lunedì 18 febbraio 2008

l’Unità 18.2.08
Bertinotti: «Noi siamo dalla parte dei lavoratori»
Pecoraro Scanio: «Il voto per la Sinistra arcobaleno è l’unico che servirà a difendere la legge 194»


FAUSTO BERTINOTTI giura che non sarà una sfida tra «fratelli coltelli», che non ci saranno «accuse di tradimento», ma mette in chiaro che la Sinistra arcobaleno non farà sconti al Pd in campagna elettorale. Insieme ad Alfonso Pecoraro Scanio, di fronte alla platea del Consiglio nazionale dei Verdi, il presidente della Camera boccia la ricetta economica del segretario del Pd. «Walter Veltroni - dice Bertinotti - si presenta come il nuovo. Vorrei dire a Walter, davvero ti pare che il nuovo possa essere la teoria della crescita? Il paradigma del Pil, da vent’anni sottoposto alla critica di tutte le correnti più innovative?». Bertinotti liquida con una battuta («ce n’è uno di troppo») la decisione del Pd di candidare nelle sue liste Antonio Boccuzzi, l’operaio sopravvissuto al rogo della Thyssenkrupp e il capo dei giovani industriali Matteo Colaninno. Ma poi va all’attacco dell'equidistanza fra lavoro e imprese: «Nel contratto dei metalmeccanici non puoi dire che hanno ragione tutti e due. «Noi dobbiamo stare da una parte sola: quella dei lavoratori e delle lavoratrici nel conflitto sociale». Per Bertinotti il Pd «ha in comune con la destra l’accettazione di questo modello di crescita e di sviluppo, ma a differenza della destra che accetta l’esclusione sociale che ne consegue, il Pd vorrebbe temperarlo con l’inclusione». Un tentativo tutt’altro che nuovo, a suo giudizio: «Blair e Schroeder ci hanno provato, ma su questo terreno sono stati sconfitti». Anche Pecoraro, che gioca in casa, prende di mira la parola d'ordine veltroniana della crescita, che «senza regole porta al disastro del pianeta», poi accusa: «Gli atteggiamenti del Pd hanno bloccato la spinta riformatrice del governo Prodi». Il leader dei Verdi rivendica le scelte fatte «contro i megaprogetti assurdi, come il Ponte, il Mose e il megatunnel» ma anche i «seicento cantieri avviati (da ministro, ndr) per mettere in sicurezza il Paese». E a Veltroni che mette all’indice “l’ambientalismo del no”, replica accusandolo di fare «chiacchiere ambientaliste». Per Pecoraro «essere ambientalisti vuol dire fare delle scelte, se dici sì alle energie rinnovabili non puoi essere a favore del carbone, che va contro Kyoto e contro l’innovazione».
Nel mirino delle critiche di Pecoraro ci sono anche le scelte programmatiche di Veltroni, che «tra i dodici punti non ha messo il punto dei diritti civili, delle coppie di fatto». Anche per questo, avverte il leader dei Verdi, «il voto per la Sinistra arcobaleno è l'unico che servirà a difendere la legge 194». Bertinotti propone ai Verdi di «andare oltre il cartello elettorale, per costruire insieme un soggetto politico nuovo». Pecoraro non si sbilancia e propone di affiancargli Grazia Francescato come “garante” dell’ambientalismo: «Ticket o non ticket, la sinistra discute troppo...».

l’Unità 18.2.08
Trattativa. Oggi l’esito
Radicali-Pd all’ultima proposta


Ancora una fumata grigia tra Pd e radicali. Ieri l’incontro tra il braccio destro di Veltroni, Goffredo Bettini, e Marco Cappato non ha sbloccato la trattativa, ma ci sono stati passi avanti. Oggi il Pd invierà una proposta scritta ai radicali, con tutte le condizioni per un possibile accordo: un documento politico di intesa su economia, giustizia e riforme istituzionali, il numero preciso di posti in lista (7-8) e la loro collocazione, la garanzia di spazi tv del Pd destinati ai radicali e l’assicurazione della valorizzazione degli eletti nelle assemblee parlamentari. Che tradotto vuol dire la possibilità di presiedere una commissione e altre “qualifiche” nel gruppo Pd. Per la Bonino, oltre alla certezza di un ministero in caso di vittoria, ci sarebbe anche la garanzia di un posto da capolista. Oggi, dunque, la proposta sarà recapitata a Torre Argentina, sede dei radicali. Nel pomeriggio dovrebbe arrivare la risposta definitiva, il Pd intende comunque chiudere oggi la trattativa. Ieri Marco Pannella, dal palco del congresso dell’associazione Luca Coscioni a Salerno, ha detto che «col Pd i margini sono da creare ma dobbiamo tentare fino alla fine, con questi bisogna negoziare». Ma si è lamentato: «Non c’è stato neanche un attimo di dibattito, di osservazioni, quando l’immensa maggioranza dei democratici lo avrebbe auspicato». Per lui non ci sarebbe un posto in lista, ma la possibilità di correre alle europee del 2009. Al Loft c’è un cauto ottimismo sull’esito della trattativa. a.c.

l’Unità 18.2.08
Abusi sessuali in aumento
E scende anche la fascia di età


A commettere violenze nella maggior parte dei casi sono italiani

Le vittime hanno un’età compresa tra 0 e 14 anni, sono di nazionalità italiana e, nella maggior parte dei casi, conoscono la persona che li molesta, spesso appartenente al nucleo familiare o ad esso vicina. Questa è la fotografia dei minori vittime di abusi sessuali emersa dai dati della Direzione Centrale della polizia criminale che ognuno può trovare sul sito della Polizia di Stato da dove abbiamo preso questo testo. Le informazioni, provenienti dalle segnalazioni giunte agli uffici o ai Comandi delle Forze di Polizia, fanno parte di un database nel quale vengono inserite tutte le notizie riguardanti la vittima del reato. Questo ha permesso di tracciare un quadro ben definito del fenomeno secondo alcuni criteri specifici: nazionalità delle vittime e dei loro aggressori, fascia di età dei bambini abusati e distribuzione territoriale.
I dati dimostrano un costante aumento del fenomeno e, per quanto riguarda la nazionalità delle vittime, rilevano che nella maggior parte dei casi gli abusi sono stati fatti su bambini italiani: 453 su 598 nel 2002, 677 su un totale di 749 nel 2003, 717 su 845 nel 2004. Appartengono sempre di più al nostro Paese anche le persone che commettono il reato: nel 2002 le segnalazioni nei confronti di italiani sono state 502 su un totale di 587; nel 2003 590 su 666 e nel 2004 gli italiani autori di abusi su minori sono stati 716 su un totale di 813. I restanti episodi hanno coinvolto cittadini stranieri. Nella lettura delle informazioni, un dato che emerge riguarda la fascia di età delle piccole vittime. Nel 2002 la categoria maggiormente coinvolta è risultata quella tra gli 11 e i 14 anni con 233 vittime seguita dalla fascia 0-10 anni con 215 bambini abusati, nel 2003 si assiste ad un inquietante avvicinamento delle fasce: 295 vittime comprese tra gli 11 e 14 anni e 294 quelle comprese tra 0 e 10 anni. Nel 2004 invece si le vittime più piccole sono state 294 contro le 345 di età compresa tra 11 e 14 anni. Nella distribuzione territoriale del fenomeno negli ultimi 3 anni considerati spicca il Nord che nel 2004 ha fatto registrare 386 casi contro 356 del Sud e isole e i 103 del Centro. Tra le regioni in testa la Lombardia per maggior numero di casi (168 nel 2004), seguita dalla Campania con 111 casi e Sicilia con 96 casi. Molise e la Valle d’Aosta sono le due regioni dove il fenomeno è meno sviluppato e nel 2004 non hanno fatto registrare nessuna denuncia.

l’Unità 18.2.08
Il fantasma dell’elettrochoc
di Clara Sereni


La richiesta di alcuni psichiatri italiani di «sdoganare» l’elettrochoc non stupisce più che tanto: è da tempo che una parte della classe medica chiede le venga riconsegnata carta bianca nel campo della malattia mentale, accompagnata su questa strada da una parte - peraltro fortemente minoritaria - delle associazioni di famigliari.
Non c’è da stupirsi, e alcune voci che si levano scandalizzate somigliano più al bisogno di salvarsi l’anima che non ad una reale volontà di affrontare i temi scottanti che una riflessione davvero seria sulla malattia mentale porta con sé. Perché da anni ormai il nodo della salute mentale è scivolato via dal tavolo della memoria storica, della politica con la «p» maiuscola, delle istituzioni, insomma delle collettività, per essere riconsegnato alla sofferenza delle famiglie da un lato, e dall’altro alla scienza medica, mai così poco esatta come in questo settore. Esistono tante e tante esperienze che, su e giù per l’Italia, dicono che è possibile per le persone con sofferenza mentale e psichica avere una vita degna di essere vissuta. Ma queste esperienze, e coloro che a vario titolo ne partecipano, hanno scarsissima visibilità, non hanno voce, restano dentro un circuito chiuso, ad esempio di convegni a cui assessori e ministri si affacciano generalmente per lo spazio di un saluto.
Con l’eccezione luminosa e competente di Romano Prodi, che all’epoca della Fabbrica del programma dedicò un’intera giornata all’ascolto di richieste ed esperienze, scegliendo la salute mentale come paradigma non solo del funzionamento della sanità, ma del benessere delle comunità nel loro insieme. Grandi speranze si accesero allora, ma poi tutto o quasi è caduto di nuovo nella distrazione e nella smemoratezza, restituendo medici e famiglie alle loro solitudini.
Di salute mentale ho scritto talvolta sulle colonne di questo giornale, tentando di rinverdire la memoria storica delle lotte collettive che, nel 1978 (nei giorni tremendi del rapimento Moro e dei governi di solidarietà nazionale, non dimentichiamolo), portarono alla promulgazione della legge 180. Con più forza sento il dovere di farlo oggi, di fronte a questo oscuramento anche del buon senso.
Vedete, io non sono medico, e dell’elettrochoc so più o meno quello che sanno tutti: la violenza, solo apparentemente mitigata da nuove anestesie; la distruttività, irreparabile; l’utilità molto molto discutibile. E non mi si venga a dire che anche Basaglia lo praticò, in una certa occasione: lo fece per ragioni squisitamente politiche e difensive, e chi abbia voglia di leggere i suoi scritti può controllarlo agevolmente. Dunque non posso mettere in campo competenze scientifiche. Ma un’esperienza sì: quella di una madre con figlio gravemente schizofrenico, e soprattutto l’esperienza di una Fondazione, «La città del sole», che da dieci anni costruisce progetti di vita per persone con disabilità psichiche e mentali. Progetti attraverso i quali ho visto svilupparsi abilità e competenze, in particolare quella a vivere una vita degna: fatta anche di sofferenza e di malattia, come la vita di tutti, ma non solo di sofferenza e di malattia. Una vita fatta di un’abitare normale, di un lavoro normale, di rapporti amicali, di occasioni normali di tempo libero, tutti contesti resi più forti e coesi da un lavoro faticoso e accurato di integrazione. Senza dimenticare mai che l’integrazione fa bene non solo ai fragili e ai diversi, ma a tutti: perché ciascuno di noi, per quanto possa nasconderlo anche a se stesso, ha un proprio lato fragile, diverso, sofferente, e non è tagliandolo via, amputandosi, che si può stare meglio.
Comunque lo si guardi, l’elettrochoc è un’amputazione. Quando si tratta di chirurgia, tagliar via una parte anche piccolissima del corpo (un dente, un’unghia) è una extrema ratio: accade quando si sono provate tutte ma proprio tutte le vie, e nessuna è risultata praticabile. Altro è quando si asportano escrescenze pericolose, corpi estranei: un cancro, una pallottola.
I matti non sono un cancro, e neanche una pallottola. Non sono corpi estranei. Sono persone che ci somigliano. E per questo ci fanno tanta paura. Solo dopo aver provato tutte, ma proprio tutte le strade di cura e di integrazione, forse si potrebbe arrivare a pensare di tagliar loro via una parte (operazione "chirurgica", nella fattispecie, quanto "chirurgici" sanno essere i bombardamenti). Non prima. Non in un prima fatto di risorse scarse, di formazione insufficiente e spesso vecchia degli operatori, e in primis degli psichiatri. Non in un prima fatto di disattenzione collettiva, e di un insicurezza che trova nella repressione di ogni differenza un rimedio perentorio quanto fallace.
C’è un filo nero che lega l’antisemitismo delle liste dei docenti ebrei alle donne-streghe braccate in corsia, al razzismo, alle violenze sui disabili immortalate in you-tube, e arriva fino allo sdoganamento della pratica medievale dell’elettrochoc. Tagliar via questo filo, interromperlo, impedire che si rafforzi e diventi un nodo scorsoio per la società, è questione che riguarda tutti, e non solo chi quel filo nero se lo ritrova avviluppato intorno.

l’Unità 18.2.08
Temi etici: discutiamo ma decidiamo
di Ignazio Marino


Vince chi riesce a stare più a lungo in silenzio! È la regola di un gioco che si fa coi bambini quando non se ne può più delle loro grida... Ma potrebbe valere anche per gli adulti che, ultimamente, hanno scatenato risse su temi etici. Prima il documento di alcuni ginecologi delle università romane a proposito dell’assistenza ai prematuri, poi la notizia della realizzazione di un trapianto di mitocondri in un embrione (chiamato erroneamente «embrione con tre genitori»).
Pochi giorni fa le forze dell’ordine che si presentano al Policlinico di Napoli durante un’interruzione di gravidanza. Ognuno di questi eventi non avrebbe in sé il carattere dell’eccezionalità se non si inserisse in un contesto di irragionevolezza o per lo meno di temporanea irrazionalità. Purtroppo il fenomeno ha dei precedenti: poco spazio al dibattito, all’analisi, alla documentazione e molto alla polemica, agli schieramenti contrapposti, alla brutalità verbale e non solo. Le discussioni che hanno animato il dibattito sui Dico, sul testamento biologico, sul caso Welby, le ricordiamo tutti. Per non parlare dello scontro tutto ideologico e per nulla scientifico sulla legge 40 e recentemente sulla revisione delle linee guida per adeguare la legge ai progressi medici.
Viviamo in un Paese dove scarseggia la conoscenza scientifica, o dove comunque le viene attribuito poco peso. Ma viviamo in un’epoca dove la scienza entra nelle case, nella vita di tutti i giorni. E chi affronta le implicazioni che essa porta con sé? Politici, giornalisti, opinion leader, certamente pochissimi scienziati. E invece proprio loro dovrebbero essere chiamati in causa, per lo meno per chiarire i termini delle questioni, per fornire gli elementi necessari ad una valutazione seria e rigorosa. È questo l’unico modo per evitare strumentalizzazioni dell’opinione pubblica, per fare in modo che ognuno possa formarsi un’idea propria su basi concrete e razionali. Anche questa è libertà!
Certamente non sono d’accordo con chi descrive gli scienziati come dei pazzi sconsiderati che creano, manipolano o distruggono la vita e per questo da tenere sotto stretto controllo. Gli scienziati hanno un approccio molto codificato: osservano, studiano, traggono delle conclusioni che si chiamano scientifiche proprio perché non hanno nulla a che vedere con le convinzioni personali. Per questo motivo il loro contributo ad un dibattito, o nel momento in cui si vuole proporre una nuova legge al Paese, è non solo utile ma assolutamente indispensabile.
Questo non significa che gli scienziati non abbiano dei principi personali ma, di fronte all’evidenza scientifica, faticano a sostenere il contrario. Facciamo un esempio: è scientificamente fondato il principio della legge 40 secondo cui è obbligatorio impiantare in utero tre embrioni fecondati, non uno di più non uno di meno, sia che si tratti di una donna di 19 anni che di una di 43? Sfido a trovare un ginecologo che dica di sì, anche se personalmente è contrario alla fecondazione assistita.
Facciamo un altro esempio: la legge 194 è da cambiare o va bene così? Chi lo dovrebbe dire? Giuliano Ferrara o l’assemblea delle donne? Perché non partire invece da un dato scientifico, da come è evoluta la medicina dal 1978 ad oggi e cercare di comprendere se ci sono alcuni aspetti sui quali aprire una riflessione nel rispetto dello spirito della legge?
Ogni legge, in quanto scritta da donne e da uomini in un certo momento storico, può essere aggiornata o migliorata; l’importante è che su un tema importante come l’aborto si parta da basi fondate sulla conoscenza e poi si interpretino gli elementi culturali senza muoversi da posizioni aprioristicamente contrarie o favorevoli. La presenza di un dibattito serio e scientifico su questi temi non solo determina il grado di civiltà di un Paese, ma sarebbe una vittoria della società nel suo complesso: significherebbe infatti che siamo finalmente riusciti a mettere da parte le ideologie e gli egoismi partigiani per guardare all’interesse di tutti.
A mio parere il confronto di opinioni è sempre positivo: è infatti il miglior sistema per arricchire le nostre conoscenze; le posizioni intransigenti e ideologiche non sono affatto d’aiuto.
In questo ragionamento mi sta a cuore sottolineare un’ulteriore questione: il problema della ricerca. Si parla tanto di fuga di cervelli, con i nostri giovani migliori costretti a lavorare sottopagati in Italia o ad emigrare verso paesi che premiano meglio la loro creatività. Mi sembra però che spesso le prese di posizione a favore della ricerca si riducano a dichiarazioni propagandistiche: se vogliamo un Paese competitivo e se vogliamo dare ai nostri giovani le opportunità che si meritano bisogna dare in primo luogo fiducia alla ricerca, oltre che fondi. È una questione di approccio mentale, prima ancora che finanziaria. L’avanzamento tecnologico e le nuove scoperte mediche e scientifiche comportano spesso riflessioni sui valori della nostra società, e contribuiscono ad allargare il nostro orizzonte etico. Non dobbiamo avere paura di tutto questo. Dobbiamo invece discuterne serenamente, in un dibattito basato sui fatti, in modo da poter stabilire cosa è eticamente consentito e cosa riteniamo non lo sia; ma il punto di partenza deve essere la fiducia nella ricerca, non il timore di salti nel buio. Questo non è avvenuto, per esempio, nel dibattito sul testamento biologico su cui i cittadini non hanno le esitazioni che abbiamo dimostrato noi nel dibattito parlamentare.
Io credo che il Pd, nell’affrontare tutti i temi etici, debba darsi un metodo e rispettarlo: partire dalla conoscenza, affrontare il dibattito e prendere una decisione che rifletta lo spirito maggioritario del partito, pur nel rispetto di tutte le posizioni minoritarie. Infine, e questo è un punto essenziale, il Pd deve sostenere in tutte le sedi la decisione presa, senza indugiare. Non è un problema se all’interno qualcuno la pensa diversamente, c’è spazio per ogni posizione, ma i cittadini a cui chiediamo di partecipare, di farsi coinvolgere dalla novità, hanno bisogno di sapere quale è la posizione di chi si presenta agli elettori come la forza politica che è in grado di rinnovare il Paese.
Chirurgo, Presidente commissione sanità del Senato

l’Unità 18.2.08
Duch, confessioni di un torturatore
di Valerio Pellizzari


Phnom Penh. Questa primavera, 28 anni dopo essere fuggito dalla Cambogia prima che arrivasse l’esercito vietnamita, potrebbe essere finalmente processato per crimini contro l’umanità.
Nella prima intervista concessa dopo il suo arresto avvenuto otto anni e mezzo fa, parla liberamente delle ragioni per cui avviò 17.000 cambogiani a morte certa nei campi di sterminio.
E mentre attende di confutare le prove dei crimini da lui commessi, è del tutto chiaro che, a suo giudizio, non c’era alternativa: chiunque poteva rappresentare una minaccia per la rivoluzione doveva essere torturato e ucciso. Quando gli chiediamo se ha mai avuto qualche momento di esitazione, se ha mai avuto dei dubbi o se è stato tentato di ribellarsi mentre contribuiva a spazzare via l’intera intellighenzia del Paese, ci ha risposto: «C’era un diffuso e tacito accordo. Io e tutti quelli che lavoravamo lì sapevano che chiunque arrivava doveva essere psicologicamente distrutto, eliminato con impegno, che non doveva essergli lasciata alcuna via d’uscita. Nessuna risposta poteva evitare la morte. Chi arrivava da noi non aveva alcuna possibilità di cavarsela».
Gli ordini erano arrivati dall’alto, ci ha detto. «Tutti i prigionieri dovevano essere eliminati. Vedevamo nemici, nemici, nemici dappertutto». Non avrebbe potuto né ribellarsi né scappare, ha ribadito con foga. «Avevano la mia famiglia come ostaggio, se avessi tentato di scappare ai miei familiari sarebbe toccata la stessa sorte degli altri prigionieri di Tuol Sleng. Se fossi fuggito o mi fossi ribellato non sarebbe servito a nessuno».
Tra il 1975 e l’inizio del 1979 sotto il regime di Pol Pot, due milioni di uomini e donne, quasi un terzo della popolazione cambogiana, furono brutalmente eliminati dai khmer rossi - un movimento marxista estremista che voleva riportare la Cambogia all’«Anno zero» isolandola dal resto del mondo e imponendo al Paese una sorta di «utopia agraria» come era nella visione dei leader khmer.
Dei due milioni di vittime, oltre 17.000 - in parte funzionari del partito, diplomatici, monaci buddisti, ingegneri, medici, insegnanti, studenti, musicisti e ballerine - furono condotti in una ex scuola nel centro di Phnom Penh che era stata trasformata in un luogo di tortura. Solo in sei ne uscirono vivi.
Il centro Codenamed S-21 era comandato da Duch, un ex insegnante di matematica diventato capo della polizia segreta del regime. In quelle che erano state aule scolastiche, nell’arco di 40 mesi, Duch organizzò e diresse con rigore matematico lo sterminio dell’intera intellighenzia cambogiana.
Le confessioni venivano estorte con mezzi di tortura primitivi: i prigionieri venivano legati su letti di ferro, appesi a testa in giù, minacciati di annegamento, seviziati con coltelli e tenaglie, rinchiusi in celle minuscole. Poi di notte venivano caricati su un camion alla periferia di Phnom Penh e uccisi nelle risaie. I khmer rossi avevano l’ossessione di uccidere le loro vittime di notte.
Per lo meno ora, dopo anni di polemiche tra il governo cambogiano e le Nazioni Unite, i membri superstiti dei vertici dei khmer rossi verranno processati. Verranno processati da un tribunale misto cambogiano e dell’Onu chiamato «Camere straordinarie della Corte della Cambogia». Le udienze preliminari hanno avuto inizio a novembre e sono ancora in corso. Pol Pot, ovviamente, è morto da un pezzo. Per la precisione è morto nel 1998 mentre si trovava agli arresti domiciliari prima di essere processato. Il suo complice più sanguinario, Ta Mok, è morto nel 1996. Ma cinque esponenti di vertice dei khmer rossi, tra cui il presidente Khieu Sampan, sono in attesa del processo.
Duch è comparso per la prima volta in tribunale a novembre e il suo collegio di difesa in quella occasione ha chiesto la libertà su cauzione sostenendo che «i suoi diritti umani erano stati violati anche se non era stato né percosso né torturato». A questa richiesta, molti dei presenti in aula sono scoppiati a ridere. La richiesta è stata respinta.
La richiesta di intervistare Duch l’ho inoltrata quasi tre anni fa. Ho visitato la struttura S-21 subito dopo la caduta del regime dei khmer rossi. Dal suo arresto, avvenuto oltre otto anni fa, nessuno era più riuscito a vederlo. Ed ora finalmente mi trovavo al cospetto di quest’uomo esile, di 66 anni, con denti sporgenti e irregolari, gli occhi fuori delle orbite e con un vestito grigio lavato e stirato. Ero al cospetto della banalità e dell’innocenza del male.
Durante tutta l’intervista ha parlato a voce bassa, con un tono rispettoso come un mantra, un monaco buddista in preghiera e non un aguzzino; la colonna sonora di un incubo ancora pieno di interrogativi. I suoi modi gentili, il suo aspetto quasi fragile non facevano certo pensare ad un torturatore e ad un assassino.
L’intervista si è potuta svolgere nel rispetto di regole molto severe: niente registratore, niente macchina da ripresa, impossibilità di rivolgersi direttamente a lui in inglese o in francese, ma solo tramite un interprete cambogiano. Il generale Neang Phat, Segretario di Stato della Cambogia, e altri generali erano seduti nella stessa stanza e ascoltavano con attenzione quanto aveva da dire quest’uomo indefinibile e impenetrabile. Anche alcuni di loro hanno ricordi terribili degli anni dei khmer rossi. Ma Duch era il ritratto perfetto della banalità e dell’innocenza del male.
Duch, il soprannome gli fu dato da giovane quando entrò nelle file della guerriglia, mi ha detto che il centro di tortura di Tuol Sleng fu creato nell’agosto del 1975, quattro mesi dopo l’ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh, e cominciò ad essere utilizzato attivamente due mesi dopo.
«Mi fu affidato il compito di creare e avviare il centro di tortura anche se non ho mai capito per quale ragione avessero scelto me. Prima del 1975, quando i khmer rossi vivevano nascosti nella giungla o nelle zone liberate, io ero il capo dell’Ufficio 13, ero il capo della polizia nell’area speciale che confinava con Phnom Penh». Duch mi ha descritto una routine di burocratica monotonia. «Ogni giorno dovevo leggere e controllare le confessioni. Leggevo dalle sette del mattino fino a mezzanotte. E ogni giorno verso le tre del pomeriggio, il professor Son Sen, ministro della Difesa, mi chiamava. Lo conoscevo dai tempi in cui insegnavo alla scuola superiore. Era stato lui a chiedermi di entrare nella guerriglia». «Mi chiedeva come andava il mio lavoro. Poi arrivava una persona che prendeva tutte le confessioni e le portava a Son Sen. Questi messaggeri erano il solo anello di collegamento tra i vari uffici».
Volevo sapere se Duch aveva avuto qualche momento di incertezza, di dubbio o se era stato tentato di ribellarsi mentre contribuiva a spazzare via l’intera intellighenzia del Paese.
Ha ammesso che l’idea gli era venuta. «Quando è iniziato il lavoro a Tuol Sleng, di tanto in tanto chiedevo ai miei capi “ma davvero dobbiamo essere esercitare tutta questa violenza?”. Son Sen non mi rispose mai. Nuon Chea, all’epoca il numero due della struttura di potere, e che era il diretto superiore di Son Sen, mi disse: “Non pensare a queste cose”».
«Personalmente non avevo una risposta. Poi con il passare del tempo ho capito. Era stato Ta Mok ad ordinare l’eliminazione di tutti i prigionieri. Vedevamo nemici, nemici, nemici dappertutto».
«Come tutti ero intrappolato negli ingranaggi della macchina. Non avevo alternative. Pol Pot, all’epoca numero uno dei khmer rossi, diceva che bisognava essere sempre sospettosi, che bisognava sempre temere qualcosa. Per questo arrivava sempre la solita richiesta: “interrogateli ancora, interrogateli meglio”».
Talvolta, mi ha detto Duch, aveva avuto la tentazione di essere clemente - ma i suoi superiori avevano cominciato a perdere la fiducia in lui. Mi ha raccontato di quella volta in cui nella struttura S-21 avevano portato un suo cugino.
«Lo conoscevo benissimo. Eravamo parenti ed eravamo stati molto legati, ma dovevo eliminarlo lo stesso. Sapevo che era una brava persona, ma ho dovuto fingere di credere a quella confessione estorta con la violenza. Così per proteggerlo non analizzai le sue dichiarazioni con il solito rigore. E in quella circostanza i miei superiori cominciarono a perdere fiducia in me. Ed io non mi sentivo più al sicuro».
Ma il dubbio durò poco. Gli interrogatori e le esecuzioni continuarono senza alcun rimorso fino alla fine.
«Lei è rimasto al suo posto fino alla fine», gli ho detto. «Ha sempre eseguito con scrupolo gli ordini che le venivano dati?».
Duch mi ha risposto: «Ho obbedito. Abbiamo fatto il nostro lavoro fino al 7 gennaio 1979 quando le forze di liberazione cambogiane, appoggiate dai vietnamiti, conquistarono Phnom Penh. Non avevamo alcun piano di fuga, non avevamo previsto nessuna via d’uscita...».
Ma, dopo la caduta dei khmer rossi, l’aguzzino, come fecero molti altri, si mescolò ai concittadini e scomparve nel nulla aiutato dalla confusione seguita alla guerra.
Molti anni dopo alcuni missionari americani lo convertirono al cristianesimo. La sua vera identità fu scoperta nel 1998 e subito dopo fu arrestato. Dopo la morte di Pol Pot e di Ta Mok, il “macellaio zoppo”, Duch è il più inquietante testimone della follia politica dei khmer rossi.
Gli ho chiesto per quale ragione si è convertito al cristianesimo e come erano andate le cose. «Mi convinsi che i cristiani erano una forza e che questa forza potesse sconfiggere il comunismo. All’epoca della guerriglia, quando avevo 25 anni, la Cambogia era corrotta, il comunismo rappresentava una promessa e una speranza e io ci credetti. Ma quel progetto fu un totale fallimento».
Ma se Duch si è veramente pentito cosa pensa delle migliaia di vittime della sua violenza? Non c’erano alternative per le persone come lui intrappolate negli ingranaggi della macchina dei khmer rossi, mi ha risposto.
«Se ci si mette alla ricerca delle colpe e dei vari livelli di responsabilità, allora posso solo dire che chiunque entrava nel sistema di potere messo in piedi da Pol Pot non aveva via d’uscita. Solo chi stava ai vertici sapeva quale era la vera situazione nel Paese, ma i funzionari intermedi non sapevano nulla. E poi c’era l’ossessione della segretezza».
«Ovviamente lei mi sta chiedendo se avrei potuto ribellarmi o quanto meno fuggire. Ma se avessi tentato di fuggire, avevano la mia famiglia come ostaggio e ai miei familiari sarebbe toccata la stessa sorte degli altri prigionieri di Tuol Sleng. Se fossi fuggito o mi fossi ribellato non sarebbe servito a nessuno».
© The Independent, Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 18.2.08
I sogni dell’Islam. E i nostri incubi
di Robert Fisk


Da piccolo avevo un incubo ricorrente che aveva per protagonista il cane di mio nonno. Arthur Rose aveva un Labrador che si chiamava Sir Lancillotto ed io lo adoravo. Penso che il mio affetto fosse ricambiato perché scorrazzavamo insieme per i campi di Arthur, quando gli facevo lo sgambetto anche lui mi si infilava tra le gambe e quando mi stendevo a terra lui si stendeva accanto a me e, scodinzolando, mi sbatteva in faccia la sua possente coda.
Ma nei miei incubi Lancillotto era aggressivo - non il Labrador amichevole, giocherellone, ma un cane che mordeva, che abbaiava come un lupo e digrignava i denti con odio. Mi tormentava fin quando le mie urla di paura facevano accorrere mio padre accanto al mio letto. Mio padre mi scuoteva fin quando mi svegliavo e mi liberavo di questo spaventoso, terribile cane.
Noi occidentali abbiamo la tendenza a considerare i sogni alla stregua di fenomeni del tutto casuali causati da un allentamento della coscienza da parte del cervello, un’onda di relitti provenienti dalle nostre esperienze quotidiane. Ma per molti musulmani radicali i sogni sono una faccenda molto più seria. Il profeta Maometto ricevette il messaggio da Dio - il Corano - dopo una serie di sogni durati sei mesi e c’e’ chi crede che l’intero Corano sia stato trasmesso da Dio al profeta in stato di trance onirica.
I sogni, in altre parole, non erano il semplice riflesso della diminuita attività cerebrale, ma potevano essere il modo in cui Dio comunicava direttamente con l’uomo. Il dottor Iain Edgar del dipartimento di Antropologia dell’università di Durham, mi ha inviato i risultati della sua ricerca su questo fenomeno, l’esperienza del “vero sogno” - ruya in arabo - che, secondo lui, «è un aspetto fondamentale, ispiratore, strategico persino del jihadismo militante contemporaneo in Medio Oriente a altrove».
Descrivendo l’Islam come «quella che è probabilmente la più grande cultura onirica del mondo contemporaneo», Edgar cita un hadith (un detto del profeta) nel quale Aisha, la moglie di Maometto, dice che «l’inizio dell’ispirazione divina è arrivato con una serie di sogni belli e virtuosi mentre dormiva... Maometto non ha mai avuto un sogno premonitore, ma la verità gli è apparsa chiara come la luce del sole». Ibn Sirin, uno scrittore dell’ottavo secolo di Bassora, nel sud dell’Iraq, che si è occupato di sogni - ha scritto «I sogni e la loro interpretazione» - divideva i sogni in sogni spirituali (ruan), in sogni ispirati dal demonio e in «sogni che emanavano dal nafs (“il sangue caldo che scorre nelle vene”) - uno spirito terrestre che abita nel corpo di chi sogna e che è altra cosa rispetto all’anima».
Temo che anche il feroce Labrador di mio nonno appartenesse a quest’ultima categoria di sogni. Ma queste idee non vanno prese alla leggera. Tre anni fa Mohammed Amanullah ha presentato a Berkeley una relazione nella quale sosteneva che metà dei 12 membri del dipartimento studi religiosi di una università della Malesia avevano fatto sogni “veri”, nel 50% dei quali appariva il profeta. Un hadith riporta le parole del profeta: «chiunque mi abbia visto in sogno, senza alcun dubbio mi ha visto davvero in quanto Satana non può imitare le mie sembianze».
Non v’è dubbio che Osama bin Laden crede nei sogni. Non solo una volta mi ha detto che uno dei suoi “fratelli” aveva sognato di avermi visto con la veste dei musulmani, la barba e in groppa ad un cavallo e questo voleva dire che ero un “vero musulmano” - un probabile tentativo di reclutarmi da me prontamente respinto - ma dopo l’11 settembre avrebbe detto che «Abul-Hassan al-Musri mi ha raccontato un anno fa: “ho sognato che giocavamo a calcio contro gli americani. Quando la nostra squadra è entrata in campo, ci siamo accorti che erano tutti piloti!”. Al-Musri non sapeva nulla dell’operazione 11 settembre e ne è venuto a conoscenza solo ascoltando la radio a cose fatte. Ha aggiunto che avevamo vinto la partita e che questo era un ottimo presagio».
Yosri Fouda, un giornalista di al-Jazeera che nel 2002 ha intervistato gli esponenti di Al Qaeda Ramzi bin al-Shibh e Khalid Shaykh Mohammed, ha riferito che al-Shibh gli ha riferito di aver sognato molte volte i “fratelli” prima degli attentati. «Parlava del profeta e dei suoi più intimi amici come se li avesse conosciuti davvero». Al-Shibh avrebbe in seguito ricordato che «Mohammed Atta (uno dei principali dirottatori dell’11 settembre) mi ha detto che Marwan (el-Shedi, nda) ha fatto un bellissimo sogno nel quale volava in cielo circondato da uccelli verdi non del nostro mondo e che andava a sbattere contro un sacco di cose ed era molto felice».
Fouda osserva che gli “uccelli verdi” ricorrono spesso nei sogni. Il verde è il colore dell’Islam e gli uccelli in volo sono il simbolo del paradiso. Edgar sottolinea che il racconto di Osama bin Laden del sogno nel quale lo sciagurato Fisk appariva nei panni di un imam che montava a cavallo sta ad indicare - secondo Iain Edgar - «lo status, la condizione, l’onore, la dignità, il potere e la gloria di una persona». Grazie infinite, ma lasciamo perdere.
Richard Reid, il cittadino britannico e aspirante terrorista che nascondeva l’esplosivo nelle scarpe, ha parlato di un sogno nel quale tentava di farsi dare un passaggio da un furgone stracarico di gente per cui era costretto a viaggiare su un’auto più piccola. Il furgone presumibilmente rappresentava i quattro aerei usati per gli attentati dell’11 settembre dai quali Reid era stato escluso e l’auto era l’aereo dell’American Airlines a bordo del quale Reid ha tentato invano di “emulare” i suoi 19 compagni.
Zacarias Moussawi, il francese di origine marocchina che forse secondo i piani avrebbe dovuto essere il ventesimo dirottatore, ha scoperto che i sogni nei quali a bordo di un aereo si schiantava contro un edificio altissimo sono diventati un elemento significativo nel corso del processo cui è stato sottoposto negli Stati Uniti nel 2006. A Rahimullah Yusufzai, di gran lungo il più acuto giornalista presente in Pakistan, i talebani hanno detto che il loro fondatore, il mullah Omar cieco ad un occhio, «riceve le istruzioni in sogno e le segue fedelmente». Un sogno rappresenta la genesi della fondazione del movimento dei talebani. Il mullah Omar una volta ha telefonato a Yusufazai chiedendogli l’interpretazione di un sogno nel quale un “palazzo bianco” veniva incendiato. Il mullah Omar sapeva che Yusufazai era stato alla Casa Bianca. Assomigliava al palazzo bianco? Tutto questo accadeva prima dell’11 settembre.
È stupefacente che Qari Badruzzaman Badr, un ex prigioniero di Guantanamo, abbia raccontato al Daily Times di Lahore come «molti arabi sognavano che il santo profeta in persona comunicava loro che erano liberi... Un arabo ha visto Gesù che gli ha preso la mano e gli ha detto che i cristiani venivano ingannati. In seguito gli altri prigionieri hanno potuto sentire sulla sua mano il dolce odore di Gesù». In altre parole Gesù, che è uno dei grandi profeti dell’Islam, dice ai prigionieri musulmani che i cristiani sono oggetto di un inganno. Commenta Edgar: «questo messaggio onirico deve essere sembrato una meravigliosa trascendenza della loro oppressione!».
Ma ci sono sogni falsi. Un imam di Peshawar raccontava che un uomo gli aveva detto che il profeta gli aveva detto che era permesso bere alcol. Ma quando l’uomo ha ammesso che beveva, l’imam gli ha risposto che non aveva visto il profeta, ma voleva soltanto giustificarsi perché beveva. Ahimé, temo proprio che non ci siano speranze per noi infedeli!
© The Independent, Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 18.2.08
Bertinotti al Pd: non saremo fratelli-coltelli
"Ma tra Colaninno e l'operaio Thyssen uno è di troppo". Radicali verso l'accordo col Pd


"Il risultato delle elezioni ora è aperto. A Veltroni vorrei dire: ma ti pare nuovo il tema della crescita? La qualità non si misura col Pil"

ROMA - La rottura fra Casini e Berlusconi fa dire a Fausto Bertinotti che «sì, il risultato delle elezioni ora è aperto». La partita è più incerta, diminuiscono i partiti, ma aumentano, rispetto al 2006, i candidati premier. Quello della Sinistra arcobaleno, Bertinotti, gioca sul suo terreno ma di fronte alle candidature nuove del Pd non si tira indietro e commenta con un certo sarcasmo. Se Walter Veltroni candida insieme l´operaio sopravvissuto al rogo della Thyssen-Krupp e l´imprenditore Matteo Colaninno, «uno è di troppo», dice Bertinotti. «Noi - spiega - dobbiamo stare da una parte sola: quella dei lavoratori e delle lavoratrici nel conflitto sociale».
Era inevitabile un confronto tra chi era alleato fino a venti giorni fa e condivideva l´esperienza del governo Prodi: Bertinotti precisa così che Sinsitra Arcobaleno e Pd sono «in forte competizione», ma spiega anche che «dobbiamo rendere chiari i termini di questa competizione». «Non credo si debba tornare ai vecchi modelli di fratelli-coltelli - specifica - ma dobbiamo dimostrare che, pur avendo in comune con il Pd l´idea di sconfiggere la destra, abbiamo un´altra idea di sinistra». In effetti il presidente della Camera critica l´idea di alternativa alla destra emersa dall´assemblea costituente Democratica. «Il Pd - attacca - vuole sconfiggere la destra avendo come idea centrale quella della crescita. A Walter vorrei dire amichevolmente: ma ti pare nuovo il tema della crescita? Ti pare nuovo partire da un tema criticato negli ultimi vent´anni?».
Ma non è alla Sinistra che in queste ore guarda Veltroni. Vuole chiudere il puzzle delle alleanze e trovare un accordo con i radicali. Ieri il coordinatore del Pd e braccio destro del segretario Goffredo Bettini ha visto di nuovo Marco Cappato. Ci sono spiragli per un accordo. Oggi Veltroni manderà un impegno scritto alla sede radicale per aprire le liste del Pd ai rappresentanti del partito di Pannella. Non per un apparentamento, dunque, ma in quel documento ci sarebbero le garanzie di alcune candidature (cinque), di un posto da capolista per Emma Bonino con la prospettiva di avere un ministero nell´eventuale governo Veltroni o una presidenza di commissione se il Pd andrà all´opposizione. Poi, punto chiave per i radicali, si promette una visibilità in televisione perché Cappato lo ha spiegato a Bettini: «Noi non vogliamo e non possiamo sparire». E nel patto è previsto una sorta di allegato al programma veltroniano da firmare solo con i radicali su giustizia, economia e riforme istituzionali. In sostanza, i radicali avrebbero margini di manovra su altri temi, come i diritti civili e quelli etici. Il Pd pone una condizione, a questo punto: un sì o uno entro stasera. Anche il più strenuo difensore dell´identità radicale e del simbolo, Marco Pannella, sembra più disponibile all´intesa. «I margini sono da creare ma dobbiamo tentare fino alla fine, con il Pd bisogna negoziare», ha detto Pannella al congresso dell´associazione Luca Coscioni.
(g.d.m.)

Repubblica 18.2.08
I consigli di Avvenire. Pd, arriva la carica dei cattolici
Il 27 convention a Roma. Dalla Bindi alla Binetti stop alla diaspora
di Giovanna Casadio


La sfida dei leader "Dimostriamo nei fatti dove sono i credenti in politica"
Aprirà i lavori il salesiano don Carlo Nanni, vicino al cardinale Tarcisio Bertone

ROMA - Giuliano Ferrara "pro Life" più che altro «irrita le gerarchie». Pier Ferdinando Casini ha il partito sotto botta e dovrebbe accogliere i suggerimenti di Avvenire, il quotidiano dei vescovi, sulla «qualità» di chi mette in lista. Da ciò ne deriva che «una questione cattolica si è ormai aperta per Berlusconi e company; al contrario la diffidenza della Chiesa nei confronti del Partito democratico va calando». Beppe Fioroni ne è sicurissimo. Personalmente, ha invitato don Carlo Nanni, teologo e pedagogista salesiano, ad aprire (con Andrea Riccardi della comunità di Sant´Egidio e con il sociologo Franco Garelli) il convegno dei cattolici del Pd, il 27 febbraio a Roma. C´è da scommettere che lo stesso cardinale Tarcisio Bertone, salesiano di formazione, apprezzerà la scelta dell´amico don Carlo.
E insomma, i cattolici dei democratici passano all´attacco. Lasciandosi alle spalle certi antichi rancori tra i prodiani "cattolici adulti" come Rosy Bindi e Franco Monaco e i teodem Paola Binetti o Emanuela Baio, i cristiano-sociali o gli stessi Popolari. Tutti insieme, uniti, stanno predisponendo la convention. A volere l´iniziativa è stato soprattutto Dario Franceschini, vice di Veltroni, leader cattolico popolare. Su Franceschini si scaricano tutti i malumori e le tensioni che scuotono in queste ore i cattolici nel Pd. La vicenda dell´accordo con i Radicali, per dire. Lo hanno tempestato di sms e di telefonate. Lo hanno anche accusato di esserci «veltronizzato» se non ci fosse stato un chiarimento, e cioè che «i cattolici sono radice essenziale del Pd al pari di chi proviene dalla tradizione socialista e che non possono esserci derive laiciste». A un certo punto lui, il pacato Franceschini, è sbottato: «Dimostriamo nei fatti dove sono i cattolici in politica». Nel Pd, appunto.
Oltre cento parlamentari, consiglieri regionali, comunali, provinciali ma rigorosamente in platea. A parlare dal palco esponenti delle associazioni ecclesiali, sindacalisti, intellettuali. Poi si aprirà il dibattito. E il titolo della convention la dice lunga sulle intenzioni di «rassicurare la base cattolica e le gerarchie», rimarca la Binetti, perché è «Educare al bene comune», lo stesso tema delle settimane sociali della Chiesa. Conclusione e saluto di Veltroni. I cattolici del Pd hanno un doppio obiettivo: da un lato mostrare che non sono affatto «irrilevanti» e che un´eventuale presenza dei Radicali nelle liste non snatura la fisionomia del partito nato dall´accoppiamento di Ds e Margherita; dall´altro, approfittare del momento che giudicano propizio per raccogliere i consensi cattolici. Certamente, ragiona Francesco Saverio Garofani, queste elezioni potranno rappresentare «un test» sull´atteggiamento dei cattolici che si trovano a scegliere tra centrosinistra, la destra e un centro peraltro frammentato.
Fioroni insiste: «Ripeto, la questione cattolica ormai si è aperta nel centrodestra perché il Pdl di Berlusconi e Fini è diventato conservatore e di destra e ha spostato la sua posizione su rive quanto più distanti dalla dottrina sociale della Chiesa. L´apparentamento con Ferrara è lo specchietto per annacquare questa situazione. A Formigoni e a Pisanu ho chiesto: siete consapevoli della sempre maggiore lontananza tra voi e il mondo cattolico?». Nonostante all´Assemblea costituente di sabato, un´ondata di irritazione abbia attraversato i cattolici Popolari e teodem quando il segretario ha dichiarato di volere accogliere «Emma Bonino e il suo partito», il giorno dopo prevale «l´ottimismo del fare». Emanuela Baio è convinta che, «forse sarebbe stato meglio spiegare non solo che la 194 non si modifica ma anche che va attuata completamente». È altresì sicura che un programma «in cui si parla molto di famiglia va incontro alle richieste dei cattolici» e che solo «poche personalità radicali» saranno ben accette. La Baio è stata incaricata di invitare esponenti delle Acli, dei Focolarini, dell´Azione cattolica. Giorgio Merlo, un "fedelissimo" di Franceschini, è un altro degli organizzatori.
Rosy Bindi alla Costituente ha affermato che il Pd «non lascerà i cattolici a Ferrara, Casini o Pezzotta». Precisa ora che questo non si fa attraverso «correnti cattoliche», bensì «non inseguendo la strumentalità con cui Ferrara introduce i temi etici nella campagna elettorale». Tutti d´accordo. Franceschini qualche giorno fa aveva dichiarato: «Non c´è nulla di più rabbrividente che fare delle questioni eticamente sensibili, aborto in testa, un terreno di scontro tra laici e cattolici da cavalcare in campagna elettorale, è una cosa che tutti dobbiamo sfuggire». Condivide pure la Binetti, esprimendo un desiderio: «Vorrei non sentire più nessuno dire che i cattolici non possono stare a sinistra. Anche se sui Radicali ho già detto tutto il mio dissenso, sono contagiata da un certo ottimismo: ci sono tanti cattolici nel Pd e , miracolo, sono pure uniti».

Repubblica 18.2.08
Il giorno che il ‘68 perse l'innocenza
Il movimento che sconvolse l'Europa raccontato dallo scrittore Peter Schneider: la follia alla base della nostra ribellione
"Il mio ‘68 tra gli studenti tedeschi così finì la cultura dell'obbedienza"
di Peter Schneider


Quel movimento utilizzò una "neo-lingua" appassita e fuori moda
Il peccato fu chiudere gli occhi davanti alla realtà illiberale dei modelli

Mentre ci bevevamo la terza, o forse la quarta bottiglia di vino da poco, Hans Joachim, soprannominato Chefchaot, il sovversivo numero uno, pose la grande domanda: come c´immaginavamo di «risolvere il problema del potere a Berlino Ovest». Problema del potere? Quale problema del potere? Hans Joachim aveva lanciato il tema nel gruppo di amici, quella sera in una stanza tra giovani a Berlino Ovest, con un sorriso sulle labbra, ma la sua domanda non era retorica. Con un provocante scintillio negli occhi, ci guardò uno dopo l´altro. Tra noi tutti era quello con più esperienza politica, un bel ragazzo con i capelli corti. Gli bastava prendere in mano un megafono a una dimostrazione per acquistare un carisma straordinario. Il governo di Berlino Ovest è alla fine, disse; che lo vogliamo o no, dobbiamo prepararci all´eventualità che il potere ci cada in mano, che ci sia offerto sul vassoio argentato dalla classe dominante ormai in preda alla confusione.
Noi tutti del gruppo d´amici ascoltammo confusi, eppure il suo scenario non ci appariva assurdo: all´ultima dimostrazione contro la guerra in Vietnam secondo i nostri conti erano scese in piazza più di diecimila persone. A sorpresa, la questione del potere divenne tema di discussione, quella sera tra noi giovani in una stanza d´appartamento a Charlottenburg. Smettemmo di discutere sulla probabilità della nostra presa del potere. Cominciammo subito a dividerci le cariche: come borgomastro scegliemmo un compagno assente quella sera. Hans Joachim ebbe il comando della Polizia, Bernhard il maniaco dei libri, allora l´unico marxista-leninista tra noi, avrebbe dovuto rivoluzionare scuola e università.
Kajo, appassionato di teatro, avrebbe dovuto spazzar via con una scopa d´acciaio Opere e Teatro e portarci cartelloni rivoluzionari. Il piccolo Manfred avrebbe avuto le Finanze, e io, soprannominato «il poeta», avrei avuto il dicastero della Cultura.
In un attacco di spirito piccolo borghese, chiesi a Hans Joachim come si immaginava, concretamente, la presa del potere. I partiti di Berlino ovest si sarebbero dissolti nell´aria? La Polizia e i servizi segreti avrebbero prestato giuramento alla nostra Repubblica dei Consigli? E gli alleati occidentali?
Ecco le domande sbagliate, rispose Hans Joachim: «Troppo concretizzanti»: secondo lui la questione era la prospettiva di lungo periodo. E se poi andrà in un altro modo, se le forze del vecchio ordine alla fine vinceranno, potremo sempre proclamare il nostro scenario un happening. Ricordi di serate di quarant´anni fa a Berlino Ovest. Certo, mai come allora nella storia recente della Germania ci fu un movente migliore per la rivolta di una generazione contro la generazione dei suoi genitori. Bastava un´occasione, un pretesto, per far esplodere la diffusa diffidenza contro lo Stato in cui decidevano anche gli ex nazisti. L´occasione fu la guerra in Vietnam, e la rabbia perché la stessa nazione che aveva liberato i tedeschi dal nazismo e portato loro la democrazia bombardava un popolo con il napalm e chiedeva l´appoggio dello Stato-erede del Terzo Reich a questa politica. L´occasione locale fu l´assassinio del giovane studente Benno Ohnesorg, ucciso dai proiettili d´un poliziotto durante una manifestazione contro una visita dello Scià, e insieme il fallimento costante dei Quattro poteri a Berlino Ovest: polizia, governo, giustizia, stampa dominata dal gruppo conservatore Springer.
Eppure, il movimento studentesco finì male, per esaurimento, per colpa sua. Fu così perché la rabbia giovane e giusta volle imporsi nel salotto buono e sulla tribuna dei movimenti di liberazione con una «neolingua». Questa «neolingua» in verità si nutriva sempre più dei polverosi lessici del marxismo-leninismo, modernizzato dall´onnipresenza del Grande Presidente cinese. La protesta contro politici e funzionari incapaci e macchiati dal passato nazista si trasformò in protesta contro «il Parlamentarismo», «il sistema dei maiali». La rivolta fu ribattezzata «rivoluzione»; indignazione e rabbia contro le ingiustizie divennero «odio di classe». Padri e madri furono ridotti a «borghesia» o «generazione nazista». La cosa decisiva, comunque, fu che i nuovi-vecchi concetti dei dispensatori di coscienza politica furono inghiottiti acriticamente e fatti propri, e riprodotti e ridiffusi, da giovani ben volenterosamente disposti a recepirli. L´effetto d´intimidazione del Gruppo giocò allora un ruolo importante. Nessuno ammetteva volentieri di capire solo a metà la «neolingua». Pochi ebbero la consapevolezza di dichiararla appassita e fuori moda.
Così il movimento perse la sua innocenza, il suo fascino e la sua sfrontatezza, quando fece propria la lingua aliena rivoluzionaria.
Il movimento trovò le sue migliori espressioni negli slogan contro i baroni delle università, nella protesta contro l´autorità, contro la guerra in Vietnam e nella solidarietà emozionale con i movimenti di liberazione del Terzo mondo. Con quegli slanci iniziali non poteva realizzarsi una rivoluzione, ma un rinnovamento culturale durevole della società. La più importante conquista del ‘68 in Germania resta l´esser riuscito a spezzare la cultura dell´obbedienza. Il suo peccato più grande fu che i suoi leader, dopo un inizio da democrazia di base e libertario, approdarono a una dottrina antidemocratica e chiusero gli occhi davanti alla realtà dei loro modelli, Cuba, Vietnam, Cambogia, Cina. Ma mentirei se non ammettessi che senza un po´ di follia e di auto sopravvalutazione, questa ribellione non ci sarebbe stata. Non c´è ribellione senza follia. Possiamo solo congratularci sia con la società sia con noi stessi, per il fatto che noi giovani non avemmo mai una reale possibilità di prendere il potere. Per fortuna nuove forme di vita e comunicazione, idee che sotto sotto il movimento portava con sé, hanno mostrato una forza ben maggiore dei programmi dei leader di allora. Dallo scontro tra una democrazia importata e contagiata da personalità politiche compromesse col nazismo e un movimento di protesta radicale, poi totalitario, è nata alla fine la società civile di gran lunga più vivace nella storia tedesca.
(Dal libro «Rebellion und Wahn» - Ribellione e follia -, editore Kiepenheuer & Witsch, Berlino, 2008)

Repubblica 18.2.08
Joan Mirò
In direzione della poesia e del sogno
Una grande retrospettiva a Ferrara: dalle prime tele realiste al surrealismo e infine al gioco


FERRARA. Occhi, volti, sguardi interroganti o ciechi nascono improvvisi all´incrociarsi del gran gesto nero che copre per metà l´immenso dipinto, e ancorano al primissimo piano lo scorrere ritmato, sulla superficie bislunga, delle figure misteriose che popolano la spazialità della tela; mentre laggiù, al fondo, i colori, liquidi e intrisi uno dell´altro, intessono una danza senza freni o spaventi. Sembra il lavoro d´un giovane, pieno com´è di incanto, di slancio, di rischio persino: ed è invece uno dei grandi quadri dell´età più tarda di Joan Miró, dipinto nel 1974, quand´egli dunque aveva passato gli ottant´anni, e tanta pittura gli era scesa dalle mani per il mezzo secolo e oltre che era allora durata la sua vicenda. Figure e uccelli nella notte, si chiama quel dipinto: che entrò presto nelle collezioni del Pompidou di Parigi, e dal museo francese raramente s´è da allora allontanato. Oggi questa grande tela, oltre sei metri di larghezza per quasi tre d´altezza, conclude clamorosamente la bella antologica (Miró: la terra, a cura di Tomàs Llorens) che Ferrara Arte organizza a Palazzo dei Diamanti in collaborazione con il museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, dove la rassegna si trasferirà in estate; e dà misura dell´importanza e della singolarità dei prestiti, pubblici e privati, che da tutto il mondo sono giunti a Ferrara in quest´occasione.
Miró è uno dei pittori più amati dello scorso secolo; e dei più prolifici - avendo praticato con quasi eguale intensità disegno e pittura, grafica ceramica e scultura, cercando sempre transiti e contaminazioni fra le varie tecniche; e numerose sono state dunque, anche in Italia, le mostre a lui dedicate, in anni a noi prossimi. Fra esse, quella odierna si qualifica certamente come d´assoluto rilievo, tanto da richiamare per impegno la vastissima retrospettiva ordinata sull´artista in occasione del centenario della nascita, promossa nel 1993 a Barcellona. E il tema della terra - una terra mai da Miró dimenticata, come luogo primigenio ove affondano le sue radici e, più in generale, luogo di nascenza e d´aggregazione di ogni verità - che la mostra di Ferrara si dà come filo conduttore, è davvero capace di costituire, nei lunghi anni della sua pittura, una sorta di basso continuo attorno al quale si allineano le singole voci, i singoli dipinti: a partire dai più antichi, ovviamente, ove la terra natale, la fattoria di Montroig, i suoi orti e animali e contadini, ne costituiscono l´avvio anche iconografico.
Osteggiato a lungo dal padre sulla via di quello strano mestiere che voleva per sé - essere un pittore - Miró ha infine cominciato da qui, dipingendo un vero ottico pertinacemente scrutato e riprodotto tal quale sulla tela. «La calligrafia d´un albero o di un tetto, foglia per foglia, ramo per ramo, un filo d´erba alla volta, tegola dopo tegola»: queste le sue prime ossessioni; che inseguì al punto di farsi spedire, quando era intento a Parigi a un cruciale dipinto di quel tempo, La fattoria, iniziato in Spagna e terminato nella capitale francese dove s´era nel frattempo trasferito, «un po´ di vera erba di Montroig in una busta, per poter finire il quadro».
Di questo periodo aurorale, di grandissima seduzione, la mostra di oggi presenta Il solco e La contadina, due quadri che si collocano ai due estremi cronologici del suo primo tempo, il primo databile al 1918 circa, il secondo del ‘22-´23. Miró era allora già stabilmente a Parigi, e vi iniziava quelle frequentazioni che l´avrebbero condotto a fiancheggiare la prima età del surrealismo. André Masson, Antonin Artaud, Michel Leiris furono allora fra i suoi sodali; poi presto si legò ad Aragon e a Breton, e da quest´ultimo fu sollecitato a partecipare alle prime mostre surrealiste, a partire da quella del 1925, e a pubblicare le sue opere su La révolution surréaliste e su Minotaure.
Iniziava così la conversione di Miró alla nuova avanguardia: «La scoperta del surrealismo ha coinciso per me con una crisi della mia pittura e la svolta decisiva che mi ha fatto abbandonare il realismo per l´immaginario verso il 1924», dirà. D´altra parte, nel corso degli anni, furono molte le occasioni nelle quali Breton, pur senza mai ripudiarlo, parlò di Miró con sospetto: «l´inconveniente di Miró, scriverà ad esempio, sta nel fatto che la sua personalità sembra essersi fermata alla fase infantile, il che non è sufficiente a difenderlo dall´incostanza, dallo spreco e dal gioco». Nello stesso tempo, furono diverse e notevoli già negli anni Venti le occasioni in cui Miró pretese per sé un´indipendenza dal pensiero e dagli atteggiamenti del gruppo; e ad esempio le sue preferenze letterarie, tanto importanti nel processo ideativo dell´opera, s´indirizzarono sempre piuttosto verso Apollinaire (il cui purismo fu presto guardato con sospetto da Breton) che non a Rimbaud o a Lautréamont.
Ma ancor più, fu il sentimento quasi sacrale di cui Miró investì la pittura a scavare fra lui e i compagni di strada parigini un solco profondo: un sentimento maturato nel tempo della prima e cruciale vocazione coltivata - appunto "accanto" alla terra, ai suoi segni e alle sue luci - nella casa paterna di Montroig, e speso nella trepida ricerca di una verità, non solo di natura, avvistata al termine d´un lungo processo di elaborazione (tutti i suoi rari dipinti giovanili occupano mesi, o anni, di lavoro). E nulla meno che questo assomiglia ovviamente alla folgorazione, alla casualità, all´azzardo, alla cecità che segnano sempre il modo della creatività surrealista. La cui stessa fondamentale pratica dell´automatismo appartenne a Miró solo imperfettamente: strumento, semmai, per liberare la fantasia in associazioni asintattiche, non certo nume cui delegare intero il senso dell´opera, ricca ancora e sempre di memorie visive e di ostinata volontà di forma.
Il surrealismo fu dunque per Miró un transito, non un approdo: un transito grazie al quale la sua pittura dalle radici antiche e mai dimenticate (che scendono al tempo romanico della sua terra, al punto di confine fra tardogotico e rinascimento italiano - dal Beato Angelico al Sassetta - o ancora alla fissità iconica di Bisanzio, ad un Oriente ancora più remoto, al medioevo germanico e a Bosch) si rese disponibile alla modernità, ed anzi chiave essenziale per tante sue strade a venire: aprendo al surrealismo stesso la porta di Kandinsky e dell´astratto; e consegnando infine a Gorky, e attraverso di lui alla nuova arte americana, i tesori meno effimeri del surrealismo.
Saggia e dissoluta, gioiosa sempre, ma mai facilmente consolatoria, è stata la sua pittura; tutto questo assieme, ed altro ancora: nascondendo nelle pieghe della metamorfosi interminata delle sue forme lo slancio lirico e l´abbandono giocoso, la malinconia e l´allucinazione (quest´ultima a un passo soltanto dal farsi minacciosa in prossimità della guerra civile spagnola, attorno al cui tempo la mostra di oggi fa soste importanti). Metamorfosi di forme naturali che il sogno ha potuto trasformare, ma mai eclissare del tutto; metamorfosi suscitata più da corse avventurate della fantasia in regioni iperuranie che dallo scendere, come accadde a Klee, nella oscura «regione dei morti e dei mai nati»; metamorfosi sulla quale l´immensa cultura visiva di Mirò esercitò sempre una sorta di silenzioso, non esibito ma fermo controllo. Grazie a essa, Miró giunse a toccare, e a stringere in mano per tutti gli anni della lunga operosità, quella sua difficile ambizione giovanile, di sopire la «plasticità» della pittura e di avviarla «nella direzione della poesia e del sogno».

Corriere della Sera 18.2.08
La caduta del governo ha interrotto l'iter. Il ministro Turco: all'esame del Consiglio superiore
Fecondazione, bloccate le nuove linee guida
di Margherita De Bac

Il punto controverso
Le polemiche riguardano la diagnosi preimpianto sull'embrione per coppie con malattie genetiche Il ministro Livia Turco attaccata da Giuliano Ferrara per aver mandato le linee guida al Css

ROMA — Le nuove linee guida sulla fecondazione artificiale sono pronte ma lo scioglimento del Parlamento ha bloccato l'iter del provvedimento. Il ministro della Salute Livia Turco, dopo essersi accertata che fossero inoppugnabili dal punto di vista giuridico, stava per firmare il decreto. Ma poco prima di compiere l'ultimo atto, il governo è caduto e il documento, modificato rispetto a quello emanato dall'ex ministro Girolamo Sirchia, si è bloccato di nuovo.
Ieri Giuliano Ferrara dalle colonne del Foglio ha criticato il comportamento del ministro che non avrebbe mantenuto le promesse, inviando per la seconda volta le norme esplicative della legge 40 al Consiglio Superiore di Sanità. Secondo il quotidiano il costituzionalista Filippo Vari, a supporto delle tesi di Ferrara, ha sostenuto che l'emanazione delle linee guida è «illegittima » perché provengono da un governo in carica solo per il disbrigo di affari correnti.
«Procedura bizzarra. O è un modo per sfuggire al pressing dello sciopero della fame di Marco Cappato e dell'associazione Coscioni — ha detto il direttore del quotidiano —. Oppure con questo passaggio al Consiglio Superiore di Sanità si vuole conferire una qualità scientifica a una decisione soltanto politica ». Ma successivamente, intervenendo alla trasmissione di Lucia Annunciata «In mezz'ora» su Rai3, Ferrara ha reso noto che il ministro Turco avrebbe fatto marcia indietro bloccando il provvedimento.
Respinge le critiche il ministero della Salute: il rinvio del testo al Consiglio — che per decidere non ha scadenze — è un passaggio dovuto. Comunque tutto porterebbe a pensare che la Turco sia molto titubante a rompere gli indugi. All'interno del Pd soffiano venti contrari alla modifica delle linee guida. I cattolici, la senatrice Paola Binetti in testa, non vogliono che la legge 40 sia ammorbidita. Marco Cappato aspetta: «Capisco il suo timore di esporsi e sono certo che senza il nostro sciopero della fame la questione si sarebbe insabbiata. Dal ministro mi aspetto di più. Siamo pronti a riprendere le proteste se questa manovra dovesse avere un carattere dilatorio, se ci accorgessimo che si vuole rimandare il decreto a dopo le elezioni».
L'attenzione e le polemiche sono concentrate in particolare su una parte del testo. Quella che cancellerebbe il divieto di diagnosi preimpianto sull'embrione, richiesta dalle coppie con malattie genetiche trasmissibili ai figli in quanto l'analisi sul Dna aumenta in modo importante le possibilità di avere bambini sani.

Corriere della Sera 18.2.08
I 53 giorni che ispirarono Stendhal
«La Certosa di Parma», scritto in meno di due mesi, è uno dei romanzi più prodigiosi
di Alessandro Piperno


Maestri. Una prosa disinvolta destinata a servire i fatti e le idee senza celebrare se stessa. E tutti i personaggi diventano una proiezione dell'autore

Se la morte dura appena un secondo, perché darle tutta quest'importanza?
La narrazione
La grande esperienza umana della delusione viene resa in un modo allo stesso tempo concreto e sublime Henri Beyle detto Stendhal (17831842).

Non credere nell'ispirazione è diventato un esercizio noioso. Avviata da scrittori del calibro di Poe, Baudelaire, Valéry, nel frattempo, la polemica contro l'ispirazione ha perso freschezza. Dal più imberbe scrittore al più eminente ce ne fosse uno che, interrogato sulla faccenda, non si schermisca civettuolo dietro a formule rituali: «Non so neppure cosa sia l'ispirazione ».
Ha davvero senso negare l'esistenza di ciò che taluni libri testimoniano quasi a ogni capoverso?
Chiamatela necessità, o più pudicamente intensità. Ma, Dio santo, non negatela per principio e per snobismo. Per me è questione di precisione. La Certosa di Parma è uno dei libri più ispirati di ogni tempo in virtù della sua soprannaturale perizia. Come se qualcuno l'avesse dettata a Stendhal così com'è. La leggi e dici: «Non poteva essere altrimenti».
Michel Crouzet, nella sua monumentale biografia stendhaliana, dovendo affrontare il momento in cui Stendhal, il 4 novembre 1838, si barrica in casa per scrivere in appena 53 giorni la Certosa, commenta: «Qui lo storico di Stendhal si scontra con un mito». Un mito talmente infrangibile che perfino Mariella Di Maio, stendhaliana di fama internazionale, tiene a comunicarci che la Certosa — sia per «la rapidità della sua creazione» sia per «il mistero della sua origine » — è «un libro prodigio».
D'altra parte sbaglia chi crede che l'ispirazione sia prerogativa dell'«artista da giovane». Di solito essa si concede all'artista canuto, nel momento in cui questi, raggiunta una sufficiente fiducia nelle proprie capacità tecniche e una sfiducia per tutto il resto, avverte che nulla gli è precluso. Ecco perché gli ultimi due capitoli dell'Educazione sentimentale di Flaubert o i passi meno didascalici di Resurrezione di Tolstoj, per non dire delle pagine proustiane sull'Oblio e degli anfratti più misteriosi del Castello kafkiano, ci appaiono di una scabrezza che sembra aver abolito ogni artificio retorico.
Siamo di fronte ad exploit artistici che testimoniano una consapevolezza espressiva degna della Pietà Rondanini o dell'ultimo Tiziano: quando la forma si piega all'interiorità, e non più l'interiorità alla forma. È allora che questi artisti ci parlano della vita con il distacco venato di nostalgia di chi scrive dall'aldilà. Proust chiamava tale fosca vivacità la «frivolezza dei morituri». Per Bergson era la «visione panoramica» cui ogni individuo ha diritto un attimo prima di crepare. Parole diverse per esprimere concetti analoghi, che molto hanno a che fare con la lucidità dell'uomo alla fine. Rileggendo la Certosa — nella preziosa versione di Maurizio Cucchi che porta a compimento il progetto monumentale dell'intera traduzione della narrativa stendhaliana nei Meridiani Mondadori — hai davvero il sospetto che l'essenza di quell'universo spirituale chiamato «beylismo» (da Henri Beyle, vero nome di Stendhal) abbia raggiunto la sua espressione somma.
Stendhal era un poveruomo con la mente ingolfata di patacche romantiche. Un ragazzone di Grenoble in preda a un delirio immaginativo: viaggi, avventure, musica, donne affascinanti e crudeli, intrighi, atti eroici. C'era qualcosa di deteriore (quasi bovaristico) nel suo sentimentalismo romantico. È formidabile come nella Certosa sia riuscito a distillare l'essenza prelibata di quelle fantasticherie adolescenziali, pulendole da qualsiasi stucchevolezza. Celebrandole sì, ma senza più crederci, rendendole vive come tutte le cose che abbiamo perso. Come ogni uomo ispirato e vicino alla morte Stendhal si tuffa in se stesso: facendo fruttare il suo proverbiale egotismo, inventa personaggi che lo rappresentano pienamente ma allo stesso tempo che appaiono la proiezione di ciò che lui avrebbe voluto essere: Fabrizio Del Dongo ha tutta la sua nobiltà di sentimenti, ma in più possiede una posizione sociale invidiabile e un'avvenenza romantica. La Sanseverina ha rubato a Stendhal il temperamento melodrammatico di una Fedra minore, ma esibisce una morbidezza di incarnato degna del Correggio. Per non dire del Conte Mosca che ha il tatto del suo creatore, e anche l'ironia, la corpulenza, l'età avanzata, la capacità di amare quasi incondizionatamente ma è anche l'uomo potentissimo che Stendhal non riuscì a diventare. Solo Dio sa quanto avrebbe amato vivere — lui, proverbialmente sfortunato con le donne — l'avventura amorosa che regala a Clelia e a Fabrizio: il gioco di occhi tra un galeotto e la figlia del suo carceriere che Stendhal trascina per pagine e pagine con virtuosismo shakespeariano.
Forse è proprio questo gusto per l'improbabilità, per il mito, per lo stravolgimento, per l'iperbole ad aver spinto la critica (sin dai tempi lontani di Thibaudet) a sottolineare soprattutto gli aspetti iper-romanzeschi della Certosa. Molti hanno indicato nell'Ariosto l'ispiratore occulto di questo romanzo d'avventura. Giudizio critico ineccepibile ma anche un po' meschino, perché svaluta l'implicita tragicità di questo capolavoro.
No, la Certosa non è solo un'esplosione di fantasie libresche. Come ogni grande romanzo del XIX secolo (come L'educazione sentimentale, Le illusioni perdute, Anna Karenina), è un libro con gli artigli piantati in terra e la testa tra le nuvole. Non importa che lo sconforto stendhaliano abbia un'aria trasognata e fuori dal tempo. Non importa che lui, al contrario del sarcastico Flaubert, tratti i suoi personaggi con affetto. Ciò che conta è che la grande esperienza umana della delusione venga resa in un modo allo stesso tempo concreto e sublime.
Come per altro comprese Balzac, uno dei primi entusiasti recensori della Certosa. Non stupisce che Balzac fosse pazzo dei personaggi. Sorprende piuttosto che rimproverasse a Stendhal uno stile non abbastanza rotondo. E che la sua perplessità si spingesse al punto da invitare il recensito a rileggersi Chateaubriand. Consiglio che Stendhal rispedì al mittente. «Il bello stile di Chateaubriand mi è parso ridicolo fin dal 1802». Una notazione che ci aiuta a comprendere come la scrittura sciatta, disinvolta, incalzante della Certosa fosse intenzionalmente destinata a servire i fatti e le idee, e non a celebrare se stessa. E come il «difetto di lavorazione» (l'espressione è di Balzac) di quello stile fosse un errore deliberato e felice. A Stendhal non interessava l'impeccabilità della sua opera proprio perché perseguiva una precisione assai più importante.
Valga per tutti il più clamoroso difetto della Certosa,
quello su cui lungamente la critica si è interrogata: il finale. Perché, dopo aver instancabilmente accompagnato i suoi eroi in ogni avventura, alla fine Stendhal dedica alla loro morte solo un paio di righe conclusive? Che senso ha quest'aberrazione strutturale?
Personalmente la considero l'ultimo colpo di genio: un modo implicito per dare conto della gratuita estemporaneità della morte.

domenica 17 febbraio 2008

l’Unità 17.2.08
Politica estera, il sì alle missioni
strappo definitivo con la Sinistra radicale
di Umberto De Giovannangeli


«Lavorare per soluzioni politiche non vuol dire ritirarsi come ha sostenuto la Sinistra Arcobaleno. Riteniamo ciò un grave errore»

«L'Italia non è né isolazionista né neutralista, ma la nostra carta costituzionale dice che
l'Italia ha il dovere di intervenire nel mondo per la pace»

«Si può fare». E molto si è già fatto per ridare all'Italia un ruolo da protagonista nello scenario internazionale. Nel nome del multilateralismo, del rafforzamento degli organismi internazionali, di una partnership euroatlantica fondata sull'esercizio dell'autonomia e sull'assunzione di responsabilità, anche militari. Liberi di pesare nelle aree cruciali di un mondo sempre più globalizzato. E' l'etica della responsabilità proiettata fuori dai confini nazionali. E' la sfida di governo lanciata dal Partito democratico. Una sfida che avrà due immediate riprove: il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo e il voto parlamentare sul rinnovo delle missioni militari all'estero. Qui la differenziazione con la sinistra radicale è palmare. Culturale oltre che di programma. Lo dice chiaramente Walter Veltroni: se il Pd andrà al governo, "confermerà le missioni in Libano, in Afghanistan e nei Balcani, che hanno anche la legittimazione dell'Onu". E aggiunge: "Lavorare per una soluzione politica in quei Paesi non vuol dire ritirarsi come ha sostenuto la Sinistra Arcobaleno. Noi riteniamo quella posizione un grave errore".
Un errore strategico. L'Italia, sottolinea ancora il leader del Pd "non è né isolazionista né neutralista, ma la nostra carta costituzionale dice che l'Italia ha il dovere di intervenire nel mondo per la pace". Intervenire anche con i suoi soldati. Soldati di pace, ma pur sempre soldati. Ed anche grazie a loro, e a una politica che non chiude gli occhi di fronte alla realtà, che l'Italia, ricorda Massimo D'Alema, è tornata ad essere rispettata e considerata nella comunità internazionale un Paese di "serie A". Un Paese amico ma non vassallo degli Stati Uniti. Una determinazione - rimarca il titolare della Farnesina - praticata, nei venti mesi di governo Prodi, negli organismi multilaterali, nelle sedi internazionali, laddove si fa, e non si perora, la politica estera. L'etica della responsabilità, sul piano internazionale, significa saper coniugare autonomia - a volte severamente critica verso l'unilateralismo Usa - e assunzione di impegni sul campo. Il lascito del governo e il "liberi di fare". Sul piano internazionale ciò è riassumibile in un concetto: multilateralismo. Che porta con sé il rafforzamento degli organismi internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite - l'Onu come risorsa e non come impedimento - e del sistema delle alleanze, a partire dalla Nato. Un'autonomia praticata, e non solo vagheggiata. Un'autonomia che è tanto più forte quanto più si innerva di assunzione di responsabilità sul campo. E' ciò che accade in Afghanistan, in Libano, in Kosovo. Ed è quanto è avvenuto nella battaglia di civiltà per la moratoria universale della pena di morte di cui l'Italia è stata protagonista vincente. Vincente perché credibile. Un'etica della responsabilità che non concede appigli a vecchie pregiudiziali ideologiche o a una politica dei principi enunciati che finisce per ridursi a mera testimonianza. Liberi di fare significa ricordare che l'ingerenza umanitaria a volte, non poche, ha anche bisogno dell'esercizio della forza. Il discrimine non può essere questo, ma l'unilateralismo delle fallimentari guerre preventive (Iraq docet). Liberi di fare significa dispiegare una "new strategy" che punta al rafforzamento delle istituzioni democratiche sorte sulle macerie della guerra. In Iraq, come in Afghanistan. Significa ottemperare ai propri impegni, anche militari, e al tempo stesso far valere le proprie convinzioni politiche. Muovendosi a tutto campo, in sintonia, altra scelta strategica, con gli altri partner europei. Alzare la testa: per vedere lontano. Esserci, nelle aree di crisi come quella mediorientale, per poter sostenere, ed essere ascoltati, che aver puntato da parte americana solo sulla forza per annientare il network del terrore jihadista, non solo non ha conseguito il risultato sperato, ma ha finito per estendere i tentacolo jihadisti e, ciò che non è meno grave, alimentato l'odio antioccidentale nel mondo arabo e musulmano. Esserci per veder riconosciuto un ruolo da "serie A": al Palazzo di Vetro, dove l'Italia è stata "promossa" a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, per il biennio 2007-2008, con 186 preferenze sul totale dei 192 delegati dei Paesi membri delle Nazioni Unite (record di consensi). Esserci, sul campo, per vedere l'ammiraglio Giampaolo Di Paola essere eletto, a scrutinio segreto, Presidente del Comitato Militare della Nato, la più elevata carica militare dell'Alleanza Atlantica. Un riconoscimento sognato dal precedente governo di centrodestra - con un premier specializzato in gaffe internazionali - e che la sinistra radicale vede come la riprova di una "deriva militarista" dell'Italia. Tra questi due estremi, c'è il "si può fare" del Pd. C'è quell'etica della responsabilità che si riconosce nell'impegno, e nel sacrificio, del maresciallo Giovanni Pezzulo. Walter Veltroni ha iniziato ieri il suo intervento all'assemblea costituente del Pd ricordandolo e rendendogli omaggio. Non è solo il doveroso tributo a un soldato di pace caduto sul campo. E' anche l'idea di come nel mondo si traduce il "liberi di fare".

l’Unità 17.2.08
«Bonino ministro e sette posti in lista Pd»
L’offerta del loft ai Radicali: poi gruppi unici, ma nessuna annessione. Incertezza su Pannella
di Andrea Carugati


PRENDE FORMA la «proposta» del Pd ai radicali, in vista dell’incontro decisivo di domani. I contatti proseguono incessanti, oggi ci sarà probabilmente un nuovo vertice tra una delegazione radicale capitanata da Marco Cappato e Goffredo Bettini, braccio destro di Veltroni, che vanta da anni un ottimo rapporto con Bonino e Pannella.
La proposta, dunque, è più o meno questa: la firma di un documento comune, una vera e propria «piattaforma politica di intesa» su giustizia, economia e riforma delle istituzioni. E poi una delegazione di 7-8 radicali in posti sicuri nelle liste del Pd, in modo che la rappresentanza si avvicini a quella attuale, che è di 9 parlamentari. Infine, un posto sicuro da ministro per Emma Bonino nel governo Veltroni, di cui Emma sarà «una punta, un asse fondamentale», si ragiona al Loft. Nessuna richiesta di scioglimento nel Pd o di annessione: al Loft l’idea di costituire gruppi unici in Parlamento è considerata già un passaggio sufficiente. Insomma, la porta del Pd è aperta ai radicali, ma nessuno chiede quello che Bonino vede come il fumo negli occhi: e cioè uno scioglimento affrettato, deciso magari al telefono, o peggio un’annessione. Su questo, dunque c’è concordia con la ministra che ieri ha ribadito di essere interessata «a un processo costituente con regole chiare che porti a un rafforzamento del Pd». Sull’idea di poter correre con il loro simbolo, coalizzati con Pd e Idv, invece, la porta è chiusa col catenaccio. Quanto ai posti in lista, il Pd chiede ai radicali lo stesso sforzo di rinnovamento che è in corso al suo interno: via libera dunque a Bonino, Marco Cappato, Rita Bernardini, Maria Antonietta Coscioni. Ma su Pannella c’è una perplessità anagrafica: «Da noi non si candidano personalità come Prodi, Amato e Violante», si ragiona nel parterre della Costituente Pd. «Perché Pannella non può fare un passo per favorire il rinnovamento?». Rita Bernardini risponde a muso duro: «Per non farlo candidare hanno stabilito dei criteri “ad personam”, come le leggi di Berlusconi. Oppure si aggrapperanno alle sentenze per le sue disobbedienze civili». Per Pannella, però, sarebbe pronto comunque un paracadute: una possibile candidatura alle europee del 2009 nelle liste del Pd se la trattativa di queste ore andrà a buon fine. Ieri alla Costituente molti leader Pd hanno ripetuto il loro invito ai radicali a correre nelle liste democratiche, a partire da Veltroni che ha detto di voler «continuare la bellissima esperienza che Emma ha fatto come ministro capace e autorevole». Così anche Fassino, Letta, il ministro prodiano Santagata e anche Beppe Fioroni, che pure è leader dell’area cattolica. Fioroni ha detto sì alla Bonino, stop invece ai condannati per terrorismo che militano tra i radicali. Contrarietà solo tra i teodem, con Emanuela Baio Dossi che dice: «Questo invito si poteva evitare». E la stessa Bonino replica duramente all’ipotesi di uno stop da Oltretevere: «Non è ancora venuto il momento di consegnare gli scalpi radicali sull’altare di qualche convenienza». Ancora gelo con i socialisti, nonostante il pressing di Fassino e prodiani per un ingresso nelle liste Pd. Boselli replica: «Per riprendere il filo di un’intesa bisogna riconoscere la nostra autonomia e identità, cioè il nostro simbolo. Altrimenti la rottura sarà completa».

l’Unità 17.2.08
Sebastiano, il pittore che gareggiò con i Maestri
di Renato Barilli


TIZIANO E RAFFAELLO furono i suoi rivali. Una mostra riporta in luce l’opera del Luciani, detto del Piombo. Nato a Venezia, operò a Roma. Fu lui a inventare la maniera moderna di raffigurare i volti

Tra le tante mostre inutili o ripetitive che si tengono nel nostro Paese, per fortuna ce ne sono talvolta alcune del tutto necessarie, perfino provvidenziali: di quest’ultima specie è senza dubbio la retrospettiva dedicata a Sebastiano del Piombo (1485-1547) visibile ora a Roma, Palazzo Venezia (fino al 18 maggio, cat. Motta), da dove si trasferirà a Berlino, Gemäldegalerie. A curarla sono i responsabili delle due istituzioni, Claudio Strinati e Bernd Wolgang Lindemann, affiancati da tanti altri validi studiosi. Sebastiano Luciani, veneziano di nascita, nel primo periodo della sua attività, fino all’andata a Roma nel 1511, era scivolato via dall’eletta schiera di grandi rappresentanti che Giorgio Vasari aveva raccolto sotto l’etichetta di «maniera moderna», guardandosi bene dal far uso della fuorviante etichetta di Rinascimento. Infatti, se si vanno a vedere da vicino i campioni di quella squadra, aperta da Leonardo, con al centro Giorgione, Raffaello e Michelangelo, e alle ali Tiziano e Correggio, vi si trova la fondazione della modernità in pittura, cioè di una perfetta concezione di naturalismo, che resterà a dominare in Occidente fino alle soglie del Novecento, quando infine sarà abrogata dalle avanguardie storiche. Ebbene, quella splendida modernità fu solo «nostra», stabilita nel triangolo Firenze-Roma-Venezia, mentre gli altri Paesi, d’Europa e dell’Italia stessa, non la ebbero, o vi giunsero con un ritardo di quasi un secolo. E i nomi di base stavano proprio in quelli annunciati con magnifica sicurezza dal Vasari, ma appunto non mancava di figurarvi il nostro Sebastiano, degno di sedere subito alla destra di colui che quella modernità aveva impiantato sulla Laguna, ricavandola dalla rivoluzione leonardesca, Giorgione. Infatti nel suo periodo veneziano si mostra come il miglior allievo dell’artista di Castelfranco, tanto che se fosse rimasto nella Serenissima, avrebbe inquietato assai il primato conseguitovi da Tiziano. In fondo, i due si erano spartiti equamente l’eredità giorgionesca, Tiziano cogliendone la capacità di impostare composizioni vaste, movimentate, immerse in cieli alti e azzurri (prima di andare a insabbiarle in stringenti primi piani, come sarebbe accaduto nella sua ultima fase). Viceversa Sebastiano stringe, afferra qualche personaggio centrale, ne fa il perno dell’intero dipinto. Si veda per esempio una Cerere, custodita proprio nel museo di Berlino, con quella figura posta lungo l’asse centrale, a spartire luce e tenebre, nel segno del più morbido sfumato leonardesco. Inutile davvero, per tanto trionfo del pittoresco, andare a scomodare il nome del tedesco Dürer, presente in quegli anni a Venezia, ma per far lezione a chi voleva essere «duro» nel disegno quanto lui, per esempio al Lotto, che infatti ben capì che doveva andarsene dalla Laguna, lasciandola alla gara dei due eredi legittimi della lezione giorgionesca, appunto Sebastiano e Tiziano. Il primo dà il meglio di sé, sempre negli anni veneziani, nelle quattro portelle del S. Bartolomeo, nicchie incaricate proprio del compito di concentrare la luce sui santi protagonisti, ciascuno eretto lungo l’asse centrale, quasi come un pannello solare intento ad assorbire luce, a farla cagliare sugli abiti. Quasi un corpo a corpo coi personaggi, che gioca d’anticipo sull’«ultimo Tiziano», in un momento in cui invece il Vecellio preferisce diluire le scene, sciorinarle all’aria aperta. L’uno stringe, concentra, l’altro allarga, porta fuori.
Ma poi Sebastiano accetta l’invito del banchiere Chigi che lo vuole a Roma, dove il Nostro resterà dal 1511 fino alla morte, ottenendo, dopo il Sacco di Roma, l’incarico di guardasigilli presso la Curia pontificia, da cui quel curioso nomignolo del Piombo. A Roma, in realtà, egli va per contrastare un campione di pittoricismo estremo come lui, cioè lo stesso Raffaello, ma gli succede un guaio, nel quadro delle contese che nell’Urbe vedevano opposti il Sanzio e Michelangelo: il Nostro fu reclutato dal secondo contro il primo, ma non certo per maggiore affinità stilistica. Nasceva l’insostenibile pretesa che il Buonarroti fornisse al suo «creato» disegni o cartoni per rimediare a una sua intrinseca debolezza in tale ambito, ma non si vede in che cosa a Sebastiano questi pretesi doni potessero servire, dato che a Roma egli resta quello che era già a Venezia, cioè un magnifico campione del migliore pittoricismo ricavato da Leonardo e Giorgione, come tale assolutamente alieno dal preoccuparsi troppo del disegno. E infatti nella produzione romana del Nostro spiccano soprattutto i ritratti, cioè, guarda caso, uno dei temi che risultano più distanti dall’arte michelangiolesca, laddove il miglior esito di Sebastiano in questo ambito, il Ritratto del Cardinale Ferry Carondolet, non per nulla è stato attribuito a lungo proprio al suo rivale Raffaello. E se proprio si vuole portare la contesa tra i due in questo campo, è forse Sebastiano a vincere, si veda l’Uomo in armi, custodito a Hartford, volto che fugge in avanti nei secoli, raggiunge un fascino romantico o realista degno di Géricault o di Courbet. E in effetti Sebastiano risulta tanto preso dal compito di affondare lo sguardo sui dati fisionomici, da trascurare la rifinitura dei dipinti. Abiti, armature, perfino braccia e mani talvolta sono condotte in modi sommari, quasi rimanendo alla fase di abbozzo.

l’Unità Roma 17.2.08
Herlitzka è Edipo a Colono
di Francesca De Sanctis


DEBUTTI Il Teatro India sembra proprio affezionato all’Edipo a Colono, che aprì la stagione della sala proprio con l’allestimento di questo «intramontabile» testo. Allora la regia era di Mario Martone. Stavolta a cimentarsi con la tragedia greca sarà Ruggero Cappuccio, che punta tutto (e siamo certi che non sbaglia) su Roberto Herlitzka. Il grande attore si muoverà sullo sfondo di una scenografia realizzata anche in questo caso, ma nuova di zecca, da Mimmo Palladino in un contesto contemporaneo, che rievocherà fantasmi e drammi che conosciamo bene: il padre ucciso, la madre, involontariamente sposata, la perdita del potere e l’accecamento volontario.
Il testo, che si ispira alla tragedia sofoclea, è qui realizzato in endecasillabi e settenari, alternati da incursioni siciliane e napoletane (da martedì al 2 marzo).

Repubblica 17.2.08
Walter il cavaliere e il paese al bivio
di Eugenio Scalfari


Mancano 56 giorni da oggi al 13 aprile, quando gli elettori andranno a deporre il loro voto nelle urne. Nei Paesi democratici quello è un momento importante: il popolo esprime la propria sovranità, sceglie chi dovrà guidarlo, gli delega la sua rappresentanza, gli affida per qualche tempo il suo destino.
In tempi di ideologie dominanti e totalizzanti le elezioni non producevano grandi cambiamenti, i confini tra le parti politiche erano netti, i flussi elettorali tra un partito e l´altro impercettibili, ma nonostante questa stabilità di superficie la società era in perenne cambiamento. Così nei primi vent´anni della Repubblica scomparve la società contadina e prese corpo quella industriale; nei secondi vent´anni emerse la consapevolezza dei diritti civili; nella terza fase avvennero fenomeni regressivi: prevalsero gli interessi di corporazione e di clientela, le forze politiche si chiusero in se stesse perdendo la capacità di rappresentanza, la corruttela pubblica diventò sistema, le istituzioni furono occupate dai partiti, l´esercizio della democrazia fu deturpato e svuotato dei suoi contenuti, sentimenti antipolitici latenti emersero impetuosamente, specie tra le generazioni più giovani.
Ora siamo arrivati al capolinea e forse sta per cominciare un´altra storia.
Dico forse perché pesano ancora i gravami del recente passato di declino e di regressione. Ma qualche cosa di nuovo si intravede ed è questo che sta dando il tono alla campagna elettorale appena iniziata.
Cinquantasei giorni per capire da che parte stiamo andando e per decidere come ci comporteremo in quel breve ma decisivo momento della nostra sovranità popolare.
Ci sono due slogan o meglio due immagini lanciate dai due candidati principali ai nastri di partenza della gara.
Quello di Berlusconi è: «Alzati Italia», e quello di Veltroni: «L´Italia è in piedi ma la politica si deve alzare». Sembrano abbastanza simili, invece sono profondamente diversi.
Berlusconi chiede che gli italiani si alzino fino a lui, lo raggiungano e seguano il suo sogno e il suo carisma nel mondo dei miracoli, come avvenne nel ‘94, nel 2001, nel 2006 quando mancò per un soffio l´obiettivo.
Veltroni pensa invece che gli italiani siano più avanti dei politici e che spetti a questi di rinnovarsi, rompere il muro dietro il quale si sono rinserrati, abbandonare i privilegi che difendono la loro separatezza e raggiungano il Paese che anela soltanto a rimettersi in movimento.
Dietro queste due diverse immagini ci sono due diversissimi approcci.
Berlusconi propone il ritorno al già visto, Veltroni vuole che tutto cambi nei programmi e nelle persone. Cambia il candidato "premier", cambiano i suoi più diretti collaboratori, cambiano i candidati al Parlamento.
Berlusconi ripresenta tutti i parlamentari uscenti, Veltroni ne lascia a terra la metà ed apre la porta alle donne, ai giovani, agli imprenditori, agli operai, a volti nuovi e sconosciuti. Il partito di Berlusconi è quello di sempre, il partito di Fini allinea i soliti Gasparri, La Russa, Alemanno, Matteoli. Il partito di Veltroni è nato dalle primarie di pochi mesi fa, dal voto di tre milioni e mezzo di persone e gli iscritti hanno già superato il milione in appena un mese dall´apertura dei «circoli», un fenomeno mai visto prima.
Berlusconi ha dalla sua i sondaggi con uno scarto del 10 per cento, ma il recupero del Pd procede con una velocità notevole. Da quando ha deciso di presentarsi da solo ha guadagnato due punti. Gli ultimi sondaggi lo danno entro una forchetta tra il 33 e il 35 per cento dei consensi; l´alleanza con Di Pietro potrebbe portare quella forchetta al 37-39.
Il bacino potenziale dei due maggiori contendenti copre il 90 per cento dei consensi. Il restante 10 per cento dovrebbe andare alla sinistra radicale ed altri raggruppamenti minori. Ma in quel 90 per cento di potenziali elettori dei due partiti principali, quasi il 12 sta ancora sulla linea di confine, è disponibile a votare sia l´uno che l´altro e non ha ancora deciso tra i due.
L´esito finale sta tutto lì, in quel 12 per cento ancora combattuto tra l´astensione o il voto per l´uno o l´altro dei contendenti. Quattro milioni, in gran parte giovani e donne, il cui voto determinerà l´esito della gara.
Questo è lo stato della situazione ai blocchi di partenza.
* * *
Fuori dal recinto di gioco infuria nel mondo una tempesta economica di notevole gravità. Calano le Borse, rallenta la produzione e la domanda, la liquidità ristagna nei depositi e in impieghi a breve durata e si restringono i prestiti e i mutui. I prezzi aumentano falcidiando i redditi reali, specie quelli dei pensionati e dei lavoratori dipendenti, per conseguenza sale il livello dell´inflazione, soprattutto per quanto riguarda le materie prime e le derrate della catena alimentare.
Il 2008 sarà un anno difficile per l´economia mondiale, per l´Europa e per noi. Bisognerà preservare il discreto andamento dei conti pubblici ma contemporaneamente adottare coraggiose misure di rifinanziamento della domanda e degli investimenti trovando il giusto equilibrio tra i due pedali del freno e dell´acceleratore.
Giulio Tremonti è diventato strenuo sostenitore d´un governo di larghe intese, chiunque sia il vincitore della competizione elettorale. Secondo lui una politica economica così difficile non può esser intrapresa se non con la condivisione delle responsabilità da parte dei due partiti maggiori.
Il personaggio non è tra i più gradevoli e porta sulle spalle un pesante carico di errori precedentemente compiuti, ma la sua visione del futuro è purtroppo realistica. Non altrettanto la terapia da lui proposta.
Egli è sicuro che la vittoria arriderà alla sua parte; il suo appello alla condivisione del potere sconta un futuro di difficoltà che una alleanza di governo diluirebbe.
L´ordine delle priorità e la distribuzione dei carichi trova tuttavia discordi i due partiti contrapposti, sicché la gestione comune potrebbe risultare paralizzante anziché incisiva.
Il tema è comunque prematuro, specie se proposto da chi, volendo profittare d´un vantaggio elettorale, ha imposto il ricorso immediato alle elezioni facendo perdere almeno quattro mesi proprio nel momento più delicato della crisi economica internazionale.
Ormai non c´è che da aspettare i risultati del voto ma è giusto tenere sott´occhio il tema della recessione. Una cosa si può dire fin d´ora: quel tema ha sempre accresciuto il ruolo che incombe alla politica e alla mano pubblica; così è sempre avvenuto in tutto il mondo in fasi analoghe del ciclo economico. Lo tengano ben presente i dirigenti del Partito democratico che non a caso hanno Franklin Delano Roosevelt nel pantheon degli spiriti fondatori.
* * *
C´è un altro tema che sovrasta la competizione elettorale ed è quello della laicità. È cosa saggia evitarne le asprezze e respingere le provocazioni miranti a farne uno strumento incendiario con l´intento di inferocire il confronto.
Se fosse soltanto questo, sarebbe facile disinnescare le bombe-carta della moratoria anti-aborto e procedere oltre misurandosi con argomenti e problemi di ben maggior peso.
Purtroppo c´è dell´altro. Le iniziative provocatorie fungono da avanguardia ad una "reconquista" condotta dalla gerarchia ecclesiastica "versus" le istituzioni per condizionarne il funzionamento e la legislazione che ne ispira i comportamenti.
La gerarchia alterna momenti di moderazione a momenti di intervento diretto sul delicatissimo terreno della politica, dettando alleanze tra partiti, comportamenti dei parlamentari cattolici, sentenze inappellabili sulle questioni definite "indisponibili", lusinghe e minacce spesso implicite ma in misura crescente pubblicamente esplicitate.
Questo alternarsi di fasi dipende spesso dal fatto che a guidare sia il Segretario di Stato, cardinal Bertone, o il Vicario di Roma, cardinal Ruini, il primo in veste di diplomatico, il secondo di guerriero delle armate (spirituali naturalmente) pontificie. Benedetto XVI dal canto suo sembra lasciar mano libera all´uno e all´altro anche se nei documenti e nelle dichiarazioni da lui direttamente emanati appare assai più vicino al dio degli eserciti che a quello della misericordia.
Aldo Schiavone ha efficacemente descritto su questo giornale quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi come una sorta di "ondata guelfa" che starebbe rinascendo nel nostro Paese. Stefano Rodotà ha segnalato un´offensiva clericale in atto contro i diritti civili, Francesco Merlo, Edmondo Berselli e Natalia Aspesi sono intervenuti prendendo lo spunto dal vergognoso episodio avvenuto giorni fa a Napoli, con la polizia nelle corsie ospedaliere e una donna che aveva praticato un aborto terapeutico pienamente legale, sotto interrogatorio mentre si era appena risvegliata dalla narcosi.
Le ragioni per preoccuparsi di questa deriva clericale purtroppo ci sono tutte. Bisogna certamente guardarsi dal cadere nelle trappole della provocazione ma al tempo stesso non è sopportabile che la Chiesa occupi un terreno che non le è proprio e anzi le è esplicitamente vietato, nella politica, nelle istituzioni e addirittura all´interno dei partiti.
Se il cardinal Ruini ha voglia di cimentarsi politicamente la strada è molto semplice e nessuno gliela vieterà: lasci le sue cariche ecclesiali e concorra alle elezioni con un proprio partito o dentro un partito che lo accolga. Una soluzione del genere avrebbe il pregio della chiarezza, pregio che dovrebbe essere prezioso per un cattolico e per un sacerdote.
* * *
Attendevamo da molti giorni che finisse la telenovela Berlusconi-Casini, canticchiata dai due protagonisti sui versetti di «Vengo anch´io? No tu no. Ma perché? Perché no».
Adesso si è conclusa: andranno alle elezioni separati.
Il Cavaliere ostenta calma e disprezzo, si sente più sicuro senza l´Udc in casa. Fini se l´è mangiato in un boccone, operazione facile perché i colonnelli di An erano già tutti al suo servizio. Con Casini era più difficile per via di Ruini.
L´Udc ha davanti a sé una strada in salita. Forse ha aspettato troppo, forse il buon momento sarebbe stato quello scelto da Follini quando si dimise da segretario e se ne andò dal partito. Un anno fa tutto era diverso e molte cose sarebbero andate in altro modo, ma con i se e i forse non si fa storia.
D´ora in avanti Casini navigherà in mare aperto e sarà la prima volta nella sua vita. Può darsi che gli piaccia.
Magari senza Mastella, che sarà pure credente e ruiniano come lui, ma non sembra un "asset" appropriato al rinnovamento della politica italiana.

Repubblica 17.2.08
Contesa fra associazioni, un fascicolo della Procura
Bimbi iperattivi guerra sugli psicofarmaci
di Stefania Parmeggiani


Associazione denuncia genitori: vanno in Veneto, dove è più facile procurarseli

BOLOGNA - Psicofarmaci per bambini iperattivi. Scoppia la guerra tra associazioni e genitori che, a caccia di ricette facili, si trasformano in pendolari della sanità per comprare, in altre regioni, Rivotril e Prozac. Dopo una denuncia del comitato per la farmacovigilanza pediatrica "Giù le mani dai bambini", la Procura di Bologna ha aperto un fascicolo informativo, per ora senza indagati né ipotesi di reato. Vuole fare chiarezza su quanto dichiarato da Gianni Zappoli, delegato del Centro formazione e ricerca Don Lorenzo Milani, al sito Internet del comitato: alcuni genitori sarebbero stati spinti dall´associazione bolognese "Agap, Amici di Paolo", a utilizzare psicofarmaci per il trattamento nei bambini della sindrome di Adhd, ovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività.
La stessa associazione avrebbe poi suggerito ai genitori, visto che sotto le Due Torri i medici sarebbero reticenti nel firmare ricette, di rivolgersi a un centro di San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Un´altra accusa metteva in discussione la laurea in psicologia di Monica Isabella Pavan, fondatrice dell´Agap e madre di un ragazzo, ormai diciannovenne, che ha sofferto di questo disturbo in forma grave. La signora ha confermato di aver scelto il centro di San Donà, dove il figlio è stato trattato anche con questi farmaci, ma ha poi precisato che «non sono una bacchetta magica».
Ieri il sostituto procuratore Luigi Persico ha chiesto ai carabinieri un´informativa che ricostruisca la vicenda. Un atto puramente conoscitivo per sapere se ci sono state iniziative negli istituti scolastici sulla cura della sindrome con psicofarmaci e, nel caso, se siano state autorizzate. Si tratta di un accertamento preliminare per inquadrare il problema. Al momento non c´è nessuna presa di posizione verso le associazioni sia a favore che contro la somministrazione dei due farmaci, ma la volontà di fare chiarezza su una questione tanto delicata quanto diffusa. Dopo Bologna, infatti, sono arrivate segnalazioni da altre città italiane tra cui Messina, Belluno, Palermo, Roma, Sassari, Frosinone e altre città.

Repubblica 17.2.08
Se Ratzinger rivaluta Pio IX
di Marco Politi


L´ombra di Pio IX torna ad affacciarsi in Santa Romana Chiesa. L´improvvisa esaltazione di papa Mastai, indicato da Benedetto XVI come grande pontefice di esemplari virtù, «indomito e coraggioso» combattente contro la secolarizzazione dell´Ottocento, non è l´auspicio migliore per un rasserenarsi delle tensioni tra la società laica e il papato.
Bisogna saper leggere il body-language di Joseph Ratzinger. All´ultimo concistoro nel novembre scorso, Benedetto XVI si è presentato nella basilica vaticana con la mitria di Pio IX e il piviale di Giovanni Paolo II. Assiso sul trono, non evocava l´immagine di un pellegrino della fede, bensì l´icona di un papato imperiale. Nei pesanti paramenti aurei era riflessa l´ostinata volontà di tenere insieme la Chiesa del Sillabo e la Chiesa del mea culpa, il papato che riaprì il ghetto di Roma e il papato che a Gerusalemme nel 2000 ha domandato perdono per l´antisemitismo, il cattolicesimo dell´assolutismo papale e quello del "popolo di Dio" celebrato nel concilio Vaticano II.
Non si scelgono a caso le vesti cerimoniali per un rito pontificale. La sagrestia di San Pietro non è un magazzino di costumi teatrali, a cui si attinge per mero gusto estetico. La mitria di Pio IX appartiene al pontefice che ha dichiarato guerra all´Ottocento, che ha esecrato la libertà di coscienza e la libertà di religione, che ha permesso che i suoi seguaci si servissero al concilio Vaticano I di manovre totalitarie per imporre l´infallibilità papale. L´immagine di Pio IX, che preme il piede sul collo di un prelato avverso al dogma - perché così avvenne durante un´udienza, al momento del bacio della pantofola - appartiene alla pagine più sgradevoli della storia della Chiesa.
Il recupero della mitria è stato il prologo all´intervento ratzingeriano nel 130° anniversario di papa Mastai. E dimostra che la sua uscita non è estemporanea. L´immagine di Pio IX, nella descrizione fatta da Ratzinger, è quella di un pontefice che lotta per riaffermare le verità della fede cristiana di fronte a una società protesa verso la secolarizzazione. Un eroico baluardo. Ieri Pio IX, oggi Benedetto XVI è l´equazione presentata istintivamente agli occhi dei fedeli e del mondo. L´Osservatore Romano conferma. «Oggi si vive in buona parte dell´eredità di Pio IX - proclama fiero il postulatore della causa di canonizzazione - e si corrono rischi che il suo magistero intendeva risparmiare alla Chiesa d´allora e di sempre».
Così si pone sullo stesso piano ciò che conciliabile non è. L´opposizione frontale alla modernità di Pio IX e l´apertura ai segni dei tempi di Giovanni XXIII, l´infallibilità papale da un lato e la gestione collegiale della Chiesa con l´insieme dei vescovi dall´altro. Torna continuamente, insomma, la volontà di negare il carattere di svolta e, per certi aspetti, di rottura del concilio Vaticano II. Ma l´operazione può riuscire soltanto affidandosi all´apologetica o rifugiandosi nella rimozione. Pio IX aborriva la democrazia, il Vaticano II l´ha fatta propria. Pio IX considerava folle la libertà di religione, il Vaticano II l´ha riconosciuta. Pio IX riteneva inconcepibile la libertà di coscienza, Karol Wojtyla ne ha fatto un cardine del suo pontificato, denunciando quanto di oppressivo si è verificato all´interno della Chiesa. Per non parlare dell´ecumenismo. Le cronache del Concilio di Pio IX nel 1870 riportano le grida di condanna, scagliate contro il vescovo tedesco Stossmeyer colpevole di aver dichiarato che «anche fra i Protestanti c´è chi ama Gesù». E quando lo stesso presule invoca di non imporre un dogma come l´infallibilità a colpi di maggioranza, i seguaci di Pio IX si mettono ad urlare: «Anatema, anatema, è un altro Lucifero, un secondo Lutero».
Non si può recuperare Pio IX e volere il dialogo con il mondo contemporaneo. Sta qui la grande, sotterranea contraddizione del pontificato di Benedetto XVI: desiderare sinceramente un confronto fecondo con la ragione e la scienza moderna mentre si ripropongono le esperienze più autoritarie e dottrinalmente chiuse della Chiesa. Spesso le mosse ratzingeriane assomigliano ad un battito d´ala bloccato a metà. In uno spasmo di contraddizioni. Rifiutare le crociate e sostenere che l´Islam sia intrinsecamente violento. Affermare che la Chiesa non fa politica e pretendere di dettare il comportamento dei cattolici in Parlamento. Auspicare il confronto con la ragione e negarne l´autonoma dignità, se non si abbevera alle fonte del Trascendente.
C´è un brano rivelatore nel suo discorso preparato per la Sapienza. «Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali - ammette Ratzinger - sono state dimostrate false». Ma non viene mai detto da chi. È una rimozione eloquente. Perché coloro, che nei secoli hanno smontato verità ufficiali sbagliate, sono stati frequentemente cattolici perseguitati, teologi dichiarati eretici, pensatori non credenti bollati come nemici della Chiesa.
Difficile dialogare con il mondo moderno se non si ammette fino in fondo la relatività dell´agire dell´istituzione ecclesiastica, fatta di esseri umani. Agli uomini e alle donne contemporanei, che siano cattolici o diversamente credenti, l´ideologia di un papa-re, modello Pio IX, ispira soltanto distanza.

Repubblica 17.2.08
L’impero perfetto
È la tolleranza la chiave del potere mondiale
di Federico Rampini


I dirigenti cinesi studiano in seminari a porte chiuse i segreti che nei secoli hanno favorito l´ascesa delle potenze. E gli errori che ne hanno causato la decadenza e la fine. Ora un libro di una studiosa sino-americana di Yale sembra aver trovato una risposta a questi quesiti
"Cos´altro provocò la rovina di Atene, se non il fatto che disprezzava i popoli conquistati?"
"Nessuna società fondata sulla purezza razziale o la pulizia etnica è mai riuscita a dominare"

Pechino. Alla vigilia dell´ultimo congresso del partito comunista cinese uno storico dell´Accademia delle scienze sociali è stato invitato a Zhongnanhai, l´inaccessibile residenza dei massimi leader del regime, a pochi metri dalla Città Proibita. Il tema del seminario a porte chiuse per i vertici della nomenklatura: come sono cresciuti i più importanti imperi della storia, e le cause della loro decadenza. A convocare quella sessione di studio è stato Hu Jintao, segretario generale del partito e presidente della Repubblica popolare. Da quando Hu è diventatoil numero uno del regime nel 2002, ha invitato degli storici a tenere conferenze nel palazzo del potere quarantatré volte, sempre sullo stesso tema. Un´ossessione imperiale.
L´organizzazione di questi seminari rivela un volto inedito della classe dirigente di Pechino. Mentre nel linguaggio ufficiale Hu Jintao pratica la modestia confuciana - ama definire ancora la Cina una «nazione emergente», persegue una «convivenza armoniosa» nei rapporti fra gli Stati - in realtà Pechino si allena per un ruolo di leadership. Il capo della nazione più popolosa del pianeta vuole capire i punti di forza degli imperi passati, ed evitare di ripeterne gli errori. Le cause dell´ascesa e della caduta delle superpotenze, ovvero la ricerca dell´Impero Perfetto, sono anche il tema di un sorprendente documentario storico trasmesso dalla tv di Stato cinese, la Cctv. La maxiproduzione in dodici puntate ha approfondito la parabola di nove superpotenze degli ultimi cinquecento anni, dalle conquiste spagnole al Reich tedesco, dall´impero britannico alla Pax americana. In quel documentario è sparita l´interpretazione marxista della storia, non c´è traccia della propaganda anti-imperialista in auge ai tempi di Mao Zedong. L´autore della sceneggiatura, Mai Tianshu, spiega che lo scopo è «apprendere le lezioni del passato per illustrare all´opinione pubblica gli scenari del nostro futuro, ciò che dobbiamo imparare dal successo di certe società occidentali».
Agli interrogativi che assillano Hu Jintao dà una risposta un´autorevole studiosa cinese con passaporto americano. È Amy Chua, docente alla Yale Law School e già autrice di importanti studi sui conflitti internazionali e la globalizzazione. Di Amy Chua è appena uscito negli Stati Uniti un saggio che coincide curiosamente con i dibattiti a porte chiuse fra i massimi dirigenti di Pechino. S´intitola Day of Empire, il Giorno dell´Impero. Ha un sottotitolo esplicito: «Come le iper-potenze conquistano un´egemonia globale e perché la perdono». Alle sue qualità di studiosa Amy Chua aggiunge una biografia emblematica. I suoi genitori vengono dalla diaspora cinese nelle Filippine, da bambini accolsero con gioia le truppe di liberazione americane agli ordini del generale MacArthur che cacciarono i giapponesi. L´America era il mito dei Chua, e il sogno si realizzò nel 1961 quando il padre vinse una borsa di studio per il Massachusetts Institute of Technology. La famiglia Chua è un esempio di integrazione riuscita delle minoranze etniche nel melting pot americano. Il padre è diventato un matematico celebre, uno dei più noti studiosi mondiali della "teoria del caos". Due sorelle hanno avuto una brillante carriera accademica a Harvard.
La venerazione per l´America non ha intaccato la forte identità culturale delle origini. «Da bambine - racconta Amy Chua - eravamo obbligate a parlare solo cinese in casa. Per ogni parola inglese che ci sfuggiva la punizione era una violenta bacchettata sulle dita. Dopo la scuola i pomeriggi erano dedicati alla matematica e al pianoforte, mai potevamo accettare un invito dai nostri compagni americani. Quando riuscii a conquistare la medaglia d´argento in un concorso di storia fra tutti gli studenti del mio liceo, alla premiazione mio padre mi disse furibondo: non osare mai più umiliarmi in questo modo (non ero arrivata prima). Mia madre ci parlava spesso della magnifica storia di cinquemila anni di civiltà cinese e della superiorità della nostra cultura. Difendeva la purezza del sangue cinese e ci spiegava che sarebbe stato un orrore diluirlo con dei matrimoni misti». Questo retroterra spiega l´interesse particolare della Chua a scavare nella storia per anticipare gli scenari del Ventunesimo secolo. Le domande che si pone sono le stesse di Hu Jintao. È iniziato il declino dell´egemonia americana? E la Cina può affermarsi come l´iper-potenza alternativa?
Amy Chua non ha la presunzione di trovare la risposta da sola; né si illude che esista un ingrediente passe-partout per spiegare l´ascesa e il declino degli imperi. La sua analisi è raffinata, e attinge agli studi di tanti altri specialisti. Individua una costante, un minimo comune denominatore. Dall´impero romano a quello di Gengis Khan, dalla dinastia Tang all´Inghilterra vittoriana, per finire con gli Stati Uniti del Ventesimo secolo, ogni iper-potenza all´apice della sua ascesa ha un alto grado di tolleranza, ha la capacità di attirare le élites dei popoli dominati e di assorbirne i valori utili. A lungo termine però la stessa tolleranza contiene il germe della sua autodistruzione. Oltre un certo livello di espansione egemonica e di cooptazione delle altre etnie, l´iperpotenza si dilata fino a temere la perdita di identità e coesione. Il declino coincide regolarmente con la chiusura verso l´Altro, l´esclusione e l´intolleranza.
Dopo aver esaminato e digerito una mole impressionante di studi, Amy Chua presenta la sua tesi con efficacia. L´impero romano sa guadagnarsi la fedeltà delle élites nelle terre conquistate offrendo straordinarie opportunità di mobilità sociale fino ai vertici del potere. Traiano, Adriano e Marco Aurelio sono originari delle "provincie", come Seneca e Tacito. L´imperatore Claudio in un discorso al Senato romano nel 48 dopo Cristo trae questa lezione dalla decadenza della Grecia: «Cos´altro provocò la rovina di Sparta e Atene, se non il fatto che disprezzavano i popoli conquistati in quanto barbari?». Il grande storico inglese Edward Gibbon considera fondamentale per la forza di Roma il fatto che «i nipoti dei Galli che hanno combattuto Giulio Cesare ad Alesia finiscono col comandare legioni, governare provincie, vengono ammessi nel Senato romano. La loro ambizione, lungi dall´indebolire lo Stato, contribuisce alla sua sicurezza e alla sua grandezza». Dalla Britannia al Nordafrica l´aspirazione dei soggetti conquistati è quella di diventare cittadini dell´impero. E i romani sono flessibili nell´adottare conoscenze e tradizioni dei popoli sconfitti se li considerano utili. La medesima tolleranza però «semina i germi della disintegrazione». La caduta dell´impero romano è il risultato di un concorso di cause - dilatazione geografica eccessiva, collasso militare, crisi fiscale, invasioni barbariche, corruzione morale, avvento di nuove religioni. Vi si aggiunge l´«eccesso di diversità». I popoli delle periferie più lontane mantengono un´identità irriducibile e secessionista. Roma si sente minacciata e imbocca la strada della persecuzione. È l´esempio di Costantino, che dopo la conversione al cristianesimo impone la religione di Stato e rompe con la tradizione del pluralismo delle fedi.
Una parabola analoga è quella della dinastia Tang che governa la Cina dal 618 al 907 dopo Cristo. Nel suo massimo fulgore, sotto l´imperatore Taizong, «è la dinastia più tollerante delle culture, delle religioni e delle influenze straniere che la Cina abbia mai avuto». Seguaci di Zoroastro o del manicheismo, ebrei e musulmani, cristiani nestoriani, hanno pari dignità dei buddisti. La sua forza militare è esaltata dalla cooptazione di generali stranieri e delle loro armate. La Via della Seta diventa una fantastica autostrada dell´apertura sul mondo esterno. La capitale imperiale Changan (l´odierna Xian) è una metropoli cosmopolita senza eguali: un terzo della popolazione è straniera. Quando nell´impero dilatato appaiono le prime crepe perché tibetani e uiguri rifiutano l´assimilazione, la xenofobia s´impadronisce dei Tang. Le grandi vie di comunicazione dell´Asia centrale vengono chiuse. Prevale un taoismo fanatico che perseguita le altre credenze. La Cina precipita nell´isolazionismo. Ne uscirà cinque secoli dopo grazie a un altro fautore della tolleranza, l´imperatore mongolo Khublai discendente di Gengis Khan. La vicenda di Marco Polo ingaggiato come alto funzionario nella città di Yangzhou è esemplare: in una selezione meritocratica il Khublai Khan attinge ai migliori talenti stranieri per reclutare i dirigenti della sua amministrazione pubblica. La Pax mongolica fa della Cina il centro di una economia globale, fioriscono i commerci internazionali e il progresso tecnico. Nel Quattordicesimo secolo il declino dei mongoli coincide con l´abbandono dei principi di tolleranza religiosa che erano stati seguiti fin dai tempi di Gengis Khan.
Anche nell´ascesa dell´impero britannico conta la capacità di tutelare le minoranze e di accogliere i "diversi". Alla fine del Diciassettesimo secolo Londra si afferma come la piazza finanziaria più potente del mondo grazie all´afflusso di ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna e di ugonotti perseguitati dalla Francia. Dal 1689 fino alle guerre napoleoniche, la Francia in teoria ha più risorse dell´Inghilterra: ha un´agricoltura più ricca, una popolazione quattro volte superiore. Gli inglesi trionfano per la potenza finanziaria mobilitata da famiglie ebree come i Medina, Goldsmid, Montagu, Stern, Rothschild. Cinquantamila ugonotti emigrati dalla Francia portano a Londra preziose competenze imprenditoriali. Decisiva è la capacità di integrare gli scozzesi: sono i padri della rivoluzione industriale (l´inventore del motore a vapore James Watts, il fondatore del pensiero economico Adam Smith), e sono il nerbo dell´esercito imperiale. La svolta negativa nelle fortune britanniche si verifica in India. Alla prima fase della colonizzazione - rapace ma tollerante dei costumi locali - subentra nell´Ottocento l´affermarsi di un movimento evangelico dedito al proselitismo cristiano, bigotto, puritano e razzista. Le élite indiane si sentono discriminate rispetto a quelle delle colonie bianche (Canada, Australia, Nuova Zelanda) a cui vengono concesse le libertà politiche. Nel Novecento sia la Germania che il Giappone tentano di spodestare la Gran Bretagna ma falliscono. «Nessuna società fondata sulla purezza razziale, sulla pulizia etnica o sul dogmatismo religioso è mai riuscita a dominare il mondo», osserva Amy Chua.
Sono invece gli Stati Uniti a sostituire la Gran Bretagna, anche nel ruolo di calamita dei talenti cosmopoliti. Nel 1816 l´America ha 8,5 milioni di abitanti, la Russia 51 milioni. Nel 1950 gli americani sono diventati 150 milioni, i russi solo 109 milioni. È grazie agli scienziati ebrei in fuga dalla Germania nazista e dall´Italia fascista che l´America conquista per prima l´arma nucleare. Fino ai nostri giorni il dinamismo economico e la capacità di innovazione degli Stati Uniti devono molto al drenaggio dei cervelli dal Vecchio continente e dall´Asia. Il 52 per cento delle nuove aziende che nascono nella Silicon Valley californiana hanno un fondatore straniero: l´ungherese Andy Grove alla Intel, l´indiano Vinod Khosla alla Sun Microsystems, il cinese Jerry Yang a Yahoo, il russo Sergey Brin a Google. Dopo l´11 settembre 2001 i segnali di eccessiva "dilatazione" dell´iperpotenza americana si moltiplicano. In parallelo affiora la tentazione dell´intolleranza, del ripiegamento: un segnale premonitore della decadenza.
La Cina si appresta a superare gli Stati Uniti in molti indicatori di potenza economica. «Ma può sorpassarli anche nella tolleranza strategica?» si chiede Amy Chua. La sua risposta è sfumata: non ancora, e non questa Cina. Per quanto stia attirando frotte di manager stranieri, e un prezioso flusso di ritorno della propria diaspora qualificata, la Repubblica popolare non è pronta a diventare una terra di immigrazione di talenti. Non ha definito una identità cinese così aperta e inclusiva da potervi accogliere altre etnie. E finché rimane «un regime autoritario noto per schiacciare il dissenso» non potrà resuscitare l´appeal cosmopolita che ebbero la dinastia Tang e il Khublai Khan. Nella sua ricerca degli ingredienti per l´Impero Perfetto del Ventunesimo secolo, Hu Jintao dovrebbe aggiungere la democrazia e i diritti umani fra i temi dei prossimi seminari. A porte aperte.

Repubblica 17.2.08
Giovani dive. Valeria Solarino
di Dario Cresto-Dina


È nata in Venezuela ventotto anni fa, ma dopo pochi mesi era a Torino Ha giocato a pallacanestro, studiato filosofia e teatro ed è consapevole della sua applaudita bellezza Al cinema è arrivata quasi per caso e oggi pensa soprattutto al lavoro. È spaventata dall´idea di "essere solo una meteora", vorrebbe essere meno timida e continua a vestirsi di nero per passare inosservata. Ma la sua paura più grande resta la solitudine
Mi piace l´America Sto seguendo con interesse le primarie, nella sfida tra Hillary e Obama mi schiero con Barack Obama perché è contrario alla guerra in Iraq

All´inizio, senza gli occhiali scuri ai quali ci ha abituati, sembra una ragazza spaventata. Alla fine si scoprirà che non è così. Però bisogna sempre cominciare da un´impressione. Valeria Solarino attraversa la casa sfiorando i muri con la schiena, prepara il caffè con la cura di chi non vuole fare rumore con tazzine e cucchiaini, nascosta dentro i jeans molto larghi e una camicia da uomo a righe sottili nere e blu. Vasco, un flat coated retriver di tre anni, le mette in grembo un pneumatico da tir in miniatura con l´ostinazione allegra di un bambino che si è affezionato al gioco e vorrebbe ripeterlo all´infinito. Dal suo punto di vista ha ragione. Come può credere che la sua padrona faccia sul serio quando lo allontana accarezzandolo sulla testa con quella voce che più che a un ordine assomiglia al tono di una preghiera?
In cucina lei si appoggia al lavello, sminuzza parole mentre prende il cabaret e la zuccheriera. Ritagli di vita. «Sono nata in Venezuela, il posto si chiama El Moro de Barcellona. Sono venuta via che avevo pochi mesi. Mio padre è ingegnere, viaggiava molto. Prima la Sicilia, poi Torino». A Torino è cresciuta come dentro un vaso di marmellata. Nella Torino più vecchia, il quadrilatero romano, via delle Orfane, dove la cantilena del dialetto piemontese si mischia agli idiomi del Maghreb e il vento porta nei dedali del centro storico il profumo e le grida di mille cucine mischiate. Si stira, si allunga sulle dita dei piedi. La camicia e i jeans un po´ si riempiono della sua carne, dei polpacci tondi e muscolosi da ex atleta. «Sono un difetto, vero? Sono stata una discreta giocatrice di pallacanestro e una studentessa di filosofia. Forse avrei voluto insegnare all´università. Forse. Poi mi sono iscritta alla scuola di teatro dello Stabile diretta da Mauro Avogadro. Durante il terzo anno ci hanno portati tutti a Milano. Un provino per il film Fame chimica. Hanno preso me. Sono diventata un´attrice».
Vasco è di nuovo qui. Stringe la sua gomma tra i denti, si struscia contro chi trova, solleva la zampa destra verso le gambe di Valeria. Cerca e riceve un po´ di attenzione. Una carezza sul muso. «Vai adesso, vai». Vasco va, sarà per poco. «Qualche anno fa ospitai per un mese il cane di un amico che era partito per una lunga vacanza. Era un pastore tedesco. L´amico si chiama Nicolò, il cane Nero. Decisi allora che prima o poi ne avrei avuto uno tutto mio. È arrivato lui. Continua a credere di essere un cucciolo».
Abbassa gli occhi scuri. Dentro la paura c´è ancora. Lei prova a darle tutti i nomi. «Mi spaventa la solitudine. Una volta ho vinto un piccolo premio, sono tornata a casa e quando ho aperto la porta mi sono resa conto di non avere nessuno a cui dedicarlo. Nessuno con cui condividerlo per davvero. Ho pensato: sarebbe stato meglio non vincerlo. Mi spaventa l´idea che rischio di essere una meteora, la possibilità dell´oblio prematuro, un giorno intero di applausi e luci spente per il resto della vita. Mi spaventano le settimane, i mesi, senza un lavoro. Studio inglese, pago le multe. E sfioro l´infelicità. Mi spaventa essere qui adesso, dovermi svelare. E magari deludere, dire soltanto un sacco di cazzate». Può succedere. Non è sempre grave.
Valeria Solarino ha ventotto anni. È nata il quattro novembre. È uno scorpione. Assomiglia in modo incredibile a un´attrice emergente del cinema francese, Clotilde Hesme. Hanno la stessa età, la medesima freschezza. La Signorina F, a differenza di Clotilde, ha un sorriso forse meno luminoso ma più intrigante. «Sono timida, ma ci sto lavorando. Mi ripeto spesso: Valeria, non credere di essere sempre al centro dell´attenzione». Mi guida nel suo studio. Si sfila le sneakers nere, si accoccola sul divano e si appoggia alla parete. Prende il caffè amaro, non dice nulla. Aspetta. Sugli scaffali libri di filosofia, locandine di film, dvd. Sulla scrivania tre fotografie in bianconero. Un bimbo al pianoforte sotto una gigantografia di Che Guevara, un gruppo di donne di colore che ridono, un ritratto di Kurt Kobain. Due libri. Chesil beach di Ian McEvan, Emma di Jane Austen. «Mia madre…Arriva ogni volta con un pacco pieno di libri: Valeria, devi leggere questo, e questo, e questo. Dice che sono i miei compiti a casa. Un modo affettuoso per darmi dell´ignorante. Ma lei mi protegge, mi ascolta, mi consiglia. Sono molto fortunata ad avere lei». Nessun dolore, finora, nessuna curva sulla strada della vita. Se non la promessa mancata di qualche regista che dopo averle offerto un ruolo non si è più fatto sentire. «Lo ammetto. In questo momento il lavoro è il mio unico pensiero. Gli attori hanno un ego molto forte. Io penso di continuo al mio futuro. Vorrei una carriera costante. Temo l´età che va dai trentacinque ai quarantacinque anni, una fase nella quale se non ti rinnovi scompari o ti ritrovi a interpretare sempre lo stesso personaggio. Ammiro e invidio l´intelligenza e la bravura di Margherita Buy e Laura Morante. Adoro Claudia Cardinale. Mi affascina. L´ho incontrata di recente ad un festival. Gentile, tenera, spaesata. Avrei voluto abbracciarla. Io ho fatto pochissimo, non so dire che tipo di attrice sono. Le consiglio di tornare tra qualche anno e rifarmi la domanda. So che vorrei essere chiamata soltanto da registi bravi, per esempio Bellocchio, Amelio, Tornatore, Salvatores. Non per vanità, ma per orgoglio».
Ha le idee chiare. È determinata e concreta. Razionale. Lei dice di essere soprattutto semplice. Tra Goethe e Garcia Marquez sceglie il primo, tra il cinema americano e quello tedesco predilige il secondo: «La vita degli altri…un film meraviglioso». Piano piano la paura sta scivolando via. Il sorriso è cambiato. «So bene che quella sul set non è la vita reale, eppure è l´unica vita nella quale riesco a togliere i filtri alle emozioni, quelli che anche inconsapevolmente mi tengo addosso nei giorni normali. Nella vita vera non riuscirei mai a piangere in mezzo alla strada. Non si fa, mi vergognerei. Sulla scena invece sì. Ogni volta mentre lavoro scopro qualcosa di me che non conoscevo. Ho pianto quando mi sono rivista in Signorina F, ho pianto davanti a Quattro minuti, il film di Chris Kraus. Questo lavoro non è soltanto apparenza, ma impone dei comportamenti. Quando interpreto un personaggio mi metto al servizio della sua storia. Gli do la mia testa e il mio corpo. Ma sono lì anch´io, con la mia voce, il mio modo di sentire, la mia storia personale. Sto da quattro anni con un compagno, Giovanni Veronesi, che fa il regista, ma che ho scelto come persona, non per il suo ruolo nel mondo del cinema. Se però penso a una famiglia, alla prospettiva di avere figli mi rispondo subito che è presto, troppo presto. Non si possono lasciare a casa dei bambini piccoli mentre tu sei fuori tre mesi per girare un film. Non ne sarei capace, mi si strapperebbe il cuore. Per tutto questo ho bisogno di un´altra vita. Arriverà».
Valeria Solarino è bella. Soprattutto nello sguardo e nelle mani. Si lamenta per una cicatrice sul naso e le caviglie troppo sottili. Nient´altro. Si veste quasi sempre di nero e porta soltanto anelli, bracciali e catene d´argento. «I colori chiari sono troppo appariscenti, l´oro troppo sbriluccicante, volgare. Cerco di passare inosservata, rasento i muri, come si dice. So di essere bella perché ultimamente me lo dicono molte persone. Sono gli altri a essere il nostro specchio, anche se mi guardo da quasi trent´anni. Non ho paura di invecchiare, spero che succeda bene. E non penso mai alla morte. Non ancora, forse perché sono troppo giovane. Non prego e non vado in chiesa. Sono un´atea con dei principi morali cristiani. E sono anticlericale, vedo nella religione il bisogno irrazionale dell´uomo incapace di accettare i propri limiti terreni».
Ha sempre votato a sinistra, con il film sulla Fiat e, prima ancora, lavorando con Mimmo Calopresti, ha scoperto gli operai, la fabbrica, gli anni di piombo. Si è messa dalla parte dei semplici, con la modestia di chi è entrato nella loro storia senza saperne nulla, gli occhi spalancati. «Sono io stessa una persona semplice. In politica vorrei una semplificazione maggiore di quella che sta avvenendo, temo invece il vizio del rimescolamento continuo. Mi piace l´America. Sto seguendo con interesse le primarie, nella sfida tra Hillary Clinton e Barack Obama mi schiero con Obama soprattutto perché si è dichiarato contrario alla guerra in Iraq e perché trovo ridicola la candidatura della moglie di un ex presidente rimasto in carica per due mandati».
La sua semplicità sta nella confessione. È dire che sa poco di storia del cinema perché prima di farlo andava soltanto a teatro, che un film è bello o è brutto, che quando gira è in stato di eccitazione continua, che tra le colleghe la sua unica vera amica è Jasmine Trinca, che le piace la musica di Allevi e Capossela e poco altro, che non usa l´iPod perché non sa metterci dentro le canzoni e perché le cuffie la isolano e la fanno diventare triste. La sua semplicità è dire che ha amato tutte le volte che lo ha detto e che non potrebbe mai continuare a stare con un uomo che non ama più, nonostante il dolore per la rottura di ciò che si credeva eterno. Va alla finestra dello studio che si affaccia su questa piccola via dei Parioli. Guarda giù e dice: «Vorrei essere simpatica, ironica, intelligente. Ce la posso fare?». Forse basta saper guardare. Succede sempre qualcosa in strada anche nei giorni più stupidi. A volte anche ciò che si vuole.

Corriere della Sera 17.2.08
Candidati. Quei figli con un bel cognome
di Maria Laura Rodotà


La scommessa Il leader Pd tra celebrità e giovani del Paese «normale»
La carica dei cognomi illustri
Da Colaninno a Benetton e Mondadori, in attesa degli sconosciuti

Uolter, insomma Veltroni, ha avuto una bella idea. «Per un'Italia nuova» non troppo vecchia, ma anche per segnalare che la solita casta non farà piazza pulita dei seggi in Parlamento. Metterà under 40 e under 30 in lista; ma anche come capilista, prima di lui. Dei giovani, ha detto al Tg1, che si sono distinti «nella vita economica, politica, sociale del Paese». Ottimo.
Molto Obama. Unico guaio, sono già uscite voci sui nomi in lista.
Nomi distinti, pure troppo; di rampolli della classe dirigente. Per dire: Benetton-Mondadori-Sensi-Colaninno. Tutte persone eccellenti, per carità; ma più che candidati innovativi sembrano una comitiva da aperitivo all'hotel Posta di Cortina. Almeno elencati così insieme. Poi si vedrà. Poi non sono casi accomunabili, evidente.
Prendiamo Matteo Colaninno, presidente dei giovani di Confindustria. È persona seria, gran lavoratore (bonus: l'unica festa a cui lo si ricordi è quella del suo matrimonio). Il tipo di imprenditore-candidato poco entusiasmante ma affidabile (gli elettori si fiderebbero ancor di più di un altro imprenditore ipercorteggiato, Ivan Lo Bello di Confindustria Sicilia; ma non sarebbe meglio aiutarlo da Roma nella sua battaglia anti-pizzo invece di mandarlo a Roma a spingere bottoni in Aula? Forse sì).
Altri casi sono più strani, e non per colpa di chi è tirato in ballo. Come quello di Martina Mondadori, ventiseienne dal cognome illustre. È bella e culturalmente vispa; non sono notissime le sue imprese politico- economiche. Più che altro, è nota a noi gentaccia che soccombe al piacere di studiare i Cafonal (serie di foto mondane rivelatrici e deprimenti, del balzacchiano Umberto Pizzi) sul sito Dagospia (vabbè, ormai si sa che il web è importante).
Creativa ma problematica è poi l'idea di candidare Rosella Sensi. La piccola Thatcher giallorossa (di britannico ha anche la somiglianza con l'amica di Hugh Grant in Quattro matrimoni e un funerale) governa da anni calciatori-dirigenti-giornalisti- tifoserie; roba più complessa e rischiosa di un medio ministero. Sarebbe quindi qualificata. Ma, al di là dei possibili conflitti di interesse causa affari familiari: se una Sensi si candida, come la mettiamo con lo swing vote dei laziali? Molti biancocelesti di destra, indignati per la fusione di An nel Pdl e tentati dalla ripicca pro Veltroni, finirebbero per preferire l'altrettanto romanista ma perlomeno nero Storace, va da sé. Alessandro Benetton è un'altra storia ancora, probabilmente improbabile (e lì il Pd può perdere voti delle fans di Deborah Compagnoni; non l'ha ancora sposata, chissà perché).
Ma smettiamola con la battutacce, e speriamo di venire smentiti. Speriamo che i giovani capilista, e altri candidati sicuri, non siano solo gente con bei cognomi. Sarebbe un segno di scarso spirito innovativo e di insicurezza identitaria. Speriamo che ci siano ragazzi/e che si sono distinti nell'economia e nella ricerca, magari scappando all'estero per riuscirci; che organizzano cooperative antimafia, o per aiutare i più poveri, gli immigrati e/o (anatema?) le donne in difficoltà, i precari; gente brava e basta. Tra l'altro, Veltroni dovrà crescere un obamino/obamina come suo successore.
Dovrà essere un Barack/Baracca che (come l'originale) abbia fatto i conti con la figura del padre (magari bancario e non banchiere, fresatore e non imprenditore, a chi non è classe dirigente votarlo/a mica dispiacerebbe) e abbia ben costruito se stesso/a. Questa è la scommessa vera; se ci saranno un po' di vip benissimo; però, per tirar su il morale del Paese normale, che siano ben diluiti.

Corriere della Sera 17.2.08
Verso una medicina di rigenerazione
di Gianvito Martino


È recente la notizia che si può costruire in laboratorio un cuore funzionante partendo da cellule cardiache neonate, impiantate in uno scheletro tridimensionale fatto di sole proteine (struttura bioartificiale). Questa scoperta è solo l'ultima conferma di come, nel corso degli ultimi 30 anni, il nostro modo di intendere la medicina sia profondamente cambiato. Da una medicina sostanzialmente riparativa si è passati ad una medicina rigenerativa che, sfruttando la connaturata attitudine degli organismi viventi a ricostruire parzialmente od integralmente parti del corpo logorate dall'età o danneggiate, si prefigge di restituire agli organi colpiti da qualsivoglia malattia lo loro struttura e funzione originaria.
Che gli organismi viventi fossero capaci di autorigenerarsi lo si sa fin dai tempi di Aristotele e Plinio, ma che tale capacità fosse necessaria per la vita stessa è conquista precipua della biologia, che di ciò si è occupata fin dagli inizi del '700. Da queste ricerche è emerso chiaramente che gli organismi viventi, uomo compreso, sono per loro natura esseri rigeneranti; lo fanno semplicemente per vivere. Devono, infatti, continuamente sostituire quelle cellule che muoiono spontaneamente nei vari organi per raggiunti limiti d'età (senescenza replicativa) o perché irrimediabilmente danneggiate. Questo è possibile grazie soprattutto a cellule con grandi potenzialità rigenerative, le cellule staminali, che nell'uomo — che si porta addosso 2 kg di pelle morta — sono, per esempio, in grado di produrre 2 milioni di globuli rossi al secondo, 500 cellule del cervello l'ora, mezzo miliardo di cellule della pelle al giorno. Gli atomi che formano i 75.000 miliardi di cellule (di 200 tipi diversi) del corpo umano vengono così sostituiti, quasi integralmente, ogni 10 anni. Il cuore può pompare 3 milioni di litri di sangue all'anno. La pelle è in grado di ricostruire i suoi strati esterni mille volte nel corso della vita. Fegato, polmone, reni, nervi, muscoli e costole si rigenerano partendo da frammenti, anche piccoli, scampati ad un danno. E la punta delle dita dei bambini, al di sotto dei 10 anni d'età, può ricrescere spontaneamente quando amputata. Gli ultimi sviluppi in ambito rigenerativo (e.g. cuore bioartificiale) ci suggeriscono, inoltre, che per rigenerare un organo nella sua complessità non servono solo cellule capaci di moltiplicarsi velocemente (le staminali), ma anche scheletri di supporto (biopolimeri, nanotubi) che le aiutino a crescere e le guidino nel posto giusto.
La medicina rigenerativa per essere una vera medicina naturale che rigenera, e non solo ripara, dovrà quindi saper combinare sempre di più competenze proprie della biologia fondamentale e della biomedicina applicata con competenze di fisica e chimica, più proprie di discipline a ponte quali la bioingegneria e le nanotecnologie. Solo la vera multidisciplinarietà potrà rivoluzionare il nostro modo di curare e — parafrasando il poeta americano Mark Strand — rendere il nostro futuro non più come quello di una volta.
* Istituto Scientifico Universitario San Raffaele

Corriere della Sera 17.2.08
Neuroscienze. Fa discutere una ricerca che ha analizzato il cervello di 41 assassini americani. Istinto omicida
Esistono basi biologiche che rendono alcuni individui "predisposti" a uccidere? Nuovi studi cercano di individuarle
di Franca Porciani


Una nuova attenuante
Avere geni «sfavorevoli» che predispongono a comportamenti devianti può mitigare la pena?

Il processo evolutivo
Secondo Sam Bowels, in noi coesistono Madre Teresa e Rambo, necessari l'una all'altro

Nella mente del killer. Esiste l'istinto omicida? Le neuroscienze indagano
Nuovi studi cercano di individuare le basi biologiche dell'estrema aggressività. Scrutando i segreti del cervello

Olindo Romano e Rosa Bazzi se ne stanno tranquilli mano nella mano nel gabbiotto del tribunale mentre si consuma un evento che, vista l'affluenza, sta diventando un circo mediatico dell'orrore. Il processo, in corso a Como, è quello per la strage di Erba, uno dei delitti più efferati degli ultimi anni: quattro omicidi (fra le vittime, un bambino di appena due anni) perpetrati nel giro di pochi minuti l'11 dicembre 2006. È l'ultimo caso che ripropone un interrogativo complesso: esiste l'istinto di uccidere? È una predisposizione biologica, sia questa scritta nei geni o frutto del nostro processo evolutivo? È comunque ineliminabile dalla faccia della terra per fattori sociali, disuguaglianze economiche, rapporti di potere? Dell'argomento si sono occupati psichiatri criminologi, storici, filosofi, antropologi, psicologici evoluzionisti, ma da qualche anno in questo campo «minato» hanno cominciato a muoversi anche neuroscienziati e genetisti.
Alle loro ipotesi ha dedicato di recente un articolo la rivista inglese Nature. Quello che interessa agli scienziati è dimostrare (o sfatare) l'idea di una base «neurobiologica» del comportamento omicida. Nel 1997 fece scalpore uno studio pubblicato da Adrian Raine e Lori LaCasse, all'epoca all'università della Southern California,
insieme ai colleghi della Mount Sinai school of medicine di New York. Analizzando con la Pet (tecnica che individua quali aree cerebrali sono in attività, registrando il consumo di glucosio, il carburante dei neuroni) il cervello di 41 assassini americani, capaci di intendere e di volere, i ricercatori trovarono due caratteristiche un po' strane: una maggiore eccitabilità del sistema limbico e una ridotta attività delle aree della corteccia prefrontale, soprattutto di quella orbitofrontale.
Che cosa significa? Il sistema limbico, un insieme di strutture nervose antico quanto la storia dell'uomo, è strettamente legato ai meccanismi della sopravvivenza e governa le pulsioni emotive, la paura, la rabbia, il disgusto. La corteccia prefrontale è, al contrario, una «parte» nobile del cervello, sede dei processi integrativi e quindi della capacità di elaborare le conoscenze e guidare le azioni: la orbitofrontale, in particolare, sembra associata al controllo delle emozioni, soprattutto delle pulsioni aggressive.
Rilievo che conferma osservazioni precedenti che registravano comportamenti aggressivi sia nella scimmia, sia nell'uomo, in seguito a lesioni di quest'area della corteccia. Abbiamo scoperto dove si «annida » l'istinto omicida? «Nessuna conclusione affrettata, per carità — risponde Pietro Pietrini, dell'Università di Pisa, responsabile scientifico dell'organizzazione mondiale per l'Human Brain Mapping —. Devo ricordare però un esperimento che ha realizzato il mio gruppo insieme ai colleghi di Bethesda, pubblicato nel 2000. Abbiamo sottoposto 15 soggetti sani ad una simulazione visiva capace di stimolare la loro aggressività — la madre veniva assalita da sconosciuti dentro un ascensore — e abbiamo registrato che cosa succedeva nel loro cervello con la Pet. Ebbene, si vedeva un calo nell'attività della corteccia prefrontale, come se per mettere in atto una riposta aggressiva fosse necessario "spegnere" l'area cerebrale deputata al controllo razionale. Il famoso conflitto fra emozioni e raziocinio sembra esistere anche in termini neurobiologici».
Assolutamente contrario a questa ipotesi Samuel Bowles, economista, docente all'Università di Siena e direttore del programma in scienze comportamentali presso il Santa Fe institute nel New Mexico. Di lui l'articolo di Nature ricorda le ricerche che hanno dimostrato come nel processo evolutivo l'altruismo sia co-evoluto in tandem con un atteggiamento di ostilità, una sorta di Rambo e Madre Teresa, necessari l'uno all'altro. «Se l'idea del "cervello violento" fosse vera — dice Bowles —, sarebbe impossibile spiegare perché il tasso di omicidi in Finlandia è tre volte quello della Norvegia e quello di Detroit venti volte quello di Toronto. L'omicidio, come la guerra, fa parte del repertorio umano, però le cause sono soltanto sociali ». Un altro tassello ad una sorta di predisposizione alle pulsioni omicide, viene, però, dagli studi della genetica comportamentale, una branca nuova (e discussa) che cerca di individuare i geni che possono favorire certi tratti della personalità, come l'abuso di droghe, il comportamento aggressivo o antisociale.
Ce ne parla Silvia Pellegrini, del laboratorio di biologia mo-lecolare dell'università di Pisa: «Le ricerche degli ultimi anni hanno messo in risalto come possedere una certa variante (che ne aumenta o ne riduce la potenza, ndr) di un gene che regola il metabolismo di mediatori cerebrali coinvolti nel controllo degli impulsi e nei meccanismi di gratificazione e di punizione, si associa ad un rischio maggiore di comportamenti anomali. D'altro canto il cervello è sotto controllo genetico, anche se viene plasmato dall'ambiente e dall'esperienza».
Si possono ipotizzare «attenuanti genetiche» per un omicida? «Le attuali conoscenze sulla genetica comportamentale — risponde la ricercatrice — non pongono al momento cambiamenti alla nozione di responsabilità applicata al contesto legale. Comprendere meglio le implicazioni dei meccanismi genetici potrebbe modificare il concetto di colpa e, di conseguenza, quello della pena da infliggere. Non a caso di recente in un processo è stata invocata dalla difesa la vulnerabilità genetica (accertata) di una donna accusata di aver ucciso il proprio bambino. Se un ambiente sfavorevole, l'essere cresciuti con genitori violenti, ad esempio, costituisce oggi un attenuante, perché non dovrebbe avere valore un assetto genetico che rende più inclini a comportamenti antisociali?».
La risposta non c'è; verrà forse dalla ricerca. Ma Sam Bowles sposta i termini del problema: «La generosità che procede insieme all'ostilità è probabilmente la nostra eredità evolutiva, ma non deve essere il nostro destino. Siamo una specie "culturale", capace di mutamento. In questo senso la dichiarazione di Siviglia (stilata da un gruppo di scienziati nel 1986 e adottata dall'Unesco, ndr), "La biologia non condanna l'umanità alla guerra", e dico io all'aggressività, è profondamente vera».

Corriere della Sera 17.2.08
La criminologia. Test e colloqui per esaminare la mente dell'omicida: come viene indagata la «capacità di intendere»
La perizia psichiatrica Chi la svolge e con quali scopi. Il colloquio «rivelatore»
di Angelo de’ Micheli


« Nessuno può essere punito per una azione preveduta dalla legge come reato se non l'ha commesso con coscienza e con volontà » così indica l'art. 42 del codice penale. Per stabilire se queste condizioni ci sono, il giudice incarica un criminologo perché stili una «perizia psichiatrica forense».
Di che cosa si tratta? «È una perizia speciale — spiega Isabella Merzagora Betsos, titolare della cattedra di Criminologia Clinica, della facoltà di medicina dell'Università di Milano — della quale il colloquio è lo strumento principale. Naturalmente è un colloquio diverso rispetto al colloquio clinico fatto da uno psichiatra o da uno psicologo per accertare se una persona ha disturbi mentali o soffre di un disagio psicologico».
«La perizia forense — precisa la professoressa Merzagora — è diversa sia sotto il profilo delle regole deontologiche sia come contenuti. Non è, infatti, un colloquio richiesto dal soggetto nella veste di paziente; il più delle volte è fatta su mandato del giudice e la sua finalità non è quella di fornire aiuto o cura, bensì di valutare la responsabilità penale. Questa caratteristica pone chi interroga in una posizione particolare: non è schierato dalla parte del soggetto, ma dall'altra. Questa condizione crea limiti su quello che si può chiedere, limiti rispetto al segreto professionale che non è solo nei confronti del soggetto, ma ha una sua diversa veste giuridica. Per esempio se il mandato ricevuto è quello del giudice, al giudice si deve riferire. Per quanto riguarda i contenuti, è ovvio che verranno chieste informazioni analoghe a quelle del colloquio clinico; quindi la storia di vita del soggetto, quella della famiglia, i suoi problemi concreti e quotidiani, le sue difese. Ma, accanto a queste informazioni, occorre mettere in luce tutta una serie di competenze rispetto alla "criminogenesi", cioè all'origine del comportamento criminale, e alla "criminodinamica", cioè alle modalità con cui è stato attuato il reato. Proprio per questo motivo il colloquio criminologico devono farlo i criminologi; non basta essere psicologi o psichiatri».
È di particolare importanza avere qualche informazione sulla famiglia poiché situazioni e modelli che sono stati presenti o assenti nell'educazione familiare possono aver favorito o meno la criminogenesi. Per esempio, è importante sapere nell'evoluzione del soggetto, quale è stata la sua storia rispetto all'osservanza delle regole sociali. Altrettanto rilevante è conoscere quale è stato il rapporto del soggetto con l'abuso di droghe. Inoltre, come nel colloquio clinico, il perito si avvale di test proiettivi, dove le risposte al test rivelano tratti della personalità, un esempio è il reattivo di Rorschach, per trovare riscontro rispetto alle dichiarazioni che vengono fatte.
«Naturalmente — prosegue l'esperta — l'indagine sul fatto specifico è fondamentale come è opportuno scoprire che non ci sia simulazione; al reo può risultare utile simulare un quadro psicologico, come quello di non saper intendere e volere per evitare la condanna».

Corriere della Sera 17.2.08
Lo psichiatra. Per spiegare il comportamento non bastano due molecole.
Ma è utile approfondire queste ricerche
L'opinione di Vittorino Andreoli


Desiderio
Secondo Sigmund Freud, ogni uomo ha desiderato di ammazzare almeno una volta nella vita

Le motivazioni che portano ad ammazzare sono molteplici. Si può uccidere per vendetta e allora la voglia di ammazzare si seda dopo aver eliminato la vittima designata. Si può uccidere serialmente (i serial killer) e allora le vittime sono degli anonimi che rientrano dentro una logica «sessuale» anche se con azioni indirette che giungono fino a usare il cadavere. Si può uccidere per piacere come gesto di un desiderio di mostrare il proprio potere totale sulla vittima. Si può uccidere, come nel caso di Smerdiakov nei Fratelli Karamazov,
per esprimere la massima libertà. Si può ammazzare su richiesta della organizzazione criminale di cui si è parte e che ordina un morto. Si può uccidere per guadagno, su commissione. Si può uccidere in guerra e il gesto ha un sapore persino eroico. Si può uccidere per un meccanismo darwiniano, per far sopravvivere la specie a cui si appartiene. Si può uccidere per odio, ma persino per amore.
Sigmund Freud sosteneva che ogni uomo almeno una volta nella vita ha desiderato di ammazzare e riteneva che lo potesse fare non solo per un vantaggio o per saldare uno sgarbo, ma persino per una banalità. Questo desiderio «universale» non diventa cronaca nella maggior parte dei casi poiché vengono attivati i freni inibitori. Si tratta di imperativi proprio dell'Io (internalizzati) oppure derivanti da una legge che condanna o da una norma etica che ha effetti nel cielo.
Da questo punto di vista l'uccidere, come comportamento agito, dipende dalla combinazione tra voglia di ammazzare e divieti a farlo. I freni inibitori possono essere forti o deboli e così la voglia, la pulsione a uccidere. Negli ultimi due decenni si è capovolto il dogma di Cesare Lombroso il quale riteneva che questo comportamento fosse da attribuire ad una degenerazione del cervello (nel senso di Morel) e dunque ad una anomalia stabile. Aveva formulato la teoria del criminale (e quindi dell'omicida) nato. Si è visto, invece, che sono molti i casi di criminali che non rientrano in alcuna delle categorie psichiatriche e ciò ha portato a concludere che l'uccidere è compatibile con la normalità. Del resto non risulta che il contributo all'uccidere sia statisticamente maggiore nella follia che nella normalità.
È certamente dimostrato che i due meccanismi ricordati, la pulsione a uccidere (voglia di eliminare) e l'attivazione dei freni inibitori, hanno una dimensione anatomica in circuiti specifici e neuromediatori ben identificati. È certo che stimolandoli o inibendoli, si può aumentare o diminuire il comportamento omicida negli animali di laboratorio.
Ma è impossibile con due mediatori ad assetto contrapposto spiegare la fenomenologia così differente delle motivazioni e le varie tipologie dell'uccidere. Se si vuole ridurre la complessità a due molecole, semplicemente si delira. Se si vuol affermare che non c'entrano le molecole, si fa dello spiritualismo o dell'animismo di marca medievale.
La biochimica che si manifesta nel comportamento omicida è interessante e va approfondita. È utile, purché non si arroghi il desiderio onnipotente di voler oggi, con quello che sappiamo, spiegare il perché si uccide, sia pure rimandando ad un gene che confeziona le zone anatomiche in cui quei modulatori operano. Più modestamente occorre dire che sappiamo ancora troppo poco e che dunque ci resta il dubbio. Il dubbio che è il motore per continuare a ricercare e per sperare di capire.

Oscar Wilde: L'omicidio è sempre un errore: non si deve mai far niente di cui non si possa poi parlare dopo cena

Fedor Dostoevskij: Il criminale, nel momento in cui compie il delitto, è sempre un malato

Liberazione 17.2.08
Veltroni presenta il piano di Confindustria
e vuol far credere che è il programma del Pd
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Non manca nulla: nemmeno la prestazione nello sport più diffuso tra i grandi centri d'opinione ossia l'attacco al '68, all'«egualitarismo» (ovviamente «falso») di quel movimento e delle sue conquiste. E non può mancare il «ma anche»: come pronunciare quale primo nome reso noto fra i candidati quello dell'operaio sopravvisuto nel rogo della ThyssenKrupp di Torino, ma anche annunciare che al Nord ci sarà come capolista il presidente dei giovani confindustriali.
Ieri, alla riconvocata assemblea costituente del Partito democratico, Walter Veltroni ha calato i suoi assi sulla campagna elettorale: dodici punti che «riassumono» il programma per «una nuova Italia», con il condimento di saporose spezie di "senso" cosparse lungo un fluviale intervento, concluso naturalmente tra le note dell'Inno di Mameli.
Lasciando le spezie - compreso l'antisessantottismo - per dopo, la vera eloquenza è nella sostanza, cioè precisamente nel programma "essenziale" presentato. Il primo dei dodici punti enumerati è, non a caso, la realizzazione delle infrastrutture. Ricorda qualcun altro, nelle elezioni del 2001... E in effetti le infrastrutture sarebbero - a parte l'immancabile impegno algoriano a «rottamare il petrolio» - la Tav e i termovalorizzatori: per «l'ambientalismo del fare» e contro quello «Nimby», cioè Not in my back yard (non nel mio cortile), che sarebbe quello delle comunità locali campane insorte contro la riapertura delle discariche cui proprio ieri il supercommissario De Gennaro ha dato ragione.
Si prosegue con il Mezzogiorno, in perfetta continuità col primo punto dal momento che l'obiettivo qualificante è portare - ma non è ancora dato sapere come - «la rete delle infrastrutture» ad «un livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l'Europa sviluppata». Per il resto, frustate a quanto si usano «male» i fondi europei, il cui regime bisogna «rivedere»: nulla più.
Con il terzo punto il cerchio sembra già chiudersi. E' quello sulla spesa pubblica: che va tagliata, punto e basta. Il Pd, annuncia Veltroni, se governerà la taglierà per ben due punti e mezzo del Pil, in soli tre anni. E la quarta promessa, così, è un'altra reminescenza: «ridurre davvero le tasse».

Liberazione 17.2.08
La truffa delle legge elettorale: la grande coalizione in vista
di Piero Sansonetti


La decisione di Pierferdinando Casini di presentarsi da solo alle elezioni complica un po' il panorama politico ma rende chiarissima la "truffa" che si delinea nei confronti degli elettori.
Truffa quadrupla. Proviamo a spiegare perché.
Prima truffa , di carattere aritmetico. Ai nastri di partenza della campagna elettorale ci sono quattro o forse cinque (o forse sei o sette) partiti: quello di Berlusconi, il Pd, la Sinistra, Casini (immagino con la Cosa Bianca), forse la destra di Storace, forse (se non andrà con Casini) Mastella, forse i socialisti e i radicali. Di questi partiti, uno arriverà primo e prenderà il 55 per cento dei seggi alla Camera, tutti gli altri (indipendentemente dalla loro collocazione a destra o sinistra) si divideranno il restante 45 per cento dei seggi. Il partito che arriverà primo (quasi certamente quello di Berlusconi) difficilmente avrà ottenuto più del 40-42 per cento dei voti. Dunque beneficerà di un premio di maggioranza pari al 10-15 per cento. Una enormità. Non esiste in nessun paese dell'Occidente. Una legge così ha un solo precedente: la legge elettorale varata da Mussolini nel '23. E' una legge di tipo fascista.
Seconda truffa . Il senso della legge dovrebbe essere quello di dividere il parlamento in maggioranza e opposizione. Una maggioranza solida del 55%, una opposizione consistente del 45%. Agli elettori decidere se la maggioranza andrà alla destra o alla sinistra. Nel parlamento che uscirà dal 14 aprile non sarà così. Alcuni (o forse molti) dei partiti che hanno preso i voti come opposizione cambieranno schieramento e passeranno in maggioranza. E' uno scenario molto probabile. Praticamente sicuro per Storace, probabilissimo per Casini, abbastanza probabile per il Pd. Anche perché in Senato - dove il premio di maggioranza viene distribuito regione per regione, e quindi è praticamente inesistente - probabilmente Berlusconi non avrà i voti per governare, o ne avrà pochissimi (come fu per Prodi) e dunque dovrà ricorrere necessariamente alle alleanze. In questo modo si comprime e si punisce l'opposizione.
Terza truffa . Si dice che questa meraviglia bipartitica - inventata da Veltroni, Fini, Guzzetta, Segni e qualche altro genietto - garantirà all'elettore che sarà lui - l'elettore - a scegliere chi governa e chi no. Cioè che le coalizioni, le alleanze, i programmi, si fanno prima delle urne. Bene, ora è chiaro che è esattamente il contrario. Prima ci si accapiglia in campagna elettorale, poi si vota, e poi l'ammucchiata. Un imbroglio del genere non si era mai visto in democrazia. Agli elettori non sarà concesso di scegliere né per quale deputato votare, né per quale partito, né per quale coalizione. E' una situazione davvero senza precedenti.
Quarta truffa . Per i motivi che dicevamo prima - ma anche per l'incredibile somiglianza del programma politico illustrato dal Pd con il programma elettorale che Berlusconi presentò nel 2001 e nel 2006 - diventa sempre più vicina la prospettiva della grande coalizione. E tutta quella storia del "voto utile" diventa più truffaldina che mai. Ti dicono: «vota per Berlusconi o Veltroni, perché solo uno di loro due può vincere e quindi è inutile votare per i partiti minori...» . Falso: se voti per uno o per l'altro cambia poco, tanto governeranno insieme.
L'unica vera certezza, per l'elettorale, è chi starà all'opposizione: la Sinistra l'Arcobaleno. Non vorrei apparire fazioso, ma a me sembra che davvero l'unico possibile voto utile - dal punto di vista "scientifico" - sia quello per la sinistra.

il manifesto 17.2.08
Minimalia elettorale
di Alessandro Robecchi


Mi piace tanto lo slogan Yes we can. Non è male nemmeno quell'altro: Italia rialzati, forse riferito ai pedoni di Milano. Però, guardo la campagna elettorale e prevale la pietà. Ci sono degli innocenti da salvare, creature gentili che rischiano di essere stritolate dalla follia collettiva che ci porterà alle urne. Questo è un accorato appello per salvare la vita a persone che non meritano tanti guai.
Povero figlio. Daniela Santanché, recentemente apparentata con Forza Nuova (si vede che la gioventù hitleriana aveva un impegno) ha dichiarato che le piacerebbe molto avere un figlio che attacca i manifesti e assalta la casa del grande fratello. E' giusto avere grandi speranze per la propria prole, ma il figlio della signora è ancora piccolo, ha da poco imparato a pronunciare la parola «Porsche». Nell'attesa che abbia l'età per farsi ardito, forse si fa in tempo a salvarlo. Mandategli qualche libro di storia, magari (alla sede della Destra, a Roma, lasciate in segreteria, la prima stanza a sinistra dopo le camere a gas).
Povero Foglio. Se potete, accorrete in aiuto dei redattori de Il Foglio. Questa agitata e sgomitante lobby dell'incoerenza aveva perlomeno il pregio di sorprendere, di scrivere stupidaggini con il tono solenne della sentenza e il birignao del circolo di canasta. Aveva meno lettori dei necrologi sul Corriere, ma era un po' più divertente. Ora che il giornale sembra una messa in latino e il direttore officia volgendo le spalle ai fedeli, è scesa una cappa di gelo, e presto saranno promossi capiredattori due embrioni. Aiutateli.
S.O.S. trentenni. Nei borghi, nelle campagne e nelle città, corre voce che il Partito democratico si affanni alla ricerca di trentenni da candidare. Se avete tra i trenta e i quarant'anni, bellocci, imprenditori, o figli di imprenditori, di alto reddito, automuniti, dunque, restate in casa. Ripeto, restate in casa. Potreste finire candidati nel Pd e un giorno, eletti, sedervi accanto alla Binetti.

il manifesto 17.2.08
Una vincente aporia
il veltronismo è la prosecuzione del berlusconismo con tutt'altri mezzi
di Gabriele Polo


Walter Veltroni ha già vinto. «Il futuro gli appartiene», scrivevamo dopo il suo intervento all'ultimo congresso dei Ds, quasi un anno fa. Ieri, con il discorso programmatico che ha aperto la campagna elettorale del Pd, ha definitivamente imposto il suo stile all'intero panorama politico. Perché il veltronismo è la prosecuzione del berlusconismo con tutt'altri mezzi: la nuova autobiografia nazionale. Se Berlusconi incarnava lo spirito aggressivo di una società impaurita e perciò egoisticamente violenta, Veltroni raccoglie il desiderio di normalità di un'Italia spossata e stanca, indebolita dall'impoverimento economico, parcellizzata dalla disgregazione sociale, provata fino all'estremo dagli scontri istituzionali, svuotata dal consumo delle idealità.
Walter Veltroni per provare a vincere (e può vincere) il prossimo 13 aprile non ha nemmeno bisogno di nominare il suo avversario. Anzi, non deve nominarlo, perché quel nome è sinonimo di lacerazioni e conflitti non previsti nella costituzione materiale del «partito unico» (il raccoglitore che può tenere insieme l'operaio della Thyssen con il presidente dei giovani industriali). E, al tempo stesso, il leader del Pd sa bene quanto, più ancora che la solitaria scelta di Casini, conterà il meccanismo del «voto utile» per far convogliare su di lui ciò che resta dell'antiberlusconismo elettorale (anche grazie a Di Pietro).
Walter Veltroni ha presentato un programma stringato e ovvio, comprensibile e generico: perfetto. Perché fa sembrare un evento la buona amministrazione dell'esistente, evoca come un sogno realizzabile la coesione sociale a sorreggere la stabilità politica. Riesuma l'orgoglio nazionale degli italiani brava gente da valorizzare nel mondo dell'ingerenza umanitaria. Rilancia lo sviluppo della comunità produttiva da realizzare nell'interesse comune di capitale e lavoro. Ipotizza la figura dello stato soccorritore, che riduce la pressione fiscale sia per l'impresa che per i lavoratori, che rassicura i cittadini sul piano della sicurezza personale, che ammoderna le infrastrutture e gestisce gli attriti ambientali. Un'efficace aporia elettorale che parla a un paese bisognoso di conforto. Poco importa, ai fini della contesa del 13 aprile, che glissi sui nodi della laicità, dei diritti, dei conflitti sociali, delle risorse limitate. Ciò che conta è la sua immediata spendibilità. Sapendo che dopo le elezioni, chiunque sia il vincitore lo sarà di misura e dovrà accordarsi con lo sconfitto: ma il terreno di quel compromesso è ora già scritto. In dodici punti.
Walter Veltroni ha aperto la sua stagione. Lascia un ampio spazio a sinistra. Più in prospettiva che nell'immediato, più sulla carta che nella realtà. Per occuparlo non basta affermare la necessità (ovvia) dell'esistenza di una sinistra parlamentare se non si mette in campo un'idea alternativa di società. Ma questo è un altro discorso, tutto da fare. Non riguarda il candidato del Pd. E nemmeno gli interessa.

il manifesto 17.2.08
«Difesa della vita» a oltranza In vigore dal 1993 si chiama «Legge per la protezione dell'embrione umano»
Aborto in Polonia, legge contro donne
di Mauro Caterina


Per una norma tra le più restrittive al mondo nel paese si praticano dalle 180 alle 220mila interruzioni di gravidanza clandestine ogni anno. Numeri che non tengono conto della situazione nelle campagne, dove la povertà costringe a ricorrere alle mammane La Chiesa domina e nessun partito osa opporsi a una legge che fa strage di donne. Le strutture sanitarie spesso rifiutano di effettuare persino l'aborto terapeutico, anche perché i medici temono per la propria carriera e si appellano all'obiezione

Karina Kozic, 21 anni, viveva in un piccolo centro nel Voivodato della Grande Polonia, nella parte occidentale del Paese. Nel marzo del 2005 pratica un aborto clandestino in un appartamento privato di un ginecologo, nella cittadina di Swarzedz. Subito dopo l'intervento ha un'emorragia e viene trasportata con un'ambulanza all'ospedale di Poznan, dove muore.
Basia ha 25 anni quando rimane incinta. Ha completato da poco gli studi in legge e col fidanzato hanno deciso di comprare casa e vivere insieme. Improvvisamente inizia ad accusare dei forti dolori all'addome. All'ospedale di Pila il medico le diagnostica un'ulcera all'intestino. Viene ricoverata nel reparto di gastroenterologia dell'ospedale di Poznan. «La priorità dei medici - racconta la madre - era quella di salvare a tutti i costi la gravidanza». «Mia figlia gridava e piangeva per i dolori atroci che comunque sopportava». Tre settimane di cure a base di paracetamolo e Basia viene dimessa dall'ospedale. Trascorsa una settimana a casa, ritornano i dolori. Viene nuovamente ricoverata in ospedale: ascesso interno. La ragazza viene operata e rilasciata con la ferita ancora non del tutto rimarginata. Passano due giorni e i dolori all'addome diventano acuti. L'ambulanza la riporta per l'ennesima volta in ospedale. I medici dicono alla madre di Basia che sua figlia «pensa troppo a se stessa e poco alla gravidanza». Per tutta risposta, lei decide di portare Basia in un altro ospedale, dove le viene diagnosticato un altro ascesso ed una fistola. Era necessario effettuare un'endoscopia per scoprire il problema ed individuare l'infezione. Ma quel tipo di esame poteva avere dei rischi e compromettere la gravidanza. Il dottor Jaroslaw Cywinski si rifiuta di effettuare l'esame: «La mia coscienza non lo permette», si giustifica. Pochi giorni dopo la ragazza finisce sotto i ferri in sala operatoria. Perde il bambino. Subisce altri interventi nel tentativo di fermare le emorragie. Basia muore il 29 settembre del 2004.
La professoressa Gazyna Rydzewska è un'esperta gastroenterologa polacca: «In questo caso bisognava fare l'esame endoscopico. Non vi era la sicurezza di poter salvare la gravidanza, ma era un rischio che si doveva correre». Il dottor Cywinski è stato indagato per omicidio colposo. E' ancora sotto inchiesta.
Karina e Basia sono due delle tante, tantissime donne, troppe, che in Polonia perdono la vita a causa di una legge ideologica e conservatrice: la «Legge per la protezione dell'embrione umano». Entrata in vigore il 7 febbraio del 1993, quella polacca è una delle leggi più restrittive al mondo riguardo all'aborto. L'interruzione legale della gravidanza è prevista solamente in tre casi: nel caso in cui la gravidanza rappresenta una seria minaccia alla vita o alla salute della donna (ciò deve essere accertato da un medico oltre che dal ginecologo che dovrebbe operare); nel caso in cui un esame prenatale evidenzi gravi malformazioni del feto; nel caso in cui la gravidanza sia stata procurata da uno stupro (deve essere un magistrato ad accertare il fatto). Per i dottori che praticano l'aborto al di fuori della legge è prevista una condanna dai 3 ai 5 anni di detenzione.
Ogni anno si calcola che in Polonia vengono praticati dai 180.000 ai 220.000 aborti clandestini. Numeri che però non tengono conto di quello che succede nelle campagne. «Chi ha i soldi vola all'estero - ci dice Katarzyna Gajewska - oppure trova un ginecologo compiacente che mette a disposizione il suo studio privato, per un costo che si aggira intorno ai mille dollari». Katarzyna è una dirigente attivista di «Konsola», associazione femminile con sede nella città di Poznan che promuove il dibattito per una legge sull'aborto liberale e si batte per i diritti delle donne polacche. «Il vero dramma è nelle campagne». "Lì - continua - non ci si può permettere un ginecologo e allora si ricorre alle mammane».
Una strage silenziosa della quale non si conoscono i numeri. I decessi, infatti, non vengono registrati dagli ospedali sotto la denominazione di «aborto clandestino». Abbiamo provato a fare un giro negli ospedali di Varsavia e di Poznan, cercando di parlare dell'argomento scottante con dottori e gli infermieri in servizio. «No comment» è l'atteggiamento generale. Un'infermiera a Varsavia ha tagliato corto dicendo che «in questo ospedale siamo contro l'aborto, non ci interessa altro». Ed è proprio da queste parole che viene fuori una realtà imbarazzante e paradossale. Pur avendo una donna i requisiti di legge necessari per poter chiedere l'interruzione legale della gravidanza, ciò viene sistematicamente ignorato dalla maggior parte delle strutture sanitarie nazionali.
L'aborto terapeutico viene percepito come un crimine dal mondo medico ed un serio ostacolo alla carriera, salvo poi, per molti di loro, spartirsi senza rimorsi di coscienza il ghiotto mercato degli aborti clandestini. Non è affatto difficile trovare un medico disposto a praticare clandestinamente l'aborto. Come? Il passa parola, prima di tutto, oppure inserzioni pubblicitarie nei giornali locali dove si promette «il ritorno delle mestruazioni». Tutti lo sanno e tutti fanno finta di non sapere.
Ma è sempre così? E' possibile che in Polonia non vi sia nessuno medico che abbia il coraggio di alzare la voce contro il mercimonio della salute di una donna, e contro una legge che mostra tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni? Un caso che ha fatto molto discutere e acceso il dibattito anche all'interno dell'ambito medico è stato quello della dottoressa Malgorzata, ginecologa con alle spalle una lunga carriera. L'11 gennaio del 2008 il maggiore quotidiano polacco, Gazeta Wyborcza, porta a conoscenza dell'opinione pubblica l'arresto di un medico ginecologo nella cittadina di Zyrardow. Si tratta della dottoressa Margolzata, appunto, accusata di aver effettuato 26 aborti illegalmente. A denunciarla alla polizia è stata una sua paziente di 26 anni. Secondo quanto riportato nella denuncia, la ragazza, dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, ha cercato in tutti i modi di trovare qualcuno che le praticasse l'aborto. Il padre del bambino l'aveva abbandonata e lei si trovava da sola e con altri due bambini malati da crescere con uno stipendio di 900 zloty al mese (circa 250 euro). Era disperata. Dopo una serie di rifiuti da parte di altri ginecologi, a cui aveva proposto di pagare il compenso di 2.500 zloty a rate, la donna si rivolge alla dottoressa Malgorzata, la quale le chiede il motivo di quella decisione e tenta di dissuaderla, senza riuscirci. La 26enne quel giorno paga solo 200 zloty. Il giorno dopo, però, sporge denuncia alla polizia.
La ginecologa si dichiara colpevole. Tutte le altre donne a cui ha praticato l'aborto hanno testimoniato in suo favore, dicendo che prima di procedere la dottoressa aveva fatto di tutto per dissuaderle. «Sì sono colpevole - ha detto la ginecologa - ma l'ho fatto secondo la mia coscienza». «Ho praticato l'aborto solo in quei casi in cui la gravidanza rappresentava un alto rischio per la vita delle mie pazienti, o nel caso in cui esse erano in difficoltà economiche ed erano determinate a farlo». La dottoressa Malgozata ha chiesto volontariamente di essere condannata alla pena prevista dalla legge e al pagamento di 15.000 zloty.
Quanto alla politica, in Polonia non si muove foglia sull'argomento a meno che non sia la Chiesa a parlarne. Nessuno dei partiti dell'arco costituzionale vuole prendere una posizione contraria nei confronti della legge attuale. Una sudditanza che schiaccia l'autonomia della politica dalla religione e costringe le donne all'umiliazione e alla gogna sociale. Quando, se e come cambieranno le cose da queste parti, per adesso non è dato saperlo. L'associazione che più di tutte si sta battendo per i diritti delle donne in Polonia e il cambiamento della «legge per la protezione dell'embrione umano» è la Federazione Polacca per le Donne. Sono molte le battaglie portate avanti, ma quella più importante da combattere è contro l'indifferenza.

il manifesto 17.2.08
Principia Iuris, l'ultimo libro di Luigi Ferrajoli. Ne discutono Rossana Rossanda, Stefano Rodotà, Eligio Resta
Il diritto (e il rovescio) della nostra democrazia


Mentre cambia il clima attorno ai diritti civili e alle certezze giuridiche e politiche conquistate nel periodo più vitale della democrazia italiana, venerdì scorso a Roma si è tornati a discutere sull'ultimo libro di Luigi Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia (Laterza). Nel dibattito coordinato da Mauro Palma, presidente del Comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d'Europa, organizzato dall'associazione Antigone, sono stati più volte evocati i sintomi di una preoccupante regressione rispetto alle conquiste della cultura garantista e della democrazia costituzionale, le cui basi sono state gettate a partire dagli anni '60.
Per Stefano Rodotà, i tre volumi, e le tremila pagine, di Principia Iuris rappresentano «la fondazione radicale della democrazia sui diritti». Ferrajoli, ha aggiunto l'ex presidente dell'autorità per la privacy, ha dimostrato l'esistenza di «un nuovo spazio costituzionale nel quale il corpo non può essere oggetto di profitto», né di intervento unilaterale da parte dello stato. Alla base di questo spazio, Ferrajoli colloca «l'indecidibile», la vita e la salute della persona, davanti alle quali il legislatore deve arrestarsi. Per Rodotà, questo significa impedire a chiunque vinca le elezioni di riscrivere i diritti fondamentali a partire dai propri interessi, o valori morali e religiosi. A meno che non siano le stesse persone a mobilitarsi a difesa della propria vita o salute.
«Mai come oggi - è intervenuta Rossana Rossanda - c'è stata una simile confusione sui diritti e sul loro senso». Rossanda si è detta preoccupata per la tendenza autoritaria delle democrazie occidentali si rispecchia nella regressione di natura semantica alla quale sono oggi sottoposte le libertà delle donne. Il gioco linguistico che ha imposto al dibattito nazionale l'equivalenza tra la moratoria della pena di morte e la moratoria sull'aborto rivela la gravità della sfida lanciata alla legge 194.
Ed è proprio dalla semantica giuridica, ha sostenuto Ferrajoli, che bisogna ripartire per riconquistare la certezza dei principi in base ai quali «la politica esplicita le sue scelte convenzionali». Ciò non toglie, ha ribadito Rossanda, che «il diritto abbia privato le donne dell'uguaglianza e del principio di ragione». Le donne sono confinate dal diritto al ruolo di Antigone, «depositaria di sentimenti che vanno al di là delle leggi, ma impossibilitata a partecipare alla loro creazione». Ferrajoli le ha risposto che, a suo parere, non esiste contraddizione tra l'uguaglianza e la differenza e, anzi, «i diritti fondamentali sono i diritti alla differenza sessuale».
Fondata su un potente sforzo di razionalizzazione della teoria giuridica mediante il linguaggio simbolico della formalizzazione e del calcolo, la visione dell'autore di Principia Iuris è radicata nei territori insidiosi della politica. Riprendendo una suggestione di Eligio Resta, filosofo del diritto alla terza università di Roma, Ferrajoli ha esortato a «diffidare sempre del potere buono». «Il potere - ha affermato - si esercita in base agli interessi di chi lo detiene, e spesso in maniera totalitaria». In risposta a Ugo Rescigno Ferrajoli ha spiegato che la democrazia deve mantenere un doppio registro: da un lato deve includere «i processi di liberazione e di emancipazione dei soggetti» e, dall'altro lato, sistemare i nuovi diritti nei loro sistemi giuridici e politici. Per il magistrato Salvatore Senese, la crisi della democrazia è dovuta «alla crisi dello Stato-Nazione che ha rovesciato il rapporto tra sovranità ed economia, ma ha anche rafforzato la sensibilità per la violazione dei diritti». «Il mio resta un ottimismo metodologico - ha concluso Ferrajoli - la democrazia dovrebbe sempre partire da una riflessione critica sui propri principi, ma nulla garantisce il progresso univoco e virtuoso del diritto verso la democrazia».