sabato 16 febbraio 2008

l’Unità 16.2.08
La 194, una conquista di civiltà
di Fausto Bertinotti


A Simona Argentieri
e alle altre firmatarie dell’appello
“Caro Walter, Caro Bertinotti, ora basta!”

Care amiche,
la vostra lettera ha accompagnato, di fatto, ieri una mobilitazione di donne che ha suscitato un moto profondo di partecipazione alla denuncia di una violenza perpetrata ai danni di una persona. È stata colpita, con essa, a Napoli la libertà della donna, la sua responsabilità di madre, violato il rispetto per la sofferenza di una donna impegnata in una difficile e legittima scelta. Ma è una temperie culturale quella che preoccupa; l’alimentazione di un fondamentalismo che in nome di un’astratta concezione della vita finisce per ignorare e persino giustificare forme di violenza sulla vita reale, sull’umanità delle donne. Credo si debba concorrere a mettere in discussione, contestare e rifiutare di far vivere ogni fondamentalismo per far prevalere la cultura del dialogo, anche sui temi dell’esistenza e del suo senso, sui grandi interrogativi che investono l’uomo e il suo destino nel mondo contemporaneo e di fronte ai processi di mercificazione e di alienazione che l’attuale globalizzazione dell’economia capitalista generano e riproducono e che le culture patriarcali stratificano.
Ma c’è un compito proprio della politica, un suo statuto alto, proprio in ragione della sua fondazione autonoma e laica, che gli chiede di prendere parte sulle questioni che riguardano il corpo e la nuda vita affinché siano difese e messe a valore, che gli chiede di organizzare la società così da difendere i diritti delle persone, come recita la Costituzione in uno dei suoi articoli più carichi di futuro, l’articolo 3: «(…) È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (…) ».
Non mi permetto qui di anticipare il programma della Sinistra Arcobaleno, che verrà presentato tra pochi giorni.
Tutta la nostra comune storia recente non lascia tuttavia adito a dubbi. La partecipazione a tutte le manifestazioni sui diritti civili, le proposte elaborate con questi temi, il contributo nella definizione del programma del governo Prodi e l’azione, purtroppo per alcuni versi sfortunata, per la sua applicazione, tutte le prese di posizione recenti e meno recenti credo consentano di dire che il programma della Sinistra Arcobaleno sarà assai in sintonia con le richieste che provengono dalle istanze delle donne così come le competenze femminili e femministe le hanno messe in luce.
La legge 194 è stata una conquista di civiltà del tempo di un’Italia che si voleva migliore. E’ nostro dovere difenderla e, con essa, la cultura che l’ha originata. Il suo bilancio è assai positivo. Tante donne sono state sottratte all’aborto clandestino, alla sua violenza; il numero degli aborti è stato sensibilmente ridotto. L’esperienza dei Paesi Bassi che ha il minor numero di aborti del mondo (otto su mille), ci dice che si può farlo con l’educazione nelle scuole, con la prevenzione e con l’uso appropriato dei metodi contraccettivi.
Quel che nessuno può insegnarci, perché è compito delle donne e degli uomini di questo paese, sono i nuovi e più alti livelli di civiltà da conquistare in Italia. In particolare proprio in uno scenario, come quello attuale, segnato da imponenti innovazioni tecno-scientifiche, in sé ambivalenti, ed i cui esiti possono ledere la libertà e la responsabilità delle persone, è giusto e imprescindibile che sia la donna a decidere della procreazione e della nascita. Il parere del medico, i consigli a cui attingere, il processo di partecipazione sono certo utili, vanno favoriti, ma l’ultima parola dovrà essere della donna, perché madre e perché attiva portatrice d’umanità.
Con amicizia

l’Unità 16.2.08
Diliberto: «La lotta di classe non è finita. Il Pd ha scelto la via del moderatismo»
di Simone Collini


«Il Partito democratico si è sbilanciato ancora di più sul versante moderato», sostiene il segretario del Pdci Oliviero Diliberto: «Ha scelto il centro».
Perché dice questo?
«Si allea con Di Pietro ed esclude la sinistra».
Per via delle tensioni che avete creato in questi venti mesi di governo, dice Veltroni.
«Ma se Di Pietro ha litigato ininterrottamente con tutti, ha candidato De Gregorio, che è passato il giorno dopo alla destra, si è occupato di tutte le materie possibili e non delle infrastrutture. Quella del Pd è una scelta incomprensibile, se non come operazione meramente elettorale».
Non lo sarebbe stato anche con voi? Per dirne una, Veltroni sostiene che vanno riconfermate le missioni militari all’estero e voi chiedete il ritiro dall’Afghanistan.
«Oggi che non c’è l’accordo ciascuno è libero di esprimere la propria opinione. Ma vorrei ricordare che per due anni noi le missioni le abbiamo votate. Abbiamo pagato un prezzo davvero alto, anche nel rapporto con i nostri elettori, in nome della lealtà al governo».
Come pensate di ricostruire il rapporto di fiducia col vostro elettorato?
«Intanto, con questo messaggio di unità che viene dall’accordo raggiunto dai quattro partiti della sinistra. È la prima volta da decenni che invece di dividerci ci uniamo. Dopodiché, quello che farà o meno recuperare il rapporto di fiducia non sarà la campagna elettorale ma ciò che viene dopo».
Cioè?
«I nostri comportamenti, più che le parole. Vedo che sia il Pd che Fi dicono che la prossima legislatura sarà quella costituente. Noi non dovremo prestarci a nessuna manipolazione della Costituzione, ed anzi dovremo fare su questo un’opposizione di grandissimo rigore».
Parla come se fosse sicuro che dal voto di aprile nascerà un governo di larghe intese.
«Infatti, è quello che penso».
Veltroni ha già smentito più volte.
«Faccio una scommessa con i lettori dell’Unità: conservate questa intervista e vediamo dopo le elezioni chi aveva ragione».
Perché tanta sicurezza?
«Questa legge elettorale produrrà di nuovo un Senato con una maggioranza risicata. Chiunque vinca, i due poli più grandi dovranno intendersi, o in un governo insieme o in forme di collaborazione molto stretta».
Ci saranno desistenze in alcune regioni?
«Impossibile, visto che il Pd ci ha messo alla porta. A questo punto la Sinistra deve correre da sola, ovunque, fare una battaglia anche in modo aspro e prendere il maggior numero di voti possibile. Proprio per impedire lo scenario peggiore dopo».
Che ne pensa della proposta di Veltroni di un compenso minimo di mille euro per i precari?
«La proposta di dare più soldi ai precari è sacrosanta, ma avrei preferito che l’avesse fatta il Pd al governo. Noi glielo abbiamo chiesto più volte. E poi c’è un’altra questione, e cioè non può esserci uno scambio del tipo: più soldi in cambio del precariato a vita. La condizione del precario in sé, indipendentemente dagli emolumenti, è inaccettabile perché è la privazione del futuro. Io sono perché non ci sia il precariato. È una cosa strategicamente diversa».
Dopo il voto ci saranno alla Camera e al Senato i gruppi unici della Sinistra arcobaleno?
«Dipende da cosa ci dirà il voto, cioè da cosa il nostro popolo ci dirà di volere o non volere. Per quanto mi riguarda sono determinatissimo a proseguire nel processo unitario, nelle forme che saranno possibili. Dopodiché, vediamo se viene premiato o meno questo esperimento».
Esperimento che prevede la scomparsa della falce e martello.
«Avevo proposto di mantenere anche i simboli tradizionali, ma sono stato sconfitto. Lo considero un errore. Spero di sbagliare, ma lo giudico un errore anche dal punto di vista elettorale».
Comunque la falce e martello è destinata a scomparire, se proseguirà il processo unitario, non crede?
«Questa ipotesi è semplicemente inesistente, perché la falce e martello rimane il simbolo del mio partito, che non ha nessuna intenzione di sciogliersi».
Magari non oggi, ma un domani?
«Per l’attuarsi di un’ipotesi di questo genere i Comunisti italiani dovrebbero prima cambiare segretario».
Veltroni parla di un patto tra lavoratori e imprenditori per la crescita del Paese: che ne pensa?
«L’idea dell’annullamento della lotta di classe in nome di un interesse comune, presunto, di lavoratori e padroni non sta né in cielo né in terra, perché hanno interessi contrapposti, non comuni».
La crescita economica non può essere un interesse comune?
«Dal punto di vista delle tesi padronali la crescita passa attraverso un azzeramento dei diritti del lavoro».
Sosterrete Bertinotti premier: una rivalutazione, dieci anni dopo la scissione?
«È il personaggio della sinistra oggi più autorevole, tra i diversi leader che ci sono in campo, io lo avevo candidato a fare il capo di un processo di unificazione della sinistra la bellezza di tre anni fa. Oggi non vedo più le ragioni di una divisione tra due diversi partiti comunisti. Le motivazioni della scissione erano innanzitutto nel rapporto con il centrosinistra. Che oggi non c’è più».

l’Unità 16.2.08
Cassino, l’Università invita il Papa: 27 docenti contestano


La visita del Papa alle università italiana continua a generare polemiche. L'invito rivolto da Paolo Vigo, rettore dell'università di Cassino, e da Francesco Scalia, presidente dell'Amministrazione provinciale di Frosinone, al pontefice, ha generato polemiche in merito alle modalità con le quali il Papa è stato invitato. In un lungo comunicato firmato da 27 docenti della facoltà di lettere si legge: «Abbiamo appreso dell'invito a tenere una “lectio magistralis” presso l'ateneo di Cassino che il rettore, professor Paolo Vigo, e il presidente dell'Amministrazione provinciale di Frosinone, avvocato Francesco Scalia, hanno congiuntamente rivolto, per il tramite dell'Abate di Montecassino, al Pontefice Benedetto XVI. Non intendiamo discutere il merito dell'iniziativa, convinti come siamo che l'università possa e debba ospitare anche le voci più autorevoli e significative della cultura religiosa, quale che sia il credo confessionale che esse rappresentano. Perplessità e disappunto, tuttavia, hanno suscitato in noi le procedure». I docenti lamentano il fatto che «un'iniziativa in cui è coinvolto l'intero ateneo cassinate sia stata promossa e realizzata di concerto con un'autorità amministrativa ad esso estranea». Peraltro, dicono, «si direbbe che il testo della lettera di invito ufficiale contenga severe note di biasimo per quei colleghi dell'università “La Sapienza” che avevano dissentito con il loro Rettore per la scelta di affidare al Papa la lezione inaugurale dell'anno accademico». «Per queste ragioni, non possiamo sentirci rappresentati dal tenore irrituale dell'invito rivolto dal Rettore e dal Presidente della provincia di Frosinone a Benedetto XVI. Siamo infatti convinti che l'indiscussa autorevolezza del destinatario e il giusto rispetto per la sua figura avrebbero dovuto suggerire sobrietà e pacatezza e non istanze di natura polemica».

l’Unità 16.2.08
Seifert, detto «Misha», tra il ‘44 e il ‘45 terrorizzò i campi bolzanini e di Fossoli
Ss, estradato il «boia di Bolzano»


Lui è il «boia di Bolzano». Le autorità giudiziarie canadesi lo consegneranno nelle mani della polizia italiana, al più tardi domani. Funzionari dell’Interpol di Roma notificheranno a Michael «Misha» Seifert, l’ex criminale di guerra nazista, l’atto di estradizione e lo prenderanno in consegna. Successivamente, Seifert verrà trasferito in un carcere militare a disposizione della Procura militare di Verona. Nel novembre 2000 si è concluso con una condanna all’ergastolo pronunciata da Giovanni Pagliarulo, presidente del Tribunale Militare di Verona, il processo a carico dell’ex Ss, residente a Vancouver (Canada), al numero 5471 di Commercial Street. Un processo storico, che ha fatto rivivere un’epoca di dolore e di sofferenze inenarrabili per migliaia e migliaia di deportati nei campi di Fossoli e di Bolzano. Michael Seifert altri non è infatti che il giovanissimo, sanguinario «Misha», che con l’inseparabile «Otto» (Otto Sein, «irrintracciabile» oggi per la giustizia italiana) seminò il terrore tra i deportati. Tra i testimoni ancora in vita delle torture di Seifer il più noto è Mike Bongiorno. «Misha» sarà direttamente trasferito nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). «Si tratta - ha osservato il capo della procura militare di Verona Bartolomeo Costantini - di un’esecuzione di pena che non prevede interrogatori». Costantini tuttavia nelle prossime settimane interrogherà in carcere Seifert come testimone nell’indagine su Sein, accusato d’essere coinvolto nell’uccisione di undici prigionieri nel campo di Bolzano. Il procuratore capo di Verona non esclude che viste le condizioni di salute di Seifert e soprattutto considerata la sua età avanzata, lo stesso ex nazista possa uscire presto dal carcere. La sua destinazione in questo caso potrebbe essere quello dell’affidamento a una famiglia o un’associazione. «Sapere che la giustizia colpisce i colpevoli anche dopo tanti anni può dare speranza a chi oggi soffre di ingiustizie» ha detto Federico Steinhaus della comunità ebraica di Merano.

l’Unità 16.2.08
Pedofilia, crimini e dolore
di Luigi Cancrini


Le notizie che arrivano sono secche e, in qualche modo, disorientanti. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, aumenta il numero delle persone accusate di aver frequentato dei siti pedopornografici. Più piccolo ma significativamente in aumento è, ugualmente, il numero degli arresti legati alle perquisizioni domiciliari che seguono l’identificazione degli stessi accusati: a carico, soprattutto, di quelli fra loro che sono passati dai bambini della rete a quelli che vivono accanto a loro; fotografando o filmando i loro «giochi» ed utilizzando le loro fotografie o i loro filmati per guadagnare dei soldi o per fare degli scambi.
La cosa terribile, tuttavia, è l’abitudine che tutti stiamo facendo a queste notizie. Il modo in cui cominciamo a considerarle «normali»: parte integrante del villaggio globale in cui viviamo. Ieri per fortuna c’è stata l’eccezione di Walter Veltroni che ha lanciato la sua proposta sulla pedofilia.
Ragionare è importante dunque. Dicendo, prima di tutto che denunce e arresti in così rapido aumento sono il frutto di una attività meritoria della nostra polizia postale e dei suoi collegamenti sempre più forti con le polizie europee (Europol) e di tutto il mondo (Interpol). I commerci legati alla pedopornografia sono naturalmente sovranazionali, contrastarli efficacemente chiede una organizzazione di questo tipo e il fatto che l’Italia si sia dotata oggi di un Centro apposito, di altissimo livello tecnologico ed organizzativo, fa pensare che denunce ed arresti continuano ad aumentare nei prossimi mesi ed anni. Aprendo scenarii su cui è importante riflettere con attenzione.
Il primo, importante e tutto ancora da impostare, è quello che riguarda gli accusati. Individuarli è possibile, punirli pure. Che cosa si può fare tuttavia per curarli? Per aiutarli e liberarsi da un bisogno così innaturale, cioè, e per evitare che, usciti dal carcere, tornino a fare le stesse cose? Studiati dal punto di vista psicopatologico i pedofili sono persone affette da un disturbo grave della loro personalità: di tipo compulsivo (l’attrazione "fatale" di quelli che agiscono in modo irrefrenabile i loro comportamenti sessuali in associazione ad un restringimento temporaneo dello stato di coscienza) o di tipo sadico e perverso (il bambino è uno strumento fra gli altri per la soddisfazione di un bisogno intriso di rabbia e di distruttività che non riguarda solo i bambini). Quello che è importante per capire quello che sta accadendo ora, tuttavia, è il fatto che questi personaggi sono più o meno gravi a seconda della facilità con cui i loro comportamenti sintomatici vengono evocati. L’accesso (facile) ai siti costituisce per molti di loro, dunque, l’occasione per incontrare uno stimolo capace di liberare delle parti malate che non avrebbero mai avuto modo di manifestarsi se questo incontro non ci fosse stato. Le radici del loro comportamento patologico sono collegate alle loro esperienze infantili, d’altra parte, e un progetto di cura degno di questo nome dovrebbe tenere conto di questa duplice esigenza: della necessità di contenerli con delle misure che siano insieme giuste ed indispensabili e della necessità di ascoltarli aiutandoli ad esorcizzare i fantasmi che si agitano dentro di loro. I loro reati devono essere prima di tutto puniti, infatti, per aiutarli a rendersi conto sul serio di quello che hanno fatto: contrastando quelle distorsioni cognitive, comuni a tutti i pedofili, che si manifestano con la loro speciale capacità di negare o di minimizzare il danno arrecato alle vittime, di spostare le responsabilità a fattori situazionali diversi, di credere e di diffondere l’idea per cui quello a cui piace fare sesso con l’adulto è prima di tutto il bambino. Quella cui bisogna anche arrivare nel corso di un lavoro terapeutico che non può fare a meno della punizione e della costrizione, tuttavia, è una relazione umana forte che li metta in grado di entrare in contatto con il dolore che tutti i pedofili si portano dentro: un dolore legato abitualmente a quello che loro stessi hanno vissuto da piccoli e da cui disperatamente tentano ancora di allontanarsi. Anche se siamo assai lontani, oggi, dalla possibilità di fare qualcosa di questo genere perché nei processi tenuti contro i pedofili nulla si fa abitualmente per valutare la loro psicopatologia (e la loro, conseguente, pericolosità) e perché l’intervento psicoterapeutico di cui avrebbero bisogno non è immaginato come possibile e come necessario nelle carceri in cui sono rinchiusi né all’interno delle altre misure: punitive o cautelari.
Il secondo, altrettanto inquietante e ancora più angoscioso, è quello che riguarda le vittime. Fioriscono infatti le denunce dei siti pornografici ma rarissime restano le condanne per chi sfrutta sessualmente i bambini.
Come se virtuali fossero stati davvero fin dall’inizio i bambini esposti nei siti mentre i pochi di loro che riescono a farsi ascoltare denunciando vengono a trovarsi troppo spesso avviluppati all’interno di processi incredibilmente lunghi e complicati: dove il maltrattamento dei violentatori viene replicato da quello, freddo ma altrettanto violento degli avvocati difensori e dei periti di parte. Mentre in nessun modo è riconosciuto, da uno dei sistemi sanitari più ricchi e più dispendiosi del mondo, il loro diritto ad essere curati sul serio: con una psicoterapia, voglio dire, in grado di aiutarli ad elaborare il trauma che hanno subito. A far riprendere loro una vita normale. A tenerli lontano dal rischio di trasformarsi, quando cresceranno, in adulti a loro volta maltrattati e abusati.
Eravamo arrivati all’interno di un gruppo della Commissione Bicamerale per l’ Infanzia che io stesso ho coordinato e che si occupava di violenze sui minori ad elaborare proposte serie e largamente partecipate (bipartisan, come si dice oggi) per tentare di dare risposta a tutti questi problemi. Il lavoro che ci aveva visto tutti d’accordo si è scontrato però con l’indifferenza sostanziale di chi, dall’interno di una visione economicista dello stato sociale, ci ha detto che i provvedimenti da noi auspicati costano troppo. I bambini non votano, dico io oggi con amarezza, ed è per questo che su questo tipo di problemi e di proposte nulla ancora abbiamo sentito e poco sicuramente sentiremo in una campagna elettorale in cui la voce dei più deboli non è destinata a trovare lo spazio necessario. A meno che non si riesca, questa almeno è la mia speranza, ad intendere ed a riconoscere, almeno da chi ha idee di sinistra, il legame forte che c’è fra il conflitto di classe e l’ingiustizia sociale: quella che si consuma sempre più sfacciatamente nei confronti dei bambini trasformati in oggetto di sfruttamento sessuale. Quella cui rischiamo di abituarci davvero se non faremo in fretta cose che, volendo, è possibile fare.

l’Unità 16.2.08
Storia dell’elettroshock dal macello al manicomio
di Cristian Fuschetto


UN GRUPPO DI PSICHIATRI chiede alla ministro della Sanità, Livia Turco, di riabilitare la terapia elettro-convulsivante. Inventata da Cerletti nel ’38, ha avuto grande fortuna negli Stati Uniti grazie alle assicurazioni sanitarie

«Sdoganare» l’elettroshock. Questa in estrema sintesi è la richiesta che il prossimo 21 febbraio a Roma, in occasione dell’inaugurazione del loro congresso nazionale, gli psichiatri italiani ufficializzeranno al Ministro della Salute Livia Turco. Intanto tra gli specialisti, capeggiati da nomi di prim’ordine, come quelli di Giovan Battista Cassano, Giulio Perugi, Mario Guazzelli, Paolo Girardi, Roberto Delle Chiaie, Giuseppe Bersani, Alessandro Rossi, Giovanni Muscettola, Athanasios Koukopoulos, Carlo Magini e Marcello Nardini, è già partita una petizione per chiedere fondamentalmente due cose, una di ordine strutturale l’altra di ordine culturale: la prima è l’aumento dei centri clinici autorizzati a praticare l’elettroshock (oggi in Italia sono nove le strutture dove è possibile praticarlo, sei pubbliche e tre private); la seconda è un cambiamento di rotta nella percezione pubblica della cosiddetta terapia elettroconvulsivante (Tec). In effetti, se è vero che nell’alveo delle scienze mediche quella psichiatrica rappresenta probabilmente il sapere più discusso, non c’è dubbio alcuno che di questo sapere l’elettroshock rappresenta la pratica assolutamente più controversa.
Del resto, pur non volendo scomodare Michel Foucault e le sue celebri analisi sul «potere psichiatrico» e sulle sue pratiche di «normalizzazione», la letteratura e la filmografia hanno sistematicamente narrato negli ultimi decenni storie di folli, o presunti tali, (mal)trattati da psichiatri-aguzzini che brandiscono elettrodi come strumenti di tortura, fortificando così nell’immaginazione collettiva l’elettroshock come una sorta di icona dell’arbitrio esercitato dalla società nei confronti di chi non riesce o, magari, di chi non vuole «normalizzarsi» alle sue regole. Tant’è vero che risulta quasi impossibile narrare la storia di questa terapia psichiatrica senza incrociare le infinite letture che via via sono state fatte sui suoi ambigui effetti sociali, nonché su quelli, non meno ambigui, sulla dignità del paziente.
Ebbene, l’idea di utilizzare l’elettricità per generare delle convulsioni nel cervello di un malato psichiatrico è di un italiano. Fu il professore Ugo Cerletti, docente di neuropsichiatria a Genova e poi a Roma, a sperimentare per la prima volta nell’aprile del 1938, insieme al suo collega Lucio Bini, la terapia elettro-convulsivante su un paziente affetto da schizofrenia con sintomi di delirio, allucinazione e confusione. In effetti è la stessa genesi di questa terapia a contribuire alla sua cattivissima fama: l’idea di utilizzare la Tec su pazienti neuropsichiatrici gli venne dopo aver osservato alcuni maiali che venivano anestetizzati con una scarica elettrica prima di essere condotti al macello. È per questo che per descrivere gli esperimenti del neuropsichiatria la formula più usata è «dal mattatoio ai manicomi». Comunque, anche grazie a Bini, negli anni successivi la tecnica dell’elettroshock fu affinata e resa più affidabile, soprattutto per il trattamento delle psicosi maniaco-depressiva e dei casi più gravi di depressione. Il lavoro di Cerletti e dei suoi allievi ebbero un’influenza notevole, tanto che l’uso della terapia si diffuse velocemente in tutto il mondo. Inizialmente la terapia veniva praticata su pazienti coscienti, senza uso alcuno di anestesia o di rilassanti muscolari. Per questo non erano rari, anzi tutt’altro, i casi in cui i pazienti perdevano conoscenza durate la seduta subendo, inoltre, anche delle fratture a causa delle violente contrazioni muscolari incontrollate.
Grazie al miglioramento del trattamento farmacologico delle malattie mentali e, soprattutto, sotto i colpi della contestazione del movimento di riforma psichiatrica capeggiato da Franco Basaglia, che vedeva nell’elettroshock solo uno strumento di degradazione del malato psichiatrico, uno dei metodi più efficaci per trasformare il malato da «persona a cosa», la Tec cade progressivamente in disuso negli anni Sessanta e Settanta.
Curioso e significativo al tempo stesso è la sua rivalutazione negli anni Ottanta, quando la terapia ha conosciuto una fase di espansione e di rivalutazione soprattutto in America. Curioso perché a dettare l’inversione di tendenza non furono progressi medici. Significativo perché questa inversione fu invece dettata da trovate assicurative. Le compagnie di assicurazione, infatti, introdussero nei contratti una clausola in base alla quale esse avrebbero pagato agli assicurati il ricovero per non più di sette giorni, decorsi i quali la copertura assicurativa sarebbe scattata solo nel caso di necessità di interventi maggiori, quali per esempio quelli chirurgici. Il fatto è che in psichiatria l’unico intervento maggiore che avrebbe giustificato la prestazione assicurativa anche oltre i primi sette giorni di ricovero era appunto l’elettroshock. Oggi è impiegato nel trattamento dei casi in cui ha dimostrato un’utilità certa (casi tra i quali non figura la schizofrenia) previa somministrazione di anestetici e rilassanti muscolari per controllare le convulsioni.
Nel 1996 l’allora ministro della Sanità Rosy Bindi, con una circolare che venne soffocata dalle polemiche, provò a reintrodurla nella prassi dei trattamenti terapeutici. Ma senza risultati di rilievo. Così come non ha prodotto alcuna conseguenza importante, nemmeno nell’ambito del più ampio dibattito culturale, il parere positivo espresso sull’impiego della Tec dal Consiglio Nazionale per la Bioetica, che nel 1995 affermava che «pur auspicando la prosecuzione della “ricerca di vie alternative” ad una terapia “storica” come la terapia elettroconvulsivante, il Cnb, richiamando la particolare rilevanza etica dei principi generali in materia di consenso informato, ritiene che non vi siano motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica».
Vedremo se a determinare l’inversione di tendenza tanto auspicata da questa nuova generazione di psichiatri riuscirà la petizione appena presentata al Ministro Turco. Di certo, a prescindere da ogni conclusione, quel che appare indubbiamente condivisibile è che su questi temi si riesca a costruire un autentico dibattito pubblico.

l’Unità 16.2.08
Col miraggio dell’efficienza non si aiutano i malati
di Emilio Lupo


La richiesta avanzata da alcuni psichiatri italiani al Ministro per la Salute di riproporre la pratica dell’elettroshock per le forme di depressioni gravi, sostenendo che sarebbero irrilevanti gli effetti indesiderabili (sic!), oggi, desta viva preoccupazione. Per certi versi, questo tentativo di riproporre la Tec (Terapia Elettro Convulsivante!) come una sorta di nuova tecnica terapeutica che dovrebbe essere sdoganata - così abbiamo letto sulla stampa - dai vincoli culturali e politici in cui è rimasta prigioniera ci sembra un déjà vu. Un già visto che non deve meravigliarci, affatto: esso è soltanto una sorta di rituale che - periodicamente - si ripropone all’opinione pubblica ed al mondo politico, di volta in volta con piccole modifiche che tentano (invano) di umanizzare un presunto nuovo intervento ma il cui obiettivo, resta, quello di provare a fermare l’avanzata inarrestabile della diffusione di pratiche di Salute Mentale di Comunità di cui è sempre più ricco il nostro Paese; e che si oppone, costantemente, al potere delle lobby farmaceutiche internazionali e dell’ideologia scientista che tende a riproporre - nei fatti - la custodia e cura e l’ideologia della segregazione di cui le pratiche di shock costituivano i forti cardini.
Per sostenerne la bontà dell’iniziativa si citano le postazioni attrezzate per praticare la Tec in diversi Paesi europei dalla Germania al Belgio come della Gran Bretagna e dell’Olanda senza peraltro indicarne i risultati eventualmente ottenuti. Queste premesse, che per alcuni versi ci inquietano, stimolano alcune brevi considerazioni:
a) Il contesto in cui si è andata sviluppando ed affermando l’intera esperienza italiana, la sua cospicua legislazione nazionale e regionale oltre che il sapere diffuso che è maturato negli ultimi trent’anni qui e in questo settore, non sembrano essere paragonabili alle esperienze dei succitati Paesi nell’ambito delle pratiche territoriali.
b) La riproposizione delle pratiche di shock sottende, a nostro avviso, per l’ennesima volta il mito della incurabilità delle malattie mentali e, di conseguenza, sia la cultura che la prassi che ne conseguono.
c) La Tec resta un trattamento del tutto empirico che faceva dire già nel 1995 al Comitato nazionale per la Bioetica che «la psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale…».
d) L’assetto operativo di cui si è dotato l’Italia - innovativo per i luoghi e le pratiche di Salute Mentale - non ha fatto assolutamente rimpiangere queste vecchie pratiche e, questo, particolarmente dove il prendersi cura è stato correttamente e puntualmente realizzato anche attraverso l’impiego di risorse umane ed economiche adeguate ai bisogni dell’utenza.
f) Non possiamo non essere che preoccupati - e molto - che la logica di un mero efficientismo, connotato anche come antiideologico, che si vuole introdurre oggi, tenderebbe ad ignorare i diritti degli utenti ed il loro protagonismo che resta fondamentale per qualsiasi pratica: ogni altro percorso provocherebbe la mortificazione della soggettività che l’esperienza italiana ha reso reale e tangibile in tantissime parti della penisola.
Psichiatria Democratica, ribadisce il pieno e totale dissenso nella riproposizioni della Tec per quanto fin qui esposto. Da ultimo si appella agli operatori impegnati nelle diverse articolazioni funzionali della sanità, alle associazioni di utenti e di familiari, al mondo della Università, della ricerca e della cooperazione sociale, del lavoro, della politica e dell’informazione acchè si sviluppi e cresca un impegno collettivo per potenziare i servizi del territorio - con tutte le risorse necessarie - capaci di realizzare in maniera sempre più diffusa corrette pratiche di presa in carico globale.
Questa proposta, infatti, secondo Psichiatria Democratica rappresenta l’ennesimo attacco alla legge di riforma, peraltro già tentato con la proposta Burani-Procaccini dal governo di centro destra, e ciò a soli due mesi dalla competizione elettorale.
di Psichiatria Democratica

l’Unità 16.2.08
Amselle: La rinascita delle identità ci porterà allo scontro sociale
di Marco Innocente Furina


La rivolta delle banlieues non dipende da motivi etnici ma dalla marginalità
In Francia con la fine dei comunisti nessuno si occupa più di integrazione

Jean-Loup Amselle è seduto dietro un lunga cattedra in legno e guarda l’aula Uno della Facoltà di Scienza della Formazione dell’Università di Roma Tre che si va lentamente riempiendo. Il direttore dell’Ecole des Hautes etudes per le scienze sociali di Parigi e caporedattore dei Cahiers d’etudes africaines si sta preparando a tenere la sua Lectio magistralis dal titolo “L’etnicizzazione del sociale”. «Con la morte delle ideologie - spiega l’antropologo francese - sono venute meno anche le grandi “narrazioni”, quella marxista, incentrata sulla lotta di classe, ma anche quella illumistico-repubblicana, e questo ha comportato la risorgenza, la rinascita delle identità. In altre parole le identità verticali (etniche, ndr) hanno preso il posto di quelle orizzontali. Ovvero delle identità di classe».
Il suo ultimo libro, pubblicato in Italia da Maltemi si chiama L’invenzione dell’etnia. Il rischio, secondo lei, è quello che i rapporti sociali si “biologizzino”?
«L’identità etnica è un concetto che si sviluppa in Europa e in Francia con l’imporsi dell’idea di razza, specie quando si parla di minoranze come le persone di colore o gli arabi. Minoranze che si presumono oggetto di discriminazione e che dunque bisogna promuovere e aiutare per migliorane la condizione».
Le identità razziali si sostituiscono alle classiche rivendicazioni sociali...
«Nei “trenta gloriosi”, gli anni che vanno dal ‘45 al ‘75, l’integrazione degli immigrati è stata portata avanti in Francia dal Partito comunista e della Cgt (confederazione generale del lavoro). Ora il partito comunista è quasi sparito e la Cgt ha perso buona parte del suo peso e quindi questi strumenti di integrazione non esistono più. Inoltre con la fine dello Stato-provvidenza, il pubblico lascia l’assistenza di coloro che si trovano in situazioni marginali a organizzazioni di quartiere, le quali non fanno altro che rinforzare le identità etniche e religiose. Ecco, intendo questo quando parlo dell’etnicizzazione del sociale».
A questo proposito lei ha parlato anche di «biopolitica».
«In Francia, con la vittoria di Sarkozy, lo Stato si sta trasformando in uno Stato biopolitico. Praticamente l’unica forma di immigrazione legale è il ricongiungimento familiare. Per provare di essere figli di un immigrato legalmente residente sul territoro nazionale il governo Sarkozy ha proposto la prova del Dna. Si tratta di una chiara forzatura. Se si tiene conto che poligamia e adozioni sono fenomeni molto diffusi in Africa si comprende come sia un espediente demagogico e razzista. E poi c’è il problema dello stato di sorveglianza. Alcuni quartieri sono costantemente video sorvegliati. Si vive in uno stato d’assedio. Lo abbiamo visto in occasione dei moti del 2007 a Villiers-le-belle dove per controllare la protesta si sono mossi gli elicotteri da guerra».
Per restare in tema banlieues c’è anche chi ha dato la colpa di tutta quella violenza al fatto che i ragazzi scesi in strada venissero da famiglie poligame...
«Sì, si tratta di Hélène Carrère d’Encausses, un accademica che io ho duramente criticato. Sono affermazioni chiaramente razziste, senza contare che la poligamia è un fenomeno marginale in Francia. Riguarda non più di trenta mila famiglie».
Lei non pensa che ci possano essere delle culture più “problematiche”, degli immigrati che per una molteplicità di ragioni trovano maggiori difficoltà di integrazione?
«Nelle banlieues sono rappresentate tutte le etnie. Maghrebini, africani, turchi. E la stragrande maggioranza di questi sono oramai cittadini francesi da tempo. Non sono certo le loro caratteristiche culturali a farne degli esclusi. No, è razzismo e discriminazione. E questo non dipende tanto dal colore della pelle ma dal fatto che vivono in determinati quartieri. La vera soluzione è risolvere i problemi sociali».
Lei però oltre a criticare la «biopolitica» della destra è piuttosto severo anche con il multiculturalismo in voga a sinistra.
«C’è un’obiettiva convergenza tra l’idea di razza propagandata dalla destra e il multiculturalismo di matrice post-coloniale della sinistra. Entrambe, l’una per riconfermare l’identità nazionale bianca come dominante, l’altra per proteggere minoranze considerate deboli, cristalizzano, e pertanto eternizzano, differenze che invece sono solo sociali».
La rinascita delle identità è un rischio per le società del XXI secolo?
«Un pericolo c’è. Siamo entrati in una fase in cui i contrasti sociali come raccontati dalla filosofia politica del secolo scorso non ci sono più. Il pericolo è che i gruppi scendano in guerra l’uno contro l’altro. La soluzione è tornare a parlare di cittadini. Senza aggettivi».
Questa riscoperta dell’etnia non è una difesa contro la globalizzazione che ci vuole tutti uguali?
«Al contrario. L’etnia è del tutto funzionale alla logica del mercato. Non c’è contraddizione».
Come giudica il successo che nelle primarie democratiche sta ottenendo un candidato di colore come Barak Obama?
«Obama è un sostenitore di Sarkozy. Lo ha elogiato per la sua politica di riconoscimento delle diversità. Quale migliore prova che l’etnia ha scalzato il sociale dalla discussione politica?».

l’Unità 16.2.08
Il romanzo di Giancarlo De Cataldo
«Onora il padre» come una tragedia greca può essere oggi
di Domenico Cacopardo


«Viva fu l’emozione, alla fine del secolo scorso, quando la scuola antropologica inglese cominciò a denunziare sopravvivenze di uno stato primitivo nel pensiero e nella società in cui la civiltà occidentale aveva riposto senza inquietudini i propri principi e i propri valori. I greci che avevano...scoperto la Ragione...avevano potuto assaggiare carne umana e mangiare uomini come gli irochesi o i selvaggi della Melanesia? (Marcel Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Bari, 2007).
Ma è vero che anche oggi, nella società occidentale sublimata da duemila anni di evoluzione (evoluzione, non necessariamente progresso), è uso abbastanza comune nutrirsi delle carni palpitanti dei propri simili, in forma prevalentemente virtuale, certo, ma non per questo meno cruenta, dolorosa e devastante che tra i greci antichi, gli irochesi o i selvaggi della Melanesia. Con questo romanzo, Onora il padre, Giancarlo De Cataldo mostra come ciò possa accadere. Si tratta, evidentemente, di un romanzo, di una storia di fantasia (ma quante volte la realtà è più ardita della più ardita fantasia?) nel quale nessuna tesi precostituita, nessuna volontà didascalica è rintracciabile. Per fortuna: siamo sommersi da libri che intendono dare prova di sensibilità sociale, di solidarismo, di voglia di epatier le bourgeois, di spirito rivoluzionario da due palle un soldo nell’ottica che questi generi fanno trend e danno speranze di far quattrini, o da libri che ripropongono il modo mieloso, lialesco di raccontare più o meno drammatiche vicende rosa, con le quali le speranze di far quattrini sono infinitamente più ampie.
Onora il padre è un romanzo spesso, corposo eppure facilmente leggibile, godibile, che reca in sé germi antichi, di remota fattura, quelli che sono i fondamentali del teatro greco, penso in particolare a Euripide e alla sua Medea. Il tutto posto nella modernità contemporanea, senza che il richiamo ai motivi classici pesi e appesantisca un scrittura che è tutta costruita per brevi periodi, immediatamente percepibili, quindi, penetranti gli occhi e la mente del lettore. Una semplicità diretta che è figlia, evidentemente, di una sensibilità precipua (quella che Benedetto Croce definiva la poetica di un autore) e di un lavoro accurato.
Un libro scritto su due piani: le riflessioni, i pensieri di qualcuno che poi, alla fine, si capirà chi fosse, e il racconto vero e proprio. Con una funzione scenica precisa: quella di rappresentare la commedia mediante il suo lineare svolgersi e quella di spingere (vedi il coro nella tragedia classica) lo spettatore-lettore a comprendere l’incombere dell’evento drammatico la cui immanenza viene suggerita, non descritta. Insomma, per chi fa una lettura attenta il romanzo comporta un completo coinvolgimento emotivo. Gli eventi si susseguono e la loro drammaticità viene valorizzata da questa specie di controcanto intermittente, dolente e crudele, delirante e lucido, suonato con toni ora gravi ora acuti, come un’orchestrazione completa, si direbbe ai nostri tempi, interattiva.
Tutto nasce intorno all’assassinio di Francesca Maltese, avvenuto a Rimini, e all’invio in missione in questa città di Matteo Colonna, commissario milanese, specialista in casi disperati.
Certo, la storia non può essere raccontata, pena di incidere sulla curiosità di chi si accinge ad affrontare Onora il padre, ma peraltro qualche immagine può risultare utile alla percezione di ciò che intendo. «Ippoliti...si era fatto portavoce dell’opinione comune...a Matteo le parole dell’agente tonto avevano ricordato una poesia letta tanti anni prima. Parlava di Adolf Eichmann, il nazista che aveva organizzato le camere a gas. Diceva: Occhi: medi; capelli: medi; peso: medio; altezza: media; segni particolari: nessuno...che vi aspettavate? Artigli? Incisivi fuori misura? Saliva verde? Follia?». E ancora: «Matteo si prese la testa tra le mani. Perché il quadro non gli tornava?» E: «Che strana coppia, pensò la gentile turista giapponese mentre l’immagine si fissava nel mirino della Minolta: un piccolo uomo avanti negli anni, dall’abbigliamento trasandato ma con l’aria raggiante, e un giovane alto, dinamico, un bel bruno mediterraneo dallo sguardo fosco ma con i lineamenti tirati».
Un bel romanzo, questo Onora il padre, che rende giustizia ancora una volta a Giancarlo De Cataldo e al suo successo, solido, perché fondato su un vocazione letteraria che precede la scrittura, nel senso di costituirne la imprescindibile premessa. A differenza di tanti altri, soprattutto di mestiere, capaci di ascendere per misteriose ragioni e commerciali classifiche e di occupare monitor (e non faccio nomi, sapete subito a chi pensare), De Cataldo costruisce il proprio successo sulla sapienza narrativa e letteraria, su una singolarità specifica, di cui questo romanzo è un’ulteriore piacevole attestazione.
www.cacopardo.it

l’Unità 16.2.08
Le apologie pro-Sarkozy di Glucksmann e le maledizioni dei pentiti: qual è la vera eredità di quell’anno
Quel ’68 che finì col premiare i suoi avversari
di Bruno Gravagnuolo


Povero André Glucksmann, nuovo filosofo ingrigito che vuol salvare il diavolo e l’acqua santa! Passato dall’area socialista a tifoso di Sarkozy, e senza neanche strapuntino bipartisan, si vide l’anno scorso mettere sotto accusa il «suo 68» dal Sarkozy che era andato ad applaudire al meeting di Bercy. E con le solite accuse di relativismo, anarchia, egualitarismo, egoismo etc. Oggi André torna alla carica, con un pamphlet scritto col figlio Raphael, per rivendicare a pieno il 68 disprezzato da Sarkò: Maggio 68 spiegato a Nicolas Sarkozy ( Denoel e in Italia Piemme). Con argomenti veri e in parte paradossali. Che non paiono altresì poter persuadere più di tanto Nicolas: diritti civili, antitotalitarismo, colpo al cuore al Pcf, cultura del dubbio, innovazione, mobilità sociale, tutti «frutti» del 68.
Insomma, doppio e triplo salto mortale di un trasformista brillante come Glucksmann, quantomeno non premiato in questo caso. Ma con qualche dignitoso scintillio in più rispetto al nostrano Adornato, sessantottardo e ingraiano in gioventù, poi progressista, indi liberal, centrista, forzista, di nuovo centrista (casiniano). E che di recente aveva stilato l’ennesima damnatio del maledetto 68 amorale, per venire, con l’ironico Berselli, scavalcato a sinistra da Gianfranco Fini. Il quale ha recuperato la spinta emancipatoria dell’anno maledetto, arrivando persino a criticare la destra di allora, chiusa e cieca dinanzi al «movimento».
Dunque paradossi e miserie di casa nostra e d’oltralpe, che nondimeno segnalano un problema aperto, di primario interesse storiografico e politico, e proprio con lo scoccare del «quarantennale». Oltretutto ci sarà pure un motivo, se reazionari vecchi e nuovi, inclusa purtroppo la Chiesa ufficiale, continuano a bombardare quell’anno come fomite di ogni male, da revisionare ed estirpare. E allora torniamo a chiederci: che cosa fu quell’anno? Che cosa ebbe inizio di lì e cosa di quell’anno perdura?
Innanzitutto a differenza di quel che vogliono farci credere gli zeloti moderati e magari ex sessantottini, il 68 non fu un’anomalia italiana, bensì un grande moto sovranazionale. Il primo irrompere della «globalizzazione» nel dopoguerra. Che incrinò lo strapotere dei blocchi geopolitici, segnò l’ingresso in scena del terzo e quarto mondo, e proiettò in vanti la generazione del «baby boom», che si smarcava dalle gerarchie e dai valori tramandati (ideologie, famiglia, etica della prestazione e del successo).
Fu un gigantesco sommovimento che partiva dagli Usa, sospinto dall’arte, dal cinema, e anche dal più vasto immaginario internazionale, legato ai consumi. E che s’alimentava da un lato della spinta al benessere figlio della «nuova frontiera» e, dall’altro, di spinte antiautoritarie e «post-materiali». Quelle di una generazione che volle scegliere il proprio destino. In complesso quell’onda produsse un grande spostamento a sinistra, contribuendo ad estendere ed ampliare il welfare occidentale. Ma anche ad allargare il mercato mondiale. Giungendo però a indebolire ad est le economie di piano e il loro ordine autoritario. E insieme, per controfinalità, a mettere in crisi l’economia del benessere, per la somma di consumi pubblici e privati che generarono inflazione. Di qui poi anche il contraccolpo neoconservatore, dalla metà degli anni 70, che diverrà «reaganismo» negli anni 80, con contorno di keynesismo militare e anarchia degli «spiriti animali» del mercato.
In Europa il 68 dura di più, per via di culture politiche di sinistra che lo mantengono vivo. E dura di più in Italia, per gli squilibri del paese. Per il mancato ricambio di governo e per l’anomalia italiana di «frontiera» tra i blocchi geopolitici in lotta: terrorismo, trame, estremismo, «doppio stato». Ma più in generale la sinistra, pur «tesaurizzando» il 1968 e le sue spinte, mancò ad un appuntamento chiave. Cioè, governare il nuovo mercato mondiale. Reinventare il mercato, socializzandolo in chiave partecipativa senza soffocarne l’efficienza. Con uno stato all’altezza, e strumenti di regolazione internazionale (il debole socialismo europeo...).
Sicché in definitiva il 1968, dopo 40 anni, resta un patrimonio di mentalità, di costume e di diritti (insidiati). Ma ha finito col beneficiare il dinamismo del ciclo capitalistico, e per essere tesaurizzato (oltre che «esorcizzato») dalle élites «libertarie» e neoconservatrici. Molte delle quali figlie del 1968. Di qui anche il «trasformismo», che è segno di un’inversione di egemonia a fronte di una sinistra liquefatta. Oltre che eterno ritorno all’ovile di spiriti piccoli e meno piccoli.

l’Unità 16.2.08
Incertezze della sinistra e dinamismo veltroniano
di Moni Ovadia


Il candidato della Cosa Rossa, l’attuale presidente della Camera Fausto Bertinotti, ha dichiarato in una delle tante interviste televisive volanti che un elettore di sinistra, alle elezioni anticipate del prossimo Aprile, potrebbe benissimo votare per il Partito Democratico, poi ha soggiunto: «Preferirei che votasse per noi, ma è del tutto possibile che voti per loro». Questa sola dichiarazione di poche battute scompagina uno dei topos favoriti del wishful thinking dei partiti della sinistra radicale, ovvero che il PD sia un partito di centro ed abbia abbandonato totalmente la propria cultura di sinistra. Questa idea è basata su una speranza ed è esile come tutte le speranze. Il PD non è semplicemente un partito di centro né tanto meno una riedizione della Democrazia Cristiana. È un soggetto politico nuovo che porta in sé problemi e contraddizioni che sono organici ad ogni nascita e ad ogni crescita. Inevitabilmente è gravato da alcuni retaggi che non sono stati ancora metabolizzati nella nuova prospettiva e solo i prossimi mesi ci diranno l’esito dei processi metabolici. Ciò che non è invece negabile è il fatto che il PD rappresenti l’unica vera novità originale e positiva nella politica italiana ed è un progetto lungimirante come dimostra la corsa al riallineamento di tutte le forze dello schieramento politico a destra come a sinistra. Tutti arrancano dietro al PD, chi per riaccreditarsi, chi perché non né può fare a meno. Con mio grande rammarico, perché io sono un uomo di sinistra, non posso fare finta di non vedere che la "Cosa Rossa" si è costituita in tutta fretta, solo perché messa alle corde dal PD, dall’indiscussa capacità del suo leader Walter Veltroni, dal caparbio tessere di Romano Prodi e dalla capacità delle loro squadre. Da molto tempo i partiti della sinistra dovevano unirsi con un progetto forte e limpido come ha fatto la sinistra tedesca. Le ragioni per costituirsi in una sola forza erano molto maggiori e fondanti di quelli che li portavano ciascuno a coltivare il proprio campicello. Molti simpatizzanti nutrivano su questo colpevole ritardo pesanti sospetti di autoreferenzialità, di derive narcisiste. Con il paese in mano a Berlusconi e alla sua corte dei miracoli, i lavoratori abbandonati all’arbitrio di furbetti, speculatori e rentier che tenevano bloccati i salari erodendo pesantemente il loro potere d’acquisto, i partiti della cosiddetta sinistra radicale si baloccavano con i simboli, le rigidità ideologiche e le rendite di posizione degli zoccoli duri, il tutto appoggiato su una strategia comunicativa retrò ed inefficace. Ora, anche chi non condivide in toto gli orientamenti strategici della nuova formazione deve riconoscere che il segretario del PD ha sia visione che missione ed esse per la prima volta si sinergizzano con una strategia comunicativa efficace e chiara. Vincente è la scelta di presentarsi soli dopo tanta irritante litigiosità. Particolarmente felice poi è lo slogan della scelta per un Paese e non per un partito politico e l’appello a quell’Italia reale con lo sfondo dell’Italia dei comuni fucina di cultura ed arte chiamata a raccolta dal’Inno di Mameli. Personalmente detesto i nazionalismi e le loro manifestazioni retoriche ma ho la piena consapevolezza che il nostro paese umiliato da una destra avventurista, demagogica e populista, involgarito dai suoi modi rozzi e fascistoidi ha bisogno di ritrovare la propria integrità nazionale anche simbolica. Di fronte al crescente dinamismo del partito democratico la sinistra deve, a mio parere avviare un profondo ripensamento autocritico e riprendere a guardare al presente ed al futuro con lungimiranza e spregiudicatezza. Non bastano parole d’ordine sacrosante a fare una politica che incida sulla realtà. È urgente trovare modalità comunicative che parlino alla maggioranza del paese. C’è una domanda impellente che non può essere elusa: perché partiti che si ergono a rappresentanti dei lavoratori e dei ceti deboli, ovvero della stragrande maggioranza del Paese, siano esigue minoranze. Ma ancorché minoranza potrebbero incarnare una visione forte e credibile se si qualificassero come leader di trasformazioni a beneficio dell’intera società. Per questo obiettivo è necessario rifondare il senso stesso della parola sinistra e la sua prassi politica.
Senza una vera rivoluzione concettuale e comunicativa la sinistra italiana corre il serio rischio di imboccare il malinconico declino di certa sinistra francese con un partito comunista finito allo 0,9% e tre partiti trotskisti ai quali non si sa se guardare come movimenti politici o folklorici.

Corriere della Sera 16.2.08
Il certificato Il primo ostacolo è ottenere il documento per l'Ivg Gli obiettori Sono 6 su 10. In Basilicata il 93 per cento
Aborto, la fuga delle donne
Interruzione di gravidanza, strutture in crisi «Attese e umiliazioni». E tante vanno all'estero
di Benedetta Argentieri e Simona Ravizza


«Le prenotazioni per la legge 194 sono esaurite. Riprenderanno il 19 febbraio dalle 11 alle 12». Così la segreteria telefonica dell'ospedale Macedonio Melloni, tra i più importanti di Milano. Inutile meravigliarsi. Prendere un appuntamento per interrompere la gravidanza è solo l'inizio dell'odissea che le donne devono affrontare per abortire oggi in Italia.
Un percorso a ostacoli tra ambulatori aperti solo un'ora alla settimana, accettazioni a numero chiuso, colloqui, visite ginecologiche ed ecografie che costringono ad andare in ospedale anche quattro volte, liste d'attesa che superano i 15 giorni almeno in un caso su due, l'insistenza dei volontari del Movimento per la vita in corsia, umiliazioni emblematiche come il cartello con la scritta «Interruzioni di gravidanza» appeso ai lettini delle donne in procinto di abortire al Niguarda, eliminato solo dopo l'intervento dei sindacati dell'ospedale milanese.
L'irruzione della polizia al Federico II di Napoli dopo un aborto terapeutico è la punta dell'iceberg di un fenomeno che spinge sempre più donne a rivolgersi a cliniche estere. In fuga dall'Italia per abortire.
I viaggi dell'aborto
« Are there a lot of italian women coming here?», « Yes. Lately even more ». Alla domanda se ci sono numerose italiane che prendono un appuntamento, la centralinista della Leigham Clinic non ha dubbi: «Si. Ultimamente sempre di più». La clinica a sud di Londra è diventata uno dei punti di riferimento delle donne che con 780 sterline possono interrompere la gravidanza nel giro di una settimana. Un numero che non ha eguali in Europa. Lo dimostrano le statistiche del ministero della Salute inglese. Con l'arrivo in Gran Bretagna di una donna ogni due giorni, l'Italia è in cima alla classifica dei viaggi per abortire, seconda solo all'Irlanda (dove le Ivg sono illegali a meno che non siano in pericolo la vita e la salute della donna). Avverte Vicky Claeys, direttore per l'Europa dell'International Planned Parenthood Federation, il network mondiale per la tutela della maternità e della salute sessuale con sede a Bruxelles: «Il clima che si respira in Italia è preoccupante. La legge c'è. Il problema è la sua esecuzione: abortire sta diventando quasi impossibile ». Due le conseguenze dietro l'angolo, almeno secondo Bruxelles: «Chi ha i soldi va all'estero, le altre rischiano di tornare agli aborti clandestini».
Tra i medici contattati spesso dall'Italia, ginecologi famosi come il londinese Kypros Nicolaides e il parigino Yves Ville. Le donne prendono il volo verso Londra e Parigi soprattutto per le interruzioni terapeutiche di gravidanza (quelle dopo i tre mesi, qui vietate di fatto dalla 24ma settimana). Ma sono in crescita anche quelle che si dirigono in auto in Svizzera per prendere la pillola Ru486 non ammessa in Italia e ottenibile in Canton Ticino con 400 euro.
«Ne arriva almeno una a settimana solo da noi — ammette il ginecologo ostetrico Jürg Stamm, balzato spesso all'onore delle cronache per la sua attività al centro di fertilità che guida all'ospedale «La Carità » di Locarno —. Io di solito aiuto le donne che vogliono un figlio e non riescono ad averlo. Ma l'Ivg non è un reato: perché, dunque, negare alle pazienti la possibilità di abortire senza entrare in sala operatoria?».
Anti-abortisti in corsia
Tra i motivi che spingono ad andarsene, anche le difficoltà con cui spesso deve fare i conti chi si rivolge agli ospedali. Al San Paolo di Milano gli appuntamenti per le Ivg vengono presi un'ora alla settimana il venerdì, dalle 13.30 alle 14.30. Al Buzzi di via Castelvetro gli sportelli sono aperti il mercoledì e il venerdì alle 7.30, ma la segreteria telefonica avvisa già: «Vengono accettate le prime 16 donne». Altra città, nuove situazioni. Agli ospedali Riuniti di Bergamo la sede del Movimento della vita è all'interno del reparto di Ostetricia e Ginecologia guidato dal 2000 da Luigi Frigerio (vicino a Comunione e Liberazione). Al San Matteo di Pavia se n'è appena andato via anche l'ultimo non obiettore: gli aborti li fanno due giovani con borsa di studio. A Desenzano c'è un solo medico che esegue le Ivg (quando è malato o in vacanza ne deve arrivare uno da fuori). Stesse scene anche fuori dalla Lombardia. Al Ca' Foncello di Treviso c'è un solo ginecologo su 15. E, proprio in Veneto, è atteso a settimane l'arrivo in consiglio regionale del progetto di legge di iniziativa popolare che prevede, tra l'altro, la presenza di volontari antiabortisti negli ospedali. Il consigliere di Alleanza Nazionale, Raffaele Zanon, ha chiesto di mettere in discussione la proposta subito dopo l'approvazione del Bilancio 2008.
Ancora. «In Basilicata la percentuale di camici bianchi che non praticano aborti è vicina al 93%, anche se i dati del ministero della Salute, fermi al 2005, li danno al 42% — denuncia il radicale Valerio Federico —. All'ospedale San Carlo di Potenza raggiungono la quota del 95%».
Le liste d'attesa
In Italia, insomma, in media sei ginecologi su dieci sono obiettori, con punte del 70% al Centro. «Così hanno più chance di fare carriera e diventare primari, ma i tempi di attesa per le pazienti si allungano», fanno notare al Ced, uno dei principali consultori laici di Milano. Per almeno una donna su due trascorrono più di due settimane tra il certificato del medico e la data dell'intervento. Il 25% deve aspettare fino a 15 giorni. E adesso con la fuga all'estero per le Ivg si rischia un déjà vu di quanto già successo con la fecondazione assistita (a quattro anni dall'approvazione della legge 40, «I viaggi per la provetta» sono al centro proprio oggi di un convegno organizzato da SOS Infertilità allo Spazio Guicciadini di Milano). Non finisce qui. C'è chi teme che mentre negli ospedali pubblici si moltiplicano le difficoltà per abortire, nelle cliniche private prendano piede le interruzioni di gravidanza clandestine. Mascherate da aborti spontanei. Da codice penale.

Corriere della Sera 16.2.08
Feto malformato
«Solo rinvii e dolore Mi hanno costretta a partire per Londra»
di B.Arg.

«Io lo amavo già. Sono arrivata al quinto mese di gravidanza e quel figlio lo volevo». Ma alla fine Veronica F., casalinga di 37 anni, a causa di una grave malformazione al feto, ha scelto di andare all'estero per un aborto terapeutico. Alla ventunesima settimana. «È stata l'ultima spiaggia. Prima di prendere appuntamento con una clinica inglese ho fatto tutti i passi richiesti dalla legge. Mi hanno fermato le lunghe liste d'attesa, i medici che temporeggiavano e le porte chiuse in faccia. Mi hanno trattato come se stessi per commettere un omicidio. Ma invece soffrivo». L'odissea di Veronica (il cognome non lo scriviamo per tutelare la sua privacy) è cominciata il 27 dicembre scorso, quando, durante un'ecografia morfologica all'ospedale Riuniti di Bergamo, ha scoperto che il feto presentava una spina bifida a livello sacrale e anche la sindrome Arnold Chiari di tipo 2, una malformazione rara del tronco encefalico, il sistema nervoso centrale. Una malattia che porta «nel 70 per cento dei casi alla morte nel neonato nei primi mesi di vita — dice la donna —. Il medico, mentre guardava lo schermo era vago. Dubbioso. Mi diceva 'forse c'è qualcosa'. E ha chiesto un consulto. Poi la verità. Mio marito ed io eravamo traumatizzati. Ci hanno rimandato da lì a 20 giorni. Con la richiesta di una risonanza». Dopo numerosi tentativi(«ci sono le feste»), «l'appuntamento al Buzzi, dove hanno confermato la diagnosi». Quindi è iniziato il calvario. «Non sapevo a chi rivolgermi. La mia ginecologa ha detto allora di essere obiettrice di coscienza. Si è rifiutata di aiutarmi». Al consultorio di Ostia (la donna è del Lazio e si è trasferita a Bergamo con il marito sette anni fa), la luce. «Mi hanno consigliato tre ospedali a Roma, uno a Brescia e infine due cliniche all'estero: una a Barcellona, l'altra a Londra». Nella capitale nessun aiuto: «Al San Giovanni mi hanno risposto che per l'intervento dovevo attendere trenta giorni. Avrei superato il termine consentito dalla legge. A Brescia non si volevano accollare il mio intervento. Certo, mi sarei potuta presentare. Ma non era il caso . Non sapevo più dove sbattere la testa». Quindi la decisione: Londra.
L'appuntamento «in una settimana». Poi il 7 gennaio la visita e la conferma. «La crescita del feto si era fermata quindici giorni prima, cioè alla diciannovesima settimana. Sarebbe morto». L'intervento è stato il giorno dopo. «Mi hanno addormentato. Non come in Italia che ti fanno il parto indotto. Non ho sentito nulla. Al risveglio avevo tutta la famiglia. Suoceri compresi». La donna si sente fortunata «perché ho avuto la possibilità economica di poter andare all'estero».
Per lei sarebbe stato il primo figlio. Al futuro non ci pensa. «Perché l'amore c'era già».

Corriere della Sera 16.2.08
Il caso di Ancona L'odissea di due donne
Tutte in fila in ospedale. Ma non c'è posto
Ambulatorio aperto un'ora alla settimana. L'appuntamento? Oltre il termine
di Alessandra Arachi

ROMA — Le storie di Anna S. e Claudia G. (il cognome lo conosciamo, ma la privacy è d'obbligo in questi casi) si sono incrociate a distanza, ignare. Tutte e due passano per l'ospedale di Ancona, il Salesi. Lo stesso giorno, due venerdì fa, l'8 febbraio.
Anna ci arriva stanca. Un test in farmacia già il 19 gennaio le ha annunciato: è incinta. E si sa che i test casalinghi sono dubbi soltanto se negativi. Ma il ginecologo è scrupoloso: servono le analisi del sangue. Che puntualmente confermano una gravidanza che Anna non vuole portare avanti. Non per lei: ha 37 anni e l'idea di avere un bambino la renderebbe felice. C'è però un problema molto molto serio: lo spiega bene, ma il ginecologo che la segue sembra non volere capire.
Le viene prescritta un'ecografia, il 23 gennaio. E un'altra ancora, il 5 febbraio: del bambino che porta in grembo si può sentire già lo sfarfallio del cuore, coltellate per le sue orecchie. Il ginecologo le illustra nei dettagli quella immagine del feto. Anna non può tenerlo quel bambino, implora un'interruzione di gravidanza. E finalmente arriva all'ospedale di Ancona, l'8 febbraio, di venerdì, l'unico giorno della settimana che al Salesi si possono fare le visite per l'interruzione di gravidanza.
Si mette in fila, prende il numeretto: il 2. Tre numeri dietro di lei c'è Claudia, una donna rumena: ha già due bambini e già per loro ha dovuto fare lo slalom con il lavoro precario. Il suo, e anche quello di suo marito, e a volte il lavoro lo ha pure perso perché aveva bambini, chi glielo aveva dato ha visto un handicap in quelle due creature ancora piccine. Non c'è posto per un terzo nel menage della loro famiglia.
All'ospedale di Ancona è arrivata alle otto per prendere il numero cinque della fila di una quindicina di donne che chiedono l'interruzione di gravidanza. Il suo turno arriva dopo un'ora.
Racconta adesso Claudia: «Sono entrata per la visita. La dottoressa mi ha chiesto a che settimana ero, quando ero rimasta incinta. Ero alla sesta settimana, il mio termine per l'interruzione volontaria di gravidanza scadeva il 20 marzo. Il termine di legge dei novanta giorni, intendo. La dottoressa mi ha guardato e mi ha detto: "Noi siamo pieni qui dentro, non abbiamo posto. Il primo posto libero lo avremo a partire dal 22 marzo prossimo"».
Tre numeri prima era toccato ad Anna. Stessa scena. Stesse domande. Stesse identiche risposte. O quasi. Perché i novanta giorni di legge di Anna scadevano una settimana prima, il 13 marzo. E puntuale, la dottoressa: «Purtroppo non abbiamo posto in ospedale, siamo pieni. Il primo posto si libera a partire dal 15-16 marzo».
A tutte e due è stato messo in mano un foglio con le strutture alternative della regione, Jesi, Ascoli Piceno. Anna non si arrende. È andata all'Aied e le hanno garantito che per legge ha diritto a reclamare l'intervento in ospedale entro una settimana. Ma la verità è che all'ospedale di Ancona deve aspettare una settimana soltanto per avere informazioni. «Per quel che riguarda l'interruzione di gravidanza si possono avere sempre e soltanto il venerdì, dalle otto alle nove del mattino», dice Anna. Che per telefono si è sentita replicare le stesse, desolanti ed inutili spiegazioni.

Corriere della Sera 16.2.08
Il ginecologo non obiettore
«A gettone da una sala operatoria all'altra»
di S. Rav.

MILANO — Tre anni da medico gettonista (una volta alla settimana in trasferta fuori orario in un altro ospedale per fare aborti), la decisione di andare in pensione a 58 anni: «Applicare la legge 194 mi ha complicato la vita e rovinato la carriera», confessa Pino Turconi, ginecologo all'ospedale di Tradate (Varese) per 31 anni, fino al maggio 2007. Negli ultimi tre anni ha fatto la spola con Busto Arsizio, avanti e indietro per quindici chilometri, ore in più di lavoro pagate a gettone per supplire all'assenza in corsia di non obiettori di coscienza. «L'azienda ospedaliera è la stessa — spiega Turconi —. Ma nessun medico assunto a Busto era disponibile a praticare le interruzioni di gravidanza. Così l'ho fatto io per entrambi gli ospedali. Un supplizio. Sono felice di essere andato in pensione soprattutto per non doverlo più fare». I più restii a eseguire le interruzioni di gravidanza sono i neolaureati: «Optano per una scelta più facile, indipendentemente dalle convinzioni morali — dice Turconi —. Chi li fa, invece di essere premiato perché svolge un lavoro in più poco appagante, viene penalizzato. È un'assurdità che spinge i giovani a rifiutare l'applicazione della 194. Per fortuna di recente, almeno a Busto Arsizio, è entrato in servizio un non obiettore. Ma resta un caso isolato».

La Stampa Tuttolibri 16.2.08
Heidegger. Finalmente tradotti i "Contributi alla filosofia", tsti degli anni 1936-38che segnarono la svolta del suo pensiero
Qui si assiste a un vero evento
di Marco Vozza


Nel 1989, l'anno della caduta delmurodiBerlino, uscìun libro postumo di Heidegger, uno dei più influenti e controversi filosofi del secolo scorso. L'attesa di una traduzione italiana è stata piuttosto lunga ma ora disponiamo di un volume di straordinaria densità teoretica e semantica (a cura di Franco Volpi) che presenta ben due titoli: uno pubblico e generico: Contributi allafilosofia ed uno più essenziale che mira all'identità stessa dell'essere: Dall'evento.
Dopo una «lunga esitazione», Heidegger concepì questo work in progress tra il 1936 eil 1938, anni segnati dal dominio europeo del nazionalsocialismo, successivi al fallimento dell'impegno politico del filosofo-rettore; la crisi non era soltanto di ordine sociopolitico («ovunque dilaga lo sradicamento») poiché coinvolgeva anche il ruolo della scienza (criticata da Husserl) e l'avvenire stesso della sua filosofia, ormai lontana dall'antropologia esistenzialista di Essere e tempo e avviata verso un problematico superamento dell'orizzonte metafisico di pensiero,sfociato nel nichilismo.
NELLA RADURA DELL’ESSERE
Dall'evento è l'esito più compiuto della «svolta» di cui Heidegger si fa testimone, del passaggio dall'analitica dell'esserci all'evento dell'essere, pur in una sostanziale unità tematica con l'opera del 1927. La svolta comporta un cambiamento radicale di direzione -o forse basta una «semplice spinta»- che permetta di giungere, attraverso vertiginosi tornanti, in quella «radura» in cui si svela e si insedia il senso o la verità dell'essere. Svoltare significa innanzitutto abbandonare il linguaggio tradizionale della filosofia e cercare di attingereall'essere senza avvalersi di determinazioni concettuali che lo renderebbero nuovamente imperscrutabile.
Entro tale discontinuità andrebbero però notati alcuni presupposti comuni tra Essere e tempo e Dall'evento: a) la filosofia è sempre ricerca del senso dell'essere; b) l'esserci è quell'ente che si rapporta all'essere in un rapporto di coappropriazione; c) il primato del futuro sul presente, del possibile sul reale; d) la verità è un orizzonte o radura che trascende gli enunciati conformi alvero; e) la finalità del pensiero è la salvaguardia della differenza ontologica; f) il presupposto di ogni svolta è la decostruzione rammemorante della storia della metafisica.
La meditazione sull'Evento porta a compimento dunque le questioni relative alla temporalità dell'essere e alla mortalità dell'Esserci in una prospettiva emendata dai limiti soggettivistici riscontrati nell'opera giovanile. La svolta non è tanto interna al pensiero di Heidegger quanto nella modalità di un salto che trasferisce i venturi nell'altro inizio.
L'ambizionedel filosofo tedesco è proprio quella di concepire e alludere per cenni all'altro inizio, dopo quello greco che ha dato origine alla filosofia: a decidere èl'Essere stesso attraverso una nuova donazione o manifestazione; il filosofo si limita a corrispondere a tale appello, lasciando avvertire l'eco della differenza ontologica per la quale mentre «l'ente è, l'essere permane» e disponendosi ad un ascolto rammemorante delle varie epoche della storia dell'essere. Sottratto al suo occultamento metafisico, l'essere riceve nella baluginante radura il suo carattere di Evento. Sgomento, ritegno e pudore sono gli stati d'animo fondamentali tra i quali oscilla il pensiero dell'altro inizio: una vibrazione che equivale ad unpresagio.
Evento è il termine meno compromesso con la metafisica tra i nomi con i quali designare l'Essere nel suo gioco di appropriazione espropriante con l'esserci. Pur attingendo al lessico kierkegaardiano (salto, ripetizione, aut-aut), Heidegger appronta un linguaggio di prodigiosa metaforicità (un dire trasformato difficilmente traducibile, talvolta enigmatico) che trasforma quasi la filosofia in un genere poetico e mantiene significative affinità con la teologia mistica, contrapponendosi alle finalità e allo stile propri della scienza, vituperato esito nichilistico che presiede all'epoca del calcolo imperante, nella cui rete metafisica sarebbe rimasto impigliato lo stesso Nietzsche.
«Rendersi intelligibili è il suicidio della filosofia»: questo il presupposto di un pensiero poetante ostile alla scienza e ad ogni teoria della conoscenza, di una versione moderna della teologia negativa che istituisce un regime di doppia verità, la quale corrisponde ai due inizi: quello greco, segnato dall'abbandono dell'essere a favore dell'ente, e quello preannunciato da Hölderlin, il guardiano dell'Essere «venuto in anticipo», il poeta nella cui opera si alternano apparizioni ed eclissi del divino, celebrato e custodito nella sacralità del poeta repensante. Accogliere l'evento è attendere «il lampo di Dio», la vibrazione di una epifanìa inconfigurabile.
STREGATI DALLA TECNICA
Quelledi Heidegger non sono parole così vaghe, seppur desuete: il progressivo oblìo dell'essere ha indotto l'umanità ad essere stregata dalla tecnica e dal suo effimero progresso; viviamo in una desolazione scambiata per concretezza che ha cancellato ogni traccia della domanda sul senso della nostra esperienza, ormai completamente assorbita in un regime di mobilitazione generale in vista della macchinazione tecnica, per la quale il denaro è l’equivalente universaledi ogni ente, di ogni prodotto destinato al consumo.
A tale contesto fa riscontro una filosofia che ricorre ai fatti come maschera della «vera realtà». Laricerca orientata al senso dell'essere richiederebbe invece un rifiuto di tale paradigma calcolante in nome della dis-misura, della gratuità del dono e di una sovranità senza potere. Ma a questo eventuale azzardo speculativo corrisponde la solitudine del «grande silenzio».
A testimonianza del persistente fascino esercitato dall'esistenzialismo -e non solo da quell otedesco ma anche da quello francese -sono comparsi i volumi quinto e sesto della collana di inediti sartriani presso Christian Marinotti.
Il primo, curato da Nestore Pirillo, contiene un importante scritto sul libero arbitrio pubblicato poco dopo la conclusione della Seconda GuerraMondiale: La liberté cartesienne. Dialogo sul libero arbitrio (pp.176,€15). Al secondo, Novelle e racconti. Pensieri e progetti degli Écrits de jeunesse (pp.402,€29), curato da Gabriella Farina, sono affidati gli scritti letterari del giovane Sartre, risalenti agli anni 1922-1927, all'epoca in cui, studente all'École Normale Supérieure, progettava di guadagnarsi da vivere come professore di filosofia per poter poi avere il tempo di dedicarsi alla letteratura. [F.V.]
Sono disponibili anche le lettere di Heidegger alla moglie Elfride: Amata mia diletta (Il Melangolo, pp.380, €28) curate dalla solerte nipote Gertrud. L'interesse di questa lettura è data sia da qualche aspetto della vita intellettuale: i rapporti con Husserl, Rickert, Gadamer, l'antipatia per Adorno e Grass, la perenne ammirazione per Hölderlin («un'esperienza nuova» già nel 1918), la costante diffidenza nei confronti degli scienziati; ma soprattutto per le rivelazioni sulla vita privata.
Sapevamo già tutto o quasi della relazione con Hannah Arendt ma da questo carteggio emergono altre figure di donne sedotte dall'amministratore delegato dell'essere, il quale - pur rendendosi conto del dolore arrecato - cerca di teorizzare ante litteram un modello di coppia aperta, per il quale le amanti costituirebbero un complemento virtuoso al rapporto di coppia con la moglie, «un aiuto più che un ostacolo». Gli amori sono «differenti per destino» ma Elfride, dapprime complice ora depressa, protesta per la fiducia tradita. Heidegger filosofo eticamente indegno? Scopriamo che la moglie - già nel 1920, tre anni dopo le nozze - aveva concepito il figlio Hermann con un altro uomo. Vi è materia per una soap opera! [M. V.]

Repubblica 16.2.08
La Bonino al Pd "Pronti all'accordo"
di Alessandra Longo


"Pronti alla coalizione con Walter poi gruppi unici e anche la fusione"
La Bonino sfida Veltroni: se dicono no potrei correre a Roma

ROMA. Non sono disposti a sciogliersi «dalla mattina alla sera, magari annunciandolo da "Porta a Porta" a iscritti, militanti ed elettori», ma sono «interessati, molto interessati» a partecipare alla sfida politica che il Pd offre al Paese.
«Lo abbiamo testimoniato persino con la proposta di Marco Pannella di candidarsi alle primarie. Proposta all´epoca respinta». Emma Bonino, dal suo ufficio di ministro del governo Prodi, chiarisce la posizione dei radicali e parla a Veltroni e ai suoi, nel giorno dell´assemblea costituente del nuovo partito: «Siamo disponibili per una coalizione, esattamente come quella sottoscritta con l´Italia dei Valori. Siamo anche favorevoli al gruppo parlamentare unico. Mi verrebbe da dire, anzi, con una battuta, che lo esigiamo. Non solo: diciamo sì a una fase costituente che decida, con i tempi e le regole condivise della democrazia interna, il processo di rafforzamento del partito democratico». Sorride, come una che s´è tolta un peso, ha detto tutto quello che doveva dire.
Ministro Bonino, ci faccia capire: siete disposti a chiudere la vostra storia e aprire un nuovo capitolo?
«Abbiamo 5000 iscritti, nessuna poltrona che conta nelle Asl, né altrove. Un processo politico che vada oltre il Porcellum ci vede più che interessati. Vede, nessuno ci deve conquistare al maggioritario o spiegare l´esigenza della semplificazione del quadro politico. Noi siamo sempre stati per il bipartitismo, addirittura all´anglosassone. Le leggo un nostro manifesto elettorale del 1994. C´è scritto: "Lista Pannella per il Partito Democratico". Questo per dire che le credenziali di un interesse per la costruzione del Pd ci sono tutte, sono nella storia e nella cronaca. Non c´è nessuna furbizia elettorale, ma una convinzione profonda».
Fino alla prospettiva di un vostro scioglimento?
«Ripeto, scioglierci oggi, con una telefonata o un annuncio televisivo, farebbe ridere. Ci vuole un processo, con regole certe e condivise, con un congresso di partito che decida la direzione di marcia».
Però non dice no all´ipotesi di una costruzione comune del Pd?
«Al contrario, interessa a me e a Marco e a tutti noi».
Le stavo appunto per chiedere di Pannella. Marciate uniti anche su questa posizione?
«Non ne posso più di rispondere a questa domanda. Io e Marco marciamo uniti da 30 anni. Possiamo dissentire nei dettagli ma mai sulle grandi questioni».
L´avete detto a Veltroni che siete disposti ad accettare le stesse condizioni concordate con Di Pietro?
«Ma noi non siamo rassegnati ad accettarle, auspichiamo di realizzarle. Il fatto è che nessuno ce l´ha chiesto, né tantomeno proposto. Siamo rimasti al nostro progetto di coalizione e all´offerta di Veltroni di metterci nelle liste del Pd, senza peraltro entrare nei dettagli di dove, come e quando. Walter si è riservato di fare lui a sua volta una proposta ma non è ancora arrivata. Oggi c´è l´assemblea costituente del partito. Saremo in ascolto, con grande attenzione».
Un po´ brutalmente, c´è chi, dentro il Pd, vi trova ingombranti. Ancora più brutalmente, può convivere la Binetti con la Bonino?
«Certo, io ho più similitudine sui temi della laicità con la Bindi che non con la Binetti. Ma mai mi permetterei di porre aut aut. Un grande partito ha dentro tante espressioni culturali che richiedono mediazione. Dentro il partito laburista inglese si va dai trotzkisti ai liberali».
Secondo lei, Veltroni subisce dei condizionamenti in questo senso?
«Non posso pensare che la senatrice Binetti o chi per lei pongano veti ad una storia come la nostra. E voglio suggerire una riflessione sulle manifestazioni delle donne in queste ore dopo la vergognosa vicenda di Napoli e le polemiche sull´aborto. Questo è il segno che l´Italia chiede altro, chiede rispetto per una politica laica. E´ dal 2001 perlomeno che, con Luca Coscioni, e poi con Piero Welby, e moltissimi altri, tentiamo di segnalare alcuni problemi profondi di questo Paese».
Non vi interessano le poltrone, il potere. Allora qual è la posta in gioco?
«La presenza nelle istituzioni italiane, di un rigore liberale e laico, autenticamente riformatore. E a questo proposito devo dire che ci ha fatto molto piacere l´appello a favore di una coalizione con noi che è partito da alcune personalità del Pd. Testimonia un grande calore nei nostri confronti e dimostra che c´è un sentire diffuso».
Senza di voi come sarebbe il Pd?
«Chiedetelo a loro! Io dico che sarebbe più chiuso e avaro, un po´ più giustizialista. E annegherebbe nel Tevere l´espressione più rigorosamente riformatrice in economia e nelle istituzioni».
Mettiamo che la vostra offerta cadesse nel vuoto. Che cosa farete?
«Non ci chiuderemo. Cercheremo di dar battaglia con le unghie e con i denti a partire da questo scempio della legalità e della legge rappresentato dalla gestione Raiset del dibattito e confronto politico in corso. Benché mi si appuntino addosso tante medaglie, che quasi ne soccombo, potrei anche essere un buon sindaco per Roma».

La Stampa 16.2.08
Buñuel, il genio degli alienati
di Gianni Rondolino


Il 1° ottobre 1929 allo Studio 28, la nuova sala cinematografica di Pa... rigi dedicata al cinema d'avanguardia e d'autore, viene proiettato Un chien andalou, il primo film di Luis Buñuel, realizzato con pochi soldi e molto entusiasmo, che ebbe subito un successo inaspettato, tanto da indurre il visconte Charles de Noailles a finanziarne un secondo da regalare alla moglie. E sarà la volta di L'age d'or che, uscito alla fine del 1930, sarà ritirato dalla circolazione e accusato di blasfemia. Così, nell'arco di un solo anno, il nome di Buñuel non solo fece il giro dell'avanguardia artistica e letteraria, ma si impose come il nuovo genio indipendente e iconoclasta, provocatorio e rivoltoso del cinema mondiale. Non foss'altro perché il suo sguardo cinematografico si posava su luoghi e personaggi che provocavano una reazione di rigetto, si ponevano come antagonisti alla morale comune e persino alla razionalità di una narrazione conseguente. Il suo stile disadorno e immediato, le sue immagini dirette e concrete, la mescolanza di sogno e realtà, colpivano per la novità linguistica e la violenza formale. Di qui l'entusiasmo dei surrealisti, la sua militanza nel gruppo di Breton, la sua fama di artista eversivo, che lo seguirà sino alla morte, dopo una carriera di oltre trenta film.
Ora il Festival di Berlino, a 25 anni dalla morte, celebra la grandezza e l'attualità di Bufmel in una straordinaria retrospettiva che comprende anche i film da lui prodotti in Spagna negli Anni Trenta, quelli da lui sceneggiati o di cui fu assistente. Una retrospettiva che ha avuto il suo momento di maggior impatto con la doppia proiezione di Un chien andalou e La chute de la Maison Usher di Jean Epstein, d cui Bunuel fu assistente nel '28, in versioni restaurate e accompagnate dalla musica in sala. E si conclude domani con Les 3 Chiens, cioè la triplice proiezione del Chien andalou con l'accompagnamento musicale appositamente composto da Sergio Lopez, Maurici Kagel e Martin Matalòn. Un modo originale di ricordare quello che non è solo il primo film di Bufiuel, ma anche e soprattutto il germe della sua poetica e della sua estetica, progettato con l'amico Salvador Dalì: rappresentare l'alienazione dell'uomo del XX secolo.

venerdì 15 febbraio 2008

Liberazione 15.2.08
Scontro politico culturale e sociale
Ne va della civiltà di un intero paese
di Franco Giordano


Voglio ringraziare le migliaia di donne che ieri a Roma, e Napoli e in molte altre città italiane hanno manifestato contro l'odioso sopruso perpetrato al Policlinico Federico II di Napoli ai danni non solo di Silvana - aggredita in corsia e sottoposta a umiliante interrogatorio subito dopo un doloroso aborto terapeutico - ma di tutte le donne. Voglio ringraziarle perché credo che la loro mobilitazione e la loro forza sia a difesa di tutti noi. Cioè della libertà. Sono state manifestazioni squisitamente politiche: conviene dirlo forte e chiaro.
La grande bugia che in questi giorni rimbalza dai vertici del Pdl a quelli del Pd assicura che non di politica si tratta. I leader di questi due partiti concordano sulla opportunità di "tener fuori" tanto spinosi argomenti dalla campagna elettorale. Attengono, si dice, a una sfera intima e privata. Riguardano i princìpi etici del singolo individuo: bon ton impone di non confonderli con la politica o, peggio, con la campagna elettorale. E di cosa dovrebbe parlare la politica? Solo della sua insensata separatezza? Dell'autoriproduzione di sé?
No. L'autodeterminazione delle donne, i diritti dei gay, le unioni civili, la bioetica rappresentano oggi uno dei principali fronti di uno scontro che è tanto politico quanto culturale e sociale.
Chiamano in causa un'intera concezione dei diritti di tutti e di ciascuno. Ne va della civiltà di un intero paese, il nostro, e non c'è ipocrisia più grande del negare questa evidenza impugnando il rispetto del travaglio individuale, il comodo "caso di coscienza".
Non si tratta, e anche questo va detto chiaramente, di una bugia innocente. Il leader del Pd sa perfettamente che nel suo partito, e a maggior ragione tra i suoi potenziali elettori, la genuflessione alle imposizioni della componente cattolica più integralista non sarebbe accettata facilmente.
Non se ne deve parlare, soprattutto in campagna elettorale, perché la contraddizione è troppo forte e perché la leadership del Pd sa di non poterla in alcun modo risolvere. Dunque va nascosta. La leggenda del partito finalmente coeso, serrato intorno a una linea univoca, crollerebbe come un castello di carte ove dovessero confrontarsi alla luce del sole le posizioni della senatrice Binetti e quelle della sua capogruppo Anna Finocchiaro, o della ministra Pollastrini.
Credo che un ragionamento identico muova anche il leader della destra. Persino tra gli elettori di Forza Italia o di An, soprattutto ma non solo tra le donne, c'è chi non accetterebbe supinamente di veder negati i propri diritti, cancellate le conquiste degli ultimi trent'anni. Il nostro paese, su questi temi, è più avanti della sua rappresentanza politica. Per fortuna.
E' anche per questo, per la paura di confrontarsi con il paese reale, che nessuno osa mettere apertamente in discussione la legge 194. La manovra che si sta dispiegando giorno dopo giorno, inesorabilmente, è più sottile. Non mira a vietare bensì a criminalizzare, a cambiare il contesto culturale. Non nega il diritto all'autodeterminazione delle donne, però lo trasforma sapientemente in colpa e in vergogna in nome di un mai sopito impulso al controllo dei corpi, dei sentimenti, degli affetti. Punta a renderlo impraticabile senza doverlo proibire ufficialmente. E' una strategia minacciosa alla quale compartecipano, sia pure per ragioni diverse, tanto la destra quanto il centro. Per questo riaffermare che la scelta sulla procreazione è un diritto inalienabile delle donne, uno di quelli "senza se e senza ma", senza colpa né vergogna, non è affatto sintomo di ruvido e rozzo laicismo: è il minimo indispensabile.
Si confrontano oggi due concezioni radicalmente antitetiche: la difesa della Vita, nella sua altisonante astrazione, contro quella delle vite, nella loro materialità concreta. Nessuno obbliga qualcuno a fare scelte che sente eticamente diverse dalle proprie convinzioni, ma non si può mai invocare un malinteso principio etico per negare, con la norma, l'autodeterminazione dei soggetti. E' il fondamento del principio della laicità costituzionale. E in tante occasioni abbiamo visto immensa ipocrisia nel rivendicare la sacralità di princìpi che si dissolvono però di fronte alla soglia del mercato. Come sulle tante proibizioni della legge sulla fecondazione assistita, che lascia la possibilità di esaudire il desiderio di genitorialità solo a chi ha le risorse finanziarie per garantirselo all'estero, magari nella cattolicissima Spagna. E' un pendolo davvero disinvolto tra il sacro e il profano, tra l'etica e il mercato.
Anche per queste ragioni è nata la Sinistra Arcobaleno. Per restituire alla politica la sua materialità, per renderla di nuovo carne e sangue invece che slogan e ideologia. Per riportare in testa a ogni agenda le esigenze reali delle donne e degli uomini, le loro sofferenze, le loro necessità. E questo non è un argomento politico tra tanti. E', per me, l'essenza stessa della politica.

Repubblica 15.2.08
Bertinotti attacca l'alleanza Pd-Di Pietro "Incoerente con la scelta di andare soli"
Il presidente della Camera: rischiamo di diventare una provincia Usa, con due soli partiti
di Umberto Rosso


ROMA - Accordo fatto con Di Pietro, rottura con i socialisti, un tenue filo ancora con i radicali. La partita delle alleanze del Pd è praticamente chiusa, aspettando lunedì per un supplemento di istruttoria con Emma Bonino che insiste per l´accordo: «Le nostre idee liberali in economia e il nostro rigore laico possono servire anche al Partito democratico». Con i socialisti invece polemiche roventi. Massimo D´Alema, a "Porta a Porta", attacca: «Che proprio nel rapporto con noi Boselli senta l´insopprimibile bisogno di esporre il simbolo socialista, dopo aver scelto alleanze con un atteggiamento anche disinvolto, lo trovo un atteggiamento settario, chiuso». A stretto giro, la risentita replica del leader del Ps, «non accetto lezioni di coerenza dall´onorevole D´Alema, dato che io sono sempre stato socialista». Dichiarandosi quindi «meravigliato» delle preoccupazioni del vicepremier per la tradizione socialista, «poiché uno dei principali obiettivi della sua storia politica è stato quello di annientarci». Con l´eurodeputato Pia Locatelli che chiede l´intervento del capogruppo del Pse Schultz contro il Pd (dove sono confluiti i Ds, che fanno parte della famiglia socialista europea).
Fausto Bertinotti invece critica l´alleanza fra Veltroni e Di Pietro, «vedo qualche disinvoltura di troppo». Per il candidato premier della Sinistra Arcobaleno «il Pd deve saper giustificare all´esterno una scelta che sembra incomprensibile». E spiega: «Il Pd ha ad esempio votato l´indulto mentre l´Idv era contro. Mi sembra una contraddizione. Mi pare che sia una alleanza che rende meno limpida la scelta ambiziosa del Pd di correre da solo. Qui c´è un ammiccamento al risultato elettorale a costo di qualche sacrificio sulla linearità». Polemiche che però Di Pietro si lascia alle spalle e si mostra sicuro dei risultati, in particolare al Senato: «Corriamo per vincere», dichiara. Bertinotti però insiste nel mettere il Pd nel mirino. Per il pericolo di larghe intese, «l´Italia rischia di diventare una provincia degli Usa, con due soli partiti» (ipotesi che D´Alema continua a definire «impensabile»), e anche sul tema salari e precarietà: «Il punto vero è cambiare la legge Biagi». Ad altri esponenti della Sinistra Arcobaleno, come il capogruppo del Pdci Manuela Palermi, le proposte di Veltroni sul salario minimo di mille euro per i precari sono apparse «ridicole».
Per il Pd, parla il numero due Dario Franceschini. Un accenno all´esperienza di governo Prodi, «caduto portando le firme di personaggi che hanno un nome, un cognome e una faccia, che hanno tradito e che saranno ora ricompensati dal centrodestra con la candidatura nelle loro liste». Quindi, sul futuro del Pd, il vicesegretario rilancia l´espressione di Veltroni: «Correremo liberi più che soli. E se vinciamo, pensate a un governo con 12 ministri dello stesso partito, con un solo programma...».

Repubblica 15.2.08
L'ideologia del mutamento e il confronto fra tradizione e novità
Se il moderno oscilla tra stasi e cambiamento
di Carlo Galli


Nell´ambito politico, la dialettica tra Bene e Male si presenta nel fronteggiarsi di tradizione e rivoluzione, di conservazione e innovazione, di stabile identità e di metamorfosi infinita

La vertiginosa ebbrezza del nuovo e l´abissale profondità del sempre identico; la libertà da ogni legame e l´adesione a ciò che permane; il presente come eterno futuro e il passato come eterno presente; questi due volti dello Spirito si fronteggiano in ambito filosofico fino da Parmenide e Eraclito, dalle rispettive immaginazioni dell´immutabilità dell´Essere sempre identico a se stesso e dello svanire di ogni stabile identità nel perenne movimento e nei suoi milioni di attimi che incessantemente si cancellano e si superano. La percezione di questa ineliminabile duplicità si ripresenta nel corso della storia del pensiero; ad esempio, nel 1839 Feuerbach contrapponeva la sapienza biblica per cui non vi è nulla di nuovo sotto il sole, alla filosofia tedesca - Hegel in particolare - per la quale l´esperienza umana non è che un susseguirsi di novità, il corteo bacchico della ragione, un continuo cambiamento di condizioni e di interpretazioni.
È certo che in particolare l´età moderna ha avuto come propria legge di sviluppo la rottura d´orizzonti, l´apertura di spazi, il tracciare nuove rotte in mari continuamente scoperti. Non a caso nel Manifesto Marx scrive celebri pagine sulla potenza trasformatrice del capitalismo, sul ruolo rivoluzionario della borghesia e sullo sradicamento e il sovvertimento che essa introduce nella storia dell´umanità; e per questa via gli si fa presente uno dei modi di funzionamento della modernità: la rivoluzione economica e sociale come miccia che innesca il progresso, il quale è a sua volta la vera legge della storia. Il cambiamento e la novità - non l´immutabilità dell´Essere - sono di fatto il Bene.
Nell´ambito politico questa dialettica si presenta nel fronteggiarsi di tradizione e rivoluzione, di conservazione e innovazione, di stabile identità e di metamorfosi infinita. Fino da Bacone che si poneva come obiettivo la costruzione di una nuova logica, e da Cartesio che vedeva negli edifici del mondo antico solo cumuli di rovine, e particolarmente fino da Hobbes che negava che l´antichità dovesse essere oggetto di venerazione, si fa evidente la propensione alla novità, al cambiamento, che percorre l´età moderna e si fondano le basi teoriche che avrebbero consentito di concepire un atto come la rivoluzione francese, la sua lotta contro la tradizione e il peso dell´eterno passato. Una propensione che è ottimistica apertura alla possibilità, allo sviluppo: nulla è scritto per sempre, tutto può e deve cambiare; non c´è blocco della storia che non possa essere sbloccato, superato di slancio; non c´è contraddizione che non possa essere risolta. Il volto della storia è potenzialmente antropomorfo.
La moderna propensione al nuovo è, certo, anche apertura al conflitto: in tempo di rivoluzione ciò che antico è anche nemico, perché si oppone alla sola vera legittimità, il cambiamento. Del pensiero progressivo del quale sono portatori borghesi e proletari, avversari tra di loro ma uniti (almeno teoricamente) contro le forze della reazione, esistono necessariamente degli avversari, che fanno il controcanto al Ballo Excelsior del progresso. Quanto incantamento è contenuto nel disincanto dei moderni lo vide già Leopardi, non certo un reazionario ma un lucido interprete di una condizione umana nella sua essenza non modificabile; e lo avevano già visto anche i controrivoluzionari - fra gli altri, Maistre e Bonald - che coglievano quanto di violenza e di instabilità c´è nel fondare la politica sul movimento, quanto di nichilismo può essere implicito nel nuovismo; al quale contrapponevano - vanamente, peraltro - la lunga durata delle cose umane, la potenza di un passato che in ultima analisi si perde nella trascendenza, in una dimensione sottratta all´agire umano e alla sua forza trasformatrice.
Sulla dialettica fra stasi e cambiamento - e sull´inevitabile trionfo di questo - si è fondata la fase eroica del Moderno, la rivoluzione francese e il progressismo ottocentesco, tutto giocato sul binomio "ragione e nazione". E quella dialettica ha innervato anche tutta la politica del XX secolo, nel quale pure le contraddizioni del progresso si sono rese manifeste. Le ideologie novecentesche si orientavano nell´orizzonte della storia guardando al nuovo e al futuro - al sol dell´avvenire socialista i fascisti non contrapponevano il passato ma la giovinezza a cui era dedicato il loro inno (la parziale eccezione è stato il nazismo, che ha declinato il progresso come ritorno a una presunta natura e alle sue leggi spietate). Ma sul nuovo in lotta contro il vecchio si sono costruite anche le grandi svolte politiche democratiche; almeno là dove la democrazia è vitale, essa non è solo istituzioni, regole, forme, ma anche energia, ricorrente slancio per un nuovo inizio. Il New Deal di Roosevelt, la Nuova Frontiera di Kennedy, il New Labour di Blair, ma anche la svolta della socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg e, certo, anche il nuovo di destra, che dalla Thatcher a Reagan (per non parlare dell´Italia) non si presta a farsi passare per statico ma si presenta col piglio e il fascino del nuovo.
Il fatto è che il nuovo muove, mobilita - mentre le riflessioni, per quanto sagge, sui limiti dello sviluppo, e sulla decrescita, deprimono; del resto, anche l´Identità, tema politico oggi certamente fortissimo, non si manifesta come permanenza del sempre uguale ma come nuova interpretazione di antiche radici. Il nuovo piace perché ha cuore antico, perché ogni appello idealistico e volontaristico al movimento - al superamento di un blocco che è arduo, ma che "si può fare" - fa affiorare un bene che oggi sembra sempre più raro, un´energia che pare disperdersi: l´entusiasmo, la speranza, l´azione. Illusioni, forse; ma di esse vive, da sempre, l´umanità.

Repubblica 15.2.08
I mattoni del del mondo
A proposito di due saggi di Philip Ball e Peter Atkins
La materia nell’era atomica
di Piergiorgio Odifreddi


Acqua, aria, terra e fuoco: così i filosofi presocratici scandivano la realtà visibile Oggi le cose sono più complicate e gli elementi non sono più quattro ma cento
Già ben prima dei Greci erano stati isolati metalli come l´oro e il rame che sono veri elementi semplici come il piombo lo stagno e il ferro
Oliver Sacks nel suo saggio "Zio Tungsteno" racconta la folgorazione che ebbe scoprendo la tavola periodica di Mendeleev

Agli albori del pensiero greco, quando ancora non si sapeva quasi niente e si poteva dunque ipotizzare quasi tutto, i filosofi della natura si divisero tra monisti e pluralisti, a seconda che pensassero che i costituenti semplici (variamente chiamati princìpi, semi, radici o sostanze) ai quali si poteva ridurre la complessità delle cose fossero uno solo, oppure molti. Tra i monisti, Talete privilegiava l´acqua, Anassimene l´aria, Senofane la terra ed Eraclito il fuoco, mentre tra i pluralisti l´ecumenico Empedocle li assumeva e riassumeva tutti e quattro.
Oggi le teorie dei presocratici fanno sorridere, ma con un po´ di buona volontà si possono reinterpretare come primordiali intuizioni di qualcosa di più profondo. Così fecero, ad esempio, i due premi Nobel per la fisica Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger nei loro libri Fisica e filosofia e La natura e i Greci, suggerendo di considerare l´acqua, la terra, l´aria e il fuoco come metafore degli stati liquido, solido e aeriforme, e dell´energia che permette di trasformare gli uni negli altri: in particolare, il ghiaccio in acqua e l´acqua in vapore. O, più in generale, di leggere i vagiti dei presocratici come una prima timida affermazione della riducibilità della complessità della natura a una o poche sostanze fondamentali.
Ma da questo punto di vista, allora, sono più interessanti le teorie di altri presocratici che ipotizzavano costituenti più sottili, non solo dal punto di vista fisico, ma anche intellettuale: soprattutto, i numeri di Pitagora e gli atomi (o «indivisibili») di Democrito. La scienza moderna, infatti, descrive la materia (una parola che deriva da mater e richiama la «generazione» dell´etimologia originaria di physis, («natura») come costituita da atomi di varia natura, tenuti insieme internamente da leggi fisiche ed esternamente da leggi chimiche, tutte espresse in linguaggio matematico. Con due differenze essenziali, rispetto ai presocratici. Anzitutto, che gli elementi sono in realtà più di cento, anche se i loro atomi sono tutti costituiti da tre soli tipi di mattoni: gli elettroni, i protoni e i neutroni. E poi, che nessuno dei quattro elementi dell´antichità ha resistito alla «prova del fuoco»: l´acqua è risultata essere un composto di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno; la terra e l´aria sono misture di vari elementi, principalmente silicio, la prima, e azoto e ossigeno, la seconda; e il fuoco è un processo e non un elemento.
La cosa è ironica, perché già ben prima dei Greci erano invece stati isolati molti veri elementi, che a lungo non furono riconosciuti come tali. Primi fra tutti l´oro e il rame, che si estraevano già 5000 anni prima della nostra era in Anatolia e in Asia. E poi il piombo, lo stagno e il ferro. Insieme all´argento e al mercurio, questi sette metalli fornirono una lista di elementi semplici agli alchimisti, che cercarono di fornire un fondamento teorico alle tecniche della loro fusione e alle possibilità di una loro trasmutazione.
È dunque singolare che i quattro «elementi» dell´antichità continuino ad attrarre ancor oggi così tanta attenzione nel campo umanistico, fornendo ad esempio il principio organizzativo ai Quartetti di Thomas Eliot, mentre la corretta visione del mondo rimane quasi completamente confinata al campo scientifico, benché abbia espresso capolavori che vanno dal De rerum natura di Lucrezio alla Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau. Opere, queste, che potrebbero e dovrebbero essere adottate in tutte le scuole, per rimpiazzare le antiquate mitologie di ispirazione religiosa, filosofica o letteraria.
Come la dinamica filogenesi della grande chimica possa essere sistematicamente ripercorsa nell´ontogenesi del piccolo chimico, e fungere da metronomo che batte il tempo della maturazione intellettuale di un adolescente, è narrato in maniera memorabile da Oliver Sacks in Zio Tungsteno. Come invece la statica classificazione della chimica possa fornire la chiave a stella per smontare e rimontare la vita di un uomo, assimilando la soggettività degli eventi all´oggettività degli elementi, è narrato in maniera altrettanto memorabile da Primo Levi in Il sistema periodico. Altri due libri, questi, che ancora una volta dovrebbero costituire i piatti forti di qualunque programma scolastico.
In entrambi, e in uno addirittura nel titolo, un ruolo centrale è ricoperto da una delle più grandi conquiste del pensiero scientifico di tutti i tempi: la tavola periodica di Mendeleev, dalla quale Sacks narra di essere rimasto folgorato quando la vide da ragazzo illustrata in un museo. E c´è da credergli, se il film Risvegli mostra che quand´era un giovane medico egli ne teneva un poster in camera da letto, e se ancor oggi ne porta una nel portafogli, e mostra orgogliosamente ai visitatori del suo studio a Manhattan la sua collezione di elementi: divertendosi a osservare la sorpresa di chi sollevi ignaro un pezzo di pesantissimo tungsteno.
Ma anche senza andare nei musei, per farsi un´idea (e non solo) della tavola basta leggere due recenti e mirabili libretti, Elementi di Philip Ball (Codice, pagg. 197, euro 12) e Il Regno Periodico di Peter Atkins (Zanichelli, pagg. 208, euro 9,80), che ne illustrano le entrate con i più svariati riferimenti al quotidiano: l´idrogeno e l´elio del sole (1 e 2), il litio delle batterie (3), il carbonio della grafite, dei diamanti e degli idrocarburi (6), l´azoto e l´ossigeno dell´aria (7 e 8), il fluoro dei dentifrici (9), il neon delle omonime lampade (10), l´alluminio di lamiere e lattine (13), il silicio dei chip dei computer (14), il fosforo dei fiammiferi (15), lo zolfo delle solfatare e della polvere da sparo (16), il cloro delle piscine (17), il potassio delle banane (19), il calcio della calce (20), il titanio delle biciclette (22), il cromo delle cromature (24), l´ubiquo ferro (26), il nichel delle monetine (28), il rame delle vecchie pentole (29), l´arsenico del veleno e dei semiconduttori (33), il selenio dei porcini (34), il bromo del bromuro (35), l´argento delle posate (47), lo stagno delle saldature (50), lo iodio della tintura (53), l´oro dei gioielli (79), il mercurio dei vecchi termometri (80), il piombo dei vecchi tubi (82), l´uranio e il plutonio delle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki (92 e 94), ...
Il numero tra parentesi indica la posizione dell´elemento nella tavola e conta gli elettroni che orbitano attorno al nucleo o, equivalentemente, i protoni che stanno dentro il nucleo. Ma questo non è che l´inizio della storia, perché la tavola è bidimensionale, e non puramente unidimensionale: le sue 7 righe corrispondono al numero di gusci in cui sono disposti gli elettroni, e le 32 colonne al numero di elettroni nel guscio più esterno, che determina il comportamento chimico.
Atkins e Ball non si limitano però a spiegare queste e altre leggi che regolano quelli che il primo chiama il Governo e le Istituzioni del Regno degli Elementi: ne esplorano anche il territorio, suddividendolo in regioni analoghe a deserti, istmi, coste e laghi, e ne illustrano la conformazione e i prodotti tipici, mostrandone modelli in rilievo analoghi ai plastici geografici, che visualizzano le masse, le dimensioni, le densità, le energie di ionizzazione e le affinità elettroniche dei vari elementi. E raccontano la Storia di come alcuni dei più interessanti abitanti del Regno sono stati scoperti e classificati.
Uno dei capitoli più interessanti di questa Storia è la cronaca, narrata da Ball, della scoperta di nuovi elementi «transuranici» nel dopoguerra (o meglio, nel dopobomba): ultimo, per ora, l´ununoctium (118) nel 2006, che completa la settima riga della tavola. Non abbiamo però ancora una risposta definitiva alla domanda che assillava i presocratici, e cioè quanti sono gli elementi semplici, ma almeno una cosa l´abbiamo imparata: che si tratta di una domanda difficile, e che la risposta si trova non nei leggeri frammenti rimasti dei poemi antichi, ma nei pesanti frammenti prodotti dai ciclotroni moderni.

Repubblica Roma 15.2.08
La Cina a Roma
Al Palazzo delle Esposizioni dal 19 febbraio e per tre mesi i protagonisti del "post ‘89"
di Renata Mambelli


In mostra l’arte del nuovo millennio
Uomini e donne di oggi, luoghi simbolo, folle e strade, cinema e letteratura

Quella che sta per sbarcare a Roma non è la Cina millenaria, quella esotica e lontana dei rotoli dipinti, degli imperatori e delle concubine: quella, insomma, che ha nutrito per secoli l´immaginario occidentale con il mito estetizzante dell´Oriente. Tutt´altro. Sta per impadronirsi del Palazzo delle Esposizioni una Cina dinamica e quasi del tutto sconosciuta, un mosaico di tendenze e di stili che sarà molto difficile catalogare con uno o più schemi. Così inafferrabile che è oggi un enigma per gli stessi cinesi. E sono loro, gli artisti, gli scrittori e i cineasti cinesi che ce la racconteranno, ce la suggeriranno attraverso le loro opere.
La mostra - "Cina XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione" - è stata curata da Zhu Qi e Morgan Morris e occuperà per tre mesi (dal 19 febbraio al 18 maggio) un piano del Palaexpo con una serie di dipinti, installazioni, video e foto di alcuni straordinari artisti cinesi, dell´ultima e dell´ultimissima generazione, che si stanno affacciando in questi anni nel panorama artistico internazionale con una pletora di interpretazioni della società e delle cultura cinese che va dal pop al riuso dei simboli della Cina comunista, in un itinerario di facce, paesaggi urbani, citazioni del passato, folle ritratte in strade immense, grattacieli, vetrine, sfilate di moda, piazze di villaggi stranianti e sul punto di scomparire per sempre.
Gli artisti della generazione detta "post ‘89", già più noti in Occidente, come Fang Lijun, Zeng Fanzhi e Liu Xiaodong, sono presenti con alcuni grandi oli che raccontano gli uomini e le donne cinesi di oggi ritratti nelle città e davanti ai luoghi simbolo, come Tian´anmen. Mentre Wang Guangyi e Liu Dahong usano elementi artistici della propaganda della Rivoluzione cinese riletti in chiave Pop Art. Cai Guoquiang si richiama invece alla Cina del XIX secolo nell´installazione "Prendere a prestito le frecce del nemico", mentre Zhang Xiaogang usa come simboli grafici la divisa maoista e i ritratti dei padri della Rivoluzione. Wen Fen e Yang Young nelle loro foto rincorrono nelle strade di Shenzhen e Shangai la faccia neocapitalista della Cina, seguendo donne vestite all´ultima moda ritratte contro i profili dei grattacieli.
Un evento nell´evento è la realizzazione da parte di Liu Xiaodong, pittore noto soprattutto per il ciclo di dipinti dedicato alla migrazione forzata delle popolazioni delle Tre Gole, dell´opera "Prima mangia", una "Ultima Cena" che sta realizzando in questi giorni in una sala del Palaexpo diventata per l´occasione un grande atelier, con una tavola imbandita di cibi mediterranei e tredici personaggi che mangiano insieme, ritratti dal pittore in un grande dipinto formato da più pannelli.
Il cinema e la letteratura, infine, aggiungeranno tasselli a questo grande affresco della Cina odierna. Dal 21 febbraio al 18 maggio documentari, film, cortometraggi, incontri e dibattiti si susseguiranno nella sala Cinema e nell´Auditorium del Palaexpo. La rassegna, curata da Marco Muller, presenterà molti film che non sono mai arrivati prima nei circuiti italiani, come il rivoluzionario "Wuquiong dong", di Ning Ying, del 2005, sulla condizione della donna - ci sarà un incontro con la regista il 15 marzo -, o l´inaspettato "Shan qing shui xiu", di Gang Xiao´er, sulle vicissitudini di una comunità cristiana, oppure "Lai Xiaozi", di Han Jie, film del filone neorealista sui ragazzi sbandati delle periferie. E non mancherà la letteratura con alcune tra le voci più interessanti della narrativa cinese: la giovanissima Mian Mian, autrice di "Nove oggetti di desiderio", edito in Italia da Feltrinelli, che incontrerà il pubblico il 20 marzo; il famoso Wang Shuo, il 22 aprile, autore di "La ferocia degli animali"; il pluritradotto Su Tong, il cui libro più noto in Italia è "Quando ero imperatore", per Neri Pozza, che sarà all´Auditorium dell´Expo il 7 maggio.

Il Venerdì di Repubblica 15.2.08
Legge 180. Trenta anni fa la vittoria di Basaglia contro i camici bianchi
di Alessandro Calderoni

Corriere della Sera 15.2.08
Contrordine. Via alla raccolta di firme tra gli specialisti
Appello degli psichiatri: torniamo all'elettroshock per le depressioni gravi
Petizione alla Turco. «Oggi effetti indesiderabili irrilevanti»
Una petizione per il ministro per la Salute, firmatari gli psichiatri più noti. Obiettivo: sdoganare l'elettroshock
di Alessandra Arachi


La terapia. Una paziente viene sottoposta alla terapia dell'elettroshock nell'ospedale di San Bernardino, in California, nel 1942. A sinistra il neurologo Ugo Cerletti che con il collega Lucio Bini praticò per la prima volta la terapia per trattare psicosi maniaco-depressive (Corbis)
La storia. Da Basaglia ai film: terapia dell'orrore

ROMA — Soltanto la parola ancora oggi qui da noi è un po' come una parolaccia. Ma loro non hanno paura ad utilizzarla. Anzi. È con gran forza che un gruppo con i più grandi psichiatri italiani della Sopsi (la Società italiana di psicopatologia) chiede di incoraggiare nel nostro Paese l'uso dell'elettroshock.
Una petizione che chiede chiaramente più centri per la pratica dell'elettroshock: verrà ufficializzata il 21 febbraio all'Hilton di Roma, durante i cinque giorni del loro congresso nazionale. A sostenerla in prima linea sono Athanasios Koukopoulos (uno psichiatra greco che da sempre lavora in Italia) e con lui, tra gli altri, nomi come Giovan Battista Cassano, Giulio Perugi e Mario Guazzelli (Pisa), Paolo Girardi, Roberto Delle Chiaie e Giuseppe Bersani (Roma), Alessandro Rossi (L'Aquila), Giovanni Muscettola (Napoli), Carlo Magini (Parma), Marcello Nardini (Bari). Chiedono tutti la stessa cosa: sdoganare l'elettroshock dai vincoli culturali e politici in cui è rimasto prigioniero. È indirizzata al ministro della Salute. Garantisce: «La terapia elettroconvulsivante costituisce tuttora il più efficace trattamento delle sindromi depressive (soprattutto quelle più gravi), psicotiche e con più alto rischio di suicidio. Con la tecnica moderna della sua applicazione gli effetti indesiderabili sono irrilevanti...».
E a supporto di questo, i numeri. In Germania c'è un posto attrezzato per l'elettroshock ogni 500 mila abitanti, in Belgio ogni 333 mila, in Gran Bretagna ogni 373 mila, in Olanda ogni 465 mila. E poi picchi nordici: in Norvegia uno ogni 104 mila abitanti, in Finlandia uno ogni 130 mila.
«In Italia ci sono soltanto 9 strutture psichiatriche dove un paziente può essere trattato con la Tec», dice Koukopoulos. E spiega: «Sei sono strutture pubbliche: Brescia, Oristano, Cagliari, Bressanone, Brunico, Pisa. Le altre sono cliniche private: la San Valentino a Roma, la Santa Chiara a Verona, la Barruziana a Bologna. E posso garantire che le cliniche che lo fanno non hanno alcun interesse economico. Anzi: lo fanno a spese loro. Non ha senso. È stata una battaglia culturale e politica che ha portato ad eliminare in Italia i centri per la Tec. Noi chiediamo che questo venga invece restituito ad un piano medico. Ad un rapporto tra medico e paziente ».
Non ha dubbi Koukopou-los: «Nella rinuncia all'elettroshock l'unico che perde è il paziente. E posso garantire molte testimonianze in questo senso: pazienti che sono arrivati alla Tec dopo anni e anni di depressione e avrebbero pagato oro per poterla fare prima ».

ROMA — È un italiano, Ugo Cerletti, l'inventore riconosciuto dell'elettroshock, nell'aprile del 1938. Ma lo scrittore Sebastiano Vassalli nel suo libro «La notte della cometa» non ha esitato a narrare la storia del poeta Dino Campana (morto nel 1932) come già attraversata da scosse elettriche nel corpo: «Non si chiamava ancora elettroshock, ma già veniva usato a scopo punitivo sui pazienti », dice. E in maniera automatica si trova ad alimentare una letteratura che vuole vedere l'elettroshock confinato soltanto nella galleria degli orrori.
Del resto anche la sua nascita è accompagnata da una letteratura che si commenta da sola: dal mattatoio al manicomio, la sintesi più usata, in generale, per raccontare gli esperimenti di Ugo Cerletti che nacquero vedendo le reazioni che avevano i maiali alle scosse elettriche. Dai maiali Cerletti ha poi lavorato molto insieme al suo assistente Lucio Bini per affinare una tecnica che, generando convulsioni nel cervello grazie all'elettricità, può portare anche notevoli benefici all'uomo. Ma nulla da fare.
L'eredità è pesante e difficile da scrollare.
Ed è stata alimentata da una campagna portata avanti con foga durante gli anni Settanta della riforma psichiatrica di Franco Basaglia, lo spettro dell'elettroshock agitato anche come simbolo per le torture nei gulag sovietici. Lo stesso Basaglia liquidava l'elettroshock con una battuta sprezzante: «È come dare un pugno ad una televisione per rimetterla in sintonia».
Nel 1996 ci aveva provato l'allora ministro della Sanità Rosy Bindi a sdoganare la Terapia elettroconvulsivante: una circolare ministeriale che si portava dietro un parere favorevole del Consiglio superiore di sanità e anche una benedizione del Comitato di Bioetica. Inutilmente. È dovuta tornare rapidamente nel cassetto, sommersa dalle critiche.
Del resto siamo venuti tutti su con negli occhi le immagini del bellissimo film di Milos Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo. E come dimenticare lo sguardo di Jack Nicholson dopo la terapia con gli elettrodi che gli sparano elettricità dentro al cervello?
Era il 1976 e l'immagine dell'indianone che alla fine del film soffoca il suo amico Nicholson (dopo una lobotomia) ci ha accompagnato ben oltre la meno nota storia della «ragazzaccia di Seattle », quella pellicola dove nel 1982 Jessica Lange interpretava Frances Framer, l'attrice che subì non pochi elettroshock, idolatrata da Kurt Cobain che le dedicò una canzone oltre al nome di sua figlia.
E ancora prima di Forman, ci aveva già pensato il nostro Gillo Pontecorvo:
La Battaglia di Algeri (1965) è fin troppo esplicita nel mostrare la tortura con la fiamma ossidrica, l'affogamento parziale dei prigionieri e l'elettroshock. Talmente forti che furono censurate, lì per lì. Ma nella nuova versione sono tornate, pronte a mostrare gli elettrodi sui lobi frontali come un orrore che nulla ha di terapeutico.
Il padre della riforma
Basaglia era totalmente contrario: «È come tirare un pugno a una televisione per cercare di rimetterla in sintonia»
Al.Ar.

Ex paziente. Alda Merini: torturata per 46 volte
di Andrea Galli

MILANO — «Il curaro iniettato, il morso in bocca, le 220 volt, io che diventavo un fantasma per tre giorni… La prego: non mi faccia ricordare».
Per quante volte?
«Quarantasei. In quindici anni».
E diventava un fantasma.
«Dimenticavo il mio nome. Veniva un parente, e non lo riconoscevo. Gli domandavo: “Chi è lei, mi scusi, come si permette di accarezzarmi?”. Non camminavo. Non mangiavo. E non sa quanti ricordi ho perso là e mai più ritrovato».
Là era il manicomio Paolo Pini. Lei è la poetessa Alda Merini (foto), 77 anni tra un mese.
Era una cura?
«Era una barbarie. Una sevizia. Una tortura».
Cosa c'era in quella stanzetta?
«Tanto buio. L'oscurità.
Un lettuccio da operazioni. Ti bloccavano braccia e gambe. Ti sistemavano gli elettrodi alle tempie e ti davano questa sberla tremenda».
Durava a lungo?
«Pochi secondi… dio mio, era un martirio. Meglio, molto meglio la galera».
Ha detto di aver perso tanti ricordi.
«E anche tutti i denti.
Colpa del morso. La scarica te lo faceva stringere con tutte le forze del corpo… Stiamo parlando di 220 volt…».
E l'effetto qual era?
«Svuotavano le persone mentalmente e fisicamente. E, comunque, quando ti riprendevi, avevi addosso un'aggressività tremenda».
Anche lei?
«No, io no. Io piangevo. E sorridevo, contenta».
Contenta?
«Sì. Per quarantasei volte sono stata una sopravvissuta. Chissà quanti morti ha seppellito, quella stanzetta».

Corriere della Sera 15.2.08
Parla lo scrittore in libreria con «Onora il padre», romanzo di un'Italia fuori stagione
De Cataldo: la cronaca nera è finita
«I delitti ormai scatenano soltanto un carnevale mediatico»
di Raneri Polese


«Forse oggi un libro come questo non l'avrei potuto scrivere, almeno come lo scrissi allora. Sono passati solo otto, nove anni ma tante cose sono cambiate. Allora, la paura era ancora un fatto letterario, piacevano i serial killer come Hannibal e altri mostri romanzeschi. Oggi invece la paura è una componente della nostra esistenza. Al punto che in cambio di una promessa di sicurezza accettiamo le limitazioni delle nostre libertà. Sarà stato l'11 settembre, non lo so, ma oggi molte cose sono diverse». Giancarlo De Cataldo parla di
Onora il padre. Quarto comandamento, il romanzo che ora Einaudi Stile libero manda in libreria. Era uscito la prima volta nel 2000, nei Gialli Mondadori, da allora nessuno l'aveva più letto. Nemmeno quando — 2001 — Retequattro mandò in onda la fiction (regia Giampaolo Tescari, con Marco Bonini e Leo Gullotta). «L'avevo firmato con uno pseudonimo, John Giudice» racconta lo scrittore. Magistrato, all'epoca già alla Corte d'assise («delitti veri, assassini veri»), una lunga esperienza di sceneggiatore per fiction televisive. «Anche Onora il padre nasce come fiction. L'avevo scritto insieme con Fausto Brizzi e Marco Martani, sì, proprio i due della Notte prima degli esami. Quella storia di un serial killer autoritario, che vuole applicare "la legge dei padri", mi piaceva. Con il permesso di Brizzi e Martani ne avevo tratto un romanzo».
Ripreso, rilavorato («senza comunque toccare l'impalcatura del racconto e la trama »), quel libro ci presenta un'Italia diversa da quella di oggi? «Sì, ci sono ancora i cronisti di nera che assediano la questura per carpire informazioni, piste, indizi. Oggi non è più così. I delitti ormai scatenano un carnevale mediatico, si moltiplicano talk-show su Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. Per uno scrittore è difficile tradurre in parole un simile circo, direi quasi impossibile. Anche altre cose mancano nel paesaggio del romanzo: è un'Italia senza vip o presunti tali, senza veline grandi fratelli Lele Mora. C'erano anche allora, ma stavano sui giornaletti che uno leggeva dal barbiere. Oggi sono dappertutto».
Eppure, Onora il padre è ambientato a Rimini, capitale delle discoteche, dello sballo continuo. «Ma è una Rimini fuori stagione, quella del mare d'inverno. E non solo. Di Rimini mi piace il fatto che se ti allontani anche solo un chilometro dal lungomare, ti trovi in un altro mondo: un'Italia arcaica, una provincia antica, senza le luci e senza la musica techno. Una scena l'ho ambientata nella colonia delle vacanze, quella costruita dal fascismo e ormai abbandonata. Qui insomma la più sfacciata modernità convive con i resti di un paese primitivo. E primitivo, antico nel suo delirio è il serial killer del romanzo».
A lui, il «mostro», De Cataldo ha concesso numerosi monologhi, in corsivo. Deliri, appunto, ma con una strana logica, un'ossessione quasi geometrica: il killer parla di una «legge dei padri», e lui padre lo è o si sente tale. In nome di questa legge (Nietzsche e l'Antico Testamento si mescolano nelle sue elucubrazioni) deve uccidere chi trasgredisce alle regole. Donne, sempre, seviziate e uccise ma senza mai violenza sessuale.
Delitti rituali, firmati: ci sono sempre bastoncini d'incenso vicino alle vittime, e anche la musica che accompagna l'esecuzione è sempre la stessa, una canzone primi anni 70 molto hippy ( Silence,
dei Flying Objects: «Me la sono inventata — ride De Cataldo — non esiste la canzone e non esiste il gruppo»). Più avanti scopriremo che le donne uccise hanno un tratto in comune: tutte si sono liberate di un padre vecchio e malato per affidarlo a una casa di riposo. Quando però a finire ammazzata è una ragazza ricca e conosciuta, la polizia manda a Rimini un giovane criminologo, Matteo Colonna, uno che ha studiato in America, all'Accademia dell'Fbi di Quantico. Sarà lui a identificare i precedenti delitti. Cupo, inquieto, solitario Matteo però si porta dentro un segreto: nato a Rimini da un padre che non lo ha riconosciuto, è cresciuto a Milano in un orfanotrofio. La trasferta a Rimini diventa così un ritorno alle origini, l'occasione per una ricerca di verità dolorose. Forse anche molto pericolose. E il romanzo, seguendo la duplice indagine (ricerca del mostro e ricerca del padre), diventa un viaggio verso il cuore delle tenebre.
Matteo ricorda molto Valentino Bruio, l'avvocato dei due primi romanzi di De Cataldo, Nero come il cuore e Contessa. «È vero, ma c'è già qualcosa anche del commissario Scialoja, il poliziotto di Romanzo criminale. Solo che Scialoja perde presto la tensione al bene. Ecco, rivisto oggi, Onora il padre
è un romanzo di passaggio, di preparazione a Romanzo criminale.
Quasi una prova generale. Stavo già raccogliendo i materiali sulla Banda della Magliana. Scrivere questo romanzo mi è servito a mettere a punto l'economia delle descrizioni, l'attenzione ai personaggi. E poi c'è la mia fissazione di voler entrare nella testa dei criminali. Anche se il serial killer di Onora il padre è più retorico, colto, letterario dei ragazzi della Magliana. Del resto, i serial killer dei romanzi — per esempio Hannibal — sono sempre molto più elaborati, eruditi, retorici di quelli reali, gente spesso primitiva. I mostri della letteratura, insomma, appartengono a un'epoca passata, recente ma passata. Di quando cioè mettendo un mostro in un romanzo si faceva di lui il catalizzatore di tutte le paure, quasi un capro espiatorio: gli assegnavamo una funzione rassicurante che oggi non basta più».

Gloria Buffo: «Deve essere noto a tutti che Aprile non è più un giornale di sinistra. Anzi, che è un giornale che tira la volata al Pd e a chi crede che votare Veltroni sia un voto utile».
Corriere della Sera 15.2.08
Aprile sceglie i democratici
il manifesto: epurazioni


Epurazione. Parola che a sinistra evoca fantasmi antichi e che questa volta si abbatte sul mensile Aprile. Rivista «di sinistra per la sinistra pluralista» che, per il quotidiano manifesto, ha subito una brusca sterzata al centro.
Succede che Famiano Crucianelli fondatore e proprietario della testata (che è anche online), ha deciso di non aderire, contrariamente alle aspettative, alla Sinistra Arcobaleno.
Parlamentare di lungo corso, già Pdup, Pci, Rifondazione, Pds e Ds, Crucianelli era approdato alla Sinistra democratica, diventando anche sottosegretario.
Ora la svolta, con l'uscita da Sd e l'avvicinamento al Pd. Risultato: il direttore di Aprile,
nonché collaboratore del manifesto, Massimo Serafini lascia la direzione sbattendo la porta. Il manifesto, a firma Loris Campetti, spiega che anche nel comitato editoriale molti stanno per abbandonare: da Luciana Castellina a Betty Leone, da Bandoli a Vendola. Sulla scia di Crucianelli ci sarebbe invece Paolo Nerozzi, mentre altri sindacalisti Cgil — Rinaldini, Leone, Chiriaco — non avrebbero intenzione di seguirlo verso il Pd.
Insomma, spaccatura netta. Che però lascia Aprile al suo legittimo proprietario, cioè Crucianelli. E dunque, conclude il manifesto, «il Pd potrà godere di un nuovo sostegno che alla vigilia era tutt'altro che scontato: il giornale Aprile epurato e corretto da Crucianelli».
Tra i membri del comitato editoriale c'è Gloria Buffo, anche lei di Sd, per nulla convinta dal Pd: «Dopo le dimissioni di Serafini, anch'io dovrò pensare a cosa fare. Certo, questa è una scelta di chiarezza.
Deve essere noto a tutti che Aprile non è più un giornale di sinistra. Anzi, che è un giornale che tira la volata al Pd e a chi crede che votare Veltroni sia un voto utile».
Al. T.

il manifesto 14.2.08
Un «Aprile» senza Arcobaleno, si dimette anche il direttore
Serafini lascia e si svuota il comitato editoriale. Contro la scelta di Crucianelli di tornare verso il Pd
di Loris Campetti


C'era un volta Aprile, mensile di sinistra per la sinistra plurale. Nacque da una speranza e un investimento, era la breve stagione di «Cofferati santo subito» al tempo di Berlusconi, quando la Cgil si batteva in difesa dello Statuto dei lavoratori e dell'articolo 18 diventando un punto di riferimento per culture e movimenti d'opposizione e militanti sciolti non pacificati. Un giornale e tanti circoli territoriali in giro per l'Italia. Il «capo» del giornale è Famiano Crucianelli, professione parlamentare (sette legislature con il Pdup, Pci, Rifondazione, Pds, Ds) con promozione finale a sottosegretario. Crucianelli è stato il leader dei Comunisti unitari, formazione nata da una scissione di Rifondazione nel 1995. E' sua la proprietà di Aprile (attraverso la cooperativa Propedit), giornale diretto inizialmente da Aldo Garzia che gli ha garantito un forte impegno politico-culturale, poi da Carla Ronga in un breve interregno (ora direttrice del sito on-line) e infine dal nostro collaboratore storico Massimo Serafini, chiamato da Crucianelli per rilanciare il giornale come strumento di riunificazione delle forze politiche a sinistra del nascente Pd. Serafini accettò l'incarico a due condizioni: 1) l'uscita dai Ds della sua componente di sinistra, già Correntone; 2) non dover prendere la tessera di Sinistra democratica: «non mi iscrivo a un partito - chiarì - ma a quattro. Cioè lavoro per la costruzione di un soggetto unitario». Ieri questa storia si è conclusa con una lettera di dimissioni firmata da Serafini e Gabriele Trama ai «proprietari» del giornale. Non ci stanno al repentino salto di corsia di Crucianelli che ha annunciato la sua uscita da Sd e l'avvio del ritorno a casa, in casa Pd, magari costituendo un'associazione di transizione che avrà nel titolo due termini, unità (con chi?) e sinistra (quale?).
«Ho appreso della scelta di Crucianelli leggendo i giornali», spiega Serafini annunciando l'addio. Non è il solo, insieme a Trama, a ritenere conclusa la sua collaborazione con Aprile. Molte delle personalità delle varie sinistre che fanno parte del comitato edititoriale non condividono la scelta di Crucianelli: Da Luciana Castellina a Betty Leone, da Giovanni Berlinguer a Fava, Martone, Napolitano, Agostinelli, Bandoli, Buffo, Vendola, Beni. Ma c'è anche chi, al contrario, sta compiendo la stessa scelta di Crucianelli o addirittura ne ha tracciato per primo il percorso: è il caso del segretario confederale della Cgil Paolo Nerozzi, alla testa del gruppo di sindacalisti in fuga da Sinistra democratica, in polemica con la scelta unitaria, alternativa al Pd, fatta con Prc, Pdci e Verdi. Con Nerozzi, però, è schierata solo una parte dei dirigenti della Cgil che avevano iniziato l'avventura di Mussi e Salvi, o che comunque aveva preso nettamente le distanze dal Pd sostenendo la nascita di un soggetto unitatio a sinistra: mancano all'appello i segretari generali di importanti categorie (Rinaldini della Fiom, Leone dei pensionati, Chiriaco dell'agroindustria) e di camere del lavoro e regionali (Puglia), l'ex segretaria confederale Titti Di Salvo, mentre anche nell'attuale segreteria confederale non mancano i dubbi di qualcuno/a. D'accordo con Nerozzi, invece, ci sarebbero i segretari della scuola Panini e della funzione pubblica Podda, tutti e tre nel comitato editoriale di Aprile. E sicuramente la segretaria confederale Carla Cantone.
Ma in Cgil sono in tanti, forse in troppi, a tifare Pd e Veltroni sarà costretto a scegliere. Alcune scelte il sindaco d'Italia le ha già fatte, per esempio di non accettare una lista del tipo «Sinistra per Veltroni» che lo stesso Nerozzi avrebbe tentato di costruire. In pole position per entrare se non nella storia nelle liste del Pd ci sarebbe uno dei rappresentanti storici della destra Cgil: il segretario confederale Achille Passoni. I giochi sono appena iniziati, ma il Pd potrà godere di un nuovo sostegno che alla vigilia era tutt'altro che scontato: il giornale Aprile epurato e corretto da Crucianelli.

l’Unità 15.2.08
Un Orso chiamato Rosi
di Furio Colombo


BERLINALE Orso d’oro alla carriera al nostro Francesco Rosi. Ci aiuta a ripensare alla esaltante lezione culturale del nostro cinema più grande. Nel suo caso, a come si possa stare nel presente anticipando il futuro. Raccontando i fatti...

Berlino ha attribuito il suo premio più importante, l’Orso d’Oro alla carriera, al regista italiano Francesco Rosi. Per gli italiani è un motivo di orgoglio. Lo è per chi non ha dimenticato che grande stagione e periodo della storia culturale italiana è stata quella affollata, con Rosi, di Visconti e Antonioni, di Fellini e di Scola, di Monicelli e di Bertolucci, un tempo in cui un rapporto stretto legava gli italiani al cinema, il cinema alla letteratura, e la pressione di narrare e rappresentare alla vita politica, agli eventi pubblici, a una sorta di militanza che, contro quanto si crede, non era necessariamente partitica, ma certo non era mai divagazione e astensione.
La giuria di Berlino ha voluto definire il ruolo di Francesco Rosi in quell’Italia, in quell’Europa, in quel periodo di lunga e salda presenza sulla scena della vita italiana.
Francesco Rosi è il regista de I Magliari, il regista de La sfida, il regista giovane che nota in modo istantaneo il nodo in cui si formano gli eventi italiani del dopoguerra, che poi diventano criminalità o impresa, banditismo o politica.
Nel cuore di una cultura elegante e amante di una certa grazia narrativa che si sta già facendo amare nel mondo, Rosi si situa a una distanza breve dalla vita. E la vita che lui vede e fa diventare film è umana, calda e brutale. Pulsa in quella vita la forza violenta di chi è deciso a sopravvivere e a vivere e a vincere, benché venga da un al di là di esistenza sociale che non ha ingressi, né scuole, né legami o garanzie o leggi. Non tanti italiani si accorgono subito di questo cinema. Ma l’Europa prende nota, colpita anche dal taglio netto di inquadrature e sequenze, che sono quello che sono, cioè realtà, senza un ornamento in più. E dalla potenza di quelle vite incolte e ordinarie che hanno la forza della tragedia. Rosi è il regista che - intorno a queste vite perdute - si impegna a vedere e a raccontare che cosa avviene in quelle esistenze quasi non raccontabili, in quelle vite di margine. E si libera di denuncia o realismo da un lato con la narrazione documentaria (quel che è vero è vero, quel che avviene, avviene) dall’altro con un senso nitido, chiaro, pedagogico della Storia che circonda e genera le storie.
C’è un punto di vista molto più grande di quella realtà. Ma è dalla parte del regista, che guarda e che trasforma la vicenda in film. Le dimensioni di quel film documento diventano quelle di un periodo della Storia, ben più grande di quelle vite, benché apparentemente non si veda.
Il capolavoro arriva presto e coglie di sorpresa soprattutto coloro che coltivano e ammirano il cinema strettamente legato ai fatti.
È Il bandito Giuliano in cui, in una serie di eventi filmati come a ridosso di ciascuno di essi, come per semplice e implacabile testimonianza, racconta di una vicenda di giovani fuori legge votati al sangue e destinati a morire, intorno ai quali, senza mai smuovere l’attenzione dai loro gesti, dai loro volti, dalle loro imprese, c’è il mondo che ha vinto e finito la guerra, c’è il rapporto fra l’Italia e gli Stati Uniti, c’è l’Italia di allora, confusione, contraddizione, negazione, abbandono, disperazione, speranza, o piuttosto promesse e attese.
C’è la storia misteriosa mai veramente chiarita del separatismo siciliano e di chi vi ha lavorato nell’ombra. C’è una Sicilia italiana e straniera, legata e respinta, abbandonata e occupata. C’è un progetto di secessione che forse non è di pochi esaltati. C’è l’ossessione di combattere i comunisti (L’eccidio di Portella della Ginestra in sequenze così perfette che ancora oggi vengono usate come se qualcuno avesse filmato il fatto nel momento in cui si è sparato sul corteo operaio e contadino del Primo Maggio) che nella parte malata della politica italiana continua da allora, pur attraversando grandi stagioni tra corruzione, ricostruzione, miracolo economico, altra corruzione, altre negazioni e segreti, altri miracoli.
La totale sorpresa del cinema, non solo italiano (Il bandito Giuliano è immediatamente un film del mondo) è nella grandezza tragica del protagonista che regge da solo e paga da solo un complotto forse vasto e potente. È nella irrilevante piccolezza del protagonista, bandito di periferia della periferia del mondo, vanesio, ingenuo, incolto, soltanto un braccio armato. In questo il film si rivela e il regista si annuncia: la forza anticipatrice, la forza profetica. Rosi, infatti, aggiunge alla fermezza documentaria del suo narrare cinematografico un senso allo stesso tempo istintivo e calcolato di organizzazione degli eventi, con l’occhio non tanto al passato quanto al futuro. Non dite «montaggio», che è solo una tecnica cinematografica. Piuttosto il senso, che appartiene all’arte, che il prima e il dopo non sono quelli della cronaca ma di una verità più profonda che diventa rivelazione. Come in una Bibbia incisa sulla capocchia di uno spillo, Il bandito Giuliano contiene tutte le storie di mafia che verranno, tutte le storie di complotto italiano che seguiranno, fino agli anni di piombo. Anticipa l’uso e la manipolazione delle vite degli altri, materiali umani mandati a morire per ragioni che non sanno, a nome di cose o persone che non si rivelano, portando e subendo orrore di cui a momenti si sentono protagonisti e di cui non sanno e non sapranno mai nulla. Quando, ne Il Bandito Giuliano i carabinieri di un’Italia che torna ad avere le sue Forze armate scendono e salgono per le stradine del paese, occupano, invadono, arrestano, penetrando nella notte in ogni fenditura di quella vita ignota a tutti, il film ti annuncia, per adesso e per dopo, che in quella folla acciuffata e ammassata sui camion militari, sono tutti complici e sono tutti innocenti. E i soldati, a loro volta, sono l’occupazione e la liberazione, tante carte a cui non sai che valore dare perché non sai chi le gioca. E c’è una profezia più netta e precisa del corpo di Giuliano ucciso, trofeo della legge che vince e cadavere della messa in scena, dove tutti, giornalisti italiani, inviati stranieri e magistrati e poliziotti, osservano ciò che è destinata ad essere la vita italiana, vera e falsa, colpevole e innocente, con una versione e con l’altra, fra strati di interessi, di rivestiture ideologiche, e la coperta corta della speranza che non riesce a nascondere quel corpo e a farci dire «meno male, è finita!».
Rosi non distoglie lo sguardo dalla realtà. E nel suo celebre film Le mani sulla città vede il cemento. Lo nota da solo e per primo come una causa di corruzione continua che in Italia sta per diventare il grande male cronico al punto che, a Venezia, quando finisce la proiezione del film che sarà Leone d’Oro, le signore milanesi in piedi, indignate usano le chiavi dell’Hotel Excelsior come fischietti per esprimere il loro disprezzo per quel film-denuncia. Forse prevedevano, che «Mani pulite» (il grido degli assessori complici della scena madre di quel film) sarebbe diventato il nome della più grande inchiesta giudiziaria sulla corruzione politica mai tentata prima. Strano regista, Francesco Rosi, che annuncia le sue storie italiane con quarant’anni di anticipo, come testimonia oggi, raccontando il cemento di Napoli,il giovane scrittore Roberto Saviano.
La performance di Francesco Rosi, regista di fatti veri e narratore visionario di eventi non ancora accaduti, si ripete con un altro dei suoi film non dimenticati, Il caso Mattei. Tutto ciò che accade oggi intorno al petrolio, fino al prezzo oggi raggiunto di 100 dollari al barile, è in quel film, in quella vita, in quella morte. Al punto che ogni tentativo di riaprire anche solo un frammento di indagine sul caso Mattei, ai giorni nostri, induce non i critici ma i magistrati a chiamare Francesco Rosi «per sapere».
Non conosco la motivazione di Berlino, mentre scrivo, non ancora. Ma credo che, nell’elenco di opere straordinarie che sono la vita e il lavoro di Rosi, abbiamo contato Cristo si è fermato a Eboli (nell’anno in cui il Senato italiano ha voluto celebrare con il nome di Carlo Levi il «Giorno della Memoria»), Tre Fratelli, documento unico sul formarsi del terrorismo visto dall’interno di una famiglia contadina-operaia. Ma anche La Tregua. Rosi è stato il solo regista a cui Primo Levi ha affidato il suo libro indimenticabile sul ritorno dall’inferno alla vita. In quel film - di nuovo - c’è l’incomprensibile catena di eventi che ha portato alla immensa fabbrica della morte, sostenuta dalla complicità del silenzio del mondo. E c’è l’imbarazzo, anzi il fastidio, di quei bravi cittadini che se ne vanno dalla piazza del mercato di Cracovia quando il giovane prigioniero appena liberato cerca di spiegare che non era stato imprigionato e destinato a morire perché «politico». Doveva morire perché ebreo. Quella è la scena in cui Francesco Rosi racconta, insieme con Primo Levi, l’inizio del dopoguerra, con le sue ombre tetre e lunghe (lo vediamo nei giorni in cui compaiono «le liste» della Sapienza di Roma, e si parla di boicottare il Salone del Libro di Torino se sarà dedicato a Israele) che incombono ancora su di noi.
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