martedì 26 febbraio 2008





Valle Giulia 68/08: l’immaginazione al futuro.


Dalla battaglia alla festa
La mostra evento
29 febbraio – 1 marzo 2008

Il 29 febbraio Paolo Pietrangeli apre la manifestazione ore 11.30 nell’atrio esterno della Facoltà di Architettura “Valle Giulia” con la canzone Valle Giulia, vero e proprio punto di riferimento narrativo per la rievocazione di quel momento storico.

Alle ore 15.00 la trasmissione di Rai-Radio3 “Fahrenheit” ospita una diretta speciale, condotta da Marino Sinibaldi e con la partecipazione del pianista Marco Dalpane, con la presenza di ospiti e testimoni per ricostruire il clima letterario e artistico del Sessantotto, la vita della Facoltà e gli scenari che portarono alla manifestazione del 1° marzo 1968. Fra gli ospiti, Michele Placido, attore e regista che sta lavorando attualmente a un film sul ’68 e che quel giorno, a Valle Giulia, era poliziotto.

Il 1° marzo alle ore 15,00 è previsto il concerto con la partecipazione di PIERO BREGA TRIO - AMBROGIO SPARAGNA - Rudi Assuntino - Assalti Frontali - Eugenio Colombo - Alberto Popolla e Marco Tocily - Circle Games - Tête de Bois – Delegazione degli Stormy Six.

Alle ore 18.00 si inaugura l’evento mostra fotografica e documentaria “Quelli di Valle Giulia” allestita nei locali di tutta la Facoltà, curata ed allestita dagli studenti coadiuvati dai docenti.

Alle ore 18.30 in Aula Magna della Facoltà di Architettura “Valle Giulia” i protagonisti del Sessantotto evocheranno testimonianze e riflessioni sul ’68 in una sorta di moderna “assemblea-seminario”.

Sono invitati a partecipare:
Sandro Anselmi, Pierpaolo Balbo, Giovanni Berlinguer, Guglielmo Bilancioni, Franca Bossalino, Martino Branca, Domenico Cecchini, Nicoletta Cosentino, Alessandro Curuni, Bruno De Vita, Anna Di Noto, Giampiero Donin, Maurizio Fabbri, Amedeo Fago, Massimiliano Fuksas, Fausto Giaccone, Rosario Gigli, Paolo Liguori, Gabriele Milelli, Morando Morandini, Raul Mordenti, Giorgio Muratore, Renato Nicolini, Franco Ottaviano, Rosario Pavia, Sandro Portelli, Paolo Portoghesi, Franco Purini, Paolo Ramundo, Giulia Rodano, Giuseppe Roma, Bruno Rossi Mori, Franco Russo, Roberto Sardelli, Nicola Savarese, Mario Scialoia, Andrea Silipo, Duccio Staderini,
Studenti del gruppo di lavoro, Benedetto Todaro, Duccio Trombatori, Enzo Turiaco, Massimo Vergari.

Dalle ore 21,00 la Facoltà si apre a un Dj Set per coronare lo spirito della festa.


L’immaginazione al futuro
Gli incontri e gli eventi
Dal 3 al 19 marzo 2008

Dal 3 al 19 marzo, ogni giorno, la Facoltà di Architettura ospiterà incontri e discussioni sugli eventi culturali di quegli anni, con uno sguardo speciale rivolto all’architettura e al tentativo di immaginarne scenari futuri. E’ inoltre in via di definizione un appuntamento settimanale con il cinema del ’68, ogni giovedì, dall’inizio di aprile alla fine di maggio presso l’Aula Magna della Facoltà di Architettura “Valle Giulia”.


3 marzo ore 18,00: proiezione di video in collaborazione con Rai Sat.

4 marzo ore 18,00: proiezione di video in collaborazione con Rai Sat.

5 marzo ore 18,00: “Intorno a L’ape e l’architetto“: incontro con Marcello Cini, Elena Gagliasso e Danilo Capecchi.

6 marzo ore 18,00: proiezione di video in collaborazione con Rai Sat.

7 marzo ore 18,00: “La questione delle periferie”.
A seguire la proiezione del film di Francesco Rosi Le mani sulla città

10 marzo ore 17,00: Presentazione del libro di Mario Capanna “Il ’68 e il futuro” (ed. Garzanti), con la partecipazione del Presidente della Camera dei Deputati, on. Fausto Bertinotti; del presidente delle Acli Andrea Olivero, di Silvano Agosti e Michele Placido.

11 marzo ore 18,00: proiezione di video in collaborazione con Raisat.

12 marzo ore 18,00: “Il ’68, la musica e gli architetti”, con Pippo Ciorra, Guglielmo Bilancioni, Silvia Boschero, Marco Colcerasa.
ore 21,00: “RISOTTO” lo spettacolo sugli anni sessanta di Amedeo Fago; con un saggio sull’arte del risotto di Fabrizio Beggiato.

13 marzo ore 18,00: “Il ’68 e il mondo”.

14 marzo ore 11,00: “Filosofie del ’68”, con Mario Perniola, Giacomo Marramao, Paolo Flores d’Arcais.
ore 16,30: Marco Bellocchio presenta il suo film I pugni in tasca.
A seguire un incontro con lo psichiatra Massimo Fagioli.

17 marzo ore 18,00: “Il ’68 e il mestiere dell’architetto”.

18 marzo ore 11,00: presentazione del libro “Enciclopedia del ’68” (ed. Manifestolibri), con Valentino Parlato e Gabriele Polo.
ore 18,00: presentazione del libro “Architetture di pace ospedali di guerra” di Michele Costanzo, in collaborazione con Emergency.

19 marzo ore 18 ,00: proiezione del film Galileo di Liliana Cavani.


Tutte le iniziative sono aperte al pubblico, gratuite e si tengono presso l’Università Sapienza – Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Via A. Gramsci, 53 00197 - Roma
Per info:
Donatella Scatena, Facoltà di Architettura “Valle Giulia” - Roma
Tel: 06.49919202 - Cell. 3332612121
Email: donatella.scatena@uniroma1.it
http://www.architetturavallegiulia.it/

Con il patrocinio e il contributo di:
Università di Roma “La Sapienza”
Regione Lazio
Provincia di Roma

Con la collaborazione di:
Biblioteca Centrale Facoltà di Architettura
Rai Teche
Raisat
Istituto Luce
Centro Sperimentale di Cinematografia
Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio
Università di Bologna “Alma Mater”
Circolo Gianni Bosio
Zetema Progetto Cultura
l’Unità 26.2.08
Giovanna Scassellati. La ginecologa del S. Camillo di Roma
«Difficile interrompere una gravidanza. L’obiezione è massiccia...»
di Adele Cambria


Giovanna Scassellati appartiene ad una «genealogia» di ginecologhe. La madre, Alessandra, introdusse il parto in casa e il parto nell’acqua, a Roma. E lei, cinquant’anni vigorosi e limpidi, ha seguito l’assemblea nazionale femminista di sabato e domenica a Roma, dando magari una sveglia di concretezza, quando il discorso si faceva troppo astratto, dalla sua trincea nell’Ospedale San Camillo: «Tra due anni - ha detto- vado in pensione. Al San Camillo siamo rimasti praticamente in due, un collega ed io, ad aiutare le donne che vogliono abortire. E non tanto meglio stanno al Policlinico Umberto I°, e negli altri due o tre ospedali che applicano la 194. L’obiezione è massiccia, spero che almeno la Ru-486 migliori la situazione, un intervento non chirurgico allevia il trauma della donna, e, nello stesso tempo, la responsabilizza maggiormente».
Ma perché una donna adulta e consapevole, in una grande città abortisce invece che usare anticoncezionali?
«Crede che sia facile trovare gli anticoncezionali a Roma? La pillola più moderna, quella meno pesante, il servizio nazionale non la passa, devi comprarla, e sempre che il tuo medico di famiglia non sia obiettore e ti faccia la prescrizione. I preservativi spesso i maschi italiani si rifiutano di usarli, il diaframma con le creme antifecondative è addirittura scomparso dalle farmacie…».
Al San Camillo l’anno scorso gli aborti sono stati 2.500, 1100 le italiane...
«Tra le quali un centinaio di minorenni, spesso accompagnate dai genitori, e questo è un dato positivo, secondo me: una ragazza ha bisogno del calore familiare, in quei momenti. Certo, se ci fosse una vera educazione sessuale nelle scuole...».
Gli aborti terapeutici sono i più drammatici...
«Spesso si tratta di bambini molto desiderati...E comunque una quota di aborti nella vita delle donne è purtroppo ineliminabile. In Italia poi non ti danno neanche la pillola del giorno dopo!».

l’Unità 26.2.08
G8. I pm in aula: «A Bolzaneto un girone infernale»
Requisitoria al processo contro le violenze in caserma


Un girone infernale. Torture, violenze fisiche e verbali, insulti e botte. È stata questo la caserma Bolzaneto nei bui giorni del G8 a Genova. Così almeno la descrivono nella seconda parte della loro requisitoria finale i pm Vittorio Ranieri e Patrizia Petruzziello. Raccapriccianti i racconti delle vessazioni subite da ragazzi e ragazze. Alle donne era riservato il trattamento più violento e umiliante. Ad alcune sono stati strappati i piercing anche dalle parti intime. Altre sono state costrette a spogliarsi, a restare nude e a girare su se stesse. Se poi dovevano andare in bagno erano obbligate a tenere la porta aperta per farsi guardare. Per tutte l’insulto era sempre lo stesso: «puttane». «L’infermeria - denuncia il pm Miniati - che doveva essere un aiuto in caso di sofferenza era diventata un luogo di ulteriore vessazione». Per l’eurodeputato Agnoletto si tratta di «una pagina di ordinaria follia».

UNA MACELLERIA messicana. Un luogo di umiliazioni, torture, vessazioni, violenza senza fine. A questo fu ridotta la caserma Bolzaneto nei giorni del G8 di Genova. Nella loro requisitoria finale, la seconda parte è iniziata ieri mattina, i pubblici ministeri Vit-
torio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, tracciano una radiografia impietosa di quanto avvenne dentro quella caserma. Ragazzi e ragazze fermati costretti a stare in piedi per ore, minacciati se non facevano la posizione del «cigno» o quella della «ballerina». A qualcuno fu chiesto anche di abbaiare come un cane mentre gli agenti ridevano alla grande. Alle ragazze era riservato il trattamento più umiliante. Venivano fatte spogliare e nude dovevano girare su se stesse. Chi portava un piercing, anche nelle parti intime, se lo vedeva strappare con violenza. Il sangue non impressionava i torturatori. Che ridevano, si davano pacche soddisfatte sulle spalle e chiamavano «troie» e «puttane» chi gli capitava a tiro.
Bolzaneto era un girone infernale, un luogo di tortura psicologica e fisica. Chi doveva andare in bagno, soprattutto se donna, doveva tenere la porta aperta, farsi guardare. Umiliarsi. Un solo appellativo per le ragazze, il più usato: «puttane». E poi le minacce continue. A Sara Bartezaghi alcuni agenti, ricordando la morte di Carlo Giuliani, dissero «ne abbiamo ammazzato uno, ne dovevamo ammazzare cento». La voce ferma, senza tradire emozioni, il pm Ranieri Miniati ha riepilogato le testimonianze più agghiaccianti. Massimiliano A., ha 36 anni è napoletano ed è disabile al cento per cento. Nei giorni del G8 era a Genova. Finì nell’inferno di Bolzaneto. «Gli agenti mi hanno preso in giro per la mia bassa statura. Mi insultavano, mi dicevano “nano di merda”, “nano pedofilo”, “nano buono per il circo”. Mi sentivo morire». Massimiliano non ce la faceva più a trattenere i propri bisogni. Doveva andare in bagno. Per ore glielo impedirono, fino a quando Massimiliano non resse più. Si bagnò, era sporco, piegato in due dalla vergogna. Gli agenti ridevano e lo lasciarono lì, senza la possibilità di pulirsi. Era solo «un nano di merda, buono per il circo».
A Katia L. dissero più volte, e sempre urlando e agitando i manganelli, che l’avrebbero ammazzata. «Farai la fine di Sole». La fine di Maria Soledad Rose, l’anarchica argentina che si suicidò in carcere dopo la morte del compagno che con lei era stato arrestato per gli attentati contro la Tav in Valle Susa. Era terrorizzata Katia, tremava, aveva sudori freddi e cominciò a vomitare sangue. La portarono in infermeria e le somministrarono dell’ossigeno. Poi le dissero che le avrebbero fatto una iniezione. Lei si rifiutò e il medico le disse sprezzante: «Va pure a morire in cella». «L'infermeria - ha denunciato il pm Miniati - che doveva essere un aiuto in caso di sofferenza è diventata un luogo di ulteriore vessazione».
«La ricostruzione di quanto accadde a Bolzaneto fa rabbrividire: una pagina di ordinaria follia, una Guantanamo in piena regola, in un Paese che sospese letteralmente la democrazia in quei giorni di luglio 2001». Così Vittorio Agnoletto, eurodeputato ed ex portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8. «Lo scandalo - dice Agnoletto - è che quelle torture non sono mai state oggetto di inchieste interne alle forze dell`ordine: com`è possibile che non siano stati presi provvedimenti contro agenti che hanno minacciato, insultato, picchiato dei cittadini inermi?».
e.f.

l’Unità 26.2.08
«Non pubblicate foto di modelle magrissime»
di Francesca De Sanctis


Finora sono intervenute scrittrici, stilisti e direttrici di riviste
Uscire dal silenzio, il primo passo per risolvere il problema anoressia

I loro scheletrini li abbiamo rivisti in questi giorni nei tg, nelle sfilate, avvolti da abiti enormi, voluminosi. Di anoressia si è parlato spesso sui giornali, ma una volta terminati i clamori contro i disturbi alimentari è calato il silenzio. Intanto le ragazze continuano ad esibire le loro gambette.
Sull’Unità di sabato scorso hanno parlato di anoressia Silvia Ballestra e Adele Cambria. «Queste diafane e scavate figurine di solito confinate al servizio moda dei settimanali femminili possono spuntare, per qualche giorno, fra il pezzo su Obama-Hillary e il reportage sulla monnezza a Pianura, per venirci a interrogare, mute e miti come sono, su cosa è diventato il nostro rapporto col corpo - ha scritto Silvia Ballestra -. Esse sono purtroppo vittime di una malattia professionale, soggette agli effetti collaterali di un mestiere che richiede espressamente di ridurti ai limiti dell’umano, tant’è che, più o meno in evidenza, la notizia della morte di una giovane modella per anoressia non è infrequente. E questa sarebbe già una buona ragione per occuparsi della questione».
Adele Cambria ha ricordato la sua terribile esperienza nel 1965, quando aveva trent’anni e fu ricoverata al Policlinico Umberto I. «La svolta psicologica - ha scritto - fu la lettura del libro di Goffredo Parise, di ritorno dal Biafra, e le immagini di quei bambini spaventosamente denutriti che mi guardavano anche dallo schermo della Tv. Mi vergognai di me stessa, e mi misi letteralmente nelle mani di una nutrizionista “implacabile”».
Domenica, invece, la direttrice di Donna moderna, intervistata dall’Unità, ha denunciato: «Alle recenti sfilate molte ragazze avevano le scapole in fuori». Ma tra gli stilisti solo Fiorucci ha preso iniziative concrete contro i disturbi alimentari. Oggi, il ministro per le Politiche giovanili e le attività sportive Giovanna Melandri lancia un appello: «Boicottare il mercato pubblicitario si può».

LA MINISTRO MELANDRI lancia un appello alle riviste di moda perché boicottino la pubblicità di abiti indossati da ragazze filiformi. E invita a lavorare perché nella nostra società venga valorizzata la diversità estetica

«C’è già un Manifesto di autoregolamentazione per gli stilisti che potrebbe ispirare un progetto di legge contro l’anoressia»

«E propongo che l’8 marzo sia dedicato alla lotta contro i disturbi alimentari e l’omologazione»

«Si può dire di no al mercato pubblicitario che impone certi canoni di bellezza». È netto il richiamo della ministra per le politiche giovanili e le attività sportive Giovanna Melandri a un mondo, che dalla tv alle riviste, dalla pubblicità al mondo della moda, non fa che usare figure di donne troppo esili in nome del principio che «bellezza è uguale a magrezza». Un appello che fa seguito alla campagna lanciata da l’Unità contro l’uso dell’anoressia come immagine tipo della donna. In un Paese dove oramai il 63% delle adolescenti ha fra i suoi sogni un corpo magrissimo.
Difficile immaginare delle bellezze «giunoniche» sulle nostre passerelle? Se il mondo in cui siamo immersi - dalla tv alle riviste, dalla pubblicità al mondo della moda - non fa che sbatterci in faccia queste esili figure che sintetizzano l’idea, unica, sola e imprescindibile di «bellezza = magrezza», provare ad andare controcorrente può sembrare un’impresa titanica. Ma quando l’omologazione a questi modelli dominanti ha come effetto disastroso un numero sempre più alto di ragazze che desiderano avere un corpo magrissimo (il 63% delle adolescenti) con un alto rischio di ammalarsi di anoressia o di bulimia, fino a morire in alcuni casi, ecco che la battaglia deve essere combattuta. In che modo?
«Intanto possiamo lanciare un appello a tutte le riviste femminili» spiega Giovanna Melandri, ministro per le Politiche giovanili e le attività sportive, che lo scorso ha avuto un primo incontro con le direttrici: «Si può dire di no al mercato pubblicitario che impone certi canoni di bellezza» dice con fermezza.
Boicottare, dunque, è possibile. E sarebbe già un grande passo. «Tutte queste riviste, tra l’altro, sono piene di diete fai da-te che aprono la strada verso l’autodistruzione» aggiunge la Melandri, autrice, tra l’altro, di un libro dedicato alle ragazze, alla moda, all’alimentazione: Come un chiodo (Donzelli). E di cura e prevenzione parlerà lunedì prossimo nella sede del suo Ministero, dove incontrerà, oltre al ministro della Salute Livia Turco con la quale ha organizzato il seminario, le associazioni che si occupano di disturbi del comportamento alimentare: «Presenteremo una prima linea di azione per la prevenzione di queste malattie e destineremo 1 milione di euro ad alcuni progetti, portati avanti dal Centro di Todi e da altri soggetti pubblici - spiega il ministro -. L’obiettivo è quello di costruire una mappa dettagliata dei servizi pubblici da offrire a chi soffre di questi disturbi alimentari. L’anoressia e la bulimia sono malattie psichiatriche, ma ricordiamoci che si possono guarire».
Sempre lunedì, inoltre, nascerà un Comitato di monitoraggio chiamato a vigilare sull’applicazione del Manifesto nazionale di autoregolamentazione della moda italiana contro l’anoressia «che ci aiuterà a mantenere l’impegno preso nei confronti dell’opinione pubblica per diffondere un’immagine femminile diversificata».
A proposito del Manifesto di autoregolamentazione, firmato un anno fa da lei, dalla Camera nazionale della moda italiana e da Alta Roma, cosa è cambiato da allora?
«Prima di tutto se ne è parlato: il tema dell’anoressia è uscito dagli scantinati, dal silenzio. Il Manifesto conteneva una parte legata ad impegni ben precisi che la Camera nazionale della moda italiana vuole monitorare: impedire sfilate sotto i 16 anni, verificare le condizioni di salute delle modelle, ecc... E una seconda parte più culturale, che è anche la più difficile da vigilare perché nessuno può imporre a uno stilista di tenere la matita in un modo piuttosto che in un altro. Qui entriamo in un regno meno controllabile, il regno dei canoni estetici... Entra in gioco un principio di autoresponsabilità. Però se tutti i principali stilisti, tranne Dolce e Gabbana, hanno firmato quel Manifesto, vuol dire che qualcosa si sta muovendo».
Mi pare che Fiorucci però sia stato se non l’unico uno dei pochissimi ad essersi attivato concretamente contro l’anoressia...
«Non è l’unico stilista e poi non è un processo così immediato. L’anoressia è una malattia sociale del nostro tempo. Se il 63% delle ragazze delle scuole medie vogliono essere più magre vuol dire che questa pulsione ad adeguarsi ad un modello omologante è forte a tal punto da far tacere l’individualità di ciascuna. Bisogna allargare lo sguardo e vedere quanto la capacità progettuale di ogni singolo adolescente sia schiacciato dai modelli culturali del nostro tempo. Quindi la battaglia contro i disturbi alimentari è una battaglia contro l’omologazione che schiaccia l’individuo, la personalità».
E quindi è una battaglia anche contro il mercato pubblicitario...
«L’idolo del mercato della pubblicità spesso impone certe scelte, ma si può dire di no. E non solo all’immagine ma anche alle false rappresentazioni. Per esempio parlando con i medici ci siamo accorti che le diete fai-da te, come dicevo prima, sono il primo passo verso la malattia. Un’altra cosa si può chiedere alle riviste: di non proporre queste diete. Ci sono dei fattori sociali che stanno alterando le abitudini alimentari. Ma l’antidoto, a mio avviso, contro questo disagio è il riconoscimento individuale della unicità di ognuno. Il lavoro che va fatto diffusamente è indurre i giovani ad aver fiducia nelle proprie capacità. Per esempio il concorso “Giovani che cambiano l’Italia”, promosso dal Ministero per le Politiche giovanili e rivolto ai ragazzi tra i 18 e i 30 anni, è un antidoto anche contro questi disturbi. O cominciamo a scommettere sulla capacità dei nostri ragazzi a non omologarsi oppure tutto il resto è cura o intervento complesso sui canoni estetici e culturali. E quest’ultimo è il punto più difficile perché in questo caso non si può intervenire con le leggi. Io vorrei tanto che questo 8 marzo, anziché dedicarlo alla 194 - che non va toccata - fosse dedicato ai nuovi stereotipi che sviliscono il corpo, l’autonomia, la bellezza femminile. C’è un aneddoto che mi piace raccontare: tempo fa sono stata in una scuola romana di periferia dove ho spiegato cosa significa cadere in questa malattia. Ad un certo punto una ragazza ha detto: “in un mondo in cui ci battiamo per la diversità biologica e culturale dobbiamo batterci anche per la diversità estetica”. Questo è il cuore del problema».
Il Manifesto ha siglato per la prima volta una collaborazione stretta tra mondo politico e mondo della moda. Proseguendo su questa strada quale potrebbero essere i passi successivi?
«Una legge, per esempio. Se sarò rieletta la prima cosa cosa che farò sarà proporre un disegno di legge che trasformi alcuni obiettivi del Manifesto in norma: il divieto di sfilare sotto i 16 anni; un certificato medico obbligatorio per le modelle; l’obbligo di inserire nelle collezioni anche la taglia 44 (differenziando così anche il mercato che ne trarrebbe vantaggio). Delle sanzioni sarebbero previste qualora si violassero gli impegni già contenuti nel Manifesto. A questo testo vanno affiancati il monitoraggio e la prevenzione. Poi si potrebbe pensare ad un Codice di autoregolamentazione per i media, simile a quello che esiste già per i minori. Per quanto riguarda i progetti, per il prossimo anno avrei lanciato lo stesso concorso “Giovani che cambino l’Italia” anche per i ragazzi più piccoli».
È possibile in futuro immaginare una bellezza botticelliana sulle nostre passerelle?
«Mi basterebbe che si cominciasse a pensare alla diversità estetica. Dobbiamo batterci per accogliere canoni diversificati».

Repubblica 26.2.08
Cina, fine dei prezzi stracciati ora Pechino esporta inflazione
I salari aumentano del 13% e l'Occidente paga di più
di Federico Rampini


Addio acquisti scontati: in Usa a gennaio i prodotti made in China più cari dello 0,8%

PECHINO - Dietro il carovita che impoverisce i consumatori in Italia come in tutta l´Europa e gli Stati Uniti, c´è un cambiamento profondo nell´economia globale. E´ la fine dello "sconto cinese". Per la prima volta da quando è diventata un peso massimo del commercio internazionale, la Repubblica popolare non esporta più soltanto scarpe e vestiti, computer e televisori, ma anche inflazione. Una delle ragioni di questo cambiamento è una novità salutare: gli operai cinesi alzano la testa. Nelle zone dove c´è la piena occupazione il loro potere contrattuale migliora, i salari aumentano. E´ esattamente quel che sta accadendo lungo il delta del fiume delle Perle, nel Guangdong che è la regione più industrializzata della Cina, la vera fabbrica del pianeta. Lì a gennaio le buste paga degli operai cinesi sono aumentate del 13% in media, rispetto a un anno fa. E´ una rincorsa salariale senza precedenti nella storia recente della Cina comunista, anche se non basta a compensare altri rincari del costo della vita locale (la fettina di maiale è aumentata del 48% in un anno).
Se la classe operaia cinese si sveglia il mondo trema, per parafrasare la celebre frase di Napoleone. Dopo avere auspicato un progresso nelle condizioni sociali e nei diritti umani, ora ci accorgiamo che anche un modesto miglioramento retributivo in Cina non è indolore per i consumatori occidentali. Alan Greenspan, quando era presidente della Federal Reserve americana, aveva capito che la Cina era il suo migliore alleato per tenere a bada l´inflazione. Secondo Greenspan dalla seconda metà degli anni 90 fino a un´epoca molto recente, l´economia americana è stata miracolata da un "nuovo paradigma": gli incrementi di produttività diffusi dalla New Economy (con l´adozione universale delle nuove tecnologie), più il ribasso dei prezzi al consumo regalato dall´invasione del made in China, hanno consentito agli Stati Uniti dei ritmi di crescita sostenuti, senza generare tensioni sui prezzi. La politica dei bassi tassi d´interesse seguita dalla Federal Reserve era dovuta anche a questa convinzione: a contrastare l´inflazione ci pensavano le importazioni di prodotti cinesi. Quella fase magica si sta chiudendo sotto i nostri occhi. Gli americani - i consumatori più "sino-dipendenti" del pianeta - sono stati i primi ad accorgersene. Nel solo mese di gennaio i prezzi del made in China sono saliti dello 0,8%, l´aumento più elevato da quando lo Us Labor Department ha cominciato a misurare questo dato. In alcuni settori la fine dello sconto cinese si è già trasformata nel suo rovescio. Nel tessile-abbigliamento i prezzi al dettaglio negli Stati Uniti erano in discesa costante dal 1998, via via che il made in China rimpiazzava sugli scaffali i prodotti italiani o messicani. Da ottobre improvvisamente i vestiti sono rincarati del 4,6% (con punte del 7,3% nell´abbigliamento femminile). Negli Stati Uniti e in Europa resuscita di colpo lo spettro della stagflazione - crescita zero più inflazione - che aveva colpito l´Occidente negli anni 70. Una parte di questo choc è nata nel cuore dell´America, tra il crollo del mercato immobiliare e la crisi dei mutui. L´altro ingrediente sta in Cina. Questo colosso era stato un potente calmiere dei prezzi soprattutto dopo il suo ingresso nell´Organizzazione mondiale del commercio (2001). Ora l´indice dei prezzi al consumo cinesi è in crescita del 7,1%, il più forte rincaro del costo della vita negli ultimi 12 anni. L´inflazione nella Repubblica popolare si ripercuote inevitabilmente sui prezzi esteri del made in China. Al rincaro delle esportazioni contribuisce anche la graduale rivalutazione della moneta cinese, lo yuan o renminbi. Dal luglio 2005, quando smise di essere rigidamente agganciato al dollaro, lo yuan si è rafforzato del 16% sulla moneta americana (ma non sull´euro).
Ai rincari sui prodotti made in China, si aggiunge la corsa alle materie prime che Pechino contende agli occidentali. Con una economia che l´anno scorso è cresciuta dell´11,4% la Cina è diventata "l´elefante nella cristalleria" sui mercati dell´energia, dei minerali, delle derrate agricole. Poveri di risorse naturali in casa propria, i due giganti asiatici Cina e India hanno travolto tutti gli equilibri tra domanda e offerta. Dal petrolio a 100 dollari fino al minerale di ferro rincarato del 65% in pochi mesi, dall´oro ai cereali, tutte le commodities segnano record storici per la pressione dei bisogni asiatici: centinaia di milioni di nuovi abitanti di centri urbani; cantieri edili a non finire; fabbriche energivore; il boom della motorizzazione individuale. La dieta alimentare del ceto medio cinese si globalizza e "scopre" i dolci per la prima volta nella storia, facendo impazzire le quotazioni mondiali di cacao, zucchero, caffè. Il benessere che fa crescere il consumo di proteine, insieme con la ricerca di fonti alternative di energia nei biocarburanti, mandano alle stelle i prezzi di soya, grano, riso. La Cina non è autosufficiente per i suoi bisogni alimentari, quest´anno importerà 8,4 miliardi di dollari di prodotti agricoli dagli Stati Uniti, un aumento del 300% rispetto a dieci anni fa. Anche questo spiega i rincari della pasta e del pane nei supermercati italiani.
Con un apparente paradosso, la fine dello sconto cinese non riduce la nostra dipendenza dal made in China. Anzi, le esportazioni cinesi verso il resto del mondo hanno segnato un nuovo massimo storico a gennaio aumentando del 27%: 110 miliardi di dollari di vendite in un solo mese. La più grande catena di ipermercati americani, Wal-Mart (che ha un fatturato superiore al Pil della Svizzera) ha confermato che continuerà ad approvvigionarsi in Cina esattamente come prima, malgrado i rincari e nonostante gli scandali sui prodotti tossici. La spiegazione: la Cina è diventata un quasi-monopolio in molti settori. In Occidente sono state smantellate e delocalizzate gran parte delle fabbriche che producevano non solo jeans e scarpe ma anche pc, laptop, telefonini, videocamere. Il made in China può rincarare, le fabbriche non torneranno indietro.

Repubblica 26.2.08
Il segreto dei numeri
la matematica, gli uccelli e le rane
di Freeman Dyson


Come i volatili che scrutano dall´alto, alcuni studiosi prediligono i concetti. Come gli anfibi, altri osservano gli oggetti nei loro particolari
Abbiamo bisogno sia degli uni che degli altri. Perché questa disciplina, ricca e affascinante, è insieme grande arte e grande scienza

Alcuni matematici sono uccelli, altri sono rane. Gli uccelli volano alto nell´aria e scrutano le vaste distese della matematica spingendo lo sguardo fino all´orizzonte. Prediligono i concetti che unificano i nostri modi di pensare e partendo da punti diversi del paesaggio riuniscono una molteplicità di problemi. Invece le rane vivono nel fango e vedono solo i fiori che crescono nei pressi. Preferiscono osservare i singoli oggetti nei loro minuti particolari e risolvono i problemi uno alla volta. Personalmente, io sono una rana, ma molti dei miei migliori amici sono uccelli.
La matematica ha bisogno sia degli uccelli, sia delle rane. La matematica è così ricca e affascinante proprio perché gli uccelli assicurano l´ampiezza della prospettiva e le rane l´attenzione alla complessità del dettaglio. La matematica è insieme grande arte e grande scienza, perché unisce la generalità dei concetti alla profondità delle strutture. È sciocco sostenere che gli uccelli siano migliori delle rane perché vedono più lontano, o che le rane sono migliori degli uccelli perché vedono più da vicino.
Il mondo della matematica è vasto e profondo al tempo stesso, e per esplorarlo serve che uccelli e rane sappiano lavorare insieme. All´inizio del XVII secolo, due grandi filosofi - l´italiano Galileo Galilei e il francese René Descartes - annunciarono la nascita della scienza moderna. Descartes era un uccello e Galileo era una rana. Ciascuno dei due presentò una sua visione del futuro, l´una molto diversa dall´altra. Galileo disse: «Il gran libro della Natura è scritto in simboli matematici». Descartes disse: «Penso, dunque sono». Secondo Galileo, lo scienziato deve osservare e misurare accuratamente ciò che vede finché la somma di tutte queste misurazioni non rivela il funzionamento della Natura.
A quel punto, partendo dai dati di fatto, lo scienziato induce le leggi cui obbedisce la Natura. Invece secondo Descartes lo scienziato deve restare a casa sua e dedurre le leggi della Natura per mezzo del puro pensiero. Per dedurre correttamente le leggi della Natura non gli occorre altro che le regole della logica e la conoscenza dell´esistenza di Dio.
Ora, nei quattro secoli trascorsi da quando Galileo e Descartes hanno aperto la via, la scienza è corsa avanti seguendo ambedue le piste contemporaneamente. Né l´empirismo galileiano, né il dogmatismo cartesiano hanno da soli il potere di svelare i segreti della Natura, ma insieme hanno realizzato conquiste sbalorditive.
Da quattro secoli, gli scienziati inglesi sono tendenzialmente galileiani e gli scienziati francesi cartesiani. Faraday, Darwin e Rutherford erano galileiani: Pascal, Laplace e Poincaré erano cartesiani. La scienza è stata grandemente arricchita dall´ibridazione di queste due opposte culture nazionali, rimaste entrambe operanti in ambedue i paesi. In fondo, Newton era un cartesiano: ha usato il puro pensiero nel modo in cui lo intendeva Descartes, e lo ha usato per demolire il dogma cartesiano dei vortici. In cuor suo, Marie Curie era una galileiana, e ha fatto "cuocere" tonnellate di minerale di uranio grezzo per demolire il dogma dell´indistruttibilità degli atomi.
Nella storia della matematica del XX secolo spiccano due avvenimenti decisivi, l´uno appartenente alla tradizione galileiana, l´altro a quella cartesiana. Il primo fu il Congresso Internazionale dei Matematici tenutosi a Parigi nel 1900, dove Hilbert pronunciò un memorabile discorso in cui propose un famoso elenco di ventitré grandi problemi rimasti irrisolti, tracciando così la rotta della matematica per il secolo a venire. Hilbert era un uccello che volava alto sopra l´intero territorio della matematica, ma affidò i suoi problemi alle rane perché li risolvessero uno alla volta. Il secondo evento decisivo fu la costituzione, nella Francia degli anni Trenta, di un gruppo di matematici, riuniti sotto lo pseudonimo di Bourbaki, i quali pubblicarono una serie di libri di testo che stabilissero un quadro unificante per l´insieme della matematica.
I problemi di Hilbert sono stati di enorme utilità nell´orientare la ricerca matematica in direzioni proficue. Alcuni di quei problemi sono stati risolti, per altri non si è ancora trovata una soluzione, ma quasi tutti hanno stimolato il sorgere di nuove idee e di nuovi ambiti della matematica. Il progetto Bourbaki è stato altrettanto influente: ha cambiato il modo di fare matematica per i cinquant´anni successivi, imponendo una coerenza logica quale non si era mai vista e spostando l´attenzione dagli esempi concreti alle generalità astratte.
Nello schema adottato dal gruppo Bourbaki, la matematica è la struttura astratta proposta nei testi del gruppo stesso. Ciò che non è nei testi non è matematica; gli esempi concreti, poiché non compaiono nei testi, non sono matematica. Insomma, il programma del gruppo Bourbaki è l´espressione estrema del modo cartesiano di fare matematica. Ha circoscritto la portata della matematica escludendone i bei fiori che un viaggiatore galileiano avrebbe potuto raccogliere lungo il cammino. Ciò che più manca nel programma Bourbaki, per me che sono galileiano, è l´elemento sorpresa. Quando ripenso alla storia della matematica, vedo una successione di salti illogici, di coincidenze improbabili, di scherzi della natura. Uno degli scherzi della natura è l´esistenza dei quasicristalli.
Nel xix secolo, lo studio dei cristalli ha condotto all´enumerazione di tutti i possibili gruppi discreti di simmetria dello spazio euclideo. Sono stati dimostrati teoremi che stabiliscono che nello spazio tridimensionale i gruppi discreti di simmetria possono contenere soltanto rotazioni di ordine 3, 4 o 6.
Poi, nel 1984, sono stati scoperti i quasicristalli, oggetti solidi reali che nascono da leghe di metallo liquido e mostrano la simmetria del gruppo icosaedrico che comprende rotazioni quintuple. Intanto il matematico Roger Penrose aveva scoperto la tassellatura del piano che reca il suo nome. Si tratta di uno schema di parallelogrammi che coprono al limite il piano con un ordine pentagonale. I quasicristalli di lega sono analoghi tridimensionali delle tassellature di Penrose, che sono bidimensionali. Dopo queste scoperte, i matematici hanno dovuto ampliare la teoria dei gruppi cristallografici così da includervi i quasicristalli, dando avvio a un grande programma di ricerca che è tuttora in corso.
Un altro scherzo di natura è costituito da un´analogia di comportamento fra i quasicristalli e gli zeri della funzione zeta di Riemann. I matematici si appassionano tanto agli zeri della funzione zeta perché sono situati su una linea retta e nessuno capisce perché. Secondo la famosa "ipotesi di Riemann", tutti questi zeri, a eccezione di quelli banali, sono situati su una linea retta. Da oltre un secolo, dimostrare l´ipotesi di Riemann è il sogno di ogni giovane matematico. Voglio ora suggerire un´idea scandalosa: potremmo usare i quasicristalli per dimostrare l´ipotesi di Riemann. Quanti di voi sono matematici potranno anche considerarla futile; agli altri, cioè ai non matematici, potrà sembrare priva d´interesse. Io però vi chiedo di prenderla in seria considerazione.
In gioventù, il fisico Leo Szilard decise che non era soddisfatto dei dieci comandamenti di Mosè e al loro posto ne scrisse altri dieci. Il secondo comandamento di Szilard dice: «Fa´ che le tue azioni siano dirette verso uno scopo degno, ma non chiederti se possano raggiungerlo: dovranno essere modelli ed esempi, ma non mezzi rivolti a un fine». Szilard ha posto in pratica ciò che predicava: è stato il primo fisico a immaginare le armi nucleari, e il primo a impegnarsi attivamente nella campagna contro il loro uso. Ebbene, il suo secondo comandamento fa perfettamente al caso nostro: dimostrare l´ipotesi di Riemann è uno scopo meritevole, e non sta a noi domandarci se possiamo raggiungerlo. (...)
Il problema di classificare i quasicristalli unidimensionali è di una difficoltà spaventosa. Ma la storia della matematica, se la guardiamo dal punto di vista galileiano, è fatta di problemi spaventosamente difficili che sono stati risolti da giovani troppo ignoranti per sapere che erano insolubili. La classificazione dei quasicristalli è uno scopo meritevole e chissà, potrebbe persino rivelarsi raggiungibile. Ma non è certo un vegliardo come me che può risolvere un problema di questo grado di difficoltà. Lascio quindi questo esercizio ai giovani ranocchi che mi leggono.
Traduzione di Marina Astrologo

Corriere della Sera Roma 26.2.08
Tintoretto e gli altri
«Capolavori che ritornano», per ricostruire la cultura di un territorio
di Lauretta Colonnelli


In mostra a Palazzo Ruspoli oltre cento opere dal Quattrocento al primo Novecento

Il bel «Ritratto di gentiluomo con cappa bordata di ermellino» del Tintoretto, la «Testa di vecchio orientale» di Giandomenico Tiepolo, una delicata Madonna di Filippo Lippi, un consistente gruppo di tele di Jacopo, Francesco e Leandro Bassano, tra le quali la Madonna col Bambino e San Giovannino, appartenuti alla collezione Spencer. Capolavori che fanno parte delle oltre cento opere esposte nella mostra che si inaugura domani a Palazzo Ruspoli, allestita con i lavori di grandi maestri raccolti da circa un decennio dalla Banca popolare di Vicenza. Opere che hanno come destinazione stabile il palazzo Thiene della cittadina veneta, sede storica dell'istituto, dove già esisteva un piccolo nucleo di dipinti, sporadicamente acquistati dal dopoguerra in poi.
Con «Capolavori che ritornano», la Banca ha avviato un'operazione che mira a riportare in Italia opere che negli ultimi due secoli sono emigrate altrove, sradicandosi per molteplici e spesso ignote ragioni dal luogo d'origine. I maestri scelti per il «ritorno» sono stati all'inizio quelli che operarono nel territorio veneto tra Cinquecento e Ottocento, ai quali si sono aggiunti - in anni più recenti e dopo l'inserimento nel gruppo bancario vicentino della Cassa di Risparmio di Prato - gli artisti toscani acquisiti da quest'ultima ed esposti fino ad oggi nella sede centrale di Prato.
Anche questa seconda collezione, recentemente valorizzata da un riallestimento espositivo, ha avuto come riferimento il proprio territorio, privilegiando autori compresi fra il Trecento e il Novecento. La rassegna presenta per la prima volta al grande pubblico le due collezioni riunite e offre la possibilità agli studiosi di fare comparazioni anche con altre opere dello stesso periodo e della stessa area geografica che sono collocate in mostra virtualmente. Il percorso è organizzato secondo criteri cronologici: dalle prime sale, che presentano le opere del Cinque e Seicento divise per aree territoriali, rispettivamente toscana e veneta, si passa al settore centrale, denominato «Tesoro». È questo il nucleo centrale dell'esposizione, con un gruppo selezionatissimo di dipinti, notevoli per rarità e problematicità di datazione o di attribuzione e impreziositi dal fondo dorato ideato dallo scenografo Ezio Frigerio.
Si passa poi a una duplice quadreria, toscana e veneta, relativa al periodo compreso tra Sei e Settecento. Qui la comparazione è arricchita dal recupero (in prestito) di disegni preparatori di alcuni importanti dipinti. Tra le opere notevoli, da segnalare una «Madonna col Bambino» di Bartolomeo Montagna assisa su un trono di marmi policromi, riccamente decorato. E una «Madonna col Bambino» del Bonconsiglio, recuperata in Gran Bretagna e qui idealmente ricongiunta a due Santi che appartenevano alla stessa pala d'altare veneziana, datata 1497, smembrata e dispersa dopo la caduta della Serenissima. Il viaggio si conclude con una selezione di opere dell'Ottocento e del primo Novecento distribuite tra un ambiente che ricrea un piccolo pantheon di sculture dedicato soprattutto a Lorenzo Bartolini, artista pratese allievo di Antonio Canova - e una sala che dal vedutismo tardo- romantico giunge fino alle sperimentazioni formali dei primi decenni del Novecento.

Liberazione 26.2.08
Flores D'Arcais aveva invitato lui e Bertinotti a un confronto pubblico. Bertinotti ha risposto di sì
In difesa dell'aborto, 40.000 persone chiamano Veltroni. Lui non risponde


Ancora silenzio del leader del Pd sull'appello contro la «crociata clericale» lanciato da 13 donne, esponenti della cultura italiana
Il «Si può fare» di Walter non arriva...

La settimana scorsa 13 donne, dai nomi piuttosto famosi, hanno scritto una lettera a Bertinotti e Veltroni per chidere loro di prendere posizione sull'aborto e sulla crociata clericale contro le donne. All'appello (lanciato attraverso la rivista Micromega, e firmato da Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Isabella Ferrari, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Fiorella Mannoia, Dacia Maraini, Valeria Parrella, Lidia Ravera, Rossana Rossanda, Elisabetta Visalberghi) si sono aggiunte le firme di altre 40 mila persone. Una quantità enorme. E continuano ad arrivare firme ad un ritmo assolutamente inaspettato.
Nei giorni scorsi Paolo Flores D'Arcais, direttore di Micromega, ha invitato Bertinotti e Veltroni a un confronto pubblico con le firmatarie dell'appello. Bertinotti ha rispsoto subito di sì. Veltroni, fino a ieri, non ha risposto per niente. Eppure un appello di 40 mila persone, promosso da persone piuttosto importanti e rispettabili, meriterebbe almeno un cenno. Non vi pare? Noi speriamo che questo cenno arrivi nelle prossime ore, e che il confronto si possa svolgere.
Nell'appello si diceva, tra l'altro che «L'offensiva clericale contro le donne - spesso vera e propria crociata bigotta - ha raggiunto livelli intollerabili. Ma egualmente intollerabile appare la mancanza di reazione dello schieramento politico di centro-sinistra, che troppo spesso è addirittura condiscendenza.
Con l'oscena proposta di moratoria dell'aborto, che tratta le donne da
assassine e boia, e la recente ingiunzione a rianimare i feti ultraprematuri anche contro la volontà della madre (malgrado la quasi certezza di menomazioni gravissime), i corpi delle donne sono tornati ad essere "cose", terreno di scontro per il fanatismo religioso, oggetti sui quali esercitare
potere...».

Liberazione 26.2.08
Bertinotti: campagna elettorale gentile? Loro però puntano ad annientarci...
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Cielo grigio su... Sembra davvero il clima evocato dalla lontana canzone dei Dik Dik. Il clima che incombeva fisicamente domenica su Reggio Emilia, dove Fausto Bertinotti ha svolto la sua prima, affollata iniziativa fuori dalle mura di Roma come candidato premier della Sinistra Arcobaleno. E il clima, mediatico prima ancora che politico, che incombe su questa campagna elettorale: che Bertinotti ieri ha denunciato in televisione, ospite di Ritanna Armeni e di Lanfranco Pace ad "Otto e 1/2" su La7 .
Grigio cielo della teoria, diceva anche Rosa Luxemburg: ma qui non si tratta di teoria, sono i mutismi dei "due pilastri" Pd e Pdl. Silenzi speculari. Che si esercitano sul panorama della crisi di società, vissuta ogni giorno in Italia. Si sognava California negli anni 60 per fuggire dal conformismo conservatore. Adesso invece è il rinnovato conformarsi dei due grandi blocchi politici ad un pensiero unico, che invoca il "sogno americano". Peccato che sia nel caso del George W. Bush «caro amico» di Berlusconi sia in quello della versione "adattata" di Barack Obama interpretata da Veltroni, si tratti di un'America irreale. Se là c'è la novità dei temi sociali che battono sulle primarie presidenziali, qui il conflitto sociale viene rimosso.
I colori però ci sono, sotto questa cappa plumbea. Sono a colori i volti delle lavoratrici e dei lavoratori, immigrati e nativi, menomati quando non uccisi - come accade tanto spesso - dal lavoro in nero e dalla violazione dei diritti; dallo sfruttamento che si manifesta in pressioni insopportabili su ritmi e sulla qualità stessa del lavoro. Sono a colori quei volti, cui Daniele Segre restituisce voce in "Morire di lavoro". Che è il film col quale Bertinotti, a Reggio Emilia, in una sala d'un centro congressi piena di gente che sognava California quarant'anni fa e di tanta altra che allora era lontana dal nascere, ha inaugurato la sua campagna in giro per l'Italia. Un modo già questo controcorrente. Non la pubblicità, ma il cinema. Non gli spot suggestivi proiettati sui fondali digitali dei comizi da piazza mediatica: ma ragionamenti ad alta voce, discorsi politici, che poi fanno largo alla parola diretta dei soggetti che si vuole rappresentare. Alla verità delle loro esistenze, raccolta dal cinema mentre è taciuta dalle classi dirigenti.
Diventa grigio anche il lavoro, quando si tenta di blandirlo senza nominarne la liberazione necessaria. E' un sindacalista come Tiziano Rinaldini - con il fratello Gianni segretario generale della Fiom confuso nel pubblico in un discrezione sciolta solo alla fine nell'abbraccio con Bertinotti - ad avvertire in premessa che il lavoro, sì, «è tornato di moda»: con candidature sullo sfondo di tragedie omicide quale quella della Thyssen Krupp, con «promesse» e con «tanta comprensione» enunciata a piene mani. Ma il punto è «prendersi la responsabilità di affrontare oppure no la realtà del conflitto sociale». Qual è la risposta del Partito democratico si sa bene.
A Reggio Emilia, domenica, Bertinotti registra che appena gli è giunta una critica, Veltroni ha reso «meno gentile» la campagna elettorale, verso sinistra. Il leader del Pd ha contrapposto il 2008 al 1953. Per usare poi la definizione di «marziano». Epiteto rivolto a chi - all'unisono con Berlusconi - si vuole escludere da quella democraticissima formula: «voto utile».
Alle provocazioni Bertinotti risponde con due registri. Con quello apparentemente leggero della satira di Altan: alla platea reggiana il candidato premier della Sinistra Arcobaleno ricorda quella vignetta degli anni 80, nella quale un compagno diceva a Cipputi «vedi, la lotta di classe non c'è più»; e lui rispondeva «spiegalo al padrone». Poi, c'è il registro immediatamente serio: che tramite la memoria richiama alla coscienza, all'onestà intellettuale. Così «se nel '53 era Marcinelle, oggi è la Thyssen Krupp». Dal ricordo dell'ecatombe mineraria di Marcinelle, anzi dal ricordo d'uno dei superstiti incontrato decenni dopo, Bertinotti trae una frase che vorrebbe si traslasse in «parola d'ordine martellante» nella campagna elettorale: «Vuoi sapere perché sono morti? Sono morti perché il carbone allora valeva più della vita umana». Ed è lo spunto per sviscerare l'oggi: quando quell'insegnamento vale per il prevalere d'ogni merce sul valore della vita. E tanto più dal momento che «il capitalismo mette ormai all'opera non solo le mani, ma anche i corpi e le menti e con una metafora riassuntiva l'anima delle persone».
Allora, affonda Bertinotti sull'attualità elettorale, a contare nelle proposte d'una politica in crisi è la verità del rispettivo approccio ai «rapporti sociali». A quelli che «una volta» si definivano «rapporti di potere tra le classi». Ed è «per stabilizzare questi», avverte, che «bisogna che la sinistra non esista come tale nel panorama politico». Ciò che si propone con una «competizione elettorale ridotta a due in maniera coatta». Ed è di converso perciò che «fare vincere, far affermare un soggetto politico rinnovato della sinistra qual è la Sinistra Arcobaleno è davvero una sfida decisiva per il futuro del Paese».
Vale, questo appello a riappropriarsi d'un «canale nelle istituzioni», per il lavoro dipendente "formale" come e tanto più vale per «il precariato». Ma vale per il lavoro tout court come in generale per «le istanze, i conflitti e le lotte che sono presenti nella società civile». Perché sinistra è continuità di «una scelta di parte», come recita il primo slogan scelto dall'Arcobaleno. Ma questa parte è plurale, multiforme, differente all'interno dello stesso impulso alla «liberazione». Che è «liberazione del e dal lavoro salariato». E', al pari, «liberazione della natura e del pianeta dalla logica cieca dello sviluppo capitalistico». E, ancora e infine, è «liberazione della persona, delle persone»: dall'«alienazione» di questo «dominio della merce» così come della «risposta speculare e altrettanto alienatrice», quella del «fondamentalismo» religioso. Lo stesso che minaccia la «laicità dello Stato» come «garanzia della libertà di scelta».
Appunto: l' imprinting alla campagna elettorale bertinottiana, dato da Reggio Emilia domenica, è nel "tenere insieme" questa pluralità di spinte liberatrici, più ancora che di sigle partitiche. L'unità è una novità necessaria per quelle, anzitutto. E tanto più che, come Bertinotti torna a battere ad "Otto e 1/2" e prima ancora allo Speciale Tg1 , la pressione per «il voto utile» è «il grande imbroglio». Cui il Pd concorre. Più centro che sinistra, il partito di centrosinistra fa l'autodafé della sinistra.
Per non rispondere, magari, a semplici verità come quella ripetuta da Bertinotti ieri sera: che se oggi ci fosse - «pur senza chiamiarlo scala mobile» - un «meccanismo di adeguamento dei salari all'inflazione reale», realizzato annualmente e stabilito di volta in volta (per smentire l'alibi del rischio d'inflazione che verrebbe da una "attesa" alimentata di continuo), adesso «anche i prezzi sarebbero più controllati».
All'inverso si finisce per minacciare l'autonomia del sindacato. Quella che Di Vittorio indicava: «Dai padroni, dal governo e dai partiti». Mentre ora la «conquista dell'autonomia» ridiventa, con «un Pd che mostra una propensione avvolgente», un «problema». In primo luogo della Cgil, che nel Pd «rischia l'arruolamento».
Con la realtà del capitalismo, anche la «coalizione autonoma delle lavoratrici e dei lavoratori» deve scomparire nel grigio del «duopolio». Anche per questo ci vogliono i colori dell'Arcobaleno. A tinte forti, magari.

Liberazione 26.2.08
Oggi vertice dei leader con Bertinotti. All'odg programma e campagna
Sinistra Arcobaleno: «Pd-Pdl, stessa cosa...»


Da quando è sceso in campo come candidato premier della Sinistra Arcobaleno, Fausto Bertinotti li vede ogni settimana i leader di Prc, Sd, Verdi e Pdci. Ma il vertice di oggi, alla Camera, assume una valenza particolare. Servirà a mettere a punto le linee guida della Sinistra Arcobaleno, all'indomani della presentazione del programma del Partito Democratico. Non solo. Sarà anche l'occasione per riflettere su una campagna elettorale indubbiamente difficile nella quale Veltroni e Berlusconi (più il primo che il secondo) fanno una parte da leoni.
Il programma. Quello del leader del Pd è «speculare» a quello di Berlusconi, dice Angelo Bonelli dei Verdi. E a sinistra il giudizio è unanime. «Se davvero Veltroni ci crede a quello che dice, perchè non inizia da subito? - dice Titti Di Salvo di Sd - Potrebbe incalzare il governo attuale, composto per due terzi da ministri del Pd, sulla redistribuzione del tesoretto, per esempio. Il suo programma non è credibile proprio perchè è riferito al futuro, mentre potrebbe benissimo partire dall'oggi». «Alla fine, tutti quelli che avevano deciso di andare da soli, si presentano con variegate compagnie di giro e ognuno rinfaccia all'altro di copiare i programmi», nota Franco Giordano. «Ciascuna delle due forze politiche ha dentro di sè tutto e il contrario di tutto - aggiunge il segretario del Prc - Siamo gli unici a dire una parola chiara sulla 194, la legge 40, le unioni civili...».
Si presume che la Sinistra Arcobaleno dirà la sua parola chiara sul programma nel prossimo fine settimana, quando sono in calendario iniziative nei maggiori capoluoghi di regione (sabato) e una nuova kermesse elettorale in un teatro romano (domenica mattina, si sta cercando una sede possibilmente più grande del Piccolo Eliseo che ha ospitato il lancio della campagna elettorale mercoledì scorso). Forte della campagna di ascolto con i movimenti svolta la scorsa settimana, il vertice di oggi produrrà la bozza programmatica che ricalca la carta dei valori approvata all'assemblea unitaria dell'8 e 9 dicembre scorsi alla Nuova Fiera di Roma. Tra le proposte, il superamento della legge 30, l'introduzione del salario sociale, misure fiscali mirate al sostegno dei redditi medio/bassi, applicazione dell'articolo della Finanziaria sulla redistribuzione dell'extragettito, tassazione delle rendite al 20 per cento. Inoltre: un piano casa per l'accessibilità degli affitti, si discute su un fondo mutui, confermata la difesa della 194 e l'impegno per una legge sul riconoscimento delle coppie di fatto. Ambiente: via libera ad un piano per la messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico, decisi "no" alle grandi opere in stile Ponte sullo stretto, alla Tav, al nucleare, agli Ogm. Pacifismo e non violenza: ovvia richiesta del ritiro dall'Afghanistan.
Più che presentare un elenco di promesse difficili da mantenere (visto che si viaggia verso l'opposizione e si può solo sperare di condizionare la politica del Pd), la Sinistra Arcobaleno intende la propria "campagna elettorale come programma", nel senso che - nelle intenzioni dei quattro partiti - il periodo che ci separa al voto di aprile dovrà servire a mobilitare e costruire la sinistra nei territori. Anche perchè la tattica mediatica di Veltroni è più che incalzante, si riconosce da più fronti interni.
E' per questo che, oltre che a mandare avanti il lavoro sulle candidature, il vertice di oggi servirà anche da riflessione sui ritardi della campagna elettorale della Sinistra Arcobaleno. E non mancherà chi consiglierà a Bertinotti di cominciare a vestire fino in fondo i panni del candidato, dismettendo quelli di presidente della Camera. «Dobbiamo superare il problema del ritardo nella campagna elettorale - suggeriscono dai Verdi - deve essere uno stimolo per fare di più e per non farci rubare praterie a sinistra da Veltroni...».
a.mau.

Sinistra: si può fare. Die Linke terza forza
Liberazione 26.2.08
Germania, la Linke sfonda a Ovest
Ora la Coalizione rischia davvero
di Matteo Alviti


Storico risultato del partito della Sinistra, che entra anche nel Parlamento di Amburgo
La Spd, in crisi e divisa dalle dispute interne, ora guarda a sinistra. E Merkel si infuria

Berlino. Scricchiola, scricchiola forte la grande coalizione tedesca sotto i colpi dei risultati elettorali regionali. Dopo l'Assia e la Bassa-Sassonia, domenica la città-stato di Amburgo ha dato un altro colpetto alle due gambe, sempre più divaricate, che tengono in piedi il governo Cdu-Spd. Complice e protagonista Die Linke, il partito della sinistra di Gregor Gysi e Oskar Lafontaine, che con il 6,4% entra per la prima volta nel parlamento regionale della città anseatica con otto deputati. E scombina il gioco di alleanze che ha reso possibili gli ultimi vent'anni di stabilità tedesca.
Ad Amburgo la Cdu del governatore uscente Ole von Beust perde 4,6 punti e la maggioranza assoluta dei seggi la Cdu, pur confermandosi primo partito con il 42,6%. Guadagna il 3,6% la Spd dello sfidante Michael Naumann, che si ferma al 34,1%, il secondo peggior risultato di sempre. Perdono i verdi (-2,7%), che scendono al 9,6%. Mentre i liberali, pur quasi raddoppiando le preferenze, non hanno saltato l'asticella della soglia di sbarramento fissata al 5%. Von Beust dovrà ora decidersi tra una grande coalizione in tono minore con la Spd e un'inedita quanto "visionaria" alleanza con i verdi, eventuale prodromo di un dialogo che potrebbe aprirsi dopo le elezioni nazionali del prossimo anno.
Anche nel colorato e storicamente progressista nord amburghese Die Linke è diventata dunque realtà. Dopo Brema, nel 2007, e i risultati favorevoli in Assia (5,1%) e Bassa Sassonia (7,1%) dello scorso gennaio, la Sinistra è entrata nel quarto parlamento regionale dell'ex-Repubblica federale. Oggi Die Linke è rappresentata in dodici parlamenti regionali su sedici da una truppa di 183 deputati, il 10% del totale, che ne fanno il terzo partito, dopo Cdu e Spd ma prima di verdi e liberali. Il risultato, storico, è però inferiore al 9% attribuitole dai sondaggi e al 7% che lo stesso partito si aspettava. Poco male, ha commentato Lafontaine, «per noi è di enorme importanza essere nel quarto parlamento regionale dell'ovest: solo un anno fa nessuno lo avrebbe previsto».
Die Linke aveva recentemente dovuto fare i conti con le difficoltà nate dall'elezione nel parlamento della Bassa-Sassonia di Christel Wagner, candidata dalla Sinistra ma iscritta al Dkp - il partito comunista tedesco rinato all'ovest nel 1968 - la quale aveva dichiarato in un'intervista il suo apprezzamento per il Muro e la Stasi. La Wagner, che aveva suscitato una valanga di critiche alla Linke proprio alla vigilia della prova di Amburgo, era stata subito espulsa dal gruppo parlamentare. Ma il danno, pur circoscritto, non è stato cancellato: anche nella città anseatica erano candidate persone vicine o iscritte al Dkp. «Il nostro atteggiamento è chiaro», ha ribadito Lafontaine rispondendo alle critiche per quelle candidature scomode, «chi lavora agli obiettivi della Linke è ben accetto. Chi invece non li condividesse sarà escluso».
La Spd festeggia, nervosamente, i suoi risultati, al di sotto delle aspettative e tra i peggiori nella storia delle competizioni elettorali, ad Amburgo oggi, come in Assia con Andrea Ypsilanti il mese scorso. Eppure nella città anseatica Naumann, ex-direttore dell'autorevole settimanale Zeit ed editore, ha fatto un piccolo miracolo per la Spd, che solo un anno fa era data 20 punti sotto la Cdu. Risalire la china della sfiducia generalizzata lasciata in eredità da due legislature di politiche social-liberali targate Gerhard Schröder è più difficile del previsto. E non aiutano gli scontri al vertice tra i "nipotini" dell'ex-cancelliere e la corrente di sinistra, a cui il presidente del partito Kurt Beck continua a fare l'occhiolino cercando di non perdere l'equilibrio centrista. Pochi giorni prima del voto erano arrivate alle orecchie lunghe della stampa alcune dichiarazioni informali di apertura alla Linke da parte del presidente Beck per un'alleanza strategica in Assia. In quella regione la Spd sta cercando di conquistare il posto di governatore a dispetto della risicatissima maggioranza relativa consegnata dalle urne alla Cdu di Roland Koch, governatore uscente. Per essere eletta, la leader socialdemocratica locale Andrea Ypsilanti dovrà formare un governo di minoranza con i verdi e avere l'appoggio esterno della Linke. Eventualità strenuamente rifiutata dalla Spd fino a pochi giorni fa, per timore di perdere, prima del voto di Amburgo, le distanze dall'avversario più temibile, la «cosiddetta sinistra», come continuava a chiamarla sprezzante Beck in ogni occasione pubblica. Le dichiarazioni di apertura del leader della Spd hanno indispettito non poco i compagni di Amburgo, ma soprattutto hanno fatto infuriare la cancelliera Angela Merkel per cui Beck è diventato «un uomo di cui non ci si può più fidare».
In Germania la vera sfida per la socialdemocrazia del terzo millennio passa per un'alleanza con i cugini "apostati" della Sinistra. Ma considerata l'involuzione social liberale della Spd l'apostasia diventa questione di prospettive. In linea di principio Die Linke non è contraria a una collaborazione con la Spd a livello regionale. Per Oskar Lafontaine, capogruppo al Bundestag insieme a Gysi, la cooperazione sta nella natura politica dei programmi, «che a livello regionale coincidono in molti punti». Come quello della ricomunalizzazione dell'approvvigionamento energetico e dell'abolizione delle tasse universitarie. Il fatto è che il candidato socialdemocratico ad Amburgo, Naumann, è un fermo sostenitore dell'Agenda 2010 di schröderiana memoria, oltreché oppositore di una collaborazione con ex-comunisti o trotzkisti. Il che rende l'eventualità di una collaborazione più remota che in Assia, dove Andrea Ypsilanti rappresenta, con un programma avanzato soprattutto sotto il profilo ambientale, l'anima di sinistra della Spd.

il manifesto 26.2.08
Sinistra tedesca, un bell'esempio
di Luciana Castellina


«Yes, we can!». Se dalla Germania torniamo in Italia, meglio dire: «Yes, we could!», sì, potremmo. I risultati delle elezioni di domenica scorsa nella città-stato di Amburgo, analoghi a quelli di poco più di un mese fa nel vasto Land industriale dell'Assia, ci dicono che la sinistra può vincere in quanto sinistra e conquistare numeri che possono permetterle di governare. Se poi a quelli registrati nella grande Germania si aggiungono quelli della minuscola Cipro - dove viene eletto presidente (primo fra gli stati membri dell'Ue) un comunista doc capo di un partito che si chiama ancora come quando faceva parte della III Internazionale - si può ben dire che l'Italia sia collocata in un continente diverso. Qui infatti sembra che si possa vincere solo se si assomiglia agli americani che, come è noto, di partiti di sinistra, o almeno un po' di sinistra, non ne hanno mai avuti.
Bando all'euforia, per carità. Si tratta pur sempre di spostamenti ancora limitati e di partiti - la Spd e Die Linke - che non hanno ancora nemmeno deciso se vogliono governare assieme anche ad ovest. Ma il fatto che la presidenza federale del Partito socialdemocratico abbia concluso la sua riunione, convocata sull'onda del successo di Amburgo, dando ufficialmente via libera ai negoziati con il partito di Lafontaine e Gisy, è già un segno nuovo e controcorrente rispetto a quello indicato da Veltroni. Che anziché analizzare con serietà le cause del fallimento del governo Prodi, ha scelto la strada dell'anatema: mai più con la sinistra radicale.
Si dice che alla vigilia del voto di Amburgo Kurt Beck, il presidente della Spd, rompendo un tabù, avesse fatto pubblicamente allusione alla possibilità di accordi con Die Linke per sondare le reazioni dell'elettorato. Deve aver ritenuto che il test è stato positivo, se a 24 ore di distanza la presidenza si è pronunciata in quel modo, aprendo la strada intanto ad un accordo in Assia, dove Andrea Ypsilanti potrebbe diventare presidente con l'appoggio della sinistra.
La Spd nella grande città del nord ha infatti aumentato di più di quattro punti, nonostante si trovasse a confronto, a differenza di quanto accaduto a Francoforte, con esponenti Cdu molto «illuminati», aperti alla problematica ecologica e sociale. E per di più essendo alle prese con un sindaco democristiano, Ole von Beust, assai popolare. E l'aumento si è verificato in presenza di un considerevole successo della Sinistra, che qui ha più che sforato il tetto, entrando nel parlamento del Land con il 6,4% dei voti. Mentre i Verdi, che pure in questa città all'inizio degli anni '80 erano molto forti, hanno perduto quasi il 3% proprio perché avevano reso pubblica l'ipotesi di formare una coalizione con la Cdu.
Si può ben dire, ora, che una nuova possibile geografia politica comincia a disegnarsi in Germania. Anche se i tempi saranno lunghissimi e contorti: per ora, infatti, la Spd sta al governo con la Cdu, ed anche ad Amburgo è facile che la locale socialdemocrazia, diretta da un brillante intellettuale, Neumann, ma assai moderata, possa scegliere questa strada piuttosto che l'alleanza a sinistra. Die Linke è però ormai una delle forze politiche con cui il paese deve fare i conti: negli ultimi mesi è entrata per la prima volta in ben quattro parlamenti regionali occidentali, già governa con la Spd e i Verdi in numerosi stati all'Est, a cominciare da Berlino; e nelle regioni orientali, con il suo 30%, è il primo partito. Soprattutto sembra essere la sola forza politica in grado di riportare alle urne una fetta dell'area astensionista, assai vasta anche in Germania. Poiché anche la Spd recupera voti, vuol dire infatti che più che mangiare sull'elettorato socialdemocratico, Die Linke riconduce nel processo democratico settori di malcontento particolarmente pericolosi.

il manifesto 26.2.08
Germania Il gioco delle alleanze dopo le elezioni regionali di domenica
Spd con la Linke? A volte si può
di Rudi Ostler


La direzione della Spd, lacerata sul da farsi con i socialisti della Linke, entrati domenica a Amburgo per la quarta volta di seguito in un parlamento regionale dell'ovest, ha deciso di lasciare la patata bollente alle proprie organizzazioni regionali, dando loro carta bianca. Quanto all'Assia, dove si è votato un mese fa, si dice che, se non si dovesse arrivare a una coalizione rosso-verde-gialla con Grüne e liberali - e non ci si arriverà, perché la Fdp rifiuta di fare da ruota di scorta - «la Spd dell'Assia deciderà se e quando Andrea Ypsilanti si presenterà al Landtag per farsi eleggere ministro-presidente». Traguardo raggiungibile solo con l'appoggio dei socialisti.
Così, anche se non si ha ancora il coraggio di parlare anche a ovest di vere e proprie coalizioni con il nuovo partito nato dalla fusione dei socialdemocratici dissidenti di Oskar Lafontaine con i socialisti dell'est, si dà luce verde a prove di avvicinamento, per ora in forma di appoggio esterno.
Il capogruppo del partito al Bundstag, Peter Struck, dopo aver ricordato che già a Berlino la Spd governa con la Linke, e in passato si sono avute a est altre coalizioni con la Pds, ha riassunto la nuova linea: «All'ovest ogni organizzazione regionale dovrà decidere per proprio conto».
Anche a Amburgo, a stare ai risultati delle regionali del 24 febbraio, ci sarebbero i numeri per una maggioranza a sinistra dell'unione democristiana. Socialdemocratici, verdi e socialisti disporrebbero, se volessero mettersi insieme, di 65 seggi nel parlamento della città-regione, dove per governare ne bastano 61. Ma nella metropoli del nord i socialdemocratici, e anche i verdi, restano fermi nell'escludere ogni intesa con i socialisti. E lasciano così l'iniziativa al borgomastro democristiano Ole von Beust, che ha perso la maggioranza assoluta, ma può scegliere se allearsi con i Grüne, o con i socialdemocratici in una grande coalizione.
Ragionano in tutt'altro modo i socialdemocratici dell'Assia. Con un programma radicalmente sociale e ecologico, un mese fa sono avanzati di quasi otto punti percentuali, mentre la Cdu neoliberista e un po' xenofoba di Robert Koch, finora al governo, ne perdeva dodici. Per eleggere un nuovo ministro-presidente nel parlamento di Wiesbaden occorrono 56 voti (uno più della metà dei 110 seggi). Se ai 42 del gruppo Spd e agli 11 dei verdi si aggiungessero i 6 della Linke, Andrea Ypsilanti ne totalizzerebbe 57. E la candidata della Spd non ha nessuna voglia di buttar via questa occasione: «Gli elettori hanno parlato chiaro, l'Assia vuole cambiare aria», ripete la 50enne Ypsilanti, astro nascente alla sinistra del partito.
Ad Amburgo la Spd si presentava invece con un candidato alla camomilla. Il 66enne Michael Naumann, già ministro alla cultura con Schröder e ora condirettore editoriale del settimanale Zeit in tandem con l'ex cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt, è un signore gentile dalla bella chioma argentea, bravissimo in campagna elettorale a porgere rose rosse alle signore con sorriso accattivante. Preoccupato di non farsi mai accecare dalla polemica, ha fatto a gara in buone maniere anseatiche con il barone Ole von Beust, borgomastro in carica.
La cosa più cattiva da lui detta in campagna elettorale, è che girando per Amburgo lui ha scoperto che ci sono di nuovo file davanti alle cucine per i poveri, e che non è uno spettacolo dignitoso. Strali velenosi li ha riservati solo ai "comunisti" della Linke. A chi gli chiedeva se anche lui fosse tentato dal farsi eleggere con i loro voti, ha risposto: «Nein, nein, nein, e per i candidati della Dkp nelle loro liste (Deutsche Kommunistische Partei) lo ripeto in una lingua che forse capiscono meglio: Njet».
Il 34,1% guadagnato da Naumann non è un risultato entusiasmante. L'aumento di 3,6 punti è meno di quanto si poteva sperare in una città dove nel 2004 la Spd era precipitata al 30,5, con un candidato mediocre, e nel pieno della crisi di consensi scatenata dalle sforbiciate del cancelliere Schröder al welfare. La Spd resta molto al di sotto di quelle che una volta era le sue possibilità. Amburgo è stata per quarant'anni una sua roccaforte, con percentuali anche sopra il 50% tra gli anni '60 e '80. Ancora nel 1991 i socialdemocratici la governavano col 48%.
Naumann, a differenza di Ypsilanti in Assia, non è riuscito a galvanizzare il suo elettorato, a creare l'aspettativa di una svolta. Ha votato solo il 63,4% degli amburghesi. Rispetto alle elezioni precedenti, la partecipazione è scesa di 5,3 punti.
Al primo posto si conferma col 42,6% il borgomastro Ole von Beust, pur subendo una prevedibile flessione di 4,6 punti. Il titolare sapeva di non poter ripetere il quasi plebiscito di quattro anni fa, in delle elezioni provocate da una lite con Ronald Schill, capo di una effimera lista populista che prometteva legge e ordine e tolleranza zero. Schill aveva minacciato di rivelazioni sulla vita privata di von Beust. Il borgomastro lo mise alla porta, spiegando alla stampa che non aveva nessun motivo di nascondere le sue relazioni omosessuali.
Schill scomparve dalla scena politica di Amburgo. Nessuno nella moderna e metropolitana Cdu di Amburgo, molto evangelica e assai poco cattolica, si scandalizzò. Che gli orientamenti sessuali dei politici siano una faccenda che ha da restare privata, è consenso a Amburgo.
Ma la flessione democristiana coincide anche con un trend generale di erosione della destra. I tedeschi, a stare ai sondaggi, sentono come prima urgenza la necessità di ristabilire un minimo di giustizia sociale, dopo anni di stagnazione dei salari e di compensi dei manager alle stelle (nel 2007 sono aumentati in media del 23,3%). L'impressione che i ricchi fanno quel che gli pare è stata rafforzata, üroprio a ridosso delle elezioni dall'ondata di perquisizioni a caccia di evasori che nascondono al fisco i loro tesori portandoli in Liechtenstein.
Fatto sta che ha Amburgo non c'è spazio per una maggioranza «borghese», come comunemente si definisce in Germania una coalizione tra democristiani e liberali. La Fdp, data dalle prime proiezioni al 5%, al termine di una notte di speranze e tremori si è ritrovata al 4,8%, esclusa quindi per un soffio dalla ripartizione dei seggi. Ma anche se ce l'avesse fatta, il suo apporto non sarebbe bastato alla Cdu.
I verdi perdono smalto, scendendo di 2,7 punti al 9,6%. I radical-pacifisti, quelli che si son stancati dell'andazzo realpolitico e dei cincischiamenti neoliberisti di non pochi dirigenti, gli voltano le spalle. E non pochi di loro optano per la Linke.
I socialisti sono contentissimi di aver superato, col 6,4%, lo clausola di sbarramento. E' la prima volta che ci riescono in regioni dell'ovest dopo la fusione col raggruppamento di Lafontaine, l'ex presidente della Spd, che la abbandonò in polemica col neoliberismo di Schröder. Ma al tempo stesso sono un po' delusi, perché i sondaggi li davano al 9% ancora una settimana prima del voto. Se non hanno raggiunto la quota pronosticata, lo si deve alle polemiche seguite alle incaute dichiarazioni di Christel Wegner, iscritta alla Dkp, e eletta in Bassa Sassonia nelle liste della Linke. Aveva detto che la Rdt aveva fatto bene a costruire il Muro, per proteggersi da visite indesiderate di speculatori e provocatori, e che ogni regime socialista avrà bisogno di una polizia segreta come la Stasi, per tenere a bada la reazione. La Linke ha estromesso Wegner dal gruppo parlamentare.

il manifesto 26.2.08
«C'è bisogno anche di voi»
di Franco Giordano


«A cosa servirà - in Parlamento e fuori di esso, nell'immediato e in prospettiva - il soggetto unitario e plurale che state costruendo a sinistra in tutta fretta?». E' questa la domanda centrale che Gabriele Polo ci pone nell'editoriale del manifesto di sabato scorso. Intendo rispondere chiaramente, perché quell'interrogativo coinvolge e inquieta una parte grande del nostro popolo. Polo chiede «risposte non scontate» né limitate all'«elenco dei sacri princìpi». Va bene, è giusto. A patto però di non considerare comunque banali e ovvie quelle risposte. Perché non lo sono affatto. Perché non è banale e ovvia la fase che stiamo attraversando. Siamo di fronte a un'operazione politica di portata e di ambizione gigantesche, iniziata ben prima della campagna elettorale ma che con la campagna elettorale ha subìto una drastica accelerazione.
Senza giri di parole, l'obiettivo è cancellare la sinistra dal quadro politico di questo paese, per rendere marginale il conflitto sociale, rimuovere ogni forma di protagonismo e partecipazione, far scomparire dall'orizzonte ogni idea di alternativa di società.
D'altronde, il quadro che tende a delinearsi dopo le elezioni è proprio quello di un governo di compatibilità confindustriali, per far valere gli interessi forti allorquando si faranno sentire la recessione americana, la crisi finanziaria e quella energetica. Non mi riferisco solo al classico governo di larghe intese, come in Germania, ma anche ad altre e inedite modalità, come peraltro si sta sperimentando in Francia con la commissione Attali. Tutte scelte che peseranno in maniera soverchiante sul lavoro e sulle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione, accentuando precarietà e moderne forme di impoverimento. La possibilità di fronteggiare questa situazione ed evitare che a pagare i costi della crisi siano, come al solito, i più deboli dipende tutta dalla presenza di una forte e radicata sinistra politica. E' evidente che l'esperienza del governo Prodi, per lo scarto enorme tra le aspettative che aveva suscitato e le delusioni seguenti, rende tutto ciò molto più difficile. Non è un caso infatti che il Pd di Veltroni, dopo aver rappresentato con le altre forze centriste la principale resistenza all'attuazione del programma del governo e alle aspirazioni di rinnovamento del paese, eviti oggi qualsiasi serio bilancio di quella esperienza e proponga un programma stavolta, a differenza di quello boicottato in precedenza, del tutto adeguato alle richieste condizionanti di Confindustra e delle gerarchie ecclesiastiche
Se accetto e ritengo fondata la critica rispetto al ritardo con cui abbiamo avviato il processo unitario, nonostante lo sforzo da noi compiuto da tempo per contrastare resistenze e conservatorismi, credo che il tema vero sia quello di convenire unitariamente sulla necessità della costruzione di una sinistra non solo parlamentare ma politica in senso forte. Capace cioè di legare qui ed ora il mutamento concreto delle condizioni materiali individuali e collettive con un progetto complessivo di trasformazione della società. Esattamente il rovescio del modello americano, che tollera esperienza anche di radicalità sociale, incapaci, però, di incidere sulle scelte di fondo e sulla progettualità della politica. Dove è possibile, insomma, aprire solo canali di microcontrattazione parziale i cui esiti sono destinati, con il tempo a rivelarsi effimeri. A volte ho la sensazione che la sirena della contrattazione «all'americana», così come quella del ritrarsi in una dimensione del sociale incontaminata dalla politica, trovino entrambe ascolto anche sulle pagine del manifesto. E invece, pur tra limiti e contraddizioni, la sfida del nuovo soggetto unitario e plurale sta proprio nella capacità di coinvolgere a pieno titolo nella sua costruzione tutte le esperienze della Sinistra, dai movimenti alle esperienze comunitarie di nuovo legame sociale, dalle associazioni ai singoli compagni, dai luoghi della conflittualità sociale a quelli della lotta in difesa dei diritti civili, fino alle esperienze di ricerca politica e culturale che sono fiorite in questi anni al di fuori delle forze politiche organizzate.
Non vedo altra via per tenere aperta la possibilità di trasformazione nel nostro paese e per restituire attualità all'idea di eguaglianza, mettendola in relazione dialettica con le trasformazioni subìte dai processi di produzione e con la valorizzazione della differenze introdotta dal femminismo e dal pensiero della differenza sessuale nei criteri classici del pensiero critico. Non vedo altra via per affrontare la scommessa costituita dalla necessità di coniugare, in forme adeguate ai tempi, l'eguaglianza con la libertà, intesa come liberazione dei soggetti dalle forme di alienazione, dall'eterodeterminazione dei bisogni, dal peso della tecnica e della scienza che colonizza i corpi, i sentimenti, gli affetti: il capitalismo che oggi occupa lo spazio della produzione e della riproduzione.
Se questa è la posta in gioco, care compagne e cari compagni del manifesto, la critica, anche aspra, è non solo benvenuta ma per noi necessaria. A patto però che quella critica e quella necessità di confronto non si traducano solo in una sorta di attesa vigile che esclude il coinvolgimento immediato e diretto nel processo di costruzione del soggetto unitario e plurale della Sinistra.
Il precipitare della crisi politica ci ha posto di fronte a enormi difficoltà ma ci ha anche offerto potenzialità altrettanto grandi. Possiamo, dal basso, cambiare il segno di questa fase politica e tenere aperta una prospettiva che in troppi vorrebbero definitivamente chiusa. Non potete tirarvene fuori.
*Segretario Prc

il manifesto 26.2.08
Il ginecologo Carlo Flamigni, membro del Comitato nazionale di bioetica: «Cambiare la legge 194»
«La moratoria? Sull'obiezione»
di Eleonora Martini


«Una moratoria contro l'obiezione di coscienza dei medici alla legge 194». La normativa vigente sull'aborto non è intoccabile, per il ginecologo bolognese Carlo Flamigni, esponente del Comitato nazionale di bioetica. Anzi, andrebbe senz'altro modificata. Ma solo riguardo l'articolo 9, l'unico ormai obsoleto, attacca Flamigni: «Quando è stata varata la 194 l'obiezione di coscienza aveva un senso, ora non più».
È d'accordo con il documento dell'Ordine dei medici?
Certamente, finalmente un ragionamento basato sul buon senso. La legge 194 ha funzionato discretamente, malgrado gli obiettori di coscienza che hanno creato un problema serio: ha diminuito gli aborti e praticamente eliminato quelli clandestini.
Quindi la 194 non si tocca.
No, invece andrebbe modificata. Eliminando l'obiezione di coscienza.
Si spieghi meglio.
Quando venne scritta la legge 194, l'obiezione di coscienza era necessaria perché nei reparti di ginecologia lavoravano da tempo molti medici cattolici che non erano pronti ad accettare, secondo la loro morale, la pratica degli aborti. Ma oggi quando un medico sceglie, negli ospedali pubblici, i reparti di ginecologia sa che entra in un luogo dove si difende la salute della donna. E lo si fa anche interrompendo le gravidanze quando queste rappresentano un rischio per la salute, nel senso ampio imposto dall'Organizzazione mondiale della sanità. Il problema è che oggi c'è un enorme numero di medici obiettori e in gran parte dei casi la scelta non è dettata dalla convinzione personale ma dalla convenienza o dal pragmatismo. Questo grande numero ha fatto sì che le gravidanze vengano interrotte con un ritardo sempre maggiore e mettendo sempre più in pericolo la salute della donna. Non si può andare avanti così: vanno presi subito dei provvedimenti.
Come? Non si può mica costringere un medico a praticare aborti.
No, ma si può costringerli ad andare a fare un altro mestiere. Io non metterei mai un medico Testimone di Geova a fare trasfusioni, e lui non lo chiederebbe mai. Quindi non vedo perché non si possa pretendere da chi lavora nei reparti di ginecologia di occuparsi della salute della donna a 360 gradi e non solo fino ad un determinato punto. Se poi il medico dovesse cambiare idea solo successivamente, sarà lui stesso a dover chiedere di lasciare l'ospedale per occuparsi di altro, o di essere trasferito in altri reparti. Mi sembra che sia davvero arrivato il momento di chiederlo. Fino ad ora non avevo mai sollevato il problema perché mi sembrava ci fosse una pacificazione apparente che meritava di essere, per il momento, rispettata. Davanti a un'aggressione che è diventata una crociata, non vedo perché ci si debba trattenere ancora. In tempi di crociate ci si difende come si può, e questo mi sembra un modo giusto: mettere in evidenza quello che veramente non funziona della 194. Tutto il resto funziona benissimo e va lasciato com'è.
E per l'obiezione di coscienza usata a sproposito contro la pillola del giorno dopo?
In Italia è riconosciuta l'obiezione solo per il servizio militare, per la vivisezione, per la legge 40 e per la 194. Non certo per gli anticoncezionali. Oltretutto è appena stato pubblicato un bellissimo lavoro degli scienziati del Karolinska Institutet di Stoccolma che dimostra che la "pillola del giorno dopo" non inibisce l'impianto. E ora ci si aspetterebbero le scuse dei cattolici. Quando fu varata la legge 194 chiesi che i medici obiettori di coscienza usassero il tempo non dedicato alle interruzioni di gravidanza, alla prevenzione degli aborti, a andare nelle scuole per fare educazione sessuale e ragionare sui concetti filosofici e sociali della prevenzione. Mi sembra che siano moralmente impegnati a farlo. Per questo io propongo una moratoria sull'obiezione di coscienza.
Un'altra moratoria? Ma che vuol dire?
Non lo so, perché non so cosa vuol dire fare una moratoria. Ma tant'è: si faccia una moratoria.

lunedì 25 febbraio 2008

Repubblica 25.2.08
I diritti dimenticati
di Stefano Rodotà


Negli ultimi giorni l´agenda elettorale è cambiata. Sembrava che i temi riguardanti i diritti civili, le questioni «eticamente sensibili» dovessero rimanerne fuori, per una tacita intesa tra i grandi contendenti, timorosi di discussioni difficili che potevano rendere più polemici i confronti, e così provocare divisioni all´interno di Pd e Pdl. Le cose sono andate diversamente.

Perché qualche irriducibile non si rassegnava a questa rimozione e, soprattutto, perché una cronaca impietosa mostrava una realtà insensibile agli ammiccamenti tra i partiti, com´è avvenuto a Napoli quando una donna che aveva appena interrotto una difficile gravidanza si è trovata nelle mani della polizia. Da qui una fiammata di consapevolezza, con le donne che si riprendono la piazza e la parola; con categorie professionali abitualmente assai prudenti, come quella dei medici, che assumono posizioni nette; con l´arrivo nel Pd delle candidature «scandalose» dei radicali e di Umberto Veronesi.
Qualcuno dirà, ancora una volta, che le elezioni si vincono dando risposte precise ai bisogni materiali, che oggi sono quelli dell´economia, del fisco, del lavoro, della crescita dei prezzi, della sicurezza. In tempi tanto difficili, i diritti civili vecchi e nuovi appartengono ad un «secondo tempo» della politica, sono un lusso che ci si può permettere solo dopo aver risolto le questioni davvero urgenti. «Prima la pancia, poi vien la morale» – canta alla fine del secondo atto dell´Opera da tre soldi di Bertolt Brecht «il re dei mendicanti», Mackie Messer. Ma può la politica vivere senza ideali, senza gettare il suo sguardo al di là delle contingenze, non per sfuggire ad esse, ma per coglierne il significato più profondo? «L´uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio». Anche il non credente coglie in questo passo del Vangelo di Matteo un insegnamento che non può essere trascurato, e che consiste appunto nella necessità di trarre ispirazione da qualcosa che non consista solo nell´amministrazione del quotidiano.
Ma – si può ancora obiettare – tutti i sondaggi ci mostrano che temi come il testamento biologico o le unioni di fatto raccolgono un consenso modesto.
Ora, a parte la considerazione che i risultati dei sondaggi sono fortemente influenzati dal momento in cui sono effettuati e dal modo in cui sono strutturate le domande, l´esistenza di un gruppo di elettori sia pur limitato, ma che farà le sue scelte proprio in base al modo in cui i partiti si pronunceranno su quelle questioni, deve far riflettere quanti sottolineano che il risultato elettorale dipenderà probabilmente dall´orientamento di fasce ristrette dell´elettorato. E, se si vuole rimanere nella dimensione dei sondaggi, vale la pena di ricordare che, quand´era ministro della Salute, Umberto Veronesi aveva un gradimento altissimo, superiore a quello degli altri suoi colleghi di Governo.
Nasce forse da qui il risentimento di alcuni ambienti per le candidature dei radicali e di Veronesi, per il comunicato sui temi della nascita della Federazioni dei medici. Si chiede chiarezza, ma in realtà si è disturbati proprio dal fatto che quelle candidature sono chiarissime, comprensibili per i cittadini senza distorsioni tattiche. Disturbano perché rifiutano il monopolio dell´etica da parte di chicchessia, perché manifestano convinzioni forti, ma in nome del dialogo e del confronto, non della pretesa di schiacciare gli altri sotto il peso di «valori non negoziabili». E´ buona cosa per la democrazia quando tutte le opinioni possono stare in campo con eguale forza e dignità.
Alle considerazioni contenute nel comunicato della Federazione di medici dovrebbero essere riservati lo stesso rispetto e attenzione che ambienti e giornali cattolici dedicarono, qualche settimana fa, a quel che disse un gruppo di primari medici romani sulla necessità di rianimare i feti nei casi di aborti tardivi. Si è sostenuto, da parte dell´«Avvenire», che quel testo non corrisponde al documento effettivamente votato. Chiarimenti a parte su questo aspetto, è bene ricordare che lo stesso giornale riconosce che nella Federazione sono ufficialmente emerse posizioni critiche sulla legge sulla procreazione assistite e di pieno sostegno alla legge sull´aborto ed alla pillola del giorno dopo. Come si diede piena legittimità alla privata presa di posizione dei primari romani, allo stesso modo si deve riconoscere rilevanza ad una posizione espressa nell´ambito della massima organizzazione dei medici, se non altro perché smentisce la tesi tante volte avanzata di un massiccio rifiuto dei medici delle nuove tecniche che la scienza mette a disposizione delle donne.
Arricchita l´agenda elettorale con gli ineludibili temi che riguardano la vita delle persone e i loro diritti, si tratta ora di vedere come questa novità sarà gestita politicamente. La salute si presenta giustamente come un tema centrale, che sollecita l´autocandidatura di Giuliano Ferrara ad occupare quel ministero e fa nascere il timore che, invece, il ministro possa essere proprio Umberto Veronesi. Al futuro ministro, quale che sia, conviene ricordare che, proprio in materia di salute, l´articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E´, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato. Il governo del corpo e della vita appartiene all´autonomia della persona. Un principio non ispirato da una deriva individualistica, ma memore dell´orribile sperimentazione dei medici nazisti, processati proprio mentre si scriveva la nostra Costituzione. E da quella esperienza nacque il Codice di Norimberga, che subordina ogni intervento sul corpo al consenso dell´interessato.
Tornando al presente, si deve sperare che non si avvii una spirale «compensativa», un bilanciamento affidato a candidature cattoliche. Se così fosse, il Pd diverrebbe prigioniero di una schizofrenia paralizzante, la stessa che nella passata legislatura ha impedito ai disegni di legge sul testamento biologico e sulle unioni di fatto di arrivare in aula. E, poiché è tempo di programmi e di promesse e Veltroni ha parlato della immediata presentazione in Parlamento di una serie di proposte se vincerà il suo partito, si può chiedere un altro impegno. Qualora il Pd non raggiunga la maggioranza, presenti lo stesso le sue proposte e usi gli spazi e i tempi riservati alle opposizioni dai regolamenti parlamentari per chiederne la discussione e sollecitarne il voto.
Certo, in questo modo si corre il rischio della bocciatura. Ma sarebbe peggiore il silenzio, e il rifiuto di chiedere il consenso sociale, di promuovere in concreto la cultura dei diritti. Vi sono comportamenti «impolitici» che sono il miglior antidoto all´antipolitica.

Repubblica 25.2.08
Amburgo, sale la sinistra radicale dalle urne nuovo colpo alla Merkel
E ora la "Linke" fa tremare anche il governo federale

di Andrea Tarquini


Lafontaine, Gysi e Bisky hanno non hanno però avuto il trionfo previsto dai sondaggi

BERLINO - Svolta a sinistra col successo della Linke, arretramento del partito della cancelliera Angela Merkel, scossa alla governabilità garantita per l´insieme del tanto lodato sistema tedesco. Ecco a caldo i primi risultati delle elezioni regionali ad Amburgo, uno dei più ricchi tra i sedici Stati della Germania.
Per la Berlino della Grande coalizione, è un nuovo choc, per la sinistra radicale è il quarto successo di fila in uno Stato (Bundesland) della vecchia Germania ovest dopo quelli a Brema, in Assia e in Bassa Sassonia. Da oggi, tutto sarà più difficile per l´esecutivo della prima potenza europea: governare l´intero paese, e gestire rapporti sempre più tesi tra Merkel e la Spd.
I risultati provvisori, resi noti in base agli exit poll di solito molto precisi comunicati pochi secondi prima dopo la chiusura dei seggi alle 18 locali e italiane, sono chiari. La Cdu del popolarissimo borgomastro-governatore Ole von Beust cala dal 47,2 per cento al 42,5 e perde così la maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento della città-Stato. Dovrà quindi cercare per forza accordi di governo con la Spd dello sfidante Michael Naumann - ex consigliere dell´ex cancelliere Schroeder, ex grande firma e alto dirigente del prestigioso settimanale Die Zeit - che sale nei consensi dal 30,5 al 34 per cento. E con i Verdi, che ad Amburgo si chiamano "Lista verde e alternativa" (Gal), e che scendono dal 12,3 per cento al 9-9,5 per cento, ma diventano comunque indispensabili.
I vincitori politici delle elezioni di ieri sono comunque i leader della Linke. Oskar Lafontaine, l´ex rivale di Schroeder nella Spd divenuto ora capo carismatico della sinistra radicale, Gregor Gysi che rappresenta l´anima riformista, pragmatica, moderata degli eredi del partito al potere nella disciolta Ddr, e il leader anziano Lothar Bisky. Avanzano meno del previsto, si attestano tra il 6 e il 7 per cento dei voti. I sondaggi assegnavano loro ben di più. «Amburgo ha espresso un voto borghese a destra come a sinistra», scriverà nell´editoriale di oggi l´informato direttore di Die Welt, Thomas Schmid. Un voto cioè contro le aperture alle componenti radicali della sinistra, teorizzate ambiguamente dal numero uno della Spd Kurt Beck. Ma anche un voto che con i liberali (Fdp) appena attorno alla soglia del 5 per cento, nega al borgomastro-governatore von Beust la disponibilità dell´alleato preferito.
Amburgo ha fornito col voto di ieri un possibile profilo della Germania intera di domani: la disparità tra robusta crescita economica e crescenti disuguaglianze sociali, e la rabbia diffusa per lo scandalo dei super-evasori fiscali, rafforzano la voglia di giustizia sociale e quindi i consensi alla Linke. Per la Spd il problema è serio: Beck aveva ipotizzato libertà d´azione per il suo partito in Assia, quando in aprile il Parlamento dello Stato eleggerà il nuovo governo. La signora Andrea Ypsilanti, capo spd in Assia, secondo Beck potrebbe diventare governatore con i voti o l´appoggio esterno della Linke. Ma sdoganare all´ovest e quindi a livello nazionale la sinistra radicale, compromessa in parte nella memoria con la Ddr, è un passo che tre quarti dei socialdemocratici non si sentono di compiere. Conflitto drammatico: all´est, con il 30 per cento nei sondaggi, la Linke è ormai stabilmente primo partito, più forte anche della Cdu della "cancelliera venuta da oriente".

Repubblica 25.2.08
La laicità della polis
Quando la legge non era di Dio
Intervista allo storico Christian Meier


Nella cultura greca le regole erano vincolanti non perché dotate di un fondamento divino ma perché decise dai cittadini
Solone, fondatore della democrazia, incarnava l´autonomia dal sacro. E oggi? Se ne discute a Berlino all´Accademia delle Scienze
Esiste un´eredità ateniese in Europa? Ora il meccanismo democratico appare ostacolato dalla mancanza nelle scelte di una reale condivisione

BERLINO. Nel 650 a. C. i cittadini di Dreros decisero che nessuno potesse ricoprire la carica più alta di quella città cretese per due volte in dieci anni; e istituirono un consiglio per punire eventuali trasgressioni. È il più antico documento costituzionale europeo arrivato fino a noi. Si concludeva solennemente con la frase: «Questo ha deciso la Polis». Documenti dello stesso genere ce n´erano moltissimi nell´antica Grecia, che ora in buona parte sono andati perduti. Regolavano l´esercizio del potere, distinguevano il sacro dal profano, il privato dal pubblico. La Polis proclamava orgogliosamente la propria autonomia. «Di insegnare questo agli Ateniesi mi ha dettato il cuore», scrisse Solone dopo aver elaborato il corpo di leggi che lo ha fatto passare alla storia come il fondatore della democrazia. Nel 594 a. C. gli ateniesi gli avevano conferito speciali poteri per riportare l´ordine in una città in cui erano in aumento i conflitti sociali, e dove cittadini liberi finivano sempre più spesso schiavi per non aver potuto ripagare i propri debiti. Solone fu il primo legislatore nell´antichità a vietare che un uomo libero potesse essere dato in garanzia di un prestito.
«I Greci non hanno mai sentito il bisogno di dare alle loro leggi una legittimazione divina. Non hanno un re babilonese come Hammurapi che chiede al dio Marduk di dargli le leggi, come si vede nella statua che sta al Louvre; non un Mosé che scrive i comandamenti di Jahvè, né un Maometto sul quale "scende" il Corano. In Grecia sono i cittadini che decidono le leggi. Nessun oracolo le ha ispirate, nessun fondatore mitico le ha ordinate», dice lo storico tedesco Christian Meier. «Per questo l´Europa non ha la tradizione di un clero di giurisperiti. Diversamente da tutto ciò con cui veniva in contatto in Oriente, la cultura greca si distinse perché era dominata non dall´idea del potere ma da quella della libertà. Non c´è mai stata nella Grecia antica una monarchia né un clero forte e nemmeno una aristocrazia disciplinata come a Roma. Le leggi erano vincolanti perché se le erano date i cittadini. Siamo di fronte a un fondamento dell´Europa antica. Né i Greci né i Romani hanno mai fondato il loro ordine su una lex divina. Anche il diritto romano è essenzialmente diritto ancorato nella società, adattabile a nuove situazioni, capace di fornire al Senato e più tardi all´imperatore i princìpi sulla cui base emanare nuove disposizioni».
Il tema è di grande attualità. Duemilaseicento anni dopo Solone, l´umanità sembra di nuovo incerta se rivendicare la propria autonomia o chiedere a Dio di dettare la legge. Meier ne ha appena discusso all´Accademia delle Scienze di Berlino con l´egittologo e storico delle religioni Jan Assam, che invece critica la tesi di una "singolarità" greca e sostiene che anche gli europei sono figli dell´Oriente. «Certamente tra i Greci esisteva una consapevolezza che in un tempo antico gli dei avessero dato delle regole, che alcune cose si potessero fare ed altre no; che esistesse un nomos, un diritto che andava individuato, compreso. Ma per comprenderlo non servivano sacerdoti o oracoli. Il compito era affidato a persone indipendenti, che godevano di grande prestigio nella città e non dovevano possedere né potere né ricchezze», dice Meier.
In mancanza di un monarca che decida, i cittadini della Polis devono trovare modi sofisticati per risolvere i problemi. Come riescono a trovare un equilibrio degli interessi?
«La libertà dei Greci consisteva soprattutto nella partecipazione alle decisioni, nella responsabilità per la comunità. C´erano enormi conflitti, riconciliazioni, discussioni, fu una straordinaria sperimentazione politica. Certamente presero dall´Oriente per quanto riguarda la scienza e la filosofia. Ma altri aspetti nascono in Grecia e concorrono specificamente alla formazione della democrazia: la poesia, più tardi la tragedia e la storiografia. Quando col tempo i problemi nella Polis aumentano, e sono necessarie sempre più leggi, i cambiamenti della legge portano con sé la sensazione dell´arbitrio. La tragedia tematizza questo passaggio, lo rappresenta davanti a tutto il popolo. Che cosa è giusto? Che cosa succede agli uomini? Che cos´è il male? Tutto si svolge sotto gli occhi dell´opinione pubblica. Le città greche sono così vicine che quando in una vengono decise leggi arbitrarie le altre gridano allo scandalo».
Le leggi cambiano troppo spesso.
«Un comico, di nome Platone come il filosofo, lamenta che, chi se ne va via per tre mesi, al ritorno non trova una legge uguale. Esagera, ma è così che il diritto finisce per separarsi tra norme e natura. Nasce la filosofia sofistica, che si chiede da dove le leggi traggano il loro potere vincolante. E alla sofistica risponderanno poi Socrate e Platone. Il tutto è una costruzione politica le cui conseguenze arrivano fino a noi, e che pone domande ancora oggi fondanti».
Boeckenfoerde, che in Italia è stato scoperto con più di un decennio di ritardo rispetto alla Germania, sostiene che «lo Stato liberale secolarizzato non garantisce le premesse delle quali vive». È d´accordo?
«Un ordinamento politico che riconosce la libertà di confessione come diritto di libertà individuale e collettivo non si pone più nei confronti della religione come verso un proprio necessario fondamento. Persegue obbiettivi terreni, quelli religiosi restano al di fuori delle sue competenze. Boeckenfoerde dice una cosa giusta: che la separazione della religione dall´agire attivo dello Stato ha una doppia valenza. Da una parte significa la fine del collegamento istituzionale tra Stato e Chiesa; dall´altra la religione viene lasciata libera di operare attivamente sul terreno della libertà individuale e sociale, e perciò cercherà, secondo la forza e l´impegno dei suoi sostenitori, di conquistare sempre maggiore significato politico, e non rinuncerà ad un potenziale carattere pubblico».
Si assiste nel mondo a una rinascita della religione che fino a pochi decenni fa sembrava aver esaurito il suo ruolo politico. Questo fermento, che è cominciato alla fine degli anni Settanta nel mondo islamico, si è propagato anche il mondo cristiano?
«Io non sarei così sicuro che ci sia una rinascita della religione. Almeno non la vedo in Germania, che però è una paese biconfessionale dove nessuna delle due confessioni potrebbe rivendicare un ruolo di guida. Vedo che il mio parroco, a Monaco, non ha altre funzioni che quelle di un operatore sociale».
È corretto parlare di eredità greca in Europa? Sicuramente nelle arti, nella filosofia, ma nella politica?
«La Polis era una unità politica, e necessariamente era piccola. Nell´età moderna non può esserci la stessa pregnanza del politico perché abbiamo lo Stato monarchico. Da una parte il monarca e il suo apparato, dall´altra il popolo. Lo Stato non è però privo di concorrenza: le città, le chiese, le università. Per mantenersi, ha dovuto incorporare elementi di democrazia, dare una certa libertà. Ai nostri giorni poi le cose stanno in modo diverso, anche perché non si può più parlare di partecipazione dei cittadini alla politica. Questa partecipazione era collegata, fino a una trentina d´anni fa, a una filosofia del progresso, condivisa prima dalla borghesia liberale e poi dal proletariato con la socialdemocrazia e il comunismo. Oggi le trasformazioni sono molto più rapide e riguardano élite specializzate che non portano con sé nessuna promessa di una società nuova. La filosofia del progresso raggruppava i cittadini in destra e sinistra. La linea di separazione oggi è tra basso e alto, nel senso che sopra stanno i politici che fanno quello che vogliono e distribuiscono qualche elargizione. Ma tutto questo ha a che vedere con la democrazia solo esteriormente».
La straordinaria storia dell´antichità ci deve comunque rendere ottimisti, conclude Meier, perché ricorda al nostro mondo presente, stanco e ingrigito, che la Storia può riservarci delle grosse sorprese.

Repubblica 25.2.08
Uno studio attribuisce al genio toscano i manoscritti
Risolto il giallo dei disegni: gli scacchi sono di Leonardo
di Michele Smargiassi


Dopo anni di studi e confronti, ora l´attribuzione di quei pezzi sul manoscritto sembra sicura I sei pezzi, aerodinamici e leggeri, per la Fondazione Coronini sono opera del genio
L´artista era di certo un giocatore, anche se non un fenomeno
La storia comincia un anno fa quando il set riaffiora in un trattato rinascimentale

Sei pezzi degli scacchi. Del nostro più grande genio, designer d´eccezione: Leonardo. Un anno fa fecero rimanere di stucco gli scacchisti che li videro dipinti sulle pagine del De Ludo Schacorum overo Schifanoia, trattato rinascimentale sul gioco più famoso del mondo, riaffiorato per caso, dopo mezzo millennio, tra gli scaffali di una biblioteca aristocratica di Gorizia. Ad attribuirli a Leonardo è Franco Rocco che ha fatto la perizia.

Sei pezzi di genio. Del nostro più grande genio. Leggeri come ombrellini, esili come alberi sullo sfondo di un dipinto rinascimentale. Re, regina, torre, cavallo, alfiere e perfino l´umile pedone, eleganti, aerodinamici, marziani, mai visti su un tavolo da gioco. Un anno fa fecero rimanere di stucco gli scacchisti che trepidanti d´emozione li videro dipinti sulle pagine del De Ludo Schacorum overo Schifanoia, trattato rinascimentale sul gioco più famoso del mondo, che si credeva perduto e che invece era riaffiorato per caso, dopo mezzo millennio, tra gli scaffali di una biblioteca aristocratica di Gorizia. Quei disegni tradivano un´idea sicura d´artista. Non potevano essere usciti dalla mano dell´autore, frate Luca Bartolomeo Pacioli da Borgo San Sepolcro, matematico rinascimentale, intelligenza sopraffina, ma quanto a doti artistiche, a parere dei contemporanei, ahimé assai poco dotato.
Chi è allora il designer strepitoso e misterioso a cui si deve uno dei più armoniosi set di scacchi della storia? «Leonardo da Vinci»: non c´è punto interrogativo nelle conclusioni di Franco Rocco, settantenne architetto e scultore milanese. Dopo un anno di confronti stilistici, riscontri cronologici, ricerca di fonti e comparazioni d´immagini, la sua perizia per la Fondazione Coronini Cronberg di Gorizia, proprietaria del manoscritto, è decisa.
Attribuire a Leonardo ogni mistero irrisolto, dalla creazione della Sindone alle trame misteriosofiche di Dan Brown, è moda corrente e forse conveniente. Ma l´architetto Rocco è disposto a fronteggiare le prevedibili contestazioni, e così pure la Fondazione. La scoperta sarà sottoposta al vaglio accademico: «Abbiamo invitato Carlo Pedretti, il maggior esperto vivente di Leonardo, a darci un parere: s´è detto interessato», riferisce senza sbilanciarsi la direttrice Serenella Ferrari Benedetti, «ma le prove che già abbiamo sono convincenti». La Coronini è una onlus che dal ‘90 amministra l´eredità della nobile famiglia omonima: villa, giardino botanico, galleria d´arte, archivio e la biblioteca dove, alla fine del 2006, quasi per caso, il bibliofilo Duilio Contin riconobbe nell´anonimo manoscritto la bibbia perduta della scacchistica rinascimentale. Ora si pensa a un convegno, per giugno, con torneo scacchistico, da giocarsi ovviamente con «gli scacchi di Leonardo».
Ma lo sono davvero? La prova schiacciante non c´è. È una paternità attribuita. «Ma se eliminiamo le opere attribuite, cosa resta nei musei?», non deflette Rocco. Attribuzione indiziaria. «Si ma guardi che indizi». La Fondazione si era rivolta a lui perché autore di una serie di scacchi firmati molto famosi nell´ambiente. Gli chiesero di ricavare un set di pezzi dai disegnini curiosi che affollano le minute pagine del libretto. Lui è andato fino in fondo. Partendo da un fatto accertato: Pacioli e Leonardo erano amici. Di più: collaboratori. Verso il 1497, mentre entrambi soggiornavano a Milano alla corte di Ludovico il Moro, il frate matematico e il genio poliedrico realizzarono assieme, il primo il testo il secondo le incisioni, un´opera celebre, il De Divina Proportione. Due anni dopo, conquistata Milano dai francesi, eccoli rifugiarsi, sempre assieme, a Mantova, dai Gonzaga, sotto le protettive gonne di Isabella d´Este. Grande appassionata di scacchi, la marchesa, modesta giocatrice però ricchissima, quindi in grado di scritturare i migliori giocatori dell´epoca e mobilitare i teorici come Pacioli, al quale chiese di dedicarle un trattatello. Pacioli di scacchi se ne intendeva. Il suo De Ludo in realtà non è un manuale, ma, oggi si direbbe, una raccolta di "problemi": finali di partita da risolvere con lo scacco matto in un certo numero di mosse. Ogni problema, uno schemino. Centoquaranta scacchiere, oltre millequattrocento pezzi, rossi e neri. Da secoli le figure dei problemi erano indicate con semplici lettere dell´alfabeto. Quelli invece erano profili di pezzi veri. E mai visti prima. Stranissimi. Elegantissimi. Da dove venivano mai? Qui cominciano le deduzioni. Leonardo era un giocatore di scacchi. Neanche lui pare fosse un fenomeno, però di sicuro conosceva le regole, sennò non avrebbe pensato come soluzione di un suo rebus (nel foglio 12692 di Windsor) l´espressione "io arrocco", mossa centrale del gioco. «Poteva il Pacioli, inabile al disegno, non chiedere un aiuto all´amico, collaboratore, artista e scacchista con cui ogni giorno passava lunghe ore di probabile noia di corte?». Naturalmente non poteva pretendere che Leonardo tracciasse personalmente le centinaia di figurine necessarie. Forse qualcuna sì, «in effetti alcune sembrano di mano più esperta», ma solo come modello per l´amanuense incaricato del lavoro.
«E Leonardo quell´aiuto lo diede da par suo». Rocco ha misurato una per una le figurine, depurando dalle imprecisioni manuali una sorta di tipo standard per ciascuna delle sei figure. Poi cominciato a misurarli. Ovunque ha trovato la proporzione aurea, passione e religione di Leonardo: nel rapporto fra i dischi e le aste, fra la "testa" del pedone e il suo "corpo", tra l´altezza e la base. Poi ha sfogliato le anastatiche dei manoscritti leonardeschi, e ha trovato alcune possibili forme ispiratrici: per esempio le "fontane di Erone" dai fogli 293r-b e 212r del Codice Atlantico, molto simili al profilo della regina. Più in generale «si nota la suggestione dei grotteschi romani appena scoperti nella Domus Aurea, che Leonardo probabilmente conosceva».
Pezzi troppo "pensati" insomma, per essere improvvisati. «Probabilmente Leonardo ne possedeva una serie vera e propria, forse fabbricata per uso personale. Pacioli può averli usati per mostrare ai disegnatori gli schemi da trascrivere». Obiezione: quei pezzi così fini e delicati, i rozzi torni quattrocenteschi non avrebbero potuto lavorarli senza spaccare il legno. Contro-obiezione: «Leonardo poteva averli fabbricati con quella mistura plasmabile che descrive in un foglio del 1510», un amalgama di argilla cera e ingredienti misteriosi con cui, scrive il genio di Vinci, si possono fare «manichi di coltelli, portapenne, « e appunto «scacchieri». Ancora un indizio. Tutti insieme fanno una prova?
Forse la prova logica più convincente sta nel carattere del genio di Vinci: troppo eclettico e vanitoso per sottrarsi alla tentazione di misurarsi anche con il design ludico, avendone l´occasione. Del resto, non c´è stato artista appassionato di scacchi che non abbia tentato almeno una volta di disegnare la propria "armata" ideale. Lo hanno fatto Man Ray, Duchamp, Dalì, recentemente Baj e Cattelan. È anche vero che nessuno di quegli estroversi battaglioncini di pedine ha avuto altra fortuna che quella collezionistica. Dall´Ottocento sulle scacchiere di tutto il mondo si gioca di preferenza (e di rigore nei tornei ufficiali) con gli scacchi Staunton, semplici, severi, facilmente identificabili, resistenti a ogni perfezionamento (il campione Kasparov era sicuro di avere disegnato «gli scacchi migliori della storia», ma non riuscì a farli adottare). «Gli scacchisti amano gli scacchi d´autore, ma quando giocano devono concentrarsi sulla strategia, senza distrazioni»: così Aldolivio Capece, direttore della centenaria rivista L´Italia Scacchistica, spiega il conservatorismo estetico della categoria. Anche lui però, quando curò la (costosissima) ristampa anastatica del De Ludo, rimase affascinato da quei pezzi leggeri come sogni. «I pezzi in uso all´epoca erano tozzi e squadrati, oppure erano lavori di gioielleria solo da sfoggiare». Ma lei ci giocherebbe, maestro Capece, con questi scacchi, chiunque ne sia l´autore? Esita: «Con gli amici, sì. In torneo, no. Gli scacchi di oggi sono sport, gara contro il tempo, tensione. Questi pezzi sembrano fatti per un´altra idea di scacchi: un gioco sereno, senza fretta, senza agonismo». Scacchi cortigiani, scacchi della leggerezza, della lentezza: slow-chess. Peccato per quei cinque secoli perduti nella polvere di una biblioteca. Forse gli scacchi di Leonardo erano fatti per un´altra epoca: ma l´hanno saltata a piè pari.

Corriere della Sera 25.2.08
La mappa della depressione
In 15 milioni con i sintomi, allarme anziani Le donne in cura sono il doppio degli uomini
di Mario Pappagallo


La maggioranza delle persone che accusa i sintomi della depressione non va dal medico Tra chi usa farmaci, un terzo non usa gli antidepressivi

L'Italia s'è... depressa. Povertà in aumento, giovani senza lavoro, sempre più vecchi pensionati e soli. Crisi demografica, la paura di truffe, rapine e scippi. Le varie caste contro cui sembra impossibile confrontarsi. La fotografia dell'Istat sembra influire anche su quella della salute psichica degli italiani. E così tra diagnosticati e non, tra chi è a rischio e chi non vuole accorgersene, oggi sono ben 15 milioni i depressi d'Italia. Poco più di 10 milioni nel 2000. Più nelle donne che negli uomini: incidenza all'incirca doppia. Non tutti depressi gravi, per fortuna: si va dalla malinconia all'ansia, dai bipolari agli effetti collaterali di droghe varie. E gravi possono sempre diventare perché (questo è il vero allarme) le diagnosi spesso o sono sbagliate o arrivano con un ritardo medio di un anno. L'Italia, però, non è sola. Si può parlare di epidemia mondiale: prevalenza dall'8 al 10 per cento, secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) che indica nella depressione la prima causa in assoluto di disabilità nel 2020. Ma già oggi prima per la fascia d'età 15-44 anni. Gli specialisti sono costretti ad aggiornare la «bibbia» mondiale dei disturbi psichici, il Dsm. Alla quinta stesura collabora anche l'italiano Mario Maj, 54 anni, presidente della Società mondiale di Psichiatria.
Ma sono le storie dei pazienti a dare uno spaccato del problema emergente. Luca, 26 anni, si è appena laureato in Giurisprudenza. 110 e lode. Silenzio, seduto sul bordo del letto, nella sua camera (vive in famiglia, con i genitori), tapparelle semichiuse. Silenzio. E' così da giorni. Luca è un «bamboccione» (a dirla alla Padoa-Schioppa) senza prospettive. Depresso senza diagnosi, o sulla via per esserlo. Laureato brillantemente, ma «fuso» perché non vede il futuro. Il suo presente è un call center da 900 euro al mese. E due genitori che sono in ansia per lui. La madre lo guarda, lo coccola. Il padre, docente delle medie superiori, prossimo alla pensione, è un iper. Irrompe nella sua stanza, apre le finestre, lo sgrida e lo «deprime» ulteriormente con la classica frase: «Ma esci, sei giovane.
Io alla tua età ero in giro con gli amici... Con le ragazze». Tutte coltellate per la mente di Luca, ma forse non le ascolta più nemmeno. Eppure ci vorrà ancora del tempo prima che qualcuno pensi di farlo visitare da uno specialista.
Lo psichiatra. Lo «strizzacervelli». I luoghi comuni si sprecano: «Chi va dallo psichiatra è matto, ha qualche rotella fuori posto... Poi la gente che dice?». Le sedute di psicanalisi? La psicoterapia? Uno stigma. «Poi se si viene a sapere... ».
E poi, «troppo costose: una a settimana, 150-200 euro l'una... Non ce la facciamo». Forse meglio le pillole, le passa il servizio sanitario. E nessuno sa niente. In fin dei conti una pillola vale l'altra... Storia vera, in una città del Sud. Di quello che passa nella testa di Luca, se non per l'immagine del brillante laureato offuscata dalla paura dello stigma, pochi si interessano. E' come il bicchiere riempito a metà: mezzo vuoto o mezzo pieno. E' questo il momento per riempirlo del tutto. Ma la diagnosi, e non solo in Italia, spesso ritarda. E così la cura. Luca è demoralizzato, forse depresso. Forse peggio. Tante le sfumature: dall'uso generico della parola depressione per momentanei stati d'animo negativi o di stress alla malattia vera e propria. Psicofisica.
Colpiti, con diagnosi, sei milioni nel nostro Paese. Ma altri nove milioni sono come Luca. In tutto, il 25% degli italiani: uno su quattro. Soprattutto donne, casalinghe in particolare. Ma i giovani non ridono (mancanza di prospettive) e nemmeno pensionati e famiglie, sempre più numerose, «povere». Tutti senza un domani. Quelli come Luca soffrono in silenzio, non si curano e difficilmente accettano la malattia. Predisposti alla disabilità. Il napoletano Maj conferma: «La depressione è la malattia non fatale che comporta la maggiore disabilità ». Se non fonte di guai peggiori: Giovanni, 15 anni, suicida per una brutta pagella (nessuno immaginava!); Maria, 30 anni, ha tentato di uccidere il figlio di pochi mesi (depressione post partum mai diagnosticata); Antonio, 45 anni, clochard dopo aver perso lavoro, moglie e figli. Storie. Tante, mai scritte nemmeno nelle cartelle cliniche. Di malati non curati o predisposti alla malattia. A volte (raramente) ne escono da soli. A volte con l'aiuto di famiglia o amici. Per lo più, il finale è un intervento d'urto: farmaci e psicoterapia insieme.
Spiega Maj: «Il punto essenziale è che la depressione (intesa nel senso clinico del termine) va distinta dalla naturale demoralizzazione (o tristezza normale), esperienza a cui va incontro praticamente il 100% degli esseri umani a seguito di eventi di perdita, separazione o insuccesso. La distinzione si basa sul quadro clinico, su intensità e durata, sul grado di compromissione dei rapporti sociali e lavorativi. Distinzione che può essere difficile nel soggetto molto giovane, nell'anziano e nella persona con patologie fisiche concomitanti ». Dal diabete alla pressione alta, dall'obesità all'impotenza, dai disturbi nei rapporti con il cibo ai deficit immunitari. Ai tumori. Ecco il punto: diagnosi precoce, precisa e cure giuste. A volte si danno farmaci a chi non ne deve prendere, a volte non si danno. Tra le cause anche la diffidenza degli italiani a rivolgersi ai servizi sanitari: i maschi anziani i più ostici. Tra le persone che hanno sofferto di qualunque forma di depressione, solo il 20,7% si è rivolto al servizio sanitario (pubblico o privato). Di questi, il 40,8% ha ricevuto solo farmaci. Inoltre, la percentuale delle persone senza diagnosi che, nel corso dell'ultimo anno, ha utilizzato almeno uno psicofarmaco è stata del 12,9%. E di questi solo il 2,1% ha preso un antidepressivo. Quindi? Risponde Maj: «La grande maggioranza delle persone depresse non va dal medico. Tra quelle che ci vanno, una su sette non riceve trattamenti. E tra chi prende farmaci, quasi un terzo non prende antidepressivi».

Corriere della Sera 25.2.08
L'indagine Dal disagio privato a quello dei rapporti sul lavoro
La malinconia? Arriva con la primavera
L'influenza del clima e dell'ambiente urbano sui disturbi psicologici
di M. Pap.

MILANO — La spazzatura per le strade può favorire la depressione? «Sembra di sì. Senz'altro demoralizza». Mario Maj è napoletano e di spazzatura di questi tempi ne ha fin sopra i capelli. La verità è che l'ambiente incide sul rischio depressione. «L'incidenza sembra maggiore nelle aree urbane rispetto a quelle rurali. Esiste un unico studio americano, di dieci anni fa, il quale ha riportato che la presenza di gravi problemi relativi all'ambiente di vita urbano (criminalità, traffico, rumore, immondizia, illuminazione notturna, trasporto pubblico) era associata ad un aumentato rischio di depressione». In Italia poi abitare a Sud e nelle Isole, nonostante mare e sole, sembra influenzare negativamente lo stato dell'umore.
La depressione è favorita da molte cause. Vi sono fattori di rischio e fattori protettivi. Spiega Maj: «Tra i fattori di vulnerabilità psicologici, il più approfondito è lo stile cognitivo caratterizzato dalla tendenza a vedere negativamente sé stesso, il mondo e il futuro. La persona tende a concentrare l'attenzione sugli aspetti negativi di ogni evento, è fortemente portata all'autocritica, vive gli eventi sfavorevoli come potenzialmente catastrofici. Tra i fattori di vulnerabilità psicosociali, i meglio studiati sono gli eventi precoci di perdita o separazione, riguardanti soprattutto una figura genitoriale, e gli episodi di abuso fisico o sessuale nell'infanzia o nell'adolescenza. Tra i fattori scatenanti (precipitanti) un quadro depressivo, i più studiati sono gli eventi di perdita, di separazione e di insuccesso: quegli eventi cioè che nella persona non vulnerabile producono semplicemente il quadro della demoralizzazione (o tristezza normale)».
E quanto interagisce l'ambiente di lavoro? «Recenti indagini suggeriscono che alcune variabili legate all'ambiente di lavoro hanno un impatto sul rischio di ammalare di depressione. Queste variabili comprendono: la decision latitude (cioè, la misura in cui una persona è libera di decidere i tempi e i modi della propria attività lavorativa), la job security (cioè, la misura in cui una persona è sicura della stabilità del proprio lavoro), l'effort reward balance (cioè, il bilancio tra l'impegno di una persona nel lavoro e la gratificazione che essa ne ricava), gli psychological demands (ad esempio, lavoro troppo duro, o troppo veloce, o con richieste tra loro in conflitto). Quanto meno la persona è libera di decidere i tempi e i modi della propria attività lavorativa, quanto meno essa è sicura della stabilità del proprio lavoro, quanto meno favorevole è il bilancio tra l'impegno che essa dedica al lavoro e la gratificazione che ne riceve, quanto maggiore è il peso psicologico del lavoro, tanto maggiore è il rischio di depressione».
E il clima? La depressione ne risente? «Vi sono due picchi stagionali: uno più ampio in primavera ed uno minore in autunno. Analogamente, 23 studi su 27 hanno riportato un picco del suicidio in primavera ed un altro picco in autunno. I cambiamenti del ciclo luce-buio sono più rapidi in primavera e in autunno, e le persone con disturbi ricorrenti dell'umore sono probabilmente più sensibili a questi cambiamenti. Una varietà particolare di depressione è rappresentata dalla cosiddetta seasonal depression, in cui gli episodi depressivi occupano regolarmente i mesi autunnali e invernali, con remissione in primavera. Questa forma depressiva è spesso caratterizzata da accentuata mancanza di energia, aumento del sonno (in qualche caso fino a 15 ore al giorno), aumento dell'appetito e compulsione ad assumere cibi dolci. Essa è più frequente nelle donne (60-90% dei casi) e in alcune latitudini (ben documentata è l'aumentata incidenza in alcuni Paesi scandinavi)».
Infine, quanto incidono leggi, pregiudizi e livello culturale? «Abbastanza nel ritardare la diagnosi. Tre esempi italiani: pessimismo sulle possibilità terapeutiche oggi disponibili; vergogna e timore di essere etichettati come "malati di mente"; le giovani madri hanno paura di perdere la custodia dei propri figli dopo una diagnosi di depressione».

La cura. I medicinali regolano gli «ormoni» dell'umore
Oltre alla psicoterapia (non sempre prescritta), i farmaci più efficaci sono quelli che riequilibrano la trasmissione nervosa, in tilt nel corso della depressione. In particolare, aumentano nel cervello la disponibilità di serotonina e noradrenalina, i due «neuro-ormoni» al cui calo è legata la maggior parte dei sintomi. I più nuovi ( Snri) agiscono su entrambi i neurotrasmettitori. Sono efficaci soprattutto nei depressi con caratteristiche melanconiche.

Progetto Itaca. I volontari al telefono per i primi aiuti
di Alessia Rastelli
MILANO — Immaginari, se i sintomi sono lievi. Incurabili, quando i disturbi diventano gravi. Malati di depressione vittime di pregiudizi, figli a loro volta della disinformazione.
«Combatterla è il nostro primo obiettivo» esordisce Ughetta Radice Fossati Orlando, presidente del comitato esecutivo di «Progetto Itaca», associazione di volontari da otto anni in campo per la salute mentale.
Perché iniziare dall'informazione?
«Sapere cos'è la depressione aiuta a non averne paura e a riconoscerla in tempo. Anche per questo, nel 2000, abbiamo inaugurato una linea di ascolto (numero verde: 800.274.274), specializzata nella psichiatria e attiva in tutta Italia».
Chi chiama il vostro numero verde?
«La percentuale di depressi è alta: l'anno scorso sono stati il 38% su 3.500 casi di pazienti con disturbi mentali. La metà ha tra i 30 e i 50 anni e due su tre sono donne.
Chiedono conforto e spiegazioni, ma a riconoscere il problema fanno fatica: tra chi telefona per la prima volta, uno su tre non è il diretto interessato, ma un familiare e il 40% dei malati non ha mai iniziato una terapia».
Perché rivolgersi alla linea di ascolto prima che al medico?
«Lo psichiatra fa ancora paura. Parlare con volontari non professionisti, invece, può essere rassicurante.
Spesso chi lavora con noi ha alle spalle un'esperienza di disagio mentale e il paziente lo sente più credibile e vicino».
Come rispondete alle richieste d'aiuto?
«Ascoltando, innanzitutto.
Poi, quando la tristezza e la mancanza di stimoli danneggiano la vita fino a renderla mutilata, il volontario incoraggia il paziente alla cura: al numero verde è collegata una banca dati di centri specializzati in tutta Italia, da segnalare immediatamente a chi ne ha bisogno».
Questo tipo di intervento funziona?
«La cifra del successo è data dai malati che ci richiamano: almeno una sessantina all'anno inizia a telefonare abitualmente. Poi, però, i passi successivi devono essere la riabilitazione e il reinserimento sociale. Noi tentiamo di favorirli organizzando gruppi di auto-aiuto o strutture come il Club Itaca di Milano. Un centro, cioè, dove anche attraverso i contatti con le aziende, si cerca di restituire ai pazienti il ritmo e la sicurezza nel lavoro compromessi durante la malattia».

il Riformista 25.2.08
Walter strappa l'adesivo «ma anche»
di Paolo Franchi


Giustizialismo e garantismo, laici e cattolici, sindacato e Confindustria. E non solo. Walter Veltroni ha ormai tutte le carte in regola per strappare l'adesivo del ma anche appiccicatogli tra capo e collo dal comico Crozza. La leggerezza con cui il segretario del Pd - soprattutto con l'arma delle candidature - sta declinando la coesistenza degli opposti manda in soffitta anche l'avversativo. Senza ma e senza anche . A Walter basta una semplice congiunzione: e . Basti pensare alla mamma di Valerio Verbano e all'unico dei fratelli Mattei sopravvissuto al rogo di Primavalle, che si sono abbracciati sul palco della festa per l'addio al Campidoglio di Veltroni (festa a cui hanno preso parte anche le famiglie di Gabriele Sandri, il tifoso laziale morto all'autogrill di Badia al Pino, e di Benedetta Ciccia, la ragazza morta durante gli attentati di Londra del luglio 2005).
E così, scendendo per li rami, Tonino Di Pietro e Marco Pannella - verosimilmente - non avranno nulla da obiettare sui desiderata del Pd in materia di giustizia, che verranno enunciati stamattina insieme al resto del programma. Sulla delicatissima materia, sostengono fonti qualificate del loft, verranno messi nero su bianco dei princìpi improntati a tre concetti: efficienza, rapidità e garanzie (da intendere, queste ultime, sia sul fronte giudici che su quello imputati). Traduzione: nel programma sulla giustizia si parlerà sia di «intercettazioni», il cui uso andrà razionalizzato, sia dell'ipotesi di «accorpare i tribunali» per poterne migliorare l'efficienza riducendo, contemporaneamente, i costi.
Quanto alla dicotomia tra laici e cattolici, Veltroni non è per niente preoccupato dai mal di pancia sbandierati a mezzo stampa da chi (Binetti e non solo) ha mal digerito l'uno-due democrat Bonino-Veronesi. Su entrambe le trattative Veltroni ha agito in solitaria, certo. Ma, soprattutto sulla mossa di giocare la carta dei Radicali, il segretario aveva avuto il via libera di tutte le anime del Pd, mariniani (leggasi, Franco Marini) su tutti. Non a caso, Beppe Fioroni, da sempre vicinissimo al presidente del Senato, in un'intervista a Repubblica , ha definito «un'invenzione» la storia della «deriva laicista» dal Pd. Spiega al Riformista Giorgio Tonini, membro dell'esecutivo del loft e veltroniano di antico conio: «Bonino e Veronesi sono due personalità apprezzate anche dai cattolici. E poi, il nostro è un partito in cui si punta a risolvere i problemi». Quanto alla mission di conciliare Binetti con Bonino&Veronesi, Tonini giura che è tutt'altro che impossible . «Innanzitutto, non è vero che dobbiamo riequilibrare sul fronte cattolico l'accordo coi Radicali e la candidatura di Veronesi. Il nostro compito è risolvere i problemi del paese. Le faccio qualche esempio. Aborto? La legge 194 non va toccata come dicono i laici, ma va applicata a fondo, come vogliono i cattolici. Credo che anche Pannella sia d'accordo nel voler dare tutto l'aiuto possibile alle donne che non vogliono abortire ma oggi son costrette a farlo». Pillola del giorno dopo? «Sì alla RU486 - risponde Tonini - a patto che ne venga controllato l'uso. Nell'ambito, per esempio, della legge 194». Testamento biologico? «Nella legislatura precedente ci siamo arenati sull'alimentazione parentale. Era o no accanimento terapeutico? Io - aggiunge il senatore pd - posso essere più d'accordo con Ignazio Marino e meno con la Binetti. Ora, però, cambieremo approccio: promettiamo intanto di approvare il testamento biologico, così dopo avremmo il tempo di discutere di tutti gli altri aspetti». Quanto allo spinoso tema delle candidature, le liste del Pd si preparano ad accogliere il nome di un cattolico doc: Andrea Riccardi, portavoce della comunità di Sant'Egidio (acclamato a gran voce anche da Marco Pannella).
Quanto alla sintesi tra lavoro e impresa, Veltroni continua a recitare il ruolo del catch-all leader . Tra i sicuri eletti del Pd non ci saranno solo Antonio Boccuzzi, l'operaio sopravvissuto al rogo della Thyssen Krupp, e i cigiellini Passoni e Nerozzi. All'orizzonte s'intravede un seggio anche per il segretario confederale Cisl Pier Paolo Baretta. Quanto alle imprese - oltre ai nomi noti già annunciati - Veltroni dovrà fare a meno di Marina Salomon, certo. Ma ha già pronti altri due fuochi d'artificio: Sabina Ratti, moglie del banchiere Alessandro Profumo e soprattutto Massimo Calearo, presidente di Federmeccanica.

il Riformista 25.2.08
La sottile differenza tra Zapatero e Veltroni
di Tommaso Labate


Narrano le cronache che Zapatero, aprendo a Madrid la campagna elettorale, ha riscaldato i cuori dei militanti ricordando che da 130 anni il Partito socialista operaio di Spagna si batte per gli stessi obiettivi. Le cose, si capisce, non stanno proprio così, il Psoe zapaterista del "socialismo dei cittadini" è ben diverso non solo, che so, dal Psoe classista di Largo Caballero, "il Lenin spagnolo", ma anche, per restare in tempi recenti, da quello rampante di Felipe Gonzalez, che la Spagna la ha governata, e bene, per dodici anni, prima del doppio mandato di Aznar. E però nelle parole di Zapatero c'è una verità di fondo, incontrovertibile. Il Psoe è cambiato, ha rinnovato in profondità, e non senza rotture, gruppi dirigenti e cultura politica: lo stesso Zapatero ha detto di considerarsi più un "democratico sociale" che un socialdemocratico nel senso classico del termine. Mai e poi mai, però, sono stati chiamati in causa né il nome né l'identità del partito. E questa scelta (che, dalle parti nostre, verrebbe probabilmente considerata conservatrice) a quanto pare non ha impedito ai socialisti spagnoli e soprattutto alla Spagna, di mietere successi di qualche rilievo.
Le elezioni del 9 marzo non sono affatto vinte in partenza. Questo giornale, che è stato dalla parte di Zapatero quando tutto o quasi il centrosinistra italiano, e proprio mentre stava andando a sfracellarsi, virtuosamente assicurava che mai e poi mai sarebbe caduto nella "deriva zapaterista", per la vittoria del Psoe e del suo leader fa intensamente e apertamente il tifo. Vorrei essere chiaro. Non è soltanto questione di difesa della laicità e di allargamento dei diritti civili, ma con il nostro tifo la difesa della laicità e dei diritti civili c'entrano molto, anzi, moltissimo. Se il 9 marzo, come speriamo e crediamo, Zapatero vincerà le elezioni, sarà anche perché ha dimostrato, e dal governo, che il socialismo liberale e democratico ha un futuro (in Spagna, ma non unicamente in Spagna) solo se è capace di rinnovarsi in profondità restando fedele ai suoi principi di fondo, così da stare sul filo del cambiamento della società per interpretarlo e per guidarlo; e che di questo rinnovamento la capacità di declinare con coraggio il grande e modernissimo tema dei diritti di cittadinanza è parte essenziale. Può darsi pure, tocchiamo ferro, che perda: non solo i socialisti spagnoli, ma tutti i riformisti europei si leccheranno le ferite, ma il Psoe resterà lo stesso un grande partito socialista.
Fin qui Zapatero, la Spagna, l'appuntamento del 9 di marzo. Poi naturalmente ci sono Veltroni, l'Italia, l'appuntamento del 13 aprile. Lì, un antico partito socialista che, cambiando, cambia il Paese. Qui, dove (lo so, lo so, non rinnoviamo discussioni antiche) un grande partito socialista non c'è mai stato, e quando ha cercato di prendere forma un po' si è schiantato, molto è stato schiantato, si cerca, e in poche settimane, di mettere su qualcosa di assolutamente inedito, non solo in Italia, ma in Europa, perché di questo si parla quando ci occupa del Partito democratico. Tutto sta, naturalmente, a capire di quale novità si tratti. Abbiamo perso qualche giorno a discutere, sul Riformista, tra chi, come me, lo considera (e non è certo un'accusa) alla stregua di un moderno partito di centro, e chi sostiene che viceversa è un partito riformista di centrosinistra non dissimile dai grandi partiti socialisti europei, e si chiama diversamente solo per problemi di storia patria. A metterla giù così, mi rendo conto, la discussione magari è anche dotta, ma è pure un po' oziosa, anche se, al fondo, resto delle mie opinioni, perché i socialisti europei (il Psoe, ma non solo il Psoe) sono un'altra cosa. In ogni caso: basta guardare un attimo alla trama degli accordi fatti e di quelli falliti, o al dosaggio delle candidature, pardon, delle nomine, tra laici e clericali, o tra imprenditori e operai (ma si potrebbe continuare) per il Parlamento prossimo venturo, per prendere atto che le definizioni su cui ci siamo affettuosamente accapigliati sono roba del passato. Non sembra propriamente nuovissimo nemmeno il Pd: di partiti pigliatutto (catch-all party) Otto Kirchheimer cominciò a parlare tanti anni fa, e a ragione, perché questa è divenuta la forma prevalente del partito politico moderno. Solo che da noi, come spesso ci capita, siamo andati più avanti, molto più avanti. Almeno nelle aspirazioni. Perché vincere, e mettere radici salde anche in caso di sconfitta (e certo non auguro a Veltroni di perdere), è un altro discorso.

il Riformista 25.2.08
Il Sessantotto. La non-rivoluzione vista da un ventenne di oggi
Un conto è ricevere dei valori e rifiutarli, un altro non riceverne affatto
di Matteo Marchetti, 20 anni


Cantate con me: "A la rue! A la rue!". Un ritornello affascinante ma al tempo stesso cupo, gioioso ma al tempo stesso carico di rabbia. Ricorda qualcosa? Sono sicuro di sì: quando l'agenda della Storia non offre niente di meglio ci si guarda indietro, si sfogliano i vecchi calendari e si scova un anniversario, una ricorrenza, qualcosa da celebrare. Lo scorso anno ne erano passati trenta dal cupo 1977, il prossimo probabilmente singhiozzeremo per lo sbarco sulla Luna. Quest'anno è il turno del Sessantotto, scritto per esteso perché sì. Chissà quanti libri ad hoc , quanti speciali televisivi andranno in onda; magari anche una fiction, che tutto sommato non si rifiuta a Edda Mussolini, figurarsi ai dorati anni Sessanta. Sono passati quarant'anni, ma dobbiamo ancora realizzare cosa sia successo davvero.
"Lottavano così come si gioca, i cuccioli del maggio; era normale: loro avevano il tempo anche per la galera", cantava Fabrizio de André. Una lotta studentesca, universitaria e quindi borghese, attuata dai figli della società bene contro ciò che loro stessi sarebbero diventati. Anticapitalista, attuata nel santuario e dagli eredi del capitalismo. Antiamericana, ispirata dagli antiamericani d'America. Contro la rigidità e le chiusure di una società ancora preindustriale nei suoi comportamenti ma capace di altrettanto settarismo e altrettante esclusioni. Una lotta totale, contro qualsiasi istinto di autoconservazione; la creazione di una nuova umanità, libera dai tabù e dallo sfruttamento. Rivoluzione. Non siete convinti? Allora ditemi: che cos'è una rivoluzione, se non la distruzione traumatica di un sistema di potere e la sua sostituzione con un altro?
Durante gli anni Sessanta tutte le certezze del dopoguerra si erano andate sgretolando: il riformismo del primo centro-sinistra passava nuovamente la mano ad una Democrazia cristiana da tempo adagiatasi sugli allori del 'Fattore K'; il boom si arenava, e 'congiuntura' diventava una parola fin troppo conosciuta. Intanto un intero mondo si stava aprendo al di fuori dei pranzi della domenica. Il Village di New York, Londra, le prime droghe, Berkeley.
Arriva l'eco delle prime proteste nell'ateneo californiano, forme di disobbedienza non violenta contro la guerra in Vietnam; si bruciavano le cartoline di reclutamento. Nel 1966 Trento torna di prepotenza nella storia d'Italia dopo i fasti risorgimentali e dà il via alle occupazioni universitarie, seguita poi da Milano, Roma e così via. Gli studenti chiedono cose concrete, rivendicazioni spicciole, ma è la prima crepa in una diga. Agiscono in quanto - come dicevano - "forza lavoro in formazione". Una revisione ideologica in senso utopista, forse ingenuo, ma comunque devastante per l'ordine costituito.
I gruppi di studio affollavano le facoltà, si studiavano i Grundrisse e i Quaderni rossi, si leggeva il Diario in Bolivia del Che; si covava qualcosa di enorme. Poi la cronaca è travolgente: il maggio francese, e allora continuons le combat , il Quartiere Latino e le sue barricate; da oltreoceano arrivano gli echi di Woodstock, le orecchie di centinaia di migliaia di giovani ferite da Jimi Hendrix che suonava la chitarra con i denti e incantate dalle melodie di Joan Baez; gli acidi, i cannabinoidi, droghe di ogni tipo per "aprire le percezioni"; l'amore svestito del talare e riconsegnato al talamo, affrancato dalle mille ipoteche morali di cui i secoli lo avevano sommerso.
Musica, grida, cortei, botte, libri, manifesti, volantini, fogli, lenzuola. Questo è stato il Sessantotto per il mondo. Si mette in dubbio l'intera macchina sociale. "Mi han detto che questa mia generazione ormai non crede in ciò che spesso han mascherato con la fede nei miti eterni della Patria o dell'eroe, perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità". Francesco Guccini riuscì a catturare nella sua Dio è morto l'essenza stessa di quegli anni: un'intera generazione che vuole scrivere da sé il proprio futuro.
Nel triennio 1966-69 l'Italia è scossa dal movimento studentesco, movimento generazionale e non di classe: i giovani ascoltano la stessa musica, hanno gli stessi passatempi e gli stesi interessi, gli stessi timori e le stesse aspirazioni; a tutelare gli interessi dei giovani proletari sono i giovani borghesi delle università rampognati da Pasolini. Il Partito comunista è ormai imborghesito e corrotto da due decenni di attività istituzionale, va superato. All'Internazionale si preferisce Contessa di Paolo Pietrangeli, o magari la successiva ed esotica El pueblo unido degli Inti Illimani. Il movimento trova la propria koinè nelle arti, dalla musica al cinema, alla letteratura. È un periodo di formidabili avanguardie, di sperimentazioni, di svecchiamento. È anche un periodo di violenza, ma ancora ingenua, un gioco appunto, come diceva de André.
Alle azioni di quei cuccioli del maggio seguì la rivoluzione italiana, silente ma perfettamente riuscita, tanto che la nostra classe dirigente è composta in massima parte da suoi artefici. E, se vogliamo, il suo successo è dovuto alla sua incompiutezza: a differenza dei rivoltosi parigini, colti in "flagranza di rivoluzione" e quindi travolti dal riflusso di Pompidou, i nostri sessantottini hanno potuto giovarsi di una politica immobile e screditata e farsi scudo con il ben più minaccioso Autunno caldo del 1969. Quanto costruito in quei tre anni non finisce perché sconfitto ma perché desideroso di assumere nuove forme più congeniali al proprio scopo.
Restano gli strascichi di questo movimento, le conseguenze sul futuro del Paese. Non è un mistero: il Sessantotto ha perso il controllo di sé, si è dato alla testa. Non parlo, si badi bene, della follia collettiva degli anni di piombo, ma dei malintesi sui diritti del lavoratore dipendente - specialmente di quello pubblico - e del presunto obbligo dei docenti di 'capire' i propri alunni; un dissennato permissivismo su tutto, in nome dell'autodeterminazione e della libertà dell'individuo.
Il Sessantotto travolse la famiglia tradizionale, quella dei pizzi a tombolo e dei vestiti da pomeriggio; sconvolse la morale, relegando alle barzellette e al cinema corteggiamenti lunghissimi ed estenuanti trattative con baffuti genitori gelosi. Al posto di tutto questo, però, non è stato in grado di costruire nulla. Questo il problema: le generazioni successive: un conto è ricevere dei valori e rifiutarli, un altro non riceverne affatto.
Alla sacrosantità dell'autorità costituita non è seguito nulla, se non sberleffo o prevaricazione; alle convenzioni sociali è seguita la maleducazione esibita come spregiudicatezza, alle reti familiari l'individualismo. È ovvio che nessuno abbia un cattivo ricordo del periodo, portatore di istanze di rinnovamento e uguaglianza, latore di grandi novità per il Paese. Peccato che poi fu seguito nell'ordine dalle P38 e da Drive in.
"Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo, a una speranza appena nata, ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi, perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni, poi risorge […] Nel mondo che faremo Dio è risorto", conclude Guccini. La canzone viene cantata al termine dei suoi concerti, subito prima dell'altro cavallo di battaglia, La locomotiva ; il pubblico scatta in piedi, i più alzano il pugno chiuso e cantano. Tanti sono di mezza età, figli del boom. Questa canzone era dedicata a loro, ma stiamo ancora aspettando l'alba del terzo giorno, mentre in tanti hanno smesso di vegliare il cadavere di Utopia e si sono reinventati come membri rispettabili della società che quarant'anni fa distrussero, per poi ritrarsi nell'ombra.
Matteo Marchetti 20 Anni, Roma

il Riformista 25.2.08
I naxaliti. In India stanno tornando i comunisti
di Mountolive

Pochi hanno sentito parlare in Europa dei naxaliti, eppure questo movimento controlla una parte rilevante delle zone rurali indiane, lungo un crescente che dalla regione meridionale dell'Andra Pradesh, si estende sino al Nepal attraversando la fascia occupata dalle residue popolazioni tribali, la cui miseria è indescrivibile. I naxaliti nacquero negli anni sessanta come movimento di lotta contadina, ma si trasformarono ben presto in una formazione maoista di tipo classico, appoggiata neanche tanto silenziosamente da Pechino. Il suo cuore era nelle università bengalesi, che sono da sempre la culla dell'intellighenzia indiana; il tentativo di estenderne il raggio d'azione a tutto il paese si infranse contro la durissima reazione del governo, che riuscì in due-tre anni a cancellarli dalla scena. Il capo storico e fondatore, Mazumdar, finì "suicida" in cella e gli altri esponenti rientrarono nei ranghi, trovando rifugio nell'attività accademica e in professioni varie: col tempo, sono diventati moderati.
Il piccolo partito comunista marxista leninista, che rappresenta la "faccia legale" dei naxaliti, ha continuato a vivacchiare, senza riuscire a portare mai rappresentanti in parlamento ma si è mantenuto attivo sul piano della propaganda e del proselitismo ideologico. E così, sono rimasti sorpresi in molti quando, dopo un'eclisse di molti anni, i naxaliti hanno rialzato la testa, questa volta nelle vesti di movimento di guerriglia rivoluzionaria legato alle rivendicazioni delle popolazioni tribali e delle fasce più povere della popolazione rurale, come gli "intoccabili" che nell'India orientale sono oggetto di vessazioni odiose. Le tecniche adottate, tipiche della guerriglia povera, non hanno contribuito ad aumentarne la popolarità: contributi rivoluzionari, esecuzioni sommarie di delatori veri o presunti ecc. hanno creato nelle campagne un regime di terrore cui molti vorrebbero sottrarsi. Il governo, da parte sua, non ha saputo far di meglio che favorire - a sostegno di corpi di polizia notoriamente inefficienti e corrotti - la creazione di gruppi di autodifesa formalmente volontari, ma in realtà organizzati e finanziati dai proprietari terrieri della regione e dai gruppi industriali interessati ad acquisire senza troppe complicazioni legali i territori occupati dalle popolazioni tribali. Le quali, prese fra i due fuochi della minaccia naxalita e della repressione para-governativa: hanno optato per il male minore; dopotutto, i naxaliti si dichiarano se non altro in favore dei loro diritti e riescono a dare filo da torcere alle caste "alte", che di tribali e contadini sono il nemico storico. I nuovi naxaliti non riusciranno ad abbattere la democrazia indiana e rimarranno un bubbone complicato e a tratti pericoloso, ma circoscritto a una parte del territorio nazionale. Il loro ritorno sulla scena fornisce una ulteriore conferma del fatto che, nell'India dai ritmi di crescita del 9% e dei centri IT di livello mondiale, sopravvivono sacche di arretratezza che richiederebbero ben altro impegno da parte del governo per essere, sia pur gradatamente, rimosse. E delle quali l'Occidente - abbagliato dai riflettori accesi su "India shining", si accorge troppo poco.