domenica 24 febbraio 2008

l’Unità 24.2.08
Aborto, i medici: la 194 non si tocca
«È una legge moderna». Appello per la pillola del giorno dopo ma trovarla è una chimera
di Giuseppe Vittori


Basta attacchi alla legge 194, «a trent’anni di distanza dimostra tutta la solidità e la modernità del suo impianto tecnico-scientifico, giuridico e morale». Scende il campo la Federazione degli Ordini dei medici per replicare all’offensiva aperta, in modo più o meno strisciante, contro la legge sull’interruzione della gravidanza. Dal Consiglio nazionale in corso a Roma, i medici lanciano anche un appello per «l’uso delle tecniche più moderne e rispettose dell’integrità psicofisica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza», come la RU 486, praticamente sconosciuta in Italia. Così come è sempre più difficile reperire la pillola del giorno dopo, tra medici (e persino farmacisti) obiettori e lunghe attese soprattutto per le donne più giovani.

«PUR SCONTANDO ritardi ed omissioni applicative, la legge 194, a distanza di 30 anni, dimostra tutta la solidità e la modernità del suo impianto tecnico-scientifico, giuridico e morale». È questa l’opinione di Fnomceo, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, ribadita nel corso del Consiglio nazionale della federazione, in corso a Roma. Per Fnomceo, occorre supportare la legge 194, «incrementando l’educazione alla procreazione responsabile, il supporto economico e sociale alla maternità soprattutto in quelle aree dove il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza resta alta, quali ad esempio adolescenti ed immigrate». Per quanto riguarda l’aborto farmacologico, relativo all’uso del farmaco RU486 associato alle prostaglandine, la Federazione riafferma la necessità di dare piena e compiuta attuazione alla legge, compreso l’art. 15, laddove raccomanda «l’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità psicofisica della donna e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza».
«Sulle delicate questioni che animano il dibattito bioetico - spiega Fnomceo - il nostro Codice Deontologico oltre ad essere una guida per i medici, è una sicura garanzia per il cittadino». Se può essere riassunto in uno slogan il documento ampio e articolato, che è uscito a Roma, dal Jolly Hotel, dove è ancora in corso un dibattito del Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, questo potrebbe esserlo. Durante il loro Consiglio Nazionale, i rappresentanti dei camici bianchi di 103 Ordini provinciali hanno parlato di tutti i temi etici che tanto coinvolgono in questo momento la società ed il confronto politico: Aborto, RU486, Pillola del giorno dopo, Procreazione medicalmente assistita, Rianimazione di prematuri con età gestazionale molto bassa (22-25 settimane). Una ad una sono state analizzate le tematiche connesse alla contraccezione, alla procreazione e alla interruzione di gravidanza, lanciando un monito ad abbassare i toni ed evitare qualsivoglia strumentalizzazione.
«Si ritiene che questioni così delicate - si legge infatti nel Documento di Fnomceo - che si riferiscono a quanto di più intimo e personale coinvolga la donna, la coppia e la società meritino grande rispetto ed un confronto sociale e politico meno strumentale, meno ideologico, più attento al grande bagaglio di sofferenze che sempre accompagna questi tormentati cammini che ricadono sulle donne, spesso lasciate sole in queste drammatiche circostanze». E la Fnomceo ribadisce di voler essere garante di questa tutela. «L’autonomia e la responsabilità della nostra professione - è infatti scritto nel testo del Documento - si pongono come garanti di un’alleanza terapeutica fondata sul rispetto dei reciproci valori, diritti e doveri». intenda prevenire una gravidanza indesiderata ed un probabile successivo ricorso all’aborto». In sostanza, pur riaffermando con forza il diritto del medico alla clausola di coscienza prevista all’art. 22 del Codice Deontologico, va ricordato l’obbligo, ivi previsto, del medico di «fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento». In altre parole, la tensione tra il diritto del medico alla clausola di coscienza e quello del cittadino alla fruizione della prestazione riconosciuta come disponibile, non fa venir meno l’obbligo anche deontologico dei medici ad operarsi al fine di tutelare l’accesso alla prestazione nei tempi appropriati.

l’Unità 24.2.08
Viaggio negli ospedali romani
Pillola del giorno dopo, una chimera tra medici obiettori e lunghe attese
di Gioia Salvatori


La nostra ricerca per avere una prescrizione è durata 15 ore: c’è chi non l’ha prescritta perché non ginecologo, chi perché cattolico

Qualunque medico può prescriverla, al pronto soccorso, al consultorio, nell’ambulatorio del medico di famiglia. Di fatto, però, molti fanno obiezione di coscienza e per averla può non bastare neppure recarsi al pronto soccorso ginecologico. La pillola del giorno dopo è un anticoncezionale d’emergenza, niente a che vedere con aborto e Ru 486, ma la sua prescrizione a Roma, soprattutto la notte e nei weekend, è una chimera. L’odissea di coppie, donne sole e turiste alla ricerca della pillola che non c’è, può protrarsi per ore tra obiezioni di coscienza, per altro ammesse solo per la 194, e file.
Il nostro viaggio alla ricerca della prescrizione è durato una notte e mezza giornata, tra lunghi viali bui di grandi presidi ospedalieri da percorrere, portieri sonnacchiosi in guardiola, silenziosi corridoi d’ospedale e asettiche sale d’attesa. Dall’altra parte, la notte, c’è un infermiere di pronto soccorso che fa da filtro e ti consiglia di andare altrove, di giorno c’è un assistente sociale di consultorio, una donna solidale e cortese, che fa quello che può per aiutarti, in uffici pubblici tappezzati da manifesti sui servizi della Asl per bambini, famiglie e donne in maternità. Tra i medici c’è chi non prescrive la pillola del giorno dopo perché non è ginecologo, chi non la prescrive perché è obiettore e chi non la dà perché l’ospedale è cattolico. Con angoscia della povera malcapitata alle prese con una corsa contro il tempo, magari by night o nel traffico della Capitale. La pillola del giorno dopo, infatti, se presa entro 72 ore dal rapporto a rischio, nel 75 per cento dei casi evita la gravidanza ma è più efficace se si prende entro 12 ore. A noi, però, che l’abbiamo cercata la notte tra mercoledì e giovedì, sono servite 15 ore solo per avere la ricetta.
Prima tappa l’isola Tiberina, ospedale Fatebenefratelli, dove, essendo il presidio pubblico ma di proprietà dell’Ordine, già alla accettazione dicono: «No, qui non si dà è un ospedale cattolico». Al pronto soccorso del C.t.o. anche c’è un medico obiettore. Ce lo dice un infermiere chiamato dopo 30 minuti passati in anticamera, in attesa di parlare con «la dottoressa di turno». Ci consiglia di recarsi al Sant’Eugenio o al San Camillo, dove c’è il pronto soccorso ginecologico: «E magari la danno perché - dice - la può prescrivere solo il ginecologo. Vuoi parlare con i medico? Fai l’accettazione, compili il foglio e aspetti: codice bianco». Anche al San Giovanni c’è il pronto soccorso ginecologico, ma entrambi i medici in turno la notte tra mercoledì e giovedì, sono obiettori. «Inutile anche parlarci - dice l’infermiera dell’accettazione - vieni domattina al nostro ambulatorio per la pianificazione famigliare, o vai al consultorio di via Monza». È a via Monza che ci rechiamo l’indomani mattina ma l’assistente sociale prende il nome della malcapitata e dice che: «L’informazione data dal San Giovanni è improvvisata: qui il medico di turno, stamattina, è un pediatra». Dopo un rapido check dei consultori più vicini all’abitazione della paziente e una telefonata, arriva un appuntamento per il pomeriggio, ore 16.30, al consultorio del quartiere Garbatella. Qui, nel cuore della scuola resa nota dal film «I Cesaroni», dopo un’ora di attesa, la compilazione della cartella clinica e anche di un foglio sul consenso informato sui rischi del farmaco, arriva l’agognata ricetta con su scritto «Norlevo». Dopo 15 ore, 4 medici obiettori, tre ospedali visitati nella notte e informazioni sbagliate. «Ma sono stata sfortunata o è sempre così?». «Sempre così - dice il ginecologo non obiettore, sconsolato - Sembra che questo servizio debba ricadere solo sulle spalle dei consultori. Tutti obiettano ma non è mica un farmaco abortivo».
L’obiezione di coscienza, infatti, è prevista per la legge 194. Per la pillola del giorno dopo, ha stabilito il Comitato nazionale di bioetica, c’è la «clausola di coscienza», concetto più sfumato che si traduce, comunque, in un esonero del medico. Autorità ed istituzioni competenti, però, ha deliberato il Cnb, devono vigilare affinché l’esercizio della clausola di coscienza non si traduca di fatto nella restrizione delle libertà e diritti riconosciuti. Inoltre, si legge nel codice deontologico dei medici, l’obiettore deve fornire informazioni utili alla donna e non si può esonerare dalla prestazione se c’è grave e immediato nocumento per la sua salute.
Anche se non sempre vanno di pari passo mancata prescrizione della pillola del giorno dopo e obiezione per la legge 194, di fatto avere questo farmaco a Roma, con il 77, 7 per cento dei medici del Lazio obiettori, è complicato. Il metodo più sicuro per la prescrizione in tempi rapidi sono i medici di famiglia, che fanno la ricetta forti di una conoscenza clinica della paziente, e gli ambulatori per la 194. «Le controindicazioni di un aborto sono cento volte maggiori di quelle della pillola del giorno dopo - dice Pier Luigi Bartoletti della Fimmg Lazio - Le pazienti che rimangono incinte per mancata prescrizione della pillola del giorno dopo nonostante si siano mosse in tempo e abbiano seguito le indicazioni degli addetti ai lavori, a parer nostro possono citare il medico che gliel’ha negata se riescono a dimostrare il rapporto causa-effetto tra la mancata prescrizione e danni conseguenti».
Al pronto soccorso ginecologico dell’ospedale romano San Camillo c’è quasi sempre un medico non obiettore. Per avere la pillola si fa il normale triage: codice bianco e ticket di 25 euro più 12 per comprare la pillola in farmacia. «Come fa una ragazzina di 16 anni? - dice la responsabile del day hospital legge 194 del San Camillo, Giovanna Scassellati - Così non c’è prevenzione, per questo abbiamo chiesto al ministro Turco di declassare a farmaco da banco questa pillola e di abolire il ticket se viene prescritta al pronto soccorso. Il nostro appello è anche per le Regioni e le direzioni sanitarie. Alle donne invece dico: compratela prima e tenetela in casa. Una volta è venuta una spagnola respinta in 7 ospedali il giorno di Pasqua. Vallo a spiegare ai turisti, che in molti paesi europei trovano questo farmaco al banco, perché qui averlo è così difficile». Dal fronte i medici attendono il passaggio alla conferenza Stato regioni dello schema d’accordo per l’applicazione della legge 194 che prevede, tra l’altro, pillola del giorno dopo in pronto soccorso e guardie mediche e un medico non obiettore in ogni distretto sanitario.
Alle prese con la pillola che non si trova, intanto, ci sono coppie di tutte le età e tante giovanissime. «Nei nostri consultori - dice il direttore dell’Aied Roma, Enzo Spinelli - il sabato mattina c’è la fila degli universitari, in numero quasi pari a quanti ne vengono durante la settimana. Due settimane fa è venuta una coppia a cui in un ospedale avevano detto che la pillola del giorno dopo non esiste». Almeno, loro sanno che c’è una pillola del giorno dopo. Immigrate e rom, non sempre sono informate. «Non ho visto uteri bucati ma tanti tentativi, sempre negati, di aborto clandestino farmacologico - racconta un’infermiera dal pronto soccorso del San Camillo - soprattutto tra immigrate. Spesso le donne non sanno della pillola del giorno dopo e neppure che si può avere la prescrizione gratuita, senza il triage del pronto soccorso, all’ambulatorio della 194, che è quasi in ogni ospedale che pratica Ivg e dove è sicuro che ci sono medici non obiettori».
Avuta la ricetta bisogna andare in farmacia. Quella che i farmacisti non danno la pillola del giorno dopo, somiglia a una leggenda metropolitana: «L’abbiamo sempre venduta, non è un farmaco abortivo ma un anticoncezionale d’emergenza: allora non si dovrebbero vendere neppure gli altri anticoncezionali - dice una farmacista cattolica - Invece vendere la Ru 486, se dovesse essere messa in commercio, mi creerebbe un problema di coscienza, non credo la fornirei». Rispetto alla pillola del giorno dopo si esprime anche Federfarma: «Se c’è una ricetta medica non possiamo tirarci indietro - dice Annarosa Racca del consiglio di presidenza - Per i farmacisti non è prevista l’obiezione di coscienza: devono dare il farmaco e, qualora non l’avessero, procurarlo nel più breve tempo possibile». Tempo che magari è quello che resta tra il rapporto a rischio e le 12 ore successive, le più utili a evitare la gravidanza con la pillola del giorno dopo: «Quella che le donne, con la paura di una gravidanza indesiderata - dice l’infermiera del San Camillo - vorrebbero dopo cinque minuti». E invece trascinando l’angoscia lungo bui viali d’ospedale, asettiche sale d’attesa, medici obiettori e informazioni sbagliate, una donna, a Roma, capita che aspetti anche 15 ore.

l’Unità 24.2.08
Scritte neonaziste sui muri del «Mamiani»


ROMA Scritte neonaziste e di dileggio di un dramma privato della senatrice Franca Rame sono comparse la scorsa notte sui muri di un noto liceo di Roma, il Mamiani. «A Franca Rame gli è piaciuto» e «Onore a Rudolf Hess», sono le due scritte, firmate con una croce uncinata, che gli studenti del liceo scientifico Mamiani hanno trovato sui muri del loro istituto. Lo hanno segnalato «Studenti antifascisti» del liceo della capitale che, dopo aver informato il preside, hanno cercato di coprire la scritta riferita allo stupro subito dalla Rame nel 1973 e quella inneggiante al delfino di Adolf Hitler. Episodio grave di bullismo invece a Messina. Non ha ancora presentato denuncia il genitore dell’alunno di una prima classe del liceo scientifico Seguenzache sarebbe stato picchiato da quattro studenti, che gli avrebbero sbattuto ripetutamente la testa contro il banco, mentre uno degli aggressori riprendeva la scena con il telefonino. L’uomo, un avvocato, ha avuto un incontro con la preside del liceo e prevede di presentare l’esposto dai carabinieri nel pomeriggio. La ricostruzione dell’accaduto si basa sulla testimonianza del ragazzino pestato durante l’episodio di bullismo, perché non ci sarebbero stati testimoni, e sul referto medico dell’ospedale Piemonte per trauma cranico e stato d’ansia, per una prognosi di sette giorni. Vittima e aggressori, scrive il quotidiano «La Gazzetta del Sud», ricostruendo l’episodio, apparterrebbero a famiglie della Messina bene. Nei giorni scorsi nella stessa scuola sarebbe stato sequestrato un martello, portato da un ragazzo ma pare che non fosse uno dei quattro aggressori.

l’Unità 24.2.08
Trasmette a tutte le ore da Roma a Napoli, è l’ultimo strumento di giovani accoliti del Duce
Radio bandiera Nera, quando l’adunata è sul web
di Eduardo Di Blasi


È la sera di venerdì. La ragazzina legge un testo complicato che parla di fascisti eroici, militanza, pericolosi bolscevichi. Sbaglia accenti, parole, a volte non riesce a comprendere il senso della frase e mette un punto che non ci dovrebbe essere. Dalla voce avrà meno di 18 anni. Propone una canzone su un soldato fascista ferito che continua a marciare. Poi riprende la lettura con la sua cadenza militaresca che passa sopra la grammatica italiana senza pietà.
Http://www.radiobandieranera.org/player.html, la radio via web dei giovani accoliti del Duce, trasmette a tutte le ore, da Roma (altra iniziativa del gruppo che si riunisce attorno al centro sociale di destra di Casa Pound), Varese, Milano, Bolzano, Genova, Trieste, Palermo, l’Aquila, Bolzano, Napoli... Una rete di dj neri (tra cui dj Anti-antifa) che, dopo le prime prove tecniche di trasmissione, è attiva con un proprio palinsesto ormai da qualche mese. Parla al proprio mondo, con gli slogan che hanno fatto la fortuna del Blocco Studentesco, il movimento giovanile di Fiamma Tricolore legato anche lui all’esperienza di Casa Pound («C’è una nuova adunata sediziosa nel web, radio Bandiera Nera»), e con contenuti che rimpiangono il ventennio messi in bocca a ragazzi che non sembrano comprenderne a pieno la portata. RbN è l’ultimo veicolo commerciale prodotto di questa destra «non conforme», promuove la propria musica identitaria, le nuove immagini fatte di cartoni animati giapponesi anni ‘80, mondo ultras, hardrock punk d’oltreoceano.
Ha una propria rassegna stampa, una propria rubrica sportiva («Aridatece novantesimo», che fa suonare in sottofondo la sigla di Shingo Tamai dei Superboys, papà, calcisticamente parlando, della più fortunata serie animata giapponese di Holly e Benji) , e diversi collegamenti improvvisati con microfoni che sembrano essere messi dentro una stanza con due tre persone che parlano di ciò che gli pare, dal programma elettorale di Walter Veltroni, ai cerchi nel grano, senza una logica precisa. Essendo una radio identitaria ci si saluta con «un saluto ai camerati». Ed essendo realizzata in parte da ragazzi molto giovani, nell’indicare nuove manifestazioni possono anche uscire frasi del tipo «riesce a coagulare i giovani». Quando ci si domanda del perché la destra riesce a far presa sui ragazzi con messaggi che sembrano lontani secoli rispetto alla società attuale basta ascoltarla per un paio d’ore. E veder miscelate canzoni come «Son morto nel Katanga, venivo da Lucera» della Compagnia dell’Anello e Cyrano di Francesco Guccini. E sentirli parlare.

l’Unità 24.2.08
Chi non vuole risolvere il problema anoressia
di Gianluca Lo Vetro


TRA GLI STILISTI solo Fiorucci ha preso iniziative concrete contro i disturbi alimentari. E la direttrice di Donna moderna Cipriana Dall’Orto denuncia: «Alle recenti sfilate molte ragazze avevano le scapole in fuori»

Il contrappasso è quasi perfido: alle sfilate di Milano Moda Donna gli stilisti hanno rilanciato i grandi volumi. Ma dentro alle cappe a uovo, le gonne a corolla e i colli a vulcano, le modelle in pedana erano più che mai magre. A ben poco è valsa l’azione del Ministro per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive, Giovanna Melandri. Dopo aver promosso nel 2006 il «Manifesto contro l’Anoressia», alla vigilia delle passerelle autunno-inverno 2008/09 terminate ieri a Milano, la politica ha voluto incontrare il presidente della Camera Nazionale della Moda, Mario Boselli, per verificare l’effettiva applicazione del regolamento contro la taglia zero e istituire un Comitato di Monitoraggio che, con la consulenza di operatori socio-sanitari, ne garantisca il rispetto. Ma tant’è: «ancora troppe ragazze - osserva il condirettore di Donna Moderna, Cipriana Dall’Orto - avevano le scapole in fuori, tipiche di una magrezza patologica. Tanto, da farmi sorgere il sospetto che questa moda così imbottita e voluminosa, fosse studiata apposta per corpi scheletrici, più che per seguire forme morbide».
Pochi stilisti entrano nel dibattito e soprattutto prendono iniziative. Solo Elio Fiorucci sostiene la campagna «Un Pixel contro l’anoressia» promossa dalla testata on line Fashion Times per appoggiare Mondosole: associazione riminese per la prevenzione e la cura dei disturbi alimentari.
Ufficialmente, tutti gli altri creatori si professano contrari alla magrezza eccessiva. Ma in privato ammirano il super direttore di Vogue America, Anna Wintour, molto più filiforme della sua trasposizione cinematografica ne Il diavolo veste Prada, ma soprattutto capace di mangiare «solo una fragola a colazione». E che dire - per non dimenticare il versante maschile della questione - dell’ex stilista di Dior Homme, Hedi Slimane, ritenuto il portabandiera di una nuova silhouette a chiodo? Voci indiscrete raccontano con entusiasmo che avrebbe persino fatto ridurre il perimetro delle porte dei suoi uffici.
Di fronte al culto del peso piuma, i designer sembrano disposti a perdere addirittura quote di mercato. Fa testo, per contro, il caso della griffe Elena Mirò che, firmando taglie dolci, fattura 160 milioni di euro e cresce con un ritmo del 10% annuo. «Il nostro prodotto - spiega Mauro Davico, comunicatore del brand - è tra i pochi che risponde a un’ampia fascia di clientela, pari al 30% dell’intera domanda di abbigliamento». Ciò nonostante, nelle boutique firmatissime si ritiene volgare esporre un capo superiore alla taglia 44.
Così, come Kate Moss, icona della bellezza scheletrica, è diventata ancor più famosa e pagata, dopo la copertina scandalo del Daily Mirror che ha sbattuto in prima pagina lo stretto legame che spesso unisce droga e taglie super extra small. In seguito a quello scoop, la top ha posato per 14 campagne mondiali, triplicando i suoi guadagni sino al record dei 40 milioni di euro e conquistandosi il titolo di Model of the Year agli Oscar della moda britannici. La Camera Nazionale della Moda Italiana si dissociò ufficialmente da questo riconoscimento. Ma molti dei suoi membri si contesero con esclusive ancor più ricche l’indossatrice. Forse, come dice un celebre fotografo, per tanti stilisti l’ideale è una modella invisibile. Onde evitare che la creatura sottragga attenzione alle creazioni del sarto.
«Ma per certi versi - continua Dall’Orto - questo paradosso è già una realtà. Tutte queste indossatrici diafane e filiformi non sono forse donne senza forme e colori che passano quasi inosservate? Non è casuale che da parecchie stagioni non emergano più top model come Naomi e la Schiffer che avevano una presenza fisica ben precisa». «Ormai - scherza la cabarettista di Zelig, Geppi Cucciari, in uno sketch sulla passerella di Alviero Martini - si chiede una 44 sottovoce: quasi vergognandosi del proprio corpo». «Già, perchè una donna matura - incalza Dall’Orto - può avere l’indipendenza culturale per ironizzare sulle misure, ma una ragazza no. È succube di certi modelli che possono indurre ad errati comportamenti alimentari».
«Per questo - dice Fiorucci - ho aderito all’iniziativa di Mondosole che, anche attraverso internet, mette in comunicazione tutte le ragazze afflitte da questi problemi, facendole sentire meno sole». Proprio sul web, tuttavia, si scopre che esistono anche 300mila siti per l’esaltazione dell’anoressia: indirizzi di riferimento per la cosiddetta «anorexicnation» (comunità degli anoressici), dove si insegnano tutti i trucchi per evitare di mangiare quando si ha fame. Dalla lotta coi cuscini al prendersi le misure.
«Il problema anoressia - denuncia Dall’Orto - è stato sollevato ma non risolto». «Se ne parla solo alle sfilate - aggiunge Bruna Rossi, condirettore del settimanale Io Donna - poi cade nell’oblio. E dire, che la questione non finisce, quando si spengono i riflettori degli show. Anche i vestiti di campionario che ci forniscono le maison per i servizi fotografici, sono minuscoli e richiedono ragazze filiformi. Spesso, le maniche non vanno più su del mio polso. E non sono certo una donna obesa. Con ciò, non abbiamo mai ritratto delle anoressiche. Una simile patologia si noterebbe subito nelle unghie e nei capelli più stopposi. Semmai, parlerei di una magrezza eccessiva alimentata dalla tendenza a indossatrici sempre più acerbe». Moda contro la quale si è scagliata anche la super modella italiana, Eva Riccobono.
«Non bisogna confondere - sostiene Fiorucci - una categoria estetica con un male della mente». Fatto sta, che nelle generazioni più giovani sembra radicata l’equazione magrezza=anoressia, come se quest’ultima fosse sinonimo della prima. «E in ogni caso - continua Fiorucci, cultore di un immaginario femminile popolato di pin up - ritengo sbagliato proporre un modello di donna nel quale patimento e sofferenza visibili diventano quasi emblemi intellettuali. Il sogno dell’uomo non è questa icona artificiosa».
Arriverà un giorno in cui gli stilisti proporranno una femmina più naturale, con tutte le forme al posto giusto? «Credo proprio di no - scuote la testa Bruna Rossi -. La linea sottile è sempre stata la più elegante. Basta guardare i bozzetti nei quali la silhouette finisce sempre per asciugarsi in un semplice ma emblematico tratto singolo. Nessun illustratore ha mai realizzato un disegno con una donna formosa».

l’Unità 24.2.08
Pedofilia, non è nata oggi. Conoscerla per combatterla
di Pino Caruso


La tendenza di accreditare il passato di tutto il bene possibile e di addebitare al presente il male ci induce a ritenere che la pedofilia sia figlia esclusiva del nostro tempo. È chiaro che non è così.

Oggi, la pedofilia è esplosa su giornali e televisioni come soggetto di attenzione e materia di discussione, perché è emersa alla luce della coscienza e della conoscenza

Sempre, al manifestarsi di efferatezze, di atrocità (che non definirò intollerabili perché sarebbe come dire che ne esistano di tollerabili), di violenze varie e variamente perpetrate dall’uomo verso l’uomo, c’è chi non trova di meglio che sollecitare soluzioni radicali: pena di morte, castrazione e simili (quest’ultima, la castrazione, proposta da Gianfranco Fini a “Porta a Porta” di martedì scorso). Come se risolvesse tutti i mali. Non li risolve. Don Fortunato Di Noto, il sacerdote fondatore dell’associazione Meter, spiega (secondo quanto riportato da questo giornale il 19 febbraio): «La castrazione chimica non serve a nulla, o almeno sino ad oggi non c’è documentazione scientifica certificata, ma solo esperimenti in alcuni casi fallimentari, e solo in pochissimi casi lievemente efficaci. La pedofilia va combattuta come la mafia. Con leggi certe e un approccio scientifico ai problemi, lontani da proposte come la castrazione chimica che fanno solo rumore».
«La legge è forma della ragione» sostenevano greci e romani, che ne furono, in questo senso, i primi codificatori.
Ma al di là dei pareri su come affrontare i problemi, c’è una costante in questioni che riguardano il costume e i comportamenti, ed è quella per la quale ogni male viene visto ad ogni secolo come nuovo, quando è antico. Bertinotti, sempre nella trasmissione di Bruno Vespa, invitava tutti a ad interrogarsi sulle motivazioni che portano oggi al nascere di certe devianze, attribuendo, implicitamente, a queste ultime carattere di inaccettabile novità.
La tendenza di accreditare il passato di tutto il bene possibile e di addebitare al presente tutto il male immaginabile ci induce all’inganno di ritenere che la pedofilia sia figlia esclusiva del nostro tempo. È chiaro che non è così. La pedofilia, è sempre stata figlia di ogni tempo. E, semmai, ogni tempo, l’ha occultata spingendola nel più profondo della comune coscienza: una patologia così sconcia e inconfessabile (inconfessabile, appunto!) non poteva esistere, non esisteva, non era mai esistita. Ed è proprio lì, nella coscienza, che il livello di moralità, o almeno di un’idea della moralità, rispetto al passato, è ai nostri giorni notevolmente cresciuto, almeno in occidente. Oggi, la pedofilia è esplosa su giornali e televisioni come soggetto di attenzione e materia di discussione, perché finalmente è emersa alla luce della coscienza e della conoscenza. Appena qualche decennio fa non se ne davano né se ne avevano notizie, benché avesse connotazioni addirittura più gravi e più vaste delle odierne: un perbenismo ipocrita e bigotto preferiva ignorare il fenomeno pur di non assumersi il fastidio di affrontarlo. In un passato più remoto, l’impiego della manodopera minorile nelle fabbriche dell’Inghilterra vittoriana e puritana (!) non prescindeva dall’abuso sessuale. In Sicilia, ancora agli inizi del Novecento, nel sottosuolo delle zolfare i “carusi” erano bestie da soma e carne da stupro. Chiamo a testimone Vincenzo Consolo, stralciando qua e là alcune frasi dal suo “Uomini e paesi dello zolfo”: «...Il picconiere è colui che prende in affitto quella “carne umana” tramite l’anticipo alle famiglie; certo non è tenero, è un violento, spesso sadico, e profitta in tutti i modi, anche sessualmente, di quegli indifesi... il picconiere e il caruso sono legati da inestricabili fili di dominio e soggezione, aggressività e passività... hanno messo a nudo i loro corpi, liberato gli istinti primordiali, al di là di ogni remora, al di là di ogni regola...». E aggiunge ben altro Consolo, e di altre infamie si occupa, ma a noi basta così per capire quanta abiezione si nascondesse allora nell’inferno giallo di quelle miniere. Ma nessuno, tranne pochissimi, ne sapeva nulla o voleva saperne nulla. E la realtà si mostrava a tutti meno turpe di quanto non fosse. Una mistificazione che oggi, non ci è dato di... godere. E fortunatamente. A dimostrazione del fatto che l’apparenza spesso indica un aggravamento, mentre, scovato e diagnosticato il male, c’è speranza di guarigione.

l’Unità 24.2.08
In libreria. Un cofanetto con 4 film
La Balia, La condanna... Tanto Bellocchio in dvd


Il grande cinema di Marco Bellocchio in dvd. È uscito in libreria per L’istituto Luce un cofanetto con quattro dei suoi più celebri film: La balia, Il principe di Homburg, La condanna, Nel nome del padre. Ad arricchire la selezione sono gli extra particolarmente curati, di cui fanno parte anche i documentari Addio al passato in cui lo stesso Bellocchio ritrova i luoghi storici di Giuseppe Verdi e la musica della Traviata. E Stessa rabbia stessa primavera, un approfondimento sulla realizzazione di Buongiorno notte, firmato da Stefano Incerti. Nel nome del padre del ’72 racconta di Angelo, un ragazzo dalle passioni hitleriane, che è stato chiuso in un collegio per aver preso a calci suo padre. Qui mette in pratica le proprie idee aizzando la rivolta prima degli inservienti e poi dei collegiali. La condanna del ’90 porta alla sbarra una denuncia per violenza carnale che riserverà insoliti retroscena. Il principe di Homburg del ’97 è tra i film più «applauditi» dell’autore. Qui mette in scena questa figura esemplare di eroe ottocentesco che viene condannato a morte nonostante abbia portato alla vittoria il suo ersercito. Ultimo film del cofanetto, in ordine cronologico, è La balia del ’99, un adattamento da Pirandello in cui si narra la vicenda della famiglia Mori, dove l’arrivo di un figlio, farà venir fuori contraddizioni e nevrosi della giovane madre.

l’Unità 24.2.08
Balla: la ricostruzione futurista dell’universo
di Renato Barilli


LA MOSTRA Nel 2009 ricorrono i cento anni dalla nascita del Futurismo. E il Palazzo Reale di Milano dedica un’ampia retrospettiva all’artista che più di ogni altro ne seppe trasferire lo spirito su tela

Siamo a un solo anno di distanza dal centenario dell’uscita, sul parigino Figaro, del manifesto con cui Filippo Tommaso Marinetti diede inizio alla grande avventuta futurista, logico quindi che le grandi istituzioni del nostro Paese si accingano a celebrare l’evento. Primo al traguardo si è presentato il Palazzo Reale di Milano con un’ampia retrospettiva dedicata, com’è giusto, a chi, tra i membri di quel gruppo sul versante della pittura, ne fu il fratello maggiore o il padre nobile, Giacomo Balla (1871-1958), cui la sorte anagrafica aveva dato modo di precedere di circa un decennio altri che gli avrebbero fatto seguito (Boccioni: 1982; Severini: 1883). Ma sempre un destino felice volle che, trasferitosi a Roma dalla natia Torino agli inizi del secolo, Balla avesse entrambi quei giovani leoni alla sua scuola. La mostra, a cura di Giovanni Lista, Paolo Baldacci e Livia Vellani è molto corretta e completa per circa due terzi del suo percorso, poi si smarrisce per via e manca qualche occasione di maggiore completezza, in linea con gli apporti critici degli ultimi tempi. Ma andiamo a vedere da vicino come si presentino le cose nelle sale della nobile sede milanese.
Molto opportuno che si parta con una sezione intitolata a Divisionismo e visione fotografica. È noto infatti che Balla, ai suoi inizi nel capoluogo sabaudo, rimase alquanto indeciso se coltivare la foto o dedicarsi direttamente alla pittura. Fatto sta che disegni e dipinti, in quella fase tra Torino e Roma, sembrano proprio fare a gara col bianco e nero fotografico, con cui contendono in precisionismo acre, dettagliato allo spasimo. Basti vedere il capolavoro di quel periodo, un Ritratto della madre che sembra quasi la visione del suolo riarso e slabbrato di un pianeta quale si rivela all’approssimarsi di un’astronave. E sembra inoltre che l’artista già presagisse il dilemma, così cruciale ai nostri giorni, se valersi di un procedimento fotochimico, sfumato e morbido, o se invece di un responso affidato ai pixel elettronici, che poi, fuori di metafora, corrispondono ai minuti coriandoli del divisionismo, tecnica cui il piemontese Balla, in ansia di sperimentalismo, non poteva non aderire, ma liberandolo dalle tentazioni misticheggianti che invece gravavano sui suoi predecessori, rimasti prigionieri della sindrome simbolista. Invece Balla apre gli occhi, allarga l’obiettivo, avido di ingoiare la realtà a larghe fette, e in ciò sta la radice stessa del suo impegno futurista.
Molto giusto anche il titolo della sezione successiva, Analisi del movimento. In realtà, per qualche tempo il Balla romano resta in panne, fermo al primo stadio del mix tra divisionismo e registrazione iperrealista di sapore fotografico, mentre Boccioni, giunto a Milano dopo le soste nel Veneto, registrava un impatto più violento col mondo del progresso tecnologico, scalpitava fremente di vita, come gli zoccoli dei cavalli tanto amati, e cominciava a capire che l’analisi era incongrua per cercare di afferrare tanto dinamismo. Boccioni insomma si faceva corifeo del principio della sintesi, del viluppo generoso e attorto. Comunque, a Milano nasceva la sinergia tra Boccioni, e Carrà e Russolo, sorti al suo fianco, e la predicazione trascinante di Marinetti. Mentre Severini, andato a vivere a Parigi, ammoniva i compagni che ormai bisognava ristrutturare il tutto con l’ausilio della geometria, come stava facendo la coppia Picasso-Braque. L’attempato Balla seguiva tutto ciò da lontano, dall’allora più pigra scena romana, e comunque una cosa gli era ben chiara, che non avrebbe mai lasciato il principio dell’analisi, della tarsia, del mosaico a caleidoscopio. Restava però anche a lui la necessità di compiere una conversione strutturale. Per inseguire il mondo delle macchine, magari includendo pure la macchina muscolare delle corse di una bambina sulla terrazza o di un volo di rondini, il puntino divisionista appariva ormai superato, bisognava adottare un’unità più larga, una falda, una cialda, magari andando a ritagliarla in forme ondulate per renderla più mobile e flessibile. A questo modo Balla anticipava un analogo mutamento di pedale che, verso la fine del secondo decennio, avrebbe adottato in Olanda anche Mondrian. Divisione, analisi sì, ma almeno affidata a un trattamento largo, condotto a vasti piani.
Fin qui, tutto bene, nella mostra milanese, ma poi la stessa ricchezza di sperimentazione dell’artista imbroglia i curatori, che si buttano un po’ troppo presto a inseguire la pista della Ricostruzione futurista dell’universo. Forse conveniva dedicare sezioni autonome alla straordinaria sperimentazione verbovisiva che l’artista conduceva nella prima metà del secondo decennio, in accordo con il paroliberismo predicato dal capofila Marinetti. E meritava anche ricavare una sezione dai drappi attorti della fase interventista, in cui è da vedere il culmine del suo esercizio pittorico. Quanto poi alla Ricostruzione futurista dell’universo, conveniva forse mostrarne più in dettaglio i numerosi sbocchi in termini di arredo urbano. Infine, perché non far vedere anche un Balla palindromo, che verso la fine di carriera ritorna sui propri passi, riprendendo un iperrealismo illusionistico? Oggi siamo aperti a tutto, e questo andamento palindromo, presente oltre che in Balla, anche in De Chirico e Severini, è già stato totalmente riabilitato.

l’Unità 24.2.08
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ospita una rassegna dedicata all’attività scultorea dell’artista
Le «tele» scolpite di Lucio Fontana
di Pier Paolo Pancotto


L’esposizione approdata in questi giorni alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dal Castello di San Giorgio a Mantova (a cura di Filippo Trevisani, catalogo Electa) pone l’accento su un aspetto fondamentale nel lavoro di Fontana: il suo rapporto con la scultura. Da intendersi non come un elemento a sé, un’attività isolata ed autonoma dalle altre che l’artista, con altrettanto interesse, ha praticato nel corso del suo lungo ed intenso percorso professionale, dalla pittura alla grafica, dalla decorazione... ma, piuttosto, come parte di un insieme variegato che ha rappresentato l’azione creativa di Fontana nel suo complesso. La voce di un coro, insomma, che per l’intero corso della sua durata si è levato costantemente in tutta la sua organicità contemplando al tempo stesso molteplici forme espressive e pratiche esecutive differenti. Analizzandola anche solo per linee principali ci si rende conto, infatti, che la carriera artistica di Lucio Fontana per l’intero corso della sua durata è stata alimentata da un’estrema varietà di soluzioni linguistiche e tecniche che solo una personalità come la sua - quella, per intendersi, di un autentico protagonista della cultura figurativa del XX secolo - sarebbe stato in grado di tenere a bada con altrettanta naturalezza convogliandole tutte in un unico ambito operativo. Che, avviato al principio del Novecento quand’egli approdò da Rosario di Santa Fé in Argentina a Milano per completare la propria formazione artistica (all’Accademia di Belle Arti ebbe per maestro Adolfo Wildt) si è sviluppato con inesauribile freschezza e originalità dal secondo dopoguerra lungo la stagione dello Spazialismo fino allo scadere degli anni Sessanta, tempo dal quale prende avvio la mostra odierna seguendo un itinerario espositivo a ritroso, che dalle opere più recenti risale a quelle d’esordio. Nelle quali è possibile individuare già con chiarezza le tracce della sua abilità a porre in relazione alfabeti eterogenei e contaminare sintassi diverse collocando di fatto la sua azione all’origine dell’arte odierna che proprio nella fusione tra i generi e nella loro interconnessione individua uno dei propri caratteri peculiari.
Come provano, ad esempio, i gessi del Campione olimpionico (Atleta in attesa) del 1932 o del Fiocinatore (o Pescatore) del 1933-34 dipinti in blu il primo, in oro il secondo che annunciano con evidenza il suo istinto precoce nel voler forzare i limiti oggettivi della materia riscrivendone la capacità semantica dandole nuova interpretazione in chiave dichiaratamente pittorica. Istinto che si manifesta anche nelle tavolette in cemento, intitolate genericamente «scultura astratta» e collocabili attorno al 1934, ed in bronzo (Conversazione, 1934) o nei ferri dei tempi del Milione ove l’assolutezza geometrica si stempera nei toni cromatici opachi che ne ricoprono le superfici o nei segni mossi che ne determinano i confini; oppure, nelle terrecotte coeve ove i riflessi ocra-rosso, turchese-blu, rosa-violetto… si fanno tutt’uno con l’effervescenza barocca della materia che le sostiene (Donne sul sofà, 1934; Farfalla, 1935-’36; Conchiglia e polpo, 1938); oppure, ancora, nel Ritratto di Teresita del 1940 ove lo splendore delle tessere musive evoca quello delle scene parietali che decorano antichi edifici o in un’altra splendida immagine della stessa Teresita, datata 1949, che il lustro rende simile ad una colata incandescente quanto preziosa di colore misto a terra e a smalti così come è pregiato il topazio, vero, che le sta al collo. Istinto che si esplicita con assoluta perentorietà nei vari Concetti spaziali che, alla luce di questi rimandi verbali ed interpretativi, sorge il dubbio se sia più opportuno definire «tele plasmate» o «sculture dipinte» in relazione alla maggiore o minore tridimensionalità che ciascuno di essi è in grado di risolvere. Ed, infine, nell’Ambiente spaziale a luce nera del 1949 (presente in mostra attraverso una sua ricostruzione storica assieme alle altre opere finora citate), che rappresenta idealmente la molteplicità d’intenti che ripetutamente è stata alla base del gesto creativo di Fontana. Il quale è stato scultore nella medesima misura in cui è stato pittore, disegnatore, decoratore…. dal principio al termine della propria esistenza.

l’Unità 24.2.08
Torino. Al Palafuksas bandiere, manifesti e video narrano 160 anni di lotte e conquiste dei lavoratori
Immagini e simboli del lavoro. Dalle fabbriche ai call center
di Mirella Caveggia


Aperta fino al 4 maggio

Spettacolari accensioni di luci per due sere hanno illuminato con riverberi vermigli la Mole Antonelliana di Torino per annunciare Rossa. Immagine e comunicazione del lavoro 1848-2006, una bella mostra ospitata al Palafuksas di Porta Palazzo. Si tratta di un lungo percorso che attraverso immagini storiche - manifesti, bandiere, video e passaggi interattivi uno più sorprendente dell’altro - illustra 160 anni di lavoro in Italia. L’evento, fino al 4 maggio ospitato in uno spazio di eccezionale ampiezza nel cuore di una zona simbolo della immigrazione passata e presente, richiama il centenario della Cgil. Anche se la Cgil è l’anfitrione, non si tratta di una celebrazione di questo sindacato: la grandiosa rassegna è piuttosto un percorso che addensa tutte le circostanze - genesi, mutamenti, conflitti, successi - che hanno fatto del lavoro quell’entità complessa che appare oggi: una realtà passata e presente unita da un filo rosso aggrovigliato ma continuo, come quello dell’enorme simbolo che campeggia all’ingresso dello spazio espositivo.
L’allestimento, un paesaggio di immagini, musiche, suoni e linguaggi espressivi esteso su 1400 metri quadrati, si deve a Luigi Martini, che dopo quattro anni di ricerche iconografiche e l’impegno di un lavoro collettivo, sfruttando l’architettura bellissima di un edificio ristrutturato, ha tratto da un materiale incredibilmente copioso effetti visivi e sonori di innegabile suggestione. Scopo della raccolta (documentata in due volumi editi da Skira e Ediesse) è quello di documentare l’immagine e la comunicazione dei lavoratori italiani con un’esposizione non «di parte», ma «dalla parte» di donne e uomini che con la loro storia hanno contributo a tracciare la cultura del lavoro, e con i loro modi e strumenti hanno consegnato ai protagonisti di altri movimenti modelli importanti.
Il percorso, cronologico e circolare, assorbe l’attenzione del visitatore (che talvolta diventa parte del racconto) fin dall’inizio, quando si apre con una videoinstallazione recante le immagini e i simboli della prima forma di aggregazione, quella Società di Mutuo Soccorso che nel 1848 a Pinerolo vede i lavoratori organizzarsi con i propri mezzi, ed entrare in città con la loro presenza fisica, il loro corpo vestito a festa per rivendicare malgrado i divieti dignità e diritti. Senza saperlo, dicono i responsabili, queste persone coraggiose avevano creato «l’installazione più impressionante che tutta la produzione estetica ed espressiva abbia mai manifestato». L’itinerario continua producendo segni eloquenti del movimento operaio con frammenti di vite vissute di lavoratori di ogni categoria, fissati in innumerevoli fotografie. La testimonianza si fa anche più incisiva nei filmati d’epoca e nei documentari che rivelano il potere di comunicazione del cinema attraverso il suo racconto e il suo sostegno al lavoro.
Sorprendono gli effetti delle nuove tecnologie, che applicate alle testimonianza del passato consentono l’interattività con l’osservatore. Si incontrano pareti dominate dal rosso dei manifesti, spesso anche d’autore, dove è rappresentato il corpo del lavoratore, evocato anche dalla commovente successione di tute di operai esposte in una vetrina. Si allunga poi l’ombra del fascismo, che offusca le iniziative di unificazione e di emancipazione dei lavoratori: sono illustrate le lotte clandestine e la successiva rinascita. Il boom economico portatore di speranze, seguito dalla crisi anni Settanta che gonfia l’inflazione, compromette le conquiste dei lavoratori e si ripercuote sulle famiglie. Fino all’oggi, gremito di domande che sollecitano risposte non facili da formulare. Come suggerisce l’ultima installazione ispirata al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, in cui i lavoratori di diverse estrazioni si raggruppano progressivamente avanzando verso l’osservatore; ma invece di essere animati da uno slancio collettivo sembrano avvolti da una sfera individuale, senza la tensione, la solidarietà che attraversa orizzontalmente la stupenda Fiumana del pittore piemontese. Una svista o una provocazione per sollecitare una risposta sull’attuale mondo del lavoro segnato da incertezze e frantumazioni?
con ingresso gratuito
Informazioni e prenotazioni al numero 800329329

Repubblica 24.2.08
L’Europa è più avanti
Alessandra Kustermann, ginecologa alla Mangiagalli: "È una riflessione seria lasciamo le ideologie fuori dagli ospedali"
di Laura Asnaghi


Da tempo ci battiamo per la rapida applicazione della Ru486. Stiamo parlando di una pillola diffusa da anni in tutto il continente, e che in Italia ancora non ha avuto il via libera dell´Agenzia del farmaco
"L´Ordine dice a chiare lettere che la legge serve alla tutela della salute delle donne"

MILANO - «Con questa presa di posizione la Federazione dell´Ordine dei medici dimostra di essere molto avanti rispetto alla valanga di polemiche che negli ultimi mesi hanno imperversato sulla 194». Alessandra Kustermann, la ginecologa della Mangiagalli da sempre impegnata in difesa della legge sull´aborto, giudica positivamente il documento approvato ieri a Roma dall´Ordine dei medici.
Dunque, per i "camici bianchi" la legge è buona e non va modificata.
«Certo, questo è quello che si dice a chiare lettere nel documento scritto dalla Federazione degli Ordini. In sostanza, si conferma che la legge, a distanza di trent´anni, funziona bene e soprattutto serve alla tutela della salute delle donne. Si riconosce, in sostanza, che la legge ha contribuito a cancellare, quasi del tutto, la piaga dell´aborto clandestino e quindi non va modificata».
Che peso ha questo documento di fronte all´ondata di critiche che si è abbattuta sulla 194?
«È un punto fermo, una certezza, nel mare di polemiche che si agitano contro la legge sull´aborto».
Vale a dire?
«Il documento rappresenta la voce dei medici, quelli chiamati ad applicare una legge dello Stato. Bene, loro si sono espressi e hanno dichiarato, in maniera scientifica, e non viziata da ideologie, che la 194 funziona, aiuta le donne a risolvere un problema, senza mettere a repentaglio la loro vita».
Il documento contiene anche un appello per una rapida applicazione della Ru486, la pillola che consente l´aborto farmacologico.
«È una battaglia che noi medici stiamo facendo da tempo e ci auguriamo che la presa di posizione della Federazione possa servire a smuovere ulteriormente le acque».
Sì ma, in Italia, le resistenze nei confronti della Ru486 sono ancora molto forti.
«È vero. Ma stiamo parlando di una pillola ormai diffusa da anni in tutta Europa, in ambito ospedaliero, e che da noi non ha ancora ottenuto il via libera dell´Aifa, l´Agenzia italiana del farmaco. Ci auguriamo che la situazione si possa sboccare in pochi mesi. Del resto, non possiamo restare il fanalino di coda dell´Europa anche su questo fronte».
Ma i medici cattolici sono ferocemente contrari alla Ru486 e quando si parla della sua autorizzazione in Italia si scatenano ancora battaglie pro e contro la pillola.
«La realtà è questa ma bisogna andare al di là dell´emotività e ragionare in maniera pacata, come ha fatto la Federazione dell´Ordine dei medici. Con il documento, emesso ieri, l´Ordine non fa che ribadire che la pillola abortiva, nel rispetto delle procedure previste dalla 194, è una tecnica più moderna per l´aborto e può rappresentare una opzione per le donne».
Ma lei se l´aspettava che l´Ordine dei medici prendesse questa posizione pro 194?
«Non avevo dubbi e mi fa piacere che il documento faccia riferimento anche alla prevenzione, mettendo l´accento sulla educazione sessuale e il sostegno sociale ed economico alle immigrate o alle adolescenti, e più in generale alle donne in difficoltà».

Repubblica 24.2.08
Un alleato per le donne
di Miriam Mafai


Da oggi abbiamo un alleato in più. E un alleato importante, competente, autorevole. Tutte noi, che ci battiamo per il mantenimento e l´applicazione della legge 194.
Coloro che sono già scese in piazza nelle passate settimane per protestare contro l´aggressione di cui è stata vittima, a Napoli, una madre che si era sottoposta ad aborto terapeutico, tutte coloro che si propongono di manifestare il prossimo 8 marzo, a difesa della loro dignità di cittadine, tutte noi insomma da oggi siamo meno sole. Abbiamo da oggi al nostro fianco un alleato in più. E un alleato importante, competente, autorevole. La Federazione degli Ordini dei Medici si è espressa infatti ieri a difesa della legge 194 sull´interruzione di gravidanza che, a trent´anni dalla sua approvazione, dimostra, scrive il documento, «tutta la solidità e la modernità del suo impianto tecnico-scientifico giuridico e morale» Non basta. La stessa Federazione si esprime contro le «surrettizie limitazioni» all´uso della pillola RU486, il farmaco abortivo già in uso da tempo in quasi tutti i paesi europei e adottato tra mille polemiche anche in alcuni ospedali italiani (tra cui quello di Torino, ad opera del medico Silvio Viale).
Non basterà certo questa ragionevole presa di posizione dei medici italiani a convincere coloro, come Giuliano Ferrara, che hanno voluto introdurre in questa campagna elettorale il tema dell´aborto e della sua «moratoria» come tema centrale, discriminante. Da una parte cioè i «pro-life» coloro che pretendono di difendere fin dal suo inizio la vita, dall´altra parte le donne che fanno ricorso all´aborto o in nome di un astratto diritto all´autonomia personale o, ancor peggio, in nome di un irragionevole desiderio del figlio perfetto (orrore dell´eugenetica…).
Ci piacerebbe considerare questa presa di posizione della Federazione dei Medici italiani come la richiesta o il segno di un «fine partita» su questo tema. O meglio come l´invito a rinunciare ad agitare il tema dell´aborto nel corso di questa campagna elettorale, con le sue inevitabili violente, demagogiche contrapposizioni. Temiamo però che non sarà così. E che ci sarà ancora chi, come Ferrara, continuerà a parlare della Pillola RU486, come di un veleno, di un «prezzemolo moderno» chiedendone il divieto per legge. E continuerà nella sua campagna di colpevolizzazione delle donne che alla legge 194 fanno ricorso, o meglio sono costrette a fare ricorso per ragioni che attengono alle loro condizioni sociali o di salute.
Noi, per parte nostra, continueremo, nel corso di questa campagna elettorale e dopo a chiedere non solo il mantenimento della legge 194 e il rispetto delle donne che vi fanno ricorso, ma anche la sua totale applicazione. E per totale applicazione intendiamo un migliore funzionamento dei consultori anche per quanto si riferisce all´aiuto da offrire alle donne in difficoltà.
Siamo il paese in Europa che meno di tutti gli altri (dalla Francia alla Germania) sostiene il desiderio o il diritto delle donne alla maternità. Siamo un paese nel quale una donna che mette al mondo un figlio è lasciata sola, priva di ogni assistenza tutela che non le venga dalla sua famiglia. Siamo un paese nel quale esistono ancora, sia pure illegali, i cosiddetti «licenziamenti per gravidanza o maternità». Siamo un paese, in Europa, con il minor numero di posti nei nidi e negli asili. Sono convinta che solo un diverso, generoso sistema di assistenza alle madri e ai loro bambini potrebbe far diminuire ancora il numero degli aborti, già fortemente ridotto, più che dimezzato nel corso degli ultimi anni. Chi vuole davvero una diminuzione degli aborti lungi, dal colpevolizzare le donne costrette a farvi ricorso, dovrebbe invece impegnarsi a chiedere e ottenere il rispetto delle leggi già esistenti a tutela della maternità e l´approvazione di nuove misure adeguate (e generose) a favore delle famiglie, di tutte le famiglie, di diritto e di fatto che esistono nel nostro paese.
Alcune misure annunciate nel programma del Partito Democratico muovono in questa direzione. Si tratta, dopo un lungo silenzio o sottovalutazione del problema, di un segnale positivo. Capace, se e quando verranno adottate, di ridurre ancora il numero degli aborti nel nostro paese.

Repubblica 24.2.08
Da Cavour all’inciucio il fantasma-governissimo entra nel terzo millennio
Al momento del dunque le larghe intese perdono la loro geometrica vaghezza
di Filippo Ceccarelli


Più la politica vive schiacciata sul presente e più si diletta a disegnare scenari. Oggi è il turno delle larghe intese. Alle quali poi magari si arriverà pure, "in caso di pareggio" mette le mani avanti Berlusconi. Veltroni risponde no e a questo punto il Cavaliere, che in verità le aveva già proposte dopo le ultime elezioni, si sdegna, e dice che vincerà. Insomma si prende tempo, e insieme lo si perde.
Nel frattempo la fantasticheria "larghista" riprende il suo lungo cammino nell´immaginario politico italiano. La grande coalizione. Il governissimo. L´unità, la solidarietà, la responsabilità nazionale. Se non è zuppa è pan bagnato: si noti comunque l´abbondanza e la sintomatica varietà delle formule, ognuna delle quali prevede un patto di potere fra ex avversari. Di solito la domanda è: ma non se lo potevano dire prima? La risposta, di norma è: no, le condizioni non erano mature.
Così va il mondo e non da oggi. Con qualche inevitabile forzatura si potrebbe sostenere che in Italia l´illustre antenato delle larghe intese sia da identificarsi nel "connubio" realizzato alla metà del XIX dal conte di Cavour fra le correnti politiche della destra e della sinistra al parlamento subalpino. Ma fin da allora quella parola si tirava appresso un che di poco chiaro, una riserva di ambiguità, che dura e rivive nel tempo. La prova sta nella facilità con cui al momento di mettersi in pratica le larghe intese perdono la loro geometrica vaghezza e si fanno più che carnali, ed ecco appunto l´"ammucchiata"; oppure finiscono per acquistare un inesorabile avviso di complicità, un sentore di pettegolezzo da cortile, con il che si ha l´ "inciucio".
Come spesso accade quando si tratta di aggirare diffidenze e scetticismo, si guarda all´estero, all´Europa, e in Germania di recente hanno fatto appunto una Grosse Koalition. Ma sia Berlusconi che Veltroni sanno benissimo che qui in Italia, dove i sostantivi si scrivono in minuscolo, la grande coalizione rimanda al periodo 1975-1979 - e la faccenda si fa un po´ più complicata.
Quella breve stagione, altrimenti detta della solidarietà nazionale, venne tenuta a battesimo da Moro e Berlinguer, fu realizzata da Andreotti e trovò in Sandro Pertini il suo ardente patrono. C´è anche da dire che si rivelò una fase politica assai pesante e piena di dolorosi insegnamenti, in ogni caso all´altezza del dramma geopolitico dell´Italia.
La Dc e il Pci erano quello che erano. Dopo il referendum sul divorzio del 1974 (in quell´occasione pare di ricordare che fu Pietro Nenni a invocare un governo di unità nazionale), dopo le amministrative del 1975 e poi dopo le politiche del 1976 la Dc e il Pci, cioè i due grandi partiti che s´erano combattuti per trent´anni convennero, più o meno, sull´esistenza di uno stato di necessità: la crisi del centrosinistra, il peggioramento della situazione economica, le continue agitazioni sindacali, la violenza di piazza, i primi agguati e le stragi. Tutto questo portava ad ampliare la base del potere in direzione del Pci. Al centro e in periferia, dove subito nacquero giunte cosiddette "aperte".
C´era alle spalle di questo difficile processo di allargamento anche una certa elaborazione culturale, in qualche modo parallela: nel Pci la teoria del compromesso storico, nel mondo cattolico più di un fervore post-conciliare, nella Dc di Moro e Zac la linea del "confronto", mentre il pragmatismo andreottiano faceva parte a sé.
Ci furono enormi resistenze: interne (Craxi, Fanfani, le destre) e ancor più internazionali. C´era la guerra fredda, altro che "anomalia italiana". Le potenze occidentali e la Nato erano assolutamente contrarie. In questo senso sono venuti fuori documenti di vario genere e determinazione, e altri ne verranno. Non è solo questione di minacciati golpe, lavoretti poco puliti e pressioni di ogni tipo. La mancanza di un´opposizione creò scompensi sociali e politici. La Dc, il Pci, l´Italia pagarono un prezzo molto salato. Chi doveva capire, capì. E le larghe intese finirono, bruscamente.
Poi sì, certo, nel corso degli anni riscapparono fuori, ma in modo intermittente, furbesco. Ai tempi della prima guerra in Iraq, per dire, in nome della pace Sbardella e il Sabato lanciarono il "governissimo". Invano. Nel frattempo il quadro politico s´era rimpicciolito, immiserito. Ai tempi del tentativo Maccanico si parlò di un accordo fra Forza Italia, il pds e Fini come di un "mostro a tre teste"; qualche anno dopo, il multi-sforzo riformatore della Bicamerale di D´Alema parve per un attimo condensarsi nella crostata di casa Letta.
Ora di nuovo. Ma domani veramente chissà.

Repubblica 24.2.08
L’inseguitore accelera l’inseguito perde colpi
di Eugenio Scalfari


Il 2 marzo si concluderà l´inevitabile giostra delle candidature e delle alleanze e la campagna elettorale entrerà nel suo pieno, ma i suoi lineamenti sono già chiari e profilati: Berlusconi conduce nei sondaggi, Veltroni insegue accelerando il recupero. Per la prima volta in questa settimana il recupero dell´inseguitore ha prodotto un regresso nello "share" dell´inseguito. Se i sondaggi rispecchiassero l´effettiva realtà questa novità sarebbe della massima importanza; significherebbe infatti il profilarsi d´un deflusso dal Popolo della libertà verso il Partito democratico e quindi il dimezzamento aritmetico del distacco tra l´inseguito e l´inseguitore.
Sin d´ora comunque si va diffondendo nella pubblica opinione e nei "media" la sensazione del dinamismo di Veltroni e della staticità del suo avversario. In un paese bloccato da decenni che aspira a liberarsi dalle bende e a rinnovarsi, questa sensazione può tradursi in un capovolgimento di tutti i pronostici che fin qui sembravano certi: il Partito democratico, già ora, non ha più come obiettivo massimo quello di pareggiare al Senato, ma addirittura quello di vincere nelle elezioni per la Camera incassando così il premio di maggioranza che la legge elettorale prevede. Chi l´avrebbe mai immaginato appena un mese fa?
Naturalmente questi ragionamenti simulano una realtà virtuale e vanno quindi presi con molta cautela.
* * *
I temi dell´economia mordono invece più da vicino la vita quotidiana dei cittadini, lavoratori, consumatori, famiglie, imprese e sono ormai balzati in primissima fila. I prezzi soprattutto perché è con essi che tutti abbiamo a che fare ogni giorno.L´inseguitore accelera, l´inseguito perde colpi
E di conseguenza i salari e le retribuzioni. L´occupazione, la cui tenuta comincia a suscitare preoccupazioni. L´inflazione. Il livello ufficiale che registra una media si colloca in questo momento al 2,9 per cento, ma l´ultima notizia di due giorni fa indica nel 4,8 l´aumento dei prezzi relativi a generi di larga diffusione. Non è una sorpresa, l´inflazione infatti è la peggiore delle imposte perché ha carattere regressivo, colpisce i redditi più bassi in misura nettamente maggiore di quelli più elevati, risparmia i ricchi e deruba i poveri, falcidia i percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) consentendo qualche recupero ai lavoratori autonomi, ai professionisti, ai settori che operano su mercati protetti rispetto alla concorrenza.
Ecco, la situazione dell´economia occidentale e quindi anche dell´Europa e in particolare dell´Italia si trova a questo punto. Gli Usa sono in piena recessione. L´Europa registra un sensibile rallentamento e l´Italia è il fanale di coda. Le previsioni delle agenzie internazionali danno il nostro prodotto interno lordo allo 0,7 per cento nell´anno in corso con una tendenza ad appiattirsi ancora.
In queste condizioni la politica economica dovrebbe reagire adottando misure anticicliche. La teoria suggerisce infatti che, quando la congiuntura rallenta e addirittura volge verso lo zero, la domanda venga sostenuta con acconci interventi di spesa. In questo senso si muovono i programmi presentati dai partiti nei giorni scorsi; le differenze riguardano le modalità ma non la sostanza. Tutti infatti hanno in animo di sostenere i salari, i giovani, le famiglie, gli investimenti in infrastrutture.
Il problema è quello della copertura finanziaria e reale di queste politiche: dove trovare le risorse necessarie? Dove concentrare lo sforzo? Come evitare ricaschi dannosi sull´inflazione? Come impedire contraccolpi sul deficit? Infine, a quanto deve ammontare il complesso dei provvedimenti di sostegno per esercitare un effetto sensibile sulla domanda interna e sulla crescita reale?
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Comincio da quest´ultima domanda: a quanto ammontano le risorse da mobilitare per ottenere risultati apprezzabili? Direi: non meno di un punto del Pil, cioè in cifra tonda 15 miliardi di euro da investire entro e non oltre l´esercizio in corso e dei quali almeno un terzo entro il prossimo giugno.
Da questo punto di vista è grave il rifiuto di Berlusconi di inserire i provvedimenti a favore dei salari nel decreto definito "mille proroghe" che sarà approvato dal Parlamento entro il 29 febbraio prossimo. Se avesse accettato, quelle misure valutate a circa 2 miliardi, avrebbero potuto beneficiare i salari fin dal prossimo aprile dando un sensibile sollievo ai redditi medio – inferiori e sostenendo il consumo. L´autore di quel provvedimento era il famigerato governo Prodi e questa è la sola ragione per cui il leader del centrodestra ha opposto il suo rifiuto. Così tutta la politica destinata alla crescita viene spostata in avanti di almeno quattro mesi se non di più, con effetti negativi che è difficile sottovalutare. Il governo (quale che sia) che uscirà dalle urne il 14 aprile, sarà operativo al più presto ai primi di maggio. Anche se i leader dei due maggiori partiti si sono impegnati a far partire la propria politica fin dal primo Consiglio dei ministri, gli effetti richiederanno un tempo tecnico di almeno due mesi per farsi sentire. Se ne parlerà dunque ai primi di luglio per le misure di più pronto impiego. Il danno di questo scriteriato comportamento è evidente e dispiace che l´ottimo Mentana, che ha lungamente intervistato a Matrix dell´altro ieri il principale azionista di Mediaset, non gli abbia posto questa elementare domanda.
Resta comunque il problema di dove reperire risorse da destinare alla crescita per un ammontare pari a 15 miliardi. Ebbene, ci sono spese in attesa di copertura già previste entro il 2008, pari a 7 miliardi. Gli stanziamenti sono già stati indicati da Padoa-Schioppa. Una parte delle destinazioni sono coerenti con il sostegno della crescita; quelle che non lo sono possono esser rinviate e il loro ammontare utilizzato diversamente.
Le risorse restanti vanno, a mio avviso, mobilitate lasciando lievitare il deficit dal 2,2 preventivato dal governo Prodi al 2,8. Il commissario europeo Joaquin Almunia manderà alti lai, poiché una politica del genere allontana inevitabilmente il pareggio del nostro bilancio che Padoa-Schioppa aveva previsto per il 2010. Resteremmo tuttavia al di sotto della fatidica soglia del 3 per cento.
L´obiezione, lo so bene, riguarda gli effetti negativi sullo stock del debito pubblico. A questo riguardo però si potrebbe (a mio parere si dovrà) mettere in pista una robusta operazione di vendita del patrimonio mobiliare posseduto dallo Stato. Il Tesoro detiene ancora un largo pacco di partecipazioni mobiliari che possono essere collocate dal sistema bancario gradualmente sul mercato quando esso sarà uscito dalle attuali difficoltà. Le partecipazioni in mano al Tesoro riguardano aziende di prim´ordine che fruttano anche cospicui dividendi. La loro privatizzazione rientra nei progetti dei due maggiori partiti. Del resto l´operazione potrebbe essere contenuta entro i limiti richiesti dai maggiori oneri sul debito pubblico derivanti dall´aumento del disavanzo. In pratica: un «deficit spending» neutralizzato da alienazioni di patrimonio, con l´obiettivo di imprimere uno scatto anti – recessivo che potrebbe fruttare almeno mezzo punto di Pil dal previsto 0,7 a qualche decimale al di sopra dell´1 per cento. Freno e acceleratore, appunto.
* * *
Dove concentrare lo sforzo. Capisco la necessità sociale di un piano per gli asili nido. Capisco e condivido i maggiori investimenti per la ricerca, indispensabili per riqualificare le Università. Capisco i fondi per la scuola superiore, punto nero anzi nerissimo del nostro sistema scolastico. Qui necessitano piani di riforma che si estendono su un arco di tempo pluriannuale. Si tratta di mettere in moto i processi che esulano però da interventi anticiclici di immediato impiego.
A mio avviso il grosso del «deficit spending» ipotizzato dovrà esser destinato al potere d´acquisto delle fasce deboli, allo stipendio minimo del lavoro a tempo determinato e alle infrastrutture. Lo Stato si deve far carico d´un piano di investimenti pubblici che inneschi processi virtuosi di collaborazione con il capitale privato, superi le lentezze burocratiche, riduca al minimo il tempo delle gare d´appalto.
Questo tipo di investimento rappresenta un braccio di leva o meglio un motore d´avviamento con un elevato moltiplicatore; sostiene l´occupazione, accresce le dotazioni infrastrutturali e migliora per questa via la produttività di tutto il sistema.
Berlusconi, che anche lui ha formulato alcune proposte, ha indicato un programma informatico a vasto raggio per snellire e ridurre i costi della pubblica amministrazione.
Credo sia una strada da seguire con l´avvertenza però che anche questo è un intervento che richiede un arco di tempo per dare frutti concreti.
* * *
Insomma «si può fare». La crisi internazionale è purtroppo fuori dal controllo dei singoli governi nazionali, ognuno dei quali tuttavia ha la possibilità anzi il dovere di attivare tutte le risorse disponibili per migliorare la propria economia e contribuire per questa via al rilancio complessivo del ciclo.
Larghe intese? Berlusconi le propone in caso di parità elettorale. Veltroni ne ha delineato rigorosamente il campo. La maggioranza, quella che uscirà dalle urne, deve avere il diritto e la responsabilità di governare. D´altra parte, per quanto riguarda la Camera, basta un solo voto elettorale in più per far scattare il premio di maggioranza. Quanto al Senato, una maggioranza comunque ci sarà e sarebbe sufficiente che l´opposizione avesse il "fair play" di non perseguire la politica delle «spallate» voluta da Berlusconi per tutta la durata del governo Prodi e nel frattempo varasse le riforme costituzionali, queste sì "bipartisan", tra le quali la nuova legge del Senato regionale.
L´obiettivo si sposta dunque su chi si aggiudicherà un voto in più alla Camera. «Si può fare».
Post scriptum. Ancora una volta voglio dare lode a Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, Pier Luigi Bersani, Vincenzo Visco, per il positivo lavoro sui conti pubblici e sul programma di rilancio di cui la loro politica ha posto le necessarie premesse. Tre di loro hanno passato la mano in obbedienza ai propositi di rinnovamento da essi stessi condivisi. Ma meritano di essere salutati con onore. Gli aspetti negativi non sono dipesi dalla loro azione ma da una coalizione discorde e rissosa che Veltroni ha il merito d´aver finalmente e definitivamente liquidato.

Repubblica 24.2.08
Religione e politica. La caccia ai "voti del cielo"
di Filippo Ceccarelli


L’elettore cattolico e la sua prossima scelta sono al centro di una battaglia senza esclusione di colpi tra teo-con, teo-dem, pro-life, atei devoti, post-clericofascisti... Uno scontro dalle radici antiche che riecheggia il 18 aprile 1948 con le sue Madonne pellegrine, i frati volanti e il motto inventato da Guareschi: "Nell´urna Dio ti vede, Stalin no"

Suggestione meta-elettorale per gli aspiranti teocrati delle varie e numerose specie, teo-con, teo-dem, pro-life, atei devoti, cattolicanti centristi, post clericofascisti, tradizionalisti padani: rimboccarsi le maniche e costruire tutti insieme una grande chiesa, una basilica, «pegno solenne di perpetua pace fra l´Italia e la Chiesa, nuova testimonianza della profonda cattolicità della nazione». Perché nelle pieghe della storia, meglio se in quella minore e perfino in quella incompiuta, non di rado pare di cogliere barlumi di attualità.
E così, come ha scoperto anni orsono uno studioso attento come Giovanni Tassani, l´idea di erigere un tempio alla Conciliazione fu effettivamente lanciata nel 1954, con tanto di bozzetti e sopralluoghi, da una compagine di cattolici che le sacre immagini e i valori della Cristianità avevano messo sui loro stendardi. O forse sarebbe meglio dire gagliardetti, dal momento che l´animatore dell´iniziativa, il giovane e brillante conte Vanni Teodorani, fondatore della Rivista Romana, era certamente stato e forse a quei tempi continuava a ritenersi fascista. Ma dietro di lui c´erano soprattutto cattolici, e anche ecclesiastici illustri e già influenti come il padre gesuita della Civiltà cattolica Tacchi Venturi.
Strano a dirsi, ma l´enorme basilica nazionale e teocratica sarebbe sorta a Saxa Rubra, «la località in cui Costantino ebbe la visione della Santa Croce, sicuro auspicio di vittoria», si legge, tipo depliant, sulla Rivista Romana. Il progetto fu affidato alla cupa esuberanza baroccheggiante dell´architetto, nonché accademico d´Italia, Armando Brasini che certo non trascurò il motto apparso all´imperatore: «In hoc signo vinces», e infatti alla sommità del tempio svetta una colossale croce di marmo. Quella che si affacciava dallo scudo della Dc, evidentemente, non bastava a soddisfare l´esigenza dei valori religiosi nella vita pubblica.
Ora, a volte si è tentati di raffigurare la storia come una grande scala nella quale ogni nuovo pianerottolo raggiunto evoca inesorabilmente non quello appena lasciato, ma il penultimo. E questo un po´ vale anche per la partecipazione e il consenso elettorale dei cattolici, di cui per mezzo secolo almeno la Chiesa e in seguito la Dc si sono ritenute esclusive depositarie. Ma prima? Ecco: anche "prima", che poi non è mai un "prima" assoluto, l´antica caccia affannosa ai «voti del cielo», come li ha designati Massimo Franco (I voti del cielo, appunto, Baldini&Castoldi, 2000) ricorda per fuggevoli lampi e arcane corrispondenze questa di oggi, Casini, Ruini, Veltroni, Berlusconi, Bagnasco, Giulianone Ferrara: voti che ora come agli albori della Repubblica «vivono nel limbo di una terra di nessuno - come scrive Franco - volatili, volubili, percorrono strade misteriose, si dividono fra astensionismo e trasformismo, pattinano lungo tutto l´arco delle nuove ideologie». E delle vecchie e nuove mistificazioni, viene anche da pensare.
Questo spiega come mai, al di là degli anniversari, sulle elezioni del 1948 si concentri l´attenzione non solo degli storici, ma anche dei più evoluti studiosi di comunicazione politica, come Edoardo Novelli che in un libro di prossima uscita per Donzelli, Te lo ricordi quel 18 aprile, ha riletto «parole, immagini e strategie» di quella fatidica campagna nella quale l´intervento variegato e massiccio della Chiesa fu determinante tanto nel risultato quanto nelle forme espressive della ricerca del consenso.
La grande epopea di Gedda e dei suoi Comitati civici, simboleggiati da due mani che s´intrecciavano sullo sfondo di un campanile e il motto: «Pro aris et focis», per gli altari e i focolari. In poco meno di due mesi, senza mai chiedere esplicitamente il voto per la Dc la Chiesa riuscì autonomamente a mettere in piedi una vera e propria "crociata" - «Con Cristo o contro Cristo», aveva del resto intimato Pio XII - realizzando uno sforzo ideativo e organizzativo ancora più sorprendente di quello che consentì a Berlusconi di conquistare per la prima volta l´Italia nel 1994.
Tassani ha studiato l´"Ufficio psicologico" dei Comitati civici, laboratorio d´archetipi, fucina d´immaginario. Perché ci furono, sì, le madonne pellegrine, sia pure d´importazione francese, e il "microfono di Dio", come venne chiamato il missionario gesuita Lombardi; e se è per questo ci furono anche i baschi verdi dell´Azione cattolica, «Siam gli araldi della Fede» echeggiava nelle piazze il loro inno, e perfino i "frati volanti", in giro con certi furgoni dotati di altare e megafono, pronti a interrompere i comizi del Pci. Ma il vero salto nel futuro fu l´uso di scrittori come Longanesi, cui si deve l´opuscolo Non votò la famiglia De Paolis o Guareschi, suo il motto «Nell´urna Dio ti vede, Stalin no»; così come decisivo fu il lancio di illustratori e vignettisti che produssero manifesti un po´ pulp, ma indimenticabili. O filmati abbastanza ricattatori come La verità sulla scomunica: una bimba sta per fare la prima comunione, ma il papà comunista non vuole, né può entrare in chiesa (alla fine si converte).
Quello cattolico era a quei tempi un elettorato d´ordine, conservatore, anche reazionario. Più che al Pci si trattava di strapparlo all´Uomo qualunque, che nel 1947 a Roma aveva superato la Dc. Gedda ci riuscì: e dal Papa, per ringraziamento, ebbe in dono un orologio. Il paradosso del personaggio è che all´apice della vittoria cominciò la sua sconfitta. Non credeva all´unità politica dei cattolici e invece, oltre al pericolo comunista, bene o male la Dc fu anche capace di contenere, attizzare e neutralizzare questo elettorato timoroso della modernità, questo popolo di destra naturale ed inespressa. Lo fece vellicandone gli istinti conservatori, ma anche la paura, talvolta in modo gaglioffo.
Alle elezioni del 1953, per dire, venne organizzata una mostra itinerante sull´"Aldilà", cioè sulle persecuzioni ai lavoratori e ai credenti "schiavizzati" nei paesi dell´Est. Solo che si trattava di immagini false: come si legge ne I cattolici nella storia d´Italia di Libero Pierantozzi (Edizioni del calendario, 1970) un operaio di Roma, a nome Nardecchia, si riconobbe tra i perseguitati: «Quello so´ io!», disse. Non che all´Est per i cattolici fossero rose e fiori, tutt´altro, ma insomma la mostra era più che altro un servizietto "dell´aldiquà".
Per tutti gli anni Cinquanta e oltre, anche perché timorosi di uno sbocco spagnolo, alla Franco, a partire da De Gasperi i democristiani cercarono con successo di liberarsi dell´occhiuta tutela ecclesiastica. La basilica a Saxa Rubra non si fece mai. Vennero piuttosto individuati dei bastioni intoccabili: istruzione, sanità, carattere sacro di Roma, controllo della cultura, dei costumi e della tv. È una storia lunga, piena di tappe, sfumature e contraddizioni, ma in estrema sintesi si può azzardare che il pontificato di Giovanni XXIII, il Concilio e la lunga stagione di Paolo VI, che i capi dello scudo crociato conosceva uno a uno avendoli anche difesi dall´integralismo di Gedda, funzionarono come una specie di benedizione. Intanto, i voti del cielo erano pur sempre al sicuro.
Ci rimasero si può dire fino al 1974, sconfitta referendaria sul divorzio. Ma a quel punto nuove generazioni cattoliche buttavano decisamente a sinistra. Cattolici del No, dissenso, preti operai, scelta di classe, teologia della liberazione, terzomondismo. Richiami delle gerarchie, moniti anche dal Sacro Soglio. Insieme con Moro, la Dc perde l´anima. Dura ancora una dozzina d´anni, quindi si scioglie. Questa è storia di ieri. Quella di oggi non è nemmeno storia. L´altro giorno Famiglia Cristiana ha pubblicato un sondaggio da cui emerge che i cattolici - se ancora è congrua la definizione - vogliono più soldi in busta paga, meno tasse per le famiglie, un po´ più di moralità. Ed è molto difficile per chiunque non riconoscersi in questi desideri.

E Baget Bozzo fustigò "il santone" La Pira
Scherza coi fanti e lascia stare i santi. I problemi semmai, nelle schermaglie politiche e religiose fra cattolici, cominciano quando i santi non sono ancora tali. Nel 1961 Giorgio La Pira, oggi candidato agli altari, era sindaco di Firenze e da Palazzo Vecchio aveva messo in piedi un´ardente e diffusa attività a sostegno della pace nel mondo: discorsi, viaggi, cerimonie, convegni, anche missioni e mediazioni segrete presso i «nemici» dell´occidente, sovietici, cinesi.
A quel tempo Gianni Baget Bozzo, che oggi è una specie di cappellano di Forza Italia e come altri ecclesiastici di rango non disdegna di inscrivere il berlusconismo in un disegno provvidenziale, non era ancora sacerdote, ma una ex giovane promessa del dossettismo clamorosamente pentitosi, più che dubbioso ormai sulla possibilità della Dc di fronteggiare la minaccia comunista, ideologo e fautore di un risoluto gollismo, prima nell´orbita di Gedda e poi di Tambroni. C´è anche da dire che La Pira e Baget si conoscevano bene ed erano anche stati amici ai tempi della "Comunità del Porcellino", il mitico appartamento delle sorelle Portoghesi a piazza della Chiesa Nuova nel quale erano vissuti Dossetti, Fanfani e gli altri «professorini» eletti alla Costituente.
Ma le amicizie, si sa, possono a volte risolversi nel loro contrario. Così lo storico dei movimenti cattolici Giovanni Tassani ha scovato tre «discorsi controcorrente» che nel 1961 il trentaseienne Baget Bozzo in qualità di segretario dei "Centri per l´ordine civile", che nel loro simbolo recavano il motto «Vox clamantis», pronunciò uno all´hotel Bristol di Genova, uno al teatro Eliseo di Roma e uno al Baglioni di Firenze. Li pubblica nel prossimo numero la rivista Nuova Storia Contemporanea e un po´ fanno impressione per la sottigliezza e insieme per la virulenza con cui Baget Bozzo attacca il «falso carisma» di La Pira dandogli del «santone», del «fariseo», del falsificatore; sostenendo che è ammaliato da Kruscev e per questo, mistificando le Sacre Scritture, si è fatto strumento e complice dell´offensiva comunista a livello mondiale.
Il pretesto di questa resa dei conti a sfondo politico-teologico è la pubblica proiezione fragorosamente organizzata da La Pira del film del regista francese Claude Autant-Lara Non uccidere, nonostante fosse stato proibito dalla censura per apologia di reato in quanto favorevole all´obiezione di coscienza. Accusa Baget Bozzo: «Si è creato attorno a La Pira uno stato di privilegio insopportabile. Debbo dire, come cristiano: quello farisaico; cioè quello che viola la legge non in nome della santità, ma della santonità. Cioè del fatto che uno, per il fatto che parla di San Paolo, si crede autorizzato, contro le parole di San Paolo, a disobbedire all´autorità». Chi fa la parte del santone, come nel caso di Danilo Dolci, «ci guadagna sempre - accusa Baget Bozzo - applausi, sostegni di stampa, fama di eroe. Il regime del rotocalco ci consente questi eroi a buon mercato che sono poi dei grandi opportunisti».
Vedi anche il modo in cui La Pira, sulla scorta del profeta Isaia, considera Kruscev una figura di pace, pure richiedendo a un convegno la presenza del cosmonauta sovietico Yuri Gagarin. Al quadro internazionale è dedicato interamente il discorso di Firenze dal titolo: «La Pira o la tecnica mistica del potere». Nel senso che il sindaco di Firenze, «nuova Gerusalemme» degli illusi, si sente investito da una rivelazione che lo porta a considerare il kruscevismo come «il comunismo che si integra nei tempi messianici». Questa visione è tanto più pericolosa in quanto, secondo Baget Bozzo, influenza la politica estera di Fanfani che non a caso cerca sponde non solo in Russia, ma anche nel mondo arabo.
Tutto torna insomma in politica, anche con qualche risonanza nel presente. Mentre per quello che riguarda la religione, beh, varrà giusto la pena di ricordare, come fa Tassani, che il 17 dicembre del 1967, quando Baget Bozzo fu ordinato sacerdote dal cardinale Siri erano presenti Luigi Gedda, Giuseppe Dossetti e anche Giorgio La Pira, santo o santone che sia stato. (f.cec.)

Repubblica 24.2.08
Lo sgarbo. E l'addio di Cossutta va a pagina 26 dell'Unità


ROMA — Una letterina a pagina 26 dell'Unità. Si congeda così dal Parlamento Armando Cossutta, 81 anni e 10 legislature di fila. Due anni fa venne messo sotto accusa dal suo partito, il Pdci, per aver proposto di cancellare falce e martello. Che oggi nel simbolo della sinistra unita non ci sono più: «Una beffa? No, il destino di chi riesce a guardare al di là del proprio naso...». Ha sentito Diliberto? «No, e non me ne preoccupo. Mi ha chiamato Bertinotti. Ora sarò liberamente comunista».

Corriere della Sera 24.2.08
L'intelligenza non si misura
Enzensberger contro i test che classificano le menti umane «Razzisti» ed «eugenetici», trascurano eleganza e bellezza
di Paola Capriolo


La discussione Lo scrittore tedesco contesta la serietà scientifica degli studi sull'intelletto: sono troppo grandi le differenze culturali

Un mio cugino di terzo grado è un grande appassionato di sudoku, e ogni settimana vaga come un'anima in pena da un'edicola all'altra per procurarsi tutte le riviste dedicate a questo gioco. Alcune, però, non gli piacciono affatto, e sono quelle che accanto a ogni schema portano l'indicazione del tempo mediamente necessario per risolverlo. Mio cugino non ha problemi a rispettare questa media; ciò che non sopporta è l'idea di esercitare il proprio cervello tenendo d'occhio l'orologio. Lo trova frustrante, ma soprattutto grossolano: per lui, più che la rapidità, conta l'eleganza delle strategie di soluzione, sicché a volte si astiene addirittura dallo scrivere subito un numero nella casella appropriata per arrivarci in un altro modo, più soddisfacente dal punto di vista estetico.
Quando mi sono trovata tra le mani il brillante volumetto di Hans Magnus Enzensberger Nel labirinto dell'intelligenza (tradotto da Emilio Picco, Einaudi, pp. 64, e 9), ho capito immediatamente che era il libro giusto da regalare a quel mio cugino, anche se non vi si parla affatto del sudoku e persino i tradizionali giochi enigmistici sono trattati solo di sfuggita. In compenso, vi si svolge una critica serrata di quella concezione quantitativa e agonistica dell'intelligenza umana che conduce appunto a calcolare il valore di una prestazione mentale in base alla sua velocità, ma che innanzitutto è responsabile del proliferare di test per la misurazione del quoziente intellettuale e di cavie pronte a sottoporsi a un simile esame.
Quella della misurazione dell'intelligenza, cioè dell'intelligenza come quantità misurabile, è un'idea piuttosto recente, «senza la quale il genere umano ha dovuto cavarsela per qualche centinaia di migliaia d'anni» (con risultati non disprezzabili, a quanto sembra), ed Enzensberger la ripercorre con sarcasmo dai suoi albori alla fine dell'Ottocento sino all'apogeo raggiunto ai giorni nostri, quando si contano ormai alcune migliaia di metodi diversi per la determinazione dell' «IQ», si offrono al consumatore gadget elettronici per verificare costantemente la propria efficienza mentale, e cercando su Internet si possono trovare titoli stravaganti come «IQ Islamic Quiz», «Potenziate il vostro IQ golfistico » e persino «Test dell'IQ per i gatti». Quanto è intelligente in effetti il vostro gatto?
Certo, una cosa sono le mode, un'altra la serietà dei metodi scientifici; ma proprio su questa serietà Enzensberger avanza i dubbi più corrosivi. Già suscita qualche perplessità il fatto che in molti casi la misurazione dell'intelligenza sia stata affiancata da sinistre utopie eugenetiche o sia stata piegata a sostenere tesi razziste: due tendenze esemplarmente sintetizzate dallo studioso inglese Francis Galton, che nel 1883 proponeva di consentire la procreazione solo a persone dall'adeguato patrimonio genetico, in modo da allevare un'umanità «che sarebbe intellettualmente e moralmente superiore ai moderni europei, così come i moderni europei sono superiori alle più brute razze negre». Ma anche prescindendo da simili aberrazioni, rimane l'impossibilità, sottolineata da Enzensberger sulla scorta di numerosi studi, di creare test sufficientemente neutri rispetto alle differenze culturali, ragion per cui un inuit della Groenlandia o un indio dell'Amazzonia avrebbero scarse probabilità di brillare in base ai criteri stabiliti dagli esperti delle università europee o statunitensi, i quali a loro volta andrebbero incontro a una «figuraccia clamorosa» se i ruoli fossero invertiti.
Soprattutto, però, rimane il fatto che l'intelligenza così misurabile è, nel migliore dei casi, quell'arma nella lotta per la sopravvivenza di cui l'uomo si è servito nel corso della sua evoluzione come altre specie si sono servite degli artigli o delle zanne: di qui il ruolo centrale della rapidità, della capacità di rispondere con prontezza alle sfide poste dall'ambiente. In questo senso, con buona pace di mio cugino, le riviste di sudoku non hanno torto nel costringere i solutori a guardare l'orologio. Eppure, da qualche millennio a questa parte, per intelligenza umana eravamo abituati a intendere essenzialmente qualcos'altro, qualcosa che nelle sue più tipiche manifestazioni è del tutto inutile, se non addirittura dannoso, ai fini della conservazione della specie o del successo individuale: quella strana qualità «bionegativa», per usare una definizione di Gottfried Benn, dalla quale sono nate le arti, le religioni, persino le scienze, se è vero che aspetti così poco misurabili come la bellezza e l'eleganza formale hanno un'importanza decisiva non solo nelle strategie di soluzione dei più comuni giochi logici, ma anche nell'elaborazione delle teorie con cui cerchiamo di costruirci un'immagine del mondo.

Corriere della Sera 24.2.08
Il nostro cervello non è un computer. E viceversa
di Sandro Modeo


Nel Tempo ritrovato, Proust scrive che «là dove la vita alza un muro, l'intelligenza apre una breccia», nel senso che «l'intelligenza non conosce situazioni chiuse, senza vie d'uscita, proprie della vita». È una sintesi perfetta del dinamismo e dell'elasticità che caratterizzano le nostre facoltà cognitive secondo le acquisizioni scientifiche degli ultimi anni. Le neuroscienze insistono, per esempio, sulla nozione di «plasticità cerebrale» per indicare il processo di integrazione incessante tra aree specializzate in funzioni differenziate (le capacità linguistiche, musicali, matematiche, senso-motorie e così via): è una concezione che taglia definitivamente i ponti con il meccanicismo della neurologia ottocentesca e con ogni residuo positivistico. Mentre il raffronto tra la biologia e l'«intelligenza artificiale» ha chiarito l'improbabilità dell'analogia tra cervello e computer, perché il cervello non è un calcolatore e non obbedisce solo a schemi logico-formali, ma opera secondo principi «selettivi» scremati dall'evoluzione e in interazione costante con gli stimoli dell'ambiente: se un giorno, per assurdo, una «macchina» dovesse approdare a una forma di coscienza, sarebbe comunque diversa da quella della nostra specie. In questa prospettiva, scienza e umanesimo possono trovare una convergenza: e cercare di aprire insieme (per riprendere la metafora proustiana) una breccia nel muro di ogni ostacolo conoscitivo.

Liberazione 24.2.08
Larga intesa, il no di Pd e Pdl: si può fare, ma senza dirlo!
di Frida Nacinovich


Veltroni: «Si sono rifiutati». Berlusconi: «Sono qui per vincere»
Incontro fra Lombardo e il Cavaliere, in Sicilia rinasce la Cdl

«Ma quali larghe intese? Voglio vincere». Il Silvio Berlusconi dialogante dura lo spazio di una notte, il tempo di leggere sui quotidiani che non è poi così sicuro di vincere le elezioni. Colpa di quella frase detta nello studio di "Matrix", sulle possibili larghe intese in un ipotetico caso di pareggio con il piddì. Il Cavaliere sfoglia i giornali, si innervosisce, torna sui suoi passi. «Perché mai una maggioranza in vantaggio di 10-12 punti dovrebbe adagiarsi sulla prospettiva delle larghe intese con la coalizione perdente?». Già, perché? La domanda viene rivolta alla platea dei Giovanardi boys, chiamati a raccolta dal più berlusconiano dei centristi. L'ormai ex colonnello dell'Udc che ha sbattuto la porta di via Due Macelli. Ciao Cesa, Ciao Casini, a mai più rivederci. Carlo Giovanardi se ne è andato, con l'obbiettivo dichiarato di entrare nel Popolo delle libertà. Va da sé che le parole di Berlusconi scatenano l'entusiasmo dei ragazzi di Giovanardi. Per la verità piuttosto attempati. «Bravo, bene, «bis». Vincere e vinceremo. L'uomo di Arcore ritrova il sorriso e distribuisce il programma del Pdl, quello per risollevare il paese. Il già celebre slogan "rialzati Italia", che il capo popolo delle libertà ha scelto personalmente. E che sarà sicuramente approvato (all'unanimità) dai sudditi delle libertà nei gazebo bianchi, rossi e verdi che saranno allestiti all'inizio di marzo. Ci sono due versioni del programma-volantino: la prima con Berlusconi che chiude il pugno per salutare, la seconda con il pugno che si apre e rivela un braccio teso. A scelta.
Ma torniamo alle larghe intese. Ai rapporti fra il Pdl e l'avversario preferito Walter Veltroni. «Larghe intese? Un errore non averle fatte prima», dice il segretario del piddì. «Sono loro che si sono rifiutati». Subito Berlusconi precisa: «Lavoriamo solo per vincere e avere una larga maggioranza». Insomma, fino al 13 aprile la grande coalizione è un concetto tabù. Poi, dal 15 aprile, si vedrà.
Sull'argomento Gianfranco Fini osserva che l'ipotesi di un governo di larghe intese è «di scuola». «Gli elettori sono molto più avveduti di quello che qualcuno pensa - aggiunge il presidentissimo di An - non disperderanno i loro voti». Fini è chiaro, sogna un bipartitismo compiuto: di là il piddì, di qua il Pdl. Poi, tra qualche anno, Berlusconi farà come Fidel Castro e gli lascerà il compito di guidare il popolo azzurro nero. Sull'argomento "grande coalizione" fioccano dichiarazioni, come una bella nevicata natalizia. Si fa sentire Pier Ferdinando Casini, impegnato in questi giorni a recuperare il rapporto con Bruno Tabacci e Mario Baccini, per unire in matrimonio Udc e "Rosa bianca", con la benedizione di Savino family day Pezzotta. Casini ha più di un motivo per avercela con Berlusconi, che dopo averlo scaricato lo attacca. Logico quindi che di fronte ad un'ipotesi di larghe intese la risposta sia velenosa. «Berlusconi ha detto ieri quello che sanno tutti gli italiani. I voti dati a lui serviranno ad una grande coalizione con la sinistra». Quale sinistra? Il piddì? Sì, Casini definisce il piddì come "la sinistra". Sono quasi incredibili le contorsioni linguistiche che si azzardano seguendo il sogno del grande centro scudocrociato. A proposito di sinistra - quella vera - Fausto Bertinotti ritiene che la grande coalizione «sarebbe una cappa sul paese, perché gli interessi dominanti continuerebbero a dominare. Se qualcuno ritiene necessaria una grande coalizione - aggiunge il candidato premier della "Sinistra l'arcobaleno" - deve dirlo prima del voto e non dopo». Sarebbe bello. Non succederà. Forse non succederà. Perché sull'argomento non manca di farsi sentire la Lega nord. Roberto Calderoli afferma: «Larghe intese? Mai! Il nostro modello di governo è antitetico rispetto a quello della sinistra». Quale sinistra, il piddì? La campagna elettorale è alle sue prime battute, e già dispiega la sua geometrica potenza distruttiva. La sinistra è il piddì, i liberali sono il Pdl. Buonanotte. Lunga notte per Berlusconi, che a palazzo Grazioli incontra Lombardo, potrebbe essere lui il candidato governatore della Sicilia. Di tutto il centrodestra, una volta si diceva della Casa delle libertà.

Liberazione 24.2.08
Giordano: è emergenza democratica, giornali e tv vedono solo Pd e Pdl
di Romina Velchi


Alla riunione del comitato politico del Prc, il segretario lancia l'allarme informazione. Poi rivolge una raffica di domande a Veltroni
Cosa proponi per i precari? Noi di assumerli. E per fermare l'emigrazione dal Sud? Noi il salario sociale. E per la legge 40? Noi di abolirla...

Dal fioretto alla scimitarra. Franco Giordano sceglie la seconda giornata del comitato politico nazionale per alzare il livello della polemica politica. Non è più il tempo degli scambi di gentilezza (quelli si possono lasciare a Veltroni e Berlusconi); no, adesso c'è da fare una campagna elettorale assai complessa e occorre mettere in campo tutta la propria forza: cioè proporre con convinzione «un'idea chiara di alternativa di società». Con convinzione, sì, perché il tempo della resa dei conti verrà, ma intanto tutti sappiano, è l'avvertimento, che se va male non resteranno che il bipartitismo e le larghe intese.
Giordano vuole uscire dalla posizione difensiva e mettere il Pd di fronte alle proprie responsabilità per il fallimento del governo e dell'Unione: la crisi è stata determinata dal «trasformismo» di alcune componenti del centro; ma sono state le continue «resistenze ad applicare il programma» da parte del Pd il vero motivo dell'implosione. Perciò, «Veltroni non può dire io non c'ero e se c'ero dormivo». Su questo, il Prc non farà sconti all'ex sindaco Veltroni. Così come non gli farà sconti sul piano dell'idea di società da proporre. «E' vero, non siamo nel '53 ma nel 2008 dove ci sono due milioni di lavoratori a termine e più di tre milioni di lavoratori in nero. Noi chiediamo l'assunzione dei precari dopo 36 mesi, una cosa su cui l'associazione presieduta da Colaninno si è sempre opposta. Walter tu che cosa proponi?». E cosa proponi «Walter» per fermare l'emigrazione dal Sud? Di far lavorare questi giovani sul ponte sullo Stretto? O sulla Tav? «Noi proponiamo il salario sociale. E tu?». E ancora, «Walter, ce la fai» a cancellare quella legge medioevale che è la legge 40 o a riconoscere le coppie di fatto? Ebbene, «noi ce la facciamo», attacca Giordano; anzi parafrasando lo slogan del Pd, aggiunge: «Si può fare, si può fare di più di quello che proponi tu».
Ma per proporre questa sfida ed essere veramente alternativi «alle destre» occorre fare i conti con il «black out informativo». E' un allarme democratico, quello lanciato al Cpn di Rifondazione, nel momento in cui il sistema informativo italiano diventa «fattore di mutilazione della democrazia»: tutto lo spazio riservato a due partiti, il resto essendo ridotto a «folclore», a «parti accessorie»; la «società scompare», restano solo le vicende del governo.
E non c'è nulla di casuale, in questo. Tutto concorre all'obiettivo: "americanizzare" l'assetto politico italiano, escludendo, eliminando la sinistra. Che poi è il tema attorno al quale si è dipanato il dibattito del Cpn. Si doveva discutere dei criteri per la presentazione dei candidati al parlamento, ma fatalmente il grosso della discussione ha riguardato la linea politica, le scelte del gruppo dirigente, il simbolo, la Sinistra arcobaleno. Un dibattito non teso (nonostante la manifestazione di protesta a difesa di falce e martello della minoranza dell'Ernesto che si è svolta all'esterno del centro congressi), ma nel quale le posizioni in campo sono state declinate con grande nettezza.
Da una parte coloro che hanno voluto rimarcare la gravità della situazione attuale. «Ci vogliono cancellare - dice senza mezzi termini Musacchio - E' in gioco la nostra stessa sopravvivenza. Se non capiamo questo saremo spazzati via». La Sinistra arcobaleno è lo strumento che permette di «lottare per l'oggi e per il domani», secondo Mascia, perché «questa volta non serve aggrapparsi ai simboli», si deve «sperimentare». E' per questo che Giordano invita tutti a impegnarsi in questa campagna elettorale, anche chi non è d'accordo con il gruppo dirigente: «Più la sinistra sarà forte, meno possibilità ci saranno di larghe intese».

Liberazione 24.2.08
Zero in condotta a Marco Pannella
Aveva detto: «Il Partito Democratico non riuscirà a portare Oltretevere lo scalpo dei radicali»


«Il Partito Democratico non riuscirà a portare Oltretevere lo scalpo dei radicali. E' difficile
scioglierci». Soltanto pochi giorni fa Marco Pannella sembrava intenzionato a vendere cara la pelle. Anzi, a non venderla affatto. E invece sul prezzo, come sempre, si può trattare. Anche se nel negoziato è rimasto nell'ombra, affidandosi ai suoi ambasciatori, non c'è dubbio che dietro il patto siglato tra i radicali e il Partito democratico ci sia il benestare del grande capo. Del resto è stato proprio lui ad ufficializzare l'intesa. Ora, c'è da credergli quando dice che a volte «bisogna avere l'umiltà di subire delle condizioni oggettive» e che quella con il piddì sarà una «convivenza faticosa, laboriosa, difficile». Ed è pur vero che correre da soli sarebbe equivalso ad suicidio («dopo 52 anni, riescono ad ammazzarci definitivamente»). Certo, però, in questa occasione il leader radicale ha fatto mostra di una pavidità inconsueta, quasi stonata rispetto alla caratura del personaggio. L'abbandono a una realpolitik che offusca il suo profilo di uomo passionale, battagliero e solitario. Che non ha mai digerito nulla e oggi è disposto ad incassare un accordo elettorale, diciamolo pure, sfacciatamente venale e di basso profilo. Per un pugno di seggi (nove), una poltrona di ministro (Bonino) e i tanto vituperati rimborsi elettorali (il 10%) i radicali hanno rinunciato al proprio simbolo, alla propria lista e forse - dati gli equilibri di forza nel piddì e la folta rappresentanza dell'area cattolica - anche un po' alle loro battaglie. L'appendice grottesca è che Pannella ha rinunciato a Pannella. E sì, perché statuto "democratico" alla mano, chi ha già tre legislature alla spalle non sarà candidato e dunque il lider maximo è fuori dai giochi. Ancora una volta, dopo la beffa della mancata attribuzione dei seggi alla Rosa nel pugno al Senato. Roba da Tapiro, più che da zero in condotta.
Una parabola che forse il carismatico condottiero radicale poteva indirizzare a miglior sorte, se solo avesse dato corso ai suoi sospetti anziché inseguire con pervicacia la corte di Walter. Perché se è vero che del partito democratico (ma non sub specie veltroniana) Pannella è sempre stato un caldo sostenitore - forse addirittura un precursore - è altrettanto vero che il cammino incidentato degli ultimi mesi, lastricato di veti e ripicche, sembrava condurre altrove. Se non allo splendido isolazionismo radicale, almeno al ruolo di disturbatori del manovratore. E sì, perché senza correre troppo indietro nel tempo, vale la pena ricordare il trambusto che si scatenò quando Pannella propose la sua candidatura alle primarie di ottobre. Apriti cielo. Le reazioni fra i puristi dell'Ulivo oscillarono tra la malcelata diffidenza e la più smaccata ostilità. Lo stesso Veltroni (pacatamente, serenamente) liquidò la faccenda alla stregua di una boutade: «Marco ogni tanto si diverte, è simpatico, e coglie le occasioni in cui i riflettori sono accesi per esserci». Quando infine il comitato lo escluse per incompatibilità lui iniziò a sparare bordate contro il «veltrusconismo», contro il «partito bulgaro» che non valeva molto di più di quello berlusconiano: «due gemelleari, estreme imposture». Vocabolario che Pannella ha continuato a declinare fino all'altro ieri, quando dal loft di Santa Anastasia continuavano a piovere i niet dei centristi: «una reazione anticonciliare e controriformista». Ma oggi le sue colorite repliche ai brontolii dei cattolici del piddì (ne sono tanti, sia i brontolii che i cattolici) suonano di maniera. Il gigante radicale appare "sedato". E si chiede perché mai ci sia il «vade retro Satana» nei confronti di «un vecchio ottantenne che perde il filo dei suoi discorsi». Noi confidiamo che non sia l'inizio della rassegnazione. E però gli domandiamo: ora che i suoi sono della partita, siglerà il codice etico? sbraiterà ancora contro l'informazione di regime? Siederà agli stessi tavoli dei « crociati della legge 40», magari al fianco di Binetti, una delle «immagini più oltranziste delle posizioni vaticane»?.
Coraggio, Marco, adelante ma con cilicio.