Più precisamente: esso si colloca al punto di incrocio tra «attimo» ( Augenblick ) e «passato» ( Vergangenheit ) - fuori di ogni simbolica infuturante dell'attesa. Ogni istante reca in sé la dynamis , la potenza o virtualità del messianico: a condizione che esso venga concepito - begriffen : ossia, alla lettera, «colto, afferrato» - nella sua singolare, irripetibile, specificità. E solo quando l'azione politica si fa riconoscere come azione messianica, la Jetztzeit si converte in Augenblick . Ma vi è di più. Le costellazioni del tempo-ora si convertono nell'attimo non in virtù di una tensione utopica verso il futuro, ma per il fatto che il «ricordo» ( Erinnerung ) del passato degli oppressi - com'è detto nella tesi VI - «balena in un attimo di pericolo». E' nell'immagine del passato, dunque, e non in una qualche «progettazione» del futuro, che si trova depositata la chiave della conversione reciproca di messianismo e materialismo storico: «Per il materialismo storico
l'importante è trattenere un'immagine del passato [ Bild der Vergangenheit ] nel modo in cui si impone imprevista nell'attimo del pericolo». E' in quell'imprevisto e imprevedibile «balenare» che deve entrare in campo l'azione rivoluzionaria. Ed è precisamente in quell'attimo che ci troviamo nel tempo propriamente messianico. Ma se messianico non è in senso proprio il tempo dell'attesa, esso non è neppure la mera Jetztzeit . La densità monadica del Nunc , dell'Ora, dell'Adesso, è piuttosto l'oggetto dell'interprete: dello storico capace di cogliere la costellazione determinata del presente nella Darstellung . Il tempo messianico è invece tempo dell'azione: poiché solo nell'azione si diviene soggetti rivoluzionari, soggetti in grado di operare una conversione del politico nel messianico.

il Riformista 13.2.08
L'Arcobaleno, anomalia positiva
La leadership di Bertinotti non dovrebbe preoccupare
di Federico Coen


La crisi del governo Prodi, per il modo in cui è avvenuta e per gli sviluppi politici che ne sono seguiti, non fa che aggravare l'anomalia italiana rispetto all'Europa. Prima di tutto, la coalizione del cosiddetto Ulivo è andata in crisi non per il fallimento di alcuni dei suoi impegni programmatici ma per il capriccio di un personaggio come Mastella al quale era stata incautamente assegnata la funzione di ministro della Giustizia e che di questa sua carica si è servito a lungo per bloccare le inchieste giudiziarie nelle quali era personalmente coinvolto, anziché darsi carico dell'inefficienza e della paralisi ben nota del nostro sistema giudiziario.
In secondo luogo, nonostante i meritori tentativi contrari compiuti dal presidente Napolitano, saremo costretti a eleggere il 13 aprile il nuovo Parlamento sulla base di una legge elettorale che tutti i partiti di destra e di sinistra considerano pessima, senza tuttavia impegnarsi a radicalmente modificarla. Una contraddizione che non ha riscontro in nessuna delle altre elezioni politiche che si svolgono in Europa, e che avrà inevitabilmente le sue ripercussioni sul futuro Parlamento nazionale.
L'anomalia italiana si riproduce nel modo in cui i partiti politici si vanno preparando al voto di aprile. Sul lato sinistro, la novità predicata da Walter Veltroni con il suo Partito democratico appare niente altro che un ritorno al passato: a un passato remoto come quello che nell'Assemblea Costituente unì i comunisti e i democristiani nel voto sul famigerato articolo 7 della Costituzione che costituzionalizzò i Patti Lateranensi; a un passato prossimo come quello che ancora una volta è destinato a mantenere la sinistra italiana fuori dello schieramento socialista europeo. Non è un caso se la Costituente Socialista di Enrico Boselli è stata tenuta fuori dal partito di Veltroni e di Rutelli, ed è costretta a raccogliere un gruppetto di socialisti craxiani senza nessuna prospettiva.
Tuttavia, di fronte a queste anomalie negative, c'è finalmente un'anomalia positiva, con la nascita della cosiddetta Sinistra Arcobaleno, in cui la sinistra del vecchio partito dei Ds, ormai sepolto, si unisce alla ex sinistra massimalista di Rifondazione in un progetto innovativo.
A tale proposito, la leadership di Fausto Bertinotti non dovrebbe suscitare preoccupazioni, dal momento che il personaggio - come ha notato Giovanni Pieraccini nell'articolo pubblicato sul Riformista il 29 gennaio scorso - si è liberato ormai da un pezzo del massimalismo operista di stampo marxista che coltivava in passato. Resta naturalmente da chiarire quali saranno in concreto le principali opzioni programmatiche della Sinistra Arcobaleno. In politica estera, la scelta principale dovrà consistere ovviamente nell'adesione al Pse a cui Veltroni e i suoi seguaci margheritini sono nettamente contrari.
Non meno importante sarà la tutela della laicità dello Stato contro l'invadenza della Chiesa cattolica che si avvale dei Patti Lateranensi per mantenere immensi privilegi fiscali che non hanno riscontro nel resto d'Europa, e che negli ultimi tempi ha sferrato pesanti attacchi contro la legislazione italiana in materia di aborto e di divorzio.
Non meno importante sarà un programma finalizzato a sanare due piaghe che colpiscono la vita quotidiana degli italiani: la paralisi della giustizia penale e civile e la crisi dell'assistenza sanitaria che ha il suo epicentro nelle regioni meridionali.
E ancora l'opzione ambientalista assunta dalla Sinistra Arcobaleno dovrà tradursi in un programma specifico per porre fine alla manomissione dell'ambiente naturale che colpisce gran parte dell'agricoltura italiana. Ed è forse superfluo ricordare a chi se ne occupa da sempre la condizione di precarietà in cui vive tanta parte dei lavoratori dipendenti; una condizione che ha il suo riflesso nella moltiplicazione in Italia più che altrove delle cosiddette "morti bianche".
A mio avviso, non si tratta di stipulare specifici accordi programmatici con i veltroniani o con altri eventuali soggetti di sinistra. Si tratta piuttosto di coinvolgere nel sostegno ai programmi della Sinistra Arcobaleno le tante organizzazioni che già istituzionalmente se ne danno carico: dai sindacati di tutte le Confederazioni alle numerose associazioni dei consumatori, alla Lega Ambiente, ai Medici Senza Frontiere, e così via. E si tratta soprattutto di coinvolgere tutte queste organizzazioni nella scelta dei candidati alle elezioni di primavera, superando la tradizionale tendenza dei partiti storici a imporre dall'alto le proprie scelte elettorali. Così davvero l'Italia potrà cambiare!

il Riformista 13.2.08
La fermezza del Psoe
Caro direttore, mercoledì scorso il suo giornale apriva con un bellissimo commento sul tifo e l'invidia suscitati, nei nostri cuori teocratizzati, dalla fermezza del Psoe spagnolo in tema di laicità dello Stato. Ora a questa verità si aggiunge la notizia che possiamo invidiare gli spagnoli in genere, dal momento che la loro voglia di libertà è tale da suggerire persino al Partito popolare di Rajoy di tenere la Chiesa fuori dalla campagna elettorale e di affermare che le leggi in tema di diritti civili firmate da Zapatero non verrebbero toccate in caso di avvicendamento al governo. Da noi? Giusto il contrario. E mentre qui manca pochissimo che nei programmi elettorali bipartisan venga inserito il concorso in omicidio per le donne che abortiscono spontaneamente, chiediamo ai cugini spagnoli se non hanno per caso un posticino in Galizia, chessò a Santiago de Compostela, per ospitare un'enclave vaticana e lenire almeno parzialmente la nostra invidia?
Paolo Izzo