venerdì 22 febbraio 2008

coincidenza degli opposti o solo "ma anchismo" qualunquistico e arraffone?
l’Unità 22.2.08
Pd-Radicali, arriva l’intesa
Binetti e aborto: «Una relazione annuale sulle patologie fetali»


«È arrivato il momento, a 30 anni dalla 194, di fare il tagliando alla legge. E di vedere gli obiettivi che sono stati raggiunti, e quelli rimasti sullo sfondo». La senatrice Paola Binetti spiega così le ragioni della mozione sull’aborto al programma del Pd presentata insieme ad Anna Finocchiaro. Il senso è quello di rendere l’aborto sempre meno necessario potenziando soprattutto i servizi, ma anche - ed è questa la novità - una relazione annuale al Parlamento sulle patologie fetali. La richiesta arriva naturalmente sulla scia delle polemiche per il caso Napoli, quello della donna che ha abortito con la polizia in corsia. E dice che, nel caso di aborti terapeutici, vengano tenuti in adeguato conto «i progressi fatti dalla medicina» e le ricerche scientifiche compiute negli ultimi decenni. Come dire: la legge 194 non dice che si può sottoporsi a un aborto terapeutico perché il feto ha una patologia invalidante. Dice solo che se questo è psicologicamente gravoso per la madre si può intervenire. Ecco, la mozione Binetti-Finocchiaro comincia a introdurre un nuovo concetto: e cioè che quello che poteva essere difficile per la madre trent’anni fa oggi potrebbe essere molto più accettabile visti i progressi della medicina. Un feto con una patologia grave che prima nasceva e viveva male, oggi vive meglio. «Si sono accresciute - spiega Binetti - le possibilità di intervento terapeutiche sul feto per annullare o contenere alcune malformazioni». Un altro passaggio caro soprattutto ai teodem è quello che chiede al governo di «contrastare ogni interpretazione difforme della 194 che incoraggi il ricorso a mezzi abortivi diversi da quelli previsti dall'ordinamento. Metodi che possono indurre una privatizzazione dell'aborto».

l’Unità 22.2.08
La Sinistra radicale insulta Ichino: «Servo del padrone...»
Il candidato del Pd duramente criticato. Ferrero: dalla revisione dell’articolo 18 danni enormi per i lavoratori


CONTESTAZIONE È polemica tra Partito democratico e Sinistra per la candidatura, nelle liste che sosterranno Veltroni, di Pietro Ichi-
no, il giuslavorista che più volte ha assunto posizioni critiche nei confronti del sindacato e dei partiti che adesso si sono fusi nella Sinistra Arcobaleno.
Già deputato del Pci negli anni ottanta, Ichino candidato nel Pd ha suscitato diverse reazioni tra gli esponenti politici della così detta Sinistra radicale.
Marco Rizzo ha definito Ichino «servo del padrone». Ma lo scontro è soprattutto sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il divieto di licenziamento senza giusta causa è giudicato dal professore come un lascito del passato, che può essere messo in discussione, con l’obiettivo di convincere le aziende ad assumere di più. La modifica secondo Ichino «sarebbe una misura molto incisiva contro l’abuso del lavoro precario».
Per il ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, la proposta «di Pietro Ichino di rivedere l’articolo 18, mascherata sotto forma di intesa tra imprese e lavoratori, in realtà non è altro che un’arma in più nelle mani delle imprese che recherebbe danni enormi per i lavoratori. Ichino, dietro un giro di parole, di fatto smonta una garanzia perché senza l’articolo 18, che garantisce che il licenziamento non possa avvenire se non in presenza di una giusta causa, si consegna di fatto il diritto di licenziamento alle imprese. Sono quindi totalmente in disaccordo e propongo al contrario l’estensione dei diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento, compresi quelli assicurati dall’articolo 18».
Per Franco Giordano l’ingresso di Ichino e quello dei radicali è «il segno di una medesima scelta di campo del Pd: quella in favore di una politica economica di stampo liberista». Allo stesso modo la pensa Diliberto, che accusa Ichino di «voler cancellare l’articolo 18, come Berlusconi».
Un giudizio severo viene da Cesare Salvi, che immagina con preoccupazione Ichino ministro del Lavoro in un governo Veltroni: con lui, sostiene, si arriverebbe ai «licenziamenti facili».

l’Unità 22.2.08
Cambogia, l’inferno che cambiò Terzani
di Gabriel Bertinetto

MEMORIE L’incontro con la tragedia dei khmer rossi nel libro postumo del grande corrispondente. In Fantasmi, tra rigore e disillusione, un momento topico nella biografia del giornalista che proprio allora conobbe una svolta decisiva

La svolta nel percorso umano e professionale di Tiziano Terzani è datata 6 giugno 1976. Quel giorno il settimanale L’Espresso pubblica la corrispondenza in cui si racconta il cambio di governo a Phnom Penh. I khmer rossi hanno preso il potere già da un anno, ma sinora la «Repubblica democratica di Kampuchea» ha avuto come capo di Stato nominale l’ex-re Sihanouk. Sihanouk ora annuncia le dimissioni. Cade il simulacro di un’alleanza fra tutte le forze nazionali ostili al governo fantoccio che gli americani avevano messo in piedi nel 1970 per poter meglio combattere la loro guerra d’Indocina. I khmer rossi non hanno più bisogno di coperture formali. Pol Pot è il nuovo primo ministro. Annota Terzani: «Nessuno fuori dalla Cambogia ha sentito questo nome prima d’ora». Se ne sentirà parlare tantissimo negli anni a seguire. Ancora oggi quel nome è associato alla memoria del rivolgimento politico più ferocemente radicale che l’umanità abbia conosciuto in epoca moderna. Tre anni e mezzo di annichilimento fisico, culturale, sociale, nel nome di un progetto di palingenesi che prevedeva di costruire l’utopia comunista del futuro sull’azzeramento completo del passato.
Per la Cambogia la svolta è già avvenuta il 17 aprile del 1975, quando l’esercito di guerriglieri-contadini laceri e scalzi ha invaso le strade della capitale Phnom Penh ed ha immediatamente avviato la gigantesca deportazione dei suoi abitanti verso i campi di lavoro nelle campagne, nella jungla.
Per il grande inviato di guerra, innamorato dell’Asia, del mestiere giornalistico, degli ideali socialisti, la svolta inizia in quel giugno del 1976 in cui gli eventi lo costringono a rielaborare la sua visione della vita e del mondo. O perlomeno, è qui che ci sembra di coglierla nel suo momento di maturazione drammatica, in cui la nostalgia di un magnifico sogno infranto si fonde con l’obbligo di fare i conti con la realtà. Qui, in questo articolo del giugno 1976, raccolto nel volume Fantasmi dall’editore Longanesi assieme ad altre corrispondenze cambogiane uscite su vari giornali italiani e stranieri in un arco di tempo che spazia dal 1973 al 1993. Vediamo il professionista onesto mettere i lettori al corrente dei dubbi che stanno inesorabilmente affiorando in lui. Saltano i vecchi schemi di analisi, la realtà si presenta con più facce, ed emerge il timore che quella meno bella e gloriosa corrisponda purtroppo maggiormente al vero.
«I racconti dei rifugiati cambogiani - scrive Terzani - descrivono i khmer rossi come una banda di assassini assetati di sangue... I dettagli delle esecuzioni sono raccapriccianti. Per risparmiare le pallottole i condannati sarebbero stati finiti a colpi di bastone e di baionetta o soffocati con sacchetti di plastica legati attorno al collo. I bambini sarebbero stati semplicemente squartati o presi per le gambe e sbatacchiati contro gli alberi. Quanti i morti? Mezzo milione, settecento, ottocentomila. Un vero genocidio, dicono i rifugiati». Tiziano non può fare a meno di registrare quelle testimonianze. Ed è evidente che non sono solo raccapriccianti in sé, ma bruciano come altrettante coltellate al cuore per l’idealista che vede sgretolarglisi davanti agli occhi l’amato castello di convinzioni e di speranze. La prosa esprime obiettività narrativa e tormento interiore: «Le prove? Decisive, inconfutabili, nessuna. Anzi, ogni documento che dovrebbe avallare la storia dei massacri è così poco credibile da far pensare che il tutto sia un’abile montatura». Il giornalista espone i fatti e cerca di trovare un filo logico, una chiave esplicativa: «I massacri sono dunque una montatura propagandistica dei nemici della Cambogia, come affermano le autorità rivoluzionarie di Phnom Penh? O qualcosa di terribile è davvero successo nel paese, che è poi stato esagerato e distorto dalla propaganda anticomunista?». «La seconda ipotesi - conclude Terzani, quasi rassegnato a quella terribile ammissione -, è più verosimile».
Il giornalista cerca di spiegare, si aggrappa alle circostanze storiche per giustificare avvenimenti che lo lasciano ora perplesso, ora disgustato. L’evacuazione manu armata della capitale dipese dal fatto che la città era senza riserve di cibo. «L’unico modo di sfamare la gente era mandarla nelle campagne dove anche le radici di alcune piante potevano in un primo momento tenere in vita la gente... Il lavoro più o meno forzato dell’intera popolazione nei campi o alla costruzione di un intero nuovo sistema di irrigazione fu una decisione ugualmente dura, ma obbligata».
Cinque anni dopo, il velo è squarciato. Il 7 aprile 1980 Terzani narra così per il settimanale tedesco Spiegel il suo viaggio attraverso la Cambogia: «Dovunque mi sono fermato, spesso per caso ... sono incappato nelle fosse comuni, negli ex-campi di sterminio di Pol Pot. A volte traversando una risaia mi è stato impossibile non cammninare sui resti di gente massacrata fra il 1975 ed il 1978 dai khmer rossi». La settimana seguente il reportage prosegue con una serie angosciante di orrori meticolosamente documentati, che sfociano in immagini di cupa amarezza: «La Cambogia è sempre stata un paese di leggende e fantasmi... Oggi ogni collina, ogni fiume, ogni pianura, ogni pozzo, ogni stagno è popolato di terrificanti storie di fantasmi, tutte legate ai massacri e alle fosse comuni di Pol Pot».
Aveva già usato quel termine, «fantasmi» - che dà il titolo al libro -, varie altre volte nelle corrispondenze cambogiane. Ma era per designare l’incertezza ed il dubbio. Fantasmi erano i leader del movimento insurrezionale alla macchia, Khieu Samphan ed altri, che la propaganda di Lon Nol dava per morti, e ricomparivano invece continuamente come protagonisti di gesta che la fantasia popolare riportava amplificate e circonfuse di aspetti talvolta leggendari. Erano quei fantasmi presunti ad avere poi trasformato la vita dei connazionali in una concretissima spettrale ossessione.
Spiega Angela Staude, la vedova, nella prefazione: «Con i khmer rossi il sogno socialista con cui Tiziano era partito per l’Asia si trasforma in un incubo. Siccome con la Cambogia si apre e venticinque anni dopo si chiude la sua vita di corrispondente dall’Asia, sembra quasi che la sua storia personale e quella recente cambogiana siano andate di pari passo, che l’una abbia inseguito i meandri dell’altra».
Molto tempo dopo la caduta dei khmer rossi, negli anni Novanta, Terzani torna ancora varie volte in Cambogia. L’Onu vuole mettere in moto un processo di pace e organizzare elezioni. A Pattaya, in Thailandia, si svolge una conferenza internazionale per coinvolgere nelle trattative gli stessi khmer rossi che dopo essere stati rovesciati avevano continuato a resistere nella jungla grazie all’aiuto americano e cinese. La real-politik della guerra fredda dava meno importanza alle atrocità da loro commesse che alla loro ostilità verso il governo filo-vietnamita e filo-sovietico installatosi a Phon Penh. A Pattaya Tiziano intravede Khieu Samphan, complice di Pol Pot nel genocidio, e sente che i diplomatici lo chiamano “eccellenza”. E commenta: «Mi sento addosso la paura dei vecchi fantasmi della depressione, sempre pronti a riprendermi alla gola». Oggi se fosse ancora in vita si consolerebbe forse sapendo che, seppure con enorme ritardo, per quei crimini Khieu Smaphan ed altri sono sotto processo.

l’Unità 22.2.08
Cenacolo, quell’apostolo è una donna
Ora vi spiego quel genio di Leonardo
di Dario Fo

Anticipiamo, in un pezzo che parte dalla prima pagina del giornale, un brano della lezione che Dario Fo terrà domenica sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma (ore 20). Il premio Nobel presenterà il volume «Leonardo, l’Ultima Cena-Indagini, ricerche, restauro» (a cura di Giuseppe Basile e Maurizio Marabelli, Nardini Editore) e subito dopo terrà una lezione-spettacolo sullo stesso argomento.

LEZIONE-SPETTACOLO domenica prossima all’Auditorium di Roma. Il premio Nobel parlerà, a modo suo, dell’Ultima Cena: gestualità, ritmica e ambiguità degli apostoli radunati attorno a Cristo

Quasi tutte le guide che illustrano ai visitatori il Cenacolo di Leonardo si soffermano abbondantemente sulla scansione dei personaggi: «Osservate come gli apostoli siano radunati a gruppi di tre, mentre nel mezzo, quasi isolato e inscritto in un perfetto triangolo equilatero, sta il Cristo come assorto con le mani stese, quasi abbandonate sul tavolo».
Ancora descrivono le guide: «Alla destra di Gesù vediamo l’immagine di quello che è comunemente chiamato Giovanni o l’apostolo prediletto del Salvatore».
Osservandolo però con attenzione viene il fiero dubbio si tratti di una giovane donna. A questo riguardo sono nate dispute alle volte feroci. Uno dei libri di maggior successo degli ultimi vent’anni, che ha fatto grande scandalo, Il codice da Vinci di Dan Brown, si muove proprio dal presupposto che questo apostolo sia di sesso femminile, anzi più esattamente sia la Maddalena, che la tradizione popolare e più di un Vangelo apocrifo indicano come la moglie di Gesù.
Qualche anno fa, a Palazzo Reale a Milano, fu allestita una grande mostra dal titolo Il genio e le passioni in cui venivano esposti diecine di dipinti, tutti raffiguranti l’Ultima Cena, eseguiti da allievi ed epigoni di Leonardo; inoltre nella prima parte della mostra erano esposte tavole, miniature e strappi di affreschi realizzati da artisti vissuti prima di Leonardo. Nella gran parte di queste Ultime Cene si nota sempre la presenza di una donna vicino a Gesù, evidentemente la Maddalena che spesso si ritrova abbandonata fra le braccia del Messia.
Tornando all’Ultima Cena di Leonardo, le figure, con la loro gestualità e in particolare col movimento delle braccia, del corpo e delle mani, producono un agitarsi quasi di onde marine che disegnano archi distesi e spezzati, arabescanti su se stessi.
Flutti che scendono e riprendono, sorpassando, la figura di Cristo che sta immobile come inscritta dentro una piramide.

l’Unità 22.2.08
Ristampe. La storia clinica di Renée raccontata dalla sua analista: un viaggio attraverso la sofferenza che si fa poesia
Torna il «Diario di una schizofrenica». Da rileggere
di Danilo Di Matteo

Perché rileggere dopo tanti anni Diario di una schizofrenica?
Tante le possibili risposte. Innanzitutto per cogliere la tensione e il contrasto fra la poeticità della narrazione di Renée e delle immagini che ella usa e la gravità dei sintomi che descrive. Sì, come acutamente notato nella presentazione da Cesare Musatti, la sofferenza, rivisitata e quasi rivissuta dopo la guarigione, si fa poesia.
Così nella dimensione dell’irrealtà la luce può essere implacabile e senza ombre; il «paese della Luce» è la metafora del delirio, di un altro mondo persecutorio; gli oggetti più familiari divengono presenze sinistre e minacciose; i corpi si muovono come automi, inautentici.
Paroloni della psicopatologia come derealizzazione e depersonalizzazione acquistano una drammatica concretezza.
E non mancano i paradossi e le antinomie. «Ero immensamente, immensamente colpevole senza conoscere la mia colpa», scrive Renée. «Innocente e colpevole nello stesso tempo» dinanzi agli strazianti vissuti di colpa, come «un criminale innocente».
E ancora: «Intanto continuavo a rispondere a voci, che in realtà non sentivo, ma che per me esistevano». Oppure si noti il suo sguardo fisso su un particolare per i più insignificante: «Obbedivo e con profondo sollievo mi riabbandonavo al mondo senza limiti di una goccia di caffè».
Ma perché in copertina l’autrice risulta Marguerite Sechehaye (che in conclusione propone un’interpretazione del «caso»)? È la psicoanalista che cura Renée. Di più: per Renée è a lungo «la Mamma», pur assumendo talora il volto di una Regina fredda e distante.
Una Mamma in grado di compiere quello svezzamento che la paziente non aveva mai davvero provato mediante la «realizzazione simbolica» dei suoi bisogni e dei suoi desideri infantili e il loro superamento: così le mele rappresentano per un periodo il nutrimento di Renée, che le associa al seno dell’analista. Per non dire degli oggetti transizionali, dallo «scimmiotto di pelo» al «bel tigrotto di pelo» alla bambola Ezéchiel, i quali mediano il rapporto della paziente con la realtà e con se stessa: oggetti che non fanno più parte di sé ma non sono ancora collocati nel mondo.
E pian piano ella scopre il proprio corpo; corpo posseduto e vissuto, inestricabilmente legato al suo Io. Sembra poi riconciliarsi con la realtà, e l’analista, da appendice qual era, viene accettata come persona. La Mamma diviene la signora Sechehaye e ciò a suo modo sancisce la guarigione.

Diario di una schizofrenica, Marguerite A. Sechehaye, pagine 147,euro 9,50, Giunti

l’Unità 22.2.08
Italia e Cina si incontrano al Palazzo delle Esposizioni


AL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI di Roma, in occasione della mostra Cina XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione, il Laboratorio d’arte ospita oggi, a partire dalle 18.00 nell’Atelier del museo, l’incontro tra due artisti che indagano la realtà delle periferie urbane come Gianfranco Botto e Roberta Bruno, con l’artista cinese, Liu Xiaodong, uno dei maggiori interpreti del realismo cinico. L’incontro avverrà all’interno dell’installazione La mia casa è la tua casa di Botto e Bruno. L’opera si propone di creare un dialogo tra artisti lontani geograficamente che affrontano con la stessa sensibilità il tema dell’identità nelle nuove realtà urbane. Come un ospite in visita l’artista cinese giunge nelle casa con la sua valigia di oggetti personali, libri, cd, vestiti e foto.

Repubblica 22.2.08
Valori e diritti nei conflitti della politica
di Gustavo Zagrebelsky


Dietro ai conflitti della politica un paese diviso dai grandi dilemmi della bioetica
Dalla legge sull´aborto alle questioni legate alla vita nelle sue diverse forme
Ecco la storia di due concetti che hanno segnato la civiltà occidentale

Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono "eticamente sensibili" (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un´ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.
Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l´autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l´inizio e la conclusione dell´agire "per valori" può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell´etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un´altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.
Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono "tirannici", cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di "tirannia dei valori" e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all´etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.
Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all´azione. La massima dell´etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un´immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l´azione c´è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d´uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce "per principi" si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d´una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all´autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all´etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.
Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni "eticamente sensibili" di cui si diceva all´inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell´aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l´eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un´altra differenza a seconda che si adotti l´etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l´uno rispetto all´altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).
Nell´assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell´aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice "feticidio"), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell´autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo.
Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l´interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell´aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l´uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, "con le particolari caratteristiche sue proprie", tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l´altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch´essa "soggetto debole". Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, "che è già persona", rispetto al diritto alla vita del concepito, "che persona non è ancora". Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) "diritto potestativo" della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato.
Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo "problema grave", un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti "esangui fantasmi in lotta per diventare i tiranni unici delle coscienze", cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione.
C´è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli "immaturi", i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull´esistenza futura, sempre che ci sia. C´è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient´altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall´altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione.
C´è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l´assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. È legge solo quella che riesce a "persuadere" tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legale. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici.

Repubblica 22.2.08
La società multiculturale
Intervista a Alain Touraine: "Cosa ci ha insegnato il velo islamico nelle scuole"
Ecco come muoiono i nostri valori universali
di Fabio Gambaro


Il multiculturalismo assoluto che implica un relativismo assoluto dei valori conduce a quello scontro di civiltà teorizzato da Huntington. Il relativismo dei valori finisce per dissolvere le fondamenta dei diritti comuni

PARIGI. «Al comunitarismo che confonde valori e diritti, deve rispondere il diritto che si fonda su valori universali». È questa la posizione difesa da Alain Touraine, il celebre sociologo francese che nel suo ultimo libro, Penser autrement (Fayard), ha sottolineato ancora una volta l´importanza dei diritti politici, sociali e culturali in un mondo sempre più confuso, frammentario, dominato dalle divisioni e dall´individualismo. «La relazione tra valori e diritti è sempre complicata», spiega l´autore di Libertà, uguaglianza, diversità e Critica della modernità (entrambi pubblicati dal Saggiatore). «Un diritto non è tale se non è istituzionalizzato da una legge, mentre un valore è più che altro un´aspirazione ideale, che solo a volte si concretizza nel diritto».
Di solito si dice che i diritti sono collettivi, mentre i valori sono individuali?
«L´idea dei diritti ha una doppia valenza, dato che definiscono i diritti e gli obblighi di ciascuno rispetto alla comunità, ma anche gli obblighi della comunità nei confronti del singolo. Quella dei diritti è una logica conforme all´idea della coesione sociale. Ciò che è in gioco è l´organizzazione della vita sociale, che evidentemente implica problemi enormi anche di ordine etico e morale. Nel XVIII e XIX secolo il pensiero sociale è stato essenzialmente assorbito dalla filosofia del diritto e dello stato».
I valori, invece?
«Si parla di valori, quando si invoca un fondamento non sociale alle regole della vita sociale. È una nozione più confusa che viene interpretata in modi diversi, ma che comunque introduce l´idea che i comportamenti sociali debbano essere sottomessi a principi superiori non sociali. Naturalmente si pensa alle religioni, ma lo stesso discorso vale anche per taluni valori nati dall´illuminismo, come il progresso, la nazione, ecc. In entrambi i casi, ci si colloca su un piano che è aldilà dei rapporti sociali concreti».
In passato, qual è stata l´evoluzione delle relazioni tra valori e diritti?
«Nella lunga fase della modernità abbiamo assistito a una progressiva separazione tra diritti e valori. All´interno di questo processo, alcuni valori a poco a poco sono stati trasformati in diritti, secondo un processo di secolarizzazione che negava ogni aldilà dell´orizzonte sociale. Il sociale si spiega solo con il sociale, diceva Durkheim. Non a caso, la sinistra più tradizionalista è sempre stata molto sospettosa nei confronti degli appelli ai valori, dato che dietro a questi essa scorgeva sempre interessi particolari. Addirittura c´è chi sostiene che l´appello ai valori universali nasconda un processo di dominazione, dato che l´idea di valori universali è un´invenzione dell´Occidente che ha dominato il mondo. Si tratta di un punto di vista che naturalmente non condivido, perché, al contrario, penso che l´appello ai valori universali sia essenziale per rafforzare i diritti».
Lei parla di valori universali, oggi però sembra dominare un processo di frantumazione dei valori. Assistiamo infatti all´emergere dirompente di valori condivisi da gruppi sempre più ristretti...
«Sebbene per ora non si sia ancora arrivati al pulviscolo dei valori personali, è vero però che l´universalismo arretra di fronte al particolarismo delle comunità. Più le società entrano in crisi, più prosperano i valori comunitari. Il ritorno contemporaneo del comunitarismo – che alla fine del XIX secolo pensavamo moribondo – trasforma il mondo dei valori in un mondo sociale. In questa prospettiva, i valori tendono ad acquistare valore di legge. In una società dominata dalla religione, ad esempio quella islamica, le leggi sociali derivano per principio dai valori. È la parola di dio che si trasforma in legge. Per il Corano leggi e valori si confondono. A seconda delle diverse realtà, i valori possono essere messaggi divini o tradizioni degli antenati. In ogni caso, annullando la separazione tra mondo dei valori e mondo dei diritti, il comunitarismo implica un ritorno al passato».
Come reagire all´esplosione dei valori comunitari?
«Facendo appello a valori universali. Più la società definisce nuovi diritti sociali e culturali (il diritto di aver la propria lingua, la propria religione, la propria alimentazione, ecc.), più essa rischia di perdere la coesione interna, scindendosi in mille comunità e sottocomunità. Infatti, più si specificano i diritti di singoli gruppi di cittadini, più aumentano le occasioni di esclusione. Da qui il bisogno di definire dei valori che siano condivisibili da tutti. Ad esempio, i valori che hanno prodotto i diritti dell´uomo, il diritti della vita umana o i diritti del pianeta».
Nella società multiculturale, valori universali e valori comunitari entrano spesso in rotta di collisione. E´ il vecchio scontro tra relativismo e universalismo?
«Il multiculturalismo assoluto che implica un relativismo assoluto dei valori conduce inevitabilmente a quello scontro di civiltà di cui ha tanto parlato Huntington. Il relativismo dei valori dissolve le fondamenta dei diritti comuni. Perché ci sia comunicazione occorre sempre un certo grado di universalismo, come ha spiegato Habermas, interrogandosi sulle condizioni della comunicabilità. In questo senso, è importante ricordare che ogni essere umano o gruppo sociale è comunque dotato di diritti di natura universale. Proprio perché i diritti sociali e culturali sono sempre più complessi e frammentari, diventa più che mai necessario ribadire valori che facciano appello all´evidenza della condizione comune. Se c´è una caratteristica della modernità, è proprio il riconoscimento della dimensione universale nell´individuo che diventa fondamento dei diritti. Più il valore è condiviso e universale, più si traduce in diritto. Mentre la "non modernità" attuale è quella che ricolloca i diritti nell´orbita della comunità e dei suoi valori, creando situazioni tragicamente pericolose. E´ stato così in passato per il nazismo, rischia di esserlo oggi per l´islamismo».
Che fare quando, in nome dei propri valori, un gruppo rimette in discussione i diritti comuni?
«In Francia, l´interrogativo si è posto di fronte ai problemi dell´escissione o del velo islamico nelle scuole. In queste situazioni il diritto basato su valori universali deve prendere il sopravvento sul valore particolare espressione di un comunitarismo. Naturalmente in democrazia conta la maggioranza, e in Francia la maggioranza dei cittadini era contro l´escissione e contro il velo nelle scuole. Ma queste battaglie di libertà acquistano ancora più forza se sono fatte in nome di principi universali e non solo in nome della maggioranza democratica».
Nel caso del velo o dell´escissione, il diritto ha vinto sui valori?
«Più precisamente la libertà, che è un valore universale, attraverso un diritto, ha vinto su un valore particolare di una comunità. In futuro spero che le regole della vita sociale siano fondate non più solo sulla funzionalità dei diritti, ma sull´assoluto dei valori universali».

Repubblica 22.2.08
Soggetti di diritto
La dichiarazione universale dei diritti dell´uomo e la sua mancata realizzazione
La sfera dei principi tradita dall’occidente
di Roberto Esposito


Una scossa all´edificio giuridico moderno è venuta dallo sviluppo incontenibile della tecnica, capace di influire potentemente sui processi della nascita, della morte e della salute

Che rapporto passa tra diritto e valore? Possono, i diritti, in quanto prodotti storici, incarnare un valore universale, oppure sono destinati a restare in un ambito, appunto giuridico, diverso e distante da quello dell´etica e, tanto più, della teologia?
Il diritto è interno, confinante o esterno, alla sfera della giustizia? Domande, queste, cui l´intera tradizione filosofica da sempre cerca di rispondere, senza mai pervenire a una conclusione univoca. Se la scuola giusnaturalista - nata nella prima età moderna, ma ripresa da autori anche contemporanei come Leo Strauss - ha individuato nella natura la fonte di diritti universali forniti di valore eterno, la concezione positivistica ha ricondotto la creazione del diritto alla sola legislazione statale. E tuttavia, nonostante questa profonda differenza di principio, le due linee interpretative hanno conosciuto più di un punto di intreccio e di sovrapposizione - a dimostrazione del fatto che la questione del valore permanente della norma giuridica non poteva essere risolta nel flusso del processo storico. Anzi si può dire che il diritto positivo, come ancora lo concepiamo, recepisca al suo interno - secolarizzandole - le esigenze di universalismo implicite nella tradizione giusnaturalistica.
La Dichiarazione del 1789, estendendo a ogni cittadino i diritti politici, traduce sul piano reale i principi di libertà e uguaglianza presupposti dai teorici del diritto naturale. Successivamente, già dalla metà del XIX secolo, vengono proclamati altri diritti fondamentali indisponibili, cioè vincolanti per lo stesso Stato che li pone in essere.
Ultima tappa di questo processo di universalizzazione giuridica è segnata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo, formulata alla fine della seconda guerra mondiale, che assegna a ogni persona, a prescindere da ogni altra qualificazione, diritti non soltanto civili e politici, ma anche sociali, includendo all´interno della sfera protetta tutte le minoranze prima discriminate. Il concetto, sempre più esteso e ormai accettato in tutti i paesi democratici, di "diritti umani" sembra concludere questo lungo percorso, portando il diritto positivo allo stesso obiettivo etico presupposto dal giusnaturalismo: quelle medesime prerogative che lì erano desunte da un ordine naturale non soggetto a mutamento storico appaiono adesso prodotte da una storia che ha cancellato ogni differenza pregiudiziale, di tipo etico, sessuale, religioso, tra tutti gli esseri umani. La saggezza della storia ha così eguagliato le promesse della natura. Il diritto può finalmente ambire a farsi giustizia, a realizzare il più universale dei valori - quello dell´uguaglianza tra tutti gli uomini della terra.
Questo, almeno, è il racconto autolegittimante ampiamente diffuso in tutto il mondo occidentale. Basta uno sguardo al quadrante internazionale per accorgersi che le cose non stanno affatto così. Che il diritto umano primario - quello alla vita - è continuamente smentito da infinite morti per fame, malattia, guerra. Per non parlare di libertà e di uguaglianza.
Da dove origina questo scarto scandaloso tra dichiarazioni e realtà, tra proclami umanitari e violenza omicida, tra ricchezze senza pudore e povertà senza fondo? La prima risposta a tale domanda fa capo alla inesistenza di un´istituzione internazionale dotata di capacità coattiva - cioè in grado di imporre attraverso la forza il rispetto dei diritti umani laddove vengano violati. Ma una contraddizione ancora più cospicua, perché interna allo stesso dispositivo giuridico moderno, risiede proprio nella astrattezza di termini come "soggetto" o "persona" - incapaci di dare forma e voce alla realtà materiale, corporea, di individui inassimilabili nella identità di uno stesso genere, irriducibili a una categoria generale.
Perché, al contrario di quanto si poteva pensare, con la crisi profonda degli Stati nazionali - che hanno funzionato da involucri immunitari almeno per larghe fasce di popolazione - le dinamiche di globalizzazione hanno reso ancora più sensibili quelle differenze di carattere biologico che l´universalizzazione del diritto ha immaginato di ingabbiare nelle sue paratie formali.
Una ulteriore scossa all´edificio giuridico moderno è venuta dallo sviluppo incontenibile della tecnica, ormai penetrata profondamente nella vita umana, capace di influire potentemente sui processi della nascita, della morte e della salute, e dunque incontenibile nelle griglie necessariamente generali della legge. Da qui il conflitto frequente tra soggetti di diritto contrapposti come possono essere madri e figli, giovani e anziani, uomini e donne. Rispetto ai quali è difficile - e forse controproducente - immaginare una legislazione senza falle, capace di risolvere, in nome di una legge naturale, rivelata o anche positiva, casi drammatici o altamente problematici, sui quali non esistono criteri validi per sempre, prontuari di etica, convinzioni inconcusse. In questo orizzonte complesso - in cui la sofferenza dell´uno, o dell´una, può doversi misurare con quella dell´altro - l´unico atteggiamento possibile è quello dell´attenzione e della comprensione, come ha scritto con grande sensibilità Francesco Merlo su questo giornale.
Probabilmente il diritto può accostarsi al valore, può approssimarsi alla Giustizia, solo sapendo di non poterlo fare mai del tutto. Ammettendo, e accettando, la propria imperfezione etica - manifestando il proprio limite e il proprio punto cieco. Anche questa - diceva Max Weber - è una scelta. La più difficile delle scelte.

Corriere della Sera 22.2.08
Londra Parla Minger, lo scienziato degli ibridi uomo-mucca
Nel centro degli embrioni chimera
di Mario Pappagallo


Cellule «Con le mie ricerche si potranno evitare gli aborti terapeutici»
Un giorno nel laboratorio degli embrioni chimera
I piani di Minger, lo scienziato degli ibridi uomo-mucca

Green Market. Cuore di Londra, come Trastevere a Roma. Qui c'è uno dei 35 laboratori del Wolfson Centre for Age-Related Disease, quello diretto da Stephen Minger. Americano, 52 anni, Minger è l'uomo degli «embrioni chimera», colui che vuole curare gli embrioni con malattie genetiche.

LONDRA — Green Market. Cuore di Londra. A cento metri scorre il Tamigi. Bancarelle colorate di cibi da tutto il mondo. Ostriche fresche vendute da improbabili pescatori. Un turco travestito da pastore sardo che espone cibi calabri. La parola organic, biologico, è dominante. E quel signore dalla lunga treccia grigia ben curata lungo la schiena, alto e snello, è Stephen Minger: l'uomo degli «embrioni chimera», quello che vuole curare gli embrioni con ma-lattie genetiche. L'americano più noto a Londra... e in Vaticano. Sì, perché lui inglese non è. «Ho avuto il via libera allo studio, ma non ho un pound» confida. Tradotto: non ho un euro. Colpo di scena. Per questo progetto ha perfino sfidato il governo inglese.
Cinquantadue anni, nato a New Orleans («Mio padre era un militare, con lui ho girato mezzo mondo») da 12 anni al
King's College di Londra, che con il Guys Hospital e i centri di ricerca collaterali, forma la più grande scuola di medicina d'Europa. Il suo appartamento è davanti a Tower Bridge, i suoi embrioni sono lì a 50 metri dal Green Market. Minger dirige uno dei 35 laboratori del Wolfson Centre for Age-Related Diseases.
Il badge di Minger scorre sul lettore di ingresso, lui compone un codice e la porta si apre. Eccoci nel santa sanctorum. Un team multietnico di 15 persone lavora per il buddista Minger. «Infanzia cattolica, poi attorno ai 27 anni il mio spirito ha trovato un'altra via». Un credo che influenza le sue ricerche? «Il mio credo è la scienza per il bene ». Ma come? Manipola embrioni? «Certo, ma non per creare chissà cosa. Voglio "curare" le malattie genetiche, quelle che portano agli aborti terapeutici».
Lo studio di Minger è a pian terreno, 5 metri per 4, una parete piena di schedari. In terra pile di lavori scientifici, pubblicazioni, progetti. La scrivania ad angolo divisa con la segretaria Sarah, una barbie bionda, vestito blu attillato e tacchi da 10 centimetri che cerca su Internet voli British per il suo capo. Appena rientrato dalla California, è in partenza per Cina e India. Una bottiglia di rosso, forse un dono, aspetta sopra gli schedari. Sembra lo studio di un investigatore privato, stile Philip Marlowe. E investigatore Minger lo è. Ha ricevuto, lo scorso gennaio, l'autorizzazione (per un anno) a procedere con gli embrioni chimera. «Mai chiamati così, io li chiamo interspecie e ora nel progetto ufficiale la loro sigla è Ad mixed» specifica. Una sfida. «Sì, ma eticamente più corretta di quelle autorizzate a Newcastle e Edimburgo in cui si creano embrioni da cellule adulte e ovuli umani ». Perché? Lei non crea ibridi interspecie? «No, io uso una cellula uovo di mucca come involucro "fertilizzante" per la cellula umana completa e malata. Una scarica elettrica dà l'input alla trasformazione: dall'adulta ecco due cellule di embrione che iniziano a raddoppiarsi. Ma nell'embrione che ne deriva non c'è traccia di Dna bovino». La preparazione dell'uovo di mucca dura una notte: pulito di ogni traccia di Dna. La scintilla di vita è una scarica elettrica, stesso metodo che diede vita alla pecora Dolly. Quando parte il progetto? «Forse ad agosto, forse tra un anno. Devo trovare un milione e mezzo di sterline (circa 2 milioni di euro). Ho avuto l'autorizzazione ma nessun fondo» ripete. Sterline per comprare un «tavolo vibrante» per lavorare con le staminali, due potenti micromanipolatori, un altro microscopio. «Poi 2-3 ricercatori in più». Da 7 anni Minger lavora sulle staminali, prima si occupava di terapia genica. «Il mio obiettivo è capire cosa accade nella fibrosi cistica e nella corea di Huntigton. Su che cosa accade nell'embrione prima e nel feto poi non si sa nulla. Dai 6 giorni ai 6 mesi. Voglio sapere come si differenziano cellule in apparenza tutte uguali, tutte predisposte a tutto, ma che in una malattia genetica a un certo punto fanno un'altra cosa. Per capirlo inserisco una cellula adulta di un malato nell'uovo bovino e creo l'embrione da studiare. Più osservo, provo terapie, più è probabile arrivare a una "cura" talmente precoce da seguire di poco la diagnosi preimpianto ». Aborti terapeutici addio? «È il mio obiettivo». Perché non usare allora ovuli umani, come hanno chiesto e ottenuto Newcastle e Edimburgo? «Perché la possibilità di riuscita è difficile: ogni 2.000 ovuli riescono 14 embrioni. E gli ovuli di donna vanno trovati: è vietato pagarli. A Newcastle e Edimburgo offrono uno sconto del 50% per la fecondazione artificiale a chi li dona ». Non lo dice, ma ritiene questa via meno etica dei suoi Ad mixed.
E, invece, quanta fatica per quell'ok senza fondi. «Subito il no del governo, poi la pressione dell'opinione pubblica: 300 associazioni di malati in appoggio al mio progetto. Così, nell'agosto 2007, l'Authority ( Hfea) comincia l'esame. Due mesi di ispezioni nel mio laboratorio». Da chi è composta l'Authority? «Da 17 membri: scienziati, teologi, legali, rappresentanti dei malati. C'è anche un vescovo. È molto severa».
Hobby? «No, poco tempo... Qui ho la mia fidanzata». Apre la porta delle stanze a pressione differenziata. Locali asettici. Camici e copriscarpe. Primo piano. Ricercatori al lavoro. «Ecco Vanessa, la mia fidanzata». Sorpresa. È un macchinario. Una supermacchina fotografica con tre obiettivi in linea. «Le colture di cellule embrionali stanno qui 5 giorni mentre si moltiplicano e i tre occhi di Vanessa le immortalano ogni 30 minuti. Ne viene un film da cui vediamo tutto quanto accade». Mostra un embrione di topo ai primi stadi. Genitori con malattia cardiaca ereditaria. Le cellule si differenziano. «Ecco. A un certo punto i geni fasulli danno un ordine incompatibile con il progetto giusto. Noi cerchiamo di individuarlo. E se l'errore è in una proteina, possiamo correggere. Avere un topo sano». Il sogno: fare lo stesso con l'uomo.
Il team Minger con due dei suoi quindici collaboratori

Lo scienziato
Stephen Minger, cinquantadue anni, è nato negli Stati Uniti, a New Orleans. Da dodici anni lavora al King's College di Londra che, con il Guys Hospital e i centri di ricerca collaterali, costituisce la più grande scuola di medicina e di ricerca biomedica d'Europa.
Oggi Minger, un ex cattolico che ha abbracciato il credo buddista, è il direttore di uno dei 35 laboratori del «Wolfson Centre for Age-Related Disease»: con lui lavora un team di quindici ricercatori
La ricerca
A gennaio Minger ha ricevuto il via libera dall'autorità britannica per procedere con le sue ricerche di «Ad mixed», una tecnica nota anche come «embrioni chimera». Lo scienziato inserisce una cellula adulta di un malato nell'uovo bovino, al quale è stato precedentemente tolto il nucleo, e in questo modo crea l'embrione da studiare
Le polemiche
Il lavoro di Minger è stato criticato per i problemi etici che solleva: la creazione di «cellule ibride» implica infatti la fusione di materiale genetico umano e animale
La difesa
Minger sostiene che gli embrioni prodotti dal suo laboratorio non saranno impiantati, ma serviranno a studiare lo sviluppo di malattie genetiche osservando quello che accade nell'embrione e nel feto, scoprendo il momento in cui i geni malati danno ordini incompatibili con il progetto «giusto», e creando le condizioni per intervenire in tempo

Corriere della Sera 22.2.08
Da Londra a Roma
«Gli italiani? Usano le cellule vietate»

Il contenitore della crioconservazione: permette di congelare e quindi conservare gli embrioni. Un procedimento in Italia vietato dalla legge 40

LONDRA — Accusato di ricerche non etiche, dalla manipolazione degli embrioni alle cosiddette chimere. «Ogni volta che vengo in Italia e parlo a un convegno scateno un putiferio». Stephen Minger non riesce a capire perché. «Nel 2002 in Gran Bretagna è stato autorizzato l'uso degli embrioni congelati orfani: dopo 5 anni che sono congelati si buttano o si usano a fini di ricerca. Trovo etico studiarli per trovare il rimedio a malattie incurabili, invalidanti, disumane nella loro espressione». Da questa scelta del governo inglese è nata a Londra una banca centrale di linee cellulari embrionali, la Nibsc. «Le sue linee di cellule staminali servono per fare ricerca in tutto il mondo» spiega Minger. Un affare. «No.
Questo sarebbe non etico. Sono offerte gratuitamente ai centri accreditati che le richiedono». Anche in Italia, dove si lavora solo sulle staminali adulte? «Anche in Italia, secondo la chiesa questi ricercatori rischiano la scomunica». Sono anni che si parla di staminali embrionali per curare Parkinson, Alzheimer, diabete di tipo I. E ancora di applicazioni sull'uomo non se ne parla?
«Due compagnie in California hanno chiesto l'autorizzazione all'Fda (l'agenzia federale di controllo sui farmaci): la Geron per le lesioni alla spina dorsale e l'Act per curare la retinite pigmentosa». Tradotto: per riuscire a ridare il movimento ai paralizzati e la vista a chi è destinato alla cecità. E poi? «In India, a Bombay, una ricercatrice sta infondendo staminali embrionali a tutti i pazienti che le capitano. Autorizzata dal governo, ma senza regole. Un grave rischio... E forse anche altrove accade lo stesso». Minger confronta questi esempi fuori etica alla sua difficoltà per avere l'autorizzazione. E creare organi ex novo? «Occorrono miliardi di cellule. Sarà un passo successivo. Forse però tra due anni...».
M. Pap.

Corriere della Sera 22.2.08
Università
Stop alla Bossi-Fini per i ricercatori esteri

ROMA — Da ieri, niente più vincoli della legge Bossi-Fini sull'immigrazione per i ricercatori extracomunitari. Lo ha annunciato il ministero dell'Università e ricerca. «Con il decreto legislativo 17/2008 in vigore da ieri — spiega il ministero — i cittadini extracomunitari che vorranno soggiornare in Italia per scopi di ricerca potranno entrare al di fuori delle quote della Bossi-Fini».
Infatti, con il recepimento della direttiva europea sull'ammissione di cittadini di Paesi terzi ai fini di ricerca scientifica, gli istituti «potranno stipulare convenzioni di impegno per i cittadini stranieri e chiedere il visto evitando spiacevoli trafile. Le convenzioni avranno validità per tutto il tempo stabilito dal programma di ricerca».

Corriere della Sera 22.2.08
Ipotesi. In un saggio di Brian Everitt la storia di una disciplina matematica nata a un tavolo da gioco
La teoria del caso contro la fede
Rifugiarsi nella religione o affidarsi alla statistica: alle origini della scienza
di Sandro Modeo


«In principio era il Caso, e il Caso era presso Dio, e il Caso era Dio». Questa variazione eversiva del sublime incipit del Vangelo di Giovanni — attacco del romanzo L'uomo dei dadi di Luke Rhinehart (Marcos y Marcos) — è incisa sulla porta d'ingresso del percorso cui ci invita Brian Everitt, direttore dell'Istituto di Biostatistica al King's College di Londra, con il saggio Le leggi del caso (Utet).
Se in principio c'è il caso, il caso diventa il principio-guida di una lunga cascata di eventi: «per caso» il nostro universo (come i molti universi paralleli ipotizzati dalla fisica) è sbocciato da una fluttuazione del vuoto o, almeno, dall'esplosione di un agglomerato superdenso, portando con sé anche l'idea del tempo; «casuali» sono le incessanti mutazioni senza scopo con cui l'evoluzione ha operato (come un «orologiaio cieco ») per selezionare le specie più adatte nel rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente; e la «casualità» sovrintende ai tanti microeventi che condizionano la nostra esperienza individuale, come infiniti «sentieri che si biforcano».
Immerso in questa tirannia dell'aleatorio, l'uomo può reagire soprattutto in due modi. Può affidarsi a una prospettiva — quella religiosa — che inquadra il caso come una limitazione del nostro sguardo, incapace (secondo sant'Agostino) di cogliere le regole e l'armonia del paesaggio cosmico; prospettiva, com'è noto, insita anche in certe implicazioni della scienza (il famoso «Dio non gioca ai dadi» di Einstein). Oppure — più modestamente — può affidarsi alla disciplina di Everitt, la statistica, sola strategia per venire a patti col caso e rendere «l'incertezza più certa».
La riconduzione del caso al divino nel mondo antico — ricorda Everitt nella parte storica del libro — ha prodotto una lunga serie di sopraffazioni arbitrarie, se ai dadi (e al loro antefatto, gli astragali, ricavati dalle ossa della caviglia di pecora) venivano affidate la giustizia (come nell'antica Roma) o la distribuzione della terra (come testimonia la Bibbia). E anche molto dopo la sconfessione di tale pratica da parte del cristianesimo (i dadi, per san Cipriano, sono una creazione di Lucifero), la concezione oracolare del caso ha continuato a produrre orrori: nella colonia penale dell'isola australiana di Norfolk — negli anni Trenta dell'Ottocento — veniva imposto un sorteggio di pagliuzze tra coppie di detenuti, che designava come condannato chi pescava la più corta e come boia chi pescava la più lunga. Del resto, prima di rendersi autonoma, la statistica stessa nasce come «effetto collaterale» delle scommesse nelle bettole e nei caffè sei-settecenteschi: snodo decisivo, il rapporto tra il Cavalier de Méré — accanito giocatore di dadi che sembra uscito da Barry Lyndon di Kubrick — e il suo «consulente» Pascal.
Affidarsi alla statistica e al calcolo delle probabilità — come a ogni altra scienza — significa anzitutto procedere contromano rispetto al senso comune e ai pregiudizi. Everitt allerta così i giocatori e gli scommettitori di ogni ramo (roulette, poker, cavalli) a non lasciarsi travolgere dalle «rotazioni immaginarie» del malinteso concetto di «media»: dopo dieci lanci di monetina in cui è uscito «testa», la probabilità che esca «croce » all'undicesimo, è la stessa che al primo, cioè il 50 per cento. Oppure invita i cultori della «coincidenza » (quelli che rimangono sconvolti per aver sognato dopo molto tempo un parente il giorno prima che morisse) a collocare gli eventi sorprendenti nella legge dei grandi numeri, senza confondere il «raro» col «soprannaturale». Che una coincidenza abbia «una probabilità su un milione» di realizzarsi, significa, in un Paese come gli Stati Uniti (di 250 milioni di abitanti), 250 coincidenze al giorno e quasi 100.000 l'anno. Non solo. Entrando nel vivo della propria professione, Everitt dimostra come la statistica possa fornire contributi decisivi alla scienza medica. L'evidenza empirica dei dati nella sperimentazione clinica, infatti (specie attraverso il cosiddetto «doppio cieco», cioè col medico e il paziente all'oscuro della cura sotto verifica), ha da un lato falsificato certe teorie della medicina ufficiale (quella sulla vitamina C come rimedio per il raffreddore) o evidenziato l'ambiguità di certe pratiche diagnostiche (vedi il lungo capitolo sui «falsi positivi» di certi esami), dall'altro ha drasticamente ridimensionato l'efficacia di tante cure alternative, dall'agopuntura all'omeopatia.
L'unica domanda inevasa — nel percorso di Everitt — è quella sull'ostinazione con cui sfidiamo certe leggi fino al masochismo. Eppure la biologia evoluzionistica e la neuropsicologia ce lo spiegano in modo convincente. Se continuiamo a puntare in un ippodromo o in un casinò sapendo di arricchire gli allibratori o il banco, è per una forma di addiction, di dipendenza, in cui il rischio fine a se stesso scatena maggior piacere persino della vincita. Se vediamo coincidenze dappertutto, è perché il nostro cervello è programmato per scremare ordine dal caos e senso dal nonsenso. E se giochiamo alla lotteria pur avendo chances quasi nulle di successo, è perché immaginarsi una vita più agiata aiuta a sopportare l'opacità di quella che conduciamo. In fondo, anche nei nostri comportamenti più complessi, siamo guidati da pulsioni adattative: per vivere o solo per sopravvivere, dobbiamo ricorrere all'illusione e al sogno; qualche volta, anche alla menzogna.

L'autore
Brian Everitt dirige l'istituto di Biostatistica al King's College di Londra.
Il suo libro «Le leggi del caso. Guida alla probabilità e al rischio», traduzione di Costanza Masi è edito da Utet (pp. 194, e 20)

Il Riformista 22.2.08
Domenica si vota ad Amburgo
L'ex Germania orientale riscopre i comunisti
E la Spd è costretta a ripensare un'alleanza
Ora in Assia la situazione è complicata per i socialdemocratici
Di Paolo Petrillo


Berlino. Dopo la caduta del Muro di Berlino, le regioni della Germania orientale si affidarono compatte al cancelliere della riunificazione Helmut Kohl e alla sua Cdu. Oggi, a quasi vent'anni di distanza e dopo molto speranze deluse, la situazione è cambiata al punto che il posto di prima forza politica potrebbe essere ricoperto dai neo-comunisti di Die Linke. È quanto emerge dall'ultimo sondaggio dell'Istituto demoscopico Allensbach: almeno stando alle intenzioni di voto, nei Laender orientali Die Linke supera la Cdu di oltre tre punti - 29,7 contro 26,4 - e relega i socialdemocratici dell'Spd al ruolo di terzo partito, con il 23,3 per cento dei consensi. A livello federale i risultati non sono così macroscopici, ma con l'11,8 per cento delle indicazioni, Die Linke eguaglia i liberali dell'Fdp, diventa a pari merito il terzo partito del Paese e soprattutto si conferma nuovo ago della bilancia del panorama politico tedesco. A fare le spese del crescente peso dei neocomunisti sono i due grandi partiti popolari: la Cdu e, ancor più, l'Spd.
Per arginare la concorrenza a sinistra, i socialdemocratici hanno già provveduto a modificare programmi e parole d'ordine, riscoprendo l'attenzione per le fasce deboli; ma a fronte di un elettorato sempre più scettico nei confronti del mondo politico e dei suoi protagonisti, la manovra pare aver dato finora risultati modesti, o almeno non decisivi. Prova ne sia l'esito del voto regionale in Assia del 27 gennaio scorso, dove pur battendo (d'un soffio) la Cdu, i socialdemocratici si trovano ancora in una situazione di stallo, impossibilitati dai numeri ad andare al governo con i Verdi e incapaci di convincere i liberali a dar vita alla cosiddetta «coalizione semaforo». La soluzione potrebbe offrirla un'alleanza con Die Linke, ma l'Spd ha finora sposato una linea d'intransigenza nei confronti del partito di Gysi e Lafontaine, garantendo a più riprese che mai e poi mai i socialdemocratici avrebbero accettato di lavorare con i neo-comunisti. Ora la situazione in Assia mostra quanto sia difficile per l'Spd mantener fede alla parola data, se non vuole regalare la vittoria alla sconfitta Cdu, e offre così un anticipo di quello che potrebbe succedere fra poco a livello federale. «L'errore - spiega al Riformista Thomas Schmid, editorialista e caporedattore di Die Welt - i socialdemocratici lo hanno commesso alla fine degli anni Novanta, quando dissero di non voler considerare il nascente Pds come un possibile partner di governo. La stessa linea è stata poi ripresa nei confronti di Die Linke. E ora l'Spd ha un problema: come cambiare rotta, senza perdere pubblicamente la faccia?».
Così, fra i successi dei neocomunisti si può ora annoverare anche questo: aver costretto l'Spd a muoversi a due livelli: quello ufficiale, per cui si continua a rifiutare ogni ipotesi di collaborazione. E quello ufficioso, fatto invece di manovre d'avvicinamento e prove di disponibilità. Solo che il tempo stringe, il voto parlamentare per l'elezione del capo del governo regionale in Assia è fissato il 5 aprile, e le prime crepe cominciano ad aprirsi anche a livello di comunicazione ufficiale. Parlando ieri con la stampa, il leader dell'Spd Kurt Beck ha nuovamente respinto l'idea di un'alleanza di governo, ma ha ammesso che pur di garantire la nomina della candidata socialdemocratica in Assia, Andrea Ypsilanti, si potrebbe far ricorso ai voti dei deputati eletti nelle fila di Die Linke. Alcune voci accennano anche a un piano a due tappe, concepito durante una «cena segreta» fra Beck e Ypsilanti: guadagnarsi il governo con l'appoggio dei neocomunisti, poi tornare al voto dopo cinque o sei mesi con il vantaggio di condurre la campagna elettorale dai banchi della maggioranza. Voci seccamente smentite dai portavoce del partito, ma che intanto hanno offerto a Cdu e Fdp il destro per chieder conto delle reali intenzioni dei socialdemocratici, accusati di progettare una «truffa agli elettori». «Il comportamento dell'Spd in Assia - ha dichiarato Nicola Beer, esponente liberale - è importante anche per i cittadini di Amburgo». Già, perché domenica prossima si vota per il rinnovo del parlamento nella città anseatica. E anche qui, Die Linke potrebbe confermare il suo nuovo ruolo di ago della bilancia.

Repubblica 22.2.08
Scontro sull'articolo 18
La Sinistra contro Ichino: "Servo del padrone"
di Concetto Vecchio


ROMA - Il più tranchant, Rizzo del Pdci: «Ichino? Servo del padrone». Diliberto lo accomuna a Berlusconi. Per Palermi «dà un calcio in faccia ai lavoratori e ai loro diritti». La Sinistra Arcobaleno va all´attacco di Pietro Ichino, il giuslavorista milanese che ha accettato di correre in Lombardia nelle liste del Pd e che ieri su Repubblica si è detto favorevole a «una riforma della disciplina dei licenziamenti», una messa in discussione dell´articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che disciplina il divieto di licenziamento senza giusta causa. «Sarebbe una misura incisiva contro l´abuso del lavoro precario».
Violente e compatte le reazioni della Sinistra arcobaleno, al punto che il socialista Lanfranco Turci ha paragonato Rizzo ai brigatisti rossi: «La virulenza del suo linguaggio è la stessa adottata da coloro che costringono il professor Ichino a vivere sotto la tutela continua delle forze di polizia e che hanno già colpito Marco Biagi e Massimo D´Antona». Nella candidatura dell´autore di libri come "A cosa serve il sindacato" e "I nullafacenti", Franco Giordano, segretario del Prc, vede «la volontà di favorire una politica economica di stampo liberista». Salvi (Sd) paventa già l´ipotesi Ichino ministro del lavoro: «Contro la precarietà la ricetta del Pd è quella dei licenziamenti facili». «Anch´io - dice il candidato premier Fausto Bertinotti - sono per una revisione dell´articolo 18, nel senso che sono per estenderlo a tutti». Ovvero anche alle aziende con meno di 15 lavoratori. Rifondazione nel 2003 promosse un referendum che fallì per mancanza di quorum. Alla fine Giorgio Tonini, responsabile economico del Pd, ha parato tutte le critiche: «Il contributo intellettuale che Ichino sta dando all´elaborazione di una linea moderna di politica economica e di lavoro è di primo piano ed è un contributo prezioso». Per poi mettere i puntini sulle idee: «Le idee si discutono, Ichino preferisce il contratto unico, nel nostro programma si sono preferite proposte diverse che non riaprono la questione dell´articolo 18».

L'espresso n.8 2008
Partigiani. Si chiude una pagina controversa
Torna la volante rossa
di Paolo Biondani


Condannato all'ergastolo nel '49. Fuggito a Praga. Graziato da Pertini. Oggi riabilitato. Il capo della banda milanese rientra in Italia: 'Voglio votare'

La sua vita è una pagina di storia. Macchiata di sangue. Sessant'anni dopo la sua clamorosa fuga a Praga con il marchio di superlatitante protetto dal regime comunista, Paolo Finardi, classe 1928, ultimo capo della Volante Rossa, sta per tornare in Italia, da libero cittadino, per votare alle elezioni. Condannato all'ergastolo come esecutore dei due omicidi che nel 1949 segnarono la fine di quella 'mitica' o 'famigerata' (non esistono vie di mezzo) organizzazione armata, l'ex subcomandante 'Pastecca' - il suo nome di battaglia - aveva già ottenuto la grazia il 26 ottobre 1978 dall'allora presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini. Ora che il tribunale di Milano gli ha concesso anche la "riabilitazione", cancellando così tutti gli effetti della condanna, Finardi ha riacquistato i diritti civili, come se fosse incensurato, e intende esercitarli: "Voglio partecipare alle elezioni del 13 aprile. Voterò per il blocco della sinistra, io non ho cambiato bandiera".

Dal telefono della sua abitazione di Brno esce una voce forte, ancora impastata di accenti lombardi. "Ero rientrato in Italia per votare già alle ultime amministrative, ma il sindaco di Segrate me l'ha impedito. Per questo ho chiesto la riabilitazione". Aveva appena 17 anni, Finardi, quando entrò nella Volante Rossa, il gruppo armato comunista che tra il 1945 e il '49 firmò decine di attentati rivendicando l'eredità della Resistenza anche dopo che la guerra era finita. I fondatori erano ex partigiani della Brigata Garibaldi, delusi dal mancato avverarsi dei loro sogni di rivoluzione. Erano tutti giovanissimi - il loro 'comandante', Giulio Paggio detto 'Alvaro', era un ventenne - e agivano su un doppio binario: la militanza pubblica (con propri tesserini e divise: giubbotti in pelle dell'aviazione americana) culminata nel ruolo di servizio d'ordine al sesto congresso del Pci nel gennaio 1948 a Milano; e il livello clandestino, con pestaggi, ferimenti e omicidi di avversari politici, soprattutto ex repubblichini. Il 27 gennaio 1949 'Pastecca' partecipò personalmente ai due omicidi in un giorno dopo i quali la polizia arrestò quasi tutti gli associati: 23 furono condannati nel 1951 a Verona, ma i capi, tra cui Paggio e Finardi, sfuggirono all'ergastolo rifugiandosi nell'allora blocco sovietico. 'Pastecca', che non ha scontato neppure un giorno di carcere, non si è mai pentito e rifiuta ancor oggi di definirli omicidi: "Abbiamo giustiziato il fascista che capitanò il plotone d'esecuzione del partigiano Curiel e l'agente dell'Ovra che fece fucilare sette compagni all'Ortica. Abbiamo eseguito solo le sentenze che lo Stato italiano rioccupato dagli uomini del regime non voleva più fare".

Questo concetto di giustizia proletaria che può condannare a morte senza processo e senza prove ha fatto entrare la Volante Rossa nella mitologia costitutiva di tutte le bande di terroristi rossi che hanno insanguinato l'Italia dagli anni '70. Finardi però rifiuta qualsiasi accostamento con le Brigate rosse: "Per me erano provocatori. Le loro velleità di lotta armata sono servite solo a spostare l'Italia a destra. Qualche imbecille ha scritto che li avremmo addestrati o protetti noi. Sono tutte balle. Io non ho mai conosciuto un brigatista. Anzi, ho sempre pensato che fossero manovrati dagli americani. E il caso Moro lo dimostra". Dopo quasi 50 anni, Finardi accetta di svelare il segreto della sua fuga: "È vero, a scortarci in Cecoslovacchia fu una staffetta del Pci. Ma non abbiamo mai avuto contatti al vertice del partito". Finardi non dimentica che Togliatti nel febbraio '49 denunciò su 'l'Unità' gli "atti di terrore" della "presunta Volante Rossa".

Alla richiesta di riabilitazione, accolta sette mesi fa dal tribunale di sorveglianza, il suo avvocato Sandro Clementi ha allegato l'intero curriculum di Finardi, certificato dall'ente pensionistico di Praga: 35 anni di lavoro, senza alcun problema con la legge, prima nei campi (mietitore di grano), poi nell'industria pesante (operaio saldatore e tornitore), quindi come tecnico del rame (anche a Cuba) e infine, dopo il 1989, capo-settore di un'azienda di trasporti. Come tutti i suoi "amici e compagni di Praga", anche Finardi ha avuto paura dell'invasione sovietica: "Dopo la primavera del '68, noi comunisti italiani siamo stati isolati e distanziati. Anch'io ho temuto il peggio. Mi ha salvato il mio caposquadra: era del partito, ma era in gamba".

giovedì 21 febbraio 2008

Manifesto pronto per andare in stampa: «Siamo di parte. Noi per la Costituzione. Altri per la Bibbia»
l’Unità 21.2.08
«La sinistra si schiera da una parte sola»
Bertinotti lancia il programma e polemizza col Pd: accetta il liberismo senza costruire l’alternativa
di Simone Collini


«Oggi c’è l’idea di voler rappresentare indifferenziatamente tutti. Noi facciamo eccezione»

«Assolutamente nessuna nostalgia per la falce e martello siamo uomini e donne del futuro»

«UNA SCELTA DI PARTE» I manifesti della Sinistra arcobaleno stanno per andare in stampa, e per la campagna elettorale i leader e i responsabili comunicazione di Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica hanno scelto uno slogan che vuole
essere anche una risposta alla strategia scelta dal Partito democratico. Non a caso Fausto Bertinotti presenta al Piccolo Eliseo le linee guida del programma rosso-verde chiudendo il suo intervento con queste parole: «Oggi c’è quest’idea di voler rappresentare indifferenziatamente tutti. Noi facciamo eccezione: siamo di parte. La Sinistra arcobaleno vuole stare da una parte sola, rispondendo ad una domanda di cambiamento, di trasformazione e lotta alle ingiustizie». Un’impostazione che piace ai circa quattrocento che affollano la sala del teatro romano, e ai tanti rimasti fuori per i quali il presidente della Camera improvvisa un comizio per strada prima di entrare (con la promessa di rivedersi domenica 2 marzo in un più grande cinema della capitale).
Il candidato premier della “Cosa rossa” è convinto che non si possano mettere insieme nelle liste elettorali l’imprenditore e l’operaio, che «proporre la crescita come paragone assoluto è come svuotare il mare con il secchiello» e che nonostante sia una «banalizzazione» dire che Veltroni e Berlusconi si equivalgono, «il programma del Pd è troppo moderato» perché accetta la premessa liberista della destra, e cioè che la precarietà sia da accettare come «condizione permanente». E infatti dell’operazione ancora tutta da costruire della Sinistra arcobaleno sono chiari l’obiettivo, che come dice Bertinotti è quello di voler lavorare a «un’alternativa di società che ponga rimedio ai guasti del sistema capitalistico globalizzato», e il «bandolo della matassa» da cui partire: «Il rifiuto di accettare come permanente la precarietà, non solo nel lavoro, ma come condizione esistenziale».
È la stessa regia scelta per l’appuntamento al Piccolo Eliseo a dare il senso dell’operazione: apre il cantante Daniele Silvestri, che parla dell’iniziativa dell’associazione Movimenti di allestire palchi illuminati e sonorizzati «grazie al sole e non al petrolio» (e infatti è un pannello solare ad occupare il centro del palco da cui parla), e poi il microfono viene utilizzato per raccontare cinque storie. C’è il migrante magrebino che vive a Padova e racconta le difficoltà a ottenere un permesso di soggiorno che per legge è legato al lavoro e alla residenza; c’è il medico Mauro Mocci, che vive ad Allumiere, in provincia di Roma, che si batte per denunciare l’incidenza delle malattie tumorali nel polo industriale di Civitavecchia e Montalto di Castro; c’è Silvia, laureata e con master finanziato dall’Ue che da anni va avanti con contratti cocopro da 800 euro al mese e si domanda «quale futuro avremo se abbiamo a stento un presente»; c’è Salvatore Cannavò, gay ventiseienne finito nei giorni scorsi sulle pagine di cronaca perché un tassista romano si è rifiutato di prenderlo in macchina; e c’è Stefania Grasso, figlia del commerciante Vincenzo Grasso, ucciso nell’89 per non aver pagato il pizzo, che non lascia Locri e che chiede un impegno a candidare soltanto «persone pulite, persone perbene».
Bertinotti ascolta, seduto in prima fila accanto a Daniele Silvestri (che lo chiama «zio Fausto»), Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio, Oliviero Diliberto, Titti Di Salvo e gli altri dirigenti dei quattro partiti. Poi sale sul palco e parte dalle cinque «esperienze di resistenza umana e civile» per indicare la strada su cui dovrà muoversi il nuovo soggetto. Dice che quelle ascoltate sono «domande a cui la politica non è stata in grado di rispondere, malgrado la fatica fatta» e che «per questo ora nasce la Sinistra arcobaleno». Perché se nell’immediato «il governo è dimissionario ma può ancora operare sul terreno degli immigrati e dei salari, testimoniando almeno in articulo mortis che una volontà di risarcimento c’era», per il futuro è necessario mettere a punto un programma incardinato su «tre grandi processi di liberazione: del lavoro, della natura e della persona».
«Resistenza», «liberazione», Bertinotti fa riferimento a radici antiche, citando anche la rivoluzione francese, perché «senza il tema dell’eguaglianza e della libertà la sinistra non esiste» e perché «bisogna recuperare una delle parole dimenticate, fraternità». Ma, anche quando dice che «la sinistra deve ricostruire una connessione sentimentale con il suo popolo», citando questa volta Gramsci, lo fa per sottolineare che lo sguardo deve essere rivolto al futuro. Non a caso, a chi glielo domanda prima di entrare nel teatro romano, risponde di non avere «assolutamente nessuna nostalgia per la falce e martello, siamo uomini e donne del futuro». E poi, in una sala in cui l’unico simbolo che si vede è quello della Sinistra arcobaleno, senza nessuna bandiera dei partiti fondatori, esordisce con un non usuale «amici e compagni».

Repubblica 21.2.08
Bertinotti lancia la campagna della Cosa Rossa
"Noi saremo di parte" Lo slogan della Sinistra contro il "buonismo"


"Chiamiamoci compagni e amici, ognuno scelga la casella dove stare" I temi: gay, mafia, ambiente, precariato

ROMA - Lo slogan che segnerà tutta la campagna elettorale è pronto. «Una scelta di parte». Sui manifesti 6x3, nei comizi, in tv, sarà il tormentone della Sinistra Arcobaleno nella maratona del 13 aprile. Per comunicare al paese esattamente il contrario di quel che Veltroni ha messo in campo come idea-forte della campagna del Pd, quel kennedyano «non chiedetevi per quale partito ma per quale paese». Troppo vago, buonista e indistinto secondo la sinistra. Ma che paese vogliamo, a chi parliamo? Politici e "creativi" della Cosa rossa, perciò, hanno deciso di puntare su una campagna dai toni forti e identitari (che sarà presentata ufficialmente a metà della prossima settimana), pur senza prendere di mira direttamente il Pd. E tocca proprio a Fausto Bertinotti che al Piccolo Eliseo di Roma apre la campagna, «ci chiameremo compagni e amici», far debuttare il nuovo leit-motiv della sinistra rosso-verde. Che si materializza alla fine del suo intervento. Sotto forma di ragionamento politico e non di slogan, ma il candidato premier anticipa - pur senza farne espressamente cenno - quel che appunto dietro le quinte il "tavolo della comunicazione" ha sfornato. «Oggi c´è questa idea di voler rappresentare tutti, noi facciamo eccezione. Noi siamo di parte, la Sinistra Arcobaleno vuole essere un soggetto politico partigiano». Sul palco, introdotti dal cantautore Daniele Silvestri, cinque giovani che raccontano la loro storia: un migrante, un medico che si batte per l´ambiente, un gay, una precaria, la figlia di un commerciante calabrese ucciso dalla ‘ndrangheta. Saranno proprio i cinque temi dominanti della campagna elettorale. A cominciare dall´offensiva sui diritti civili, secondo la sinistra abbandonati dal Pd. Manifesto pronto per andare in stampa: «Siamo di parte. Noi per la Costituzione. Altri per la Bibbia».
(u. r.)

l’Unità 21.2.08
Titti Di Salvo. La capogruppo alla Camera di Sd
«Uno sbaglio usare la Cgil per scelte individuali»
di Eduardo Di Blasi


«Penso che le scelte individuali siano tutte rispettabili. Detto questo, non mi convincono le ragioni di coloro che hanno deciso di lasciare Sd e, in ogni caso, non ho trovato da nessuna parte il perché abbiano deciso di aderire al Pd. Questa scelta non era la conseguenza automatica di quella precedente». Pesa i termini, Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera di Sd. Non condivide la ricostruzione fatta da un «pezzo» di Cgil che ha lasciato Sd per confluire nel Pd, ma arriva subito al nodo della questione: «Io penso che nel nostro Paese il cuore del problema sia la rappresentanza politica del lavoro o meglio il fatto che questo non sia rappresentato».
Il Pd, dal suo punto di vista, non lo rappresenta?
«Il Pd rinuncia esplicitamente a rappresentare il lavoro perché annuncia la propria equidistanza tra lavoro e impresa. Se c’è equidistanza vuol dire che non c’è differenza. Che c’è pari forza. Al contrario, tutto il diritto del lavoro italiano, nonostante Berlusconi, si basa ancora su un punto: non c’è pari forza tra imprenditore e lavoratore. I contratti e lo statuto dei lavoratori si incaricano esattamente di riequilibrare questa forza che non è pari».
Eppure diversi esponenti della Cgil hanno deciso di lasciare l’esperienza della Sinistra Arcobaleno...
«Scelta legittima, come detto. Ma sono personalità singole. Vedere usare la parola “Cgil”, dicendo che “si schiera a favore”, che “entra dentro” o “esce” da un partito, a me ha provocato un sobbalzo. E credo anche a tutta la Cgil. Ritengo che la Cgil sia un bene prezioso per questo Paese e per la sinistra. Soprattutto lo è la sua autonomia».
Il progetto di Sd è stato compresso dalla vicinanza della scadenza elettorale?
«Quello che stiamo provando a fare, sapendo che le elezioni hanno sorpreso tutti, è realizzare una grande ambizione: dare all’Italia una forza di sinistra larga, popolare, laica, ecologista. Vogliamo modificare la realtà per rendere l’Italia più giusta e solidale. Naturalmente non pensiamo in questa tornata elettorale di prendere il 51% ma non abbiamo certo la vocazione all’opposizione. Siamo una forza di governo, e nella nostra prospettiva strategica abbiamo un centro-sinistra nuovo per governare l’Italia».
Chi ha lasciato Sd afferma che la Sinistra Arcobaleno ha cambiato di segno al progetto...
«È stato detto anche che Sd ha tradito lo spirito del 5 maggio, che è curioso come argomento perché il 5 maggio è il giorno in cui Sd ha annunciato che non entrava nel Pd. Usarlo per dire che si entra nel Pd, si presta a qualche contraddizione».
Torniamo alla questione del lavoro...
«È il grande problema aperto che ci consegna la globalizzazione. Il Pd l’ha “risolto” rinunciando programmaticamente, dicendo “siamo equidistanti”. Ma non ci sono le scorciatoie. La rappresentanza politica del lavoro non si realizza con il sindacato che si fa partito, né con i partiti che si sostituiscono al sindacato».
Vedendo anche le dinamiche dei salari e delle pensioni si ha l’impressione che politica e sindacati siano stati un po’ fermi sulle gambe negli ultimi 10 anni...
«Sono stati anni difficili. I cinque anni di governo Berlusconi hanno pesato molto. Non siamo riusciti in questi mesi di governo Prodi a invertire del tutto la direzione di marcia. D’altra parte, quando si dice che gli operai e i pensionati sono “invisibili” vuol dire che la politica è impermeabile alle loro opinioni e che, al momento delle scelte, quegli interessi e quei bisogni spariscono. Questo ha determinato progressivamente impoverimento e disuguaglianza».

l’Unità 21.2.08
Nakhjavani: «Il velo? Non copre il corpo, ma l’anima»
di Maria Serena Palieri


L’INTERVISTA Parla l’iraniana Nakhjavani che ha dedicato un romanzo alla figura oscura e luminosa di Tahirith, poetessa Baha’i che nel suo Paese nell’800 sfidò il diritto girando a volto scoperto

Tahirih Qurratu’l-Ayn, una giovane che nell’Impero persiano della dinastia Qajar predicò la tolleranza e la libertà interiore secondo il verbo della confessione Baha’i, si ribellò al velo e, col bellissimo viso scoperto, insegnò ai più poveri a scrivere, compose poesie e, per la sua poetica capacità di prevedere il futuro, fu chiamata strega, per finire, accusata di omicidio, incarcerata a Teheran e poi assassinata, è l’eroina della Donna che leggeva troppo, romanzo di affascinante lettura, edito da Rizzoli, di Bahiyyih Nakhjavani, già autrice della Bisaccia. Sessant’anni, minuta, sguardo vivace e grandi occhiaie scure singolarmente ammalianti, la scrittrice porta questo nome la cui grafia, per noi di ceppo latino, è impossibile compitare. In realtà è naturalizzata europea dall’infanzia e scrive in inglese: a tre anni con la famiglia emigrò in Uganda, allora colonia, a undici arrivò in Gran Bretagna, oggi vive tra lì e la Francia. E, ci spiega, questo suo sradicamento è il motivo per cui ha costruito in modo così anomalo il romanzo con cui - con l’anima - è «tornata» nel suo Paese. Ripercorrendone un pezzo di storia ottocentesca, i quarant’anni di regno dell’effeminato e imbelle Shah Nasiru’d-Din, schiacciato prima dalla madre, la Reggente Mahd-i-Olya, poi da due Imperi prepotenti, il Britannico e il Russo.
Signora Nakhjavani, la poetessa di Qazvin in che misura è un personaggio storico e in che misura nasce dalla sua fantasia?
«Ho ereditato dalla Storia la sua storia. Fino da bambina ne conoscevo le gesta, perché, per noi di cultura Baha’i, è una figura importante. Ma negli ultimi centosessant’anni su di lei sono state costruite anche molte verità non vere, di volta in volta è stata esaltata o messa all’indice. I cosiddetti fatti sono anch’essi invenzioni, e andavano vagliati. Da parte mia ho inventato, ma in coda al libro ho messo un elenco di dati storici e una bibliografia che consentono al lettore di farsi una propria idea. Perchè oggi è in voga sbandierare la libertà creativa dell’autore. Ma io ho sentito una responsabilità precisa verso questa donna vessata nella sua vita vera, la cui voce è stata strozzata in senso letterale. Non volevo essere io a lapidarla di nuovo, a velarla di nuovo. I diritti umani dei morti vanno rispettati».
Sfuggente ma centrale nel suo romanzo c’è, appunto, la figura di una professionista della morte, la donna che lava i cadaveri. Come si è imposta alla sua fantasia?
«Ho voluto dare a Tahirih il funerale che non ha mai avuto e seppellirla col giusto onore. Questa donna è colei che per prima legge la sua storia. Lavare un defunto non significa lavare un corpo del suo passato? Ma, tornando a quella prima questione, su verità e invenzione, documentandomi su Tahirih io stessa ho trovato molti dati contraddittori. E allora ho usato un altro strumento narrativo: il pettegolezzo. Attraverso il gossip femminile, un continuo cicaleccio, puoi fare e disfare le verità molte volte. Ecco queste bocche di principesse e dame, ma anche di donne che lavano i cadaveri, che narrano fatti però ricamano su di essi. Con le loro chiacchiere “lavano” dei fatti che sono morti».
Lei, nella scrittura, impiega una splendida ironia. L’ironia è un frutto culturale, come la conosciamo noi oggi è erede di un’epoca, del Razionalismo seicentesco e di Voltaire. Per la cultura persiana essa esiste?
«I persiani sono i più raffinati utilizzatori della lingua, suonano, danzano con le parole, giocano con esse fino a sdoppiarne e triplicarne il senso. E questo è il seme dell’ironia. Ma è da lì che viene la mia? Quando mi trovo tra dei persiani raffinati, mi sento un ippopotamo. Parlo di un certo tipo di conversazione, tutta garbo e sorrisi, dove di colpo ti senti perforato da un commento sarcastico, pungente, e devi saper lavorare di fioretto. Sono un’analfabeta, allevata nella cultura anglosassone, non leggo né scrivo il farsi. Ecco il dilemma da cui sono partita quando ho deciso di scrivere la storia della donna persiana più raffinata del suo tempo nell’eloquio e nello scrivere. Perciò, per tradurre in inglese quei raffinatissimi giochi di parole, ho scelto una prosa vicina a quella inglese del Settecento e primo Ottocento, Swift, Carlyle, Pope. E Gibbon, coi suoi elementi retorici, tesi e antitesi che convivono nella stessa frase: parti con un concetto, poi lo ribalti, ma come una sorta di eco nel periodare persiste la prima versione... Ecco il nucleo dell’ironia. Ed ecco un modo di parlare molto persiano».
Benché ambientato in quest’Ottocento appartato, «La donna che leggeva troppo» è un romanzo che parla forte e limpido al mondo di oggi. Cosa pensa Bahiyyih Nakhjavani dell’Iran attuale di Amadinejad?
«Ne so per i racconti dei miei amici. Ci sono tornata una sola volta a diciannove anni, ed ero un personaggio tipico, la studentessa emancipata che, inorridita, si vede levare il passaporto all’arrivo per vederselo restituito solo alla fine del soggiorno, si accorge che deve uscire con uno chaperon e stare per lo più rinchiusa in casa con le altre donne che lavorano al piccolo punto coi bigodini in testa. Se tornassi oggi verrei arrestata, perché sono Baha’i. Due settimane fa cinquantaquattro cittadini, tutti Baha’i, sono stati condannati perché insegnavano a leggere e scrivere ai poveri di Shiraz. Verrei arrestata perché in un romanzo come La bisaccia ho analizzato con occhio relativista continuità e progresso nella religione. E la pressione dei mullah è fortissima. Dunque, per sentito dire so che dietro l’immagine ufficiale del Paese ci sono le masse iraniane di giovanissimi scontenti».
La sua poetessa rifiuta il velo perché strumento di oppressione. Anche lei, oggi, lo considera tale?
«Ciò che mi turba è che, tramite la moda del velo, gli adolescenti siano sottoposti a una politicizzazione di massa. Alle ragazzine, in un’età per natura difficile, viene offerta questa “risorsa”: velarsi. È l’equivalente della moda gotica offerta ai ragazzini di qui: quelle ferramenta mortuarie da appendersi alle orecchie, offerte a degli adolescenti che, per età, sono ossessionati da problemi di sesso, identità, morte. E che gli colonizzano il cervello».
Nel suo romanzo una cosa è chiarissima: l’oppressione delle donne deriva dalla paura che ne hanno gli uomini. Oggi è lo stesso?
«Sì. Una scrittrice marocchina, Fatima Mernissi, si è chiesta: cosa c’era prima dell’anno zero dell’Islam, della Rivelazione di Maometto? Sappiamo che c’era il Buio, un equivalente del Medio Evo per l’Europa. Ma cos’era? Lei ha ipotizzato che ci fosse una civiltà matriarcale. Ecco, credo che oggi serpeggi il terrore che quel Buio torni, e con esso il potere delle donne. Sa quell’immagine delle soldatesse americane bionde sbarcate in Kuwait dai tanks americani? Quella è stata dinamite nei cervelli dei fondamentalisti. Perciò fanno di tutto per schiacciare la libertà femminile».

l’Unità 21.2.08
Della pedofilia e delle pene
di Luigi Cancrini


«Le sentenze di condanna di primo grado emesse nei confronti di persone che hanno commesso, a qualunque titolo, reati che comportano l’abuso sessuale, lo sfruttamento nei confronti di minore, violenze sessuali individuali o di gruppo e altri reati contro la persona, debbono essere accompagnate da una valutazione peritale relativa alla pericolosità sociale dell’autore del reato. La valutazione peritale deve essere affidata a professionisti iscritti all’albo degli psicoterapeuti dotati di una preparazione specifica nel campo dei disturbi della personalità...».
E ancora: «Un elenco dei professionisti abilitati è istituito presso gli Ordini provinciali dei medici e presso gli ordini regionali e provinciali degli psicologi. La relazione peritale deve contenere una chiara e precisa indicazione del progetto terapeutico ritenuto più opportuno per il soggetto analizzato. Il Ministro di Giustizia di concerto con il Ministro della Salute provvede, con decreto congiunto, entro sei mesi dalla pubblicazione della presente legge, alla individuazione e accreditamento delle strutture pubbliche e del privato sociale presso cui andranno istituiti i processi terapeutici indicati come necessari nell’ambito delle misure di sicurezza. Il magistrato o il tribunale di sorveglianza valuterà la partecipazione e l’efficacia del programma di riabilitazione anche ai fini della concessione dei benefici ai detenuti e agli internati».
Non è un libro dei sogni. È il testo, approvato dai rappresentanti di tutte le forze politiche rappresentate nella Commissione Bicamerale, per l’Infanzia, di un progetto di legge che è stato scritto tenendo conto dei suggerimenti, fra i tanti, dell’On. Buongiorno di An, dell’On. Merloni del Pd e dell’avvocato Giostra, rappresentante della Commissione per la revisione del codice di procedura penale del Ministero di Giustizia. Un progetto che innoverebbe profondamente nel settore della lotta alla pedofilia. Mettendo in opera un processo di cambiamento necessario per un paese sbigottito di fronte al poveretto che, ad Agrigento, cede ancora una volta alla violenza della sua malattia. Abusando della bambina a lui incautamente affidata: dalla madre, dai giudici, dalla pedofilia.
Dispiace particolarmente a me, in quanto coordinatore del gruppo di lavoro che ha preparato quel testo, lineare e fattibile, il modo in cui la vicenda di Agrigento è stata utilizzata, senza far riferimento a questi lavori, dai leaders della «battaglia» politica in corso per la campagna elettorale. Parlando della necessità di «castrazioni chimiche» («occorre una terapia, un trattamento, quella che è volgarmente chiamata la castrazione chimica»), Fini sembra non preoccuparsi della necessità di modificare il quadro di riferimento legislativo: proponendo quasi, ad un immaginario collettivo disorientato e confuso, l’idea di una autorità che direttamente castra, senza la mediazione dei processi, il presunto colpevole. Quello che gli fa éco dall’altra parte, tuttavia, Walter Veltroni ha solo parlato di risposte basate soltanto sull’aumento delle pene e sull’allungamento della detenzione preventiva.
Facile, per L’Unione Camere Penali Italiane fargli rilevare che «il punto non è allungare i termini di custodia cautelare per far scontare ad un presunto innocente una pena non ancora comminata, quanto piuttosto eliminare i tempi morti del processo e giungere velocemente ad un pronunciamento definitivo. Se il processo si fosse celebrato all’interno della durata dei termini di custodia cautelare, già lunghissimi, il pizzaiolo di Agrigento non sarebbe stato scarcerato». Facile ugualmente per chi in questo campo lavora, fargli rilevare che a poco servirebbe aumentare gli anni di pena lasciando immutato un regime carcerario del tutto inadatto a persone che stanno male: gli anni di carcere finiscono, infatti, la malattia no se non si fa qualcosa per curarla.
La storia di Raoul che ho incontrato qualche anno fa in una Comunità Terapeutica potrebbe essere utile, forse, per spiegare meglio quello che sto tentando di dire. Più volte ricoverato in luoghi psichiatrici, più volte condannato per le conseguenze violente delle sue crisi di nervi, Raoul ha trovato il coraggio (la forza) di raccontare, in Comunità, la violenza sessuale di cui è stato oggetto da bambino e il continuo affiorare, spaventoso e terrorizzante prima di tutto per lui, degli istinti pedofili che lo hanno portato, in alcune situazioni, a vendicarsi su altri innocenti, di quello che lui stesso aveva subito. Sta male, mentre lo racconta, come se le emozioni legate al ricordo di ciò che ha fatto e che ha subito avessero la forza di fargli «perdere il senno». Quello che viene fuori nel tempo, tuttavia, è il recupero di un equilibrio, senza più sintomi psichiatrici e senza più violenze: dolorosamente segnato solo dal rimorso per il male che anche lui comunque ha fatto ed a cui non sa, ora, come porre riparo.
Bisognerebbe partire da esperienze come questa, mi dico, nel momento in cui si progetta il futuro. Per farlo, tuttavia, è necessaria una capacità di ascolto e di rispetto per l’altro sempre più rara nel dibattito che si sviluppa fra quelli cui è affidato il compito di governare e di scrivere delle leggi. Per quello che mi riguarda ho passato una vita a pensare che il compito degli «intellettuali organici» di Gramsci non è solo quello di orientare le masse ma di dare suggerimenti utili a chi ha la responsabilità di decidere. È per questo motivo che ho voluto qui presentare ancora una volta le idee maturate nella Commissione e una storia come quella di Raoul. Senza aspettarmi molto da Fini ovviamente che sicuramente insisterà su un’idea di castrazione chimica che sicuramente piace al suo elettorato di destra. E molto sperando, invece, nella possibilità di aprire una discussione seria su questi problemi con Veltroni: convinto come sono del fatto per cui su temi come questi il divaricarsi delle posizioni fra persone che vengono da una storia e da una esperienza culturale comune è legato, in una fase concitata come questa, soprattutto alla carenza delle reciproche informazioni. Alla mancanza di una discussione pacata che invece abbiamo tutto il tempo di fare: anche in campagna elettorale.

Repubblica 21.2.08
Deputato del Pci negli anni ´80, il giuslavorista ha poi guidato l´offensiva contro la "sinistra conservatrice"
La sfida di Ichino: "Io eretico nel Pd si può ridiscutere pure l´articolo 18"
Che dirà la Cgil? Dentro questo sindacato ci sono tanti orientamenti
di Roberto Mania


ROMA - Pietro Ichino, 59 anni, professore di diritto del lavoro a Milano, è stato per anni un intellettuale scomodo per la sinistra. Spesso "troppo avanti", come ha detto Massimo D´Alema, per essere seguito da una sinistra tendenzialmente conservatrice sui temi del lavoro. Ora Ichino ha accettato di correre in Lombardia nelle liste del Pd.
Fin dagli anni ‘80, quando era deputato del Pci, lei è stato considerato una voce eretica della sinistra. Ha cambiato posizioni o è la sinistra che si è avvicinata alle sue idee?
«Negli anni 70 e 80 ero "eretico" perché sostenevo il riconoscimento legislativo del part-time, l´abolizione del monopolio statale del collocamento, l´apertura alle agenzie di lavoro temporaneo, l´abolizione della scala mobile. Tutte cose su cui oggi nessuno, nel Pd, dissentirebbe. Questo è un partito totalmente diverso rispetto al vecchio Pci; ma è molto diverso anche da Pds e Ds».
A Veltroni aveva posto tre condizioni per accettare la candidatura: poter continuare le battaglie per modernizzare l´impiego pubblico, la contrattazione e il mercato del lavoro. Che cosa ne è nel programma del Pd?
«Sui primi due punti c´è un´apertura e una convergenza esplicita e puntuale. Sul mercato del lavoro il programma indica l´obbiettivo giusto: quello della "migliore flexicurity europea". Sul come realizzarla ci sono diverse proposte sul tappeto: quella del contratto unico nella versione Boeri-Garibaldi e nella versione mia, oppure quella della "Statuto dei lavori". C´è materia per una discussione promettente».
La Cgil, dopo aver apprezzato Veltroni, starà dalla sua parte?
«La Cgil è una grande confederazione sindacale, che ospita molti orientamenti diversi. Anche il mio: sono iscritto alla Cgil dal 1969. Il dialogo è sempre aperto, anche quando i dissensi sono netti».
Il capitolo sull´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori andrà riaperto?
«Io sono per una grande intesa tra imprese e lavoratori: le prime rinunciano alla giungla dei contratti precari e "atipici", i secondi accettano che tutte le nuove assunzioni avvengano con un contratto a tempo indeterminato, con grado di stabilità crescente nel tempo. Questo, certo, comporterebbe una riforma della disciplina dei licenziamenti, ma sarebbe una misura molto incisiva contro l´abuso del lavoro precario».
Come giudica la proposta sindacale per riformare i contratti?
«Concordo con Bombassei: è una proposta poco incisiva e incompleta».
Le piacerebbe fare il ministro del Lavoro?
«Solo in un governo nel cui programma ci fossero ben chiare le cose da fare che credo più importanti».
Quali?
«Trasparenza, valutazione e misurazione nel settore pubblico. Forte impulso al lavoro femminile, anche mediante la leva fiscale. Contratto unico flessibilizzato, a tempo indeterminato, per tutte le nuove assunzioni. Spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia e riforma della rappresentanza sindacale (ma quest´ultimo obbiettivo va raggiunto attraverso un grande accordo interconfederale)».

Repubblica 21.2.08
L’annuncio a Repubblica tv della capogruppo Pd al Senato
"Applicare pienamente la 194" mozione Finocchiaro-Binetti
Documento comune con la senatrice teodem: tanti i punti che ci uniscono
di Paola Coppola


ROMA - Applicare la 194 per garantire la libera scelta delle donne. Scritta da Anna Finocchiaro e Paola Binetti. La capogruppo del Pd a Palazzo Madama e la senatrice teodem. Una mozione comune. Si può fare, è anzi cosa fatta.
«È una mozione che chiede la piena applicazione della legge», annuncia la Finocchiaro a Repubblica Tv e, mentre ricorda le differenze d´opinione e le discussioni con la Binetti, chiarisce da dove nasce la scelta di un testo condiviso proprio sul tema dell´aborto (testo che è stato inviato ieri a tutte le senatrici del partito democratico): «Ritengo essenziale la presenza dei cattolici nel Pd, ma quando si sta in politica dobbiamo partire dal presupposto che il nostro è uno stato laico e che non si può scegliere un atteggiamento di interdizione su temi tanto delicati», dice. Tre pagine di mozione nella quale si parte da una premessa: il giudizio positivo sulla 194 «che ha permesso di limitare fortemente l´aborto da ritenersi sempre un dramma sociale e individuale del quale è auspicabile la completa scomparsa>.
Poi ribadisce che la 194 non si tocca. Va verificata che vi sia «un´applicazione piena, coerente ed omogenea della legge nel rispetto della libertà e responsabilità della donna». Nessuna deriva eugenetica: «È uno strumento utilissimo, soprattutto per le donne immigrate, che senza questa legge sarebbero consegnate alle mammane. La rappresentazione che viene fatta della 194 è falsa: non c´è alcuna deriva eugenetica», afferma la Finocchiaro. Come dicono i dati: «Gli aborti terapeutici riguardano solo lo 0,7 del totale. E il miliardo e 700 milioni di aborti nel mondo, di cui si parla per confondere la gente, non ha niente a che vedere con questa legge».
In serata la senatrice elenca i punti (che sono nella mozione) condivisi con la Binetti . Lo fa intervenendo a L´Infedele di Gad Lerner su La7. «Innanzitutto la prevenzione dell´aborto». E ancora: la contraccezione, soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti, le donne immigrate che sono la «vera emergenza», le maternità difficili e la necessità che vengano assistite da un intervento pubblico, il potenziamento dei reparti intensivi neonatali e dei consultori familiari, e la necessità di politiche che assecondino il desiderio di maternità delle italiane.
Ai partiti proprio ieri il Movimento per la vita ha chiesto di schierarsi sull´aborto prima dell´election day. Con un documento che individua quattro punti per aiutare gli elettori a districarsi nella campagna elettorale, a cominciare dalla promozione della moratoria sull´aborto.

ultim'ora: accordo fatto, i radicali ce l'hanno fatta. Sono nel Partito della binetti, contro la Sinistra Arcobaleno
Corriere della Sera 21.2.08

Radicali verso il sì al Pd «Nove in Parlamento e Bonino ministro»
Veltroni va al Tg5: tv, riforma non punitiva
di Gianna Fregonara


Riunione nella notte, la svolta di Pannella: «Parleremo con Walter ma, per come si delinea, l'intesa si può fare»

ROMA — Faticosamente, si profila l'accordo tra Pd e radicali. In una tormentata riunione fiume ieri sera Marco Pannella ha segnato la svolta: «Dobbiamo ancora parlare con Veltroni ma, per come si sta delineando, l'intesa si può fare». E infatti l'offerta che ieri mattina Goffredo Bettini ha consegnato, nero su bianco, ai radicali era di quelle da non lasciar da parte. Non un'alleanza, certo, come continuavano a chiedere Pannella e i suoi, ma un «pacchetto» di promesse politico-economiche: nove eletti, Bonino ministra designata da subito, incarichi nelle commissioni e in Aula, rimborso sulla base degli eletti (si parla di 3 milioni di euro in cinque anni, seicentomila all'anno), il 10 per cento di quanto spetta al Pd negli spazi tv autogestiti più la partecipazione dei radicali anche alle trasmissioni principali, da
Porta a Porta in giù, alcuni accordi su punti del programma. Con una sola condizione: ci vorrà l'ok di Veltroni sulle candidature, anche su Pannella e l'ex terrorista oggi leader della battaglia per la moratoria sulla pena di morte, Sergio D'Elia, le più contestate.
Più o meno l'accordo che il plenipotenziario di Veltroni ripete da domenica: ma con una novità, Bettini ha chiesto di decidere in fretta, facendo sapere direttamente al leader del Pd la risposta. E soprattutto ha detto che la proposta del Pd è l'ultima offerta, non c'è altro spazio per rilanci. Peccato che Pannella abbia chiuso la riunione del partito, annunciando una nuova fase di trattativa proprio con il leader del partito.
Per i radicali è iniziata una delle più difficili fasi della loro vita politica. Già da qualche giorno più d'uno nel partito era tentato di dire subito sì ad un'offerta che avrebbe dato visibilità e sopravvivenza (anche economica) al partito, in cambio della rinuncia al simbolo. Ma nessuno ha osato dirlo, anzi. In attesa di Pannella (il «piccolo padre» lo definiva un dirigente non convinto della linea del partito), i due mediatori radicali Marco Cappato e Rita Bernardini hanno rilasciato dichiarazioni poco incoraggianti. Sul sito dei radicali è apparso un appello per rilanciare la candidatura di Pannella. Poi una riunione tormentata e alla fine la decisione di Pannella di proseguire sulla strada dell'accordo.
Ma non è la risposta dei radicali l'unico tema spinoso per Veltroni. Ieri il candidato premier è andato al Tg5 a rassicurare gli ascoltatori e i vertici di Mediaset che la proposta del Pd sul riassetto tv non è quella di Di Pietro, ma la Gentiloni, «una riforma non punitiva» del gruppo berlusconiano.

Sabato sarà al dibattito organizzato dall'Associazione Culturale Amore e Psiche
Corriere della Sera 21.2.08
A «Otto e mezzo» su La7
Armeni sola, meglio di Giuliano Ferrara


MILANO — Giuliano Ferrara ha detto arrivederci alla tv il 12 febbraio e nonostante i fan addolorati il suo «Otto e mezzo» ha tenuto negli ascolti. I telespettatori che seguivano l'approfondimento de La 7— con la doppia conduzione Ferrara/Armeni — erano circa 700 mila, pari al 2.6% di share (alcune volte superavano il 3.5%). La sola Armeni ha ottenuto una media del 2.7%, con circa 720 mila spettatori.
La formula è diversa: dura meno (finisce alle 21.10) ma si è aggiunta la puntata del sabato. Dal 19 c'è Lanfranco Pace con la giornalista: una serata un po' infelice (ferma al 2%) per le partite di Champions.

Liberazione 21.2.08
La risposta a Magris (e tanti altri maschi) su cosa vuole dire «rispettare la vita» Abortire ovvero una decisione altamente morale
di Italo Calvino

Caro Magris,
con grande dispiacere leggo il tuo articolo "Gli sbagliati" (1). Sono molto addolorato non solo che tu l'abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo.
Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d'amore da parte degli altri. Se no, l'umanità diventa - come in larga parte già è - una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d'un allevamento «in batteria» nelle condizioni d'artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico.
Solo chi - uomo e donna - è convinto al cento per cento d'avere la possibilità morale e materiale non solo d'allevare un figlio ma d'accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d'imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l'aborto a un'idea d'edonismo o di vita allegra. L'aborto è «una» cosa spaventosa «...».
Nell'aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell'uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale «impiega» la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell'incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle «misure igienico-profilattiche»; certo, a te un raschiamento all'utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t'obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell'«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite (2).
Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia (3).
Parigi 3/8 febbraio 1975

Note
(1) L'articolo di Magris era uscito sul Corriere della sera del 3 febbraio 1975. Calvino gli risponderà con l'articolo "Che cosa vuol dire «rispettare la vita»" ( Corriere della sera , 9 febbraio 1975; poi in "Saggi", pp. 2262-67): in esso si leggono frasi ed espressioni identiche a quelle della lettera, che va quindi datata fra il 3 e l'8 febbraio. Si veda anche la lettera a Giorgio Manganelli del 22 gennaio 1975.
(2) Nella minuta segue un capoverso cancellato: «Anche la prima parte del tuo articolo sui figli inguaribili, mi pare di una grave superficialità dando per scontato una sacralità della vita in tutte le sue forme che non vuol dir niente, che finisce per sminuire l'eroismo dei tanti casi che conosco di vite sacrificate per figli mongoloidi o paralitici».
(3) I rapporti fra Magris e Calvino saranno in seguito ristabiliti.

*La lettera e le note esplicative sono tratte dal volume
"I. Calvino, Lettere 1940-1985"
curato da Luca Baranelli
pubblicato dai Meridiani
Mondadori, Milano 2000
(pp. 1264-66)