giovedì 21 febbraio 2008

Manifesto pronto per andare in stampa: «Siamo di parte. Noi per la Costituzione. Altri per la Bibbia»
l’Unità 21.2.08
«La sinistra si schiera da una parte sola»
Bertinotti lancia il programma e polemizza col Pd: accetta il liberismo senza costruire l’alternativa
di Simone Collini


«Oggi c’è l’idea di voler rappresentare indifferenziatamente tutti. Noi facciamo eccezione»

«Assolutamente nessuna nostalgia per la falce e martello siamo uomini e donne del futuro»

«UNA SCELTA DI PARTE» I manifesti della Sinistra arcobaleno stanno per andare in stampa, e per la campagna elettorale i leader e i responsabili comunicazione di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica hanno scelto uno slogan che vuole
essere anche una risposta alla strategia scelta dal Partito democratico. Non a caso Fausto Bertinotti presenta al Piccolo Eliseo le linee guida del programma rosso-verde chiudendo il suo intervento con queste parole: «Oggi c’è quest’idea di voler rappresentare indifferenziatamente tutti. Noi facciamo eccezione: siamo di parte. La Sinistra arcobaleno vuole stare da una parte sola, rispondendo ad una domanda di cambiamento, di trasformazione e lotta alle ingiustizie». Un’impostazione che piace ai circa quattrocento che affollano la sala del teatro romano, e ai tanti rimasti fuori per i quali il presidente della Camera improvvisa un comizio per strada prima di entrare (con la promessa di rivedersi domenica 2 marzo in un più grande cinema della capitale).
Il candidato premier della “Cosa rossa” è convinto che non si possano mettere insieme nelle liste elettorali l’imprenditore e l’operaio, che «proporre la crescita come paragone assoluto è come svuotare il mare con il secchiello» e che nonostante sia una «banalizzazione» dire che Veltroni e Berlusconi si equivalgono, «il programma del Pd è troppo moderato» perché accetta la premessa liberista della destra, e cioè che la precarietà sia da accettare come «condizione permanente». E infatti dell’operazione ancora tutta da costruire della Sinistra arcobaleno sono chiari l’obiettivo, che come dice Bertinotti è quello di voler lavorare a «un’alternativa di società che ponga rimedio ai guasti del sistema capitalistico globalizzato», e il «bandolo della matassa» da cui partire: «Il rifiuto di accettare come permanente la precarietà, non solo nel lavoro, ma come condizione esistenziale».
È la stessa regia scelta per l’appuntamento al Piccolo Eliseo a dare il senso dell’operazione: apre il cantante Daniele Silvestri, che parla dell’iniziativa dell’associazione Movimenti di allestire palchi illuminati e sonorizzati «grazie al sole e non al petrolio» (e infatti è un pannello solare ad occupare il centro del palco da cui parla), e poi il microfono viene utilizzato per raccontare cinque storie. C’è il migrante magrebino che vive a Padova e racconta le difficoltà a ottenere un permesso di soggiorno che per legge è legato al lavoro e alla residenza; c’è il medico Mauro Mocci, che vive ad Allumiere, in provincia di Roma, che si batte per denunciare l’incidenza delle malattie tumorali nel polo industriale di Civitavecchia e Montalto di Castro; c’è Silvia, laureata e con master finanziato dall’Ue che da anni va avanti con contratti cocopro da 800 euro al mese e si domanda «quale futuro avremo se abbiamo a stento un presente»; c’è Salvatore Cannavò, gay ventiseienne finito nei giorni scorsi sulle pagine di cronaca perché un tassista romano si è rifiutato di prenderlo in macchina; e c’è Stefania Grasso, figlia del commerciante Vincenzo Grasso, ucciso nell’89 per non aver pagato il pizzo, che non lascia Locri e che chiede un impegno a candidare soltanto «persone pulite, persone perbene».
Bertinotti ascolta, seduto in prima fila accanto a Daniele Silvestri (che lo chiama «zio Fausto»), Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio, Oliviero Diliberto, Titti Di Salvo e gli altri dirigenti dei quattro partiti. Poi sale sul palco e parte dalle cinque «esperienze di resistenza umana e civile» per indicare la strada su cui dovrà muoversi il nuovo soggetto. Dice che quelle ascoltate sono «domande a cui la politica non è stata in grado di rispondere, malgrado la fatica fatta» e che «per questo ora nasce la Sinistra arcobaleno». Perché se nell’immediato «il governo è dimissionario ma può ancora operare sul terreno degli immigrati e dei salari, testimoniando almeno in articulo mortis che una volontà di risarcimento c’era», per il futuro è necessario mettere a punto un programma incardinato su «tre grandi processi di liberazione: del lavoro, della natura e della persona».
«Resistenza», «liberazione», Bertinotti fa riferimento a radici antiche, citando anche la rivoluzione francese, perché «senza il tema dell’eguaglianza e della libertà la sinistra non esiste» e perché «bisogna recuperare una delle parole dimenticate, fraternità». Ma, anche quando dice che «la sinistra deve ricostruire una connessione sentimentale con il suo popolo», citando questa volta Gramsci, lo fa per sottolineare che lo sguardo deve essere rivolto al futuro. Non a caso, a chi glielo domanda prima di entrare nel teatro romano, risponde di non avere «assolutamente nessuna nostalgia per la falce e martello, siamo uomini e donne del futuro». E poi, in una sala in cui l’unico simbolo che si vede è quello della Sinistra arcobaleno, senza nessuna bandiera dei partiti fondatori, esordisce con un non usuale «amici e compagni».

Repubblica 21.2.08
Bertinotti lancia la campagna della Cosa Rossa
"Noi saremo di parte" Lo slogan della Sinistra contro il "buonismo"


"Chiamiamoci compagni e amici, ognuno scelga la casella dove stare" I temi: gay, mafia, ambiente, precariato

ROMA - Lo slogan che segnerà tutta la campagna elettorale è pronto. «Una scelta di parte». Sui manifesti 6x3, nei comizi, in tv, sarà il tormentone della Sinistra Arcobaleno nella maratona del 13 aprile. Per comunicare al paese esattamente il contrario di quel che Veltroni ha messo in campo come idea-forte della campagna del Pd, quel kennedyano «non chiedetevi per quale partito ma per quale paese». Troppo vago, buonista e indistinto secondo la sinistra. Ma che paese vogliamo, a chi parliamo? Politici e "creativi" della Cosa rossa, perciò, hanno deciso di puntare su una campagna dai toni forti e identitari (che sarà presentata ufficialmente a metà della prossima settimana), pur senza prendere di mira direttamente il Pd. E tocca proprio a Fausto Bertinotti che al Piccolo Eliseo di Roma apre la campagna, «ci chiameremo compagni e amici», far debuttare il nuovo leit-motiv della sinistra rosso-verde. Che si materializza alla fine del suo intervento. Sotto forma di ragionamento politico e non di slogan, ma il candidato premier anticipa - pur senza farne espressamente cenno - quel che appunto dietro le quinte il "tavolo della comunicazione" ha sfornato. «Oggi c´è questa idea di voler rappresentare tutti, noi facciamo eccezione. Noi siamo di parte, la Sinistra Arcobaleno vuole essere un soggetto politico partigiano». Sul palco, introdotti dal cantautore Daniele Silvestri, cinque giovani che raccontano la loro storia: un migrante, un medico che si batte per l´ambiente, un gay, una precaria, la figlia di un commerciante calabrese ucciso dalla ‘ndrangheta. Saranno proprio i cinque temi dominanti della campagna elettorale. A cominciare dall´offensiva sui diritti civili, secondo la sinistra abbandonati dal Pd. Manifesto pronto per andare in stampa: «Siamo di parte. Noi per la Costituzione. Altri per la Bibbia».
(u. r.)

l’Unità 21.2.08
Titti Di Salvo. La capogruppo alla Camera di Sd
«Uno sbaglio usare la Cgil per scelte individuali»
di Eduardo Di Blasi


«Penso che le scelte individuali siano tutte rispettabili. Detto questo, non mi convincono le ragioni di coloro che hanno deciso di lasciare Sd e, in ogni caso, non ho trovato da nessuna parte il perché abbiano deciso di aderire al Pd. Questa scelta non era la conseguenza automatica di quella precedente». Pesa i termini, Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera di Sd. Non condivide la ricostruzione fatta da un «pezzo» di Cgil che ha lasciato Sd per confluire nel Pd, ma arriva subito al nodo della questione: «Io penso che nel nostro Paese il cuore del problema sia la rappresentanza politica del lavoro o meglio il fatto che questo non sia rappresentato».
Il Pd, dal suo punto di vista, non lo rappresenta?
«Il Pd rinuncia esplicitamente a rappresentare il lavoro perché annuncia la propria equidistanza tra lavoro e impresa. Se c’è equidistanza vuol dire che non c’è differenza. Che c’è pari forza. Al contrario, tutto il diritto del lavoro italiano, nonostante Berlusconi, si basa ancora su un punto: non c’è pari forza tra imprenditore e lavoratore. I contratti e lo statuto dei lavoratori si incaricano esattamente di riequilibrare questa forza che non è pari».
Eppure diversi esponenti della Cgil hanno deciso di lasciare l’esperienza della Sinistra Arcobaleno...
«Scelta legittima, come detto. Ma sono personalità singole. Vedere usare la parola “Cgil”, dicendo che “si schiera a favore”, che “entra dentro” o “esce” da un partito, a me ha provocato un sobbalzo. E credo anche a tutta la Cgil. Ritengo che la Cgil sia un bene prezioso per questo Paese e per la sinistra. Soprattutto lo è la sua autonomia».
Il progetto di Sd è stato compresso dalla vicinanza della scadenza elettorale?
«Quello che stiamo provando a fare, sapendo che le elezioni hanno sorpreso tutti, è realizzare una grande ambizione: dare all’Italia una forza di sinistra larga, popolare, laica, ecologista. Vogliamo modificare la realtà per rendere l’Italia più giusta e solidale. Naturalmente non pensiamo in questa tornata elettorale di prendere il 51% ma non abbiamo certo la vocazione all’opposizione. Siamo una forza di governo, e nella nostra prospettiva strategica abbiamo un centro-sinistra nuovo per governare l’Italia».
Chi ha lasciato Sd afferma che la Sinistra Arcobaleno ha cambiato di segno al progetto...
«È stato detto anche che Sd ha tradito lo spirito del 5 maggio, che è curioso come argomento perché il 5 maggio è il giorno in cui Sd ha annunciato che non entrava nel Pd. Usarlo per dire che si entra nel Pd, si presta a qualche contraddizione».
Torniamo alla questione del lavoro...
«È il grande problema aperto che ci consegna la globalizzazione. Il Pd l’ha “risolto” rinunciando programmaticamente, dicendo “siamo equidistanti”. Ma non ci sono le scorciatoie. La rappresentanza politica del lavoro non si realizza con il sindacato che si fa partito, né con i partiti che si sostituiscono al sindacato».
Vedendo anche le dinamiche dei salari e delle pensioni si ha l’impressione che politica e sindacati siano stati un po’ fermi sulle gambe negli ultimi 10 anni...
«Sono stati anni difficili. I cinque anni di governo Berlusconi hanno pesato molto. Non siamo riusciti in questi mesi di governo Prodi a invertire del tutto la direzione di marcia. D’altra parte, quando si dice che gli operai e i pensionati sono “invisibili” vuol dire che la politica è impermeabile alle loro opinioni e che, al momento delle scelte, quegli interessi e quei bisogni spariscono. Questo ha determinato progressivamente impoverimento e disuguaglianza».

l’Unità 21.2.08
Nakhjavani: «Il velo? Non copre il corpo, ma l’anima»
di Maria Serena Palieri


L’INTERVISTA Parla l’iraniana Nakhjavani che ha dedicato un romanzo alla figura oscura e luminosa di Tahirith, poetessa Baha’i che nel suo Paese nell’800 sfidò il diritto girando a volto scoperto

Tahirih Qurratu’l-Ayn, una giovane che nell’Impero persiano della dinastia Qajar predicò la tolleranza e la libertà interiore secondo il verbo della confessione Baha’i, si ribellò al velo e, col bellissimo viso scoperto, insegnò ai più poveri a scrivere, compose poesie e, per la sua poetica capacità di prevedere il futuro, fu chiamata strega, per finire, accusata di omicidio, incarcerata a Teheran e poi assassinata, è l’eroina della Donna che leggeva troppo, romanzo di affascinante lettura, edito da Rizzoli, di Bahiyyih Nakhjavani, già autrice della Bisaccia. Sessant’anni, minuta, sguardo vivace e grandi occhiaie scure singolarmente ammalianti, la scrittrice porta questo nome la cui grafia, per noi di ceppo latino, è impossibile compitare. In realtà è naturalizzata europea dall’infanzia e scrive in inglese: a tre anni con la famiglia emigrò in Uganda, allora colonia, a undici arrivò in Gran Bretagna, oggi vive tra lì e la Francia. E, ci spiega, questo suo sradicamento è il motivo per cui ha costruito in modo così anomalo il romanzo con cui - con l’anima - è «tornata» nel suo Paese. Ripercorrendone un pezzo di storia ottocentesca, i quarant’anni di regno dell’effeminato e imbelle Shah Nasiru’d-Din, schiacciato prima dalla madre, la Reggente Mahd-i-Olya, poi da due Imperi prepotenti, il Britannico e il Russo.
Signora Nakhjavani, la poetessa di Qazvin in che misura è un personaggio storico e in che misura nasce dalla sua fantasia?
«Ho ereditato dalla Storia la sua storia. Fino da bambina ne conoscevo le gesta, perché, per noi di cultura Baha’i, è una figura importante. Ma negli ultimi centosessant’anni su di lei sono state costruite anche molte verità non vere, di volta in volta è stata esaltata o messa all’indice. I cosiddetti fatti sono anch’essi invenzioni, e andavano vagliati. Da parte mia ho inventato, ma in coda al libro ho messo un elenco di dati storici e una bibliografia che consentono al lettore di farsi una propria idea. Perchè oggi è in voga sbandierare la libertà creativa dell’autore. Ma io ho sentito una responsabilità precisa verso questa donna vessata nella sua vita vera, la cui voce è stata strozzata in senso letterale. Non volevo essere io a lapidarla di nuovo, a velarla di nuovo. I diritti umani dei morti vanno rispettati».
Sfuggente ma centrale nel suo romanzo c’è, appunto, la figura di una professionista della morte, la donna che lava i cadaveri. Come si è imposta alla sua fantasia?
«Ho voluto dare a Tahirih il funerale che non ha mai avuto e seppellirla col giusto onore. Questa donna è colei che per prima legge la sua storia. Lavare un defunto non significa lavare un corpo del suo passato? Ma, tornando a quella prima questione, su verità e invenzione, documentandomi su Tahirih io stessa ho trovato molti dati contraddittori. E allora ho usato un altro strumento narrativo: il pettegolezzo. Attraverso il gossip femminile, un continuo cicaleccio, puoi fare e disfare le verità molte volte. Ecco queste bocche di principesse e dame, ma anche di donne che lavano i cadaveri, che narrano fatti però ricamano su di essi. Con le loro chiacchiere “lavano” dei fatti che sono morti».
Lei, nella scrittura, impiega una splendida ironia. L’ironia è un frutto culturale, come la conosciamo noi oggi è erede di un’epoca, del Razionalismo seicentesco e di Voltaire. Per la cultura persiana essa esiste?
«I persiani sono i più raffinati utilizzatori della lingua, suonano, danzano con le parole, giocano con esse fino a sdoppiarne e triplicarne il senso. E questo è il seme dell’ironia. Ma è da lì che viene la mia? Quando mi trovo tra dei persiani raffinati, mi sento un ippopotamo. Parlo di un certo tipo di conversazione, tutta garbo e sorrisi, dove di colpo ti senti perforato da un commento sarcastico, pungente, e devi saper lavorare di fioretto. Sono un’analfabeta, allevata nella cultura anglosassone, non leggo né scrivo il farsi. Ecco il dilemma da cui sono partita quando ho deciso di scrivere la storia della donna persiana più raffinata del suo tempo nell’eloquio e nello scrivere. Perciò, per tradurre in inglese quei raffinatissimi giochi di parole, ho scelto una prosa vicina a quella inglese del Settecento e primo Ottocento, Swift, Carlyle, Pope. E Gibbon, coi suoi elementi retorici, tesi e antitesi che convivono nella stessa frase: parti con un concetto, poi lo ribalti, ma come una sorta di eco nel periodare persiste la prima versione... Ecco il nucleo dell’ironia. Ed ecco un modo di parlare molto persiano».
Benché ambientato in quest’Ottocento appartato, «La donna che leggeva troppo» è un romanzo che parla forte e limpido al mondo di oggi. Cosa pensa Bahiyyih Nakhjavani dell’Iran attuale di Amadinejad?
«Ne so per i racconti dei miei amici. Ci sono tornata una sola volta a diciannove anni, ed ero un personaggio tipico, la studentessa emancipata che, inorridita, si vede levare il passaporto all’arrivo per vederselo restituito solo alla fine del soggiorno, si accorge che deve uscire con uno chaperon e stare per lo più rinchiusa in casa con le altre donne che lavorano al piccolo punto coi bigodini in testa. Se tornassi oggi verrei arrestata, perché sono Baha’i. Due settimane fa cinquantaquattro cittadini, tutti Baha’i, sono stati condannati perché insegnavano a leggere e scrivere ai poveri di Shiraz. Verrei arrestata perché in un romanzo come La bisaccia ho analizzato con occhio relativista continuità e progresso nella religione. E la pressione dei mullah è fortissima. Dunque, per sentito dire so che dietro l’immagine ufficiale del Paese ci sono le masse iraniane di giovanissimi scontenti».
La sua poetessa rifiuta il velo perché strumento di oppressione. Anche lei, oggi, lo considera tale?
«Ciò che mi turba è che, tramite la moda del velo, gli adolescenti siano sottoposti a una politicizzazione di massa. Alle ragazzine, in un’età per natura difficile, viene offerta questa “risorsa”: velarsi. È l’equivalente della moda gotica offerta ai ragazzini di qui: quelle ferramenta mortuarie da appendersi alle orecchie, offerte a degli adolescenti che, per età, sono ossessionati da problemi di sesso, identità, morte. E che gli colonizzano il cervello».
Nel suo romanzo una cosa è chiarissima: l’oppressione delle donne deriva dalla paura che ne hanno gli uomini. Oggi è lo stesso?
«Sì. Una scrittrice marocchina, Fatima Mernissi, si è chiesta: cosa c’era prima dell’anno zero dell’Islam, della Rivelazione di Maometto? Sappiamo che c’era il Buio, un equivalente del Medio Evo per l’Europa. Ma cos’era? Lei ha ipotizzato che ci fosse una civiltà matriarcale. Ecco, credo che oggi serpeggi il terrore che quel Buio torni, e con esso il potere delle donne. Sa quell’immagine delle soldatesse americane bionde sbarcate in Kuwait dai tanks americani? Quella è stata dinamite nei cervelli dei fondamentalisti. Perciò fanno di tutto per schiacciare la libertà femminile».

l’Unità 21.2.08
Della pedofilia e delle pene
di Luigi Cancrini


«Le sentenze di condanna di primo grado emesse nei confronti di persone che hanno commesso, a qualunque titolo, reati che comportano l’abuso sessuale, lo sfruttamento nei confronti di minore, violenze sessuali individuali o di gruppo e altri reati contro la persona, debbono essere accompagnate da una valutazione peritale relativa alla pericolosità sociale dell’autore del reato. La valutazione peritale deve essere affidata a professionisti iscritti all’albo degli psicoterapeuti dotati di una preparazione specifica nel campo dei disturbi della personalità...».
E ancora: «Un elenco dei professionisti abilitati è istituito presso gli Ordini provinciali dei medici e presso gli ordini regionali e provinciali degli psicologi. La relazione peritale deve contenere una chiara e precisa indicazione del progetto terapeutico ritenuto più opportuno per il soggetto analizzato. Il Ministro di Giustizia di concerto con il Ministro della Salute provvede, con decreto congiunto, entro sei mesi dalla pubblicazione della presente legge, alla individuazione e accreditamento delle strutture pubbliche e del privato sociale presso cui andranno istituiti i processi terapeutici indicati come necessari nell’ambito delle misure di sicurezza. Il magistrato o il tribunale di sorveglianza valuterà la partecipazione e l’efficacia del programma di riabilitazione anche ai fini della concessione dei benefici ai detenuti e agli internati».
Non è un libro dei sogni. È il testo, approvato dai rappresentanti di tutte le forze politiche rappresentate nella Commissione Bicamerale, per l’Infanzia, di un progetto di legge che è stato scritto tenendo conto dei suggerimenti, fra i tanti, dell’On. Buongiorno di An, dell’On. Merloni del Pd e dell’avvocato Giostra, rappresentante della Commissione per la revisione del codice di procedura penale del Ministero di Giustizia. Un progetto che innoverebbe profondamente nel settore della lotta alla pedofilia. Mettendo in opera un processo di cambiamento necessario per un paese sbigottito di fronte al poveretto che, ad Agrigento, cede ancora una volta alla violenza della sua malattia. Abusando della bambina a lui incautamente affidata: dalla madre, dai giudici, dalla pedofilia.
Dispiace particolarmente a me, in quanto coordinatore del gruppo di lavoro che ha preparato quel testo, lineare e fattibile, il modo in cui la vicenda di Agrigento è stata utilizzata, senza far riferimento a questi lavori, dai leaders della «battaglia» politica in corso per la campagna elettorale. Parlando della necessità di «castrazioni chimiche» («occorre una terapia, un trattamento, quella che è volgarmente chiamata la castrazione chimica»), Fini sembra non preoccuparsi della necessità di modificare il quadro di riferimento legislativo: proponendo quasi, ad un immaginario collettivo disorientato e confuso, l’idea di una autorità che direttamente castra, senza la mediazione dei processi, il presunto colpevole. Quello che gli fa éco dall’altra parte, tuttavia, Walter Veltroni ha solo parlato di risposte basate soltanto sull’aumento delle pene e sull’allungamento della detenzione preventiva.
Facile, per L’Unione Camere Penali Italiane fargli rilevare che «il punto non è allungare i termini di custodia cautelare per far scontare ad un presunto innocente una pena non ancora comminata, quanto piuttosto eliminare i tempi morti del processo e giungere velocemente ad un pronunciamento definitivo. Se il processo si fosse celebrato all’interno della durata dei termini di custodia cautelare, già lunghissimi, il pizzaiolo di Agrigento non sarebbe stato scarcerato». Facile ugualmente per chi in questo campo lavora, fargli rilevare che a poco servirebbe aumentare gli anni di pena lasciando immutato un regime carcerario del tutto inadatto a persone che stanno male: gli anni di carcere finiscono, infatti, la malattia no se non si fa qualcosa per curarla.
La storia di Raoul che ho incontrato qualche anno fa in una Comunità Terapeutica potrebbe essere utile, forse, per spiegare meglio quello che sto tentando di dire. Più volte ricoverato in luoghi psichiatrici, più volte condannato per le conseguenze violente delle sue crisi di nervi, Raoul ha trovato il coraggio (la forza) di raccontare, in Comunità, la violenza sessuale di cui è stato oggetto da bambino e il continuo affiorare, spaventoso e terrorizzante prima di tutto per lui, degli istinti pedofili che lo hanno portato, in alcune situazioni, a vendicarsi su altri innocenti, di quello che lui stesso aveva subito. Sta male, mentre lo racconta, come se le emozioni legate al ricordo di ciò che ha fatto e che ha subito avessero la forza di fargli «perdere il senno». Quello che viene fuori nel tempo, tuttavia, è il recupero di un equilibrio, senza più sintomi psichiatrici e senza più violenze: dolorosamente segnato solo dal rimorso per il male che anche lui comunque ha fatto ed a cui non sa, ora, come porre riparo.
Bisognerebbe partire da esperienze come questa, mi dico, nel momento in cui si progetta il futuro. Per farlo, tuttavia, è necessaria una capacità di ascolto e di rispetto per l’altro sempre più rara nel dibattito che si sviluppa fra quelli cui è affidato il compito di governare e di scrivere delle leggi. Per quello che mi riguarda ho passato una vita a pensare che il compito degli «intellettuali organici» di Gramsci non è solo quello di orientare le masse ma di dare suggerimenti utili a chi ha la responsabilità di decidere. È per questo motivo che ho voluto qui presentare ancora una volta le idee maturate nella Commissione e una storia come quella di Raoul. Senza aspettarmi molto da Fini ovviamente che sicuramente insisterà su un’idea di castrazione chimica che sicuramente piace al suo elettorato di destra. E molto sperando, invece, nella possibilità di aprire una discussione seria su questi problemi con Veltroni: convinto come sono del fatto per cui su temi come questi il divaricarsi delle posizioni fra persone che vengono da una storia e da una esperienza culturale comune è legato, in una fase concitata come questa, soprattutto alla carenza delle reciproche informazioni. Alla mancanza di una discussione pacata che invece abbiamo tutto il tempo di fare: anche in campagna elettorale.

Repubblica 21.2.08
Deputato del Pci negli anni ´80, il giuslavorista ha poi guidato l´offensiva contro la "sinistra conservatrice"
La sfida di Ichino: "Io eretico nel Pd si può ridiscutere pure l´articolo 18"
Che dirà la Cgil? Dentro questo sindacato ci sono tanti orientamenti
di Roberto Mania


ROMA - Pietro Ichino, 59 anni, professore di diritto del lavoro a Milano, è stato per anni un intellettuale scomodo per la sinistra. Spesso "troppo avanti", come ha detto Massimo D´Alema, per essere seguito da una sinistra tendenzialmente conservatrice sui temi del lavoro. Ora Ichino ha accettato di correre in Lombardia nelle liste del Pd.
Fin dagli anni ‘80, quando era deputato del Pci, lei è stato considerato una voce eretica della sinistra. Ha cambiato posizioni o è la sinistra che si è avvicinata alle sue idee?
«Negli anni 70 e 80 ero "eretico" perché sostenevo il riconoscimento legislativo del part-time, l´abolizione del monopolio statale del collocamento, l´apertura alle agenzie di lavoro temporaneo, l´abolizione della scala mobile. Tutte cose su cui oggi nessuno, nel Pd, dissentirebbe. Questo è un partito totalmente diverso rispetto al vecchio Pci; ma è molto diverso anche da Pds e Ds».
A Veltroni aveva posto tre condizioni per accettare la candidatura: poter continuare le battaglie per modernizzare l´impiego pubblico, la contrattazione e il mercato del lavoro. Che cosa ne è nel programma del Pd?
«Sui primi due punti c´è un´apertura e una convergenza esplicita e puntuale. Sul mercato del lavoro il programma indica l´obbiettivo giusto: quello della "migliore flexicurity europea". Sul come realizzarla ci sono diverse proposte sul tappeto: quella del contratto unico nella versione Boeri-Garibaldi e nella versione mia, oppure quella della "Statuto dei lavori". C´è materia per una discussione promettente».
La Cgil, dopo aver apprezzato Veltroni, starà dalla sua parte?
«La Cgil è una grande confederazione sindacale, che ospita molti orientamenti diversi. Anche il mio: sono iscritto alla Cgil dal 1969. Il dialogo è sempre aperto, anche quando i dissensi sono netti».
Il capitolo sull´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori andrà riaperto?
«Io sono per una grande intesa tra imprese e lavoratori: le prime rinunciano alla giungla dei contratti precari e "atipici", i secondi accettano che tutte le nuove assunzioni avvengano con un contratto a tempo indeterminato, con grado di stabilità crescente nel tempo. Questo, certo, comporterebbe una riforma della disciplina dei licenziamenti, ma sarebbe una misura molto incisiva contro l´abuso del lavoro precario».
Come giudica la proposta sindacale per riformare i contratti?
«Concordo con Bombassei: è una proposta poco incisiva e incompleta».
Le piacerebbe fare il ministro del Lavoro?
«Solo in un governo nel cui programma ci fossero ben chiare le cose da fare che credo più importanti».
Quali?
«Trasparenza, valutazione e misurazione nel settore pubblico. Forte impulso al lavoro femminile, anche mediante la leva fiscale. Contratto unico flessibilizzato, a tempo indeterminato, per tutte le nuove assunzioni. Spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia e riforma della rappresentanza sindacale (ma quest´ultimo obbiettivo va raggiunto attraverso un grande accordo interconfederale)».

Repubblica 21.2.08
L’annuncio a Repubblica tv della capogruppo Pd al Senato
"Applicare pienamente la 194" mozione Finocchiaro-Binetti
Documento comune con la senatrice teodem: tanti i punti che ci uniscono
di Paola Coppola


ROMA - Applicare la 194 per garantire la libera scelta delle donne. Scritta da Anna Finocchiaro e Paola Binetti. La capogruppo del Pd a Palazzo Madama e la senatrice teodem. Una mozione comune. Si può fare, è anzi cosa fatta.
«È una mozione che chiede la piena applicazione della legge», annuncia la Finocchiaro a Repubblica Tv e, mentre ricorda le differenze d´opinione e le discussioni con la Binetti, chiarisce da dove nasce la scelta di un testo condiviso proprio sul tema dell´aborto (testo che è stato inviato ieri a tutte le senatrici del partito democratico): «Ritengo essenziale la presenza dei cattolici nel Pd, ma quando si sta in politica dobbiamo partire dal presupposto che il nostro è uno stato laico e che non si può scegliere un atteggiamento di interdizione su temi tanto delicati», dice. Tre pagine di mozione nella quale si parte da una premessa: il giudizio positivo sulla 194 «che ha permesso di limitare fortemente l´aborto da ritenersi sempre un dramma sociale e individuale del quale è auspicabile la completa scomparsa>.
Poi ribadisce che la 194 non si tocca. Va verificata che vi sia «un´applicazione piena, coerente ed omogenea della legge nel rispetto della libertà e responsabilità della donna». Nessuna deriva eugenetica: «È uno strumento utilissimo, soprattutto per le donne immigrate, che senza questa legge sarebbero consegnate alle mammane. La rappresentazione che viene fatta della 194 è falsa: non c´è alcuna deriva eugenetica», afferma la Finocchiaro. Come dicono i dati: «Gli aborti terapeutici riguardano solo lo 0,7 del totale. E il miliardo e 700 milioni di aborti nel mondo, di cui si parla per confondere la gente, non ha niente a che vedere con questa legge».
In serata la senatrice elenca i punti (che sono nella mozione) condivisi con la Binetti . Lo fa intervenendo a L´Infedele di Gad Lerner su La7. «Innanzitutto la prevenzione dell´aborto». E ancora: la contraccezione, soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti, le donne immigrate che sono la «vera emergenza», le maternità difficili e la necessità che vengano assistite da un intervento pubblico, il potenziamento dei reparti intensivi neonatali e dei consultori familiari, e la necessità di politiche che assecondino il desiderio di maternità delle italiane.
Ai partiti proprio ieri il Movimento per la vita ha chiesto di schierarsi sull´aborto prima dell´election day. Con un documento che individua quattro punti per aiutare gli elettori a districarsi nella campagna elettorale, a cominciare dalla promozione della moratoria sull´aborto.

ultim'ora: accordo fatto, i radicali ce l'hanno fatta. Sono nel Partito della binetti, contro la Sinistra Arcobaleno
Corriere della Sera 21.2.08

Radicali verso il sì al Pd «Nove in Parlamento e Bonino ministro»
Veltroni va al Tg5: tv, riforma non punitiva
di Gianna Fregonara


Riunione nella notte, la svolta di Pannella: «Parleremo con Walter ma, per come si delinea, l'intesa si può fare»

ROMA — Faticosamente, si profila l'accordo tra Pd e radicali. In una tormentata riunione fiume ieri sera Marco Pannella ha segnato la svolta: «Dobbiamo ancora parlare con Veltroni ma, per come si sta delineando, l'intesa si può fare». E infatti l'offerta che ieri mattina Goffredo Bettini ha consegnato, nero su bianco, ai radicali era di quelle da non lasciar da parte. Non un'alleanza, certo, come continuavano a chiedere Pannella e i suoi, ma un «pacchetto» di promesse politico-economiche: nove eletti, Bonino ministra designata da subito, incarichi nelle commissioni e in Aula, rimborso sulla base degli eletti (si parla di 3 milioni di euro in cinque anni, seicentomila all'anno), il 10 per cento di quanto spetta al Pd negli spazi tv autogestiti più la partecipazione dei radicali anche alle trasmissioni principali, da
Porta a Porta in giù, alcuni accordi su punti del programma. Con una sola condizione: ci vorrà l'ok di Veltroni sulle candidature, anche su Pannella e l'ex terrorista oggi leader della battaglia per la moratoria sulla pena di morte, Sergio D'Elia, le più contestate.
Più o meno l'accordo che il plenipotenziario di Veltroni ripete da domenica: ma con una novità, Bettini ha chiesto di decidere in fretta, facendo sapere direttamente al leader del Pd la risposta. E soprattutto ha detto che la proposta del Pd è l'ultima offerta, non c'è altro spazio per rilanci. Peccato che Pannella abbia chiuso la riunione del partito, annunciando una nuova fase di trattativa proprio con il leader del partito.
Per i radicali è iniziata una delle più difficili fasi della loro vita politica. Già da qualche giorno più d'uno nel partito era tentato di dire subito sì ad un'offerta che avrebbe dato visibilità e sopravvivenza (anche economica) al partito, in cambio della rinuncia al simbolo. Ma nessuno ha osato dirlo, anzi. In attesa di Pannella (il «piccolo padre» lo definiva un dirigente non convinto della linea del partito), i due mediatori radicali Marco Cappato e Rita Bernardini hanno rilasciato dichiarazioni poco incoraggianti. Sul sito dei radicali è apparso un appello per rilanciare la candidatura di Pannella. Poi una riunione tormentata e alla fine la decisione di Pannella di proseguire sulla strada dell'accordo.
Ma non è la risposta dei radicali l'unico tema spinoso per Veltroni. Ieri il candidato premier è andato al Tg5 a rassicurare gli ascoltatori e i vertici di Mediaset che la proposta del Pd sul riassetto tv non è quella di Di Pietro, ma la Gentiloni, «una riforma non punitiva» del gruppo berlusconiano.

Sabato sarà al dibattito organizzato dall'Associazione Culturale Amore e Psiche
Corriere della Sera 21.2.08
A «Otto e mezzo» su La7
Armeni sola, meglio di Giuliano Ferrara


MILANO — Giuliano Ferrara ha detto arrivederci alla tv il 12 febbraio e nonostante i fan addolorati il suo «Otto e mezzo» ha tenuto negli ascolti. I telespettatori che seguivano l'approfondimento de La 7— con la doppia conduzione Ferrara/Armeni — erano circa 700 mila, pari al 2.6% di share (alcune volte superavano il 3.5%). La sola Armeni ha ottenuto una media del 2.7%, con circa 720 mila spettatori.
La formula è diversa: dura meno (finisce alle 21.10) ma si è aggiunta la puntata del sabato. Dal 19 c'è Lanfranco Pace con la giornalista: una serata un po' infelice (ferma al 2%) per le partite di Champions.

Liberazione 21.2.08
La risposta a Magris (e tanti altri maschi) su cosa vuole dire «rispettare la vita» Abortire ovvero una decisione altamente morale
di Italo Calvino

Caro Magris,
con grande dispiacere leggo il tuo articolo "Gli sbagliati" (1). Sono molto addolorato non solo che tu l'abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo.
Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d'amore da parte degli altri. Se no, l'umanità diventa - come in larga parte già è - una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d'un allevamento «in batteria» nelle condizioni d'artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico.
Solo chi - uomo e donna - è convinto al cento per cento d'avere la possibilità morale e materiale non solo d'allevare un figlio ma d'accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d'imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l'aborto a un'idea d'edonismo o di vita allegra. L'aborto è «una» cosa spaventosa «...».
Nell'aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell'uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale «impiega» la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell'incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle «misure igienico-profilattiche»; certo, a te un raschiamento all'utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t'obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell'«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite (2).
Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia (3).
Parigi 3/8 febbraio 1975

Note
(1) L'articolo di Magris era uscito sul Corriere della sera del 3 febbraio 1975. Calvino gli risponderà con l'articolo "Che cosa vuol dire «rispettare la vita»" ( Corriere della sera , 9 febbraio 1975; poi in "Saggi", pp. 2262-67): in esso si leggono frasi ed espressioni identiche a quelle della lettera, che va quindi datata fra il 3 e l'8 febbraio. Si veda anche la lettera a Giorgio Manganelli del 22 gennaio 1975.
(2) Nella minuta segue un capoverso cancellato: «Anche la prima parte del tuo articolo sui figli inguaribili, mi pare di una grave superficialità dando per scontato una sacralità della vita in tutte le sue forme che non vuol dir niente, che finisce per sminuire l'eroismo dei tanti casi che conosco di vite sacrificate per figli mongoloidi o paralitici».
(3) I rapporti fra Magris e Calvino saranno in seguito ristabiliti.

*La lettera e le note esplicative sono tratte dal volume
"I. Calvino, Lettere 1940-1985"
curato da Luca Baranelli
pubblicato dai Meridiani
Mondadori, Milano 2000
(pp. 1264-66)

mercoledì 20 febbraio 2008

Repubblica 20.2.08
Il personaggio. Bellocchio contro i giovani
"Che pena questi giovani senza vocazione ribelle"
intervista di Paolo D’Agostini


Mussolini. Il 1968.
Ida, la moglie segreta chiusa in manicomio. Simbolo di resistenza
I "guerrieri" di oggi piantano alberi. Il mio era un ribelle estremo, barbaro
Il regista di "I pugni in tasca" tra Mussolini e un cofanetto dei suoi film prodotto dal Luce

Marco Bellocchio, che va per i 69 anni, scherza sui 794 euro di pensione che lo "costringono" a lavorare per vivere - da «precario di lusso», dice - ed è più attivo che mai. In primavera inizia a girare il nuovo film intitolato Vincere ispirato alla vicenda di Ida Dalser e Benito Albino, la moglie e il figlio negati, nascosti e perseguitati di Mussolini (portata alla luce da un documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli e da due libri di Marco Zeni) che attribuirà a Filippo Timi (Signorinaeffe) il compito d´interpretare il Duce prima che diventasse tale. Ha attivamente partecipato per tutto l´anno scorso ai fermenti e alle mobilitazioni del movimento CentoAutori, ai dibattiti e alle polemiche sullo stato di salute del cinema italiano. Ed ora il Luce lo celebra con un cofanetto (primo di una serie) dei suoi film in Dvd. Si comincia con La balia, Il principe di Homburg, La condanna, Nel nome del padre.
«Mi fa piacere che questa iniziativa segua ad altre recenti che hanno riscoperto i miei titoli scomparsi come Il gabbiano, Marcia trionfale, La Cina è vicina. Spiace solo che non sempre in Italia la pubblicazione in Dvd è accompagnata da una ricchezza di contributi extra secondo me doverosa. Parlo anche del reintegrare gli eventuali tagli di censura. Nel mio caso vale per Salto nel vuoto o I pugni in tasca dove saltò un riferimento esplicito all´incesto tra fratello e sorella».
A proposito: la bestemmia presente in Caos calmo riporta alla memoria quella del suo L´ora di religione.
«Si arrivò al compromesso di mantenerla per i cinema e di oscurare il sonoro per la televisione».
Un bilancio dell´azione dei CentoAutori?
«Alcune importanti richieste sono state accolte. Come il tax shelter (facilitazioni fiscali a chi investe nel cinema, ndr), dopo non so più quanti anni che se ne parlava. È stato un movimento utilmente guidato da senso pratico. Non un movimento rivoluzionario. Ecco, sul piano delle idee, e mi riferisco in particolare ai più giovani, si sente forse oggi la mancanza di una vocazione ribelle».
Lei l´ha mantenuta?
«Io per lo meno vedo che oggi in Italia non c´è un sentimento collettivo, un´idea di "movimento" soprattutto in relazione al rinnovamento del linguaggio. Lo percepisco e ne sento la mancanza. Guardo con attenzione all´oggettiva democratizzazione dei mezzi: si può fare un film anche con il telefonino. Senza illudersi che non serva il talento artistico».
Quindi ciò che è "nuovo" e "giovane" non costituisce per forza una garanzia?
«Avverto a volte un sentimento furioso dei "giovani" contro i "vecchi". Ma non è un problema anagrafico, così si rischia una specie di razzismo. È un sentimento furioso ma non ribelle né tantomeno rivoluzionario. Giorni fa ho partecipato a un dibattito a Milano e io ero il più vecchio. A un certo punto un ragazzo è intervenuto dicendo più o meno che io dovevo farmi da parte per lasciare spazio».
È facile chiederle a questo punto con che sentimento accoglie il quarantennale del ´68.
«Mi ha detto mio figlio che esiste su Mtv una rubrica intitolata "I pugni in tasca". Mi fa piacere. Racconta che i "guerrieri" di oggi vanno in giro a piantare clandestinamente alberi nelle zone più disperate del milanese. Diversi dal mio Lou Castel di Pugni in tasca che era un barbaro, un estremo. Comunque il ´68 che voglio ricordare è quello della prima stagione. Dell´immaginazione al potere, della contestazione antiautoritaria non violenta, della prima occupazione di Palazzo Campana a Torino - c´ero anch´io - e della resistenza passiva, della liberazione sessuale, dell´emanciparsi dalle famiglie. Del reagire all´ingiustizia pacificamente. Dopo è arrivato il potere sulle canne dei fucili, la giustificazione della violenza».
Senza enfasi nostalgiche, insomma, ma senza niente da nascondere o di cui vergognarsi?
«Certo che no. Fu progresso e apertura, poi soffocati dal delirio ideologico e militaresco. Purtroppo il vento libertario, in particolare contro il conservatorismo cattolico, si esaurì presto».
Però l´anno fatale nel cinema ha prodotto poco. Il "´68 del cinema" precede il ´68.
«Le nouvelles vagues in generale e, in Italia, film come Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, I pugni in tasca, Ferreri, Pasolini, Taviani, Blow up di Antonioni hanno segnato la rottura e vengono tutti prima. Il cinema italiano era ancora in prima fila nell´attenzione mondiale».
E cosa c´entra con Bellocchio un film su Mussolini?
«A me interessa la donna, Ida Dalser. Ha conosciuto Benito nel ´14 quando è ancora socialista, si dà tutta, vende le sue proprietà per lui, rimane incinta e un mese dopo Benito sposa Rachele. Da quel momento tenterà, ossessiva e instancabile, di affermare le proprie ragioni, scrivendo lettere, ma lo vedrà soltanto nei cinegiornali. Diventando molto scomoda soprattutto nel momento in cui Mussolini si avvicina al Concordato con la Chiesa. Io la vedo come una ribelle irriducibile, che si è sempre mantenuta lucida e integra e non ha mai accettato la sorte che le fu imposta da Benito, un uomo che scansa tutto ciò che intralcia la corsa al potere e in Rachele - brava ragazza del suo stesso paese, semianalfabeta ma ubbidiente - trova la moglie che gli va bene. Donna molto più evoluta, Ida acquista nel resistere un´intelligenza che alla fine la rende tragicamente vittoriosa, mentre il Duce finirà nella polvere. Lei non cederà mai. Nel momento del massimo consenso intorno a Mussolini lei, che non ha più nulla, che è stata rinchiusa in manicomio senza essere pazza (per morire nel ´37), continua a difendere la propria identità nonostante l´abbiano fatta in briciole. Unica tra tutte le amanti del Duce, Ida non accetterà mai il minimo compromesso, compensazioni o regali. Il mio film ne farà un simbolo di opposizione».

l’Unità 20.2.08
SINISTRA ARCOBALENO
Accordo sulle quote, oggi la bozza del programma


Una cinquantina di deputati e una quindicina senatori. È su questi numeri che si ragiona nella Sinistra arcobaleno, che corrispondono più o meno alla metà degli attuali parlamentari di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. I sondaggi che arrivano in questi giorni nelle sedi dei quattro partiti non spingono all’ottimismo. Ieri, dopo che nei giorni scorsi le altre riunioni si erano concluse con un nulla di fatto, è stato trovato l’accordo sui criteri per la formazione delle liste (a cominciare dall’alternanza uomo-donna e il limite dei mandati) e sulle candidature da mettere nelle posizioni “eleggibili”: al Prc andrebbero il 45% dei posti in lista, a Pdci e Verdi il 19% e a Sd il 17%.
Ma il problema è che il risultato a due cifre per il quale Fausto Bertinotti ha detto con francesismo sessantottino di impegnarsi («on s’engage») per ora non compare in nessuna regione. Colpa, non nascondono i vertici dei quattro partiti, di un ritardo sia nel processo unitario che nella partenza della campagna elettorale. In più oggi, quando alla Camera si voterà il rinnovo delle missioni militari all’estero, la Sinistra arcobaleno rischia di dividersi, visto che al di là della valutazione comune sull’Afghanistan, Prc e Pdci vogliono votare no, mentre Verdi e Sd ritengono più opportuno astenersi o non partecipare al voto. Un’intesa in extremis è stata cercata ieri in una riunione durata fino a tarda sera.
Bertinotti lo sa che in questo modo la Sinistra arcobaleno rischia di finire schiacciata, e non a caso ieri a più riprese ha attaccato «l’illusione di un duopolio» fomentata dal Pd e dal Pdl. «Il duopolio radiotelevisivo ci basta e avanza, un altro in politica mi pare troppo» perché «l’Italia ha bisogno di una vera pluralità». Bertinotti sa però anche che per invertire la tendenza, la Sinistra deve mettere in campo delle chiare proposte programmatiche e far andare a pieno ritmo la macchina della campagna elettorale.
L’avvio sarà questo pomeriggio al Piccolo Eliseo, quando il presidente della Camera prenderà spunto dai racconti che cinque personalità faranno su lotta alla mafia, precarietà, diritti civili, migranti e ambiente (con Daniele Silvestri nelle vesti straordinarie di presentatore) per illustrare la prima bozza di programma della Sinistra arcobaleno. Un assaggio Bertinotti lo ha dato ieri proponendo «un meccanismo annuale di indicizzazione di salari e pensioni, in modo che se al primo gennaio il pensionato o il lavoratore ha un potere di acquisto 100 e a fine anno si ritrova a 95, viene riportato a 100».
s.c.

«Quando il gioco si fa duro...»: Veltroni raschia il barile e richiama nella propria alleanza centrista di industriali preti e super-poliziotti, pezzi sedicenti di sinistra che fin qui aveva lasciato in libera uscita

l’Unità 20.2.08
Sd perde pezzi di Cgil. «Sinistra per il governo» nel Pd
La componente sindacale rompe con il progetto Arcobaleno
Nerozzi: tutto è cominciato con il protocollo sul Welfare


L’OPERAZIONE è stata inaugurata diverso tempo fa. Domenica, però, alla presenza di Walter Veltroni, sarà ufficialmente presentata la «Sinistra per il governo del Paese», componente che da Sinistra Democratica passerà al Partito Democratico. Oltre agli
esponenti politici (tra gli altri Famiano Crucianelli sottosegretario agli Esteri, Massimo Cialente, sindaco dell’Aquila e Olga D’Antona, parlamentare), il movimento raccoglie il sostegno di una larga parte di quel sindacato che era approdato in Sd con la prospettiva di contribuire alla costruzione di un grande partito della sinistra italiana, e che non ha trovato nel progetto «costituito» della Sinistra Arcobaleno un orizzonte soddisfacente.
Paolo Nerozzi, segretario confederale Cgil, tra i promotori di questo passaggio, se deve indicare una data per segnare la rottura tra le due anime della sinistra «radicale», cita l’accordo siglato tra governo e parti sociali il 23 luglio scorso. Poi è arrivato ottobre, mese in cui questi nodi sono venuti al pettine con il referendum dei lavoratori sul Protocollo, la manifestazione del 20 contro il protocollo medesimo e anche, spiega Nerozzi, con le primarie del Pd. «Da un lato 5 milioni di lavoratori dicono una cosa e non se ne tiene conto, dall’altro ci sono oltre tre milioni di persone che votano alle primarie e la risposta della nostra parte diventa sostanzialmente l’assemblaggio di quattro forze politiche e la manifestazione del 20». Per questo Nerozzi non ha partecipato agli Stati Generali della Sinistra Arcobaleno l’8 e del 9 dicembre ed è stato tra i firmatari di un documento apparso a gennaio su «Aprile», dal titolo «Una Sinistra per il Paese». A leggere le firme in calce al documento, tra gli altri Cialente, Crucianelli, Nerozzi, ma anche Carla Cantone, Morena Piccinini (segretarie confederali Cgil), Carlo Podda (segretario Fp-Cgil), Enrico Panini (segretario Cgil Scuola), Raffaele Minelli (presidente dell'Inca nazionale) e Walter Schiavella (Cgil di Roma e del Lazio), si comprende che la posizione critica nei confronti della rotta della Sinistra Arcobaleno era già matura e doveva solo trovare una forma. Di certo non tutti costoro appoggeranno le scelte del Pd, ma difficilmente continueranno il proprio viaggio nella Sinistra Arcobaleno.
Anche Crucianelli ritiene che la manifestazione del 20 ottobre sia stato un detonatore, ma continua: «Il progetto di Sd aveva al suo centro il centrosinistra come asse strategico di una sinistra di governo, una politica riformista e il socialismo europeo. Non è rimasto niente».
Certo anche la scelta di Veltroni di far correre il Pd da solo ha dato il proprio aiuto: «Non bisogna essere degli scienziati della politica per capire quale sia il voto che aiuta a sconfiggere Berlusconi», afferma Crucianelli. Mentre dal punto di vista di quale sia la battaglia da condurre all’interno del Pd, Nerozzi avverte: «Noi non è che siamo folgorati sulla via di Damasco. È evidente che il Pd ha lineamenti di equidistanza tra impresa e lavoro. Domenica non chiederemo posti. Faremo domande».

l’Unità 20.2.08
Olga D’Antona: «Non era più il posto dove potevo ritrovarmi»
«Basta, me ne vado. Cosa Rossa troppo egemonizzata da Rc»
di Eduardo Di Blasi


Olga D’Antona, lei è tra gli esponenti della Sd che ha deciso di interrompere il cammino con la Sinistra Arcobaleno e appoggiare il Pd. Come ha maturato questa scelta?
«Le prime difficoltà si sono evidenziate attorno al 20 ottobre, quando si trattava di capire quale fosse il rapporto con il sindacato, con i lavoratori e con il governo che appoggiavamo. Lo dissi già ad agosto che non sarei mai scesa in piazza contro l’accordo sul welfare».
Lei come lo immaginava il percorso di Sd?
«Sd è nata con l’obiettivo non solo di unificare tutta la sinistra, obiettivo che io continuo a ritenere valido. Il progetto si prefiggeva di creare una nuova sinistra, moderna, di governo, che si liberasse di certe ideologie del passato. Cosa che invece, a quello che vedo, non succede. Nessuno si toglie la propria casacca. C’è una lotta per l’egemonia. E questo si è dimostrato con la candidatura di Bertinotti. Non era questo l’obiettivo. Entrando in Sd ma non ho mai pensato di essere antagonista del Pd. Ho sempre detto: “Saremo alleati”, con una finalità precisa di governo...».
Anche la scelta del Pd di andare da soli ha messo in crisi lo schema della Sd...
«Ha determinato un cambiamento profondo a destra e a sinistra. Io penso ancora che il Pd ce la possa fare, non accetto di lasciare il campo di governo alla destra e voglio dare il mio contributo perché ci sia un governo di centrosinistra».
In crisi è andato il rapporto con l’ala sinistra
«Ormai in ogni contenitore politico ci sono esperienze culturali e politiche non omogenee. E ognuno deve impegnarsi di portare a sintesi, ma un contenitore politico egemonizzato da Rifondazione non era il posto dove mi sarei trovata a mio agio per una storia politica e personale. La cosa che ci tengo a dire è che io comunque ho voluto dare una mano al movimento di Sd che non rinnego, nel quale ho creduto e che ho condiviso».
L’abbraccio con Rifondazione ha fatto perdere a Sd un bel pezzo di sindacato...
«Sì, le contraddizioni sono sorte con la manifestazione del 20 ottobre perché in quella manifestazione si è data rappresentanza a una piccola parte di lavoratori e non a tutta la classe lavoratrice».
Il fatto che il Pd sia guidato da Veltroni l’ha spinta verso questa scelta?
«Indubbiamente sì. È una persona con la quale ho sempre avuto un rapporto di stima e di amicizia. Con lui ho iniziato un importante percorso politico. È sempre stata una mia figura di riferimento. E ho apprezzato il suo rispetto nei confronti della mie scelte di autonomia, quando le ho fatte. A lui intendo dare tutto il mio sostegno, nella speranza di contribuire al successo di questa campagna elettorale».

Repubblica 20.2.08
La riscoperta di Sartre
di Pier Aldo Rovatti


Il cantiere aperto dell´immaginario, riscoprire il maestro francese
Immaginare significa ampliare i confini senza affidarsi a un´idea rigida di verità
Dalla sua filosofia ricaviamo stimoli per rispondere alle domande urgenti del presente

L´Italia riscopre Sartre. Recenti pubblicazioni e convegni di studio danno vita postuma a una delle maggiori figure intellettuali del Novecento. Non si è finito di scavare tra i suoi lasciti, come attesta il lavoro di un piccolo editore milanese (Christian Marinotti) che ha da poco reso leggibile in italiano l´Intelligibilità della storia. E poi, solo per ricordare le ultimissime uscite, il volume degli scritti letterari giovanili Novelle e racconti e il saggio La libertà cartesiana del 1946, anno cruciale. Da segnalare anche L´immaginario del 1940, appena ripubblicato da Einaudi.
Recenti pubblicazioni, anche di notevole importanza, e convegni di studio danno vita postuma a una delle maggiori figure intellettuali del Novecento, mi riferisco a Jean-Paul Sartre. Un pensatore, uno che ha lasciato il segno anche nella letteratura e nel teatro, ma anche uno che da sempre sta stretto nelle etichette e di cui ancora oggi - diciamolo - non sappiamo bene che conto tenere. Non si è certo finito di scavare tra i suoi lasciti, come attesta il lavoro encomiabile di un piccolo editore milanese (Christian Marinotti) che ha da poco reso leggibile in italiano la corposa continuazione della Critica della ragione dialettica, un vero e proprio cantiere di analisi e di problemi intitolato Intelligibilità della storia, in cui Sartre mette alla prova il suo marxismo critico ed eretico con la esperienza di Stalin. E poi, solo per ricordare le ultimissime uscite, il volume degli scritti letterari giovanili Novelle e racconti e il saggio La libertà cartesiana del 1946, anno cruciale.
Ma, tra i libri sartriani che ho sul tavolo, vorrei soprattutto segnalare L´immaginario del 1940, appena ripubblicato da Einaudi con un´articolata e intelligente introduzione di Raoul Kirchmayr (pagg. 290, euro 17). Precede di qualche anno l´altro capolavoro filosofico di Sartre, L´essere e il nulla, e appartiene al periodo in cui Sartre aveva l´occhio alla fenomenologia e alla questione dell´immaginazione. Se L´essere e il nulla (1943) e la Critica della ragione dialettica (1960) sono le pietre miliari di un pensiero che, discusso quanto si vuole, ha fornito due scenari (quello dell´esistenzialismo e quello del marxismo umanistico e critico) che restano imprescindibili per chi voglia farsi un´idea di cosa accade in filosofia a partire dagli anni Quaranta, la riflessione sull´immaginare è a suo modo altrettanto decisiva poiché pone un problema che attraversa entrambe le grandi opere che ho ricordato e si estende anche al terzo e meno famoso punto di approdo sartriano, la monumentale biografia di Flaubert, L´idiota della famiglia (1972 e sgg.), che è in realtà un trattato di filosofia sui generis.
Nelle sue mitiche lezioni alla Statale di Milano, il maggior fenomenologo italiano, Enzo Paci, amico-nemico di Sartre, diceva in sostanza questo agli studenti che già camminavano verso il Sessantotto: se volete capire cosa ha in mente Sartre, quando propone come punto di partenza la parola praxis, dovete caricare tale parola di una potenza immaginaria, di un movimento capace di «trascendere» l´inerzia, cioè la controfinalità dell´agire individuale e sociale. Così invitava quegli studenti, tra cui c´ero anch´io, a rompersi un po´ la testa sulle pagine dell´Imaginaire (tradotto allora, non ho mai capito bene perché, con Immagine e coscienza) e in particolare là dove Sartre prende ad esempio quel che accade in teatro all´attore e alla sua paradossale identità.
Il termine chiave di questo discorso è irrealizzazione: Sartre, infatti, sostiene che la coscienza immaginante (la soggettività di chi immagina) non è una coscienza che realizza qualcosa. Al contrario, dice, quando noi immaginiamo qualcosa, irrealizziamo il nostro oggetto, mettiamo in moto un´idea di verità che si basa sull´assenza. Se io immagino il mio amico che è a Berlino, non fantastico di un amico inesistente e di un luogo inventato: rendo presente un´assenza e vicina una lontananza, senza cancellare né l´una né l´altra. Anzi, si potrebbe dire che faccio proprio il contrario: do realtà a un´assenza e a una lontananza. Allargo i confini della mia esperienza senza dover sognare a occhi aperti. E senza affidarmi a un´idea rigida di verità.
Molto più tardi, quando l´impegno di Sartre lo porterà a discutere di una possibile soggettività nella storia e a costruire una «teoria degli insiemi pratici» (cioè la prima parte, quella edita, della Critica della ragione dialettica), tutto ruoterà attorno alla nozione di «totalizzazione in corso», articolata e discussa anche nella seconda parte da lui non pubblicata (scritta tra il 1958 e il 1962, apparsa postuma nel 1985, e ora tradotta). Immaginario e totalizzazione in corso condividono la stessa sostanza filosofica. La critica alla fissazione e all´oggettivazione dell´immagine, cioè insomma il punto di teoria secondo il quale l´immagine non si realizza mai, si duplica nella critica a una società che si pretende realizzata perdendo così il suo legame decisivo verso un obiettivo mai traducibile in una cosa.
Come l´immagine, staccata dalla coscienza irrealizzante, si immobilizza in un feticcio tutto esteriore, così una società che abbia perduto il contatto con il processo di totalizzazione (insito in ogni azione umana) si blocca in una sorta di idolatria ideologica, si ossifica in una totalità chiusa e deprivata di qualunque soggettivazione (di qui anche le polemiche che Sartre condusse contro il montante strutturalismo francese).
Credo che ripensare oggi un tema esplosivo come questo sia di particolare importanza. Che la morta gora politica ne possa trarre qualche spunto rianimante, mi pare fin troppo plausibile. Oggi, come quasi tutti concordemente ammettono, navighiamo a vista in acque piatte in cui sembrano scomparse perfino le increspature di un progetto di società o di un qualche obiettivo «ideale». La parola soggetto viene considerata alla stregua di un reperto archeologico e nessuno osa neppure immaginare una trasformazione delle regole del gioco, che sembrano stabilite una volta per tutte dalla totalità capitalistica e dagli effetti della globalizzazione.
Restando al dibattito filosofico, è difficile negare che esso tenda a star fermo sul posto. La grande questione sembra attualmente quella che riguarda l´idea di «altro». Ma, per affrontarla alla radice, occorrono molti strumenti di pensiero: dobbiamo costruire idee efficaci di «distanza» e di «assenza» con cui contrastare lo schiacciamento di ogni cosa sul presente, un presente senza spessore e avviluppante che negli anni di Sartre avrebbe avuto il nome di «feticistico». Inoltre, tutti siamo consapevoli che l´idea tradizionale di soggetto è eclissata, ma che i processi di soggettivazione sono gli unici dati di esperienza cui possiamo appigliarci per non rischiare di girare a vuoto con le nostre analisi.
Una lettura dell´Immaginario di Sartre non è la panacea per i nostri crampi filosofici, tuttavia può servire per rimetterci a pensare alcuni aspetti teorici che normalmente crediamo di avere già liquidato come cose vecchie e che invece, a guardarle, risultano tutt´altro che vecchie perché corrispondono proprio ad alcune domande che riaffiorano di continuo con urgenza.

Corriere della Sera 20.2.08
Il ricordo «Partii senza dirlo al Pci. Scoprii che ignorava che fosse stato Stalin a far assassinare Trotzki. La sua era un'altra storia»
«Di comunismo sapeva poco. E snobbò il 68»
Rossanda e l'incontro con Fidel: aveva un gran carisma con tratti da caudillo
intervista di Maurizio Caprara


La giornalista, allora deputata, andò a Cuba nel 1967 senza avvisare i dirigenti del partito: «Fui invitata a manifestazioni culturali.
Non ero abituata a chiedere permessi al Pci se partivo. Cossutta, poi, mi rimproverò»
ROMA — Le immagini che si custodiscono nella memoria sono diverse dalle telefoto dei telegiornali. Per quanto stagionate, talvolta contengono frammenti di realtà più efficaci. Può essere così quando riguardano un personaggio, entrato nella storia, conosciuto in tempi nei quali a pochi italiani era concesso di parlargli di persona. Di Fidel Castro, che incontrò a Cuba nel 1967, Rossana Rossanda, comunista eretica e allergica alle abiure, conserva il ricordo di un dirigente «assai poco formato nella tradizione del movimento operaio». Di un uomo «molto caloroso, dotato di carisma» e tuttavia contrassegnato da «caratteri di caudillismo
», ossia da tratti autoritari che non sono l'ideale per chi dichiara di combattere in nome dell'uguaglianza. Di un capopopolo che, almeno a prima vista, ignorava il fatto che a far assassinare Lev Trotzki, 27 anni prima, fosse stato Stalin. Fino ad apparire stupito dal sentirselo dire.
Chi è Fidel Castro?
«Non è facile dirlo. Quello che conobbi io era un leader assai poco formato nella tradizione del movimento operaio», ci aveva raccontato Rossana Rossanda prima della rinuncia di Fidel alla carica di Comandante in capo».
E in quale tradizione si era formato?
«Era legato a certi ideali indipendentisti latino americani, a José Martì, a filoni fortemente rancorosi verso gli Stati Uniti, i quali avevano ritenuto Cuba una colonia. C'era un detto: "Povero Messico, troppo lontano da Dio e troppo vicino agli Usa"».
Castro sarebbe stato innanzitutto un indipendentista, prima che un comunista?
«Veniva dagli anni della decolonizzazione. Allora, e ci ho creduto anch'io, circolava l'idea che tra Usa e Urss ci potesse essere spazio per un terzo polo. Che il Vietnam, Cuba e la Cina avrebbero costituito una via d'uscita dall'alternativa "O stai con gli Usa o con l'Unione Sovietica". In questo clima lo conobbi».
Lei incontrò Castro a Cuba nel 1967, come ha spiegato nel libro «La ragazza del Secolo scorso». Che cosa la colpì di lui?
«Era un tipo di dirigente diverso da quelli della sinistra europea, sia la comunista sia la socialista. Molto caloroso, dotato di carisma. Molto amato, su questo non ci piove».
Da che cosa se ne accorse?
«Girammo l'isola di Cuba a bordo di quattro o cinque jeep e guidava la prima senza essere coperto. Non era preoccupato che qualcuno potesse sparargli addosso. A Guantanamo ci imbattemmo in un'orribile tempesta, riparammo tutti sotto un tetto di legno. Se avessero voluto farlo fuori, avrebbero potuto. Forse intorno esisteva un servizio di protezione non visibile. Ma Castro non girava scortato come oggi gira il Papa».
Lei era andata all'Avana senza dirlo al Pci, eppure ne era una deputata.
Perché?
«Perché ero una già fuori non dal partito, ma da qualsiasi incarico. Fui invitata a manifestazioni culturali. Non ero abituata a chiedere permessi al Pci se partivo, anche quando andavo da Jean-Paul Sartre a Parigi ».
Armando Cossutta non gradì quel viaggio da Castro.
«Mi rimproverò, sebbene non in modo virulento. Gian Carlo Pajetta mi fece scrivere per Rinascita ».
Un articolo che fece arrabbiare Marcella Ferrara, pilastro della rivista. Anche perché lei aveva riportato il ritornello «Que tiene, que tiene, que tiene Fidel, que los americanos no pueden con el»?.
«Marcella mi fece un'obiezione di eleganza. La risposta a quel ritornello era: " Cojones" ».
Poi fu lei a ripensarci: come spiegherebbe ai giovani filocubani di oggi perché il Manifesto, gruppo che contribuì a fondare poco più tardi, non fu mai affascinato dal «líder máximo»?
«Non è che l'essere un capo di Stato ci creasse tante affinità. Eravamo un gruppetto libero e però minoritario, con qualche spocchia minoritaria. A parte noi un po' vecchiotti, allora quarantenni, i ragazzi del Manifesto avevano immagini di Che Guevara e Ho Chi Min, qualcuno gridava il nome di Rosa Luxemburg, ma nessuno ha mai inneggiato Castro. Non era una figura mitica con gli occhi che guardano in avanti».
Altro motivo per le distanze?
«Il suo giudizio sul 1968 fu molto prudente più che positivo. In Messico ci fu una rivolta degli studenti, la polizia sparò. Che io ricordi, Castro non condannò. Forse il Messico era l'unico posto dal quale si poteva arrivare a Cuba. In più, Fidel fu molto freddo verso il maggio francese».
Come mai, a suo avviso?
«La raccolta di zucchero che doveva salvare l'isola era fallita. Gli elementi che avevano retto Castro fino ad allora, anche di utopia, caddero. Non voleva infastidire de Gaulle?».
Davvero Castro apprese da lei e dal suo compagno K. S. Karol che Trotzki morì per volontà di Stalin?
«Non lo sapeva, pur avendo vissuto in Messico, Paese nel quale Trotzki fu ucciso. Restammo senza fiato. Fu al compleanno di Castro, in una colazione. Eravamo in dieci, 15. Non sapevano nulla della storia sovietica. Castro diceva: "Trotzki? Stalin? No, non è possibile..."».

Corriere della Sera 20.2.08
Dibattiti Tesi a confronto nel saggio di Michele Luzzatto
Con Dio e con Darwin ovvero se evoluzione fa rima con religione
di Edoardo Boncinelli


La teoria dell'evoluzione non cessa di stimolare la riflessione da parte di persone di diverse competenze e tiene sempre più spesso banco anche nella pubblicistica. È raro, per dir la verità, che questa teoria venga trattata dal punto di vista strettamente scientifico, perché ciò richiede una preparazione molto specifica e perché una sua esposizione rigorosa non sembra particolarmente appetibile per il grande pubblico. Abbondano invece le speculazioni di vario genere sulle sue implicazioni e sui suoi riflessi nel campo socio-politico, filosofico e teologico. Come è sempre stato dalla sua comparsa.
Di implicazioni ce ne sono tante e di riflessi una miriade, dai più diretti ai più indiretti. Personalmente, sono maggiormente sensibile a ciò che essa ha significato per la storia del pensiero scientifico e per la nostra capacità di comprendere gli eventi del passato, anche non necessariamente biologici. Possiamo dire infatti che essa ha introdotto almeno un nuovo tipo di spiegazione — ben diverso da quello usuale nelle scienze fisiche — di natura contingente e quindi intrinsecamente storica. Una spiegazione che potremmo definire del tipo
ex post: una cosa poteva accadere o non accadere; è accaduta e questo ci insegna qualcosa sulla sua natura. Se è accaduta, è perché era utile o addirittura indispensabile per la sopravvivenza della specie in questione o di un gruppo di specie. Se non si fosse verificata, non si osserverebbe oggi nessun sopravvissuto. La sua giustificazione riposa interamente su questa constatazione. Ciò ci costringe a riflettere con mente aperta su un numero enorme di osservazioni di natura biologica, ma anche psicologica e sociale. Quello che invece più spesso si percepisce, talvolta dolorosamente, della spiegazione evoluzionistica è la natura un po' speciale e certo terribilmente nuova della sua ricostruzione della storia della vita, e in particolare dell'origine dell'uomo, tutta affidata a meccanismi fisici e biologici immanenti, senza la necessità di una finalità e di una trascendenza, senza la necessità di un Piano di Sviluppo, di un Principio Ordinatore o di un Dio Creatore. Tale constatazione non è indolore per nessuno, perché noi siamo costituzionalmente inclini a vedere scopi e cause dappertutto. Ma è ancora più difficile da accettare per chi è portatore di una fede in un Essere superiore e nel Suo operato.
Non meraviglia quindi che si moltiplichino gli interventi pro o contro la teoria dell'evoluzione e le sue implicazioni. Adesso è la volta di Michele Luzzatto, che ha una preparazione biologica di tutto rispetto ed è responsabile della saggistica scientifica e delle Grandi opere di Einaudi. Costui ha scritto addirittura una Preghiera darwiniana (Raffaello Cortina, prefazione di Giulio Giorello), un'accorata difesa del darwinismo redatta in un linguaggio che non è in contrasto con una convinzione religiosa di ispirazione biblica. C'è laicità in questo testo, ma non c'è ateismo. Il nostro autore trae anzi dalla Bibbia temi e figure che gli permettono di dare alla sua riflessione un tono alto, quasi di perorazione. E uno stile particolare, che si appoggia, come in una preghiera, sull'iterazione e sul ritmo: «Prendete due prigionieri », «Prendete la coda del cavallo», «Prendete un fringuello»... «Prendete la coda del pavone», «Pensate ai nostri capelli». Un'argomentazione incalza l'altra con un suo «tempo» retorico ben definito.
L'opera, svelta e nervosa, può essere letta su due registri. Da una parte, una pacata ma efficace esposizione del nocciolo concettuale del neodarwinismo, che ne presenta la novità e fornisce esempi semplici e concreti di come si possa oggi guardare senza sbandamenti o incertezze al cammino dell'evoluzione. Dall'altra, un succedersi di interrogativi, appassionati e distaccati a un tempo, sul delicato ruolo della divinità, che può esistere o non esistere, e sul senso del tutto, se il tutto ha un senso.
Per Luzzatto, Darwin con la sua opera ha mostrato «solo che Dio non può essere quel manovale edile dell'immaginario collettivo che gioca con la creta e forgia gli uomini e il mondo, come un bambino crea le sue figurine col pongo. Se c'è, deve essere un Dio più sottile». Il punto è quanto più sottile può essere un Dio, senza perdere una sua fisionomia e un suo ruolo. «Dio potrebbe non esistere», aggiunge Luzzatto, «oppure, ancora, Dio potrebbe essere null'altro che la natura, null'altro che tutto ciò che è». C'è sempre stato qualcuno che l'ha pensata così, nota in conclusione il nostro autore, ma quasi sempre ha avuto vita dura. Può essere che oggi le cose stiano cambiando, oppure il bisogno di una rassicurante trascendenza è ancora troppo forte in noi, creature di luce che affondiamo i piedi nelle tenebre del tempo, anche se rappresentiamo il più «glorioso accidente della storia». Evolutiva ovviamente.
Assioma
«Dio potrebbe essere null'altro che la natura, null'altro che tutto ciò che è» Adamo ed Eva davanti al Dna in un'illustrazione di Janusz Kapusta (Corbis)

Corriere della Sera 20.2.08
Marco Clementi in un saggio ricostruisce la disputa non ancora conclusa tra la famiglia e il Pci
Eredi di Gramsci contro Togliatti
Uno scontro per ottenere i diritti letterari. All'ombra di Stalin
di Antonio Carioti


Comintern
Del caso si interessò Dimitrov. Il Migliore non volle lasciare ai parenti nemmeno le copie

Fu un conflitto aspro, sordo, prolungato. La posta in palio era il controllo su un patrimonio intellettuale tra i più importanti dell'Italia novecentesca: i quaderni e le lettere del detenuto Antonio Gramsci. A contendersi tale eredità, da una parte le sorelle Schucht, cioè la moglie russa (Julia) e le due cognate (Evgenia e Tatiana) del pensatore comunista sardo, dall'altra il Pci, nella persona del suo leader Palmiro Togliatti.
Alla luce di quel dissidio, ricostruito dallo storico Marco Clementi in un saggio per un volume a più voci sullo stalinismo che uscirà presso l'editore Odradek, si comprendono meglio alcuni fatti su cui il Corriere si è soffermato in passato. Per esempio il mancato versamento, fino al 1996, dei diritti d'autore sull'opera di Gramsci ai suoi eredi, denunciato dal figlio Giuliano e poi dal nipote, Antonio Gramsci jr. Oppure la lettera a Stalin, uscita in anteprima sul Corriere nel luglio 2003, in cui Julia e Evgenia Schucht, nel dicembre 1940, rivolgevano pesanti accuse a Togliatti. Diversamente da Silvio Pons, direttore dell'Istituto Gramsci, Clementi ritiene che la sorte degli scritti gramsciani fosse il tema centrale dello scontro: «Le Schucht — dichiara al Corriere — volevano influire sulla destinazione di quelle carte. E fecero di tutto per evitare che finissero in mano a Togliatti, di cui non si fidavano».
La vicenda parte dalla morte di Gramsci, nell'aprile 1937: «Subito dopo — ricorda Clementi — la famiglia Schucht si muove per ottenere il riconoscimento dei diritti ereditari della moglie e dei figli. E Julia chiede al ministero degli Esteri sovietico di intervenire per il recupero degli scritti del marito. Intanto Togliatti si consulta con l'economista Piero Sraffa, vicino a Gramsci durante la prigionia: quando capisce che ci sono in ballo carte di grande importanza, si attiva presso l'Internazionale comunista (Comintern) affinché acquisisca quei materiali».
In questa fase c'è anche un terzo attore, la polizia segreta sovietica (Nkvd), che ha condotto senza successo le trattative con il governo italiano per ottenere la liberazione di Gramsci. «Infatti le Schucht nel 1938 agiscono su due fronti. Accusano Togliatti di essere stato l'ispiratore della lettera inviata nel 1928 dal dirigente comunista Ruggero Grieco a Gramsci, allora imputato, il quale era convinto che la missiva avesse aggravato la sua posizione davanti al tribunale speciale fascista. E nello stesso tempo le sorelle scrivono a Nikolaj Ezhov, capo del Nkvd, probabilmente per chiedere che i servizi segreti smettano di ingerirsi nella questione dell'eredità letteraria di Gramsci».
Intanto, nell'estate del 1938, le carte del pensatore sardo giungono a Mosca. Poi interviene il Comintern: «Nel febbraio 1939 insedia una commissione per decidere che fare dell'eredità di Gramsci. Inoltre affida a Stella Blagoeva, dirigente molto vicina al segretario generale dell'Internazionale, Georgi Dimitrov, il compito di vagliare le accuse delle Schucht contro Togliatti. In realtà il Comintern aveva già indagato sulla lettera del 1928 e aveva accettato la versione di Grieco, secondo cui si era trattato di un errore commesso in buona fede. Infatti la Blagoeva, anch'essa preoccupata di evitare interferenze del Nkvd, non le attribuisce grande importanza».
Clementi sottolinea che in quel periodo Togliatti si trova in difficoltà: «Dopo l'esperienza in Spagna, nel 1939 torna brevemente in Urss e poi si reca in Francia, dove viene arrestato sotto falso nome. La sua liberazione e il suo ritorno a Mosca, nel maggio 1940, destano notevoli sospetti. In settembre la Blagoeva scrive su di lui una nota assai critica e conclude che occorre compiere un ulteriore esame della sua posizione rispetto alla denuncia delle Schucht».
Qui s'inserisce la lettera inviata da Evgenia e Julia a Stalin nel dicembre 1940: «Cercavano di scavalcare il Comintern — nota Clementi — per chiudere a loro favore la disputa sull'eredità letteraria di Gramsci. Ma ottengono l'effetto opposto, perché il segretario di Stalin passa per competenza la lettera a Dimitrov: il problema non era tale da indurre il capo del Cremlino a occuparsene di persona».
Da quel momento la partita volge a favore di Togliatti: «Poco dopo Dimitrov rimanda indietro la lettera, dichiarando che la questione è risolta, e crea una nuova commissione, nella quale entra anche il leader del Pci. Nel 1941 viene deciso che gli scritti di Gramsci vadano al partito italiano e Togliatti suggerisce di non lasciare alle sorelle Schucht neppure le copie fotografiche: un parere che credo sia stato accolto». L'ultimo strascico è del 1944: «Evgenia rimprovera a Togliatti di aver perso l'archivio del Pci e gli articoli del cognato. E lui risponde con una nota lapidaria, in cui smentisce tutto in tre righe». Ormai il Migliore è tornato in auge e non deve più preoccuparsi delle Schucht.

Corriere della Sera 20.2.08
Classici dell’idealismo tedesco
Il capolavoro di Hegel spartiacque della modernità
di Armando Torno


Non è facile riassumere valore e significato di un monumento filosofico come la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Karl Rosenkranz, che del pensatore tedesco scrisse una fondamentale vita, la considerò una linea di confine tra due diverse concezioni del mondo, notando con un pizzico di retorica: «Lo spirito dell'umanità si soffermò su quest'opera per un attimo, onde render conto a se stesso di ciò che esso era divenuto fino ad allora...». Per questi e altri motivi va salutata con interesse la nuova traduzione italiana dell'opera che ci ha dato Gianluca Garelli, dopo la storica di Enrico De Negri (La Nuova Italia, 1933-36; ampiamente rivista nel 1960) e quella di Vincenzo Cicero (Rusconi 1995, poi riproposta da Bompiani).
Garelli ha offerto il testo originale della Fenomenologia
del 1807, lasciando all'appendice gli interventi sulla prefazione del 1831. A questo studioso non ancora quarantenne va dato atto di uno scrupoloso e intelligente lavoro mirante a risolvere problemi non facili di traduzione e interpretazione che, nonostante i riferimenti ricordati, continuano a restare aperti. Si prenda, per esempio, il verbo aufheben:
risolto con «togliere» da De Negri e con l'innovativo «rimuovere» da Cicero, Garelli l'ha reso con «levare», evitando le secche della letteratura psicoanalitica che lo utilizza per parlare di «rimozione». Inoltre restituisce il gioco aufheben/erheben, «levare/ elevare», presente nella Fenomenologia: si rivela ottimo per il duplice «togliere» e «portare in alto».
FRIEDRICH HEGEL, Fenomenologia dello spirito, EINAUDI pp. 616, e 25

martedì 19 febbraio 2008

l’Unità 19.2.08
Sinistra arcobaleno, fumata nera sulle candidature
Lontano l’accordo sulle quote di eletti di ciascun partito
Sul tavolo l’ipotesi di Borsellino capolista in Sicilia


L’imperativo è accelerare. La Sinistra arcobaleno comincia a rendersi conto del ritardo accumulato nel far partire la campagna elettorale e in più crea tensioni la composizione delle liste elettorali. Fausto Bertinotti scalda i motori e domani presenterà le linee guida del programma, al Piccolo Eliseo, insieme ai vertici di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. Ma il problema è che gli altri, e in particolare Walter Veltroni, sono già partiti da un pezzo. Questione che viene sottolineata da molti interventi, durante la riunione della Direzione del Prc.
Franco Giordano dice ai suoi che adottare nei prossimi giorni un atteggiamento «troppo aggressivo» nei confronti del Pd sarebbe sbagliato, perché metterebbe in moto «un meccanismo di autodifesa che ci impedirebbe di agire sulle loro contraddizioni»: «Dobbiamo invece insistere sulla nostra idea di società alternativa alla destra e creare per questa strada le condizioni di un voto utile alla sinistra», dice il leader del Prc.
Il che non vuol dire che critiche al Pd non vengano fatte, come dimostra per primo Bertinotti. Il Pd? «Un partito di centrosinistra che guarda al centro», che «presta troppo ascolto a Confindustria» e che «non è omogeneo con l’Idv». La candidatura di Matteo Colaninno? «Si può tener conto degli interessi dell’impresa ma a partire dalla difesa degli interessi dei lavoratori». Per Bertinotti, che potrebbe correre come capolista a Roma (più difficile invece che scelga Milano, mentre è sul tavolo l’ipotesi che Rita Borsellino si candidi capolista in Sicilia) si deve votare Sinistra arcobaleno perché «c’è una necessità assoluta di cambiare l’Italia, e per cambiare nella direzione giusta questa volta deve essere né a destra né al centro ma a sinistra».
L’impresa è tutt’altro che semplice. In molti, alla Direzione del Prc, si lamentano dello spazio che i tg riservano a Veltroni e Berlusconi. Ma c’è anche chi non imputa tutta la colpa ai media, come Paolo Ferrero: «Veltroni ha dato a tutti il segno della campagna elettorale. Questa non è una guerra di posizionamento ma una battaglia di movimento. E noi siamo in trincea e rischiamo di rimanerci». Chiede Alfonso Gianni: «Perché non siamo stati noi, che l’abbiamo elaborato dieci anni fa, a proporre il salario sociale?». E c’è anche chi, come Ramon Mantovani, contesta la candidatura di Bertinotti perché «è investito da un calo di popolarità ed è segnato più di tutti nel partito dall’esperienza di governo».
Ma il nodo da sciogliere in fretta è quello della composizione delle liste elettorali. Prc e Sd hanno proposto uno schema che assegna il 40% delle candidature in postazioni “eleggibili” al Prc e il 20% ciascuno a Sd, Pdci e Verdi. Questi ultimi due però vogliono una percentuale maggiore rispetto a quella di Sd. La questione è stata discussa in una riunione tra i segretari delle quattro forze (per Sd c’erano i due capigruppo Titti De Simone e Cesare Salvi), ma dovranno altri incontri. Anche perché il Prc propone agli alleati anche l’alternanza in lista di uomini e donne, il limite dei due mandati e una percentuale (20%) riservata a candidature indipendenti. Ieri sera è finita senza accordo. Se ne riparla oggi.

l’Unità 19.2.08
«Anche il boia di Bolzano nascosto nell’Armadio della vergogna»
Il gip Salvini: la detenzione in Italia è importante, ma ancor più lo è il recupero della memoria di quegli orrori


SUCCESSO «La detenzione in Italia, come nel caso di Michel Seifert, è un risultato importante ma non l’obbiettivo primario dei processi per la stragi nazifasciste avvenute in territorio italiano. Quello che conta ancora di più è il recupero della memoria collettiva di una comunità, come è avvenuto a Bolzano e lo smascheramento pubblico di colpevoli che si erano nascosti dietro una facciata di rispettabilità».
Così Guido Salvini, giudice milanese noto tra l’altro per le inchieste sul terrorismo e sull’eversione di destra e consulente della Commissione parlamentare sulle stragi nazifasciste, spiega il senso dei processi che si sono svolti dopo il ritrovamento nel 1994 dell’«Armadio della vergogna». Custodito nella sede della Procura Generale militare a Roma, protetto da un cancello di ferro, per quasi cinquant’anni aveva occultato 695 fascicoli: 280 a carico di ignoti nazisti e fascisti, ma ben 415, invece riguardanti militari tedeschi e italiani identificati. Erano responsabili di rappresaglie omicidi e veri e propri eccidi massa quasi tutti contro civili non combattenti.
«Sono in tutto 10.000 vittime» ricorda Salvini «per le quali si era rinunciato a fare giustizia una volta tramontata nel 1947 l’ipotesi di una Norimberga italiana. Fino a quando, nel 1960, il Procuratore Generale militare di allora, Enrico Santacroce, dispose una illegittima "archiviazione provvisoria", chiudendo i fascicoli in quell’armadio dentro uno sgabuzzino. Il motivo? Una malintesa Ragion di Stato. In nome dei buoni rapporti con la Germania Federale e con la Nato, si decise di sacrificare la memoria delle vittime e le richieste di giustizia dei familiari. Ricordiamo del resto che il blocco dei fascicoli iniziò nel 1947 subito dopo la formazione del secondo governo De Gasperi, con l’uscita da esso dei comunisti e dei socialisti».
Eppure in quei documenti, redatti dagli Alleati, c’era materiale decisivo dal punto di vista processuale.
«Infatti quando le indagini sono state riaperte sia pur con 50 anni di ritardo» continua Salvini «si è arrivati a ben 15 sentenze di condanna. Tra queste quella per la strage di Sant’Anna di Stazzema, con 10 ergastoli, quella per Marzabotto, con altri 10 ergastoli, fino alla sentenza sulla strage piazzale Loreto dell’agosto 1944, con la condanna di Theodor Saewecke per la fucilazione di 15 ostaggi. Senza dimenticare i processi sulle stragi nell’Appennino ligure».
«Il dibattimento contro Seifert» racconta Salvini «è stato particolarmente significativo perché riguardava un lager in territorio italiano, quello di Bolzano e una zona che era stata coinvolta poco nella Resistenza e in seguito aveva rimosso la storia del campo di concentramento. Eppure era un vero lager in cui erano passate dirette in Germania ben 11 mila persone: ebrei, partigiani e loro familiari, renitenti alla leva, zingari. Il processo che si è tenuto a Verona, grazie allo splendido lavoro della Procura, ha visto sfilare molti testimoni, ex reclusi nel campo che hanno ricordato in modo drammatico e toccante gli 11 omicidi commessi da Seifert, un sadico che uccideva le vittime con le sue mani, bastonandole e strangolandole».
Le testimonianze in aula sono servite a recuperare una memoria importante per Bolzano. Lo stesso vale per i 23 militari italiani fucilati nel lager nel settembre 1944. Si trattava di militari che, in contatto con gli inglesi, si erano infiltrati dietro le linee tedesche per svolgere compiti di intelligence. Erano quindi la componente militare della resistenza, agenti coraggiosi del Regno del Sud. Il loro sacrificio era stato dimenticato ma ora anch’essi sono commemorati con un cippo.
«Le sentenze seguite al ritrovamento dell’Armadio» conclude il giudice Salvini «fissano un principio fondamentale, che serve anche per il futuro e fa anche parte dello statuto del Tribunale Penale Internazionale: nei crimini di guerra, non vale la giustificazione di aver obbedito agli ordini. Anche perché, come nel caso di Seifert, ucraino di lingua tedesca arruolatosi nelle SS, conta la libertà di scelta con cui era entrato in un corpo di criminali che faceva dello sterminio la propria religione».

La Spagna e altri otto Paesi no
l’Unità 19.2.08

D'Alema riconosce il Kossovo
Contro la Sinistra arcobaleno. Fini: noi siamo d’accordo


ROMA «Un governo dimissionario non ha l’autorità per riconoscere un nuovo Stato». Così i capigruppo al Senato della Sinistra Arcobaleno Giovanni Russo Spena, Cesare Salvi, Manuela Palermi e Natale Ripamonti rispondono al ministro degli Esteri D’Alema che da Bruxelles annuncia il riconoscimento da parte dell’Italia del Kosovo. «Al di là del disaccordo espresso nei confronti del riconoscimento del Kosovo che porterebbe ad una maggiore instabilità dell’area balcanica, resta comunque il fatto - spiegano i quattro senatori - che non può essere questo governo, in campagna elettorale e con le elezioni alle porte a decidere su una questione di tale strategica importanza». Dalla capitale belga, la controreplica del titolare della Farnesina: Quella del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo è «materia del governo» e non è previsto un voto parlamentare; comunque «nessuno vuole schivare il Parlamento» per cui faremo un’altra ampia discussione in Parlamento, partendo dalla Camera già da domani, puntualizza D’Alema, escludendo comunque che ci possa essere una riunione ad hoc sul Kosovo. La sua partecipazione alla Camera avverrà nell’ambito della più ampia discussione del rifinanziamento delle missioni all’estero. «Noi abbiamo già discusso dell’indipendenza del Kosovo il 6 febbraio scorso nella riunione delle Commissioni Esteri congiunte di Camera e Senato. E molti di quelli che hanno protestato - ricorda polemicamente il vicepremier - dovrebbero leggere l’ordine del giorno. Manderò loro i verbali». Il vicepremier ha aggiunto che in quella sede aveva detto chiaramente che, se vi fosse stata una dichiarazione indipendenza di Pristina, l’Italia avrebbe dovuto «prenderne atto e stabilire regolari relazioni con il Kosovo». In ogni caso, il via libera al riconoscimento dell’Italia all’indipendenza del Kosovo, ricorda D’Alema, «era stato autorizzato dal Consiglio dei ministri» con la sola eccezione del ministro Ferrero (Rifondazione comunista). Una posizione, quella delineata dal titolare della Farnesina, che trova il consenso di Gianfranco Fini. «Ho parlato con il ministro D’Alema qualche giorno fa, perché i governi cambiano, la Repubblica resta. È nell’interesse italiano che il Kosovo sia indipendente, pur con tutti i problemi che ci sono. Ricordiamoci che abbiamo 2000 soldati in quell’area», afferma l’ex ministro degli Esteri, ospite del Tg1.

l’Unità 19.2.08
Brecht, i retropensieri vissuti di Herr Bertolt
di Luigi Reitani


Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati.

Collezionava citazioni e testi assieme a notazioni di vita vissuta che poi confluivano nell’opera ufficiale

Scriveva che quando celebrava qualcuno lo faceva perché vi era costretto, oppure che disprezzava che persone sfortunate

INEDITI Presentato a Berlino
il primo volume dei taccuini segreti del grande drammaturgo
la cui uscita è prevista per maggio. Affresco inusuale di emozioni ma anche laboratorio quotidiano di uno scrittore non dogmatico e sempre al lavoro

Ci sono tutti, alla prestigiosa Akademie der Künste di Berlino, per la presentazione della edizione integrale dei taccuini di Bertolt Brecht. C’è naturalmente il loro curatore Peter Willwock, che da anni lavora tenacemente al progetto, e c’è lo stato maggiore della casa editrice Suhrkamp, titolare dei diritti dell’autore, con in testa Ulla Unseld-Berkéwicz, coraggiosa quanto discussa responsabile del gruppo dopo la morte del marito. C’è il presidente dell’Accademia, il disegnatore satirico Klaus Staeck, e un parterre di ospiti di tutto rispetto, con icone della letteratura quali Volker Braun e Adolf Muschg. C’è un celebre attore come Mario Adorf (interprete di film di successo), chiamato a leggere i passi dei taccuini, e ci sono telecamere, giornalisti e infine curiosi che hanno regolarmente pagato il biglietto da cinque euro, il cui contingente è andato subito a ruba. E del resto, chi vorrebbe mancare a un evento tanto annunciato dalla stampa e rimbalzato anche all’estero dalle colonne dello Spiegel? L’ampia sala che attraverso la vetrata a tutto campo offre una magnifica prospettiva sulla Porta di Brandeburgo e sulla nuova cupola del Parlamento non è sufficiente a contenere gli interessati accorsi in una splendida giornata domenicale, e così si ricorre a un sistema di telecamere a circuito chiuso. Ci sono insomma proprio tutti e forse anche troppi per la pur efficientissima e cortese organizzazione, che si fa in quattro per trovare un posto a chi scrive per l’Unità (ed è quasi commovente constatare quale prodigioso effetto abbia il nome della testata in un luogo come questo!). Solo il libro di cui si parla non c’è ancora. Così bisogna accontentarsi di generose anticipazioni e della dotta presentazione del curatore. Il primo volume della nuova edizione, con i taccuini degli anni 1927-1930, uscirà solo in maggio, a causa della complessità dei problemi redazionali da risolvere. Seguiranno, se tutto va bene e se si troveranno ancora i finanziamenti, altri dodici volumi, fino al 2020.
Un nuovo monumento a un autore già quasi imbalsamato nelle storie della letterature e nelle antologie scolastiche della Germania riunificata? No, quello che la casa editrice Suhrkamp e Villwock si propongono attraverso questa nuova impresa è, al contrario, di mostrare la vitalità di Brecht, l’irruente e geniale creatività di un pensiero colto nei primissimi stadi della sua vita, in tutte le sue contraddizioni, che pertanto non si lascia ingabbiare in alcuno schema, distruggendo così alla radice l’immagine di uno scrittore dogmatico e fedele a un esclusivo credo ideologico. Per tutta la vita Brecht ha annotato i suoi pensieri, versi e progetti teatrali in 54 taccuini che costituiscono la primissima fase del suo lavoro di scrittore. Si tratta di notizie spesso molto difficili da decifrare, che non hanno ovviamente lo statuto di un’«opera» e nemmeno quello di un vero «testo», e che magari si sovrappongono a indirizzi, nomi, semplici appunti o alle prescrizioni di un medico. Talvolta l’autore incolla sulle pagine ritagli di giornale che pensa possano essergli utili o estrapola passi da altri scritti e documenti. Quando poi passa alla stesura vera e propria delle opere, Brecht non esita a strappare le pagine dei taccuini che lo interessano o a smembrarli a seconda dell’uso, conservando però tutto scrupolosamente.
Solo una parte di queste osservazioni è finora nota. Tutte le precedenti edizioni degli scritti di Brecht (l’ultima è stata completata appena nel 2000) si muovono con cautela nel labirinto dei taccuini conservati nell’archivio dello scrittore a Berlino, pescando qua e là in modo asistematico, quando riscontrano elementi immediatamente utilizzabili o spendibili per altri fini. Ciò che in tal modo non viene ovviamente documentato è il contesto degli scritti, decisivo e talvolta illuminante per la loro comprensione e valenza. Sullo stesso taccuino, ad esempio, Brecht annota di seguito la notizia della morte della madre e ancora un Canto per una amante palesemente erotico. In modo assolutamente convincente Villwock dimostra come alcune apparentemente trascurabili notizie di una terapia medica siano intimamente collegate con un serrato confronto con le posizioni teoriche e filosofiche della medicina omeopatica degli anni Venti e conducano lentamente a cristallizzazioni linguistiche e letterarie, a immagini verbali che infondono vita alle poesie e ai drammi. I taccuini appaiono così un luogo di intersezione tra gli stimoli della vita (e della grande storia) e i progetti della letteratura.
L’immagine di Brecht che emerge da questi materiali è quella - mille miglia lontana dagli stereotipi vulgati - di uomo aperto a ogni stimolo, capace di confrontarsi con posizioni diverse dalle proprie, conscio delle sue contraddizioni e aporie, per cui ogni assoluta certezza è in fondo sospetta. Uno scrittore che dalle proprie contraddizioni sa trovare stimoli e fermenti creativi. In una notizia scritta ancora ad Augusta nel 1920 si legge «cammino sempre lentamente. So che vado nella direzione sbagliata. Ogni direzione è sbagliata. Non ho alcuna fretta. Quando si è stupidi, camminare è un piacere. A me piace fintanto che il non-camminare resta un piacere. Cammino come su uova. Posso anche sdraiarmi sull’erba nera. Un giorno lascerò solo che i capelli crescano e nel frattempo acchiapperò le mosche (in modo che le mosche abbiano un passatempo)».
E negli anni Cinquanta l’autore della poesia che celebra Stalin scrive: «se non vi sono costretto / non incenso nessun potente. / Se mi sentite incensare un potente, / vi sono stato costretto». Persino verso il proprio ateismo l’autore sembra nutrire dei dubbi: «So bene che non credere a qualcosa significa credere a qualcosa», oppure «sempre, come in un esperimento pavloviano, le campane suscitano in me processi sicuramente di natura chimica, pensieri in direzione metafisica, e nel mondo che mi auguro io non compaio». E nell’abbozzo di un sonetto del 1928 il soggetto (non necessariamente identificabile con l’autore) dice di sé: «Ciò che non confesso volentieri: proprio io disprezzo chi è in disgrazia».
L’edizione progettata da Villwock intende documentare integralmente tutti i taccuini di Brecht dando conto della loro effettiva costituzione materiale. Ciò comporta la riproduzione fotografica in bianco e nero di ogni pagina e la accurata descrizione dei mezzi usati dall’autore per la scrittura. Alle riproduzioni si unisce la loro accurata trascrizione diplomatica, che rispetta la topografia dei testi, ovvero la loro disposizione grafica sulla pagina. Per principio la nuova edizione rinuncia invece ad offrire dei testi «ultimi» e definitivi per la lettura. Il curatore non vuole presentare nuove opere di Brecht, ma documentare il processo della sua creazione. Attraverso un ricchissimo commento si cerca di far luce sulle corrispondenze che intercorrono tra le singole notizie e l’opera complessiva, mostrandone la cronologia. E all’edizione cartacea si affianca un Dvd che offre - in modo cumulativo, di volume in volume, con integrazioni e correzioni - una riproduzione a colori dei manoscritti, insieme alle trascrizioni e agli apparati, compresi naturalmente indici e concordanze con le precedenti edizioni.
Il certosino lavoro di Villwock nasce all’interno dello Institut für Textkritik di Heidelberg, fondato e diretto da Roland Reuß, ex enfant terribile della filologia tedesca, che in collaborazione con lo Stroemfeld Verlag ha dato vita in passato a rivoluzionare edizioni di classici come Keller, Kleist e (soprattutto) Kafka, basate sul principio della integrale riproduzione fotografica dei materiali. L’accettazione di una grande casa editrice come Suhrkamp di questi principi indica un mutamento di paradigma che si sta lentamente compiendo in Germania nell’ambito delle edizioni critiche dei classici, e di cui ha testimoniato sempre a Berlino dal 13 al 16 febbraio il dodicesimo convegno della «Arbeitsgemeinschaft für germanistiche Edition» - la comunità dei filologi tedeschi presieduta da Bodo Plachta - dedicato al tema della «materialità» nella edizione scientifica del testo letterario. Non si tratta più di presentare senza dubbi e incertezze l’esito definitivo del lavoro di scrittura o di «completarlo» secondo opinabili presupposti, ma piuttosto di mostrare senza pregiudizi la complessa genesi dei testi letterari, il laboratorio dello scrittore.
I taccuini di Brecht contengono d’altra parte anche testi abbastanza elaborati, come un dramma incentrato su un automobile, di cui Villwock mette ben in luce il valore autobiografico e simbolico per Brecht. In questo dramma una famiglia acquista una macchina che risulterà essere difettosa e poi la rivende nascondendo ugualmente il difetto. Gli imbrogliati si trasformano in truffatori: un tema tipicamente brechtiano.
Prima ancora che essere editi, i taccuini di Brecht, minacciati da un rapido deperimento, sono stati sapientemente restaurati, grazie a un finanziamento del fondo letterario di Darmstadt, che con 70.000 euro ha reso possibile anche la realizzazione del primo volume. Il futuro degli altri dipende invece dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft, l’istituzione statale che finanzia in Germania i progetti scientifici sulla base di autonome valutazioni e che però di recente si è pronunciata negativamente sull’opportunità di dar vita a costose edizioni critiche (come è accaduto nel caso Kafka, sollevando ampie proteste). C’è da augurarsi che per Brecht le risorse invece non vengano ingenerosamente negate.
luigi.reitani@uniud.it

L’INEDITO Un brano dal «Taccuino 21»
«Ci sono molti meno pensieri che donne»
Non siedo comodamente sul mio posteriore: è troppo magro!
La cosa peggiore è: disprezzo troppo gli infelici, non ho fiducia dei diffidenti, ho qualcosa contro coloro a cui non riesce di dormire...
Il mio appetito è troppo debole - sono subito sazio!! L’unica cosa sarebbe la voluttà, ma le pause di cui ha bisogno sono troppo lunghe! Se si potesse succhiarne l’estratto e abbreviare il tutto! Scopare un anno o pensare per un anno! Ma forse è un errore di costituzione fare del pensiero una voluttà; forse è destinato a qualcosa d’altro! Per un pensiero forte sacrificherei ogni donna, quasi ogni donna. Ci sono molti meno pensieri che donne. La politica è buona solo se ci sono abbastanza pensieri (come sono anche qui nocive le pause!) Il trionfo sulla umanità. Poter fare il giusto, senza riguardi, con durezza!
Quando dopo una settimana in ogni senso spiacevole ho detto al mio più vecchio amico che ero oppresso, ha riso e mi ha detto in tono di superiorità: non lo sei spesso! No, ho detto, ma so che i conquistatori di imperi sono inclini a suicidarsi per la perdita di una pipa. Così poco dura.
Berlino, 1930 circa

l’Unità 19.2.08
Robbe-Grillet, addio al papà del Nouveau Roman
di Felice Piemontese


La nuova corrente letteraria sovvertì il canone romanzesco
Il suo ultimo libro pubblicato l’anno scorso è un romanzo pornografico

LO SCRITTORE e regista francese si è spento ieri all’età di 86 anni. Fu il capofila, negli anni Cinquanta, del movimento dei «nuovi romanzieri», di cui fecero parte anche Claude Simon e Marguerite Duras

Come vuole la tendenza all’enfasi banalizzante che domina sui giornali, si dirà probabilmente anche di Alain Robbe-Grillet - lo scrittore francese scomparso ieri all’età di 86 anni - che è morto l’ultimo dei grandi nomi della letteratura francese (anche se molti - in nome di antiche polemiche francamente un po’ stantie - gli negheranno ogni patente di grandezza).
È un dato di fatto difficilmente contestabile: il nouveau roman, di cui Robbe-Grillet fu l’indubbio capofila, è stato, più di cinquant’anni fa, l’ultimo momento di un predominio culturale (francese) di cui resta ben poco. Esaltato come simbolo estremo della modernità, o esecrato come puro formalismo e punto d’arrivo di un processo di disumanizzazione dell’arte, il movimento ha segnato un momento importante della ricerca letteraria, ed è forse arrivato il momento in cui se ne può parlare senza la necessità di schierarsi, di prendere posizione pro o contro.
Parecchi appelli in tal senso sono venuti del resto dallo stesso Robbe-Grillet, che fino all’ultimo ha conservato lucidità, gusto dell’irrisione e del paradosso, attitudine allo scandalo e alla provocazione. Il suo ultimo libro (sarcasticamente intitolato Un roman sentimental) è uscito pochi mesi fa, ed è una specie di inno alla pedofilia e alla perversione, con scene e descrizioni tali da fare apparire innocue fantasticherie i testi del marchese de Sade.
Nato nel 1922 a Brest, Robbe-Grillet era ingegnere agronomo, e in tale qualità impegnato in lunghi soggiorni in Marocco (che resterà uno dei suoi paesi preferiti), in Guyana francese, in Guadalupa e in Martinica. I suoi interessi letterari non si svilupperanno però tardivamente, dal momento che il suo libro d’esordio (Un regicidio) appare nel 1949, anche se passa quasi del tutto inosservato.
Ben diverso destino avrà Le gomme, pubblicato nel 1953, e considerato il testo fondatore del nouveau roman o école du regard, come altri preferiranno dire. Complici le «Editions de Minuit», che li accolgono con entusiasmo, i giovani scrittori insofferenti della tradizione ottocentesca e delle sue ultime trasformazioni, si riuniscono in un movimento che nega però di esser tale e tanto meno di trasformarsi in gruppo organizzato. «In realtà - dirà poi Robbe-Grillet - eravamo scrittori e intellettuali con storie e interessi diversi, e in certi casi nemmeno ci conoscevamo di persona. Propugnavamo una letteratura di ricerca e di avventura stilistica. Ognuno di noi ci aveva già provato da solo, ma con scarsi risultati. Metterci insieme fu solo un modo per far sì che ci si accorgesse del nostro lavoro».
Ecco dunque, con l’ingegnere di Brest, scrittori come Claude Simon (futuro premio Nobel), Nathalie Sarraute, Michel Butor, Marguerite Duras, Claude Ollier, Robert Pinget, in una foto destinata a figurare in tutti i manuali di storia letteraria e che fu scattata (un po’ per caso, dice lui) dall’italiano Mario Dondero. In disparte, nume tutelare o semplice compagno di strada, Samuel Beckett. E nelle università e nelle riviste, «protettori» di peso, e di enorme prestigio, come Roland Barthes, Georges Bataille, Maurice Blanchot.
I «nuovi romanzieri» avevano come bersaglio i filoni romanzeschi che in quegli anni erano dominanti: quello all’insegna delle leggerezza se non della frivolité (Sagan) e quello dominato dalla preoccupazioni etico-umanistiche e dall’impegno politico militante. Furibonde, come prevedibile, le reazioni dell’establishment culturale, con violente polemiche sui giornali, pamphlet al vetriolo, e accuse la cui eco sarebbe stata destinata a durare (e ancora oggi sono in molti ad attribuire all’influsso del nouveau roman la relativa indigenza del romanzo francese, il suo formalismo, l’attitudine a ciò che si definisce nombrilisme).
Caratteristico della nuova corrente letteraria il rifiuto categorico di alcune «notions perimées», come le definì proprio Robbe-Grillet: il personaggio e l’analisi psicologica tradizionale, l’intreccio, la distinzione astratta tra forma e contenuto («impiego sistematico del passato semplice e della terza persona, adozione dello svolgimento cronologico, intrighi lineari, curva regolare delle passioni, tensione di ogni episodio verso una fine…»).
Attaccati da destra e da sinistra (il realismo cosiddetto «socialista» è tra i loro bersagli preferiti) i «nuovi romanzieri» pubblicano in un breve volgere di anni una serie di testi che dovrebbero sovvertire non solo il canone romanzesco, ma anche lo stesso meccanismo percettivo del lettore.
Inevitabili le accuse di iper-formalismo, quella di produrre opere di difficile lettura, e caratterizzate dalla mancanza di umanità. La minuziosa descrizione di oggetti e luoghi (è l’epoca in cui trionfa la fenomenologia husserliana), la rinuncia a una trama che sia facile seguire, il riferimento a una realtà strettamente materiale, la scomparsa della rassicurante figura del narratore onnisciente, l’apparente (o reale) piattezza stilistica, con l’assenza di metafore e allegorie, sono alcune delle caratteristiche di questi romanzi, intorno ai quali è tutto un fiorire di formule più o meno brillanti. Il nouveau roman «privilegia la realtà della rappresentazione rispetto alla rappresentazione della realtà», oppure «s’interessa alle avventure della scrittura piuttosto che alle scritture dell’avventura» (Jean Ricardou) e via continuando.
«In verità, ha detto di recente Robbe-Grillet, se le persone che leggevano i miei libri e inveivano contro di essi avessero letto Kafka, Svevo, Joyce e Borges, forse quello che scrivevo non sarebbe apparso a loro così sconvolgente, ma piuttosto come la prosecuzione di un modo di fare letteratura cominciato con Flaubert nel Diciannovesimo secolo». Aggiungendo poi che «i nostri romanzi, in fondo, discendevano direttamente, in un certo senso, da La Nausea di Sartre, da Lo Straniero di Camus, e soprattutto dalle opere di Kafka e di Faulkner».
Il mondo di Balzac e di Dickens, secondo Robbe-Grillet, era interamente comprensibile, mentre quello di oggi non lo è. E già negli anni Cinquanta si assiste a quella scomparsa del senso, destinata poi ad assumere proporzioni sempre più rilevanti e definitive.
In ogni caso, per un lungo periodo il nouveau roman domina la scena in Francia e altrove, e in Italia ad esempio non solo la neo-avanguardia discende direttamente di là, per molti aspetti, ma anche scrittori come Moravia da un lato, Vittorini e Calvino dall’altro (si vedano alcuni numeri della rivista-libro Il Menabò) si appropriano di tematiche dei «nuovi romanzieri» o le discutono con una passione oggi purtroppo incomprensibile.
Robbe-Grillet pubblica romanzi come La Gelosia (1957) e Nel labirinto (1959), si dedica con crescente passione anche al cinema, scrivendo la sceneggiatura di un film oggi considerato un classico (L’anno scorso a Marienbad) e girando parecchi film come regista.
Nella sua produzione più recente, sembra prevalente un’impronta ludica e talvolta perfino auto-parodistica, con riferimenti sempre più espliciti a un erotismo perverso, portato all’esasperazione nel citato Roman sentimental rispetto al quale è forte, peraltro, la tentazione - in qualche modo suggerita dallo stesso autore - di non prenderlo troppo sul serio, di considerarlo un metaromanzo sulla pornografia piuttosto che un romanzo pornografico come si presenta.

Con «Le gomme» esplode il «caso»
Alain Robbe-Grillet, «padre del Nouveau Roman», è morto ieri al Centro Ospedaliero dell’Università di Caen, durante un ricovero per un problema cardiaco, Aveva 86 anni. Nato il 18 agosto 1922 a Brest, diventa noto nel 1953 con il romanzo Le gomme («Les gommes»), all’origine del «Nouveau Roman», seguito poi da Le voyeur (1955) e da una serie di dichiarazioni poetiche, poi raccolte in Per un nuovo romanzo (1963). Scrittore e regista, insegnante negli Stati Uniti e direttore letterario delle Editions de Minuit, negli anni 50 e 60 è stato una delle figure di punta del «Nuovo romanzo». Dopo aver pubblicato «La gelosia» (1957) e «Nel labirinto» (1959), si dedica al cinema: scrive i dialoghi e la sceneggiatura de «L’anno scorso a Marienbad» di Alain Resnais (1961) e dirige dieci film, tra cui «Trans-Europ-Express» (1967) e «Spostamenti progressivi del piacere» (1974). Eletto nel 2005 all’Accademia francese, ha profondamente influenzato la letteratura europea della seconda metà del Novecento, tra cui i nostri Edoardo Sanguineti e Ferdinando Camon.

I film
Il contributo alla storia del cinema mondiale, e in particolare europeo, di Alain Robbe-Grillet, non si può valutare nel numero di sceneggiature e regie da lui firmate, tutto sommato relativamente poche, rispetto all’importanza da guru che egli ha avuto prima come creatore e poi come osservatore dell’immagine in movimento. Il trasferimento da parola scritta a racconto visuale della Ecole du regard che lo ebbe tra i fondatori viene spesso sintetizzato nella sua collaborazione a quattro mani, un esordio folgorante, con Alain Resnais, per L’anno scorso a Marienbad (Leone d’oro nel 1961 alla Mostra di Venezia). Negli anni successivi Robbe-Grillet tornò più volte ai suoi romanzi per orientarli verso il cinema, fino al punto di organizzare la parola scritta come immagine fissata su carta. È il caso de L’immortel (1963), per il quale volle esordire in prima persona anche da regista. E poi di Transeuropa Express (1966), L’uomo che mente (1968), Le gomme (1969), L’Eden et apres (1970). Nel ‘74 si registra una nuova svolta col film più famoso diretto da Alain Robbe-Grillet: Slittamenti progressivi del piacere. In quel caso l’assunto di partenza è lo stesso di 13 anni prima, ma i modi della narrazione, le tematiche e il senso del tempo sono oggettivamente mutati, tant’è vero che il film ebbe una certa risonanza anche sul piano commerciale perché la trasgressione linguistica diventava anche contenutistica, affrontando i temi del sesso e di una rivoluzione della conoscenza che risentiva della lezione del ‘68. A partire da quella tappa, che avvicina l’universo creativo di Robbe-Grillet a quello del regista da lui più amato dopo Resnais, ovvero Michelangelo Antonioni, si infittisce anche l’attività da regista del grande scrittore e pensatore francese: Giochi di fuoco (1975), La belle captive (1983), fino al molto recente Gradiva del 2006, con cui Robbe-Grillet tentava anche di ricondurre i temi dell’inconscio e della psicanalisi al suo universo fattuale e lontano dallo psicologismo tradizionale. Negli stessi anni si fanno più frequenti anche i suoi saggi sul cinema, a cominciare dal dialogo a distanza proprio con Antonioni e al progetto mai realizzato di una collaborazione tra i due. È probabile che col senno di poi si possa storicizzare e delimitare a un preciso momento del pensiero critico e artistico occidentale il contributo dato al cinema da Alain Robbe-Grillet. Ma è certo che il suo punto di vista fu autentica dinamite.

L'Unità lettere 19.2.08
Milano, ancora un oltraggio alla Resistenza

Cara Unità,
a Milano, città Medaglia d’Oro della Resistenza, l’Amministrazione comunale di centro-destra che già aveva proposto di raccogliere in un comune sacrario le spoglie di partigiani e repubblichini, ha compiuto un ulteriore gravissimo atto: la messa in vendita, della sede di via Mascagni 6 che ospita, sin dal 1946, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Questa storica sede dove si riuniva il Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel, è divenuta il punto di incontro e di riferimento del Comitato Permanente Antifascista per la Difesa dell’Ordine Repubblicano, sorto nel maggio 1969, all’indomani degli attentati neofascisti alla Fiera Campionaria di Milano. Da allora il Comitato è intervenuto puntualmente in tutte le gravissime vicende che a partire dal dicembre 1969, con la strage di Piazza Fontana, hanno segnato la vita della Repubblica. Per la sua iniziativa politica unitaria, per la sua capacità di mobilitazione e per la sua fermezza, il Comitato è divenuto nella fase della strategia della tensione e in quella degli attacchi terroristici punto di riferimento qualificato e riconosciuto delle diverse componenti politiche, sociali e civili della nostra città nella lotta in difesa della Repubblica e della democrazia. Anche in occasione della straordinaria mobilitazione per il referendum sulla Costituzione, che ha visto respingere dall’elettorato la controriforma della nostra Carta Costituzionale, il Comitato «Salviamo la Costituzione» ha stabilito la sua sede presso l’Anpi milanese, di via Mascagni 6.In questa difficilissima fase, dunque, bisognerà sviluppare una vasta e capillare mobilitazione dei democratici, degli antifascisti, dei cittadini milanesi, perché l’Anpi continui a rimanere nella sua storica sede, così importante non solo per la nostra città, ma per l’intero Paese. Questo nostro sforzo rischia però di essere insufficiente, se le forze politiche del centro-sinistra, sinora piuttosto tiepide sulla questione della nostra sede, non avvieranno un’azione politica più determinata e incisiva. Di notevole influenza sarà inoltre l’impegno che il governo che uscirà dalle elezioni di aprile si assumerà nella soluzione di questa vicenda che, per noi, dovrà concludersi con la permanenza dell’Anpi nella sede storica di via Mascagni.
Sezione Anpi di Porta Venezia, Milano

Repubblica 19.2.08
Vian, direttore dell'Osservatore
"Ecco i punti etici del Vaticano per i politici cattolici"
Importa che ovunque ci siano cattolici coerenti con le scelte del magistero
di Marco Politi


CITTA´ DEL VATICANO - E´ bene che i cattolici siano «dappertutto», nei vari schieramenti. L´importante è che i candidati e i futuri parlamentari cattolici agiscano coerentemente con le indicazioni della Chiesa. Lo ribadisce il professore Giovanni Maria Vian, direttore dell´Osservatore Romano.
Professor Vian, come guardate alla campagna elettorale?
«Con molto interesse, come ad ogni cosa che avviene in Italia. Nessun altro paese ospita il Papa sul suo territorio e, anche se la Città del Vaticano è uno Stato straniero, il pontefice è vescovo di Roma e primate d´Italia. E´ un legame storico speciale, riconosciuto dalle stesse autorità italiane».
Vi preoccupa la diaspora cattolica?
«Mi sembra accettata. Il cardinal vicario Ruini, ex presidente della Cei, lo ha notato più volte negli anni passati: i cattolici sono ormai presenti nei diversi schieramenti, in tutto il ventaglio politico».
E´ positivo?
«Penso di sì. E´ un dato di fatto, da cui trarre tutto il bene possibile».
L´Udc corre da sola con il rischio di non farcela. Spaventa l´idea che sparisca un partito dichiaratamente cristiano?
«A dire il vero i partiti di ispirazione cristiana sono tre. Ma non penso che il direttore dell´Osservatore Romano debba esprimersi».
Non la turba l´eventuale sparizione del simbolo cristiano?
«No comment. Credo sia importante che dappertutto vi siano cattolici coerenti con le indicazioni del magistero».
Un programma perfettamente cristiano non esiste. Come si regolerà l´elettore credente?
«Cercherà di formarsi un´opinione in maniera completa e onesta, secondo una coscienza "formata e informata"».
Avendo come stella polare i cosiddetti principi non negoziabili?
«Nel 2002 la Congregazione per la Dottrina della fede ha diffuso una Nota dottrinale sul comportamento dei cattolici nella vita politica. E lì si parla di esigenze etiche fondamentali. Firmata dal prefetto, cardinale Ratzinger, e dal segretario: oggi cardinale Bertone».
E quali sono i punti cui attenersi?
«Il documento li elenca: rifiuto dell´aborto e dell´eutanasia, promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra uomo e donna, tutela della vita fin dal concepimento, libertà di educazione, libertà religiosa, tutela sociale dei minori, rifiuto delle forme moderna di schiavitù, economia al servizio della persona e del bene comune, impegno per la pace».
Per il resto la Chiesa è al di sopra delle parti?
«L´episcopato italiano e quello spagnolo e in ogni altro paese fanno il loro mestiere ottimamente. Né in Italia né in Spagna né in America i vescovi fanno politica. Questo spetta ai laici, credenti o non credenti che siano».

Corriere della Sera 19.2.08
Il sondaggio. Su «Famiglia Cristiana» l'identikit del voto dei credenti
Cattolici divisi tra Walter e Silvio
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Il leader più amato è Veltroni, però tra Berlusconi e Fini prevale il centrodestra. Casini sta in fondo, un paio di punti sopra Bertinotti. Le urgenze più sentite sono quelle di tutti, salari, sprechi, tasse, figli, mentre temi rumorosi come aborto e coppie di fatto raccolgono le briciole. La maggior parte pensa che la Cei faccia bene a diffondere un documento sui valori da difendere e allo stesso tempo voterebbe senza problemi uno schieramento con il partito radicale. Strani personaggi, i cattolici. O forse no: forse sono strani quelli che ad ogni appuntamento elettorale s'interrogano sui credenti come si trattasse di marziani, un mondo a parte da conquistare o rappresentare col bollino. E invece no : «Considerare il "voto cattolico" come esclusiva appartenenza a singoli partiti è l'eredità di un passato che oggi è praticamente inconcepibile», spiega Beppe Del Colle nell'editoriale di Famiglia Cristiana.
Il settimanale esce domani con un sondaggio che dimostra una volta di più come il mondo cattolico sia variegato, diviso, talvolta spaccato. «Siamo di fronte a un pianeta segmentato in più gruppi: ci sono sì i cattolici militanti che vorrebbero una politica molto più rispettosa dei dettami della Chiesa, ma ci sono anche molti italiani che si considerano a pieno titolo cattolici — anche praticanti — e hanno ormai una visione laica dei rapporti tra Stato e Chiesa», scrive Alessandro Amadori, direttore di Coesis Research, la società che ha condotto la ricerca.
Nessun approccio ideologico.
Alla domanda «chi rappresenta meglio i voti cattolici?» il centrodestra (33 per cento, il 39 tra i «praticanti») prevale nettamente sul centrosinistra (12) ma la maggior parte, il 41 per cento, risponde «è indifferente». Il che non significa un'opzione per il «centro », anche se la nascita della Rosa bianca è giudicata «un'iniziativa positiva» dal 27 per cento. Tra gli elettori cattolici si tende infatti alla semplificazione e per lo più alle due formazioni principali: la maggior parte avrebbe desiderato si presentassero senza alleati sia il Pd (53 per cento contro 24, il resto è «non so») sia la sola Forza Italia (41 contro 24). E tra i leader che si vorrebbero come presidente del Consiglio prevale Veltroni (24 per cento), seguito da Berlusconi (18) e Fini (11). A distanza, chiudono Casini con il 5 e Bertinotti con il 3.
Ancora più interessante è l'elenco delle «priorità» (ciascuno dei 505 intervistati poteva elencarne fino a quattro) che il governo dovrebbe affrontare nei primi 100 giorni: «aumentare i salari» (75 per cento), «ridurre il numero dei parlamentari» (50), «ridurre le tasse per le famiglie con figli» (44) e «intervenire per frenare l'aumento di prezzi e tariffe» (42) guidano la lista. Vengono confinati agli ultimi tre posti la revisione della 194 (7 per cento), una legge più severa sulla droga (5) e la legge sulle coppie di fatto (3).
Insomma, ce n'è per tutti i gusti. Per dire: un cattolico può votare una coalizione con i radicali? Il 40 per cento risponde sì, il 35 no. La Chiesa interviene troppo sui temi politici? Il 48 per cento dice di no (con una prevalenza dei «praticanti ») ma il 41 risponde sì (con una prevalenza di chi si dice solo «credente»). Peraltro, il 58 per cento ritiene «opportuno» che la Cei promuova un documento sui valori a beneficio della politica. Morale? «La Democrazia cristiana è morta da un pezzo», scrive Beppe Del Colle. «E, del resto, nemmeno quando era il più forte partito italiano raccoglieva il consenso elettorale di tutti i cattolici».

Rutelli si candida a Roma citando il papa di prima: «Damose da fa’»

Repubblica 19.2.08
Pillola Ru486, medici verso il processo
Torino, sotto accusa il ginecologo Viale e tre colleghi: violata la legge sull'aborto
di Ottavia Giustetti e Sarah Martinenghi


Il pm: dopo aver somministrato il farmaco fecero uscire le donne dall´ospedale

TORINO - Va verso il processo l´inchiesta torinese sulla pillola Ru 486. La fase di indagine è conclusa e la procura si prepara a chiedere il rinvio a giudizio per i quattro medici accusati di aver violato il protocollo sulla sperimentazione dell´aborto farmacologico, cominciata al Sant´Anna nel settembre del 2005. I medici dell´ospedale torinese avrebbero concesso alle pazienti di uscire tra una somministrazione e l´altra del farmaco quando le indicazioni ministeriali lo vietavano. Il principio su cui si basa l´accusa è che l´aborto, secondo la legge, deve avvenire tra le mura dell´ospedale. Ma i medici si difendono dicendo che nel caso della pillola fa fede l´atto volontario di abortire, quindi l´attimo in cui si assume il farmaco e non l´aborto vero e proprio che avviene in un momento non prevedibile.
L´avviso di conclusione delle indagini è stato notificato ieri al ginecologo Silvio Viale, ai due primari Mario Campogrande e Marco Massobrio e all´ex direttore generale Gianluigi Boveri. I reati ipotizzati dal pm Sara Panelli e dai procuratori aggiunti Raffaele Guariniello e Francesco Saluzzo sono quelli di falso ideologico, violazione della legge sull´interruzione di gravidanza, e tentata truffa ai danni della Regione. «Non si tratta di un´indagine che vuole entrare nel dibattito politico o etico sull´aborto - hanno detto i magistrati - ma di un atto dovuto, in seguito alla violazione delle norme che regolano l´interruzione di gravidanza». «Anche se lo spunto per indagare non è stato politico - risponde il ginecologo Silvio Viale - lo saranno le conseguenze. Perché la decisione di rinviarci a giudizio sarà inevitabilmente presa a pretesto da coloro che intendono contestare il diritto della donna ad abortire».
La chiusura dell´inchiesta arriva un anno e mezzo dopo la sospensione della sperimentazione, proprio quando a Torino si ricomincia a parlare di somministrare la discussa pillola abortiva. È Viale, coordinatore del protocollo e pioniere dell´utilizzo del farmaco in Italia, il principale indagato. Secondo l´accusa il protocollo prevedeva espressamente che le donne sottoposte alla sperimentazione avrebbero dovuto abortire dentro le mura dell´ospedale, mentre il medico concedeva loro il permesso di tornare a casa tra l´assunzione di una pillola e l´altra. Viale, a differenza degli altri indagati, deve rispondere anche dell´accusa di tentata truffa ai danni della Regione e di falso ideologico: sulle schede delle pazienti che venivano dimesse non risultavano i permessi di uscita dall´ospedale. In questo modo dunque Viale avrebbe procurato un ingiusto profitto al Sant´Anna, e di conseguenza consumato un tentativo di truffa ai danni della Regione che, basandosi sulle schede, avrebbe poi pagato il rimborso per inesistenti ricoveri. «Dimostreremo che non c´è stato alcun profitto, bensì un risparmio di denaro pubblico» ha spiegato l´avvocato Cosimo Palumbo che assiste il ginecologo Viale. La Regione Piemonte comunque ha già fatto sapere che non intende costituirsi parte civile al processo.
Dopo l´esperienza torinese molti altri ospedali hanno comprato all´estero singole confezioni del farmaco e adesso sono in attesa che arrivi il via libera definitivo del ministero della Salute per l´importazione a livello nazionale. «Temo che un processo a Torino - dice Viale - possa rappresentare un nuovo ostacolo per la conclusione di un iter che va avanti ormai da troppi anni».

Repubblica 19.2.08
Quegli amori di Foscolo
Le infuocate avventure di un amante
di Pietro Citati


Lui le trasmise una malattia venerea. Poi scrisse l´ode "All´amica risanata" in cui cantava "le dive membra" risorte "dall´egro talamo"
Lei era sposata. Si vedevano a casa sua o da amici compiacenti. Trascorrevano molto tempo progettando appuntamenti e sotterfugi
La vita cittadina ruotava intorno alla Scala, il cui vestibolo era quartier generale di damerini, pettegolezzi e scandali
Fu una passione travolgente, durata alcuni mesi. Un volume raccoglie le lettere che lui le scrisse Sembrano una rappresentazione teatrale
Il poeta dei "Sepolcri" ebbe a Milano una travagliata e intensa storia d´amore con la marchesa Antonietta Fagnani Arese
Molte donne avevano costumi liberissimi I loro abiti erano sciolti e lasciavano intravedere il seno e le gambe

Una passione travolgente, un´avventura infuocata vissuta nella Milano di inizio Ottocento e durata solo pochi mesi. Protagonisti, Ugo Foscolo, l´autore dei Sepolcri, e la marchesa Antonietta Fagnani Arese, alla quale avrebbe dedicato l´ode All´amica risanata. Lei era sposata, ma si vedevano a casa del poeta o da amici compiacenti. Ora un volume raccoglie le lettere scritte da Foscolo all´amante. E a leggerle sembrano il testo di una rappresentazione teatrale.

Quando Foscolo vi giunse nel marzo 1801, Milano stava diventando quella città liberissima, bonaria e festosa, che incantò la fantasia di Stendhal. La cortesia non si spingeva, nelle conversazioni, fino all´eroismo della noia, come accadeva in Francia. I cittadini milanesi e i militari francesi vedevano chi volevano e come lo volevano: amavano le donne se esse erano d´accordo, e le abbandonavano o venivano abbandonati quando il tedio cominciava a serpeggiare tra le parole. Ognuno viveva nella massima libertà; e l´esistenza era dedicata allo spirito, agli agi, e ai piaceri.
In quegli anni, apparve sulla scena una nuova generazione di donne. Molte dame del periodo austriaco avevano costumi liberissimi. Ma nessun viaggiatore poteva paragonarle alle contesse, alle marchese e alle ricche borghesi che nel 1801 e nel 1802 percorrevano il Corso in calesse o penetravano nel Caffè dei Servi e nel Caffè delle Sette Colonne: eleganti, brillanti, generose di sé, o almeno del proprio corpo. Nei ricevimenti serali, le loro braccia, il seno, le spalle erano scoperte: il corpo era sparso di fiori, di piume, di ori veri o falsi: una massa di capelli capricciosi o posticci pendeva da un finto baschetto militare; le vesti erano sciolte e aperte, lasciando intravedere gambe e cosce fasciate da sottilissime maglie color carne.
Inaugurato nel 1776, il Teatro alla Scala diventò il salotto mondano della città. «Ci vedremo alla Scala», era la frase abituale. Il vestibolo del teatro era il quartier generale dei damerini, che commentavano gli amori, le avventure, i pettegolezzi, gli scandali, e il passaggio dei cicisbei che davano il braccio a sempre nuove dame. La platea pullulava di ufficiali italiani e francesi, che si insultavano e si azzuffavano al minimo capriccio, o penetravano a forza nei camerini delle ballerine. Quaranta guardie nazionali fingevano di tenere l´ordine: c´erano ubriachi, scapestrati, donne travestite da militari; e molti spettatori tenevano superbamente il cappello in testa, così che gli spettatori delle file successive intravedevano a malapena lo spettacolo.
A nessuno importava quello che accadeva sulle scene: quasi nessuno seguiva l´opera seria o l´opera buffa o il balletto, o solo quando la prima donna gorgheggiava l´aria principale. Nei palchi sedevano le contesse e le marchese, voltando le spalle alla platea, girandosi per chiaccherare con un ufficiale o accostando agli occhi un binocolo rovesciato - segno di disgrazia per il corteggiatore. Qualcuno chiudeva il palco con una tenda: dietro la quale i mariti indossavano la vestaglia e le pianelle, bevevano, gustavano sorbetti, mangiavano, ridevano, giocavano a carte, conversavano ad altissima voce, come se fossero nei loro palazzi. Alla porta del palco bussavano, come scrive Giovanni Pacchiano, ammiratori, corteggiatori, spasimanti, vagheggini, innamorati, adoratori, pretendenti, cascamorti, zerbinotti, patiti, galanti, bellimbusti, ganimedi, elegantoni, mosconi, adoni, profittatori, ruffiani, ufficiali, seduttori - ed uno stuolo volubile e garrulo di dame che si fermavano un istante, ingoiavano un sorbetto, raccontavano un pettegolezzo, dicevano una battuta, e subito si precipitavano a chiaccherare nel palco vicino.
Tra quella folla c´era Ugo Foscolo, nella sua divisa di capitano. Parlava delle ferite, vere o immaginarie, che aveva riportato nell´assedio di Genova. «Aveva folti, ruvidi ed arricciati capelli che rendevano più energica l´espressione del suo estro poetico, e più orribile il suo cupo silenzio e la sua vampa d´ira. Questo suo crine e quelle sue folte ciglia e sopracciglia rossastre, erano simili a quelle selve che a seconda del sereno o del tempestoso cielo abbelliscono o inorridiscono un luogo. I suoi occhi erano grigi tiranti al cerulo, piccini, profondi, acuto vibranti»: così lo descriveva Giuseppe Pecchio. Sebbene si circondasse di un alone di misantropo, che detestava il bel mondo, amava e cercava la compagnia dei ricchi, che a loro volta erano attratti dal suo eloquio fluviale e dai gesti stravaganti e tumultuosi.
Presto le dame sarebbero state affascinate dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis: «pazze e frenetiche per la lettura, - scriveva un maligno lettore di provincia - si strappavano il libro a furore e dicevano che non era mai stata scritta una cosa così bella. Ardevano di conoscere l´autore, lo figuravano per l´uomo più virtuoso e più tenero che vivesse: se costui qui venisse correrebbe pericolo di essere fatto come Orfeo in mille brani». Foscolo non aveva danaro, spesso non riceveva lo stipendio, frequentava le bische, giocava al faraone, viveva a credito: ma le battaglie e la letteratura lo avvolgevano di un fastoso alone romanzesco. Abitava in un quartiere elegante, a via della Spica 789, a pochi passi dal palazzo del conte Marco Arese, che sorgeva sul corso di Porta Orientale.
Il conte Arese era un uomo gentile, amabile e ironico. «Ho fatto rifare la facciata del mio palazzo - diceva - perché tutti l´amassero, e piace solo a me. Ho scelto mia moglie perché piacesse solo a me, e piace a tutti». Quella moglie amata da troppe persone era la marchesina Antonietta Fagnani, che aveva ventitre anni come Foscolo, ed era - secondo Stendhal - una delle sette donne più belle di Milano. Non so in quale conto tenere le incantevoli classifiche di Stendhal. Nei disegni rimasti, la Fagnani non sembra bellissima. Ma aveva «occhi neri e languenti», e un tono di voce «basso e lento», che secondo gli esperti era sempre accompagnata da un «cuore bollente». Sul suo temperamento erotico, ereditato da una madre licenziosissima, tutti erano d´accordo: amava molto, dicevano, amava ardentemente, e nei primi istanti che le entrava nel sangue la «scintilla» amorosa, non aveva pace finché non avesse «accostato l´oggetto del suo desiderio». «Un amante nelle sue mani - aggiunse uno scrittore più volgare - non era né più né meno di un cappone messo in sul piatto di un ghiottone. In pochi momenti non rimaneva che le ossa, e la fame tosto richiedeva altro cibo».
Antonietta Fagnani era colta, intelligente, spiritosa, e conosceva l´inglese e il tedesco. Per Foscolo tradusse il Werther. Vestiva anche lei l´uniforme amata dalle dame di Milano. Portava un berretto rosso: aveva le spalle e le braccia nudissime: una veste di lana bianca, fermata da un fermaglio romano al sommo delle spalle, discendeva in quattro ampie liste senza cintura. Quando la Fagnani si muoveva, quelle liste si scomponevano e si aprivano, «lasciando vedere come di furto e col passaggio repente del baleno, le linee e l´incarnato della sottoposta nudità». Una maglia rosea copriva la carne: «non certo a custodia del pudore, sebbene ad obliqua lusinga di desiderio e a tentazione del sangue».
I due vicini di casa si conobbero non sappiamo quando, forse nel luglio 1801: alla Scala, o in uno dei salotti, dove il tenebroso poeta dai capelli rossastri continuava la sua rapida ascesa sociale. L´amore durò qualche mese, fino al febbraio 1802. Le lettere di Foscolo, in parte divertentissime, permettono di ricostruire la storia nei minimi particolari, che assomigliano a quelli di un racconto galante settecentesco. Non dubito che i due giovani amanti passassero molta parte del loro tempo nel letto di Antonietta Fagnani, dove Foscolo giungeva colla complicità di una domestica: o in casa di Foscolo; o in uno degli appartamenti aristocratici offerti dalla complicità degli amici. Altre ore furono trascorse in conversazione nei caffè alla moda: il Caffè delle sette colonne e il Caffè dei Servi, specializzato in uno squisito caffè con panna, che secondo Stendhal era superiore «a tutto ciò che si trova a Parigi».
Quasi tutto il resto del tempo passò in altre amatissime occupazioni: progettare appuntamenti e sotterfugi, descrivere a vicenda il ritratto e la miniatura desiderati. I segnali amorosi erano innumerevoli: un libro, un fazzoletto scuro o rosso, o un pezzo di carta, o un drappo o un nastro appesi alla finestra di casa Arese, gesti col ventaglio, messaggi cifrati, lettere portate da un vecchio servitore o da una cameriera di lei, o dall´attendente del Foscolo, che il poeta descrisse con la stessa attenzione con cui Fra´ Galgario dipingeva i suoi ritratti di giovane bergamaschi. Quanto al ritratto della Fagnani, Foscolo non aveva dubbi: un paesaggio con qualche albero color fosco, il capo senza acconciatura, i capelli naturali, il braccio nudo, uno scialle nero o di un colore patetico, in mano o sulle ginocchia il Werther o l´Ortis, con il titolo leggibilissimo. Qualche volta abbiamo l´impressione che astuzie e sotterfugi non importassero nulla ai due sfacciatissimi amanti. Entrambi volevano che tutta Milano parlasse del loro «amore celeste», che sarebbe durato in eterno come la loro esistenza.
* * *
L´editore Guanda ha appena pubblicato l´epistolario tra Ugo Foscolo e Antonietta Fagnani Arese (pagg. 286, euro 13,50): con una intelligente introduzione di Edoardo Sanguineti e un ricchissimo e divertente commento di Giovanni Pacchiano. Quasi tutte le lettere della Fagnani mancano; e Foscolo non ci fa sentire mai un´eco della voce di lei o intravedere un suo gesto. Il lettore moderno non trova un vero epistolario d´amore, come per esempio quello meraviglioso tra Goethe e Charlotte von Stein, dove mancano allo stesso modo i testi della corrispondente. Le centotrentadue lettere sono sopratutto una rappresentazione teatrale, dove Foscolo recita, con uno straordinario talento d´attore, tutte le parti suggeritegli dal suo temperamento. Abbiamo il malinconico, il folgorato, l´infuocato, il celestiale, lo sventurato, l´annoiato, lo straniero, l´apprendista suicida, lo sterniano. Il nome di Sterne non deve illudere: in tutte le lettere non c´è mai una traccia, un´ombra o un sospetto di ironia. Foscolo non sa ridere: sopratutto non sa ridere di sé stesso; e il suo Sterne diventa una specie di controfigura di Jacopo Ortis.
Il primo attore è il MALINCONICO: un personaggio, in quei tempi, di straordinario successo. Così inizia la prima lettera: «Io voglio scommettere cento contr´uno che vi siete dimenticata della magra e malinconica persona del povero Foscolo.... Sono stato malato, e malato gravemente; e non credo di esser guarito se non per bevere più amaramente nel calice della vita, di cui veramente sono stanco». E la seconda: «Il tuo povero amico stenta ancora a credere che tu, corteggiata da tanta gente del bel mondo, possa rivolgere gli occhi sopra di un giovane malinconico e sventurato il quale non possiede altro che un cuore che gli fu causa di pianto». Le lettere ripetono sempre la stessa nota: io sono infelice, sventurato, mortalmente triste: qualsiasi cosa possegga, sarò sempre infelice: già da bambino soffrivo di mestizia, e ora la sventura e le passioni hanno fatto diventare profondissima questa mestizia; mi pare di impazzire per la malinconia.
La malinconia si esprime sopratutto con le lacrime; un torrente, un fiume, un diluvio di lacrime, che hanno spesso una qualità spermatica, perché cercano di confondersi con quelle della Fagnani, fino a bagnarla e irrorarla completamente. In quei tempi, le lacrime esprimevano tutti i sentimenti: anche quelli comici; Leopardi e il fratello piangevano di commozione ascoltando Il Barbiere di Siviglia e Cenerentola. In una lettera di Foscolo, ci colpisce una frase: «Io sono forse il mio carnefice». Egli capisce di essere la sola causa della sua tenebrosa passione: essa non dipende dal carattere e dal temperamento; affonda in una colpa tremenda e misteriosa, che offusca completamente il suo cuore.
Sebbene si nutra di lacrime, la malinconia è un fuoco. «Un torrente di fuoco» lo divora: oppure una mano sconosciuta e bruciante gli stringe il cuore, fino a fargli perdere i sensi. Il fuoco non gli lascia requie. La passione va crescendo di minuto in minuto: egli teme di non resistere a questa violenza ardentissima: la passione brucia dentro di lui, eterna e onnipotente, e non può restare chiusa nel suo petto, perché vuole esplodere da tutti i sensi: essa continuerà anche quando Antonietta avrà dimenticato persino il suo nome: l´anima gli viene strappata dall´angoscia; la fantasia è accecata, al punto da farlo tremare per la propria vita. Foscolo pretende che la Fagnani provi lo stesso fuoco, e che i due fuochi si uniscano nel medesimo incendio. «Ti senti capace - le scrive - di darmi tutta la tua anima, di abbandonarti a me solo, di amarmi... e di non sentire in tutto l´universo che me solo, com´io non sento che te?».
Mentre passano i giorni, la fantasia di Foscolo trasforma Antonietta in una divinità terribile. Lei è il centro della sua vita, e senza di lei l´esistenza diventa un nulla. La trova dovunque: persino le camicie e i fazzoletti, le cose più quotidiane gli parlano di lei, che diventa insieme un ricordo incancellabile e un pauroso presente. In qualche lettera, sembra che egli abbia insieme il terrore e il desiderio di venire abbandonato. Vuole essere lasciato, e soffrire atrocemente. «Ogni momento ch´io vivo lontano da te mi pare il preludio di quella eterna separazione che ci aspetta». «Ogni bacio - ripete - è il preludio di quella eterna separazione che forse ci aspetta». Quando la dea onnipotente lo lascerà, egli le consacrerà una «celeste amicizia», nella quale reciterà tutti i ruoli: padre, fratello, amico, sposo, servo. «Io ti sarò tutto tutto».
Il pensiero della morte si insinua in ogni pensiero: come accadeva ad Jacopo Ortis, del quale negli stessi mesi Foscolo narra la storia, copiando frasi delle lettere ad Antonietta. Qualsiasi ipotesi preveda l´immaginazione, la fine è sempre la stessa: la morte. Il sepolcro è già lì, spalancato ai suoi piedi. Se lei lo lascerà, andrà a sospirarla nella solitudine, nascondendole il luogo della propria tomba, perché la sua vista non le suoni come un rimprovero. Se lei morirà, non saprà sopravviverle. L´idea della morte si unisce ai loro abbracci: «Se tu spirassi tra le mie braccia... qual altro rifugio mi resterebbe se non la tua sepoltura?». «Devo io dirti - insiste - il mio unico voto? quando i tuoi sospiri si trasfondono nella mia bocca e mi sento stretto dalle tue braccia... e le tue lacrime si confondono alle mie... sì; io invoco la morte; il timore di perderti mi fa desiderare che la vita in quel sacro momento si spenga in noi insensibilmente e che un sepolcro ci serbi congiunti per sempre». Talvolta, gli sembra che la morte sia già penetrata dentro di lui. Quando cammina, vacilla: ha nausea di ogni cibo: veglia la notte come un cervo amoroso: geme per ore; vive in una profonda apatia, con un dolore al capo, una febbre lenta e un sudore freddo, dimenticando le cose e le persone che un tempo gli erano care.
Durante la tempestosa rappresentazione teatrale, Foscolo tocca tutte le corde, e da ognuna di esse trae un suono lugubre. Ora esalta il proprio orgoglio e la proprie fierezza: ora proclama di amare furiosamente la gloria: ora lamenta la persecuzione di cui è oggetto: ora descrive minuziosamente le proprie malattie: ora parla del vuoto senza scampo della sua anima: ora dell´eterno esilio a cui è consacrato: ora dei suoi incubi: ora ricorda la sua condizione di straniero, cacciato da tutti i luoghi; ora rappresenta la vita come un teatro, dove recitano soltanto fantasmi. Talvolta, appare una nota più delicata: il tempo che gli scivola via tra le mani, sempre più lieve ed effimero. «Io scrivo... e ogni lettera ch´io traccio mi avvisa che la vita siegue con pari rapidità la mia penna. Il tempo vola e divora il creato. Passano l´ore simili alle nuvole cacciate dagli aquiloni. Tutto cangia, tutto si perde quaggiù... tutto! Quelle trecce che tu con tanta cura componi... vedi vedi!.. ti biancheggiano già tra le dita».
* * *
Non sappiamo cosa Antonietta Fagnani pensasse di questa fantastica rappresentazione. Credo che non avesse mai visto ed ascoltato nulla di simile. Sebbene traducesse il Werther, era una robusta lombarda, che amava le feste, la Scala, la sfilata delle carrozze sul Corso, i bei vestiti, il caffè con la panna. Pensava che i capricci amorosi andassero variati velocemente: altrimenti annoiavano. Anche lei si annoiò di quegli esclamativi e di quegli interrogativi inquietanti; e le sembrò che la rappresentazione di Foscolo diventasse monotona. Essere protagonista di un «romanzetto» epistolare non le piaceva: molto meglio un generale francese, o un tranquillo cicisbeo, o un ricco borghese.
Foscolo si accorse che l´amore di Antonietta Fagnani si affievoliva. In un´avventura casuale, prese una malattia venerea, di cui contagiò l´amante, che fu costretta a letto come lui. Poi si annoiò e le scrisse tre lettere d´abbandono: la prima, tenera: la seconda, stentorea; mentre nell´altra, farneticando la accusò di essere il Lovelace femminile e di avergli rapito la salute con un «orribile tradimento». Le liti si placarono: per qualche tempo tra i due si stabilì una specie di amicizia amorosa, durante la quale Foscolo scrisse l´ode All´amica risanata, dedicata «alle dive membra» di lei, che sorgevano «dall´egro talamo» dove lui l´aveva costretta. L´amicizia non fu eterna, come Foscolo aveva promesso. Decine di donne occuparono il letto che Antonietta Fagnani aveva lasciato. Del grande amore rimasero soltanto centotrentadue lettere, che Foscolo tenne gelosamente con sé, perché pensava di ricavarne un altro romanzo epistolare, che forse avrebbe rinnovato il successo dell´Ortis.

dopo l'articolo segnalato ieri
Repubblica 19.2.08

Dibattito in Germania dopo il libro di Schneider
"Il ‘68 macabra riedizione dell’anima nazista"


Storia tedesca. Il dibattito è aperto, quarant'anni dopo.

Già la chiamano "la nuova querelle degli storici": il richiamo è allo scontro sulle origini del nazismo, che decenni fa oppose il conservatore Ernst Nolte agli storici liberal. Oggi però, per la prima volta qui l´oggetto dello scontro è il Sessantotto: per Peter Schneider (di cui Repubblica ha anticipato ieri passi del suo nuovo libro in merito, Rebellion und Wahn, editore Kiepenheuer und Witsch) il Sessantotto fu una rivolta giovanile fallita perché soggiacque ai miti totalitari del comunismo, ma che comunque svecchiò la società tedesca. Per Goetz Aly, ex sessantottino anche lui, gli studenti in piazza di quarant´anni fa furono nel caso tedesco una macabra riedizione dei giovani che negli anni Trenta sfilavano per Hitler.
1968: ein irritierter Blick zurueck (1968: un irritato sguardo indietro), s´intitola il libro appena uscito di Goetz Aly per i tipi di Fischer Verlag, Francoforte. Lo storico, in gioventù, fu estremista di sinistra. Militò nelle Rote Zellen e poi persino nella Rote Hilfe, quel Soccorso rosso accusato di vicinanze con il terrorismo dei successivi anni di piombo.
La tesi di Goetz Aly è dura, tanto che la descrive come «unser Kampf», la nostra lotta. Pesante allusione al Mein Kampf di Adolf Hitler. La rabbia assertiva giovanile, con antisemitismo e antioccidentalismo latente o meno, secondo lui in Germania ebbe caratteri specifici tedeschi. Diversi dal Sessantotto negli Usa, in Francia, a Varsavia o nella Praga di Dubcek. Anche i giovani nazisti, egli sostiene, amavano le Wohngemeinschaften, le comuni abitative, ed esaltavano il sesso. Anche Goebbels, prima di Rudi Dutschke, chiese la formazione di una nuova coscienza rivoluzionaria. Anche i giovani nazisti nel ‘33 dividevano il mondo tra loro, veri uomini, e i nemici, borghesi di vario colore.
Per fortuna, dice Aly, il Sessantotto uscì sconfitto. Ma ha lasciato strascichi negativi. Slogan quali «High sein, frei sein, Terror muss da sein» (essere esaltati, essere liberi, occorre il Terrore). O l´omertà tra molti ex compagni, per cui ancora oggi alcuni delitti terroristi sono casi irrisolti.
Critica, e duramente, verso la degenerazione ideologica totalitaria del Sessantotto è la posizione di Schneider, esposta ieri su Repubblica. Cedendo ai dogmi stalinisti in chiave sentimentale la rivolta perse la sua innocenza. Eppure, egli ammonisce, dallo scontro tra una democrazia importata da Usa e Uk e contaminata dalla presenza di ex nazisti nell´establishment, e quella rivolta giovanile, è nata la società civile più aperta e vivace della

Repubblica Roma 19.2.08
Studente aggredito, corteo antifascista
Virgilio occupato per il 19enne picchiato a Vigne Nuove. "Così mi hanno assalito"
di Tea Maisto


Simone, 19 anni, ha due profonde ferite alla testa. Trauma cranico, gli hanno detto i medici dell´ospedale Sant´Andrea dov´è stato curato domenica. Il trauma cranico gli è stato provocato dai tirapugni con i quali lo hanno aggredito due ragazzi proprio davanti casa. Da anni Simone, militante di sinistra, partecipa alle lotte studentesche e parla di antifascismo nei collettivi, nella sua ex scuola, l´Aristofane, nel suo quartiere, quello delle Vigne Nuove, dove lo hanno aggredito, e nelle manifestazioni con gli altri studenti. «Ero appena uscito di casa con un´amica - racconta Simone, che frequenta il primo anno di medicina - quando ho visto due ragazzi con il volto coperto dalle sciarpe che correvano verso di me. Ho fatto dietrofront e ho cercato di riaprire il portone. Non ho fatto in tempo e mi hanno assalito».
Simone, piccolo di corporatura, capelli rasati e occhiali non aveva ricevuto minacce nei giorni scorsi: «All´inizio sono riuscito a difendermi nonostante fossero più grossi di me. Avranno avuto sui 26-27 anni. Poi hanno tirato fuori i tirapugni e lì ho pensato solo a coprirmi la testa. Non hanno detto nulla, forse temevano che riuscissi a riconoscere la voce, nella zona ci conosciamo tutti. Erano fascisti di Blocco studentesco (associazione di estrema destra, ndr). Mi hanno aggredito per la mia attività politica, ma per fortuna non se la sono presa anche con la mia amica. Il tutto è durato pochi minuti. Sono tornato a casa e poi siamo andati all´ospedale».
Nella notte Simone non sta bene. Febbre, vomito e nausea e ritorna all´ospedale, al policlinico Umberto I. «Mi hanno fatto la tac e hanno confermato il trauma - Non ho presentato denuncia. Mi sembra inutile. So che non gli succederà nulla. Preferisco continuare la mobilitazione antifascista con i miei compagni». E la solidarietà dei suoi compagni si è fatta già sentire: venerdì l´annunciato corteo per l´anniversario della morte di Valerio Verbano, lo studente ucciso dai fascisti nel 1980, sarà dedicato anche a Simone. Ad aprire il corteo gli ex compagni di scuola dell´Aristofane, insieme con tanti altri studenti romani. Il giorno stesso, i ragazzi inaugureranno anche una palestra popolare, negli spazi occupati dell´Ater.
Ma la voce degli studenti antifascisti si è fatta sentire anche nelle scuole. A cominciare dal liceo classico Virgilio. I ragazzi dell´istituto di via Giulia hanno occupato per un giorno simbolicamente l´istituto. «E´ per Simone - spiega uno studente - è stato uno shock per tutti noi. E così abbiamo voluto aprire la scuola alla città democratica e antifascista». Al Virgilio spazio ai laboratori artistici, e al dibattito sull´antifascismo. Proiettato anche il film "Roma città aperta". Mentre all´Aristofane è stato convocato un comitato per esprimere la solidarietà a Simone e organizzare iniziative di mobilitazione. In mattinata conferenza stampa all´Horus occupato, organizzata tra gli altri, dagli studenti medi e universitari e Action: «Vogliamo che strutture come Causa Pound e il Circolo di Casalbertone vengano chiuse». Presente anche Fabio Nobile, consigliere comunale Pdc: «Comincia ad essere stancante fare conferenze stampe su ragazzi picchiati. Bisogna agire, altrimenti il clima diventerà oggettivamente insostenibile». Solidarietà anche da Adriana Spera, capogruppo capitolino del Prc: «Com´è ormai loro abitudine, i nostalgici di Mussolini hanno pensato bene stavolta di fare il loro sporco agguato a Simone, un giovane compagno che svolge lavoro politico nei collettivi romani». Mentre gli studenti antifascisti hanno scritto: «Alla grande mobilitazione antifascista degli studenti dell´8 febbraio, che ha assediato il corteo di Blocco Studentesco, le aggressioni squadriste sono l´unica risposta che i fascisti sanno dare. Ma non saranno certo le aggressioni a fermare le nostre lotte e la nostra voglia di cambiare il mondo».

Corriere della Sera 19.2.08
Dietro l'altolà l'accordo in Vigilanza per la spartizione degli spazi nelle tribune elettorali
Par condicio, prove di grande coalizione
di Francesco Verderami


ROMA — L'offensiva dipietrista contro Mediaset ha messo ieri in difficoltà Veltroni e ha fatto traballare l'asse con il Cavaliere alla vigilia delle prime «prove tecniche» di larghe intese. Prove tecniche che inizieranno oggi in Parlamento e si consumeranno nell'accordo in commissione Vigilanza Rai tra Pd e Pdl per la spartizione degli spazi nelle tribune elettorali sulla Tv di Stato. È un'intesa alla quale gli sherpa dei due leader lavorano riservatamente dal giorno in cui Napolitano ha sciolto le Camere, ed è frutto di «interessi convergenti», di una «comune interpretazione » della par condicio, che sicuramente contrasta con quella delle altre forze politiche — dalla Sinistra arcobaleno all'Udc — e preannuncia uno scontro durissimo anche con Radicali e Socialisti.
Ma ieri Di Pietro ha rischiato di compromettere tutto. La sua proposta di ridurre il Biscione a «una sola rete» ha scatenato la reazione del fronte berlusconiano contro Veltroni. Colto di sorpresa e imbarazzato, il leader democratico ha tentato di limitare i danni: anzitutto ha chiamato l'ex pm, invitandolo a rettificare e a «rispettare il patto di alleanza»; poi si è affidato a Follini, responsabile per le Comunicazioni del Pd, per «circoscrivere l'incidente » con una nota ufficiale. È stato un intervento tampone quello di Veltroni, inviperito per i contraccolpi politici determinati «dalla leggerezza con cui Di Pietro ha rilasciato quelle dichiarazioni », e preoccupato di «riproporre agli elettori un'immagine vecchia »: l'immagine cioè della coalizione prodiana del 2006, e di un leader che non riesce a governare la propria alleanza.
Finora l'ex sindaco di Roma era stato abile a far dimenticare l'Unione e le sue beghe, così com'era stato abile a parlare di sistema televisivo davanti alla Costituente del Pd: sabato aveva affrontato il nodo Rai, rilanciando l'idea del ministro Gentiloni di «autonomizzare » il servizio pubblico dai partiti con la creazione di una «Fondazione ». Oltre non era andato, nè avrebbe voluto farlo. Invece il capo dell'Idv l'ha risospinto su «posizioni antiquate », riproponendo «logiche da espropri » che non hanno più senso: «Di Pietro — si è lamentato Veltroni con i suoi — si è accorto che è nata Sky? Che c'è il digitale terrestre? Che in prospettiva le reti analogiche non sono più il core business del settore?».
È vero. Ma è altrettanto vero che nella sfida di aprile per palazzo Chigi le reti analogiche restano ancora importanti. Perciò oggi in Vigilanza le due maggiori forze inizieranno un gioco di sponda sul regolamento delle tribune elettorali, basato sul voto incrociato di una serie di emendamenti su cui è stato raggiunto l'accordo. L'intento — secondo autorevoli fonti di entrambi i partiti — è garantire che Pd e Pdl sulle reti Rai «non siano danneggiati dalla par condicio». Nessuno accredita ufficialmente l'operazione. Il presidente della Commissione, Landolfi di An, si limita a dire: «Bisogna fare in modo che un "summum ius" — cioè la par condicio — non si trasformi in "summa iniuria" per partiti più rappresentativi ». E il capogruppo democratico Morri sottolinea come sia «ormai evidente che si è costruito un clima mediatico in cui la competizione per il governo del Paese passa tra Pd e Pdl». Più chiaro di così...
A parti rovesciate Sinistra arcobaleno, Udc, Socialisti, Radicali e Destra temono di venir penalizzati nella tv di Stato dall'alleanza Veltroni-Berlusconi. E preparano le barricate sapendo che oggi si disputerà solo la prima fase del match: quella che regolamenta gli spazi di comunicazione fino al 10 marzo. Sarà soprattutto nella seconda fase che si accenderà lo scontro, perché si dovranno stabilire i tempi da assegnare nelle tribune Rai alle liste e alle coalizioni candidate, per il periodo che va dal 10 marzo fino al termine della campagna elettorale. Allora andrà stabilito se anche i programmi giornalistici — da Porta a Porta ad AnnoZero
a Ballarò — dovranno usare il bilancino con «tutti» i partiti e con «tutti» i candidati premier: «È assurdo — sostiene il ministro Gentiloni — equiparare quei contenitori alle tribune, e pretendere un'assoluta parità. Il rischio è non consentire alla Rai di fare informazione».
Ora che non ci sono più solo due coalizioni, Pd e Pdl si alleano contro gli alleati di un tempo e costruiscono le larghe intese sugli spazi in tv. Come dice il democratico Lusetti «competition is competition».

il Riformista 19.2.08
Al voto. D'improvviso la legge elettorale non è più una porcata
Colaninno è la perfetta sintesi del Pd al Nord
di Emanuele Macaluso


Eugenio Scalfari nel suo editoriale domenicale sulle prospettive elettorali scrive: «Il bacino potenziale dei due maggiori contendenti copre il 90 per cento dei consensi. Il restante dieci per cento dovrebbe andare alla sinistra radicale e altri raggruppamenti minori». Siccome i sondaggi più pessimisti dicono che la Cosa rossa è all'otto per cento, Scalfari ci dice che l'Udc, la Cosa bianca, Mastella, Giuliano Ferrara, Storace e la Cosa nera, i socialisti e forse i radicali, si dovrebbero dividere il residuo 2 per cento. Misteri scalfariani. Veltroni ora loda la decisione di Casini di candidarsi autonomamente, dopo aver cercato e trovato un'intesa con Berlusconi per evitare formazioni centriste che disturberebbero il bipartitismo. Tuttavia non ho dubbi che, anche grazie alla campagna mediatica martellante sul voto utile, ci sarà una forte polarizzazione. La legge elettorale infatti, per Repubblica, non è più una "porcata" dato che agevola i "due". E non è più una "porcata" per i "due" dato che, come vediamo, è cominciata la nomina dei parlamentari con decreti veltroniani e berlusconiani. E in queste ore tiene banco il mercatino tra i radicali e Bettini sul numero dei deputati nominabili al fine di cancellare il simbolo dei radicali. I quali sarebbero così alleati di Di Pietro.
Veltroni ha annunciato che al Nord "candida" come capolista il giovane confindustriale Colaninno, il quale, grazie alla legge, è già deputato. A proposito di questa candidatura, fa riflettere il fatto che la storia politico-culturale della sinistra e dei cattolici democratici del Nord, il Pd, nell'Italia di oggi, la sintetizzi in Colaninno.
A destra, con Berlusconi, le nomine dei parlamentari sono sul mercato per contrattare con gruppi e gruppuscoli della destra e reduci dell'Udc, dell'Udeur ecc., per mercanteggiare la presidenza della regione siciliana con il "sicilianista" Lombardo: dalla Lega Nord alla Lega Sud.
Se ci fosse stata la proporzionale, senza premio e nomine di parlamentari, tutto sarebbe stato più limpido: il centro di Casini e Pezzotta (ora lodato) si sarebbe costituito senza sceneggiate, i socialisti e i radicali non avrebbero bussato alla porta di Veltroni e il processo avviato da Bertinotti, per uscire dalle secche in cui si trova la sinistra radicale, sarebbe stato più limpido. La polarizzazione artificiosa e ipocrita, però, non risolve la crisi, la rimanda.
Ho fatto questa premessa per dire che se i partiti "minori" in questa campagna elettorale vogliono avere un ruolo debbono anzitutto denunciare le truffe di un premio di maggioranza anticostituzionale e la sottrazione agli elettori del potere di scegliere i parlamentari. Ancora una volta, quindi, in discussione è il sistema, il funzionamento della democrazia e la governabilità di questo paese. Proprio la governabilità, che dovrebbe giustificare il bipartitismo spurio che vediamo. Intanto i giornali ci informano che con gli schieramenti in campo, al Senato, chiunque vinca si riprodurrà la situazione della passata legislatura. Anzi peggio, perché il sistema parlamentare sarà ancora più logorato. Ma c'è chi dice che in Italia, nelle condizioni politiche di oggi e con questi partiti che sono e non sono tali, si possa fare una grande coalizione come in Germania. Non è un sogno ma solo una mistificazione.

il Riformista 19.2.08
Sindaco. Avvia la campagna citando Giovanni Paolo II
Rutelli parte da Wojtyla e dalle cinquanta chiese
di Paolo Rodari


La citazione di Wojtyla non è casuale. Rutelli, ieri, nell'annunciare ufficialmente la decisione di candidarsi - per la seconda volta - a sindaco di Roma, ha chiuso il suo intervento con l'ormai storica frase che Giovanni Paolo II pronunciò il 26 febbraio del 2004 durante l'udienza ai parroci romani: «Buon lavoro. Mi verrebbe da dire "damose da fa"». Una frase scherzosa, certo, ma che a suo modo testimonia come Rutelli si consideri, e probabilmente sia, un candidato per così dire ecumenico, che, almeno sulla carta, può correre senza rivali in grado di impensierirlo. E quindi anche con il consenso, implicito, di un'istituzione che nella capitale conta più che in ogni altra parte del mondo, anche in termini di voti. Stiamo parlando ovviamente del Vaticano e del vicariato di Roma: 338 parrocchie, diverse centinaia di sacerdoti e di suore, i seminari, gli ordini religiosi, la rete delle associazioni legate alla diocesi.
Rutelli, anche nelle scorse settimane, non ha mancato di sondare il terreno oltre le sacre mura. Tutto è iniziato (ma sarebbe più giusto dire: è ricominciato) lo scorso 1° febbraio quando si è recato nella basilica di San Giovanni in Laterano per i quarant'anni della comunità di Sant'Egidio. Da qui, rinnovata l'amicizia antica e consolidata con uno tra i movimenti ecclesiali più attivi e radicati nella capitale, ha dato il via a un tour di due settimane per verificare quanto fosse ancora saldo il suo rapporto con la città che conta, Chiesa naturalmente inclusa. Partendo da un rapporto di stima e di fiducia di lunga data, quello con il segretario di Stato vaticano Tarciso Bertone. Un rapporto che nel tempo Rutelli ha badato bene a tener vivo: incontri, contatti telefonici, e anche un viaggio in elicottero, quando (era il 17 giugno) fu proprio il vicepremier ad accompagnare Bertone ad Assisi, dove il Papa si era recato per una visita pastorale di un giorno.
Sposato in chiesa con Barbara Palombelli dall'ex prefetto delle Chiese Orientali, il cardinale Achille Silvestrini, e considerato affidabile sui temi considerati "non negoziabili" dalla Chiesa (un'affidabilità guadagnata sul campo anche con l'appoggio pubblico alla scelta astensionista nel referendum sulla fecondazione assistita caldeggiata dal cardinal Ruini), Rutelli può mettere sul piatto della sua candidatura anche le cinquanta nuove chiese costruite durante il suo primo mandato di sindaco della capitale negli anni Novanta. Non c'è dubbio che anche adesso, in questa fase di campagna elettorale, il Vaticano continui a considerare il radicale di un tempo come un interlocutore importante, e anche come un possibile alleato, per stoppare eventuali iniziative del governo uscente sulle questioni eticamente sensibili, a cominciare dall'improbabile, ma pur sempre possibile, licenziamento delle nuove linee guida sulla fecondazione artificiale.
Insomma, un curriculum importante, quello di Rutelli, al quale nessuno sembra in grado di contrapporre qualcosa di altrettanto significativo. O meglio, uno ci sarebbe: Giuliano Ferrara. Nei sacri palazzi nessuno si sbilancia, ma l'impressione è che il direttore del Foglio , se davvero decidesse di entrare in campo nella contesa per il Campidoglio, potrebbe dare del filo da torcere a Rutelli. Anche perché, se i rapporti con il Vaticano e il vicariato di Roma di Rutelli sono storicamente maggiori, non c'è dubbio che Ferrara abbia riguadagnato negli ultimi anni parecchio terreno, e che a lui guardi con più simpatia una parte consistente delle parrocchie e dei sacerdoti. Non è un caso, infatti, che Ferrara abbia fatto il pieno nei teatri della capitale quando ha presentato, anche con esponenti della curia romana, il libro di Ratzinger dedicato a Gesù. E non c'è ovviamente dubbio che la campagna per la moratoria sull'aborto, che pure ha incontrato consensi anche in una parte del mondo laico, è una battaglia che scalda in primo luogo i cuori di settori consistenti di un mondo cattolico che può vedere in lui il paladino della difesa di quei valori non negoziabili per la quale papa Ratzinger si spende senza riserve sin dall'inizio del suo pontificato.
Da un paio di mesi, tra l'altro, si segnala un'attenzione assai alta a questi temi anche da parte di due media vaticani che storicamente preferivano dedicarsi di più alla vita e alla missione della Chiesa che ad analisi e interventi diretti sulle questioni più rilevanti nel dibattito pubblico, l'Osservatore Romano di Gian Maria Vian e l'agenzia Fides di Luca De Mata. Quest'ultima ha recentemente deciso il raddoppio dei lanci, dedicando giornalmente diverse notizie al mondo di internet e, in questo mondo, a quei siti che difendono senza mediazione la vita dal concepimento alla sua fine naturale.

il Riformista lettere 19.2.08
La 180 dimenticata

Caro direttore, la legge 194 sull'aborto è stata dissotterrata - nonostante i suoi effetti positivi, con buona pace di tutti - da ammirati intellettuali colti da turbamenti etici di lunga data. La legge 180, meglio nota come "Basaglia", ancora incompleta nelle linee riguardanti il sostegno alle famiglie disperate per l'abbandono totale nelle problematiche psichiatriche irrisolvibili in casa, non ha avuto il merito e il rilievo necessari a onta della buona volontà degli operatori. Perché questa situazione di stallo non tocca il cuore di qualcuno? Perché ci si limita a dire semplicemente che "non si tocca"? Da anni ci sono associazioni di famiglia colpite da insostenibili problemi. Eppure nessuno le degna di ascolto.
Luigi Mengoni Ascoli Piceno


Liberazione 19.2.08
Ieri, riunione di direzione ed esecutivo. Via alla campagna elettorale: domani con Bertinotti all'Eliseo
Giordano: «Parità uomo-donna in Parlamento»
Appello del segretario del Prc alla Sinistra
di Angela Mauro


Giordano: in programma salari e diritti civili Sintesi della relazione alla Direzione Nazionale del Prc del Segretario Franco Giordano

L'improvvisa campagna elettorale è una sfida impegnativa, ma «contiene potenzialità». In una riunione della direzione e dell'esecutivo nazionali del Prc segnata da evidenti tracce di smarrimento, Franco Giordano gioca la carta dell'ottimismo. E' una «campagna elettorale che serve a prendere voti e a determinare eventi politici», dice il segretario. Una campagna «costituente» del nuovo soggetto unitario della Sinistra Arcobaleno, come dice a più riprese anche il candidato premier Fausto Bertinotti. Una prova, quella del voto di aprile, importante per la nuova creatura politica, ma non esaustiva. «Non vi legherei le sorti del nuovo soggetto», dice Giordano respingendo le osservazioni di chi, nel dibattito in direzione, teme un effetto tenaglia: "successo del simbolo unitario alle urne uguale scioglimento del Prc; insuccesso del simbolo unitario uguale fallimento del processo comune". Serve «convinzione», ribatte il segretario. E «solidarietà tra i gruppi dirigenti». Innanzitutto, mette in chiaro, «meno male che c'è il simbolo unitario, pur con tutti i ritardi: di fronte Pd e Pdl non si poteva andare divisi». Il punto sembra chiaro alla maggior parte degli intervenuti, ma non mancano le critiche e la giornata si conclude con un appello del segretario alla «moratoria del dibattito interno fino al voto». Per dire: i posizionamenti congressuali inizino dopo le elezioni.
La campagna elettorale. Domani, la Sinistra Arcobaleno presenta una bozza del suo programma al Piccolo Eliseo di Roma, con Bertinotti. In settimana, incontri con associazioni e movimenti. Il 23 e 24 febbraio, «primarie sul programma». Primo weekend di marzo, iniziative con i leader nelle maggiori città. «Il messaggio è semplice - dice Daniela Santroni, responsabile Comunicazione di Rifondazione - Pd e Pdl cercano voti al centro. Noi siamo l'unico, affidabile punto fermo: la sinistra, da sempre a sinistra, di parte». La decisione di Casini di correre da solo incrementa i movimenti al centro che accentuano la «fine del bipolarismo», è sicuro Giordano. La campagna elettorale «non è una sfida a due e farebbero bene ad accorgersene anche Rai e Mediaset». Quanto a Veltroni, benché partito in quarta con il suo bus in giro per la penisola, non fa paura, dice il segretario: «Segna false distanze tra se stesso e il fallimento del governo Prodi, le sue proposte sono le stesse che hanno provocato la delusione degli elettori». Esempi: «Diritti civili: il Pd non ha sciolto i nodi. Ambiente: nel Pd ci sono forze non interessate a scelte ambientaliste, c'è un conflitto di interessi. Salari: non bastano i mille euro al mese per i precari, serve il salario sociale». «Voto utile a sinistra. Antidoto alla Grande coalizione», è lo slogan della campagna, ufficioso, ultragettonato. Sullo sfondo della direzione, per la prima volta, il simbolo unitario «La Sinistra, l'Arcobaleno», al posto della bandiera del Prc. Resta il nodo sulle candidature per le liste unitarie. Giordano è determinato sulla parità di genere e chiede agli alleati di far proprio il concetto.

Siamo entrati in una campagna elettorale quasi improvvisa in cui siamo opposti a due candidati maestri della comunicazione: Veltroni e Berlusconi.
L'insidia più grande, esplicitata da tutti, è la polarizzazione del voto su PD e PDL e la personalizzazione della campagna elettorale nei confronti dei rispettivi leader. E' proprio l'attuale legge elettorale, che noi abbiamo cercato di cambiare, a favorire questo contesto, in quanto prevede il premio di coalizione ed enfatizza la logica dell'alternanza. Il punto vero è che con queste elezioni si vuole accelerare il processo di americanizzazione della società italiana e della politica. La campagna elettorale italiana sembra una appendice di quella americana persino nelle sue forme concrete: l'obiettivo è quello di far scomparire i soggetti reali, le forme di protagonismo e quelle della partecipazione democratica. Non v'è alcuna discussione sul bilancio politico del governo Prodi e sulle cause della sua caduta, ciò avviene per lasciare spazio al modello mediatico americano di campagna elettorale. In sede di CPN faremo una discussione approfondita sull'esperienza di governo, in quanto questo ha generato grandi delusioni ed una sofferenza nel nostro popolo a causa delle forti aspettative di cambiamento dopo i 5 anni del governo Berlusconi. In particolare dobbiamo analizzare le resistenze ed il boicottaggio di aree centrali della coalizione alla realizzazione del programma e la loro permeabilità ai condizionamenti imposti dai grandi poteri rappresentati dalla rendita finanziaria, da Confindustria e dalle gerarchie ecclesiastiche. Questa discussione di merito è scomparsa nel dibattito politico ed anche le TV hanno assunto come paradigma centrale quello della sfida a due, tipica del modello americano. E' nostro compito far capire che c'è un'ipotesi alternativa in campo e che la sfida a due è falsa, in quanto sovrapposta alle diverse realtà politico-culturali presenti nel paese. La nostra campagna elettorale deve essere vista come l'accelerazione della nostra iniziativa unitaria, come l'investimento sulla sinistra unitaria e plurale, facendolo vivere nei territori e dal basso con una diffusione articolata e di massa, senza attendere una legittimazione mediatica che possa far emergere l'alternativa del nostro progetto a quello di PD e PDL. Vanno coinvolte realtà esterne ai quattro partiti, rendendole protagoniste e va rotta l'attesa mediatica investendo sulla partecipazione di massa come unica vera sfida: le associazioni hanno lanciato l'ipotesi del tesseramento unitario al soggetto ed io credo che noi dobbiamo sostenerle con forza. L'oggetto della nostra campagna è la costruzione di un soggetto unitario realmente innovativo in quanto sperimenta modalità nuove anche nella stessa forma partito dove soggetti politici organizzati, associazioni, movimenti e singoli individui sono tutti impegnati in questo percorso. La campagna elettorale deve essere militante e mobilitante in modo da motivare il popolo del 20 ottobre che oltre a chiedere una svolta sulle politiche di governo, è stato protagonista dell'accelerazione del percorso unitario e plurale. Dobbiamo mettere da parte le polemiche strumentali e sulla questione del simbolo voglio essere chiaro: non è in discussione il nostro simbolo, ma abbiamo scelto quello più coerente col progetto presentato l'8 e 9 dicembre. Fra l'altro, altre volte i comunisti sono andati al voto senza falce e martello: penso al caso dei Progressisti o, più a ritroso, a quello di Bologna con le due torri, del Fronte Popolare con l'immagine Garibaldi o alla Trinacria in Sicilia. Mi meraviglio che l'enfasi identitaria emerga proprio a ridosso delle elezioni più che nella pratica politica quotidiana. Ritengo, invece, che sia utile investire sul nuovo simbolo anche perchè uno studio da noi commissionato rivela che esso sia apprezzato da un ampio elettorato di sinistra molto più di quello che includerebbe i 4 simbolini, e come proprio il popolo di Rifondazione sia quello con maggiore vocazione unitaria. La polemica è strumentale sia se sollevata per mero posizionamento congressuale, dato che non è in discussione la nostra autonomia politica ed organizzativa, sia se alimentata da forze esterne che vogliono fare uso del simbolo stesso.
Anche sulle liste decideremo in sede di CPN, previa consultazione nei territori. Procederemo nel rispetto dei criteri stabiliti a Carrara, per un rinnovamento politico e generazionale, ponendo il tema della democrazia di genere anche alle altre forze che compongono con noi le liste unitarie ed investendo sull'alternanza uomo-donna per garantire una democrazia di genere effettiva. Anche la rappresentazione di tutti i territori deve essere garantita, favorendo il maggior coinvolgimento possibile.
C'è un terremoto politico che va indagato: siamo in presenza di un elemento di semplificazione che dobbiamo far emergere. Da una parte una destra aggressiva e pericolosa che impasta populismo e liberismo, che espelle da sé le aree più moderate prospettando una società competitiva e autoritaria e che si candida a rassicurare ciò che Bauman definisce "paura liquida", la paura immateriale; una destra xenofoba e razzista che ha come nemici i migranti e tutte le forme di diversità, nonché la concezione stessa delle libertà, altro che partito delle libertà, ed ha come nemico giurato l'uguaglianza sociale. Dall'altra parte, invece, un centro che è contenitore di spinte più diverse e non un partito coeso con un progetto condiviso, che propone un moderno governo interclassista della società, ma con i piedi ben saldi nel sistema delle compatibilità confindustriali. Gli stessi 12 punti ne sono l'emblema e persino l'assunzione della modifica della struttura contrattuale prefigura un'idea di relazioni sociali che penalizza la contrattazione collettiva nazionale ed accentua l'importanza di quella di secondo livello, differenziando ulteriormente le condizioni di lavoro e rimuovendo, così, il tema dell'uguaglianza.
Il punto programmatico sulle grandi opere non risolve il tema dell'aggressione capitalistica all'ambiente e colpisce le stesse comunità che si sono impegnate nell'attuazione di pratiche a difesa dei territori non in un'ottica particolaristica e corporativa, ma secondo una logica di rafforzamento del legame sociale e comunitario.
L'ambiente risulta essere una mera questione culturale ed è devitalizzato, senza alcuna traduzione sul terreno della politica.
La stessa campagna sulla riduzione delle tasse è del tutto simile a quella fatta dalle destre poiché non si posiziona sull'asse della giustizia sociale e della redistribuzione del reddito: anche noi siamo per l'abbassamento delle tasse, ma per quelle sul lavoro dipendente e, contemporaneamente, proponiamo l'aumento della tassazione delle rendite finanziarie e la lotta all'evasione fiscale, mentre loro puntano ad una riduzione generalizzata. Il modello di società prospettato dal PD è lontano da quello nostro.
V'è una sussunzione del tutto dal punto di vista culturale e la devitalizzazione politica degli attori sociali più rappresentativi. In definitiva, oltre alla destra, c'è un centro che raccoglie un po' di tutto al suo interno ed un centro più ridotto che accoglie elementi di entrambi e che si prepara ad offrirsi in futuro per una grande intesa sul modello europeo, come accade esplicitamente in Germania o come accade in Francia dove Sarkozy propone relazioni con segmenti sociali e culturali radicalmente diversi e variegati. Il rischio è quello che prevalga l'idea di un governo della compatibilità politica nel quadro delle larghe intese, come strumento di contrasto della crisi della politica che divampa in tutto il continente.
Per questo ritengo che dobbiamo far emergere l'idea del voto utile e necessario a sinistra. Dobbiamo spiegare che il voto a sinistra garantisce la tutela di interessi sociali che rimarrebbero senza rappresentanza e, senza essere aggressivi, ma con determinazione, dobbiamo far emergere l'idea di alternativa di società alle destre e la fermezza sulla nostra indisponibilità alle larghe intese. Il voto a sinistra può persino permettere un'apertura del PD ed il condizionamento della sua evoluzione: più forti siamo, più potranno emergere le contraddizioni in seno al PD. Siamo contrari anche ad un progetto istituzionale che faccia da cornice alle larghe intese, penso al presidenzialismo ed all'impianto autoritario prospettato da entrambi i fronti.
Ritengo che al centro della campagna elettorale dobbiamo intrecciare tre grandi questioni: quella morale, quella sociale e quella relativa ai diritti civili.
Sulla questione morale dovremmo dare il segno non solo del degrado della politica ma anche della rottura delle sue forme di autoreferenzialità e separatezza, del fatto che il conflitto è stato espulso da una politica priva di vitalità. Oggi la questione morale si aggrava perchè s'impasta con una crisi sociale esplosa nel paese che va affrontata con la partecipazione. La questione sociale è decisiva per noi, va riproposto il tema della valorizzazione del lavoro dopo decenni di sua costante svalorizzazione, a partire dalla lotta alla precarietà non come patologia, ma come fisiologia della struttura produttiva del nostro paese nel sistema della globalizzazione capitalistica.
La questione salariale è anch'essa legata alla precarietà e rappresenta un'emergenza a cui porre rimedio, a partire dall'utilizzo dell'extragettito in favore del lavoro dipendente, così come previsto dall'art 1 comma 4 della finanziaria, e contrastando il progetto sia del PD che del PDL di legare i salari alla produttività.
Proponiamo l'introduzione di un salario sociale per tutelare le fasce più colpite dal fenomeno della precarietà, in primis i giovani. L'Italia, infatti, insieme alla Grecia è l'unico paese in Europa a non esserne dotata. Penso che esso debba essere garantito nell'arco di tempo che va dalla fine di un rapporto di lavoro e l'inizio di quello successivo.
Sui diritti civili è in atto una curiosa tentazione di rimuovere il tema della legge 194 dalla campagna elettorale perché si vuole ridurlo a mero fattore di coscienza. Noi dobbiamo valorizzare la straordinaria mobilitazione delle donne che rappresenta un simbolo di civiltà per il paese e di libertà per tutte e tutti. Non penso che si voglia realmente modificare la legge 194, ma cosa ancor più grave, ritengo che così facendo si voglia colpevolizzare le donne, cambiare il contesto culturale, colpendo libertà e comportamenti tramite il controllo dei corpi in maniera da aprire un fossato che, in futuro, renda la legislazione permeabile alla modifica della 194 e contraria alle unioni civili.
Ci sarà un primo appuntamento mercoledì prossimo al Teatro Eliseo con Fausto Bertinotti in cui si discuterà della bozza di programma, seguiranno il 22 e 23 febbraio altre iniziative in tutti i territori. La bozza può essere modificata ed arricchita e va aperta a tutti i soggetti che partecipano al processo unitario.
All'inizio di marzo ci sarà l'apertura di campagna elettorale unitaria in tutti i capoluoghi di regione. Alle elezioni politiche si aggiunge la partita delle amministrative in occasione delle quali spingiamo per liste unitarie e segno grafico comune: tuttavia, non vi sarà una pedissequa imitazione delle alleanze a livello nazionale, ma le realtà locali godranno di libertà nella costruzione di eventuali programmi comuni con il PD o eventuali altre forze del centro-sinistra.
L'occasione delle elezioni va colta anche per definire il soggetto unitario a sinistra. Fausto è il candidato migliore per autorevolezza, forza, per la sua capacità di innovazione politica e culturale e perché ha investito da sempre sul soggetto unitario. Senza il progetto unitario già avviato, oggi saremmo in crisi, invece abbiamo finalmente la possibilità di far valere una sinistra autonoma, anticapitalista, ecologista e femminista, che guardi al governo solo come un mezzo di trasformazione della società.
Oggi si gioca un pezzo di storia del paese: la rappresentanza autonoma del lavoro e l'ipotesi di trasformazione in Italia e in Europa. E' indispensabile, pertanto, un senso di responsabilità collettiva nel partito e si deve discutere in maniera unitaria su come affrontare al meglio questo difficile passaggio. L'Italia ha bisogno di una sinistra forte. Noi siamo all'altezza di questa sfida e, per questo, possiamo vincerla.