venerdì 15 febbraio 2008

Liberazione 15.2.08
Scontro politico culturale e sociale
Ne va della civiltà di un intero paese
di Franco Giordano


Voglio ringraziare le migliaia di donne che ieri a Roma, e Napoli e in molte altre città italiane hanno manifestato contro l'odioso sopruso perpetrato al Policlinico Federico II di Napoli ai danni non solo di Silvana - aggredita in corsia e sottoposta a umiliante interrogatorio subito dopo un doloroso aborto terapeutico - ma di tutte le donne. Voglio ringraziarle perché credo che la loro mobilitazione e la loro forza sia a difesa di tutti noi. Cioè della libertà. Sono state manifestazioni squisitamente politiche: conviene dirlo forte e chiaro.
La grande bugia che in questi giorni rimbalza dai vertici del Pdl a quelli del Pd assicura che non di politica si tratta. I leader di questi due partiti concordano sulla opportunità di "tener fuori" tanto spinosi argomenti dalla campagna elettorale. Attengono, si dice, a una sfera intima e privata. Riguardano i princìpi etici del singolo individuo: bon ton impone di non confonderli con la politica o, peggio, con la campagna elettorale. E di cosa dovrebbe parlare la politica? Solo della sua insensata separatezza? Dell'autoriproduzione di sé?
No. L'autodeterminazione delle donne, i diritti dei gay, le unioni civili, la bioetica rappresentano oggi uno dei principali fronti di uno scontro che è tanto politico quanto culturale e sociale.
Chiamano in causa un'intera concezione dei diritti di tutti e di ciascuno. Ne va della civiltà di un intero paese, il nostro, e non c'è ipocrisia più grande del negare questa evidenza impugnando il rispetto del travaglio individuale, il comodo "caso di coscienza".
Non si tratta, e anche questo va detto chiaramente, di una bugia innocente. Il leader del Pd sa perfettamente che nel suo partito, e a maggior ragione tra i suoi potenziali elettori, la genuflessione alle imposizioni della componente cattolica più integralista non sarebbe accettata facilmente.
Non se ne deve parlare, soprattutto in campagna elettorale, perché la contraddizione è troppo forte e perché la leadership del Pd sa di non poterla in alcun modo risolvere. Dunque va nascosta. La leggenda del partito finalmente coeso, serrato intorno a una linea univoca, crollerebbe come un castello di carte ove dovessero confrontarsi alla luce del sole le posizioni della senatrice Binetti e quelle della sua capogruppo Anna Finocchiaro, o della ministra Pollastrini.
Credo che un ragionamento identico muova anche il leader della destra. Persino tra gli elettori di Forza Italia o di An, soprattutto ma non solo tra le donne, c'è chi non accetterebbe supinamente di veder negati i propri diritti, cancellate le conquiste degli ultimi trent'anni. Il nostro paese, su questi temi, è più avanti della sua rappresentanza politica. Per fortuna.
E' anche per questo, per la paura di confrontarsi con il paese reale, che nessuno osa mettere apertamente in discussione la legge 194. La manovra che si sta dispiegando giorno dopo giorno, inesorabilmente, è più sottile. Non mira a vietare bensì a criminalizzare, a cambiare il contesto culturale. Non nega il diritto all'autodeterminazione delle donne, però lo trasforma sapientemente in colpa e in vergogna in nome di un mai sopito impulso al controllo dei corpi, dei sentimenti, degli affetti. Punta a renderlo impraticabile senza doverlo proibire ufficialmente. E' una strategia minacciosa alla quale compartecipano, sia pure per ragioni diverse, tanto la destra quanto il centro. Per questo riaffermare che la scelta sulla procreazione è un diritto inalienabile delle donne, uno di quelli "senza se e senza ma", senza colpa né vergogna, non è affatto sintomo di ruvido e rozzo laicismo: è il minimo indispensabile.
Si confrontano oggi due concezioni radicalmente antitetiche: la difesa della Vita, nella sua altisonante astrazione, contro quella delle vite, nella loro materialità concreta. Nessuno obbliga qualcuno a fare scelte che sente eticamente diverse dalle proprie convinzioni, ma non si può mai invocare un malinteso principio etico per negare, con la norma, l'autodeterminazione dei soggetti. E' il fondamento del principio della laicità costituzionale. E in tante occasioni abbiamo visto immensa ipocrisia nel rivendicare la sacralità di princìpi che si dissolvono però di fronte alla soglia del mercato. Come sulle tante proibizioni della legge sulla fecondazione assistita, che lascia la possibilità di esaudire il desiderio di genitorialità solo a chi ha le risorse finanziarie per garantirselo all'estero, magari nella cattolicissima Spagna. E' un pendolo davvero disinvolto tra il sacro e il profano, tra l'etica e il mercato.
Anche per queste ragioni è nata la Sinistra Arcobaleno. Per restituire alla politica la sua materialità, per renderla di nuovo carne e sangue invece che slogan e ideologia. Per riportare in testa a ogni agenda le esigenze reali delle donne e degli uomini, le loro sofferenze, le loro necessità. E questo non è un argomento politico tra tanti. E', per me, l'essenza stessa della politica.

Repubblica 15.2.08
Bertinotti attacca l'alleanza Pd-Di Pietro "Incoerente con la scelta di andare soli"
Il presidente della Camera: rischiamo di diventare una provincia Usa, con due soli partiti
di Umberto Rosso


ROMA - Accordo fatto con Di Pietro, rottura con i socialisti, un tenue filo ancora con i radicali. La partita delle alleanze del Pd è praticamente chiusa, aspettando lunedì per un supplemento di istruttoria con Emma Bonino che insiste per l´accordo: «Le nostre idee liberali in economia e il nostro rigore laico possono servire anche al Partito democratico». Con i socialisti invece polemiche roventi. Massimo D´Alema, a "Porta a Porta", attacca: «Che proprio nel rapporto con noi Boselli senta l´insopprimibile bisogno di esporre il simbolo socialista, dopo aver scelto alleanze con un atteggiamento anche disinvolto, lo trovo un atteggiamento settario, chiuso». A stretto giro, la risentita replica del leader del Ps, «non accetto lezioni di coerenza dall´onorevole D´Alema, dato che io sono sempre stato socialista». Dichiarandosi quindi «meravigliato» delle preoccupazioni del vicepremier per la tradizione socialista, «poiché uno dei principali obiettivi della sua storia politica è stato quello di annientarci». Con l´eurodeputato Pia Locatelli che chiede l´intervento del capogruppo del Pse Schultz contro il Pd (dove sono confluiti i Ds, che fanno parte della famiglia socialista europea).
Fausto Bertinotti invece critica l´alleanza fra Veltroni e Di Pietro, «vedo qualche disinvoltura di troppo». Per il candidato premier della Sinistra Arcobaleno «il Pd deve saper giustificare all´esterno una scelta che sembra incomprensibile». E spiega: «Il Pd ha ad esempio votato l´indulto mentre l´Idv era contro. Mi sembra una contraddizione. Mi pare che sia una alleanza che rende meno limpida la scelta ambiziosa del Pd di correre da solo. Qui c´è un ammiccamento al risultato elettorale a costo di qualche sacrificio sulla linearità». Polemiche che però Di Pietro si lascia alle spalle e si mostra sicuro dei risultati, in particolare al Senato: «Corriamo per vincere», dichiara. Bertinotti però insiste nel mettere il Pd nel mirino. Per il pericolo di larghe intese, «l´Italia rischia di diventare una provincia degli Usa, con due soli partiti» (ipotesi che D´Alema continua a definire «impensabile»), e anche sul tema salari e precarietà: «Il punto vero è cambiare la legge Biagi». Ad altri esponenti della Sinistra Arcobaleno, come il capogruppo del Pdci Manuela Palermi, le proposte di Veltroni sul salario minimo di mille euro per i precari sono apparse «ridicole».
Per il Pd, parla il numero due Dario Franceschini. Un accenno all´esperienza di governo Prodi, «caduto portando le firme di personaggi che hanno un nome, un cognome e una faccia, che hanno tradito e che saranno ora ricompensati dal centrodestra con la candidatura nelle loro liste». Quindi, sul futuro del Pd, il vicesegretario rilancia l´espressione di Veltroni: «Correremo liberi più che soli. E se vinciamo, pensate a un governo con 12 ministri dello stesso partito, con un solo programma...».

Repubblica 15.2.08
L'ideologia del mutamento e il confronto fra tradizione e novità
Se il moderno oscilla tra stasi e cambiamento
di Carlo Galli


Nell´ambito politico, la dialettica tra Bene e Male si presenta nel fronteggiarsi di tradizione e rivoluzione, di conservazione e innovazione, di stabile identità e di metamorfosi infinita

La vertiginosa ebbrezza del nuovo e l´abissale profondità del sempre identico; la libertà da ogni legame e l´adesione a ciò che permane; il presente come eterno futuro e il passato come eterno presente; questi due volti dello Spirito si fronteggiano in ambito filosofico fino da Parmenide e Eraclito, dalle rispettive immaginazioni dell´immutabilità dell´Essere sempre identico a se stesso e dello svanire di ogni stabile identità nel perenne movimento e nei suoi milioni di attimi che incessantemente si cancellano e si superano. La percezione di questa ineliminabile duplicità si ripresenta nel corso della storia del pensiero; ad esempio, nel 1839 Feuerbach contrapponeva la sapienza biblica per cui non vi è nulla di nuovo sotto il sole, alla filosofia tedesca - Hegel in particolare - per la quale l´esperienza umana non è che un susseguirsi di novità, il corteo bacchico della ragione, un continuo cambiamento di condizioni e di interpretazioni.
È certo che in particolare l´età moderna ha avuto come propria legge di sviluppo la rottura d´orizzonti, l´apertura di spazi, il tracciare nuove rotte in mari continuamente scoperti. Non a caso nel Manifesto Marx scrive celebri pagine sulla potenza trasformatrice del capitalismo, sul ruolo rivoluzionario della borghesia e sullo sradicamento e il sovvertimento che essa introduce nella storia dell´umanità; e per questa via gli si fa presente uno dei modi di funzionamento della modernità: la rivoluzione economica e sociale come miccia che innesca il progresso, il quale è a sua volta la vera legge della storia. Il cambiamento e la novità - non l´immutabilità dell´Essere - sono di fatto il Bene.
Nell´ambito politico questa dialettica si presenta nel fronteggiarsi di tradizione e rivoluzione, di conservazione e innovazione, di stabile identità e di metamorfosi infinita. Fino da Bacone che si poneva come obiettivo la costruzione di una nuova logica, e da Cartesio che vedeva negli edifici del mondo antico solo cumuli di rovine, e particolarmente fino da Hobbes che negava che l´antichità dovesse essere oggetto di venerazione, si fa evidente la propensione alla novità, al cambiamento, che percorre l´età moderna e si fondano le basi teoriche che avrebbero consentito di concepire un atto come la rivoluzione francese, la sua lotta contro la tradizione e il peso dell´eterno passato. Una propensione che è ottimistica apertura alla possibilità, allo sviluppo: nulla è scritto per sempre, tutto può e deve cambiare; non c´è blocco della storia che non possa essere sbloccato, superato di slancio; non c´è contraddizione che non possa essere risolta. Il volto della storia è potenzialmente antropomorfo.
La moderna propensione al nuovo è, certo, anche apertura al conflitto: in tempo di rivoluzione ciò che antico è anche nemico, perché si oppone alla sola vera legittimità, il cambiamento. Del pensiero progressivo del quale sono portatori borghesi e proletari, avversari tra di loro ma uniti (almeno teoricamente) contro le forze della reazione, esistono necessariamente degli avversari, che fanno il controcanto al Ballo Excelsior del progresso. Quanto incantamento è contenuto nel disincanto dei moderni lo vide già Leopardi, non certo un reazionario ma un lucido interprete di una condizione umana nella sua essenza non modificabile; e lo avevano già visto anche i controrivoluzionari - fra gli altri, Maistre e Bonald - che coglievano quanto di violenza e di instabilità c´è nel fondare la politica sul movimento, quanto di nichilismo può essere implicito nel nuovismo; al quale contrapponevano - vanamente, peraltro - la lunga durata delle cose umane, la potenza di un passato che in ultima analisi si perde nella trascendenza, in una dimensione sottratta all´agire umano e alla sua forza trasformatrice.
Sulla dialettica fra stasi e cambiamento - e sull´inevitabile trionfo di questo - si è fondata la fase eroica del Moderno, la rivoluzione francese e il progressismo ottocentesco, tutto giocato sul binomio "ragione e nazione". E quella dialettica ha innervato anche tutta la politica del XX secolo, nel quale pure le contraddizioni del progresso si sono rese manifeste. Le ideologie novecentesche si orientavano nell´orizzonte della storia guardando al nuovo e al futuro - al sol dell´avvenire socialista i fascisti non contrapponevano il passato ma la giovinezza a cui era dedicato il loro inno (la parziale eccezione è stato il nazismo, che ha declinato il progresso come ritorno a una presunta natura e alle sue leggi spietate). Ma sul nuovo in lotta contro il vecchio si sono costruite anche le grandi svolte politiche democratiche; almeno là dove la democrazia è vitale, essa non è solo istituzioni, regole, forme, ma anche energia, ricorrente slancio per un nuovo inizio. Il New Deal di Roosevelt, la Nuova Frontiera di Kennedy, il New Labour di Blair, ma anche la svolta della socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg e, certo, anche il nuovo di destra, che dalla Thatcher a Reagan (per non parlare dell´Italia) non si presta a farsi passare per statico ma si presenta col piglio e il fascino del nuovo.
Il fatto è che il nuovo muove, mobilita - mentre le riflessioni, per quanto sagge, sui limiti dello sviluppo, e sulla decrescita, deprimono; del resto, anche l´Identità, tema politico oggi certamente fortissimo, non si manifesta come permanenza del sempre uguale ma come nuova interpretazione di antiche radici. Il nuovo piace perché ha cuore antico, perché ogni appello idealistico e volontaristico al movimento - al superamento di un blocco che è arduo, ma che "si può fare" - fa affiorare un bene che oggi sembra sempre più raro, un´energia che pare disperdersi: l´entusiasmo, la speranza, l´azione. Illusioni, forse; ma di esse vive, da sempre, l´umanità.

Repubblica 15.2.08
I mattoni del del mondo
A proposito di due saggi di Philip Ball e Peter Atkins
La materia nell’era atomica
di Piergiorgio Odifreddi


Acqua, aria, terra e fuoco: così i filosofi presocratici scandivano la realtà visibile Oggi le cose sono più complicate e gli elementi non sono più quattro ma cento
Già ben prima dei Greci erano stati isolati metalli come l´oro e il rame che sono veri elementi semplici come il piombo lo stagno e il ferro
Oliver Sacks nel suo saggio "Zio Tungsteno" racconta la folgorazione che ebbe scoprendo la tavola periodica di Mendeleev

Agli albori del pensiero greco, quando ancora non si sapeva quasi niente e si poteva dunque ipotizzare quasi tutto, i filosofi della natura si divisero tra monisti e pluralisti, a seconda che pensassero che i costituenti semplici (variamente chiamati princìpi, semi, radici o sostanze) ai quali si poteva ridurre la complessità delle cose fossero uno solo, oppure molti. Tra i monisti, Talete privilegiava l´acqua, Anassimene l´aria, Senofane la terra ed Eraclito il fuoco, mentre tra i pluralisti l´ecumenico Empedocle li assumeva e riassumeva tutti e quattro.
Oggi le teorie dei presocratici fanno sorridere, ma con un po´ di buona volontà si possono reinterpretare come primordiali intuizioni di qualcosa di più profondo. Così fecero, ad esempio, i due premi Nobel per la fisica Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger nei loro libri Fisica e filosofia e La natura e i Greci, suggerendo di considerare l´acqua, la terra, l´aria e il fuoco come metafore degli stati liquido, solido e aeriforme, e dell´energia che permette di trasformare gli uni negli altri: in particolare, il ghiaccio in acqua e l´acqua in vapore. O, più in generale, di leggere i vagiti dei presocratici come una prima timida affermazione della riducibilità della complessità della natura a una o poche sostanze fondamentali.
Ma da questo punto di vista, allora, sono più interessanti le teorie di altri presocratici che ipotizzavano costituenti più sottili, non solo dal punto di vista fisico, ma anche intellettuale: soprattutto, i numeri di Pitagora e gli atomi (o «indivisibili») di Democrito. La scienza moderna, infatti, descrive la materia (una parola che deriva da mater e richiama la «generazione» dell´etimologia originaria di physis, («natura») come costituita da atomi di varia natura, tenuti insieme internamente da leggi fisiche ed esternamente da leggi chimiche, tutte espresse in linguaggio matematico. Con due differenze essenziali, rispetto ai presocratici. Anzitutto, che gli elementi sono in realtà più di cento, anche se i loro atomi sono tutti costituiti da tre soli tipi di mattoni: gli elettroni, i protoni e i neutroni. E poi, che nessuno dei quattro elementi dell´antichità ha resistito alla «prova del fuoco»: l´acqua è risultata essere un composto di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno; la terra e l´aria sono misture di vari elementi, principalmente silicio, la prima, e azoto e ossigeno, la seconda; e il fuoco è un processo e non un elemento.
La cosa è ironica, perché già ben prima dei Greci erano invece stati isolati molti veri elementi, che a lungo non furono riconosciuti come tali. Primi fra tutti l´oro e il rame, che si estraevano già 5000 anni prima della nostra era in Anatolia e in Asia. E poi il piombo, lo stagno e il ferro. Insieme all´argento e al mercurio, questi sette metalli fornirono una lista di elementi semplici agli alchimisti, che cercarono di fornire un fondamento teorico alle tecniche della loro fusione e alle possibilità di una loro trasmutazione.
È dunque singolare che i quattro «elementi» dell´antichità continuino ad attrarre ancor oggi così tanta attenzione nel campo umanistico, fornendo ad esempio il principio organizzativo ai Quartetti di Thomas Eliot, mentre la corretta visione del mondo rimane quasi completamente confinata al campo scientifico, benché abbia espresso capolavori che vanno dal De rerum natura di Lucrezio alla Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau. Opere, queste, che potrebbero e dovrebbero essere adottate in tutte le scuole, per rimpiazzare le antiquate mitologie di ispirazione religiosa, filosofica o letteraria.
Come la dinamica filogenesi della grande chimica possa essere sistematicamente ripercorsa nell´ontogenesi del piccolo chimico, e fungere da metronomo che batte il tempo della maturazione intellettuale di un adolescente, è narrato in maniera memorabile da Oliver Sacks in Zio Tungsteno. Come invece la statica classificazione della chimica possa fornire la chiave a stella per smontare e rimontare la vita di un uomo, assimilando la soggettività degli eventi all´oggettività degli elementi, è narrato in maniera altrettanto memorabile da Primo Levi in Il sistema periodico. Altri due libri, questi, che ancora una volta dovrebbero costituire i piatti forti di qualunque programma scolastico.
In entrambi, e in uno addirittura nel titolo, un ruolo centrale è ricoperto da una delle più grandi conquiste del pensiero scientifico di tutti i tempi: la tavola periodica di Mendeleev, dalla quale Sacks narra di essere rimasto folgorato quando la vide da ragazzo illustrata in un museo. E c´è da credergli, se il film Risvegli mostra che quand´era un giovane medico egli ne teneva un poster in camera da letto, e se ancor oggi ne porta una nel portafogli, e mostra orgogliosamente ai visitatori del suo studio a Manhattan la sua collezione di elementi: divertendosi a osservare la sorpresa di chi sollevi ignaro un pezzo di pesantissimo tungsteno.
Ma anche senza andare nei musei, per farsi un´idea (e non solo) della tavola basta leggere due recenti e mirabili libretti, Elementi di Philip Ball (Codice, pagg. 197, euro 12) e Il Regno Periodico di Peter Atkins (Zanichelli, pagg. 208, euro 9,80), che ne illustrano le entrate con i più svariati riferimenti al quotidiano: l´idrogeno e l´elio del sole (1 e 2), il litio delle batterie (3), il carbonio della grafite, dei diamanti e degli idrocarburi (6), l´azoto e l´ossigeno dell´aria (7 e 8), il fluoro dei dentifrici (9), il neon delle omonime lampade (10), l´alluminio di lamiere e lattine (13), il silicio dei chip dei computer (14), il fosforo dei fiammiferi (15), lo zolfo delle solfatare e della polvere da sparo (16), il cloro delle piscine (17), il potassio delle banane (19), il calcio della calce (20), il titanio delle biciclette (22), il cromo delle cromature (24), l´ubiquo ferro (26), il nichel delle monetine (28), il rame delle vecchie pentole (29), l´arsenico del veleno e dei semiconduttori (33), il selenio dei porcini (34), il bromo del bromuro (35), l´argento delle posate (47), lo stagno delle saldature (50), lo iodio della tintura (53), l´oro dei gioielli (79), il mercurio dei vecchi termometri (80), il piombo dei vecchi tubi (82), l´uranio e il plutonio delle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki (92 e 94), ...
Il numero tra parentesi indica la posizione dell´elemento nella tavola e conta gli elettroni che orbitano attorno al nucleo o, equivalentemente, i protoni che stanno dentro il nucleo. Ma questo non è che l´inizio della storia, perché la tavola è bidimensionale, e non puramente unidimensionale: le sue 7 righe corrispondono al numero di gusci in cui sono disposti gli elettroni, e le 32 colonne al numero di elettroni nel guscio più esterno, che determina il comportamento chimico.
Atkins e Ball non si limitano però a spiegare queste e altre leggi che regolano quelli che il primo chiama il Governo e le Istituzioni del Regno degli Elementi: ne esplorano anche il territorio, suddividendolo in regioni analoghe a deserti, istmi, coste e laghi, e ne illustrano la conformazione e i prodotti tipici, mostrandone modelli in rilievo analoghi ai plastici geografici, che visualizzano le masse, le dimensioni, le densità, le energie di ionizzazione e le affinità elettroniche dei vari elementi. E raccontano la Storia di come alcuni dei più interessanti abitanti del Regno sono stati scoperti e classificati.
Uno dei capitoli più interessanti di questa Storia è la cronaca, narrata da Ball, della scoperta di nuovi elementi «transuranici» nel dopoguerra (o meglio, nel dopobomba): ultimo, per ora, l´ununoctium (118) nel 2006, che completa la settima riga della tavola. Non abbiamo però ancora una risposta definitiva alla domanda che assillava i presocratici, e cioè quanti sono gli elementi semplici, ma almeno una cosa l´abbiamo imparata: che si tratta di una domanda difficile, e che la risposta si trova non nei leggeri frammenti rimasti dei poemi antichi, ma nei pesanti frammenti prodotti dai ciclotroni moderni.

Repubblica Roma 15.2.08
La Cina a Roma
Al Palazzo delle Esposizioni dal 19 febbraio e per tre mesi i protagonisti del "post ‘89"
di Renata Mambelli


In mostra l’arte del nuovo millennio
Uomini e donne di oggi, luoghi simbolo, folle e strade, cinema e letteratura

Quella che sta per sbarcare a Roma non è la Cina millenaria, quella esotica e lontana dei rotoli dipinti, degli imperatori e delle concubine: quella, insomma, che ha nutrito per secoli l´immaginario occidentale con il mito estetizzante dell´Oriente. Tutt´altro. Sta per impadronirsi del Palazzo delle Esposizioni una Cina dinamica e quasi del tutto sconosciuta, un mosaico di tendenze e di stili che sarà molto difficile catalogare con uno o più schemi. Così inafferrabile che è oggi un enigma per gli stessi cinesi. E sono loro, gli artisti, gli scrittori e i cineasti cinesi che ce la racconteranno, ce la suggeriranno attraverso le loro opere.
La mostra - "Cina XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione" - è stata curata da Zhu Qi e Morgan Morris e occuperà per tre mesi (dal 19 febbraio al 18 maggio) un piano del Palaexpo con una serie di dipinti, installazioni, video e foto di alcuni straordinari artisti cinesi, dell´ultima e dell´ultimissima generazione, che si stanno affacciando in questi anni nel panorama artistico internazionale con una pletora di interpretazioni della società e delle cultura cinese che va dal pop al riuso dei simboli della Cina comunista, in un itinerario di facce, paesaggi urbani, citazioni del passato, folle ritratte in strade immense, grattacieli, vetrine, sfilate di moda, piazze di villaggi stranianti e sul punto di scomparire per sempre.
Gli artisti della generazione detta "post ‘89", già più noti in Occidente, come Fang Lijun, Zeng Fanzhi e Liu Xiaodong, sono presenti con alcuni grandi oli che raccontano gli uomini e le donne cinesi di oggi ritratti nelle città e davanti ai luoghi simbolo, come Tian´anmen. Mentre Wang Guangyi e Liu Dahong usano elementi artistici della propaganda della Rivoluzione cinese riletti in chiave Pop Art. Cai Guoquiang si richiama invece alla Cina del XIX secolo nell´installazione "Prendere a prestito le frecce del nemico", mentre Zhang Xiaogang usa come simboli grafici la divisa maoista e i ritratti dei padri della Rivoluzione. Wen Fen e Yang Young nelle loro foto rincorrono nelle strade di Shenzhen e Shangai la faccia neocapitalista della Cina, seguendo donne vestite all´ultima moda ritratte contro i profili dei grattacieli.
Un evento nell´evento è la realizzazione da parte di Liu Xiaodong, pittore noto soprattutto per il ciclo di dipinti dedicato alla migrazione forzata delle popolazioni delle Tre Gole, dell´opera "Prima mangia", una "Ultima Cena" che sta realizzando in questi giorni in una sala del Palaexpo diventata per l´occasione un grande atelier, con una tavola imbandita di cibi mediterranei e tredici personaggi che mangiano insieme, ritratti dal pittore in un grande dipinto formato da più pannelli.
Il cinema e la letteratura, infine, aggiungeranno tasselli a questo grande affresco della Cina odierna. Dal 21 febbraio al 18 maggio documentari, film, cortometraggi, incontri e dibattiti si susseguiranno nella sala Cinema e nell´Auditorium del Palaexpo. La rassegna, curata da Marco Muller, presenterà molti film che non sono mai arrivati prima nei circuiti italiani, come il rivoluzionario "Wuquiong dong", di Ning Ying, del 2005, sulla condizione della donna - ci sarà un incontro con la regista il 15 marzo -, o l´inaspettato "Shan qing shui xiu", di Gang Xiao´er, sulle vicissitudini di una comunità cristiana, oppure "Lai Xiaozi", di Han Jie, film del filone neorealista sui ragazzi sbandati delle periferie. E non mancherà la letteratura con alcune tra le voci più interessanti della narrativa cinese: la giovanissima Mian Mian, autrice di "Nove oggetti di desiderio", edito in Italia da Feltrinelli, che incontrerà il pubblico il 20 marzo; il famoso Wang Shuo, il 22 aprile, autore di "La ferocia degli animali"; il pluritradotto Su Tong, il cui libro più noto in Italia è "Quando ero imperatore", per Neri Pozza, che sarà all´Auditorium dell´Expo il 7 maggio.

Il Venerdì di Repubblica 15.2.08
Legge 180. Trenta anni fa la vittoria di Basaglia contro i camici bianchi
di Alessandro Calderoni

Corriere della Sera 15.2.08
Contrordine. Via alla raccolta di firme tra gli specialisti
Appello degli psichiatri: torniamo all'elettroshock per le depressioni gravi
Petizione alla Turco. «Oggi effetti indesiderabili irrilevanti»
Una petizione per il ministro per la Salute, firmatari gli psichiatri più noti. Obiettivo: sdoganare l'elettroshock
di Alessandra Arachi


La terapia. Una paziente viene sottoposta alla terapia dell'elettroshock nell'ospedale di San Bernardino, in California, nel 1942. A sinistra il neurologo Ugo Cerletti che con il collega Lucio Bini praticò per la prima volta la terapia per trattare psicosi maniaco-depressive (Corbis)
La storia. Da Basaglia ai film: terapia dell'orrore

ROMA — Soltanto la parola ancora oggi qui da noi è un po' come una parolaccia. Ma loro non hanno paura ad utilizzarla. Anzi. È con gran forza che un gruppo con i più grandi psichiatri italiani della Sopsi (la Società italiana di psicopatologia) chiede di incoraggiare nel nostro Paese l'uso dell'elettroshock.
Una petizione che chiede chiaramente più centri per la pratica dell'elettroshock: verrà ufficializzata il 21 febbraio all'Hilton di Roma, durante i cinque giorni del loro congresso nazionale. A sostenerla in prima linea sono Athanasios Koukopoulos (uno psichiatra greco che da sempre lavora in Italia) e con lui, tra gli altri, nomi come Giovan Battista Cassano, Giulio Perugi e Mario Guazzelli (Pisa), Paolo Girardi, Roberto Delle Chiaie e Giuseppe Bersani (Roma), Alessandro Rossi (L'Aquila), Giovanni Muscettola (Napoli), Carlo Magini (Parma), Marcello Nardini (Bari). Chiedono tutti la stessa cosa: sdoganare l'elettroshock dai vincoli culturali e politici in cui è rimasto prigioniero. È indirizzata al ministro della Salute. Garantisce: «La terapia elettroconvulsivante costituisce tuttora il più efficace trattamento delle sindromi depressive (soprattutto quelle più gravi), psicotiche e con più alto rischio di suicidio. Con la tecnica moderna della sua applicazione gli effetti indesiderabili sono irrilevanti...».
E a supporto di questo, i numeri. In Germania c'è un posto attrezzato per l'elettroshock ogni 500 mila abitanti, in Belgio ogni 333 mila, in Gran Bretagna ogni 373 mila, in Olanda ogni 465 mila. E poi picchi nordici: in Norvegia uno ogni 104 mila abitanti, in Finlandia uno ogni 130 mila.
«In Italia ci sono soltanto 9 strutture psichiatriche dove un paziente può essere trattato con la Tec», dice Koukopoulos. E spiega: «Sei sono strutture pubbliche: Brescia, Oristano, Cagliari, Bressanone, Brunico, Pisa. Le altre sono cliniche private: la San Valentino a Roma, la Santa Chiara a Verona, la Barruziana a Bologna. E posso garantire che le cliniche che lo fanno non hanno alcun interesse economico. Anzi: lo fanno a spese loro. Non ha senso. È stata una battaglia culturale e politica che ha portato ad eliminare in Italia i centri per la Tec. Noi chiediamo che questo venga invece restituito ad un piano medico. Ad un rapporto tra medico e paziente ».
Non ha dubbi Koukopou-los: «Nella rinuncia all'elettroshock l'unico che perde è il paziente. E posso garantire molte testimonianze in questo senso: pazienti che sono arrivati alla Tec dopo anni e anni di depressione e avrebbero pagato oro per poterla fare prima ».

ROMA — È un italiano, Ugo Cerletti, l'inventore riconosciuto dell'elettroshock, nell'aprile del 1938. Ma lo scrittore Sebastiano Vassalli nel suo libro «La notte della cometa» non ha esitato a narrare la storia del poeta Dino Campana (morto nel 1932) come già attraversata da scosse elettriche nel corpo: «Non si chiamava ancora elettroshock, ma già veniva usato a scopo punitivo sui pazienti », dice. E in maniera automatica si trova ad alimentare una letteratura che vuole vedere l'elettroshock confinato soltanto nella galleria degli orrori.
Del resto anche la sua nascita è accompagnata da una letteratura che si commenta da sola: dal mattatoio al manicomio, la sintesi più usata, in generale, per raccontare gli esperimenti di Ugo Cerletti che nacquero vedendo le reazioni che avevano i maiali alle scosse elettriche. Dai maiali Cerletti ha poi lavorato molto insieme al suo assistente Lucio Bini per affinare una tecnica che, generando convulsioni nel cervello grazie all'elettricità, può portare anche notevoli benefici all'uomo. Ma nulla da fare.
L'eredità è pesante e difficile da scrollare.
Ed è stata alimentata da una campagna portata avanti con foga durante gli anni Settanta della riforma psichiatrica di Franco Basaglia, lo spettro dell'elettroshock agitato anche come simbolo per le torture nei gulag sovietici. Lo stesso Basaglia liquidava l'elettroshock con una battuta sprezzante: «È come dare un pugno ad una televisione per rimetterla in sintonia».
Nel 1996 ci aveva provato l'allora ministro della Sanità Rosy Bindi a sdoganare la Terapia elettroconvulsivante: una circolare ministeriale che si portava dietro un parere favorevole del Consiglio superiore di sanità e anche una benedizione del Comitato di Bioetica. Inutilmente. È dovuta tornare rapidamente nel cassetto, sommersa dalle critiche.
Del resto siamo venuti tutti su con negli occhi le immagini del bellissimo film di Milos Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo. E come dimenticare lo sguardo di Jack Nicholson dopo la terapia con gli elettrodi che gli sparano elettricità dentro al cervello?
Era il 1976 e l'immagine dell'indianone che alla fine del film soffoca il suo amico Nicholson (dopo una lobotomia) ci ha accompagnato ben oltre la meno nota storia della «ragazzaccia di Seattle », quella pellicola dove nel 1982 Jessica Lange interpretava Frances Framer, l'attrice che subì non pochi elettroshock, idolatrata da Kurt Cobain che le dedicò una canzone oltre al nome di sua figlia.
E ancora prima di Forman, ci aveva già pensato il nostro Gillo Pontecorvo:
La Battaglia di Algeri (1965) è fin troppo esplicita nel mostrare la tortura con la fiamma ossidrica, l'affogamento parziale dei prigionieri e l'elettroshock. Talmente forti che furono censurate, lì per lì. Ma nella nuova versione sono tornate, pronte a mostrare gli elettrodi sui lobi frontali come un orrore che nulla ha di terapeutico.
Il padre della riforma
Basaglia era totalmente contrario: «È come tirare un pugno a una televisione per cercare di rimetterla in sintonia»
Al.Ar.

Ex paziente. Alda Merini: torturata per 46 volte
di Andrea Galli

MILANO — «Il curaro iniettato, il morso in bocca, le 220 volt, io che diventavo un fantasma per tre giorni… La prego: non mi faccia ricordare».
Per quante volte?
«Quarantasei. In quindici anni».
E diventava un fantasma.
«Dimenticavo il mio nome. Veniva un parente, e non lo riconoscevo. Gli domandavo: “Chi è lei, mi scusi, come si permette di accarezzarmi?”. Non camminavo. Non mangiavo. E non sa quanti ricordi ho perso là e mai più ritrovato».
Là era il manicomio Paolo Pini. Lei è la poetessa Alda Merini (foto), 77 anni tra un mese.
Era una cura?
«Era una barbarie. Una sevizia. Una tortura».
Cosa c'era in quella stanzetta?
«Tanto buio. L'oscurità.
Un lettuccio da operazioni. Ti bloccavano braccia e gambe. Ti sistemavano gli elettrodi alle tempie e ti davano questa sberla tremenda».
Durava a lungo?
«Pochi secondi… dio mio, era un martirio. Meglio, molto meglio la galera».
Ha detto di aver perso tanti ricordi.
«E anche tutti i denti.
Colpa del morso. La scarica te lo faceva stringere con tutte le forze del corpo… Stiamo parlando di 220 volt…».
E l'effetto qual era?
«Svuotavano le persone mentalmente e fisicamente. E, comunque, quando ti riprendevi, avevi addosso un'aggressività tremenda».
Anche lei?
«No, io no. Io piangevo. E sorridevo, contenta».
Contenta?
«Sì. Per quarantasei volte sono stata una sopravvissuta. Chissà quanti morti ha seppellito, quella stanzetta».

Corriere della Sera 15.2.08
Parla lo scrittore in libreria con «Onora il padre», romanzo di un'Italia fuori stagione
De Cataldo: la cronaca nera è finita
«I delitti ormai scatenano soltanto un carnevale mediatico»
di Raneri Polese


«Forse oggi un libro come questo non l'avrei potuto scrivere, almeno come lo scrissi allora. Sono passati solo otto, nove anni ma tante cose sono cambiate. Allora, la paura era ancora un fatto letterario, piacevano i serial killer come Hannibal e altri mostri romanzeschi. Oggi invece la paura è una componente della nostra esistenza. Al punto che in cambio di una promessa di sicurezza accettiamo le limitazioni delle nostre libertà. Sarà stato l'11 settembre, non lo so, ma oggi molte cose sono diverse». Giancarlo De Cataldo parla di
Onora il padre. Quarto comandamento, il romanzo che ora Einaudi Stile libero manda in libreria. Era uscito la prima volta nel 2000, nei Gialli Mondadori, da allora nessuno l'aveva più letto. Nemmeno quando — 2001 — Retequattro mandò in onda la fiction (regia Giampaolo Tescari, con Marco Bonini e Leo Gullotta). «L'avevo firmato con uno pseudonimo, John Giudice» racconta lo scrittore. Magistrato, all'epoca già alla Corte d'assise («delitti veri, assassini veri»), una lunga esperienza di sceneggiatore per fiction televisive. «Anche Onora il padre nasce come fiction. L'avevo scritto insieme con Fausto Brizzi e Marco Martani, sì, proprio i due della Notte prima degli esami. Quella storia di un serial killer autoritario, che vuole applicare "la legge dei padri", mi piaceva. Con il permesso di Brizzi e Martani ne avevo tratto un romanzo».
Ripreso, rilavorato («senza comunque toccare l'impalcatura del racconto e la trama »), quel libro ci presenta un'Italia diversa da quella di oggi? «Sì, ci sono ancora i cronisti di nera che assediano la questura per carpire informazioni, piste, indizi. Oggi non è più così. I delitti ormai scatenano un carnevale mediatico, si moltiplicano talk-show su Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. Per uno scrittore è difficile tradurre in parole un simile circo, direi quasi impossibile. Anche altre cose mancano nel paesaggio del romanzo: è un'Italia senza vip o presunti tali, senza veline grandi fratelli Lele Mora. C'erano anche allora, ma stavano sui giornaletti che uno leggeva dal barbiere. Oggi sono dappertutto».
Eppure, Onora il padre è ambientato a Rimini, capitale delle discoteche, dello sballo continuo. «Ma è una Rimini fuori stagione, quella del mare d'inverno. E non solo. Di Rimini mi piace il fatto che se ti allontani anche solo un chilometro dal lungomare, ti trovi in un altro mondo: un'Italia arcaica, una provincia antica, senza le luci e senza la musica techno. Una scena l'ho ambientata nella colonia delle vacanze, quella costruita dal fascismo e ormai abbandonata. Qui insomma la più sfacciata modernità convive con i resti di un paese primitivo. E primitivo, antico nel suo delirio è il serial killer del romanzo».
A lui, il «mostro», De Cataldo ha concesso numerosi monologhi, in corsivo. Deliri, appunto, ma con una strana logica, un'ossessione quasi geometrica: il killer parla di una «legge dei padri», e lui padre lo è o si sente tale. In nome di questa legge (Nietzsche e l'Antico Testamento si mescolano nelle sue elucubrazioni) deve uccidere chi trasgredisce alle regole. Donne, sempre, seviziate e uccise ma senza mai violenza sessuale.
Delitti rituali, firmati: ci sono sempre bastoncini d'incenso vicino alle vittime, e anche la musica che accompagna l'esecuzione è sempre la stessa, una canzone primi anni 70 molto hippy ( Silence,
dei Flying Objects: «Me la sono inventata — ride De Cataldo — non esiste la canzone e non esiste il gruppo»). Più avanti scopriremo che le donne uccise hanno un tratto in comune: tutte si sono liberate di un padre vecchio e malato per affidarlo a una casa di riposo. Quando però a finire ammazzata è una ragazza ricca e conosciuta, la polizia manda a Rimini un giovane criminologo, Matteo Colonna, uno che ha studiato in America, all'Accademia dell'Fbi di Quantico. Sarà lui a identificare i precedenti delitti. Cupo, inquieto, solitario Matteo però si porta dentro un segreto: nato a Rimini da un padre che non lo ha riconosciuto, è cresciuto a Milano in un orfanotrofio. La trasferta a Rimini diventa così un ritorno alle origini, l'occasione per una ricerca di verità dolorose. Forse anche molto pericolose. E il romanzo, seguendo la duplice indagine (ricerca del mostro e ricerca del padre), diventa un viaggio verso il cuore delle tenebre.
Matteo ricorda molto Valentino Bruio, l'avvocato dei due primi romanzi di De Cataldo, Nero come il cuore e Contessa. «È vero, ma c'è già qualcosa anche del commissario Scialoja, il poliziotto di Romanzo criminale. Solo che Scialoja perde presto la tensione al bene. Ecco, rivisto oggi, Onora il padre
è un romanzo di passaggio, di preparazione a Romanzo criminale.
Quasi una prova generale. Stavo già raccogliendo i materiali sulla Banda della Magliana. Scrivere questo romanzo mi è servito a mettere a punto l'economia delle descrizioni, l'attenzione ai personaggi. E poi c'è la mia fissazione di voler entrare nella testa dei criminali. Anche se il serial killer di Onora il padre è più retorico, colto, letterario dei ragazzi della Magliana. Del resto, i serial killer dei romanzi — per esempio Hannibal — sono sempre molto più elaborati, eruditi, retorici di quelli reali, gente spesso primitiva. I mostri della letteratura, insomma, appartengono a un'epoca passata, recente ma passata. Di quando cioè mettendo un mostro in un romanzo si faceva di lui il catalizzatore di tutte le paure, quasi un capro espiatorio: gli assegnavamo una funzione rassicurante che oggi non basta più».

Gloria Buffo: «Deve essere noto a tutti che Aprile non è più un giornale di sinistra. Anzi, che è un giornale che tira la volata al Pd e a chi crede che votare Veltroni sia un voto utile».
Corriere della Sera 15.2.08
Aprile sceglie i democratici
il manifesto: epurazioni


Epurazione. Parola che a sinistra evoca fantasmi antichi e che questa volta si abbatte sul mensile Aprile. Rivista «di sinistra per la sinistra pluralista» che, per il quotidiano manifesto, ha subito una brusca sterzata al centro.
Succede che Famiano Crucianelli fondatore e proprietario della testata (che è anche online), ha deciso di non aderire, contrariamente alle aspettative, alla Sinistra Arcobaleno.
Parlamentare di lungo corso, già Pdup, Pci, Rifondazione, Pds e Ds, Crucianelli era approdato alla Sinistra democratica, diventando anche sottosegretario.
Ora la svolta, con l'uscita da Sd e l'avvicinamento al Pd. Risultato: il direttore di Aprile,
nonché collaboratore del manifesto, Massimo Serafini lascia la direzione sbattendo la porta. Il manifesto, a firma Loris Campetti, spiega che anche nel comitato editoriale molti stanno per abbandonare: da Luciana Castellina a Betty Leone, da Bandoli a Vendola. Sulla scia di Crucianelli ci sarebbe invece Paolo Nerozzi, mentre altri sindacalisti Cgil — Rinaldini, Leone, Chiriaco — non avrebbero intenzione di seguirlo verso il Pd.
Insomma, spaccatura netta. Che però lascia Aprile al suo legittimo proprietario, cioè Crucianelli. E dunque, conclude il manifesto, «il Pd potrà godere di un nuovo sostegno che alla vigilia era tutt'altro che scontato: il giornale Aprile epurato e corretto da Crucianelli».
Tra i membri del comitato editoriale c'è Gloria Buffo, anche lei di Sd, per nulla convinta dal Pd: «Dopo le dimissioni di Serafini, anch'io dovrò pensare a cosa fare. Certo, questa è una scelta di chiarezza.
Deve essere noto a tutti che Aprile non è più un giornale di sinistra. Anzi, che è un giornale che tira la volata al Pd e a chi crede che votare Veltroni sia un voto utile».
Al. T.

il manifesto 14.2.08
Un «Aprile» senza Arcobaleno, si dimette anche il direttore
Serafini lascia e si svuota il comitato editoriale. Contro la scelta di Crucianelli di tornare verso il Pd
di Loris Campetti


C'era un volta Aprile, mensile di sinistra per la sinistra plurale. Nacque da una speranza e un investimento, era la breve stagione di «Cofferati santo subito» al tempo di Berlusconi, quando la Cgil si batteva in difesa dello Statuto dei lavoratori e dell'articolo 18 diventando un punto di riferimento per culture e movimenti d'opposizione e militanti sciolti non pacificati. Un giornale e tanti circoli territoriali in giro per l'Italia. Il «capo» del giornale è Famiano Crucianelli, professione parlamentare (sette legislature con il Pdup, Pci, Rifondazione, Pds, Ds) con promozione finale a sottosegretario. Crucianelli è stato il leader dei Comunisti unitari, formazione nata da una scissione di Rifondazione nel 1995. E' sua la proprietà di Aprile (attraverso la cooperativa Propedit), giornale diretto inizialmente da Aldo Garzia che gli ha garantito un forte impegno politico-culturale, poi da Carla Ronga in un breve interregno (ora direttrice del sito on-line) e infine dal nostro collaboratore storico Massimo Serafini, chiamato da Crucianelli per rilanciare il giornale come strumento di riunificazione delle forze politiche a sinistra del nascente Pd. Serafini accettò l'incarico a due condizioni: 1) l'uscita dai Ds della sua componente di sinistra, già Correntone; 2) non dover prendere la tessera di Sinistra democratica: «non mi iscrivo a un partito - chiarì - ma a quattro. Cioè lavoro per la costruzione di un soggetto unitario». Ieri questa storia si è conclusa con una lettera di dimissioni firmata da Serafini e Gabriele Trama ai «proprietari» del giornale. Non ci stanno al repentino salto di corsia di Crucianelli che ha annunciato la sua uscita da Sd e l'avvio del ritorno a casa, in casa Pd, magari costituendo un'associazione di transizione che avrà nel titolo due termini, unità (con chi?) e sinistra (quale?).
«Ho appreso della scelta di Crucianelli leggendo i giornali», spiega Serafini annunciando l'addio. Non è il solo, insieme a Trama, a ritenere conclusa la sua collaborazione con Aprile. Molte delle personalità delle varie sinistre che fanno parte del comitato edititoriale non condividono la scelta di Crucianelli: Da Luciana Castellina a Betty Leone, da Giovanni Berlinguer a Fava, Martone, Napolitano, Agostinelli, Bandoli, Buffo, Vendola, Beni. Ma c'è anche chi, al contrario, sta compiendo la stessa scelta di Crucianelli o addirittura ne ha tracciato per primo il percorso: è il caso del segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi, alla testa del gruppo di sindacalisti in fuga da Sinistra democratica, in polemica con la scelta unitaria, alternativa al Pd, fatta con Prc, Pdci e Verdi. Con Nerozzi, però, è schierata solo una parte dei dirigenti della Cgil che avevano iniziato l'avventura di Mussi e Salvi, o che comunque aveva preso nettamente le distanze dal Pd sostenendo la nascita di un soggetto unitatio a sinistra: mancano all'appello i segretari generali di importanti categorie (Rinaldini della Fiom, Leone dei pensionati, Chiriaco dell'agroindustria) e di camere del lavoro e regionali (Puglia), l'ex segretaria confederale Titti Di Salvo, mentre anche nell'attuale segreteria confederale non mancano i dubbi di qualcuno/a. D'accordo con Nerozzi, invece, ci sarebbero i segretari della scuola Panini e della funzione pubblica Podda, tutti e tre nel comitato editoriale di Aprile. E sicuramente la segretaria confederale Carla Cantone.
Ma in Cgil sono in tanti, forse in troppi, a tifare Pd e Veltroni sarà costretto a scegliere. Alcune scelte il sindaco d'Italia le ha già fatte, per esempio di non accettare una lista del tipo «Sinistra per Veltroni» che lo stesso Nerozzi avrebbe tentato di costruire. In pole position per entrare se non nella storia nelle liste del Pd ci sarebbe uno dei rappresentanti storici della destra Cgil: il segretario confederale Achille Passoni. I giochi sono appena iniziati, ma il Pd potrà godere di un nuovo sostegno che alla vigilia era tutt'altro che scontato: il giornale Aprile epurato e corretto da Crucianelli.

l’Unità 15.2.08
Un Orso chiamato Rosi
di Furio Colombo


BERLINALE Orso d’oro alla carriera al nostro Francesco Rosi. Ci aiuta a ripensare alla esaltante lezione culturale del nostro cinema più grande. Nel suo caso, a come si possa stare nel presente anticipando il futuro. Raccontando i fatti...

Berlino ha attribuito il suo premio più importante, l’Orso d’Oro alla carriera, al regista italiano Francesco Rosi. Per gli italiani è un motivo di orgoglio. Lo è per chi non ha dimenticato che grande stagione e periodo della storia culturale italiana è stata quella affollata, con Rosi, di Visconti e Antonioni, di Fellini e di Scola, di Monicelli e di Bertolucci, un tempo in cui un rapporto stretto legava gli italiani al cinema, il cinema alla letteratura, e la pressione di narrare e rappresentare alla vita politica, agli eventi pubblici, a una sorta di militanza che, contro quanto si crede, non era necessariamente partitica, ma certo non era mai divagazione e astensione.
La giuria di Berlino ha voluto definire il ruolo di Francesco Rosi in quell’Italia, in quell’Europa, in quel periodo di lunga e salda presenza sulla scena della vita italiana.
Francesco Rosi è il regista de I Magliari, il regista de La sfida, il regista giovane che nota in modo istantaneo il nodo in cui si formano gli eventi italiani del dopoguerra, che poi diventano criminalità o impresa, banditismo o politica.
Nel cuore di una cultura elegante e amante di una certa grazia narrativa che si sta già facendo amare nel mondo, Rosi si situa a una distanza breve dalla vita. E la vita che lui vede e fa diventare film è umana, calda e brutale. Pulsa in quella vita la forza violenta di chi è deciso a sopravvivere e a vivere e a vincere, benché venga da un al di là di esistenza sociale che non ha ingressi, né scuole, né legami o garanzie o leggi. Non tanti italiani si accorgono subito di questo cinema. Ma l’Europa prende nota, colpita anche dal taglio netto di inquadrature e sequenze, che sono quello che sono, cioè realtà, senza un ornamento in più. E dalla potenza di quelle vite incolte e ordinarie che hanno la forza della tragedia. Rosi è il regista che - intorno a queste vite perdute - si impegna a vedere e a raccontare che cosa avviene in quelle esistenze quasi non raccontabili, in quelle vite di margine. E si libera di denuncia o realismo da un lato con la narrazione documentaria (quel che è vero è vero, quel che avviene, avviene) dall’altro con un senso nitido, chiaro, pedagogico della Storia che circonda e genera le storie.
C’è un punto di vista molto più grande di quella realtà. Ma è dalla parte del regista, che guarda e che trasforma la vicenda in film. Le dimensioni di quel film documento diventano quelle di un periodo della Storia, ben più grande di quelle vite, benché apparentemente non si veda.
Il capolavoro arriva presto e coglie di sorpresa soprattutto coloro che coltivano e ammirano il cinema strettamente legato ai fatti.
È Il bandito Giuliano in cui, in una serie di eventi filmati come a ridosso di ciascuno di essi, come per semplice e implacabile testimonianza, racconta di una vicenda di giovani fuori legge votati al sangue e destinati a morire, intorno ai quali, senza mai smuovere l’attenzione dai loro gesti, dai loro volti, dalle loro imprese, c’è il mondo che ha vinto e finito la guerra, c’è il rapporto fra l’Italia e gli Stati Uniti, c’è l’Italia di allora, confusione, contraddizione, negazione, abbandono, disperazione, speranza, o piuttosto promesse e attese.
C’è la storia misteriosa mai veramente chiarita del separatismo siciliano e di chi vi ha lavorato nell’ombra. C’è una Sicilia italiana e straniera, legata e respinta, abbandonata e occupata. C’è un progetto di secessione che forse non è di pochi esaltati. C’è l’ossessione di combattere i comunisti (L’eccidio di Portella della Ginestra in sequenze così perfette che ancora oggi vengono usate come se qualcuno avesse filmato il fatto nel momento in cui si è sparato sul corteo operaio e contadino del Primo Maggio) che nella parte malata della politica italiana continua da allora, pur attraversando grandi stagioni tra corruzione, ricostruzione, miracolo economico, altra corruzione, altre negazioni e segreti, altri miracoli.
La totale sorpresa del cinema, non solo italiano (Il bandito Giuliano è immediatamente un film del mondo) è nella grandezza tragica del protagonista che regge da solo e paga da solo un complotto forse vasto e potente. È nella irrilevante piccolezza del protagonista, bandito di periferia della periferia del mondo, vanesio, ingenuo, incolto, soltanto un braccio armato. In questo il film si rivela e il regista si annuncia: la forza anticipatrice, la forza profetica. Rosi, infatti, aggiunge alla fermezza documentaria del suo narrare cinematografico un senso allo stesso tempo istintivo e calcolato di organizzazione degli eventi, con l’occhio non tanto al passato quanto al futuro. Non dite «montaggio», che è solo una tecnica cinematografica. Piuttosto il senso, che appartiene all’arte, che il prima e il dopo non sono quelli della cronaca ma di una verità più profonda che diventa rivelazione. Come in una Bibbia incisa sulla capocchia di uno spillo, Il bandito Giuliano contiene tutte le storie di mafia che verranno, tutte le storie di complotto italiano che seguiranno, fino agli anni di piombo. Anticipa l’uso e la manipolazione delle vite degli altri, materiali umani mandati a morire per ragioni che non sanno, a nome di cose o persone che non si rivelano, portando e subendo orrore di cui a momenti si sentono protagonisti e di cui non sanno e non sapranno mai nulla. Quando, ne Il Bandito Giuliano i carabinieri di un’Italia che torna ad avere le sue Forze armate scendono e salgono per le stradine del paese, occupano, invadono, arrestano, penetrando nella notte in ogni fenditura di quella vita ignota a tutti, il film ti annuncia, per adesso e per dopo, che in quella folla acciuffata e ammassata sui camion militari, sono tutti complici e sono tutti innocenti. E i soldati, a loro volta, sono l’occupazione e la liberazione, tante carte a cui non sai che valore dare perché non sai chi le gioca. E c’è una profezia più netta e precisa del corpo di Giuliano ucciso, trofeo della legge che vince e cadavere della messa in scena, dove tutti, giornalisti italiani, inviati stranieri e magistrati e poliziotti, osservano ciò che è destinata ad essere la vita italiana, vera e falsa, colpevole e innocente, con una versione e con l’altra, fra strati di interessi, di rivestiture ideologiche, e la coperta corta della speranza che non riesce a nascondere quel corpo e a farci dire «meno male, è finita!».
Rosi non distoglie lo sguardo dalla realtà. E nel suo celebre film Le mani sulla città vede il cemento. Lo nota da solo e per primo come una causa di corruzione continua che in Italia sta per diventare il grande male cronico al punto che, a Venezia, quando finisce la proiezione del film che sarà Leone d’Oro, le signore milanesi in piedi, indignate usano le chiavi dell’Hotel Excelsior come fischietti per esprimere il loro disprezzo per quel film-denuncia. Forse prevedevano, che «Mani pulite» (il grido degli assessori complici della scena madre di quel film) sarebbe diventato il nome della più grande inchiesta giudiziaria sulla corruzione politica mai tentata prima. Strano regista, Francesco Rosi, che annuncia le sue storie italiane con quarant’anni di anticipo, come testimonia oggi, raccontando il cemento di Napoli,il giovane scrittore Roberto Saviano.
La performance di Francesco Rosi, regista di fatti veri e narratore visionario di eventi non ancora accaduti, si ripete con un altro dei suoi film non dimenticati, Il caso Mattei. Tutto ciò che accade oggi intorno al petrolio, fino al prezzo oggi raggiunto di 100 dollari al barile, è in quel film, in quella vita, in quella morte. Al punto che ogni tentativo di riaprire anche solo un frammento di indagine sul caso Mattei, ai giorni nostri, induce non i critici ma i magistrati a chiamare Francesco Rosi «per sapere».
Non conosco la motivazione di Berlino, mentre scrivo, non ancora. Ma credo che, nell’elenco di opere straordinarie che sono la vita e il lavoro di Rosi, abbiamo contato Cristo si è fermato a Eboli (nell’anno in cui il Senato italiano ha voluto celebrare con il nome di Carlo Levi il «Giorno della Memoria»), Tre Fratelli, documento unico sul formarsi del terrorismo visto dall’interno di una famiglia contadina-operaia. Ma anche La Tregua. Rosi è stato il solo regista a cui Primo Levi ha affidato il suo libro indimenticabile sul ritorno dall’inferno alla vita. In quel film - di nuovo - c’è l’incomprensibile catena di eventi che ha portato alla immensa fabbrica della morte, sostenuta dalla complicità del silenzio del mondo. E c’è l’imbarazzo, anzi il fastidio, di quei bravi cittadini che se ne vanno dalla piazza del mercato di Cracovia quando il giovane prigioniero appena liberato cerca di spiegare che non era stato imprigionato e destinato a morire perché «politico». Doveva morire perché ebreo. Quella è la scena in cui Francesco Rosi racconta, insieme con Primo Levi, l’inizio del dopoguerra, con le sue ombre tetre e lunghe (lo vediamo nei giorni in cui compaiono «le liste» della Sapienza di Roma, e si parla di boicottare il Salone del Libro di Torino se sarà dedicato a Israele) che incombono ancora su di noi.
furiocolombo@unita.it

giovedì 14 febbraio 2008

l’Unità 14.2.08
Prodi: la missione continua
La Sinistra arcobaleno: subito via
di Gabriel Bertinetto


Il capo del governo in carica, il ministro degli Esteri, ed il candidato premier del Partito democratico alle elezioni di aprile riconfermano con fermezza il sostegno alla missione militare italiana in Afghanistan.
Prodi, D’Alema e Veltroni manifestano prodondo cordoglio per la morte del maresciallo Giovanni Pezzulo, ma riconfermano la volontà di mantenere gli impegni presi con la comunità internazionale e con le autorità di Kabul. Una presa di posizione in linea con l’orientamento del Pd sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero nell’imminenza del voto alla Camera sul decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 28 gennaio scorso. Martedì prossimo il testo approderà in aula per essere convertito in legge. L’altro giorno le commissioni congiunte Difesa e Esteri di Montecitorio hanno già dato il via libera al provvedimento con il solo voto contrario dei deputati della Sinistra arcobaleno.
«Questo momento di lutto -afferma il presidente del Consiglio- non deve essere occasione per aprire un dibattito». «Occorre avere il senso delle cose», continua Prodi secondo il quale la tragica morte del nostro connazionale «non può cambiare le conclusioni politiche su questo tema». Per Prodi «è il momento di sottolineare che i soldati italiani sono impegnati nella ricostruzione civile e materiale dell’Afghanistan. Dobbiamo essere uniti e piangere il maresciallo Pezzulo».
Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema affida a una nota della Farnesina «il più vivo cordoglio ai familiari della vittima, l’auspicio di una pronta guarigione del militare ferito, solidarietà e riconoscenza alle forze militari italiane presenti in un’area di importanza cruciale e in una difficile missione di mantenimento della pace». «L’Italia -prosegue la dichiarazione- rimane fortemente impegnata assieme alla comunità internazionale nell’opera di stabilizzazione dell’Afghanistan, per favorire il consolidamento democratico e porre le condizioni per lo sviluppo sociale ed economico del Paese».
Simili i concetti espressi da Walter Veltroni, che sottolinea come il militare ucciso fosse «impegnato in attività di cooperazione civile e militare e di sostegno sanitario alla popolazione». E conclude: «Confermiamo l’impegno del Partito democratico a sostegno delle nostre missioni e dei nostri militari».
Con diverse sfumature invece i quattro partiti della Sinistra arcobaleno traggono dal nuovo episodio di violenza in Afghanistan la convalida del loro dissenso sull’opportunità di restare ancora in quel Paese. Il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano precisa tuttavia che le posizioni di Rc sul conflitto afghano sono note da tempo, e non derivano dalla tragica sorte subita dal povero Pezzulo. «Eravamo e siamo convinti -dice Giordano- che il conflittto debba essere affrontato e risolto con mezzi diversi da quelli militari. Ma oggi non è il momento della polemica, è il momento del lutto e della solidarietà più sincera e sentita alla famiglia della vittima e a quella del suo commilitone ferito». Cordoglio anche dal leader dei Comunisti italiani, Oliviero Diliberto, che aggiunge lapidario: «Le truppe italiane debbono andarsene». Cesare Salvi, di Sinistra democratica, sostiene che «la vita dei nostri eroici militari è messa a rischio per una causa ingiusta. I bombardamenti della Nato mietono vittime nella popolazione civile suscitando l’ostilità della popolazione Aafghana». Per Salvi in Afghanistan «è in corso una guerra inutile ed anzi dannosa rispetto all’obiettivo dichiarato: la lotta al terrorismo». Il presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, parla di situazione afghana «sempre più drammatica», tale da richiedere «una svolta soprattutto per risparmiare altre sofferenze alla popolazione civile».
Su questo aspetto della politica estera la spaccatura fra Partito democratico e Sinistra arcobaleno era già consumata e si sarebbe manifestata comunque con il voto sul decreto legge la settimana prossima. L’assassinio del maresciallo Giovanni Pezzulo, pur accomunando tutte le forze politiche nel «dolore» e nel «cordoglio», mette a nudo quelle divergenze di fronte all’opinione pubblica.
La missione in Afghanistan insieme a tutte le altre in cui sono impegnate le forze armate italiane dal Kosovo al Ciad, dalla Bosnia al Libano, sarà approvata con i voti del Pd e degli altri partiti dell’ex-maggioranza (esclusi i quattro di Sinistra arcobaleno), e con il concorso dei gruppi del centrodestra. Ma se il Pd conferma l’impegno in Afghanistan, a destra si chiede addirittura un aumento delle truppe. L’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu invoca una riflessione sull’adeguatezza delle «condizioni operative» in cui si trovano ad agire i militari italiani. Il senatore De Gregorio, di «Italiani nel mondo», ritiene che siano «necessari più uomini e più mezzi per tutelare i nostri soldati».

l’Unità 14.2.08
Fausto leader Arcobaleno rispolvera il ’68. «On s’engage...»
La risposta a «We can», con un adagio che rinvia a Sartre. «Noi siamo la sinistra in questo Paese»
di Simone Collini


«ON S’ENGAGE». Et voilà Fausto il rosso, fedele alla linea anche mentre si lascia alle spalle falce e martello. Se Veltroni rilancia il «yes, we can» a stelle e strisce, Bertinotti ufficializza la sua candidatura alla presidenza del Consiglio rispolverando l’«engagement» di sessantottina memoria. Il presidente della Camera presenta il simbolo della Sinistra arcobaleno insieme ai vertici di Prc, Pdci, Verdi e Sd in un caffè poco distante da Montecitorio, e a chi gli domanda se per il 13 e 14 aprile confidi in un risultato a due cifre risponde: «On s’engage». Ci si impegna per questo, con un’espressione che rimanda al maggio francese, a Sartre, alla figura dell’intellettuale politicamente impegnato nel processo di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali. Del resto, dice Bertinotti, quella che si avvicina «non è solo una sfida elettorale» perché «la sinistra sparirebbe se vincesse l’omologazione in salsa americana»: «Vogliamo far nascere una nuova sinistra in Italia, che cambi la società e non si arrenda a un duopolio che cancellerebbe la sinistra». Una sfida che esclude, in caso di sconfitta di Berlusconi, un governo Pd-Sinistra: «Non è alle porte. Il Pd dovrebbe modificare profondamente i propri orientamenti politici. Noi lavoreremo per contaminare da sinistra il Pd».
L’impresa di dar vita a un soggetto unitario sarà tutt’altro che semplice. Insieme a Bertinotti presentano il simbolo Giordano, Diliberto, Pecoraro Scanio e Titti Di Salvo (Mussi è ricoverato per un trapianto di reni), e se anche l’ipotesi è di dar vita nella prossima legislatura a gruppi unici alla Camera e al Senato, i prossimi passi dell’operazione dipenderanno molto dal risultato elettorale. Diliberto ribadisce anche durante la presentazione del simbolo che era «contrario» alla cancellazione della falce e martello, e il Pdci di fronte a una percentuale insoddisfacente è pronto a dare battaglia. Bertinotti lo sa e difende la scelta: «Il Pci e il Psi di Togliatti e Nenni, nel ‘48, si presentarono con l’immagine di Garibaldi». La decisione di sciogliere Prc, Pdci, Verdi e Sd sarà presa dai partiti, dice, ma per quanto lo riguarda è convinto della necessità di dar vita a una forza nuova, «colorata e plurale», che nasce con «allegria, da radici antiche ma con immaginazione per il futuro», per «dare voce a coloro che rischiano di restare fuori» e per «costruire le domande di cambiamento della società».
Colorata com’è l’aria che si respira nel bar in cui viene presentato il simbolo della Sinistra: «È un luogo affascinante ma molto disagevole», riconosce il presidente della Camera rendendosi conto della difficoltà a muoversi e ascoltare di giornalisti e cameramen stipati nello spazio angusto, «ma può dare il senso dell’impresa: divertente, difficile, un po’ incasinata». E poi: «Tutti i luoghi hanno vocazione alla politica, il bar è uno dei più vocati». Uno spirito che servirà quando comincerà il confronto sulle candidature. Bertinotti non sarà capolista ovunque («non c’è bisogno di una personalizzazione eccessiva»), ma già fa discutere lo schema prospettato all’incontro riservato tra Bertinotti e i quattro leader, che prevede il 45% di candidature scelte dal Prc, il 20% ciascuno per Verdi e Pdci e il 15% per Sd.

l’Unità 14.2.08
«Tutte in piazza, no alle crociate»
Dopo l’irruzione della polizia in ospedale, oggi manifestazione a Napoli. Sit-in anche a Roma
di Virginia Lori


LA RISCOSSA. Dopo il blitz anti-194 di Napoli le donne si contano, si fanno vedere: basta con questo «clima che sta montando contro di noi», basta con questa «crociata contro il nostro corpo». Mobilitazione: dalle associazioni ali sindacati. E oggi alle 17 in piazza Vanvitelli proprio nel capoluogo partenopeo l’Udi (Unione donne in Italia) ha convocato una manifestazione. Quanto avvenuto al Policlinico Federico II di Napoli «è una dichiarazione di guerra» attacca l’assemblea della Casa internazionale delle donne di Roma che per questo pomeriggio ha organizzato un sit in di fronte al ministero della salute. «La campagna antiabortista in atto è diventata ben presto, ma non poteva essere altrimenti, violenza sulle donne» rincara la Segreteria nazionale della Cgil: «Le modalità con cui si sono svolti i drammatici fatti ledono i principi del funzionamento democratico del nostro paese: la denuncia anonima che determina l’intervento di un magistrato che non effettua verifiche, l’irruzione in un ospedale, l’intimidazione di altre pazienti. Non solo si è superato ogni limite di rispetto nei confronti di una donna già provata da un’esperienza drammatica quale è un’interruzione di gravidanza dettata da ragioni terapeutiche, ma rappresenta uno dei frutti avvelenati di una campagna condotta con furore ideologico e fanatismo contro una legge che, in realtà, nel corso di questi anni ha ridotto drasticamente il ricorso all’interruzione di gravidanza ed ha posto fine alla piaga dell’aborto clandestino».
Di «crociata contro le donne» parla invece «Usciamo dal silenzio», il movimento di donne nato più di un anno fa a Milano proprio per difendere la legge 194 dagli attacchi di alcuni esponenti del mondo politico e cattolico. Il movimento milanese sottolinea inoltre che «il diritto di scelta e la cura delle vite sono la nostra esperienza quotidiana e sono oggi minacciate dalla campagna contro l’aborto che assume via via i toni di una feroce crociata contro le donne e invade la campagna elettorale».
In campo anche «Arcidonna»: è «grave» quanto successo a Napoli, l’8 marzo tutte in piazza a difesa della legge 194. Mentre «Telefono rosa» ha offerto assistenza legale e psicologica alla donna che l’altro giorno a Napoli è stata involontaria protagonista di un blitz della polizia. «Quanto è avvenuto è allucinante - dice il presidente dell’associazione, Maria Gabriella Moscatelli - Pensare che una donna ancora sotto anestesia può essere interrogata nel momento più doloroso è pazzesco. Stiamo vivendo un periodo di restaurazione».
E anche il mondo politico si muove. «Saremo in tante a dire basta, a rispondere all’offensiva in atto contro la libertà e la responsabilità femminili» spiega il ministro Pollastrini. «Chiediamo che si faccia chiarezza su quanto è accaduto al nuovo Policlinico di Napoli, sono troppi gli attacchi alla libertà femminile» dice Anna Finocchiaro. E mentre Ferrara non resiste alla provocazione - «Se non vado errato in quell’ospedale ieri è morto un bambino. Chissà se nei commenti di stampa qualcuno se ne ricorderà» - sono in molti a dare solidarietà alle donne. «L’episodio di Napoli di ieri è di una assoluta gravità, un pesante attacco alla dignità delle donne e ai loro diritti» le parole del ministro Ferrero. E solidarietà è arrivata anche da Chiara Acciarini, Sottosegretario alle politiche per la famiglia, e da Marina Sereni: «Chi alimenta questo clima di scontro - dice - si assume una grave responsabilità».

Repubblica 14.2.08
Se è in pericolo il destino dei diritti
di Stefano Rodotà


Quale sarà il destino dei diritti e delle libertà civili nel nuovo tempo della politica che si è appena annunciato, e che assumerà tratti più netti dopo il voto del 13 aprile? Da Napoli è appena arrivata una inquietante risposta, tanto più grave perché dà la misura di un mutamento di clima.
Un mutamento di clima che, senza bisogno di cambiare le norme in vigore, determina una vera e propria aggressione nei confronti di chi altro non ha fatto che valersi dei diritti che le riconosce la legge sull´interruzione della gravidanza.
Il racconto della donna è davvero un caso di scuola di violazione della dignità della persona, dunque di uno dei principi fondativi della convivenza, come si legge nella nostra Costituzione e nell´articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Non basta dire, infatti, che s´era ricevuta una segnalazione anonima e che era necessario effettuare accertamenti. Proprio il carattere anonimo delle segnalazioni esige sempre prudenza nella loro utilizzazione, altrimenti la libertà e la dignità di ciascuno di noi vengono consegnate nelle mani di qualsiasi mascalzone. Vi erano molti modi per accertare se davvero si stava violando la legge, senza bisogno di piombare addosso alla donna e di farle domande assolutamente illegittime, come quella riguardante il padre. Ma ci si comporta così quando si ritiene di essere assistiti da un consenso sociale, quando si pensa che l´aria sia cambiata e che nell´agenda politica ed istituzionale a diritti e libertà spetta ormai un posto marginale. La vicenda napoletana ci ha purtroppo dato la tragica conferma di una regressione civile già in atto. Sarebbero urgenti, a questo punto, una reazione politica ed una istituzionale.
Chiunque abbia il senso delle istituzioni, merce purtroppo sempre più rara, dovrebbe esigere, nell´interesse di tutti, un chiarimento del modo in cui magistratura e polizia si sono comportate a Napoli, e l´individuazione delle specifiche responsabilità, come hanno chiesto le componenti del Csm. Siamo di fronte ad una violenza di Stato, che esige un immediato e pubblico ristabilimento della legalità. Solo così sarà possibile cancellare, almeno in parte, l´effetto intimidatorio che quella irruzione può avere nei confronti di tutte le donne che intendono far ricorso alla legge 194. Per quanto riguarda la reazione politica, sono ovviamente benvenute le proteste, le condanne. Ma non bastano. Non siamo di fronte ad un caso isolato ed isolabile, ma appunto alla rivelazione di un clima. E questo clima può essere cambiato solo se, con adeguata forza, si rifiuta l´agenda politica che l´ha determinato e a questa se ne oppone una più civile, rispettosa delle persone e della loro umanità, che rimetta al primo posto il riconoscimento e il rispetto dei diritti.
Dal centrodestra sono venuti segnali insistiti e chiarissimi. La radicale messa in discussione dell´aborto è netta, ha ormai una forte evidenza nella campagna elettorale, ben poco offuscata dalle variazioni tattiche di Berlusconi rispetto alla lista di Giuliano Ferrara, visto che lo stesso Berlusconi ha rilanciato proprio la parola d´ordine di Ferrara di proporre all´Onu ben più di una moratoria sull´aborto - il pieno riconoscimento del diritto alla vita del concepito. A queste proposte si aggiungono la posizione ostile ad ogni aggiustamento della legge sulla procreazione assistita, anche a quelli che una provvida giurisprudenza ha rigorosamente introdotto, mettendo in evidenza gli eccessi di potere del governo Berlusconi; la dura linea sulle questioni della sicurezza; la "questione privacy" proposta sostanzialmente come mezzo per limitare il ricorso alle intercettazioni anche in materie dove appaiono necessarie e per incidere sulla libertà d´informazione; e l´ipotesi di procedere ad una revisione anche della prima parte della Costituzione, quella appunto delle libertà e dei diritti.
Se questo è il catalogo, ormai evidentissimo, del centrodestra, quali segnali sono venuti dal Partito democratico e dalla Sinistra arcobaleno? Flebili, comunque privi finora della evidenza necessaria per presentarsi come un programma forte e coeso, capace di imporsi all´attenzione dell´opinione pubblica e modificare così l´agenda politica. Per il Partito democratico questo è anche il frutto di una difficoltà interna, testimoniata dalla pubblica adesione della senatrice Binetti alla proposta berlusconiana sull´aborto. Per la Sinistra arcobaleno è probabilmente l´effetto determinato dal ritardo di una effettiva elaborazione comune.
La passata legislatura lascia un´eredità pesante. Testamento biologico, unioni di fatto, disciplina delle intercettazioni sono lì a ricordarci una impotenza dell´Unione, la difficoltà estrema nel gestire politicamente situazioni complesse. Soprattutto per i primi due casi, si constatò in modo sbrigativo che non v´era la necessaria maggioranza parlamentare, e questo favorì all´interno dell´Unione le operazioni di chi volle chiudere nel cassetto testi significativi. Non si tenne conto che si trattava di materie che riguardano la vita di tutti, le decisioni sul morire e l´organizzazione delle relazioni affettive (e il nascere, legato alle nuove linee guida sulla procreazione assistita), sì che sarebbe stato necessario avere non solo un più netto atteggiamento davanti all´opinione pubblica, ma anche più coraggio parlamentare, portando in assemblea i disegni di legge, obbligando i senatori ad assumere esplicitamente le loro responsabilità e consentendo così ai cittadini di valutare meriti e colpe all´interno di entrambi gli schieramenti. In altre materie, quelle legate alla sicurezza pubblica in particolare, vi è stata una eccessiva propensione a soluzioni sbrigative, con una riduzione di problemi complessi a questioni di puro ordine pubblico, rendendo indistinguibile la posizione del governo da quella dell´opposizione. Di queste debolezze si è avuta una conferma ulteriore nelle materie sbrigativamente indicate con il termine privacy, che sono poi quelle che riassumono molti dei diritti legati al diffondersi delle nuove tecnologie. Un solo esempio. Con il decreto "milleproroghe" si è portato ad otto anni e mezzo il tempo di conservazione dei dati sul traffico telefonico, un non invidiabile record mondiale.
Che cosa potrà accadere nel prossimo Parlamento? La previsione più facile induce a concludere che, se prevarrà il centrodestra, la linea sarà quella della riduzione dell´autonomia delle persone nel decidere della loro vita (ricorso alla procreazione assistita, aborto, rifiuto di cure, decisioni di fine vita, unioni di fatto), dell´indebolimento delle garanzie in nome della sicurezza, della limitazione del controllo di legalità da parte dei giudici, che è una componente essenziale della tutela dei diritti. Ma questo non significherà necessariamente abbandono di una nuova normativa sul testamento biologico o sulla procreazione assistita. Regole su queste materie potrebbero servire per una finalità esattamente opposta a quella per la quale erano state finora pensate: chiudere ogni varco alla possibilità di giungere comunque al riconoscimento di diritti delle persone sulla base delle norme della Costituzione, come hanno fatto con grande rigore alcuni giudici.
La necessità di un diverso e chiaro programma in materia dei diritti è evidente. Questo programma, in primo luogo, deve essere dichiaratamente "conservatore", nel senso che deve consistere in una intransigente difesa dei principi costituzionali e in un loro coerente sviluppo nelle direzioni segnate dall´innovazione scientifica e tecnologica. È vero che queste innovazioni ci obbligano a confrontarci in modo assolutamente inedito con i temi della vita, dell´umano. Ma questa riflessione, e le conseguenze pratiche che se ne traggono, devono trovare la loro collocazione nel quadro di valori democraticamente definito, appunto quello costituzionale. Questo non esclude il confronto, la discussione, la prospettazione di punti di vista anche radicalmente diversi. Esclude, invece, la pretesa di imporre un altro quadro di principi, imposto autoritativamente, ritenuto "non negoziabile" perché espressione di verità non discutibili.
Giungiamo così al vero nodo politico e culturale, alla revisione costituzionale di fatto che si vuole realizzare avendo le prescrizioni delle gerarchie ecclesiastiche come unica tavola dei valori. Questo è uno dei punti condivisi di cui si vanta il Popolo delle libertà. Questa è la vera radice del rischio che corrono libertà e diritti, che non ha nulla a che vedere con l´anticlericalismo o con il "laicismo", ma ha molto a che fare con la democrazia. Un rischio che si aggrava ogni giorno, visto che l´interventismo delle gerarchie vaticane si traduce sempre più spesso in una precettistica minuta. Quale società si sta delineando?
Le debolezze politiche e culturali del passato centrosinistra sono nate anche su questo terreno, e si è rivelata sbagliata la linea di chi ha ritenuto che un atteggiamento morbido avrebbe consentito un progressivo superamento delle difficoltà. Il "politicismo" del rapporto esclusivo con le gerarchie vaticane non ha pagato e, anzi, ha aperto varchi sempre più ampi al loro intervento, mentre veniva trascurato e mortificato il rapporto con il mondo cattolico più aperto. Chiedere maggiore consapevolezza di questa situazione non significa incitare allo scontro. Significa mettere in chiaro, nella fase democraticamente essenziale della campagna elettorale, i propositi e le prospettive di azione di ciascuno. Anche su questo si costruirà il consenso delle forze politiche di centrosinistra e di sinistra.

Repubblica 14.2.08
"Infrante le regole-base della buona medicina"
Veronesi: dovevano proteggere quella donna
di Carlo Brambilla


Al risveglio da un aborto la paziente prende a poco a poco coscienza del proprio corpo e del figlio che non c´è più. In quel momento così delicato c´è stato l´interrogatorio

MILANO - «Inammissibile. Sono state infrante con la forza e con modalità primordiali le regole elementari della buona medicina. Superare in questo modo le barriere sanitarie, come ha fatto la polizia a Napoli, è un reato dal punto di vista morale e deontologico». Umberto Veronesi, direttore scientifico dell´Istituto Europeo di Oncologia, condanna senza mezze misure il blitz condotto dalle forze dell´ordine al Nuovo Policlinico di Napoli. Critica il personale medico che ha permesso agli agenti di entrare nella stanza della paziente per interrogarla e denuncia le tensioni create dalle crociate contro la legge 194.
Professor Veronesi, come avrebbero dovuto comportarsi i medici davanti all´irruzione della polizia?
«Sono dispiaciuto che il personale medico non si sia opposto subito con maggiore decisione. Posso immaginare il loro iniziale stupore e lo smarrimento di fronte a un´irruzione che, a quanto descritto, aveva tutto l´aspetto spettacolare di una retata. Ma un medico deve essere pronto a tutto per difendere il suo paziente. Deve mantenere la massima lucidità. Soprattutto quando il suo paziente si trova in un momento di estrema debolezza fisica e psichica. Tanto più se si trova dentro l´ospedale che dovrebbe essere il luogo di protezione e tutela totale della persona malata».
Si è parlato di clima da caccia alle streghe, di crudeltà ideologica, di clima da Inquisizione. Quale è stato secondo lei l´aspetto più negativo di questo intervento?
«Il paziente che esce dalla sala operatoria entra in una precisa fase della cura, nella quale riceve, oltre all´assistenza post-operatoria (il controllo del dolore, la somministrazione dei farmaci e così via) anche il sostegno psicologico e quell´insieme di gesti e di atteggiamenti tesi a trasmettere la serenità e il coraggio. Si tratta di un vero e proprio momento della terapia. E come tale non può essere violato da un blitz delle forze dell´ordine. Si è mai vista una squadra di Polizia con tanto di pistole spianate entrare in sala operatoria con il paziente sotto i ferri? Neppure nei telefilm americani».
Tanta urgenza per indagare su un´ipotesi di aborto fuori dai termini di legge sembra difficile da capire.
«L´irruzione è grave se pensiamo che, posto che l´accertamento andasse fatto, non c´era nessuna urgenza. Poteva essere effettuato tranquillamente nei giorni successivi. Perizie su aborti terapeutici sono state fatte a Milano settimane o mesi dopo la dismissione delle pazienti».
L´intervento della polizia ha interferito nel processo di cura? Sono aumentati i rischi per la salute della paziente?
«Sì. Il fatto che stiamo parlando di aborto rende tutto più grave. Concentriamoci per una volta sul dramma dell´aborto. Non c´è donna né medico al mondo che voglia fare un aborto. Quando una donna si trova nella tragica situazione di farlo la sua decisione la fa precipitare in una situazione psicologica estremamente fragile in cui aumenta il suo rischio personale di scivolare nella malattia della depressione».
Il blitz è arrivato proprio nel momento più delicato. Quello immediatamente successivo all´intervento.
«Esattamente. Quando la donna si risveglia dall´anestesia prende progressivamente coscienza del suo corpo, che non accoglie più il futuro figlio. E viene assalita da una vera e propria sindrome di abbattimento e di abbandono che va curata attentamente e prontamente perché non degeneri in patologia aggiungendo dramma a dramma».
Ritiene che abbiano influito in questa vicenda le recenti campagne contro l´aborto e la legge 194?
«Le tensioni create da queste crociate e dalle relative contro-crociate sono sotto gli occhi di tutti».

Corriere della Sera 14.2.08
L'analisi Bauman teme la «globalizzazione cattiva»
Illuminismo addio: comincia il secolo delle paure «liquide»
di Giuseppe Galasso


«Questo libro», dice Zygmunt Bauman, «è un inventario delle paure liquido- moderne», e tenta di individuare le loro radici comuni e i modi di vincerle.
La «modernità liquida» è per lui il mondo post-moderno, in cui «la vita liquida scorre da una sfida all'altra, da un episodio all'altro, e per la consuetudine che abbiamo con le sfide e gli episodi, essi tendono a non durare a lungo». Per le paure è lo stesso. La speranza illuministica di tagliarne le radici non si è realizzata. Anzi, «nel contesto liquido-moderno la lotta contro le paure si è rivelata un compito a vita », e i pericoli per cui nascono sono diventati «compagni permanenti e inseparabili della vita umana ».
Preoccupante è poi specialmente la prospettiva politica alla quale per Bauman il dilagare della paura sembra destinare l'umanità del XXI secolo. «La nostra globalizzazione negativa — egli scrive — oscilla tra il togliere la sicurezza a chi è libero e l'offrire sicurezza sotto forma di illibertà». Di più non c'è da sperare, e Bauman, che certo non pecca di incoerenza e non difetta di spirito consequenziario, ne deduce, infatti, che «ciò renderà la catastrofe "ineluttabile"».
D'altra parte, egli non si pone, però, come un catastrofista assoluto. Ci lascia una via d'uscita, la cui porta, se eventualmente non si rivelasse comoda, avrebbe sempre il pregio di essere aperta e praticabile. Solo ritenendo ineluttabile la catastrofe, afferma altrettanto categoricamente, solo prendendola davvero sul serio, l'umanità ha speranza «di renderla evitabile». E ciò significa che il secolo in cui siamo appena entrati «può essere un'epoca di catastrofe definitiva», ma anche essere l'epoca «in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità».
Dalle ceneri del profeta di sciagura, che si augura dalla storia una solenne e liquidatoria smentita delle proprie profezie, viene fuori, così, trepidante, ma sicuro di sé, un neo-illuminista (o almeno un neo-positivista), che vede nella ragione l'arma decisiva per vincere la paura, cioè un atteggiamento per nulla razionale, e pensa con fiducia all'arca di un'alleanza tra
philosophes (o scienziati) e popolo, tra la ragione e ciò che vi rilutta e si condanna, così, da sé. E questo scenario, che chiude il libro, non è il coup de théâtre di uno spirito a corto d'argomenti. Si sente a fior di pelle la realtà della scommessa che Bauman intende fare e proporre quando termina esprimendo la speranza «di poter ancora scegliere tra questi due futuri», la catastrofe, cioè, o quell'alleanza.
Bauman non è, però, solo un predicatore di alternative estreme. La sua analisi dell'insinuarsi della paura (di innumerevoli paure) nel mondo liquido-moderno per effetto di quella che definisce «globalizzazione negativa» è minuziosa e impressionante, ed è forse ciò che nel suo libro colpisce di più. A suo avviso, questa globalizzazione è, peraltro, l'opera di una «sovraclasse globale», che così «continua a gratificare se stessa su una scala sbalorditiva, senza essere disturbata», e, anzi, con «grandi guadagni» e «scarsissimi rischi». Ma, mi chiedo, non c'è qui un po' troppo di «forze oscure della reazione», operanti nell'ombra per continuare nei loro privilegi? Non si riflette qui, fin troppo, la matrice marxistica di Bauman, con questa visione di una «internazionale del denaro», che fa e disfa tutto a suo vantaggio?
Credo di si. E così pure credo che la prevedibilità («uno degli attributi di cui più si avverte la mancanza nel mondo liquido-moderno globalizzato negativamente») sia solo una condizione permanente dell'esperienza umana. Chi, un po' prima, avrebbe previsto la rivoluzione in Francia nel 1789 o, nei primi mesi del 1914, la «grande guerra» in Europa? L'imprevedibilità è solo ciò a cui ci mette di fronte la volontà (distruttiva quanto creativa) delle forze che fanno la storia. Pensare di eliminare imprevedibilità e paure equivale a credere a un'umanità e a uomini diversi da quelli che conosciamo da sempre. Proprio per questo, però, conoscere le paure e considerare l'imprevedibile è essenziale nella vita dei singoli e delle collettività, nonché nell'azione di chi le governa. E su questo piano il libro di Bauman è certo di non comune acume e interesse per ciò che dice delle paure nel mondo da lui definito liquido-moderno (che, però, va pur detto, è un mondo di uomini non diversi da quelli di ogni altro mondo, anche solido, se ve ne sono mai stati).

Corriere della Sera 14.2.08
Balla tutta l'energia del mondo
Pitture, sculture, scenografie, bozzetti L'uomo che mandò in orbita il Futurismo
di Francesca Montorfano


Giacomo Balla e Milano. Un incontro che a prima vista può apparire ovvio, naturale, perché nell'immaginario collettivo entrambi, l'artista e la città, riportano a visioni di dinamismo, di velocità, di auto che sfrecciano per le strade, di luci che si riflettono nelle vetrine moltiplicandosi in mille bagliori. Ma è anche un incontro che appare come una sfida, un'incursione in quella che è la patria culturale per eccellenza di un altro dei grandi protagonisti della stagione futurista, Umberto Boccioni. Tuttavia, se è stato quest'ultimo a formulare il programma della nuova pittura, sarà proprio Balla a rielaborarlo ed arricchirlo nel suo personalissimo linguaggio, avventurandosi in terre ancora inesplorate fino a investire l'intera realtà della vita e a diventare il punto di riferimento delle avanguardie italiane.
È il febbraio del 1910 quando Giacomo Balla firma il Manifesto dei pittori futuristi, confermando così la sua adesione alla battaglia di una generazione di intellettuali critici verso l'arte del passato, impegnati a rinnovare tematiche e mezzi espressivi con sperimentazioni rivoluzionarie, che eserciteranno un'enorme influenza sulle correnti artistiche europee contemporanee e successive. «Il Futurismo ha riportato nel dibattito europeo l'Italia che ne era stata esclusa dall'epoca di Tiepolo e di Canova — afferma Livia Velani, curatrice insieme a Giovanni Lista e a Paolo Baldacci della grande retrospettiva che si apre a Palazzo Reale —. E Milano vuole sottolinearne tutta l'importanza con una mostra dedicata all'uomo che ne è stato protagonista d'eccezione e artista totale, pittore, scultore, fotografo, progettista, pubblicitario. Indagando non solo il periodo del Futurismo cosiddetto "storico" che si concluderà con la Grande Guerra, ma tutti gli anni Venti del Novecento, vissuti dall'artista nel segno di una multidisciplinarità che lo condurrà a una ricostruzione dell'universo in chiave futurista e metterà in luce anche l'aspetto spensierato e ludico della sua arte».
Nel suo slancio di rinnovamento totale del quotidiano Balla opererà anche un'incursione nel campo del design e della moda, creando giocattoli e fiori artificiali dalle forme geometriche e i colori squillanti e disegnando abiti anticonvenzionali per i «nuovi uomini». Modelli che lui stesso indosserà nelle serate futuriste: pantaloni a quadretti minuti, gilet e camicia multicolori, giacca scura a punta con revers viola come la paglietta e l'immancabile bastone «quadro».
Oltre 200 sono le opere esposte a Palazzo Reale. Dipinti a tempera e ad olio, pastelli, acquarelli, disegni, assemblaggi, sculture, scenografie e bozzetti di costumi. La mostra si apre con l'esperienza divisionista che l'artista declina in moduli inediti, con audaci tagli fotografici e soggetti che dal mondo famigliare, dal noto ritratto della madre, arrivano al documento sociale e ad una rappresentazione panteistica della natura, come in «Fallimento » del 1902, nella «Giornata dell'operaio » del 1904 o nel grande polittico di Villa Borghese «Parco dei daini » del 1910, prestito straordinario della Galleria d'Arte Moderna di Roma. Ma toccherà ad opere celebri come «Bambina che corre sul balcone» del 1912 sancire l'irruzione nel pieno Futurismo, che l'artista intraprende con sperimentazioni sempre più radicali sui temi che lo appassionano: la vita frenetica della città, il progresso tecnologico, la velocità, la scomposizione della forma in movimento, la simultaneità della visione. Che si tratti di automobili o di corpi celesti, gli oggetti che adesso Balla studia non appaiono più sulla tela. A renderne la presenza in movimento sono linee, prismi, vortici e colori, forme astratte e concettuali che daranno vita a capolavori come «Automobile in corsa» del Moma di New York (mai esposto in Italia), «Orbite celesti» o la serie di «Mercurio passa davanti al sole», realizzata dopo l'eclissi del 1914.
«Saranno quindi gli anni dal 1916 al 1929, che la mostra prende in esame — commenta Paolo Baldacci — a documentare come nell'ultimo periodo futurista la poetica di Balla si allontani dagli aspetti più meccanici e tecnologici per avvicinarsi a una visione in chiave energetica della natura, che metta in contatto l'uomo con la totalità cosmica».

Corriere della Sera 14.2.08
L'intervista. Il critico Bonito Oliva spiega come lo spirito e lo stile del Movimento influenzi l'arte di oggi
«Dalla performance alla video art, tutto nasce lì»
di Francesca Bonazzoli

C' è un'eredità del Futurismo che attraversa tutto il Novecento e arriva all'arte contemporanea: l'aspirazione a catturare il movimento e la velocità nelle immagini, l'uso delle macchine intonarumori, la scrittura sonora, il teatro di varietà, le scazzottature, l'improvvisazione scenica, i collage, trovano compimento nel secondo Novecento nella videoarte, nella performance, negli happening, nella body art, nell'uso anarchico di ogni tipo di materiale, persino i resti di un pranzo, come nei «quadri trappola» di Daniel Spoerri che ricordano «La tavola tattile» di Marinetti (1921) con una grattugia, una spazzola, un tappo di sughero, una spugna, degli stracci e un piumino appiccicati su un pannello di legno. Proprio a questo tema Achille Bonito Oliva ha dedicato la mostra intitolata «Minimalia. Da Giacomo Balla a ...», allestita nel 1997 a Venezia, nel '98 a Roma e infine nel '99 a New York.
Perché è partito da Balla e non da Marinetti?
«Marinetti è il teorico del Futurismo, mentre Balla ne è l'estensore visivo, colui che porta al massimo della purezza, espressiva e spirituale, i principi del movimento. Se partiamo dalle "Compenetrazioni iridescenti" del 1912, per esempio, possiamo vedere che Balla procede attraverso un doppio movimento: uno analitico, che parte dalla forma di una foglia, e un altro che arriva alla geometria che ne rappresenta l'essenza. Questo spirito sintetico corre all'interno dell'arte italiana fin dal XV secolo: basta guardare la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello e già vediamo presente il gioco fra astrazione e narrazione».
A questo proposito lei citava la frase di Leonardo da Vinci: «La pittura è cosa mentale».
«La frase di Leonardo è fondamentale per capire Balla. Mentre in Boccioni prevale il vitalismo, una scelta più espressiva, in Balla c'è un futurismo non materialista, premonitore di un minimalismo mediterraneo. Ovvero l'adozione della linea curva e non di quella retta. L'arte nordamericana — che ha uno spirito protestante, puritano, e alle spalle anche la cultura aniconica ebraica — adotta la geometria della linea retta (il grattacielo stesso è una forma retta minimale), al contrario i Futuristi hanno la capacità di tenere la natura, la vita, il momento organico in una linea curva ed essenziale. Per questo Balla è uno dei grandi fondatori dell'astrazione, ma lo fa attraverso un'analisi analitica della natura».
Come è riuscito il Futurismo ad arrivare fino a noi?
«Perché era un movimento interventista che dava una risposta a tutti i temi proposti dalla città moderna. Interveniva sulla realtà a 360 gradi: sulla guerra, sulla cucina, sulla donna, sulla radio. Pensava a una ricostruzione futurista dell'universo attraverso l'estetizzazione della realtà. Per questo hanno anticipato tutto: dalla radio fino alla performance. L'idea performativa dell'arte, dell'arte come intervento sulla realtà, nasce col Futurismo».
Perché l'arte è oggi meno coinvolta nella pratica sociale?
«Le avanguardie storiche vivevano la felice utopia di trasformare il mondo attraverso l'arte; poi arrivano le dittature e le avanguardie si ritirarono. Da allora è subentrata un'idea dell'arte che trasforma solo se stessa, la propria storia e il linguaggio».
Non esistono più nemmeno le avanguardie?
«L'ultimo movimento di gruppo è stato la Transavanguardia. Dopo, dagli anni Ottanta, gli artisti procedono in fila indiana, ognuno cavaliere solitario. Gli ultimi ad aver posseduto lo spirito utopistico del Futurismo sono stati il Situazionismo, il Lettrismo e Fluxus, specialmente quest'ultimo per la sua qualità cosmopolita, libertaria e anarchica, vissuta ai bordi del sistema dell'arte. L'ultimo movimento con un'etica resistenziale ».

Noi futuristi...
Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l'universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all'invisibile, all'impalpabile, all'imponderabile, all'impercettibile.
Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell'universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto
La ricostruzione futurista dell'universo Eccentrico
Balla nel suo studio. L'artista torinese oltre a dipingere creava oggetti a 360 gradi

Corriere della Sera 14.2.08
Arte e scienza Un astrofisico commenta i dipinti cosmici
Quell'eclissi dipinta col telescopio
Non gli interessava il fenomeno ma la legge fisica che lo regolava
di Piero Benvenuti

Il senso di partecipazione all'infinito che la visione del cielo naturalmente produce nell'uomo, è stato fonte di ispirazione filosofica, poetica ed artistica sin dall'antichità. Ad accrescere fascino e misteriosità si aggiungono poi i «fenomeni» astronomici, sia quelli regolari che sembrano determinare lo scorrere del tempo, sia quelli rari e a volte imprevisti, come un'eclissi di Sole o l'apparire di una cometa. La curiosità per l'astronomia è evidente in Giacomo Balla, ma la sua interpretazione artistica dei fenomeni celesti, mediata dalla sua passione per la scienza e la tecnica, è completamente diversa da quella di altri artisti che l'hanno preceduto. Balla non è interessato a riprodurre il fenomeno, ma a farne risaltare il significato profondo e invisibile, quasi la legge fisica che regge e governa ciò che si manifesta ai nostri sensi.
Il caso più evidente di questa sua introspezione è rappresentato dai due quadri del 1914 che si ispirano al passaggio di Mercurio sul disco del Sole, evento molto raro che Balla osservò con un suo telescopio, preparandosi con meticolosità e affumicando egli stesso — come racconta la figlia — i vetrini da porre di fronte alla lente per proteggere gli occhi dalla luce accecante del Sole. La «riproduzione » dell'evento (il piccolo disco scuro di Mercurio che si staglia sul disco luminoso del Sole) è sì presente, ma sembra quasi un pretesto per sviluppare gli elementi scientifici e geometrici che «spiegano » il fenomeno: il Sole si espande su piani successivi fino a diventare orbita che si interseca con altre orbite ellittiche e paraboliche per significare come l'eclissi si realizzi per il raro congiungersi nello spazio di invisibili piani, resi manifesti dal pittore.
Nel secondo quadro (non esposto in questa mostra), dominano i coni d'ombra, anch'essi invisibili elementi del fenomeno che Balla vuole rendere evidenti. Questa interpretazione è suffragata da opere precedenti, come Orbite celesti e Tutto si muove, del 1913, e altre: le sezioni coniche che si riproducono intersecandosi con tenui sfumature di colore in un regolare intreccio cosmico, sono l'elemento di fondo che ritroviamo con le stesse forme, ma con colori più solari e ferrigni nelle due opere «astronomiche » del 1914.
La curiosità e la sensibilità scientifica di Balla emergono, all'occhio attento, anche ne La lampada ad arco (1909), ove gli elementi di luce che si irradiano con dimensione crescente dal lampione, hanno la forma e l'orientazione caratteristiche dell'aberrazione di coma, ben nota agli esperti di fotografia astronomica. È del tutto plausibile che a Balla giungessero in quegli anni gli echi della profonda rivoluzione del pensiero scientifico provocata dalle teorie della relatività di Einstein.
La rappresentazione del movimento, congelato ma evidente nella sua scomposizione e sovrapposizione delle forme in molte opere di quel periodo (Velocità d'automobile, Dinamismo di un cane al guinzaglio, Le mani del violinista,…), richiamano la relatività della simultaneità e uno spazio-tempo nel quale gli «eventi» non scorrono, ma «sono». Ammirando oggi queste opere, in un'epoca post-einsteiniana nella quale per interpretare il Cosmo si propongono spazi a dodici e più dimensioni e quintessenze celate alla percezione, si sente il desiderio di artisti e poeti che, con sensibilità scientifica, come Giacomo Balla ci facciano sentire e vedere ciò che è nascosto e inimmaginabile.
Piero Benvenuti è docente di Astronomia all'Università di Padova

Aprile on line 13.2.08
Oggi come nel marzo del 1947
di Carlo Patrignani


Oggi come nel marzo del 1947 Dibattito Da dove viene e perché torna l'ennesima ‘crociata cattolica' che, a 60 anni dall'elevazione a norma costituzionale dei Patti Lateranensi, vuole cancellare, con la legge 194, la donna e, con la libera ricerca scientifica, la possibilità di cura e quindi il benessere della gente? Solo coazione a ripetere o che altro?


Uno spettro s'aggira per l'Italia: non il comunismo che, per quello realizzato, distante anni luce dalle idee libertarie di Carlo Marx, è miseramente fallito, ma l'ennesima ‘crociata cattolica' che, tra inframmettenze clericali e campagne di stampa ‘pro-life' dirette da chi ha avuto, guarda il caso, natali comunisti, sta invadendo gli spazi istituzionali, universitari, informativi e sociali. E senza nessuna reazione da parte delle sinistre: anzi, si assiste a genuflessioni quotidiane, a richiami felpati ad una ricerca di religiosità, come il San Paolo folgorato sulla ‘via di Damasco', a contorsioni per tentar di metter assieme Dio e il socialismo.

Da dove viene e perché torna l'ennesima ‘crociata cattolica' che, a 60 anni dall'elevazione a norma costituzionale dei Patti Lateranensi, stipulati l'11 febbraio 1929 da Mussolini, per Pio XI° ‘Uomo della Provvidenza', e dal cardinal Gasparri a nome della Santa Sede, vuole cancellare, con la legge 194, la donna e, con la libera ricerca scientifica, la possibilità di cura e quindi il benessere della gente? Solo coazione a ripetere o che altro, se non la constatazione che ancora una volta si è buttata via la possibilità di avere una società socialista che affermi "il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti' e "da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni"?

Si rivive il marzo del 1947: c'è solo da decifrare i personaggi di oggi che rimandano a quelli di sessant'anni fa. "Quello che è avvenuto martedì alla Costituente non è un avvenimento di carattere meramente parlamentare del quale ci sia possibile disfarci con una generica deplorazione del malcostume politico e una retorica condanna dello spirito di compromesso: si tratta di un avvenimento politico che occorre interpretare bene allo scopo di trarne conseguenze politiche". Così l'ingegnere socialista Riccardo Lombardi commentava, il 28 marzo 1947, il voto ‘a sorpresa' con cui il Pci di Palmiro Togliatti e la Dc di Alcide De Gasperi insieme alle destre, inserivano nella Costituzione i Patti Lateranensi, il Concordato tra lo Stato Fascista e il Vaticano.

All'ingegnere socialista interessava ed è sempre interessato che "i partiti socialisti, se vogliono uscire dallo stato di sonnolenza e di corpulenza" devono "essere se stessi vale a dire, prima di tutto, non essere altri. E' un problema che non si può risolvere con espedienti ma che si pone in termini di anni: quanti ce ne vogliono per ridarsi un'anima e una coscienza autonoma prima che un corpo e un'organizzazione", sosteneva perché il suo obiettivo di una vita è stato "dare alle sinistre una direzione socialista se le sinistre e il socialismo non vogliono morire, o meglio, se vogliono nascere". Orbene, siamo ancora al 1947: anche oggi non c'è alcuna direzione socialista, anzi la tradizione socialista è, al di la' delle parole, fuori gioco.
"Il Partito Comunista dopo una preparazione circondata da riserbo che non poteva ingannare alcuno, ha deciso di votare l'art.7 del progetto di Costituzione e aggiungendo i voti compatti del suo gruppo parlamentare a quelli delle destre, della Dc ha permesso l'inserimento dei Patti Lateranensi nella Carta Costituzionale Repubblicana: Togliatti - rimarcava Lombardi - ha detto con ‘lodevole freddezza' che così il Pci non faceva altro che seguire la linea politica che si era imposta". E l'art.7 passò con 350 sì e 149 no.

Ma perché la conversione di Togliatti? "Un fatto inserito - continuava il primo prefetto della Repubblica - in tutta una linea politica coerente e conseguente, un ‘segmento' di tale linea e niente affatto una deroga, quasi una frattura occasionale, una concessione peccaminosa ma transitoria, quale i critici più benevoli che sagaci pensano già a prospettare. A fatti come questi sarebbe puerile e perfino sciocco reagire con movimenti di malumore o di stizza: la reazione non può essere che politica e condurre a determinazioni politiche". Del resto, "un atteggiamento sdegnoso quasi di fidanzato offeso dai giri di valzer dell'amato bene, ma persuaso di poterlo ricondurre alla giurata fedeltà, sarebbe da parte delle sinistre il segno più sicuro di un pericoloso rammollimento cerebrale oltreché di una definitiva incapacità di giudizio politico". Dunque, "la verità è che il colpo del concordato non è né occasionale né estemporaneo e neppure la conseguenza di quella tale diabolica furberia nella quale ci si immagina troppo spesso che i partiti comunisti europei trovino la soddisfazione di chi sa quale perversità connaturale al sistema politico: la linea politica del Pci anche in questa occasione è stata limpida, chiara, coerente e se si poté manifestare sorpresa e perfino sdegno per la ‘svolta' di Salerno, non ha più il diritto a reazioni sentimentali analoghe oggi". Così, "piaccia o non piaccia, e a me non piace affatto, la politica comunista vuole legare a sé le sinistre, ma non si ritiene legata per suo conto alle sinistre: essa ne è del tutto indipendente, ubbidendo a criteri e a finalità che in larga misura sono estranee alla politica di sinistra e ne ignorano deliberatamente non poche fondamentali postulazioni".
Insomma, "l'apporto delle sinistre è indispensabile al Pci ma non già allo scopo di realizzare una maggioranza nella quale il Pci avrebbe il posto e il peso pari alla sua potenza organizzativa e alla sua ammirevole tradizione di lotta". E "anche questa volta come già in altre precedenti il Pci passando sulla testa delle sinistre alleate, ha teso la mano alla Dc raggiungendo un obiettivo politico importante, importantissimo, ma che è proprio l'obiettivo contro il raggiungimento del quale tutte le sinistre erano impegnate". Per Lombardi l'acomunista ante-litteram, "la politica del Pci è impegnata a coprirsi verso destra; essa non si preoccupa perché non teme di scoprirsi a sinistra: questa è la realtà dura ed indigesta, quanto si vuole, ma tuttavia realtà e da essa le sinistre debbono trarre conseguenze che ne condizionano la stessa esistenza. Il problema che si pone alle sinistre italiane è perciò quello stesso che si va ponendo a tutte le sinistre europee: quello della direzione politica. Accettare la direzione politica comunista significa rinunciare a una politica di sinistra, cosciente dei suoi fini e non perché il Pci non sia democratico o perché non sia onesto o perché non ci sia da fidarsi di esso: solo che non si può delegargli, per comodità o fiacchezza, le finalità che sono specifiche delle sinistre". E' con questo voto sul Concordato fascista che inizia il catto-comunismo, la fine di ogni passaggio al socialismo come avvenuto in tutte le democrazie europee nelle cui Costituzioni non c'è un pari art.7 che riconosce la religione cattolica come religione di Stato.

La convergenza fra mondo comunista e cattolicesimo inaugurata da Togliatti, proseguì con Enrico Berlinguer: influenti consiglieri, da Franco Rodano ad Antonio Tatò, sono stati gli eredi di questo filone culturale e il "compromesso storico" del 1973 e il suo tentativo di concretizzazione nel 1976-1979, ne sono stati i riflessi naturali. Anche la ‘svolta della Bolognina' risentì di questa prassi nella scelta nominalistica di non avere riferimenti socialisti, socialdemocratici o laburisti nel nuovo nome da dare al partito.
Fino alla scelta, nel 1996 e nel 2006, di un candidato cattolico per il raggruppamento di centro-sinistra, Romano Prodi, invece che un laico, da Carlo Azeglio Ciampi a Umberto Veronesi, a Giuliano Amato, o addirittura di rischiare la candidatura in prima persona del leader del principale partito della coalizione, Massimo D'Alema.
"All'azione rivoluzionaria deve seguire, senza soste e senza debolezze, l'azione riformatrice, dico riformatrice non riformista, in modo da pervenire il più rapidamente possibile alla riforma della struttura dello Stato", affermava con ostinazione Lombardi.

Già, il suo vecchio pallino delle "riforme di struttura", che invocherà inutilmente per tutti gli anni Sessanta e Settanta, non senza qualche significativo risultato pratico, come la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Idee chiare animarono il galantuomo siciliano che ebbe il rispetto di tutti gli avversari, uno che sapeva prendere le distanze dalla politica come professione: "Che cosa è essenziale per la democrazia in Italia? E' essenziale che il Paese sia attivizzato, che il più gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti sia interessato politicamente ed economicamente ad uno stato democratico, al punto che tutti si sentano minacciati quando la democrazia è in pericolo; abbattere le strutture corporative che sono le eredità più persistenti del fascismo e che ancora oggi sono profondamente radicate nella coscienza non soltanto dei singoli ma perfino dei partiti e dei partiti sedicenti rivoluzionari; riformare l'apparato burocratico dello Stato; frenare le inframmettenze clericali". Fu facile profeta di un democrazia zoppa e ben poco laica ed autonoma.

Cosa ci manca di Lombardi? La sua onestà, la coerenza tra dire e fare, l'ateismo vissuto e praticato, la sua scommessa non vinta ma indicata tenacemente di tenere insieme la democrazia e l'idea di un socialismo radicale, dove non c'è posto per Dio, perché, come affermava Marx, "è l'uomo che fa la religione, non è la religione che fa l'uomo" che per sua natura è "essere sociale: ed il suo essere sociale determina la sua coscienza".

Liberazione 14.2.08
L'attacco alla libertà nel nome di Dio (e del mercato)
di Piero Sansonetti


Non so se è giusto dirlo in modo così brusco, apocalittico, ma non trovo una forma più "lieve": ho l'impressione che ci troviamo di fronte a una forte ondata reazionaria, con tratti eversivi, guidata da forze potenti, vastissime, e anche diverse tra loro, le quali mirano a ristrutturare profondamente la nostra società, ristabilendo un meccanismo piramidale e gerarchizzato. Una sorta di catena di comando, con grandissime capacità di controllo sociale e di orientamento del senso comune, che diventi lo scheletro di una nuova idea del liberismo, nella quale tutti gli interessi generali sono ricondotti al mercato e tutte le libertà sono ridotte a una sola libertà, essa stessa interna e subordinata al mercato.
E' su questa ipotesi "neo-autoritaria"- mi scuso di nuovo per la rudezza delle parole, ma di nuovo vi dico che non ne trovo altre - la borghesia italiana, scompaginata negli ultimi vent'anni dalla sua debolezza politica e dalla sua fragilità intellettuale, sta cercando di ricomporsi e di riprendere in mano le redini. Il passaggio decisivo per la riuscita o il fallimento di questo disegno sono le elezioni di aprile. E la borghesia italiana intende vincere le elezioni giocando non solo su un "cavallo", ma sull'intero schieramento politico di centro e di centro destra. Più avanti vedremo come.
Ne abbiamo discusso ieri, a lungo, nella riunione di redazione, e sebbene ciascuno di noi usasse parole diverse, sfumature, angoli di vista che non coincidevano perfettamente, ci siamo trovati d'accordo sul segno generale di questa operazione, di questa fase storica. Che procede appoggiandosi sulle gambe di diverse forze politiche e di diversi leader. Montezemolo, che è il più lucido, quello con il disegno più preciso. Berlusconi, il quale ha capito che non ce la fa a vincere da solo e ha bisogno dell'appoggio di tutte le classi dirigenti e non solo di quelle più amiche. E poi Casini, Ferrara e altri ancora, che cercano il loro spazio, il loro compito, portando robusti argomenti e specifiche idee di restaurazione. E infine, con un ruolo defilato, incerto, ma che può diventare decisivo, il partito democratico, che ancora è dilaniato dal contrasto tra la forza delle sue tradizioni, delle radici riformiste, e la tentazione di cercare una propria vocazione egemonica nella dialettica senza rete e senza "paletti" col centrodestra, e in una nuova e definitiva investitura da parte della grande borghesia e dei grandi poteri.
Mettiamo in fila due o tre cose, e vediamo se poi si trova il filo che le unisce.
Prima cosa, la barbarica irruzione dei carabinieri in una clinica per fermare un aborto legale. Azione incredibilmente simile a quelle che in America, ogni tanto, sono condotte dai gruppi terroristi antifemministi. Irruzione avvenuta nel mezzo di una campagna furibonda, condotta dalla Chiesa, da pezzi dello schieramento politico cattolico, da Giuliano Ferrara, da molti intellettuali e giornalisti conservatori, tesa alla criminalizzazione dell'aborto, e delle donne che lo praticano o ne contemplano la possibilità. Conta poco il fatto che molti di loro dicano di non voler toccare la legge 194 (quella che autorizza l'interruzione della gravidanza). Conta che questa campagna per la moratoria (sostenuta direttamente dal pontefice) punta a screditare quella legge, svuotandola dei valori e dei diritti che essa afferma. Provo a spiegarmi con un esempio: noi potremmo decidere che non intendiamo mettere in discussione il diritto alla proprietà privata, ma invitiamo i cittadini a violarlo, dichiariamo comunque che la proprietà privata è un furto e che occorre fare qualcosa, in tutto il mondo, per impedire che questo furto (che ha alienato quasi tutta la ricchezza disponibile) continui ad essere perpetrato. Non sarebbe una campagna illegittima, da nessun punto di vista, ma certo non potremmo negare che avrebbe un carattere sovversivo.
Secondo argomento: il lavoro, la precarietà, la riduzione dei diritti individuali e collettivi, l'attacco al contratto collettivo di lavoro, l'idea di iniziare a smantellare lo Statuto dei lavoratori. Tutti temi molto forti nei programmi elettorali di Berlusconi e sui quali nel Pd avanza la tentazione di accodarsi, almeno in parte (è vero che il ministro Damiano è stato messo a margine nell'elaborazione del programma economico, sostituito da Ichino, perché considerato eccessivamente sindacalizzato? Corre voce...). Cosa rappresenta questa linea politica? La volontà di ristabilire la totale subordinazione del lavoro al profitto, e dei singoli lavoratori ai loro capi e alla loro impresa.
Terzo argomento, la nuova smania di semplificazione politica. Aboliamo i partiti piccoli, riduciamo gli assemblearismi, semplifichiamo la politica, tagliamo gli enti locali, le assemblee, il decentramento...
Naturalmente una modesta dose di semplificazione in una politica eccessivamente frastagliata è giusta, perché permette alla politica di non venire travolta dagli altri poteri. Ma la politica e la democrazia sono complesse, e la libertà è molto, molto complessa. L'eccesso di semplificazioni l'uccide. L'eccesso di semplificazione però è funzionale al "comando". Più è semplificata la struttura della democrazia, più è facile decidere. Meno è forte la partecipazione più funziona il comando e la gerarchia.
Ecco il comune denominatore tra questi tre fenomeni: quello del fondamentalismo religioso antiabortista, quello della competitività in fabbrica, quello della semplificazione del sistema politico (e dell'invocazione presidenzialista e gollista). La restaurazione. Il ristabilimento delle gerarchie come chiave di volta delle relazioni sociali, civili e politiche. La fissazione di autorità assolute che poi, alla fine, diventano due sole: Dio e il mercato. Dio (badate: dio maschio) e il mercato hanno diritto assoluto sulla mente e sui corpi. Anche il diritto di prendersi la libertà di tutti, sussumendola nella propria libertà. E affermando il proprio dominio legittimo. Innanzitutto sui corpi delle donne, che sono loro strumenti, e devono accettare il senso di questa missione e capire il valore dell'obbedienza e della loro funzione. E poi su corpi, la mente, le mani, la forza fisica e intellettuale degli operai, dei lavoratori dipendenti, soprattutto dei precari, i quali devono diventare essi stessi mezzi di produzione al servizio della competitività, cioè dell'impresa alla quale appartengono, cioè del mercato che ogni cosa regola e ordina. E infine, Dio e il mercato - e l'interesse generale che si riferisce alla loro gloria - hanno il diritto di limitare le libertà politiche, riducendo la complessità e cancellando o marginalizzando il dissenso e la libertà di pensiero.
La gerarchia è la nuova frontiera del liberismo. Non c'è più contrapposizione tra libertà e uguaglianza. La libertà diventa nemica in quanto portatrice di "rischi" di uguaglianza, cioè di disordine, cioè di perdita di gerarchia.
Alle prossime elezioni questo disegno sarà messo alla prova. Badate che il suo successo o la sua sconfitta non sarà determinato dall'equilibrio tra destra e centro, tra Berlusconi e Veltroni. Dipenderà dalla forza che riuscirà ad ottenere la sinistra, cioè l'opposizione. E dipenderà anche dalla capacità della sinistra di mettere insieme le tre questioni: la libertà delle donne (e delle persone), la libertà e i diritti del lavoro, la libertà politica. La sinistra spesso somma queste tre grandi battaglie. Ci è riuscita per esempio il 20 ottobre, con quel grande corteo a Roma. Non è mai riuscita però a fonderli, a capire che sono legati, coordinati e subordinati l'uno a l'altro. Dovrebbe fare un grande sforzo su questo campo, se pensa di potere avere uno scatto di qualità nella sua presenza politica. Ci sarebbe bisogno di una grande mobilitazione intellettuale.

il manifesto 14.2.08
Missione italiana, ora la sinistra dice no e il Pd si fa bipartisan
Con il governo in proroga e le camere sciolte la Cosa rossa si fa intransigente e il rifinanziamento passerà alla camera con il sì del centrodestra
di A. Fab.


«No», adesso si può dire. Due giorni fa, prima dunque della morte del maresciallo Pezzullo, tutta la sinistra parlamentare aveva per la prima volta da quando è al governo votato contro il rinnovo della missione in Afghanistan. E di tutte le missioni all'estero, perché il disegno di legge numero 3395 che è passato in commissione e da martedì sarà all'esame dell'aula della camera tiene insieme il finanziamento per l'Afghanistan, il Libano, il Kosovo e tutto il resto. Un primo no destinato a replicarsi anche se forse nella forma più sfumata dell'uscita dall'aula. In ogni caso non decisivo: i novanta e passa deputati della sinistra arcobaleno saranno più che compensati dai rappresentanti di tutto il centrodestra. Per «senso di responsabilità».
Ieri sera Berlusconi l'ha detto chiaramente: «La missione italiana per portare la pace in Afghanistan deve continuare». Poi ha aggiunto con la consueta scarsa eleganza: «I familiari del povero maresciallo Pezzullo mi considerino a loro disposizione».
Il lutto per la dodicesima vittima italiana in Afghanistan non impedisce alla sinistra di ribadire la sua contrarietà alla missione e soprattutto, questa volta, di annunciare comportamenti conseguenti. Nel 2006 e nel 2007 non era stato così ma adesso il governo è dimissionario, le camere già sciolte e non c'è alcun accordo con il partito democratico per le prossime elezioni.
Prodi non cambia di una virgola la sua posizione: «E' una missione di lungo periodo che deve continuare». Veltroni annuncia il sì del resto scontato del suo partito - «sarebbe l'errore più grave venire via e lasciare l'Afghanistan al dominio dei talebani» - e gli dà un significato in prospettiva bipartisan: «In politica estera io penso che l'obiettivo sia la condivisione e bisogna tendere a creare le condizioni per una convergenza». Condizioni già in atto: con il Pd voteranno Forza Italia, An e Udc. Ma è chiaro che Veltroni guarda al futuro, alla prossima legislatura quando le convergenze sulla politica estera potrebbero aprire la via ad accordi più generali.
La sinistra arcobaleno voterà invece no e per la prima volta riuscirà ad evitare di litigare perché non c'è più chi accusa gli altri di speculazione di fronte alla morte di un soldato. Anche i rappresentanti dei verdi e di sinistra democratica, in genere più accorti, liberati dal vincolo del governo spingono sul tasto del ritiro. «Una svolta è indispensabile», dice Alfonso Pecoraro Scanio (verdi). «In Afghanistan è in corso una guerra inutile anzi dannosa, ci si risparmi la retorica di una pretesa missione umanitaria» rincara Cesare Salvi (Sd).
«No al rifinanziamento» proclama a questo punto la capogruppo dei Comunisti italiani Manuela Palermi, «i nostri militari sono visti come forze di occupazione e rischiano ogni giorno». E da Rifondazione se Franco Giordano come è sempre stato in questi venti mesi evita commenti di fronte alla notizia di un'altra vittima limitandosi al cordoglio, Paolo Ferrero che è ministro in proroga dichiara che «non si può continuare la missione come se nulla fosse, il governo deve prenderne atto».
Per i 2.350 militari che sono la presenza media in Afghanistan il disegno di legge che andrà in votazione la prossima settimana alla camera prevede una spesa annua (2008) di 337.695.621 euro, contro i circa 310 milioni dell'anno scorso.
Ma in quel disegno di legge sono stanziati i fondi anche per le missioni in Libano, Sudan, Kosovo, Somalia, Ciad, Cipro e ancora Iraq dove permane un piccolo contingente italiano.
Nel frattempo, nella stessa riunione della commissione difesa di martedì scorso nella quale la sinistra per la prima volta ha votato contro il rifinanziamento delle missioni, è passato il parere favorevole all'acquisto di quattro nuovi aerei senza pilota Predator. Si tratta di un modello nuovo richiesto dalla Difesa che consente di trasportare missili dunque in teoria utilizzabile come mezzo d'attacco. La sinistra arcobaleno ha votato contro, ma non è servito. Due settimane fa invece aveva disertato la riunione per far saltare il numero legale.