sabato 1 marzo 2008

Bassolino a giudizio: «Truffa e abusi nella gestione»
I quattro segretari regionali di Prc, Pdci, Verdi e Sd: «Sarà la magistratura a stabilire se le gravi accuse che vengono formulate nei confronti del governatore siano rispondenti alla verità. Dal punto di vista politico, però, è evidente che si tratta di un momento delicato che impone una profonda autocritica al centrosinistra, al suo modello di gestione del territorio e una valutazione obiettiva sulla fine di un sistema politico. Motivo per il quale riteniamo necessario andare al voto anticipato in tempi rapidi».

l’Unità 1.3.08
Valle Giulia, tutti figli di quella giornata
di Bruno Gravagnuolo


ANNIVERSARI Quaranta anni fa gli scontri con la polizia alla facoltà di Architettura di Roma. Chi c’era e chi non c’era, e come e perché quel giorno entrò nell’immaginario del movimento che voleva mandare «l’immaginazione al potere»

Tanto per cominciare noi a Valle Giulia quel giorno non c’eravamo. Andò così. Lo sgombro dell’Università di Roma voluto dal rettore D’Avack, inclusa la facoltà d’Architettura, aveva generato uno sciopero, al quale aderivano gli studenti medi. Qualcuno della mia classe e del mio Liceo, il Tasso, aveva deciso di andare a Piazza di Spagna, da dove sarebbe partito il corteo verso Valle Giulia, sede a Villa Borghese di Architettura, e presidiata dalla Polizia. E fu così che quei «compagni» si trovarono a pieno titolo dentro la colonna sonora di quell’evento. La canzone di Paolo Pietrangeli, ricordate? «Piazza di Spagna splendida giornata...». Altri come chi scrive e un altro gruppetto, decisero di andare a zonzo in quella splendida giornata, dopo aver partecipato ad una delle tante assemblee interne, che fin da allora avevano terremotato il clima di quell’austero liceo, con tanto di preside socialista turatiano e lunga barba. E che quando urlava (in latino!) faceva tremare i muri: «Lei è un’idiota e glielo dico ore rotundooo!».
Roba normale per chi parlottava nei corridoi, non rientrava dalla ricreazione o tirava qualche palla di carta. E dire che il Tasso era uno dei licei più libertari e liberali. Con tanto di «Circolo Tasso», liste parapolitiche legate all’Unuri, dibattiti, teatro, professori di italiano, tipo un certo Sermonti, matematici come la famosa Castelnuovo, e studenti svegli e un dì famosi come Paolo Mieli, Paolo Franchi, il meno famoso Valerio Veltroni fratello di Walter, anche lui in seguito al Tasso.
Insomma il 1968 era come ci fosse già stato lì, non solo perché l’anno prima, nel 1967, la vicenda di Paolo Rossi aveva visto il liceo in prima fila nelle proteste per la morte dello studente. Ma anche per l’atmosfera di sinistra spinta che vi si respirava, satura fin da allora di discussioni furiose su Marx, sul «revisionismo kruscioviano», su Pasolini. E non senza contrattacchi vivaci di una destra giovanile niente affato muta, e sempre pronta a contestare, da destra ovviamente, le celebrazioni sulla Resistenza. Riti invisi, quelli, anche a sinistra, per la loro ufficialità: altro che egemonia e vulgata resistenziale! Impossibile dimenticare la scena in classe del professore di latino e italiano Corigliano, che roteava una sedia dal basso in alto verso la radio interna, da cui il buon Casotti esaltava il 25 aprile, mentre eravamo intenti al tema di pramattica sul «Secondo Risorgimento». E Corigliano, amatissimo e scombinato umanista, era un comunista Doc, desanctisiano e togliattiano, benché con tentazioni psiupparde! Bene per tornare a Valle Giulia, dai concitati racconti dei compagni, risultava questo: il corteo aveva raggiunto la collina in cima alla quale c’era l’ingresso di Architettura, per «liberarla». E la polizia, dopo i rituali squilli di tromba, aveva attaccato. «Non siam scappati più!», recitava la canzone di cui sopra. E così, a quanto pare, andò. Con scontri furiosi, inseguimenti, piccoli focolai di guerriglia campestre sui saliscendi. Certo un po’ dispiaceva agli assenti non esserci stati. E i reduci eccitatissimi ce lo facevano sentire come un’occasione mancata. Sicchè quella giornata - dove c’era il gotha della contestazione, Piperno, Franco Russo, Fuksas, Petruccioli Jr, fratello di Claudio e da allora molto più popolare di lui - entrò dentro l’immaginazione di tutti. Anche di chi non c’era. Era stata come un «gesto», una specie di battesimo della protesta non vittimista, ma autorisarcitoria: non siamo scappati più. Non abbiamo paura della polizia che picchia duro (e picchiava duro!). Sta di fatto, epico o meno che fosse lo scontro su cui Pasolini appuntò i suoi strali populisti, quella giornata fu l’instantanea di un lungo album. Il fotogramma base di un lungometraggio che andava ben al di là dell’insorgenza di una massa di studenti borghesi e piccolo-borghesi romani. Fu l’atto di autopresentazione di un «movimento» animato da pulsioni contrastanti. Anarchiche e antiautoritarie, «edipiche» in certo senso, contro la generazione dei padri che ci invitava a cercarci «un posto» e un ruolo professionale rispettato nella vita. Ma del pari, pulsioni aggressive, autoritative. Come se la distruzione dell’autorità dichiarata illegittima, dovesse lasciare il campo a certezze non meno asseverative. Globali, quanto la globalità delle verità rifiutate.
Molte illusioni ebbero corso allora. Molti «ripescaggi» di vicende ideologiche antiche e pregresse, specie nella storia della sinistra. Ad esempio, un’idea della purezza «di classe», nella classificazione della politica e della cultura, che riproduceva il primitivismo di certe visioni bordighiane. E un’idea della polarizzazione dello scontro sociale, dove ogni concessione «riformista» celava il pericolo dell’integrazione nel Moloch del sistema dai mille tentacoli seduttivi. Poi la riscoperta di Trotzky, dei soviet, persino di Stalin e del «marxismo-leninismo», vissuti come oggetti luccicanti e nuovi, magari con ironia o in chiave provocatoria e contundente. Eppure, accanto a queste pulsioni di ordine contro l’ordine fallace, c’erano spinte di tutt’altro tenore: libertarie, individualistiche, estetizzanti e finanche «surrealistiche». Un classico dell’epoca era questo: gli «Uccelli». Gruppo «dada» autopromossosi a cattiva coscienza dell’ideologia. Che si arrampicò sulla cupola della Sapienza, mobilitando mediaticamente l’attenzione. E che irrompeva nelle assemblee, facendo mucchio e aprendo l’ombrello contro il diluvio di parole e sintagmi ideologici: «nella misura e a livello in cui il ciclo del Capitale si ristruttura....». Oppure, tentava di costruire piscine nel giardino di Architettura, con assalti da commandos a colpi di badile, uscendo da un furgone. E il capo degli «uccelli» sapete chi era? Paolo Liguori, ormai berlusconiano doc, dopo essere passato per Comunione e Liberazione.
Dunque il ’68 fu tante cose, psicologicamente. Qualcosa di «narcisistico» e pure di «gregario» dal punto di vista giovanile, nel senso di moda, tendenza, linguaggio, liberazione di emozioni. Con quel tanto di «delirante» che ogni sommovimento include. Ma più che altro fu due cose. Innanzitutto fu un gigantesco spostamento politico e di generazione a sinistra: di gioventù operaia e studentesca, verso la realtà dei ceti subalterni e le loro culture. Verso realtà escluse dai frutti del boom degli anni ’60. E in tal senso quello spostamento allargò i diritti civili e il perimetro del Welfare state. Ma a scala mondiale, ovviamente. E nelle crepe di un ordine geopolitico dei blocchi che cominciava a franare.
Infine, come onda mediatica, il 1968, fu una gigantesca rivoluzione antropologica. La prima manifestazione mondiale del «globalismo». Che irrompeva sul proscenio come partecipazione vissuta alla storia sentita come presente e contemporanea. Una immensa diretta dell’immaginazione. Nella quale, malgrado le maledizioni a ritroso, si sono formati tutti, anche quelli che oggi stanno su barricate opposte all’anno mirabile o che lo hanno tradito. Sicché, per uno strano paradosso, senza bisogno di scomodare Guy Debord, in fondo persino Berlusconi è nato a Valle Giulia. Come padrone di quell’immaginazione che noi volevamo liberare.

l’Unità 1.3.08
Polemica sul viceministro della Difesa
«Per gli abitanti di Gaza sarà “shoah”, cioè la catastrofe»
di Umberto De Giovannangeli


«Non rinunceremo a nessuna azione per costringere i miliziani palestinesi a porre fine al lancio dei razzi contro le nostre città. I capi di Hamas lo sanno bene, ma sono degli irresponsabili». A parlare è il vice ministro della Difesa israeliano, Matan Vilnai (laburista).
Nel sud di Israele, a Gaza, la parola è ormai alle armi?
«Non abbiamo altra scelta. A fronte del continuo ripetersi del lancio di razzi contro le nostre città, un’operazione militare di vasta portata appare ormai inevitabile. Sia chiaro: Israele non ha alcuna intenzione di rioccupare Gaza, questa operazione ha solo scopi difensivi. Siamo consapevoli che un’operazione del genere avrà costi enormi e sarà difficile, ma di ciò i capi di Hamas si assumeranno per intero la responsabilità. Uno Stato ha il diritto-dovere di difendere la vita dei suoi cittadini. Per quanto ci riguarda, non ci sottrarremo alle nostre responsabilità».
Oltre Sderot, i missili palestinesi hanno iniziato a bersagliare anche Ashqelon, la più popolosa città del sud di Israele.
«Quanto più si intensifica il lancio di razzi contro le nostre città e quanto più la loro gittata si allunga, tanto più i palestinesi si espongono al rischio di una "shoah" (catastrofe, ndr.) ancora più grande, perché noi useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per difenderci»..
La comunità internazionale ha espresso forte preoccupazione per questa escalation di violenza.
«Siamo i primi a condividere questa preoccupazione ma al tempo stesso siamo consapevoli che di fronte alla cinica irresponsabilità dei capi di Hamas l’azione militare è una via obbligata. Lo ripeto: ogni giorno civili inermi israeliani vengono bersagliati da decine, centinaia di razzi sparati dalla Striscia di Gaza, un territorio dal quale Israele si è ritirato unilateralmente nell’estate del 2005. Oggi Gaza è stata trasformata in una immensa rampa di lancio per i missili Qassam. La responsabilità di ciò è tutta di Hamas, che con il suo comportamento irresponsabile tiene in ostaggio due popoli».
La parola dialogo non ha diritto di cittadinanza in questo tormentato angolo del mondo?
«Il dialogo è una strada che abbiamo deciso di intraprendere assieme al presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.). Ma nessuno può chiederci di dialogare sotto la minaccia costante dei missili sparati da chi non intende solo colpire cittadini israeliani ma con il terrore mira a far fallire ogni sforzo di pace».

Repubblica 1.3.08
"Il feto va sempre rianimato" bioetica, il documento dei saggi
di Mario Reggio


ROMA - Il feto viene alla luce prematuro? Presenta segni di vitalità? Allora deve essere curato e rianimato anche se i genitori di dicono contrari. Lo ha deciso, a maggioranza, la Commissione nazionale di Bioetica. Ma restano alcuni di punti interrogativi. Anche i ginecologi cattolici non sanno indicare se le pratiche di rianimazione devono essere praticate solo dopo la ventiduesima settimana di gravidanza, anche perché ogni feto ha caratteristiche diverse. E malgrado i progressi delle terapie si rischia l´accanimento terapeutico. E poi fa discutere l´esclusione dei genitori da qualsiasi decisione. Tra l´altro il quesito è uno dei tre, assieme all´applicazione integrale della 194 e della Ru486, sottoposti dal ministro della Salute Livia Turco al Consiglio superiore di Sanità che non ha ancora espresso il suo parere.
Un documento che, nonostante sia stato approvato dalla maggioranza, ha comunque determinato una spaccatura all´interno del Cnb, con alcuni membri, tra i quali il ginecologo Carlo Flamigni, che si sono dichiarati contrari. E la posizione assunta dal Comitato si allontana da quella espressa invece dagli esperti: documenti di molte società scientifiche, infatti, indicano nella ventiduesima settimana il limite al di sotto del quale le cure intensive al neonato si configurerebbero come accanimento terapeutico.
Insomma, si pongono dei ‘limiti temporali´ alle cure sulla base dell´età del feto, cosa che secondo il Cnb è inaccettabile.
Il punto centrale del documento, spiega il vicepresidente del Cnb Lorenzo D´Avack, «è che si ritiene che il feto debba essere rianimato sempre se è vitale. Non è eticamente accettabile, cioè, porre dei paletti temporali per fissare a partire da quale età gestazionale si debba o meno procedere alla rianimazione del feto». Altro nodo centrale è rappresentato dal ruolo dei genitori in queste difficili circostanze: «E´ chiaro - dice D´Avack - che è sempre opportuno cercare una linea condivisa con i genitori, che vanno adeguatamente e costantemente informati. Tuttavia, nella eventualità che, in presenza di feto vitale fortemente prematuro, non si giunga ad una posizione condivisa, allora deve essere prevalente la decisione del medico a favore della rianimazione. Ad eccezione, però, se si tratta di terapie sperimentali, nel qual caso il parere dei genitori è invece vincolante». Totale dissenso arriva da Carlo Flamigni, ginecologo e membro del Cnb, che sottolinea di aver espresso un voto contrario, annunciando che presenterà un parere di dissenso: «In situazioni di questo tipo - afferma - il parere dei genitori nella decisione di procedere alla rianimazione del feto nato fortemente prematuro, e che potrebbe avere gravi danni o deficit, deve essere vincolante». Il punto vero, conclude Flamigni, è che «una vita senza alcuna qualità o speranza, a mio parere, non merita di essere vissuta».

Repubblica 1.3.08
L’annuncio di 2 medici. Flamigni: molti dubbi
"Test genetico su ovulo così l´embrione è intatto"


ROMA - Sono già almeno 80 le coppie portatrici di malattie ereditarie che sperano di poter evitare il cosiddetto «turismo della provetta» e sono in attesa di poter provare in Italia il nuovo test di diagnosi eseguito sull´ovulo anziché sull´embrione. Dopo un anno di prove in laboratorio, è stata ottenuta la prima gravidanza. La donna, portatrice di una malattia ereditaria, è al terzo mese di gravidanza e il feto è sano, come ha dimostrato anche l´analisi dei villi coriali.
A presentare il risultato, ieri a Roma, sono stati il biologo Francesco Fiorentino, direttore del laboratorio Genoma, e il direttore del centro di procreazione assistita dello European Hospital, Ermanno Greco. Quella che viene analizzata è una formazione che compare nell´ovocita al momento dell´ovulazione, chiamata globulo polare. E´ una struttura che racchiude specularmente il Dna dell´ovulo e che va perduta con la maturazione dell´ovocita.
Ma c´è anche chi, come il professor Carlo Flamigni, non nasconde le sue perplessità: «L´analisi viene effettuata solo un globulo polare dell´ovocita, prima che venga fecondato, mentre per avere riscontri scientificamente corretti e geneticamente certi dovrebbe avvenire sui due globuli polari dopo la fecondazione, una pratica che in Italia, grazie alla legge 40 non è consentita».

Corriere della Sera 1.3.08
«Un passo avanti L'embrione non viene toccato»
Lo scienziato «Ma non si risolve tutto»
di Edoardo Boncinelli


È proprio vero che la necessità aguzza l'ingegno! Poiché in Italia oggi non è permessa la diagnosi genetica cosiddetta preimpianto sui primissimi stadi di sviluppo dell'embrione, prima appunto che questo si impianti nell'utero materno, qualcuno ha pensato di analizzare la cellula-uovo della futura mamma prima che venga fecondata dallo spermatozoo del futuro papà. In questa maniera non si sacrifica nessun embrione o progetto di embrione: il concepimento infatti non è ancora avvenuto. Questo dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) mettere a tacere molte critiche di ordine etico-religioso.
Se è così perché non ci si è pensato prima? Ci sono almeno due ragioni per cui non ci si è pensato prima, e questa tecnica si presenta come relativamente nuova. La prima ragione è che fare l'analisi genetica di una cellula- uovo non è come bere un bicchier d'acqua. Per prima cosa, non è facilissimo condurre un'analisi genetica sicura sopra una singola cellula. Qualche anno fa avrebbe avuto dell'incredibile, ma oggi questo sembra ormai definitivamente acquisito: si è appunto capaci di fare un'analisi su di una singola cellula. In secondo luogo, non posso condurla direttamente sulla cellula-uovo, perché appena l'ho analizzata, quella non c'è più. Mi comporterei come Cecco Grullo che per sapere se una scatola di fiammiferi era buona, li accese tutti: poi non gliene rimase nessuno da adoperare! Fortunatamente la cellula-uovo ha una piccola compagna silenziosa, chiamata globulo polare, la quale è geneticamente identica ad essa e non serve a niente. Basta allora analizzare il globulo polare ed è come se si fosse analizzata la cellula-uovo stessa. Per svilupparsi appieno la cellula-uovo ha bisogno di circondarsi di questa compagna silenziosa, della quale poi finirà per sbarazzarsi. L'analisi genetica del globulo polare è equivalente a quella della cellula-uovo stessa, senza bisogno di sacrificarla.
C'è anche un altro aspetto. Analizzando la cellula-uovo non ci si mette al sicuro da ogni embrione geneticamente malato, perché non si analizza il contributo del padre. Si risolvono completamente però più della metà dei casi e ci si mette al sicuro da un buon tre quarti delle possibilità avverse. Si escludono infatti la totalità dei geni dominanti, e una buona parte di quelli recessivi, trasmessi dalla mamma, a patto ovviamente che si conosca l'assetto genetico del futuro padre. Ma questo in genere è noto. Insomma, un grosso avanzamento, anche se non una soluzione definitiva.

Repubblica 1.3.08
Malattie mentali a 30 anni dalla legge Basaglia
di Corrado Augias


Caro Augias, tra poche settimane cade l'anniversario della famosa Legge Basaglia di riforma psichiatrica approvata dal Parlamento il 13 maggio 1978. Tale legge ha portato ad una chiusura dei manicomi che ha sostituito con programmi di assistenza sul territorio basati sui servizi di igiene mentale. L'«antipsichiatria» che stava nello spirito della legge promossa dal prof. Basaglia, doveva togliere l'attenzione dal singolo individuo per andare a ricercare le cause sociali che avevano generato il malessere psichico. Caro Augias, onestamente qualche fatto di cronaca mi pone degli interrogativi. La legge 180 è stata promossa o è da rivedere alla luce dell'evoluzione sociale?

Andrea Sillioni Bolsena (Vt) sillioni@alice. it

La domanda è complessa, mi sono rivolto al prof. Alberto Siracusano, che ringrazio, ordinario di Psichiatria all'Università di Roma Tor Vergata nonché presidente della Società Italiana di Psichiatria. Ecco in sintesi la sua opinione: la riforma introdotta trent'anni fa (legge Basaglia) non abolì solo i manicomi come comunemente si crede, ha cambiato il modo d'intendere la cura delle malattie mentali diffondendo l'assistenza psichiatrica nel territorio. So che alcuni pensano che i 'matti' siano talvolta abbandonati a se stessi. Resiste il pregiudizio contro la malattia mentale, contro la possibilità che quei disturbi possano essere curati. Anche se molto è stato fatto c'è ancora molto da fare per organizzare meglio le strutture di assistenza, tenendo però sempre conto del fatto che indietro non si può tornare. La psichiatria è cambiata per sempre e oggi deve guardare al futuro, alla grande diffusione del disagio psichico.

Secondo l'Oms i disturbi depressivi saranno presto al secondo posto nelle patologie subito dopo le malattie cardiovascolari. Nelle obiezioni che sento in giro affiora il rimpianto per la figura dello psichiatra come custode del malato; per di più si confonde spesso la malattia psichica con la violenza ignorando che l'aggressività è un fattore complesso da affrontare non con la semplice repressione ma con interventi specifici. Oggi il modello della malattia mentale viene definito 'bio-psico-sociale', disagi di origine biologica, psichici individuali, e che possono derivare dall'ambiente familiare e sociale. La psichiatria moderna deve rispondere alle richieste di una società in profonda evoluzione curare fattori di rischio quali: la diffusione del consumo di droghe, comprese quelle cosiddette 'leggere', la fragilità delle relazioni familiari, con genitori assenti o poco presenti, il disagio provocato dalla vita nelle aree urbane La psichiatria è impegnata a prevenire in modo mirato nelle fasi più delicate della vita: l'età evolutiva, l'adolescenza, le fasi problematiche della vita femminile, l'età anziana. La legge Basaglia ha rappresentato un grande stimolo al cambiamento, a pensare in modo libero, a formulare nuove teorie, soprattutto ci ha insegnato a non rimpiangere il passato.

Repubblica 1.3.08
Ecco l’America dei carcerati
Un americano su cento è in prigione
di Vittorio Zucconi


Un cittadino su cento vive dietro le sbarre Superati Cina, Russia, Iran e India
Il record degli Usa "paese dei liberi" con più carcerati
In prigione si finisce per reati gravi ma anche per piccole infrazioni ripetute
L´economia in crisi non ce la fa più a sopportare il peso del sistema carcerario

Un americano su cento è in prigione. Una cifra record, che fa degli Stati Uniti il paese che fa più ricorso alla carcerazione: 2,3 milioni di detenuti su 230 milioni di abitanti adulti, più che in stati come Cina, Russia, India e Iran. Ma non tutti i cittadini degli States hanno le stesse probabilità di finire dietro le sbarre: vive infatti in stato di detenzione un giovane nero su nove. Un sistema che fa discutere, visto che in alcuni stati spendono più per le carceri che per l´istruzione.
C´è una città sommersa, un´Atlantide di uomini numero, che cresce più di tutte le altre in America ed è ormai la quarta per popolazione, subito dietro New York, Los Angeles e Chicago. Non cercatela sulla carta, perché non ha nome. Non ha case, ma celle, non ha sindaci, ma guardiani. È la città dei carcerati, che con 2 milioni e 259mila involontari residenti in questo 2008 ha dato agli Stati Uniti il record mondiale della popolazione in gabbia, più di Cina, Russia, India, Iran, in numero assoluto e in rapporto alla popolazione.
Nella terra dei «coraggiosi e dei liberi», come canta l´inno nazionale, c´è un «non libero» ogni cento abitanti adulti (250 milioni fra i 18 e il 70 anni) e uno ogni dieci, se il «coraggioso» ha la sfortuna di avere la carnagione di Barack Obama. Partoriti dal panico giustizialista e repressivo che aveva travolto la nazione negli anni ‘80 della grande ondata di crimine e che si era tradotta in leggi draconiane negli anni ‘90 al grido di sbatteteli tutti dentro, la città è cresciuta come un cancro fuori controllo, si è metastizzata in 38 «supercarceri» in ogni stato, dal Massachusetts all´Arizona, e in migliaia di istituti di pena locali, di contea e federali, dove sono affastellati insieme gente come Ramzi Yusef, il terrorista che tentò per primo di demolire le Torri Gemelle nel 1993 e come Kevin Weber, condannato nel 1995 a 26 anni per avere rubato biscotti in un McDonald´s, ma erano biscotti al cioccolato.
La spesa per il sistema carcerario, cresce molto più in fretta della spesa per l´istruzione pubblica. Costa settanta miliardi di dollari, un tesorone, 26mila dollari per ogni carcerato all´anno, e mentre nuove costruzioni sono lanciate ovunque, scatta l´implacabile paradosso delle autostrade: più se ne fanno e più sono piene. In California, lo stato dove per primo scattò il panico da sicurezza pubblica, il «California Penal System» accoglie 180mila detenuti in carceri costruite per ingabbiarne 80mila. Lo stato, perennemente in crisi fiscale, non ha più fondi per costruirne altre e i giudici sono costretti a migliaia di micro «indulti» individuali, scarcerando «su parola» detenuti che rientreranno per il 70% entro un anno. Il carcere diviene un´immensa porta girevole.
Mentre la nazione sta entrando in una massiccia crisi finanziaria e di liquidità, che proprio stati, contee (province) e comuni pagano per primi non riuscendo a collocare obbligazioni, quella città in salopette arancione, la più portata fra le «mise» dei carcerati, le zavorra come una palla di ferro al piede. Ma il sistema giudiziario è ammanettato alle leggi dei «tre colpi e sei fuori dalla società», come furono chiamate negli anni ‘90 usando una metafora del baseball. Alla terza condanna, il tribunale è obbligato, in 28 stati, a irrogare il massimo della pena, anche se i tre reati commessi non sono gli stessi nè di uguale gravità. Si spiegano così i casi celebri e grotteschi del condannato a 26 perchè sorpreso a rubare «chocolate chip cookies», biscotti al cioccolato, in un fast food, che aveva due precedenti per spaccio e rapina. I 25 anni a Gary Ewing, che come «terzo colpo» aveva rubato una sacca di mazze da golf in un country club. I sei anni a Dewayne Williams, che aveva portato via una ripugnante pizza al salame piccante a un gruppo di ragazzini, ma era recidivo per furti in un supermercato.
Ma è soprattutto il panico da «guerra alla droga», quella guerra che la droga sta facilmente vincendo come dimostra la continua caduta dei prezzi di strada, quello che ha imbottito le carcere americane. Fra tutti i reati violenti e non violenti che da quindici anni sono i diminuzione negli Stati Uniti, sia laddove si applica la legge dei «tre colpi» sia dove il giudice mantiene la discrezionalità della pena dunque smentendo il rapporti di cause ed effetto fra le severità e la sicurezza, sono il possesso e lo spaccio di sostanza «controllate», gli ingranaggi che divorano milioni di cittadini e soprattutto di giovani di colore. Su due che entrano nella «porta girevole» delle carceri, uno ci va per reati di «droga», decuplicati in vent´anni. Persino in California, i giudici hanno ottenuto di poter tramutare la detenzione in riabilitazione, per non far esplodere gli istituti di pena (dove, tra le altre piacevolezze, il 37% dei detenuti maschi e il 42% delle femmine denuncia varie forme di violenza o di molestie sessuali gravi).
Per l´aumento della popolazione generale, che fra nascite e immigrazione vede crescere gli abitanti di circa 20 milioni all´anno dal 1980, il popolo del continente invisibile è destinato ad aumentare ancora, perchè l´età media della popolazione diminuisce e sono i giovani coloro che commettono più crimini. La prospettiva di una nuova, lunga recessione, dopo quasi 20 anni di crescita quasi ininterrotta sotto Clinton e Bush il Giovane promette di popolare ancora più l´Atlantide dietro le sbarre.
Nessun´altra nazione importante nel mondo può avvicinare il record americano di 750 detenuti ogni 100 mila persone (neonati e moribondi inclusi), non il Sudafrica, con 341 per 100 mila, l´Iran, con 222, la deprecata Cina, con 119.
Persino la Russia del neo zar Putin, che non gode nel mondo di grande stima garantista, ha 890mila carcerati, un terzo degli Stati Uniti con circa metà degli abitanti. Si calcola che nel 1776, quando le 13 colonie originarie proclamarono la loro Indipendenza dalla corona Britannica, vivessero sulle coste dell´Atlantico, 2 milioni e mezzo di coloni. Oggi sarebbero tutti in galera.

Repubblica 1.3.08
Libretto rosso
Torna in libreria il "vangelo" di Mao che avvelenò la Cina
Un best seller miracoloso
di Federico Rampini


Alcuni giornali riferirono che i medici armati delle "Citazioni" guarivano i ciechi
Nel 1979 Deng Xiaoping demolisce il libretto per la sua "influenza vasta e negativa"
In quarant´anniè stato diffuso in cinque miliardi di esemplari , commentatoe interpretato
Di pochi libri si può dire davvero, a decenni di distanza, che hanno segnato un´epoca. Questo ha tentato di cambiare il mondo e c´è quasi riuscito. Ha impresso il suo colore rosso sugli anni Sessanta e Settanta: in Cina, nei campus universitari occidentali, nelle rivoluzioni del Terzo mondo. E´ il secondo best-seller di tutti i tempi dopo la Bibbia. Si dice che in quarant´anni sia stato diffuso in cinque miliardi di esemplari. Nel solo 1967, all´apice della Rivoluzione culturale, ne vengono stampati e diffusi 350 milioni di esemplari. In quell´anno le Citazioni hanno già sprigionato tutta la loro potenza d´indottrinamento delle masse. A partire dal 16 agosto 1966 la cerchia dei fedelissimi di Mao comincia a lanciare appelli pubblici perché gli studenti affluiscano da tutto il paese verso la capitale. Si apre la nuova fase della rivoluzione comunista. Il Grande Timoniere che ha fondato la Repubblica popolare nel 1949 vuole liberarsi degli avversari interni e delle fazioni moderate. Scatena la rivolta dal basso contro gli apparati burocratici del partito, il «bombardamento del quartier generale». Saltando ogni intermediazione, scavalcando la nomenklatura, il popolo deve venire direttamente a contatto con il leader carismatico. Tra l´agosto e il novembre del ‘66, a ondate successive, sulla Piazza Tienanmen di Pechino si rovesciano adunate oceaniche per osannare il leader. Il sinologo Ross Terrill ricorda la bellezza coreografica di quelle maree umane, l´effetto scenico speciale che derivava proprio dal movimento di centinaia di migliaia di braccia che sventolavano verso il cielo il Libretto: «Agitate in aria, tutte quelle copertine rosse facevano apparire la Piazza Tienanmen come una prateria piena di farfalle».
Via via che il culto di Mao assume connotati sempre più prossimi a una religione, i poteri soprannaturali del Grande Timoniere si estendono al piccolo florilegio dei suoi pensieri. Il reporter britannico Philip Short che visse in Cina in quegli anni ricorda che al Libretto rosso vennero attribuiti veri e propri miracoli. «Alcuni giornali riferirono che dei medici armati delle Citazioni avevano guarito i ciechi e i sordomuti; che un paralitico appoggiandosi sul Libretto si era messo a camminare; che in un altro caso l´apparizione di quelle pagine coi pensieri di Mao aveva resuscitato un morto».
Il vero miracolo di questo Libretto rosso fu un altro, avvenne nei salotti e nelle assemblee studentesche dei nostri paesi: l´innamoramento di certe élites borghesi dell´Occidente per il maoismo lo trasfigurò in un testo prezioso e arcano, perfino esoterico. Raffinati intellettuali europei si esercitarono in una esegesi colta, per disvelare in ogni aforisma significati sempre più profondi, visioni lungimiranti a cui avrebbero dovuto ispirarsi le nostre società, che a quell´epoca erano ben più sviluppate della Cina. Era il mondo a rovescio. Nell´ebbrezza del maoismo occidentale un potente allucinogeno era rappresentato dalla convinzione che l´esperimento cinese fosse irriducibilmente diverso dagli altri socialismi realizzati, in particolare dal modello sovietico. Una rivoluzione dal basso, più democratica, più genuina, più spontanea. Una società dove comandavano davvero le masse, non gli apparati di partito. Che Mao usasse spesso analisi identiche a Stalin era irrilevante. Le medesime parole pronunciate da lui volevano dire «altro», per gli ammiratori occidentali. È istruttivo rileggere oggi l´Introduzione con cui la casa editrice Einaudi pubblicò in Italia la raccolta Rivoluzione e costruzione, con i testi di Mao dal 1949 al 1957. Pur uscendo nel 1979, quindi tre anni dopo la morte del leader cinese e quando molte verità scomode su di lui stavano affiorando perfino a Pechino, il testo italiano era ancora segnato da una tale venerazione, che arrivava a negare l´evidenza e il significato letterale delle parole: «Il lettore non deve essere tratto in inganno dal fatto che anche Mao usi qui, come farà del resto anche negli anni successivi, una terminologia in parte identica a quella impiegata a quel tempo nel «campo socialista». Espressioni come «centralismo democratico», «direzione del partito», «dittatura del proletariato», «economia pianificata», sono un guscio che racchiude una sostanza diversa e quasi sempre antitetica a quella di altri socialismi». In quel fascino irradiato urbi et orbi traspare la grandezza di Mao, e una delle ragioni per cui è ancora venerato dai cinesi, a cui restituì la fierezza e l´orgoglio di una potenza. Perfino Confucio e le sue dottrine non si esportarono così diffusamente.
Per illuminare le attrazioni del maoismo nella sua stagione più radicale, Zhu Xueqin evoca un parallelismo con la Rivoluzione francese. Zhu è docente universitario e fa parte della generazione dei «figli di Mao». «Molte Guardie rosse - dice - studiarono la Rivoluzione francese. I giacobini ispirarono il loro idealismo utopico. L´esempio della crudeltà giacobina e della violenza rivoluzionaria in Francia fu importante per tutti coloro che pensavano che il vecchio ordine costituito si potesse schiacciare solo con la forza. Più gli studenti erano idealisti, più erano disposti ad accettare la violenza».
Tra le vittime delle prime fiammate di violenza studentesca c´è la professoressa Bian Zhongyun, cinquantenne madre di quattro figli, linciata selvaggiamente dalle sue alunne il 5 agosto 1966 a Pechino. La storia della signora Bian è una delle più note per lo scenario in cui si svolge: un liceo «perbene» frequentato da molti rampolli di alti dirigenti comunisti, tra cui le figlie dello stesso Mao Zedong, dell´allora presidente della Repubblica Liu Shiaoqi, e di Deng Xiaoping. Nei mesi di giugno e luglio di quell´anno le sue studentesse iniziano una virulenta campagna di attacchi contro la professoressa Bian accusandola di essere una controrivoluzionaria e di non rispettare Mao. Quest´ultima accusa si basa su un «incidente» accaduto durante una delle periodiche esercitazioni antisismiche. Mentre la docente fa evacuare la sua classe dalle alunne, una ragazza le chiede se non sia egualmente importante portare in salvo il ritratto di Mao. Bian non risponde con il «livello di entusiasmo adeguato» e questo le sarà rinfacciato come una macchia infamante. Al culmine di una serie di umilianti processi pubblici il 5 agosto viene assalita e pestata a morte dalle sue alunne. Il suo corpo è abbandonato in una carriola nel cortile della scuola, ricoperto di manifesti di insulti. Dopo molte ore qualcuno porta la carriola in ospedale. Quando il marito e la figlia maggiore accorrono, trovano il cadavere tumefatto e sfigurato, reso irriconoscibile dalla violenza delle botte. Nessuno si prenderà mai la responsabilità di quella morte, che sarà archiviata come «decesso per cause ignote».
Il bilancio complessivo delle vittime della Rivoluzione culturale? Solo nelle campagne muoiono per le violenze e le esecuzioni sommarie tra i 750.000 e il milione e mezzo di persone, a seconda delle stime.
Come simbolo di un decennio da dimenticare molto in fretta, senza fare i conti con le cause e le responsabilità di quell´orrore, il Libretto rosso viene scomunicato tre anni dopo la morte di Mao. Nel 1979 sotto la leadership di Deng Xiaoping una direttiva interna del partito informa i quadri che le Citazioni «hanno avuto un´influenza vasta e negativa». Oggi lo si trova in vendita, in tutte le lingue, nelle bancarelle di souvenir e paccottiglia per turisti.

Repubblica 1.3.08
Celebrazioni / I sessant'anni della nostra carta fondamentale
Una costituzione tutta d’un pezzo
di Leopoldo Elia


Quel documento nei decenni si è consolidato, mentre il tempo ha travolto le forze politiche che avevano contribuito a scriverlo

Pubblichiamo parte del discorso che , presidente emerito della Corte costituzionale, ha pronunciato ieri durante la cerimonia per i sessant´anni della Costituzione della Repubblica italiana

l compimento del sessantennio trascorso dall´entrata in vigore della Costituzione repubblicana ad oggi suggerisce qualche riflessione sul passato e qualche proposito per il futuro. Già Madison metteva in guardia contro le frequenti revisioni del testo costituzionale, che lo avrebbero fatto apparire difettoso per troppe lacune, e notava che la Costituzione avrebbe potuto trarre beneficio da «quella venerazione che il tempo accorda ad ogni cosa» (Il Federalista, saggio n. 49).
Almeno nel caso nostro il giudizio sulla universale venerazione va limitato alla Carta che in questi decenni si è consolidata, mentre il tempo ha travolto le forze politiche che avevano contribuito a formarla insieme a componenti essenziali delle loro ideologie. Del resto già Giovanni XXIII, conversando con Vittorio Bachelet, aveva concluso: «E poi l´Italia ha una buona Costituzione». Questa duplicità di effetti tra la buona Costituzione che perdura e le strutture politiche fondatrici che scompaiono è una costante che si ripete proprio quando la continua vigenza della Carta scavalca alcune generazioni.
Cresce anche la spinta a considerare con criteri storici le vicende costituzionali nel lungo periodo che ci separa dal 1º gennaio 1948, affrontando i problemi della periodizzazione e della scelta dei materiali da utilizzare: che non possono essere solo leggi e sentenze ma sono anche gli eventi in grado di influire sulla Costituzione vivente, dall´approvazione di un ordine del giorno in sede parlamentare all´esito di una consultazione referendaria. (...)
A mero titolo esemplificativo richiamo tre diversissimi precedenti, peraltro di grande significato. Il primo è rappresentato dalla sentenza n. 1 del 1956 di questa Corte che costituisce, malgrado le chiarissime differenze, una decisione analoga alla Marbury vs Madison nella situazione italiana, caratterizzata dall´opposizione del Presidente del Consiglio dell´epoca, a mezzo dell´Avvocatura dello Stato, alla competenza della Corte a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anteriori alla entrata in vigore della Costituzione. Colpisce ancora, al di là della motivazione essenzialissima su questo tema cruciale, la volontà autoassertiva della Corte di allora espressa nella formula iniziale di considerare "fuori discussione" la competenza esclusiva della Corte a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi senza distinzione tra quelle anteriori e quelle posteriori alla Costituzione. (...)
Il secondo caso, veramente di tutt´altra natura, è il tormentato "dialogo costituzionale" che Aldo Moro propose al partito comunista di Enrico Berlinguer particolarmente nel discorso di Benevento (18 novembre 1977). Mentre prendeva atto delle dichiarazioni (anche a Mosca) del leader comunista sulla democrazia «come valore storicamente universale», Moro avanzava dubbi sulla vera sostanza di «un´originale società socialista», democraticamente fondata: a suo avviso i lineamenti di quella "autentica" società socialista rimanevano ancora indistinti poiché essi non si esprimevano in nessun modello riconosciuto ed al quale si facesse riferimento; come si configura - egli chiedeva - «la coesistenza di dati, quali quello del pluralismo sociale, della pluralità politica e i modi di rispetto della libertà in confronto alla gestione dell´economia»? Domande che corrispondono alla constatazione di Norberto Bobbio sulla mancata elaborazione in seno alla sinistra di un coerente pensiero in tema di Stato. Moro sarà poi rassicurato sulla natura ormai "costituzionale" del partito comunista in successivi colloqui con Berlinguer; ma ancora nella conversazione con Eugenio Scalfari del 18 febbraio 1978 (ma pubblicata il 14 ottobre di quell´anno), ribadendo la sua contrarietà al progetto di compromesso storico, respingerà l´idea di "società consociativa", non accettabile per l´Italia. Evidentemente, a differenza della "solidarietà nazionale", l´idea di società consociativa poteva in nuce precludere la reversibilità del potere una volta che questo fosse stato conquistato democraticamente dalla forza politica rappresentativa della classe operaia. Invece l´alternativa, nella prospettiva di Moro, non poteva essere disgiunta dall´alternanza tra partiti e schieramenti di partiti dotati di pari legittimazione. Alla fine, si può aggiungere, che, grazie anche alla forza integrativa della Costituzione, la tendenza ad includere nel circuito del governo, e non della sola rappresentanza, sarebbe prevalsa su quella ad escludere, che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda. E così lo storico Franco De Felice poté affermare che in Italia il muro di Berlino era caduto con dieci anni di anticipo.
Il terzo evento è più vicino alla nostra esperienza, anzi è appena di ieri: mi riferisco all´esito del referendum del 25-26 giugno 2006 che forse è stato troppo sbrigativamente passato agli archivi. È arbitrario, a mio avviso, pretendere di pesare il voto ostile alla revisione in rapporto ai vari temi compresi nella riforma: devolution, forma di governo, bicameralismo. Sfugge così il carattere globale della deliberazione popolare che intese, per la prima volta dopo l´entrata in vigore della Carta, confermare esplicitamente il valore della Costituzione come testo unitario. Il che non preclude emendamenti correttivi o integrativi ma induce a rifiutare l´idea di grande riforma o di "progetto organico" di revisione. D´altra parte nel corso della campagna referendaria è apparso chiaramente lo stretto collegamento tra prima e seconda parte della Costituzione: taluni squilibri, provocati, ad esempio, nelle competenze degli organi di garanzia o nell´ordinamento costituzionale della Magistratura, possono compromettere la tutela delle situazioni soggettive considerate nella prima parte.

Repubblica 1.3.08
Un romanzo sulla guerra civile
di Paolo Collo


Arriva in Italia il libro di Julio Llamazares che racconta l´epopea di un gruppo di repubblicani braccati dai franchisti. Alcuni dei quali fino agli anni Cinquanta
Si nascosero sulle montagne o nelle miniere, morendo di freddo, di fame e di malattie
Furono dimenticati persino dai parenti che preferirono non subire rappresaglie

Con la recente uscita in libreria di Luna da lupi (a cura di Paola Tomasinelli, Passigli Editori, pagg.160, euro 14,50) dello scrittore leonese Julio Llamazares (Vegamián, 1955) il lettore italiano può finalmente completare in buona parte la propria conoscenza - letteraria, s´intende - del prima, del durante, e del dopo la Guerra Civile spagnola.
In questi ultimi anni, infatti, abbiamo assistito a un deciso rifiorire di libri sull´argomento. Segnale, forse, di una sorta di sdoganamento, di chiusura con i conti del passato, di riesumazione e poi di definitiva sepoltura di una terrificante guerra civile e internazionale al contempo.
E´ il caso del più famoso di tutti, quel Soldati di Salamina, di Javier Cercas, che - affrontando il problema del ricordo e della rimozione o meno della memoria - tanto ha fatto discutere sia a destra e sia a sinistra; o delle «microstorie» superbamente raccontate da Antonio Soler in Il nome che ora dico, da Manuel Rivas con La lingua delle farfalle (ed è da questo libro che è stato tratto il film sicuramente più bello), da Alberto Méndez nei suoi racconti I girasoli ciechi, da Manuel Vázquez Montalbán de Il pianista, da Ignacio Martínez de Pisón in Morte di un traduttore, e, ultimamente, dal recente vincitore del Grinzane-Cavour: Bernardo Atxaga nel suo splendido Il libro di mio fratello e poi ancora tanti altri, tra cui Javier Marías o Antonio Munoz Molina.
Ma anche da parte italiana la lettura - o la rilettura - di quegli anni è passata per i più diversi percorsi letterari: dal Ricordo della Basca di Antonio Delfini a Michele a Guadalajara di Francesco Jovine, così come dal bellissimo L´antimonio di Leonardo Sciascia fino al più recente e altrettanto notevole Tempo perso di Bruno Arpaia, e poi ancora i testi di Fabrizia Ramondino, di Massimo Carlotto, di Carlo Lucarelli, o di Roberto Baravalle. Per un pubblico particolarmente interessato al tema va ricordata l´uscita - a quasi cinquant´anni dalla pubblicazione einaudiana del saggio di Aldo Garosci sugli intellettuali e la Guerra di Spagna - del lavoro di Luciano Curreri, un giovane studioso italiano che insegna all´Università di Liegi: quel Le farfalle di Madrid (Bulzoni, 2007) che presto verrà pubblicato anche in Spagna (cosa non certo da poco).
Questa la doverosa premessa per poter inquadrare un libro straordinario, e cioè il breve romanzo «storico» che Julio Llamazares scrisse nell´ormai lontano 1985, e dal quale venne poi tratta una fedele versione cinematografica per la regia di Julio Sánchez Valdez.
E una volta tanto l´abusato aggettivo «straordinario» è sensatamente scritto a proposito. Perché questo è un libro decisamente fuori del comune. Per come è scritto: senza una parola di troppo; senza autocompiacimento; ricco di una tensione emotiva che non tende mai a mollare, come in un noir ben riuscito, e che lascia il lettore col fiato sospeso dalla prima all´ultima riga.
Straordinario per la storia che racconta: nessuno ci aveva mai narrato le vicende di quei soldati repubblicani che, nell´autunno del 1937, all´indomani del crollo del fronte delle Asturie, si ritrovarono tanto nell´impossibilità di fuggire via mare quanto di raggiungere la frontiera francese: e vissero per mesi, alcuni per anni (addirittura fino agli anni Cinquanta) tra quelle montagne, nascondendosi nelle miniere abbandonate, morendo di freddo, di fame, di malattie, torturati e poi fucilati dalla Guardia Civil. Come lupi, appunto. Feroci e affamati. In piccoli «branchi» di disperati, rifiutati anche dai propri parenti - anche loro vittime della guerra, della povertà e della dittatura - che preferivano dimenticarli e piangerli da morti piuttosto di subire le rappresaglie della spietata repressione di Franco.
Repressione che, ora s´è definitivamente accertato, fu un vero e proprio massacro, una macelleria con decine di migliaia di vittime fatte sparire e poi gettate in quelle fosse comuni - le «fosas de Franco» - che stanno venendo alla luce in questi ultimi anni (e a tale proposito è un peccato che non sia stato tradotto il brillante saggio-inchiesta di Emilio Silva e Santiago Macías pubblicato in Spagna nel 2003 dalle edizioni Temas de Hoy): altro che dittatore timorato di Dio e sorta di buon papà di tutti gli spagnoli!
Un libro, quello di Llamazares, straordinario per l´intelligenza di un autore - che è anche poeta, sceneggiatore e giornalista - il quale riesce a fondere all´interno di questo suo primo romanzo - scritto a soli trent´anni - una sorta di iperrealisno antropologico che non lascia nulla al caso o a una visione romantica e celebrativa di questa specie di guerra partigiana combattuta all´insaputa dei più.
Intelligenza che poi ritroveremo in quel suo altro «tremendissimo» romanzo dal titolo La pioggia gialla (La lluvia amarilla) - pluripremiato in Italia e in tutto il mondo - pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993 che raccontava la biografia dell´ultimo abitante (ma forse anche lui è un fantasma, come i protagonisti di Pedro Páramo, il romanzo capolavoro del messicano Juan Rulfo) di un paese nei Pirenei aragonesi che finisce sommerso dalle acque di una diga.
Un viaggio nel tempo e nella memoria, nel fango e nella neve, nella degradazione umana, nell´oscurità delle miniere, dei nascondigli nei fienili e delle notti senza luna, in una natura che graffia e che infetta, che ghiaccia d´inverno e che scotta d´estate, umida e malsana, dove non c´è più spazio per l´amore - che si può solo rubare - e per l´amicizia - sempre pericolosa.
Presenze estranee e sconosciute, come un lupo in mezzo a un gregge. Ma anche una storia vera raccontata attraverso la ricostruzione di quelle fonti orali che l´Autore udiva affascinato da bambino. Come quella di Gregorio García Díaz, «Gorete», il leggendario soldato delle esercito repubblicano che visse nascosto in montagna, e completamente solo, per undici anni, tre mesi e cinque giorni. E della Guerra Civile, infatti, di quella scoppiata nel ‘36, si parla poco, solo qualche cenno, qualche nebuloso flash-back, come se Llamazares avesse preferito concentrarsi unicamente sulle vite dei suoi quattro personaggi, sul loro progressivo imbarbarimento, sulla loro inevitabile ferinità.
Da quelle parti, a quei tempi, cacciavano ancora i lupi come gli uomini primitivi: «Quando li vedono suonano il corno e tutti, uomini donne e bambini, accorrono a partecipare alla battuta. Io l´ho visto una volta. Nessuno può portare armi, solo bastoni e barattoli. La strategia sta nell´accerchiare il lupo e spingerlo piano piano fino a un precipizio alla fine del quale c´è quello che chiamano chorco: una fossa profonda, nascosta dai rami. Quando il lupo si avvicina al precipizio, gli uomini cominciano a corrergli dietro gridando e agitando i bastoni e le donne e i bambini escono da dietro gli alberi facendo un gran frastuono con le latte. Il lupo, spaventato, scappa in avanti e cade nella trappola. Lo prendono vivo e, nei giorni seguenti, lo portano in giro per i villaggi perché la gente lo insulti e gli sputi addosso prima di ammazzarlo».
Di Julio Llamazares è stata anche tradotta un´antologia di poesie «epiche», Memoria della neve (Amos Edizioni), un libro dal titolo Tras-os-Montes, che narra di un suo viaggio nella regione più povera e dimenticata del Portogallo (Feltrinelli), e una raccolta di racconti, A metà di nessuna parte, di prossima pubblicazione sempre con Passigli.

Corriere della Sera 1.3.08
Avanguardie Nell'antologia «La donna, la libertà, l'amore» discussioni e scritti sul principio del piacere
Il Kamasutra dei surrealisti
Le pagelle sull'erotismo di André Breton e del suo circolo
di Pierluigi Panza


Amici del bar sport, e voi, liceali che commentate come sono fatte le compagne di classe, non siete i primi e non siete i soli a passare le serate così: i celebrati poeti surrealisti— sì, quelli messi sul piedistallo a scuola alla voce «Avanguardie artistiche» — passavano il tempo come voi. Ovvero parlando di orgasmo, onanismo, omosessualità, lato A e lato B, posizioni predilette, senso della conquista e dando i voti a cosa conta di più e di meno in una donna (anticipiamo un risultato: autoritarismo e gelosia sono agli ultimi posti).
Nella casa di Parigi di André Breton, come mostrano alcuni testi pubblicati nell'antologia
La donna, la libertà, l'amore. Una antologia del surrealismo di Paola Dècina Lombardi (Mondadori, pp. 632, e 14) e come mostra il documento inedito qui a fianco (proveniente dagli Archives du surrealisme), tra la fine del 1927 e il 31 gennaio del 1928 si svolsero sedute di autoanalisi collettiva dove si faceva anche il gioco della verità. In una delle sedute, André Breton, con sua moglie Simone Breton, Benjamin Péret, Robert Desnos, Max Morise e Paul Éluard pensarono di mettere sotto esame «La Femme», assegnando da -20 a + 20 punti ai suoi diversi caratteri.
Éluard tracciò su una pagina bianca orizzontalmente i nomi dei partecipanti e verticalmente la lista delle caratteristiche. Dai seni ai capelli, dall'andatura all'altezza..., una cinquantina di voci che coprono un ampio ventaglio dell'eterno femminino. Il catalogo, da votare, fu questo: seni, capelli, bocca, occhi, denti, gambe, ventre, braccia, peli, lingua, sesso, natiche, mani, orecchio, piedi, nuca, collo, anche, andatura, sonno, modo di svestirsi (non vestirsi!), pudore, voce, riso, sguardo, naso, pulizia, cortesia, volgarità, cattiveria, bontà, perversione, rigore, odore, profumi, nome, silenzio durante l'amore, iniziativa, giovinezza, vecchiaia, tenerezza, gelosia, libertà mentale, altezza, eleganza, estraneità, autoritarismo.
Ne uscirono voti abbastanza omogenei: occhi, sguardo, seni, collo, mani ebbero la meglio sul lato B. Il modo di svestirsi, la pulizia, l'iniziativa risultarono più apprezzati della voce e dell'altezza. E mentre l'eleganza ebbe la sua parte, le belle maniere, sinonimo d'ipocrisia borghese, non vennero apprezzate: voto zero. Ma il voto più basso, -20, andò al pudore, alla gelosia, al silenzio nel fare l'amore e alla volgarità; mentre il più alto, +20, andò alla libertà mentale, alla perversità e alla stravaganza. Insomma, già allora — intellettuali o meno — eravamo alle solite: nell'amore, meglio le cattive che le brave ragazze!
Dal documento si evince che la partecipazione di Simone Breton si bloccò alla settima voce del gioco. Poi lasciò in bianco la sua casella: si trattava, scriverà, di «un gioco assai idiota, benché sul momento divertente ».
Su ciò che caratterizza l'amour fou, Breton è complessivamente l'unico surrealista, o quasi, a credere nella monogamia; e sul suo rifiuto della pederastia si trova quasi tutti contro. E non per difesa di parte, visto che l'unico omosessuale dichiarato che frequentava il gruppo era René Crevel. Nella seduta del 31 gennaio 1928 in diversi ammettono la poligamia. Domanda infatti Péret agli altri: «Si può ammettere la possibilità di fare l'amore con una donna se se ne ama un'altra?». «Molto probabile», risponde Marcel Duhamel. «Ne sono capace, a un'unica condizione: che l'atto episodico vada a iscriversi semplicemente nel corso di un'avventura più generale, non tanto a causa mia quanto a causa della donna che amo», aggiunge Louis Aragon. «La cosa non mi interessa» è la risposta di Jacques Baron.
«Le dodici sedute — afferma Paola Dècina Lombardi — testimoniano quanto i surrealisti, guardando alle nozioni freudiane di principio del piacere e principio di realtà, tentino di liberarsi da inibizioni e tabù interrogandosi sui termini della morale sessuale ».
Il tema venne portato avanti da Breton ed Éluard nel 1930 quando pubblicarono L'immaculée conception, blasfemo kamasutra surrealista che dà nome a una lunga gamma di posizioni: «Quando la donna è sul dorso e l'uomo è steso su di lei, si ha la cediglia...
Quando l'uomo e la sua amante sono distesi di fianco e si osservano, si ha il parabrezza...
Quando l'uomo e la donna sono stesi sul fianco, e soltanto il dorso della donna si lascia osservare, si ha La palude del diavolo... ». Insomma, posizioni su posizioni (32 in tutto, l'ultima, la più complessa, è
l'aurora boreale) che nemmeno i dépliant illustrativi dei più accreditati night club riescono ad esibire.
Eppure, anche se l'amore inteso come eros trasgressivo, humour e gioco sembrano farla da padroni, dal vecchio amore romantico alla Tristano e Isotta neppure i surrealisti e i loro eredi riuscirono del tutto a separarsi. Anzi, l'amore come la poesia appaiono come l'ultima testimonianza dell'individuo di fronte al nulla. «La poesia», scriveva Breton, «si fa in un letto come l'amore» e «le lenzuola sfatte son l'aurora delle cose». Una ricetta applicata da Jacques Prévert, il poeta degli innamorati, che si sono scritti le parole del loro amore con le parole di Prévert: «Questo amore / Così violento / Così fragile / Così tenero / Così disperato. / Questo amore bello come il giorno / Cattivo come il tempo...». Insomma l'amore che sorge improvviso, ci tende la mano, ci porta in salvo.

Liberazione 1.3.08
Ecco che cosa è lo sfruttamento
Il peggior peccato, diceva un papa...
di Fausto Bertinotti

I morti sul lavoro sono tutti uguali, uguali la tragedia, il dolore e la rabbia. Tutte le morti sul lavoro suscitano un'indignazione perché sono intollerabili anche perché rinviano ad una causa primigenia. Che, nella nostra società, è tornata a farsi così pesante: lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Papa Giovanni XXIII lo definì il più grande peccato dell'umanità. E tanto più ugualmente intollerabili risultano perché non si può dire che, in questo ultimo quarto di secolo, il lavoro sia stato oggetto di riconoscimento e di tutela. Ma quando a Genova, in un santuario del movimento operaio, come la CULMV, muore il portuale Fabrizio Canonero, figlio di un padre che pure morì sulle banchine del porto quando Fabrizio ancora era un bambino, allora bisogna proprio dire, tutti insieme, basta. Ognuno batta un colpo, come a dire che ci siamo anche noi in questa lotta per la vita.
Il governo convochi immediatamente il Consiglio dei Ministri per varare i decreti attuativi del testo unico sulla sicurezza sul lavoro. Le forze politiche presenti nella campagna elettorale non comincino nessuna iniziativa in questi giorni senza dedicarvi la prima parte ai morti sul lavoro e specifichino con quali proposte combattere questa terribile piaga sociale.
La televisione pubblica mandi in onda, in prima serata, il film "Morire di lavoro" fatto solo di testimonianze dirette e sconvolgenti di donne e di uomini colpiti dagli infortuni, affinché nessuno più possa non vedere e tacere.
Lo sciopero proclamato dalle organizzazioni sindacali in tutti i porti italiani segni l'avvio di una nuova mobilitazione generale dei lavoratori, delle forze sociali e politiche della cultura italiana. Domani non sia più come ieri.

Liberazione 1.3.08
«Neanche Ingrao ci capì. E il '68 si spense in fretta»
Parla Franco Russo, il leader del movimento studentesco romano
Aveva 23 anni, era stato espulso dal Pci, e non sopportava l'idcea di autorità

«Valeva per tutti e per tutto. Nei rapporti familiari, così come nelle fabbriche. Dove gli operai contestavano la legittimità di una gerarchia costruita su una divisione del lavoro che già non esisteva più: c'era la catena, si faceva tutti lo stesso lavoro e allora perché accettare un'autorità semplicemente imposta dall'alto?».
E ancora: «C'era antiautoritarismo, c'era il rifiuto alla legittimazione di una gerarchia imposta dall'esterno, anche quando si diceva di no alle commissione interne. Si rifiutava, insomma, qualsiasi cosa fosse esterna al proprio agire, fosse diversa dalla scelta di rappresentarsi direttamente».
E questo filo tiene insieme anche gli studenti. «Ma qual è l'autorevolezza che vi legittima come autorità? Perché, voi professori, salite in cattedra a raccontarci cose che non sono vere? E questo valeva per e contro tutti i professori. Anche quelli che si dicevano di sinistra: valeva per Romeo come per Colletti, Sapegno, Asor Rosa».
Oggi qualcuno - perché non fare nomi? uno su tutti: Walter Veltroni - ironizza sugli strumenti che quel movimento scelse per le sue battaglie. «Lo so, leggo anch'ìo del candidato premier dei democratici che irride agli anni in cui si chiedeva il "voto unico". E dice che è arrivato, invece, il momento di esaltare la meritocrazia. A parte che credo che occorra discutere su cosa sia e cosa significhi anche oggi il merito, quell'esperienza, l'obiettivo del voto uguale per tutti era dentro quella logica antiautoritaria. Tu dici che vuoi premiare il merito? Chi è più bravo? Ma in realtà ci avete dato una scuola che è già manomessa all'origine: dove il ricco, il figlio del ricco, sarà per forza più bravo, avrà più tempo per studiare. Potrà sapere di più. Ecco cos'era il "voto politico", la denuncia di una scuola, di un'università di classe, gerarchica. La denuncia di una falsa meritocrazia che faceva il movimento, che faceva Don Milani».
Contestazione delle gerarchie. Che ognuno faceva nel suo ambito. «Sì, perché gli studenti occupano gli atenei, ma prima, pochi mesi prima, i giovani e gli operai avevano abbattuto a Valdagno la statua dell'imprenditore buono. Ed aveva la stesso valore simbolico». Lo stesso identico che avranno la nascita di psichiatria democratica o di magistratura democratica: «Anche nelle associazioni dei professionisti si comprende che occorre abbattere i pilastri del sapere costituito, si mette in discussione come si esercita il proprio lavoro».
E si prova a mettere in discussione le gerarchie prefabbricate anche nell'attività politica: si innova- si prova ad innovare - il linguaggio della politica, si prova a ragionare sul «fatto che non sta scritto da nessuna parte che uno deve scrivere un volantino e un altro distribuirlo». Si prova a ragionare sul fatto che non ha senso che c'è chi «indice una manifestazione» e un altro che a quella manifestazione «deve solo andarci». Deve solo fare numero. Ma, appunto: ci si prova e basta. Perché la "critica alla politica personalizzata, alla politica fatta solo di leadership", la critica al professionismo della politica durerà il tempo di un battito d'ali. Le innovazioni nel campo semantico, nel linguaggio, nel modo di disegnare le gerarchie - nei partiti, nei movimenti e giù, fino alle assemblee - saranno brevissime. Poco dopo, si riproporrà tutto il vecchio armamentario. E tutti lo adotteranno. «Perché fa un po' impressione - continua Franco Russo - a distanza di 40 anni, ricordarsi che le nuove organizzazioni, a cominciare dal Manifesto, non trovando nulla a disposizione cui poter attingere, decisero di voltare lo sguardo all'indietro. Alle organizzazioni marxiste-leniniste, addirittura - è drammatico ma bisogna dirlo - c'era chi si rivolse alle strutture staliniste».
Franco Russo, insomma, disegna un movimento antiautoritario "ingabbiato" dentro logiche autoritarie. O comunque gerarchiche. «Con un Pci che non capì nulla», aggiunge. Non capì nulla Amendola - da sempre il leader della destra comunista - che per primo bollò come "ribelismo" piccolo borghese l'ondata di lotte studentesche e giovanili. Un'analisi che avrebbe segnato una rottura. In qualche modo inevitabile. «Sì, inevitabile è la parola giusta. Perché un'intera generazione che si rivolta contro l'assetto del potere, contro i valori e i costumi della società, non è una categoria che possa essere compresa se si usano gli strumenti interpretativi del marxismo». Anche del marxismo nella variante del Pci. La richiesta di democrazia diretta, la richiesta di un sapere che forse ingenuamente rifiuta tutto il sapere come era stato codificato fino ad allora, non potevano essere capiti dal partito comunista. Dalla sua cultura, dai suoi quadri. «Un partito che per esempio era fiero, faceva vanto dei successi professionali dei suoi militanti operai. Detentori di un "sapere" che li avrebbe dovuti rendere irreprensibili anche agli occhi dei padroni. Ma quei giovani contestavano appunto quelle gerarchie, anche quelle costruite sulle capacità professionali. No, il Pci non poteva capire».
O meglio: una chance ci sarebbe stata. «E non sto parlando del Manifesto. Un gruppo che appunto adottò pratiche e tipologia d'organizzazione attingendo alla storia antichissima, già vecchia in quegli anni, del movimento comunista. No, penso che davvero si sarebbe potuta operare una frattura dentro il Pci». Se una parte dei dirigenti di quel partito - che per cultura, modi di fare, modi di concepire la lotta politica - erano più "aperti" avessero scelto di confrontarsi con le ragioni del '68. Con le ragioni di chi occupava le università, poi le scuole e infine le fabbriche. Stai parlando di Pietro Ingrao? «Non ha molto senso fare nomi, quarant'anni dopo. Ma è ovvio che penso a quei dirigenti. E ti dico di più: un loro intervento, uno sforzo da parte loro di comprensione delle straordinarie novità che mettevano in discussione magari principi teorici ma immettevano enormi potenzialità, avrebbe probabilmente attenuato alcune spinte irrazionali. Che già nel '68 cominciavano a manifestarsi».
Comunque, è andata così. Ma davvero non resta nulla? «Quell'anno, anche dopo l'espulsione del Pci - avvenuta il 13 novembre del '67 per l'esattezza- noi facevamo davvero politica. Nel comitato antimperialista sulla Tiburtina, per esempio. Lì, c'era la Fgci, il Psiup ma c'erano soprattutto tanti ragazzi senza tessere. Tanti ragazzi che non avevano avuto mai a che fare col Pci. Bernocchi, per dirtene uno. Quella storia, quella piccola grande storia ci ha insegnato che esistono consapevolezze, passioni, scelte di militanza che non sono tutte uguali. Ma tutte devono avere la stessa dignità. Se ci pensi è un valore che vale anche per l'oggi». Se ci si pensa è la logica inaugurata dai Social Forum. E ancora: «Per un breve periodo 40 anni fa, riuscimmo davvero a disegnare una politica senza personalizzazioni, senza enfasi sulla leadership. Riuscimmo a sperimentare pratiche e modi nuovi di far politica. Lì abbiamo imparato che la lotta, la lotta di classe, non era tutta scritta nei libri. Ma è un discorso che ancora molti oggi, a sinistra, stentano a capire...».

Liberazione 1.3.08
E' la sensibilità di comprendere e interpretare ciò che non può essere detto con le parole
La parola chiave nel lessico '68:
coscienza. Di classe e sociale
di Franco Berardi Bifo

Coscienza è una parola chiave nel lessico del '68.
Coscienza sociale, coscienza di classe, ma anche coscienza sensibile della sofferenza altrui e del piacere altrui. E infine coscienza storica: coscienza della storia che si invera hegelianamente, attraverso l'azione consapevole.
L'essere sociale determina la coscienza, aveva detto Karl Marx. Ma con l'intellettualizzazione dei processi lavorativi l'essere sociale diviene tutt'uno con il processo intellettuale tecnico e scientifico, e la coscienza diventa parte dell'essere sociale. Hans Jurgen Krahl, che del '68 tedesco fu uno dei teorici più interessanti, riformula la questione della coscienza, sottraendola a una certa evanescenza che questa parola aveva nella sfera del pensiero idealistico. Krahl collega la coscienza all'intelletto generale, al sapere produttivo di cui è portatore il nuovo proletariato che nasce dalle lotte studentesche: il lavoro intellettuale non è più separato dal processo di produzione di valore, anzi ne diviene l'anima. Di conseguenza la coscienza sociale nasce all'interno dello stesso processo di lavoro intellettuale.
Il concetto di coscienza di classe indica comprensione collettiva dello sfruttamento e rovesciamento della cooperazione produttiva: rifiuto del lavoro, autonomia, trasformazione, collaborazione sovversiva, egualitarismo dell'amicizia, liberazione dallo sfruttamento.
Nel lessico del movimento la parola coscienza significa anche sensibilità, cioè coscienza dell'altro.
La sensibilità è facoltà di comprendere e interpretare ciò che non può essere detto con le parole, ed in essa si fonda la coscienza estetica (o erotica) da cui il '68 trasse la sua energia fondamentale.
Con la parola solidarietà ci si riferisce a un aspetto particolare dell'empatia: non la solidarietà della volontà, dei buoni sentimenti, o della militanza, ma la simpatia fra corpi che abitano comunemente uno spazio urbano, sociale, mentale.
In questa accezione della parola coscienza convergevano negli anni Sessanta influenze culturali di tipo diverso: non solo la cultura comunista, ma anche la cultura cristiana dell'amore, l'influenza buddista (che nel '68 americano agì potentemente) della Grande Compassione, ovvero della continuità corporea e spirituale tra i diecimila esseri. Al di là delle diverse ideologie strategie affiliazioni, l'elemento comune alla cultura del '68 fu l'immediatezza etica della condivisione. Il dolore dell'altro, per quanto lontano e diverso, era presente, vicino e insopportabile.
Giustamente Mc Luhan afferma che il '68 è il primo movimento dell'era televisiva: la prima generazione che vide il mondo attraverso lo schermo del televisore non era ancora assuefatta al flusso videoelettronico, e non confondeva ancora l'immagine con la simulazione. La foto dei bambini vietnamiti bruciati dal napalm scatenava una reazione etica collettiva, il bisogno di agire collettivamente perché quel dolore finisse. La rivolta era reazione immediata al sopruso patito dall'altro.
Coscienza significa anche condivisione sensibile: le architetture leggere della felicità collettiva sono fondate sulla consapevolezza che il piacere del mio corpo è possibile solo quando i corpi che lo circondano provano vibrazioni simili di piacere. La coscienza erotica anima la cultura hippy: una cultura della sensibilità planetaria, del piacere diffuso che dissolve gli ostacoli sociali e culturali che incontra sulla sua strada. La politicizzazione di massa che culminò nell'esplosione del movimento fu il prodotto di questa percezione acutissima della vicinanza degli altri.
Vi è poi una terza accezione della parola coscienza, che potremmo definire storico-dialettica: su questa si fonda la dimensione etica e l'agire politico di quel movimento. Qui c'è un punto di slittamento che produce l'autoinganno ideologico per cui una parte dell'intellettualità sessantottina si è identificata con il potere, e se ne è fatta strumento cinico.
Il '68 fondò l'etica dell'azione su una certezza di origine storicista e idealista, la certezza di un futuro dialetticamente necessario. La generazione del '68 credette nella promessa di un realizzarsi necessario e progressivo della Ragione, e fece dipendere il suo impegno etico da quella certezza: che la classe operaia è destinata a liberarsi dall'oppressione del capitale, l'alienazione è destinata a scomparire nell'uomo nuovo, il comunismo è destinato a realizzarsi come superamento e abolizione del presente. L'azione fu motivata dalla sua destinazione storica: poiché chi ha ragione è destinato a vincere, dunque chi vince ha ragione.
Il ceto politico nato dal '68 assimilò essenzialmente questo dispositivo dialettico, respingendo sullo sfondo le altre dimensioni della coscienza, quella sociale e quella sensibile, che pure avevano sorretto la sua emergenza, la sua immediatezza esistenziale. E quando, contrariamente alla promessa dialettica, nel conflitto sociale di fine secolo apparve chiaro che non la classe operaia, ma il capitalismo e la guerra erano i vincitori della storia, almeno nella sfera temporale della nostra generazione, ecco allora che quel ceto politico, nella sua maggioranza, si sottomise al potere perché solo così poteva trovare un senso alla propria vita ed alla propria azione, avendo introiettato l'identificazione tra ragione e realtà, tra senso e potere.
La sottomissione della sfera etica alla forza della storia produsse il cinismo di buona parte del ceto politico formatosi a partire dal '68. Incapace di pensare l'etica in una dimensione indipendente dalla storia, incapace di pensare in termini di autonomia e di estraneità, il ceto politico nato dal '68 nella sua maggioranza preferì immolare la propria esistenza, la propria sensibilità, la propria bellezza etica ed estetica sull'altare della storia intesa come storia del potere, in nome di un'idea della dialettica storica di derivazione hegeliana. Dato che la ragione è destinata a vincere, allora chi vince ha ragione.
Guardiamo la biografia di coloro che dopo l'esperienza dei movimenti si sono convertiti in ceto politico e sono passati armi e bagagli dalla parte degli oppressori. Costoro, nella loro grande maggioranza, si identificarono con il comunismo totalitario fin quando questo pareva destinato ad espandersi e a vincere. Poi repentinamente nel giro di un decennio (gli anni '80), seguirono la curva evolutiva che li portati a divenire apologeti e gestori del capitalismo vincente.

venerdì 29 febbraio 2008

l’Unità 29.2.08
Giordano: il vero voto utile è quello per la Sinistra Arcobaleno
Il segretario di Rifondazione: oggi bisogna scegliere. Noi difendiamo gli interessi dei lavoratori, stiamo dalla loro parte
di Simone Collini


«LA SFIDA è a chi rappresenta meglio l’alternativa di società», dice il segretario del Prc Franco Giordano. «Noi non proponiamo il “ma anche”, ma l’“o-o”, perché
oggi bisogna scegliere da che parte stare».
Sicuri che sia la strategia giusta, visto quello che dicono i sondaggi?
«I sondaggi ci dicono che la Sinistra arcobaleno è, proporzionalmente, quella che registra la più alta percentuale di voto tra i giovani, e che quindi è quella più proiettata nel futuro».
Dicono anche che possono aspirare al governo Pd e Pdl, da cui la questione del voto utile.
«Il vero voto utile, e necessario, è quello per la Sinistra arcobaleno, perché difende gli interessi del mondo del lavoro e contribuisce a ricostruire una presenza adeguata della sinistra in Italia. Inoltre, tanta più forza avremo tanto più sarà difficile determinare le condizioni di una Grande coalizione».
Veltroni ha più volte detto di non essere interessato.
«Il tema potrebbe riprodursi indipendentemente dalle soggettività, perché la crisi americana, quella finanziaria e dei prodotti energetici, possono spingere forze molto rappresentate nel Pd, presenti anche in lista come l’ex presidente dei giovani industriali Colaninno, a chiedere un governo di larghe intese».
Criticate ancora la presenza di imprenditori nel Pd? Veltroni vi ha ricordato che non siamo nel ‘53.
«Lo sappiamo benissimo che siamo nel 2008. Come sappiamo che oggi in Italia ci sono due milioni e settecentomila precari, tre milioni e mezzo di lavoratori in nero, non so quanti lavori atipici. Noi proponiamo che dopo 36 mesi di lavoro atipico si debba passare all’assunzione a tempo indeterminato. La Confindustria ci ha già detto di no. Che cosa sceglie il Pd? Lo sappiamo benissimo che non siamo nel ‘53, che i diritti civili sono andati avanti in tutta Europa. Noi proponiamo il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto di qualunque orientamento sessuale siano, noi siamo pronti a modificare quella legge medievale che offende la dignità delle donne e la loro autonomia che si chiama legge 40. Che cosa fa il Pd? Noi siamo pronti a dare un salario sociale ai giovani, a intervenire con detrazioni fiscali sul lavoro dipendente, ad attuare il recupero del fiscal drag».
I soldi per farlo dove pensate di prenderli?
«Le risorse si possono trovare attraverso un’operazione di redistribuzione sociale, con una seria politica contro l’evasione fiscale e con l’armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie ai livelli europei».
Ci saranno in Parlamento gruppi unitari della Sinistra arcobaleno?
«Questo è sicuro. Ma aggiungo che questo soggetto unitario e plurale non deve vivere solo in Parlamento e non deve essere la somma di forze politiche».
Lei e i leader di Pdci, Verdi e Sd avete scritto una lettera alla Vigilanza Rai per denunciare il black out informativo delle forze che non siano Pd e Pdl. Eppure Bertinotti è il candidato premier più presente in tv.
«A parte che Bertinotti è l’unico presente, mentre del Pd sono in tanti. In discussione non è qualche secondo in più in un pastone televisivo o una riga in più su un giornale. In discussione è la forma della democrazia in questo paese, perché c’è un tentativo di mutilazione in contrasto con la legge e che non tiene conto della pluralità delle culture della società italiana».
Il motivo, secondo lei?
«Un vizio antico, un meccanismo di intolleranza verso qualsiasi cosa si muova a sinistra».
Ancora una polemica col Pd?
«Nessuna polemica. Però mi viene da sorridere quando sento che ognuno rinfaccia all’altro di copiare il proprio programma. Sicuramente a nessuno verrà in mente di dire che il programma della Sinistra arcobaleno è copiato».
Il fatto che la destra dica che quello del Pd è copiato non vuol dire che sia vero, non crede?
«Pd e Pdl offrono ricette diverse senza proporre un’idea di alternativa della società. E poi ho sentito una regressione un po’ inquietante sul tema del contrasto alla pedofilia. Dobbiamo essere molto determinati e molto fermi, però arrivare alla castrazione chimica... il “ma anche” non può arrivare alla tortura, ma democratica»

l’Unità 29.2.08
Civiltà Cattolica. La rivista: la scelta di presentarsi da solo poi è stata seguita dal centrodestra
Il fatto nuovo è il Pd. Lo dicono i gesuiti
di Roberto Monteforte


«Il fatto nuovo delle prossime elezioni è costituito dalla scelta del Partito democratico di presentarsi da solo rompendo l'alleanza dell'Unione, una mossa che ha costretto anche il centrodestra a formare un'unica lista anche se per ora non un partito». È l’importante riconoscimento della prestigiosa rivista dei Gesuiti, la «Civiltà Cattolica» alla scelta del leader del Pd, Walter Veltroni che, anche senza l’auspicata riforma elettorale, ha messo in moto tutto il quadro politico. «La novità delle prossime elezioni - si legge nella nota dell'editorialista politico padre Michele Simone - è costituita dalla decisione del Partito democratico di presentarsi da solo agli elettori sciogliendo la coalizione dell'Unione che lo vedeva alleato con i partiti di sinistra (Rifondazione comunista, sinistra democratica, Comunisti italiani e Verdi), i quali a loro volta si presentano alle elezioni nella lista unitaria detta Sinistra arcobaleno». «La nascita del Partito democratico e la decisione di presentarsi con un proprio programma - si riconosce - ha, in un certo senso, “costretto” il centrodestra a formare anch'esso una lista unitaria, almeno per ora non un partito - come invece hanno fatto i Democratici di sinistra e la Margherita confluendo nel nuovo Partito democratico - il Popolo delle libertà, nella quale sono presenti Forza Italia, An e un numero ancora imprecisato di esponenti di piccoli partiti, lista alleata in coalizione con la Lega nord». Un quadro comunque ancora negativamente segnato dagli effetti perversi dell’attuale sistema elettorale con il suo premio nazionale di maggioranza per la Camera e con un premio regionale al Senato. Quanto questo pesi negativamente lo sottolinea con convinzione padre Simone dando spazio nella sua ricostruzione alla cronaca politica della crisi con la decisione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano di conferire l’incarico al presidente del Senato, Franco Marini, con il mandato di verificare gli spazi per la formazione di un governo che modificasse la legge elettorale, raccogliendo la non disponibilità del centrodestra. Chiede tempo l’articolista per esprimere un giudizio ulteriore. Il nuovo panorama politico sarà chiaro - afferma - «nel momento in cui saranno depositate ufficialmente le liste elettorali». Vi è da capire cosa avverrà al centro dello schieramento politico, area affollata da forze come l’Udc e la Rosa Bianca, che aspirano a intercettare il voto cattolico e dalla «lista contro l’aborto» di Giuliano Ferrara. Per dire la sua vuole conoscere meglio «schieramenti e programmi».

l’Unità 29.2.08
Ferrara ti sfido
di Paolo Flores d’Arcais


Giuliano Ferrara va ripetendo in tutte le salse e in tutti i luoghi che sull’aborto «i progressisti non accettano il confronto».
La mendace affermazione campeggia ormai da giorni in apertura del sito del Foglio. Eppure è vero esattamente il contrario.
È Giuliano Ferrara che si sottrae al confronto, proprio con quelle posizioni che giudica di estremismo libertario, posizioni che rivendicano l’autonomia della donna nella decisione sulla propria gravidanza (autos-nomos: darsi da sé la legge, ciò che Giuliano sulla questione aborto considera un abominio) e che dunque, a suo dire, non avrebbero argomenti razionali ma solo pregiudizi e furori ideologici.
Questi argomenti, invece, dettagliati sotto ogni profilo, clinico-scientifico, giuridico, etico, umano-esistenziale, costituiscono il cuore del numero speciale di MicroMega dedicato a «Il Papa oscurantista: contro le donne, contro la scienza» in edicola da oggi. Invitiamo perciò qui pubblicamente Giuliano Ferrara (o se preferisce, visto i toni bellicosi della sua crociata, «lo sfidiamo») ad accettarlo davvero quel confronto razionale, per argomenti, che invece paventa e il cui timore, secondo il ben noto meccanismo psicoanalitico della proiezione, attribuisce all’opinione avversa.
Lo invitiamo (o sfidiamo) a un confronto pubblico in un teatro o in una tv, quando e dove vorrà, secondo regole che assicurino perfetta simmetria ai contendenti nella possibilità di proporre razionalità di argomenti, e non il prevalere prevaricatorio della sonorità delle corde vocali (come accade in troppi talk show).
Siamo certi che Giuliano Ferrara non accetterà. Ma - poiché vogliamo restare tetragoni nel nostro pregiudizio che anche le posizioni più aberranti siano in buonafede - preferiamo dire che siamo quasi certi che non accetterà. Vogliamo sperare di sbagliarci, insomma, e che Giuliano non si vorrà sottrarre a un confronto dove non basterà urlare dogmi (l’embrione è una persona umana fin dal momento del concepimento) che fanno a pugni con ogni nozione scientifica, giuridica, etica, esistenziale: umana, insomma. E che, se fossero veri, porterebbero alla inevitabile e mostruosa conclusione che l’aborto, sulla base delle cifre che lo stesso Ferrara sbraita in continuazione, è perfino più grave dell’Olocausto, e che dunque chiunque partecipi di un aborto, anche al primo giorno di gravidanza, donna o chirurgo o infermiere, moralmente parlando è come le SS o i Kapò che gettavano bambini ebrei nei forni crematori.
Ferrara va infatti sproloquiando che lui non accusa le donne che abortiscono di essere delle assassine e non vuole abrogare la 194 e reintrodurre sanzioni penali. Ma rifiuta poi il confronto (e attribuisce la paura di una pubblica controversia ai sostenitori della libertà della donna) proprio perché sa che in un dialogo, argomento contro argomento, la smaccata contraddizione della sua crociata diventerebbe evidente coram populo. Se l’embrione e il feto sono esseri umani a tutti gli effetti, la loro soppressione è omicidio eccome, e donne e medici sono assassini eccome, e anzi si tratta di omicidio premeditato, e poiché le cifre di Ferrara hanno il milione per unità di misura, si tratta proprio di Olocausto, e dunque la depenalizzazione introdotta dalla 194 è un crimine, perché Olocausto è crimine da tribunale di Norimberga, è crimine contro l’umanità, imprescrittibile, altro che depenalizzabile.
Insomma, Giuliano Ferrara lancia il sasso, anzi il macigno, ma poi nasconde la mano. Descrive l’aborto come un genocidio ma poi giura di non voler criminalizzare le donne. Gioca a fare il De Maistre in versione catodica post-moderna. Se pensa di avere anche argomenti, e non solo incontenibili pulsioni di furore reazionario, aspettiamo che ci dica dove e quando. Chi ha davvero argomenti non ha paura di un confronto pubblico «ad armi pari».

l’Unità Roma 29.2.08
Il no di Franca Rame alla violenza sulle donne
Affollata assemblea al Mamiani dopo le scritte ingiuriose. La senatrice: il Papa e Ferrara invidiano l’utero
di Gioia Salvatori


Una giornata di mobilitazione al liceo Mamiani contro la violenza sulle donne. Ospite Franca Rame, citata in offensive scritte sullo stupro da lei subito, corredate di svastiche, comparse sul muro della scuola di viale delle Milizie il 22 febbraio. Il preside Cosimo Guarino non ha esitato a raccogliere le istanze degli studenti antifascisti, promotori dell’incontro, e a concedere un giorno di assemblea straordinaria. Tutti nella palestra della scuola, ieri mattina, dunque, per due ore con la senatrice, poi si continua a parlare contro la violenza, nelle aule. La senatrice parla dello stupro subito: «Un castigo politico - un atto che alla fine ebbe un effetto controproducente per gli autori», poi legge un articolo del marito Dario Fo su quella violenza e proietta il suo monologo "Lo stupro": «Fatelo girare su Youtube - dice alla fine ai ragazzi». I ragazzi nella palestra gremita guardano le immagini e non si sente volare una mosca. Il secondo tema, seguendo il filone rispetto della donna e diritti, è la legge 194. Lo introduce Corinna, una studentessa, Franca Rame non esita: invita all’educazione sessuale nelle scuole e incita all’uso del preservativo, poi l’affondo: «Gli uomini quando ci battevamo per i diritti delle donne negli anni 70 dicevano che eravamo isteriche perché invidiose del pene. Oggi a Ferrara e a sua Santità diciamo che hanno invidia dell’utero. Abortire è qualche cosa di orribile, di doloroso, una cosa che ti rimane addosso. Questo noi lo sappiamo, il papa, purtroppo, non lo sa». Parole che strappano l’applauso fragoroso della platea. Gli studenti, qualche ragazza con gli occhi lucidi, si avvicinano per salutarla, la Rame dice di voler tornare nella scuola "con Dario". La replica della destra alle parole della Rame sull’invidia dell’utero, non si fa attendere. Il candidato a sindaco di Roma per l’UdC Luciano Ciocchetti coglie l’occasione per parlare di: «Inammissibile offesa al Santo Padre» del «vento della Sapienza, quando al Papa non fu permesso di parlare, che continua a spirare sulle scuole». Ma l’iniziativa è incentrata sulla violenza contro le donne: «Che poi, nel caso della Rame, fu anche violenza politica - dice il preside della scuola Guarino - Per questo l’abbiamo invitata, oltre che perché è stata oggetto delle scritte neonaziste comparse sul muro della mia scuola. Non si possono trascurare queste azioni e la crescita di movimenti di estrema destra nelle scuole, inneggianti alla violenza». Anche il comitato dei genitori manda una lettera di plauso all’iniziativa e, mentre Franca Rame annuncia che «Faremo azioni di disturbo l’8 contro la manifestazione di Ferrara "Pro life"», dal Mamiani parte un collettivo femminile trasversale per organizzare un’assemblea di genere sulla 194. «Abbiamo già contattato ragazze del Tasso, del Tacito, del Virgilio ma vogliamo estendere l’iniziativa anche ai tecnici e ai licei più periferici - dice Corinna del I H, percing, frangia corta, viso acqua e sapone - Non ne posiamo più di essere, come donne, sempre al centro dei dibattiti ma mai come protagoniste. Di aborto devono parlare le donne, non Ferrara».

l’Unità 29.2.08
Gli ultrà arrestati
Patologia di «Er Vampiro»
di Luigi Cancrini


Er vampiro ha problemi. Gli è morta la nonna nella notte ma mentre in casa si piange lui si aggiusta per la serata. «Vojo brucià tutto. Stasera vojo brucià tutto». Lo scrive Carlo Bonini su la Repubblica . Proponendo una sintesi efficace, a proposito «der vampiro», di quella che è la convinzione attuale di tanti studiosi a proposito delle persone che presentano, come lui, un disturbo antisociale di personalità: persone ubriache di rabbia e di frustrazioni, la cui sostanziale incapacità di affrontare normali problemi della vita si trasforma, giorno dopo giorno, in un odio contro tutto e contro tutti.
Persone, che fuggono da se stesse prima che dagli altri. Che funzionano continuativamente e furiosamente a un livello borderline. Che vivono, mentalmente, all’interno di una guerra personale o di gruppo contro il nemico che è il mondo e che lo guardano, il mondo da cui si sentono accerchiati e oppressi, con gli occhi del bambino pieno di rabbia e pieno di paura.
La mia professione mi mette spesso in contatto con questo tipo di persone e di situazioni. A distanza di anni, quando alcuni di loro riescono a rendersi conto di quello che hanno fatto ma anche nel tempo della loro follia, quando l’occasione dell’incontro è l’incidente fisico o legale che li costringe a fermarsi e a chiedere aiuto. Mettendo di fronte il terapeuta, inaspettatamente, a uno strano tipo di cucciolo cresciuto male, disorientato dalla impossibilità di muoversi che lo costringe a pensare, disorientante per la sua incapacità di parlare e per l’ingenuità delle sue argomentazioni. Perché c’è sempre un bambino infelice e rabbioso dietro al portatore di un disturbo antisociale di personalità e perché importante è saperlo quando si pensa di voler davvero affrontare il problema.
Sono gli studi sull’infanzia negata di tanti di questi ragazzi quelli su cui sarebbe importante mettere più attenzione di quella che mettiamo abitualmente quando parliamo di ultras e di bande giovanili più o meno apertamente criminali. Sta nella miscela velenosa, di negligenza per il bambino reale e di eccesso di attenzione per il bambino che esiste solo nella fantasia e nelle aspettative dei genitori più sprovveduti, l’origine lontana di tante moderne devianze adolescenziali. Come bene è dimostrato, in fondo, dal modo in cui assurdamente tante famiglie reagiscono al poliziotto, al giudice o all’insegnante che interviene contro il ragazzo: senza rendersi conto del modo in cui la patologia del figlio si aggrava, immediatamente e drammaticamente, quando loro si schierano con lui. Cercando magari l’aiuto dei più abili fra gli avvocati per evitargli la sconfitta del giudizio e il dolore della pena e bene illustrando, con l’assurdità di questa loro reazione, la responsabilità che hanno avuto nella costruzione del piccolo mostro di vanità e di violenza di cui non sono in grado neanche oggi di raccogliere la difficoltà. Mimando un affetto che non c’è perché non si può mai voler bene ad un figlio che non si riesce a vedere e continuando ad alimentare il delirio di chi può continuare ad evitare il confronto con sé stesso solo se riesce a sentirsi il martire di un’ingiustizia. Sviluppando un processo della cui gravità spesso non ci si rende conto nei tribunali dove ci si accanisce sulla cattiveria o sulla patologia della persona: senza tenere conto sufficientemente del luogo interpersonale e sociale in cui i suoi comportamenti folli sono nati e continuano a rinforzarsi e scioccamente trascurando, in questo modo, la possibilità di aiutarlo sul serio.
Insisto su questo punto con forza per un motivo semplice. C’è, in articoli come quelli di Repubblica sugli ultras della Lazio legati all’estrema destra più violenta e più sconclusionata della capitale, sulla gente «che pensa di sfruttare il palcoscenico offerto dalla partita di calcio per dare risonanza mediatica ad una violenza senza contenuti», una sorta di compiacimento ammiccante verso un lettore di cui si suppone si senta e sia diverso da loro. C’è un piacere difensivo, voglio dire, nella descrizione degli orrori e della stupidità cui possono arrivare solo gli esponenti del tifo e del fascismo più primitivo e più settario. Orrori e stupidità da cui chi scrive si distacca sottolineando la propria diversità culturale e politica in un clima di sostanziale rassegnazione: suggerendo che poco o nulla ci sia da fare, cioè, di fronte ad aberrazioni tanto gravi oltre alla punizione di cui si pensa e si auspica, ovviamente, che sia la più severa e la più lunga possibile. Anche se quello che poi si fa, per evitare l’accusa di razzismo alla rovescia (una specie di razzismo contro i razzisti) è il tentativo sociologico di confondere la specificità delle storie in un discorso più o meno confuso sulla società senza ideali di cui altro non sono, questi «ribelli senza bandiera», che riflessi allo specchio.
Per quello che mi riguarda so di non essere «politicamente corretto» ma quella che sento nei confronti di tutte queste persone è soprattutto una grande pena del loro modo di essere sguaiato e ridicolo. Del bambino infelice che si portano dentro senza saperlo. Dei loro soprannomi infantili e della povertà apparentemente senza rimedio dei loro gusti e della loro vita. Incontrato da solo, penso, ognuno di loro ha ancora intatto dentro di sé quell’insieme miracoloso di risorse che c’è (se lo si sa cercare, se si ha il tempo di cercarlo) in ogni essere umano. Proponendo, anche per degli ultras che sanno desiderare solo di «sparare in faccia agli sbirri», la possibilità di un intervento in senso lato terapeutico: possibile solo se li si ferma, ovviamente, inchiodandoli alle loro responsabilità; senza farsi illusione alcuna, tuttavia, del fatto che questo tipo di intervento repressivo, pur necessario, sia sufficiente da solo.

l’Unità 29.2.08
Dati del Viminale. Molti di loro potrebbero essere finiti nelle mani della criminalità
1300 vite sospese, i bambini scomparsi nel 2007
di Anna Tarquini


Sono vite sospese. Persone che hanno deciso di scomparire improvvisamente, magari anche per trent’anni, e lasciano familiari senza risposte, davanti a un orizzonte vuoto. Oppure sono vite che si sono concluse, ma che come ultima beffa si trovano in quell’angolo d’Italia ancora incredibilmente ferma agli anni 50, all’era pre-Internet. E questi sono i cadaveri senza nome, a centinaia, dimenticati negli obitori, negli istituti di medicina legale, nelle celle frigorifere. Solo nel 2007 in Italia sono scomparse novemila persone. E 1300 bambini. La maggior parte di loro si è allontanata volontariamente e fa ritorno a casa, ma ci sono anche allontanamenti per cause sconosciute, delitti, malattie. Per esempio l’aumento dell’età media della vita ha creato un’emergenza Alzheimer che è drammatica e ancora nessuno ha quantificato. Ma ancora più grave è che 1300 bambini scomparsi in un anno significa tre al giorno. Il 40% sono piccoli rom, molti di questi sono i piccoli che vengono portati in istituto e da lì scappano. Altri potrebbero esser finiti nelle mani della criminalità. La raccolta di dati però è solo all’inizio.
Ci sono persone che della disgrazia di un parente scomparso nel nulla hanno fatto ragione di vita. Quelli dell’associazione Penelope ad esempio: l’associazione è divisa per regioni e ogni regione ha un suo responsabile, e ogni responsabile è diventato tale perché a un certo punto qualcuno che gli era molto caro ha deciso di sparire, o è stato ucciso, o ha perso la memoria.
C’è un mondo a parte, che è entrato nell’ombra, e su questo mondo, un anno fa, il Viminale ha aperto una finestra affidando al prefetto Rino Monaco che sta cercando di risolvere questi casi e per questo chiede collaborazione. Lo spiega con un dato: gli scomparsi dal 75 ad oggi sono più di 25mila. I cadaveri senza nome dimenticati in obitorio sono 317, 48 solo nel Lazio la regione che ha il primato. Rino Monaco, che negli anni ‘70 ha combattuto il terrorismo, spiega il dramma attraverso la storia di un signore che si chiamava Bachisio Inzaina. Il 19 gennaio del 2001 era uscito di casa per gettare la spazzatura e non è mai più tornato. Fino a pochi giorni fa, quando è stata trovata corrispondenza tra il Dna delle figlie dell’anziano e quello di un cadavere sconosciuto che giaceva dal 9 aprile 2001 nelle celle frigorifere della sezione di medicina legale dell’azienda ospedaliero-universitaria di Pisa. Questa mattina finalmente avrà un funerale. Ecco. Monaco ci prova. Ha fatto un primo censimento presso i comuni, le Asl e gli istituti di medicina legale. Finora le risposte sono state molto parziali: solo 4 su 36 istituti di medicina legale hanno fornito informazioni utili, mentre due terzi dei comuni non hanno ancora risposto.

Repubblica 29.2.08
Il matematico aveva partecipato alla scrittura del manifesto dei valori. "Walter vuol tenere tutto insieme, per me è impossibile"
Odifreddi: "La Chiesa fa troppe ingerenze mi spiace, ma non entro in questo partito"
Tra Berlusconi e Veltroni scelgo Walter. Voterò per il Partito democratico, ma non voglio essere la foglia di fico laica
di Silvia Buzzanca


ROMA - Professor Odifreddi, ma ha deciso di lasciare il Partito democratico?
«La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il discorso fatto da Veltroni davanti ai parlamentari cattolici del Pd. Mi sono sentito chiamare in causa quando ha parlato di "visione caricaturale" del rapporto fra laici e cattolici, di "visione anacronistica" o "superficialità". Veltroni invece di fare una scelta chiara di campo cerca di mettere insieme tutto. Ma come faccio io che sono un logico matematico che ha passato la vita insieme al principio di non contraddizione ad accettare tutto questo? Qui siamo di fronte alla dialettica hegeliana di peggiore specie. C´è un´unità di facciata: alla prima occasione i nodi verranno al pettine e litigheranno. Mi sembra tutto un pasticcio e io me ne vado prima. Comunque fra Veltroni e Berlusconi scelgo senza dubbio Veltroni».
Ma lei sembrava molto impegnato?
«Ero entrato nel partito quando ci furono le primarie. Mi chiamò Veltroni e benché avessi dei dubbi molto forti perché il partito nasceva dall´unione di ex comunisti ed ex dc accettai perché volevo verificare se le mie idee potessero trovare accoglienza. Sono stato chiamato nella commissione dei valori, dove questi valori bisognava metterli nero su bianco...».
Franceschini dice che lei quel documento lo ha firmato. E adesso lascia il partito?
«Franceschini e anche Castagnetti sono persone molto ragionevoli. Se nel Pd fossero tutti così ci sarebbe da leccarsi i baffi. Hanno scritto nel manifesto che il partito è laico, "ma" la religione deve avere una presenza nello spazio pubblico. Ho subito detto a Reichlin che se la formulazione rimaneva quella, io non avrei firmato. E infatti non ho firmato. Adesso vorrei che non mi si tirasse più in ballo come esempio della laicità del Pd. Magari Franceschini l´ha fatto in buona fede, ma non voglio essere la foglia di fico laica del Pd».
Allora non ha sottoscritto...
«No. Perché quei valori non sono miei. E comunque prima di lasciare ho aspettato che parlasse il "principe", il "re". Alla fine Veltroni ha usato quei termini, ha detto cose che mi fanno pensare che uno di noi due ha delle allucinazioni. Quando dice che la Chiesa non fa ingerenze, ma solo sollecitazioni, mi viene da chiedere dove viva Veltroni. Ma se solo qualche settimana fa, da sindaco, è andato in Vaticano e gli hanno tirato le orecchie. Quelle non sono ingerenze? E quando parla dei limiti che la scienza deve porsi mostra l´aspetto più bieco del clericalismo».
Professore, ma perché a difendere i valori della laicità è rimasto un manipolo di scienziati nel disinteresse generale?
«Perché sono latitanti i politici e i filosofi. Difendere la laicità toccherebbe a loro. Ma se ci guardiamo intorno, nel Pd per esempio, c´è gente come Cacciari. Ma quando parla mi sembra più papista del Papa. E poi va a difendere i valori laici a Porta a Porta. Il problema è che dopo la caduta del Muro le persone di sinistra si sentono orfane e afflitti da un senso di colpa che si trasforma in vergogna per il fallimento del comunismo. E alla fine tutti si sentono più papisti del papa. Sono rimasti solo i radicali e i socialisti».

Repubblica 29.2.08
Faccia a faccia tv, scontro a sinistra
La Vigilanza: confronto tra tutti o sfide a tre. Boselli: ci oscurano
Sinistra Arcobale-no voleva regole certe. Pd e Pdl: tocca alla Rai fare proposte
di Aldo Fontanarosa


ROMA - Sui confronti in tv tra candidati premier, il Parlamento non decide e rimette la patata bollente, anzi torrida, nelle mani della Rai. Sarà la Rai a proporre un ventaglio di soluzioni. Queste andranno dalla trasmissione unica (con i candidati tutti presenti in studio) ai dibattiti a 3, fino ai faccia a faccia (che però sono ormai improbabili). I giochi restano aperti e nessuno sa dire quale tipo di programma - o di programmi - verrà fuori. La tv di Stato farà le sue proposte e Mario Landolfi, presidente della commissione di Vigilanza Rai, le esaminerà a nome dei partiti.
Proprio la commissione di Vigilanza, ieri, si è limitata a dettare una norma generale. Prevede che la televisione pubblica organizzi "qualcosa" negli ultimi 10 giorni della campagna elettorale. Il titolo della norma parla di "confronti" (al plurale), mentre il testo della norma parla di trasmissione unica (al singolare). Non c´è un indirizzo preciso, insomma. Quel che è certo è che il confronto o i confronti andranno in onda su Rai Uno e avranno la durata di una partita: 90 minuti. Saranno trasmessi tra le 21 e le 22.30, in condizioni di parità tra i candidati presenti e senza che altri programmi informativi siano proposti su RaiDue o RaiTre. A moderare sarà un giornalista Rai, che potrà invitare direttori di giornali e opinionisti.
In commissione sono stati Rosa nel Pugno, Sinistra Arcobaleno, il Partito Democratico e lo stesso Storace a premere perché la Rai fosse comunque tenuta ad organizzare qualcosa. Nessun oscuramento, dunque. Ma Rosa nel Pugno e Sinistra Arcobaleno avrebbe voluto un passo ulteriore. Un pacchetto di emendamenti (a firma Beltrandi) imponeva altre regole, più dettagliate. La Rai, ad esempio, avrebbe dovuto organizzare varie trasmissioni nel caso i candidati a premier fossero stati più di 4. Su questo punto il Partito Democratico si è sfilato preferendo una regola a maglie larghe che imponesse alla Rai un obbligo generico a fare qualcosa. Ed è andata così.
La Sinistra Arcobaleno non ha preso molto bene la posizione dei Democratici. Russo Spena, Brutti e Ripamonti hanno abbandonato i lavori della commissione. Il loro sospetto è che Partito Democratico e Popolo delle Libertà vadano ormai a braccetto per mantenere i fari dell´informazione sulle due maggiori coalizioni oscurando le forze minori. «Il rischio esiste ed è forte», dice il socialista Boselli. Fabrizio Morri (Partito Democratico) nega qualsiasi inciucio: «Ora dobbiamo solo aiutare la Rai a proporre dei programmi equilibrati. Non è vero che i faccia a faccia siano cancellati. Anzi: restano possibili». Mario Landolfi di An invece fa un pronostico: «Non c´è più possibilità di fare i faccia a faccia. L´unica soluzione praticabile è la trasmissione unica con tutti i candidati nell´arena».
Per fortuna, in tanta confusione, alcuni paletti restano certi. Tutti i candidati premier terranno delle conferenze stampa individuali (su RaiUno in prima serata); i leader minori di coalizioni e partiti saranno tutti intervistati; e le Tribune Politiche sono, meno male, confermate.

Repubblica 29.2.08
Vi spiego perché i Neo-con sono i veri eredi del ‘68
di Tzvetan Todorov


A qualche anno di distanza il progetto di trasformazione radicale e violenta della società è resuscitato sotto un´altra forma. Questa volta si tratta di garantire la"salvezza" a un paese straniero e non al proprio

Vennero a mancare alcune inibizioni, in particolare nei rapporti sessuali, ed è bene ricordare che un anno prima in Francia si era finalmente diffusa ovunque la contraccezione. Che una coppia andasse a coabitare senza intenzione di contrarre matrimonio smise di essere motivo di stigmatizzazione morale, Nella scia di tutto ciò, qualche anno più tardi anche la rottura del matrimonio avrebbe smesso di essere vista necessariamente come una colpa: divenne possibile il divorzio per ragioni consensuali. Ebbene, chi vorrebbe liquidare oggi queste eredità?
Per la politica, invece, le cose andarono in tutt´altro modo. I discorsi che si potevano proferire nel corso di incalcolabili Assemblee generali e Comitati d´azione dovevano tutti collocarsi nel solco dell´ideologia comunista. È pur vero che in seguito le diversità sarebbero tornate: il polo conservatore era considerato fossilizzato dai membri ortodossi del Pc francese; l´estrema sinistra pareva incarnata dai maoisti, ma tra i due si collocavano i trotskisti, gli althusseriani, gli anarchici, i situazionisti, il "Movimento del 22 marzo", i fedeli di Fidel e altri ancora. Mentre su un piano sociale soffiava un vento di liberazione, i discorsi politici respiravano dogmatismo ed esaltavano (spesso senza accorgersene) l´imposizione della dittatura. Per colui che come me veniva da uno dei Paesi del "socialismo reale", parevano altresì fare affidamento su una visione della società assolutamente utopistica.
A prima vista, questa eredità del ´68 è pressoché scomparsa dalla scena pubblica odierna, a eccezione di quella peculiarità francese che sempre stupisce i Paesi vicini: la popolarità dei leader trotskisti alle elezioni presidenziali. Può anche darsi, tuttavia, che quel passato continui a vivere sotto forme inedite.
I programmi politici dei partiti si possono dividere in due grandi gruppi. I primi promettono la salvezza. Sostituti profani delle religioni, considerano che il mondo, questo misero mondo, è malvagio nella sua totalità e occorre pertanto abbatterlo per rimpiazzarlo con un altro, nel quale tutto procederebbe a meraviglia. Gli altri si accontentano di proporre vari livelli di adattamento e accomodamento: il mondo circostante non è certo perfetto – ammettono – occorre riformare qualche cosa qui e là, ma si deve nondimeno accettare qualche compromesso in rapporto alle sue ambiziose speranze.
I discorsi politici del ´68 erano, chiaramente, appartenenti alla prima categoria: per fortuna, tra quei rivoluzionari potenziali non ci fu alcun Lénin in erba. In ogni caso, a qualche anno di distanza il progetto di trasformazione radicale e violenta della società è resuscitato sotto un´altra forma, nell´ambito di una dottrina denominata a torto "neo-conservatorismo", quando si tratta piuttosto di "neo-rivoluzione". Soltanto che, questa volta, non era più al proprio Paese che si voleva garantire la salvezza, ma a un Paese straniero. Si definisce talora questa dottrina "diritto di ingerenza": si decide, dunque, che al fine di portare la salvezza agli altri, in questo caso la democrazia e l´economia di mercato, è lecito, anzi lodevole, invaderli militarmente e imporre loro un nuovo regime.
I neo-conservatori sono stati vicini al potere negli Stati Uniti e sono responsabili dell´invasione dell´Iraq come di altri interventi in Medio Oriente. Ma sembrano ugualmente capaci di pesare sulla politica della Francia, che si è dichiarata di recente pronta a rafforzare la propria presenza in Afghanistan, a introdursi in Iraq, a bombardare l´Iran, se necessario. La rivoluzione permanente, esaltata un tempo dai gauchiste del maggio ´68 (ricordo ancora i discorsi incandescenti che faceva alla facoltà di Vincennes André Glucksmann, capo dei maoisti locali), ha cambiato oggetto, ma non natura: raccomanda sempre l´estirpazione del nemico. E spesso da parte delle stesse persone che lo raccomandavano nel 1968. Ecco, questa sì è un´eredità che varrebbe la pena liquidare.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 29.2.08
Le religioni, la fratellanza e il totalitarismo
di Ulrich Beck


Le fedi possono gettare ponti tra gli uomini e nello stesso tempo scavare nuovi abissi dove non ce n´erano
L´identificazione con Dio e la demonizzazione del Dio che gli si oppone

L´umanità della religione reca in sé una tentazione totalitaria. L´universalismo della religione genera la fratellanza al di là della classe e della nazione, ma anche l´ostilità mortale. Così come può civilizzare gli uomini, Dio può anche barbarizzarli.
Prima tesi. La religione presuppone un valore assoluto: la fede – tutte le differenze e i contrasti sociali sono subordinati ad essa e irrilevanti. Il Nuovo Testamento dice: «Davanti a Dio tutti sono uguali». Questa uguaglianza, questa cancellazione dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Ne consegue però che, con la medesima assolutezza con la quale sono superate le differenze sociali e politiche, viene istituita una nuova distinzione fondamentale e una nuova gerarchia: quella tra fedeli e infedeli, dove agli infedeli viene negato (in base alla logica di questo dualismo) lo status di persona. Le religioni possono gettare ponti tra gli uomini là dove esistono gerarchie e confini; nello stesso tempo, scavano nuovi abissi religiosi tra gli uomini, là dove prima non ne esistevano.
L´universalismo umanitario dei credenti si basa sull´identificazione con Dio e sulla demonizzazione del Dio che gli si oppone, quello dei «servi di Satana», per usare l´espressione di San Paolo e di Lutero. Il germe della violenza che si richiama a motivazioni religiose è radicato nell´universalismo dell´uguaglianza dei credenti, che toglie a chi non ha una fede o ha una fede diversa ciò che promette al credente: la dignità umana in un mondo di estranei.
Gli dei unici e le loro verità eterne creano le categorie, odiose e gravide di violenza, del non-uomo o del sotto-uomo – «eretico», «pagano», «superstizioso», «idolatra», ecc. Il «male» rappresentato da questi «figli delle tenebre» si riferisce ad azioni e pensieri al di là di qualsiasi immaginazione, di qualsiasi giustificazione, di qualsiasi possibilità di difesa. Questo fa temere che, come rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione, incomba una nuova era di oscurantismo. I ministeri della Salute avvertono: la religione può uccidere.
La storia della colonizzazione è un esempio evidente di come la categoria dell´infedele, che deve essere convertito per la salvezza della sua anima, sia servita a «legittimare» inimmaginabili violenze e crudeltà. Lo confermano con aperta brutalità le parole di Cristoforo Colombo, per il quale la diffusione della fede «e la riduzione in schiavitù degli infedeli sono strettamente legate tra loro».
La demonizzazione religiosa dell´«altro» è efficacemente illustrata anche dalla «guerra dei matrimoni misti» tra cristiani cattolici e protestanti, infuriata nel XIX e nel XX secolo e tuttora in corso. Questo fondamentalismo confessionale, che non vuole vedere e riconoscere nell´«infedele» l´altro cristiano, incontra un rifiuto sempre più deciso proprio da parte dei fedeli praticanti. Qui, come riferisce Hans Joas, è avvenuta un´inversione dell´onere della prova riguardo alla cooperazione ecumenica: «A dover essere giustificata è sempre più la sua mancanza, non la sua presenza».
Seconda tesi. Già solo la domanda: Cos´è la religione? rivela un riflesso eurocentrico. Infatti, la religione è intesa come sostantivo, e questo sottintende un insieme ben definito di simboli e pratiche che costituiscono un aut-aut: vi si può credere o non credere e, se si appartiene a una comunità di fede, non si può appartenere nello stesso tempo a un´altra. In questo senso è opportuno e necessario tracciare una distinzione tra «religione» e «religioso», tra la religione come sostantivo e come aggettivo.
Il sostantivo «religione» ordina il campo religioso in base alla logica dell´aut-aut. L´aggettivo «religioso», invece, lo ordina in base alla logica del «sia … sia». L´essere religioso non dipende dall´appartenenza a uno specifico gruppo o a una specifica organizzazione; piuttosto, definisce un determinato atteggiamento nei confronti delle domande esistenziali che riguardano la posizione e l´autocomprensione dell´uomo nel mondo.
Forse, allora, l´ambiguità tra amore per il prossimo e inimicizia mortale deve essere riferita non tanto al «religioso», quanto piuttosto alla «religione». Questo aut-aut monoteistico, gravido di violenza, può essere relativizzato, aggirato, attenuato da una tolleranza sincretistica del «sia … sia»?
L´autorità di principio della fede rianimata è l´Io sovrano, che si costruisce un «Dio tutto suo». Ciò che così si delinea non è la fine della religione, ma la rinascita di una nuova anarchia della fede soggettiva, che travalica tutti i confini di religione e si adatta sempre meno alle strutture dogmatiche approntate dalle religioni istituzionalizzate. L´unità di religione e religioso viene meno. Anzi, religione e religioso entrano in contrasto.
Nelle società occidentali, che hanno interiorizzato il principio dell´autonomia dell´individuo, la singola persona si crea, in un´indipendenza sempre più ampia, quelle piccole narrazioni di fede – il «Dio tutto suo» – che si adatta alla «propria» vita e al «proprio» orizzonte di esperienza. Questo «Dio tutto suo» non è più il Dio unico che prescrive la salvezza reclamando per sé la storia e autorizzando all´intolleranza e alla violenza. Stiamo assistendo a un ritono dal monoteismo della religione al politeismo del religioso sotto il segno del «Dio tutto nostro»?
Che questa tolleranza sincretistica non solo si diffonda nello spazio della religiosità svincolata da appartenenze confessionali, ma venga praticata con grande naturalezza anche in forme istituzionali, è un fatto che può essere osservato ad esempio in Giappone. Qui le persone non vedono alcun problema nel frequentare in certi periodi dell´anno un tempio shintoista, nel celebrare il matrimonio con una cerimonia cristiana e nell´essere sepolti da un monaco buddista. Il sociologo della religione Peter L. Beger cita il filosofo giapponese Nakamura, che riassume così la questione: «L´Occidente è responsabile di due errori fondamentali. Il primo è il monoteismo –"c´è un solo Dio?" –; l´altro è il principio aristotelico di non contraddizione – "qualcosa è A o non-A?". Qualsiasi persona intelligente in Asia sa che ci sono molti dei e che le cose possono essere sia A che non-A».
Terza tesi. Se le religioni hanno superato frontiere territoriali e nazionali che sembravano invalicabili e hanno poi scavato nuovi abissi tra credenti e non credenti, qual è la novità, allora? Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione e la vicinanza universale da esse consentita porta al contatto e alla compenetrazione delle religioni mondiali, provocando un clash of universalisms, cioè uno scontro onnipresente delle verità rivelate e una tendenza alla reciproca demonizzazione dei credenti di altre fedi. Qualsiasi persona, credente o non credente, di qualunque orientamento religioso o non religioso, si vede trasferita contemporaneamente nella patria dei credenti (o degli atei) e nella potenziale condizione dei non credenti (agli occhi di chi appartiene a un´altra religione). Questo trasferimento coatto risveglia e alimenta paure diffuse, che caricano di significati religiosi i contrasti e i conflitti politici, facendoli esplodere violentemente.
Clash of universalisms significa che nella vita privata e nei dibattiti pubblici mondiali si impone inevitabilmente un´esigenza di giustificazione e di riflessività, là dove prima predominava la sicurezza circolare in sé stessi. Rifiutare queste esigenze di giustificazione, cioè perseguire con ogni mezzo la riaffermazione dell´indiscutibilità delle certezze di fede divenute problematiche è l´impegno principale dei movimenti fondamentalisti di ogni parte del mondo.
Qui emerge una nuova linea di conflitto, forse destinata in futuro ad acquisire una straordinaria importanza, cioè la linea che separa le correnti religiose che danno spazio al dubbio e anzi vedono in esso una possibilità di salvezza della religione da quelle che, per difendersi dal dubbio, si barricano nella costruita «purezza» della loro fede. Il teologo Friedrich Wilhelm Graf constata che «le religioni rigide offrono molto ai consumatori: un´identità forte e stabile, un´interpretazione del mondo e del tempo resistente alle crisi, strutture familiari ordinate e fitte reti di solidarietà».
Nella lotta contro la «dittatura del relativismo» papa Benedetto XVI difende la gerarchia cattolica della verità, che segue la logica dello skat (gioco di carte tedesco, simile alla briscola, ndt): la fede vince sull´intelletto. La fede cristiana vince su tutte le altre fedi (in particolare sull´Islam). La fede cattolica-romana è il fante di fiori che batte tutti gli altri giocatori di skat della fede cristiana. E il papa è l´asso pigliatutto nel mazzo di carte della verità dell´ortodossia cattolica.
Quarta tesi. Premesso che la speranza del secolarismo (più modernità avrebbe significato meno religione) si è dimostrata sbagliata, la questione di una convivenza civile tra religioni ostili si pone con rinnovata urgenza. Come è possibile un tipo di tolleranza interreligiosa dove l´amore per il prossimo non significhi inimicizia mortale, cioè un tipo di tolleranza il cui fine non sia la verità, ma la pace?
Mahatma Gandhi trasformò la sua esperienza religiosa in politica che cambia il mondo: si tratta di diventare capaci di vedere il mondo, anche il mondo della propria religione, con gli occhi degli altri. Da ragazzo Gandhi era stato in Inghilterra per studiare diritto. Questo soggiorno in uno dei Paesi più importanti dell´Occidente cristiano non lo allontanò dall´induismo, ma anzi glielo fece comprendere meglio e rese più profonda la sua fede. Infatti, fu in Inghilterra che su consiglio di un amico Gandhi iniziò la lettura, per lui illuminante, della Bhagavad Gita – in traduzione inglese. Solo in seguito egli si dedicò allo studio intensivo del testo indù in sanscrito. Dunque, attraverso gli occhi dei suoi amici occidentali era arrivato a scoprire la ricchezza spirituale della propria tradizione indù.
Ovunque si discute e si polemizza con foga sul «problema» dell´Islam nell´Europa «secolarizzata». Al di sotto delle battaglie combattute dai guerrieri religiosi di tutto il mondo per la difesa delle frontiere sta acquistando realtà e importanza l´astuzia del plusvalore cooperativo: i gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia dell´altro, ma possono comunque collaborare creativamente per realizzare obiettivi pubblici e condivisi. I custodi e i difensori a oltranza dei dogmi teologici potrebbero imparare da questa «ragione della doppia religione».
Oggi la questione decisiva per la sopravvivenza dell´umanità è fino a che punto la verità può essere sostituita dalla pace. Ma la speranza in un amore del prossimo senza inimicizia mortale non è la speranza più inverosimile, ingenua, folle, assurda che si possa concepire?
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 29.2.08
È scontro a Lipsia sul bassorilievo che lo ritrae Per alcuni è memoria. Ma per molti è una ferita
Se il filosofo del comunismo divide una città
Rimosso per restauri, dovrebbe tornare al suo posto. Ma il comune si ribella
di Andrea Tarquini


BERLINO. «Marx muss weg», Marx se ne vada, è il nuovo slogan di Lipsia la ribelle contro la cupa memoria della Ddr. La città che nei decenni della guerra fredda fu la capitale del dissenso insorge ancora una volta, quasi 19 anni dopo la rivoluzione dell´89: vuole sbarazzarsi di un monumento nel più puro stile sovietico al padre del comunismo. Ma non tutti sono d´accordo: il rettorato dell´Università vede in quell´enorme bassorilievo una parte della Storia, chiede di conservarlo ad ogni costo. I bimbi nati allora sono oggi maggiorenni, ma il passato non passa. Divide ancora. I più rifiutano con quel bronzo il "perdonismo" del ricordo.
Il monumento della discordia è un gigantesco rilievo, 14 metri per 7. Raffigura il faccione barbuto di Karl Marx secondo l´iconografia ufficiale, squadrato e macho, attorniato da operai, contadini, donne e soldati, fianco a fianco come in una bruttissima copia del "Quarto Stato" di Pelizza da Volpedo. Fino a qualche anno fa, troneggiava sul portale d´ingresso dell´Università di Lipsia, intitolata a Marx sotto la Ddr. Poi dovettero smontarlo: come tanti edifici dell´èra realsocialista, l´ateneo cadeva a pezzi, necessitava di riparazioni urgenti.
Sul nuovo portale, più semplice e moderno, è stato fatto posto per quel monumento pesante e massiccio: 33 tonnellate, più o meno quanto i carri T-55 che invasero Budapest o Praga. Che però giace da anni immagazzinato. I docenti universitari non ci stanno: è parte della nostra Storia, teniamolo nel centro di Lipsia. Non se ne parla, replica da mesi il Comune. I professori non si arrendono: prima la proposta di rimontare il mostro di bronzo in centro città, poi quella di esporlo a fianco dello Stadio.
Gli ex eroi del dissenso guidano la rivolta per gettare Marx alle ortiche. Dal grande direttore d´orchestra Kurt Masur, allo scrittore Erich Loest, secondo cui conservare quel monumento «sarebbe una vergogna per la città dove cominciarono nell´89 le manifestazioni di massa per la democrazia». Nascondiamolo in un deposito, dicono. La gente interrogata in strada va sullo sbrigativo: «Fondiamolo e ricicliamo il metallo in modo utile».
Sembra quasi un remake della foga con cui, dal Baltico ai Balcani, negli anni scorsi si scatenò la guerra iconoclasta contro i monumenti all´Armata rossa. Ma a Lipsia è diverso. La gente non ha dimenticato quel giorno del 1968 in cui, per ordine del dittatore Walter Ulbricht, l´antica Paulinerkirche, un tesoro d´arte, una delle più belle chiese gotiche d´Europa, centro del pensiero critico, fu distrutta con la dinamite. Tutta la città era in piazza piangendo, battaglioni della Stasi difesero la demolizione. Su quelle macerie fu costruita l´università Karl Marx: simbolo della vittoria del regime sulla religione. Poco dopo, l´esercito della Ddr partecipò all´invasione di Praga.
I baroni rossi dell´Università di Lipsia lottano ostinati per quel bronzo odiato, ma con una speranza: la responsabile locale della Scienza Eva-Maria Stange, ex comunista e ora Spd, si dice voglia salvare il monumento. Non s´insegna mai abbastanza Marx nelle scuole, predicava tranquilla ai tempi del regime del Muro.

Repubblica 29.2.08
James Hillman sostiene che bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting come un crimine contro l´umanità. La faccia del vecchio è un bene per il gruppo
Il passaggio dal tempo ciclico a quello lineare. Il mito errato della giovinezza
Quando essere vecchi significava saggezza
di Umberto Galimberti


La vecchiaia non è solo un destino biologico, ma anche storico-culturale. Quando il tempo era ciclico e ogni anno il ritmo delle stagioni ripeteva se stesso, chi aveva visto di più sapeva di più. Per questo "conoscere è ricordare", come annota Platone nel Menone, e il vecchio, nell´accumulo del suo ricordo, era ricco di conoscenza. Oggi con la concezione progressiva del tempo, non più ciclico nella sua ripetizione, ma freccia scagliata in un futuro senza meta, la vecchiaia non è più deposito di sapere, ma ritardo, inadeguatezza, ansia per le novità che non si riescono più a controllare nella loro successione rapida e assillante. Per questo Max Weber già nel 1919 annotava: «A differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi gli uomini non muoiono più sazi della loro vita, ma semplicemente stanchi».
Per questo la vecchiaia è dura da vivere, non solo per il decadimento biologico e il condizionamento storico-culturale, ma anche per una serie di destrutturazioni che qui proviamo ad elencare. La prima è tra l´Io e il proprio corpo: non più veicolo per essere al mondo, ma ostacolo da superare per continuare a essere al mondo, per cui a far senso non è più il mondo, ma il corpo che la vecchiaia trasforma da soggetto di intenzioni a oggetto d´attenzione. Siccome poi nessuno riesce a identificarsi con un vecchio, anzi tutti si difendono spasmodicamente da questa identificazione, si crea quella seconda destrutturazione tra l´Io e il mondo circostante che impoverisce le relazioni e rende convenzionale e perciò falsa l´affettività. Nel vecchio, infatti, l´amore, che Freud ha indicato come antitesi alla morte, non si estingue. E con "amore" qui intendo eros e sessualità, di cui c´è memoria, ricordo e rimpianto. I vecchi cessano di essere riconosciuti come soggetti erotici e questo misconoscimento è la terza destrutturazione che separa il loro Io dalla pulsione d´amore.
Nel suo disperato tentativo di opporsi alla legge di natura, che vuole l´inesorabile declino degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all´erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, lo specchio.
Eppure nel Levitico (19,32) leggiamo: «Onora la faccia del vecchio», perché se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità, dove reperire le ragioni della pietas, l´esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, e perciò Hillman può scrivere che, per il bene dell´umanità, «bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l´umanità» perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia come anticamera della morte.
A sostegno del mito della giovinezza ci sono due idee malate che regolano la cultura occidentale, rendendo l´età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore economico che, gettando sullo sfondo tutti gli altri valori, connettono la vecchiaia all´inutilità, e l´inutilità all´attesa della morte. Eppure non è da poco il danno che si produce quando le facce che invecchiano hanno scarsa visibilità, quando esposte alla pubblica vista sono soltanto facce depilate, truccate e rese telegeniche per garantire un prodotto, sia esso mercantile e politico, perché anche la politica oggi vuole la sua telegenìa. La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto trattato con la chirurgia è una falsificazione che lascia trasparire l´insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi con la propria faccia.
Se smascheriamo il mito della giovinezza e curiamo le idee malate che la nostra cultura ha diffuso sulla vecchiaia potremmo scorgere in essa due virtù: quella del "carattere" e quella dell´"amore". La prima ce la segnala Hillman ne La forza del carattere (Adelphi): «Invecchiando io rivelo il mio carattere, non la mia morte», dove per carattere devo pensare a ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama "faccia" perché la "faccio" proprio io, con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, la peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato.
E poi l´amore che, come ci ricorda Manlio Sgalambro nel Trattato dell´età (Adelphi), non cerca ripari, non si rifugia nella "giovinezza interiore" che è un luogo notoriamente malfamato, ma si rivolge alla "sacra carne del vecchio" che contrappone a quella del giovane, mera res extensa buona per la riproduzione. «L´eros scaturisce da ciò che sei, amico, non dalle fattezze del tuo corpo, scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente cos´è l´amore fine a se stesso». Una sessualità totale succede alla sessualità genitale. Qui si annida il segreto dell´età, dove lo spirito della vita guizza dentro come una folgore, lasciando muta la giovinezza, incapace di capire.
Forse il carattere e l´amore hanno bisogno di quegli anni in più che la lunga durata della vita oggi ci concede per vedere quello che le generazioni che ci hanno preceduto, fatte alcune eccezioni, non hanno potuto vedere, e precisamente quello che uno è al di là di quello che fa, al di là di quello che tenta di apparire, al di là di quei contatti d´amore che la giovinezza brucia, senza conoscere.

Repubblica 29.2.08
I giovani sono assenti dallo scontro elettorale, cantano, danzano e fanno all´amore, ma la politica contemporanea non gli interessa. Quel tipo di protagonismo è passato
La storia recente del nostro paese e le ondate esaurite di giovanilismo
Perché la nostra società ha ondannato i giovani
di Giorgio Bocca


Con la campagna elettorale torna il «largo ai giovani» ma in modo poco convinto, come un luogo comune che bisogna rispolverare, come una vecchia etichetta. Il Partito Democratico ha mandato in pensione alcuni notabili anziani, come De Mita o Pannella, ma presenta nella piazza più importante, Milano, Veronesi. La destra ha tentato di presentare alcune attricette formose, di quelle che Berlusconi tiene sulle ginocchia, ma nessuno le ha prese sul serio. I giovani sono assenti dallo scontro elettorale, cantano, danzano e fanno all´amore, ma la politica non gli interessa, il protagonismo giovanile in politica è cosa passata. Nella storia recente l´Italia ha assistito a quattro alluvioni giovaniliste, a quattro periodi in cui i giovani hanno dominato la scena politica: l´arditismo della Prima Guerra Mondiale, poi trasformatosi in squadrismo, la Resistenza all´occupante nazista, il ´68, il terrorismo di massa. Più o meno tutti e quattro partoriti dalle guerre insensate della vecchia Europa.
L´arditismo squadrista si compone con gli «spostati» della guerra ´15-18, le migliaia di giovani borghesi promossi ufficiali di complemento per guidare le masse della guerra totalitaria. Congedati dopo la vittoria, abbandonati senza arte né parte nei retrobottega della provincia, trascinati da un´ondata antidemocratica, visionaria e furibonda, figli di una classe media che ha disprezzo di se stessa, di una società che gli appare come un ammasso di avidità, soperchierie e inganni, a un tempo rivoluzionari e reazionari, nemici dei «pescicani», i profittatori di guerra, ma anche dei proletari che gli contendono il potere politico, carichi di odio per la società dei mercanti, di «fede punica», come dice Mussolini, e pronti a mettere a ferro e fuoco il proletariato contadino. Una società impazzita dove tutti si cibano di schematismi, di ricatti totali, di giudizi perentori. Per Bernard Shaw la democrazia si riduce alle due dittature opposte: la borghese e la proletaria, i diritti conquistati dalle rivoluzioni liberali sono specchietti per le allodole. Ci vorranno sessanta anni prima che i comunisti capiscano che le libertà, da essi chiamate formali, sono le libertà fondamentali tout court. Più di sessanta anni prima che il comunista Berlinguer rifiuti il leninismo machiavellico, riscopra la necessità di una morale e predichi l´austerità, subito chiamata dai suoi avversari «la filosofia di tirar la cinghia». È ancora una guerra a mettere in moto la seconda alluvione giovanile, quella partigiana. Una guerra persa, un regime finito già il 25 luglio del ´43 quando il vecchio re arresta Mussolini e tenta di sostituire il fascismo con un ritorno alla monarchia parlamentare.
L´incontro tra i giovani delusi dal fascismo e il vecchio antifascismo dell´opposizione, dei 4.700 a 2.800 anni di carcere dai tribunali speciali, della emigrazione, della Guerra di Spagna, l´incontro impossibile nel luglio e nell´agosto del ´43, avviene nel settembre, quando alla scomparsa dello Stato e dei vecchi poteri avviene la scelta resistenziale, quando i giovani raccolgono nel fango le stellette militari abbandonate dal regio esercito. La terza alluvione giovanile è quella del ´68, del movimento studentesco nato nei campus americani e poi arrivato a Parigi, nella Sorbona e negli atenei di Torino, Milano, Roma. Di questa alluvione ho un ricordo diretto e sconcertante, come di fronte a un fenomeno che non sono riuscito a capire e ho sentito estraneo al mio modo di pensare. Mi incontro col ´68 a Parigi, come inviato del Giorno. Dovrei occuparmene in modo professionale, da giornalista, ma lo vivo come un fatto politico, come una deviazione dall´eredità partigiana. I motti del ´68 francese come «l´immaginazione al potere» mi sembrano dannunziani, marinettiani, futuristi e in qualche modo fascisti. Assisto agli scontri fra la polizia e gli studenti nel Quartiere Latino, e mi accorgo di parteggiare in qualche modo per i poliziotti, di condividere la diffidenza pasoliniana per i finti rivoluzionari del movimento studentesco, per i figli di papà della buona borghesia che si scontrano con i poveracci. La quarta alluvione, quella del terrorismo di massa, la vedo nel ´77 al congresso contro la repressione di Bologna, dove arrivano da ogni parte d´Italia i nuovi squadristi, i giovani di Autonomia Operaia, di Potere Operaio, di Prima Linea che girano con la pistola nella città dei comunisti d´ordine, del comunismo all´emiliana che è «il capitalismo gestito dai compagni». Mia moglie e io alloggiamo all´hotel Jolly, i nostri tre figli arrivati al convegno come a una festa, sotto i portici. Entro in un´aula dove sono riuniti i giovani di una radio rivoluzionaria, e si mettono a cantare «Radio Alice non si tocca, sequestriamo ». La storia delle quattro alluvioni giovanilistiche può confermarci nell´impressione che tutta la storia sia un va e vieni privo di senso. Ci sono stati secoli filosofici come il ´700, in cui sembrava possibile il primato della ragione, normale rispondere alle domande sull´esistenza: «Chi sono? Che devo fare? Che cosa sono i diritti? Cosa sono le leggi?» e altri secoli in cui, nella scomparsa di Dio tutto è diventato possibile, in cui nessuno sa più rispondere alle domande più semplici, in cui le risposte dei nostri strumenti più avanzati come i computer sono ancora quelli dei robot che per dire «non sappiamo», dicono «non esiste». Anche in questa campagna elettorale in corso le idee sulla democrazia che abbiamo sono molto vaghe. È democrazia riservare ai partiti il potere di comporre le liste elettorali, di scegliere gli eletti, di disporre dei «collegi blindati», di patteggiarli con gli alleati, di disporre cioè di poteri che dovrebbero appartenere agli elettori. La storia ha un senso? Lo storicismo è una nostra invenzione di comodo? Ci sono stagioni in cui ai giovani tutto è proibito, controllato. Altre in cui tutte le porte si aprono, in cui Alessandro il macedone adolescente può partire alla conquista del mondo, Napoleone ventunenne comandare l´armata d´Italia, Scipione il giovane dai capelli inanellati sbarcare in Africa per sconfiggere Annibale. Il tempo presente non sembra favorevole ai giovani. Le tecniche dominanti e proliferanti tagliano la società in sezioni orizzontali, un computer non è un semplice strumento di cui servirsi, ma un enigma dalle mille potenzialità, e persino un paio di sci non è più di due tavole di legno da usare sulla neve, ma un miracolo tecnico che curva da solo e scende sicuro in neve fresca.
Essere giovani oggi più che un´occasione è una condanna, più che un dono una sfida impari. I miti rivoluzionari sono caduti senza risolvere il nostro destino di morte e di guerra, anche il riformismo non ha cambiato il mondo, si è ridotto a una sorta di packaging che impacchetta la realtà mutevole e sfuggente. Quando ero bambino mia madre, una maestra, mi fece saltare la quinta elementare. Entrai nelle medie come il più giovane, ma era una scorciatoia inutile, mi ritrovai come gli altri alle prese con le difficoltà della vita.

Repubblica 29.2.08
Julien Temple. Joe Strummer libertario radicale


Al festival di Berlino il rockumentary (in forma di film-concerto, biografia musicale e altro) l´ha fatta da padrone; né la tendenza pare destinata a esaurirsi in fretta. Ora arriva nelle sale un bel documentario del 2006: un "biopic" sul leader del Clash realizzato da Julien Temple, già accreditato nel binomio cinema-musica con due film sui Sex Pistols nonché amico personale di Joe Strummer. A far da cornice ai documenti di prima mano (dai film famigliari di Joe bambino ai concerti, dai fumetti squatter che lui stesso disegnava alle testimonianze di amici e ammiratori: Bono, Scorsese ecc...), Temple mette il programma radiofonico "London Calling" - ideato dal musicista, col titolo di un celebre Lp del gruppo - e i falò di Strummerville, punti di aggregazione tra simili che Joe considerava perfino più importanti della sua musica. Ne esce il ritratto di un libertario radicale, contraddittorio, potenzialmente autolesionista ma anche maestro di vita e di filosofia punk: come tale lo vede Johnny Depp, in costume di scena da pirata dei Caraibi. Di un uomo geniale dall´ego ipertrofico, anche; che il film non mette in discussione facendo, se non il "santino" di Joe, di certo il suo monumento.
(r.n.)

Liberazione 29.2.08
Il programma della Sinistra, e le sue proposte per la giustizia sociale e la questione salariale, sollevano le proteste di Pd, Pdl e giornali
Perché? Perchè sono precise, realizzabili, fuori dal coro e prevedono uno spostamento di ricchezza dall'alto verso il basso
Salari, diritti e lavoro sono roba vecchia:
la modernità è tornare agli anni '50?
di Piero Sansonetti


La Sinistra Arcobaleno ha presentato il suo programma di governo e subito si è aperta una forte polemica. Nel mondo politico, nei giornali. Perché? Per il semplice motivo che questo programma è costruito non su frasi fatte e speranze vaghe, ma su proposte, concretissime, che possono portare ad altrettanto concretissime conseguenze: lo spostamento di ricchezza e di diritti dall'alto verso il basso. Cioè l'inversione del processo economico sociale che negli ultimi 20-25 anni ha profondamente trasformato il nostro paese, aumentando in modo spaventoso le differenze economiche e l'ingiustizia sociale, e creando fortissime sacche di povertà. I dati li conoscete ormai tutti: dal 1980 ad oggi lo spostamento di ricchezze dai salari verso i profitti (e le rendite) è stato "ciclopico". Circa la metà delle ricchezze che finivano in salari e stipendi ora finiscono in profitti e rendite. E mentre succedeva questo stravolgimento economico non c'era uno stravolgimento sociale, cioè restava immutato il numero dei salariati (e stipendiati). Il programma del Pd, e quello di Berlusconi, prendono atto di questa situazione ma non propongono nessuna soluzione. Anzi propongono di aiutare gli imprenditori e, in cambio, chiedere loro di stornare una parte dei loro eventuali maggiori introiti ai lavoratori. Tutte le ricette "Veltrusconiane" vanno in quella direzione: aumenti salariali agganciati all'aumento della produttività, manovra fiscale sugli straordinari. Che vuol dire? Semplice: se tu, operaio, lavorerai di più, produrrai di più, farai più straordinari, e in questo modo permetterai al padrone di guadagnare sul tuo lavoro - poniamo - non cento ma centoventi "denari", di questi venti denari in più, due o tre andranno a te. Contento? In questo modo la tendenza ad aumentare ancora il divario tra ricchi e poveri, tra salari e profitto, si rafforza.
Il programma dell'Arcobaleno è l'unico ad andare nel senso opposto. Come? per esempio con due proposte molto serie, e che possono essere realizzate direttamente dal Parlamento e dal governo. Prima proposta, un nuovo meccanismo di indicizzazione dei salari (e cioè, quando aumentano i prezzi automaticamente aumentano anche le buste paga); seconda proposta, salario sociale, che vuol dire protezione dei precari, dei lavoratori molto poveri e dei disoccupati o inoccupati. (Negli articoli che pubblichiamo qui sotto sono spiegate queste due idee).
Perché queste proposte hanno suscitato l'ira funesta (per esempio del «Corriere della Sera», editoriale di De Vico, per esempio di «Repubblica», editoriale di Giannini, e soprattutto della «Stampa», editoriale di ieri di Riccardo Barenghi)? Perché rischiano di aprire davvero una discussione concreta - e non parole al vento e promessucce fiscali - sulla grande questione salariale e dell'equità sociale.
Qual è l'accusa che viene rivolta alla sinistra (che loro chiamano radicale, ma francamente queste due proposte sono assolutamente riformiste, e probabilmente piacerebbero parecchio, ad esempio, a Filippo Turati e forse a Pietro Nenni...)? Di essere retrò. Vecchia. Riccardo Barenghi, ieri, sulla «Stampa», è molto esplicito: tornano i comunisti, tornano le proposte di 25 anni fa, torna la scala mobile: ohi noi ohi noi!!!
Davvero proporre il rilancio di una politica dei diritti (che sicuramente ebbe il suo apice nelle lotte operaie e sociali degli anni '60 e '70, guidate dai comunisti, dai socialisti e dalla dottrina sociale cristiana), è una grande arretratezza? E davvero, invece, è modernità, proporre un modello di relazioni industriali simili a quello che negli anni '50 era stato imposto dalla Fiat del mitico presidente Vittorio Valletta, che quasi aveva abolito i sindacati e che impose feroci politiche di contenimento dei salari? Non riesco a capire secondo quale ragionamento i cupi anni '50 (che piacciono al Pd e a Berlusconi, e ai grandi giornali, e a Confindustria e , immagino, anche alla Chiesa di Ratzinger), siano così moderni e gioiosi. Mi viene il dubbio che se qualcuno di noi dovesse dire "libertà, fraternità e uguaglianza", qualcun altro gli risponderebbe: «Sei un vecchio rincoglionito che guarda ancora al Settecento... Possibile che non capisci che ormai è il tempo del Re Sole?»

Liberazione 29.2.08
Judith Butler: «Più laicità? Diventiamo più queer»
La teorica femminista e lesbica, tra le maggiori allieve di Foucault, interviene da Parigi e dice ai movimenti antiautoritari come non cadere nella rete dell'omologazione: rinuncia delle identità e fine della contrapposizione tra occidente e oriente
di Anna Simone


Parigi. Dinanzi alla politica di Sarkozy centrata sull'identità nazionale e sulla moltiplicazione delle iniziative ministeriali tese alla valorizzazione delle religioni, il quotidiano Libération titola: "Et la laicité, nom de Dieu!" dichiarando tutto il suo sostegno all'appello lanciato dagli insegnanti francesi per salvaguardare la laicità della Repubblica. Un appello che, tra l'altro, ha già raccolto più di centomila firme.
Ma che vuol dire laicità repubblicana? E' sufficiente contrapporla all'idea di uno stato confessionale o pluri-confessionale per capire le matrici del razzismo, del sessismo o dell'omofobia? In un mondo ormai globale come il nostro ha senso contrapporre una delle identità statuali più laiche della storia occidentale, come quella francese, all'idea sarkozyana di un'identità che, anziché passare attraverso i valori dell'eguaglianza, della fratellanza e della libertà, passa attraverso la valorizzazione delle religioni? E se provassimo a spostare l'asse della contrapposizione sugli effetti perversi che contiene il concetto stesso di identità? Oggi il problema della composizione sociale della società francese, ma anche di tutte le altre società occidentali, non è "quale identità" assumere, ma l'idea stessa di "identità" nella misura in cui quest'ultima si traduce in rapporti di forza assunti come dispositivi attraverso cui consolidare vecchi e nuovi poteri. Che rapporto intercorre tra neoliberalismo, democrazia, libertà e movimenti sociali? Come contrastare il progetto di disumanizzazione dell'umanità delle politiche globali contemporanee viste ad Abou Ghraib o a Guantanamo? A queste e ad altre domande cerca di rispondere Judith Butler attraverso un ciclo di seminari organizzati a Parigi da Eric Fassin dell'Ecole Normale supérieure e da Rose-Marie Lagrave dell'Ecole des hautes études dal titolo piuttosto esplicativo: "La politica al di là dell'identità. La sessualità, la secolarizzazione e le soggettività dei movimenti sociali".
Dopo aver discusso i limiti normativi dell'ideologia multiculturale, la disumanizzazione dell'umano esplicitata attraverso l'uso della tortura ad Abou Ghraib, Judith Butler si è soffermata su un tema piuttosto complesso e cioè sul rapporto che intercorre tra minoranze sessuali e minoranze religiose (ebree e musulmane) presenti in occidente, nonché su come la produzione dei "discorsi" dell'occidente tende a contrapporre entrambe le minoranze strumentalizzandole nell'ottica di fomentare una contrapposizione, sempre più feroce, tra laici repubblicani e religiosi.
Per minoranza si possono intendere più cose, a dire il vero mai del tutto chiare nei testi e nelle conferenze tenute da Butler. C'è l'idea di "minoranza" intesa foucaltianamente come lotta ai dispositivi della norma e della "condotta delle condotte", che a partire dal '68 ha saputo incarnarsi nei movimenti femministi, gay, queer, dell'anti-psichiatria (in poche parole in tutti i movimenti anti-autoritari) mostrando come la "lotta di classe" non può essere l'unico orizzonte di riferimento, salvo costruire una soggettività rivoluzionaria monologica, astratta e tendenzialmente conservatrice sul piano delle condotte e l'idea di "minoranza" legata ai cosiddetti post-hegeliani o post-francofortesi. Questi ultimi, Honneth in primis, tendono infatti a fare della minoranza un progetto politico identitario che tende al "riconoscimento" pubblico sulla scia della famosa metafora del servo che vuole diventare padrone. In poche parole mentre l'idea di minoranza diviene in Foucault una pratica di resistenza che si sottrae alla logica della contrapposizione dialettica e dualistica fondata su basi identitarie, per i post-francofortesi avviene l'esatto contrario: le minoranze devono rivendicare un riconoscimento per entrare come gli altri all'interno dello spazio pubblico.
Se nei testi di Butler appare poco chiara la sua propensione per l'una o l'altra teoria, nella conferenza sembra essersi delineata una propensione maggiore verso l'impianto di Michel Foucault. Più che parlare delle minoranze religiose - intendendo con esse solo ciò che eccede la norma occidentale e cioè l'Islam - e delle minoranze sessuali, lei ha cercato di rovesciare il problema ponendosi in primis la seguente domanda: a partire da queste soggettività solitamente considerate "anormali" come possiamo pensare oggi la libertà e la democrazia radicale? Solitamente quando si pensa la politica in relazione alle rivendicazioni delle minoranze si pensa anche al progetto riformista che dovrebbe elargire nuovi diritti a gruppi specifici di persone, mentre quando si pensa alla libertà sessuale delle donne, dei gay, delle lesbiche etc. si pensa sempre alla modernità e all'illuminismo da contrapporre all'Islam, che così appare sempre come l'Altro assoluto tendenzialmente barbaro e pre-moderno. Butler si chiede: il discorso dell'occidente, nel momento in cui comincia a stabilire chi sono i migranti accettabili e chi no, nel momento in cui si pone nell'ottica della risoluzione di problemi come quello dei simboli religiosi o dell'infibulazione non finisce con il costruire sempre dei processi di normalizzazione delle condotte altrui sulla base di norme culturali prima decise per sé e poi imposte al resto dell'universo? Inoltre la normalizzazione delle differenze culturali, nel momento in cui diventa la pre-condizione della cittadinanza, non finisce con l'essere paradossale? Il principio del paradosso è chiaro: concedere la cittadinanza e i diritti ad essi connessi, tra cui il diritto alla libertà, a condizione che la tua condotta diventi come la mia. Inoltre la libertà si può decidere a priori o, invece, va compresa a partire dai singoli "posizionamenti" incarnati? E' evidente che Butler propende per un'idea di libertà "posizionata" anche perché è un dato oggettivo delle società contemporanee quello secondo cui qualsivoglia progetto di integrazione o di pluralismo culturale si traduce irrimediabilmente in un progetto di assimilazione coercitiva.
Altro problema. Solitamente l'eurocentrismo di certo femminismo e delle politiche statuali o europee che dir si voglia tende a sostenere la tesi secondo cui le lotte dei movimenti lgbtq vanno lette in un'ottica anti-islamica. Errore grossolano, ci dice Judith Butler. Queste lotte non sono anti-islamiche perché assai simili alle lotte del femminismo contemporaneo e dei movimenti lgbtq rispetto al punto di partenza: agire affinché vengano decostruite le matrici del potere di normalizzazione delle condotte avendo, tra l'altro, come nemico comune proprio i dispositivi di sicurezza e quell'idea di libertà compassionevole elargita dal neoliberalismo. Quest'ultimo non lavora nell'ottica dell'accesso alle libertà individuali ma tende, invece, a controllare e a produrre eccedenze e scarti da punire o da normalizzare nel momento in cui gli si rivoltano contro o si sottraggono, resistendo, ai suoi diktat. Non c'è nesso alcuno cioè tra neoliberalismo e libertà. Anzi. Tanto è vero che l'universalismo della misoginia sembra essere del tutto innervato all'interno di questo progetto su scala globale. Ma il liberalismo, si sa, non è solo di destra. Al liberalismo de gauche , politically correct rispetto al multiculturalismo, ai movimenti lgbtq, al femminismo etc., Judith Butler consiglia di riguardare le modalità attraverso cui si costruiscono i "discorsi" che, a loro volta, "producono" i soggetti. Modalità sempre dettate da un'idea di emancipazione intesa come civilizzazione delle abitudini altrui, come se le proprie lo fossero sempre state o lo siano oggi. La storia coloniale dell'occidente ne è l'esempio più paradigmatico.
Anche quando ci interroghiamo sulla violenza partendo dal presupposto secondo cui l'Islam è sempre più violento dei nostri discorsi sbagliamo. La domanda va in questo caso posta in modo differente e a tutto tondo: in nome di chi e di cosa produciamo violenza? E allora che fare? Judith Butler suggerisce due ipotesi, una vecchia e una nuova. Ritorna sul concetto di "agency" intendendo con ciò una pratica politica di resistenza al progetto neoliberista che, contemporaneamente, ci mette su un piano di soggettivazione e di azione in grado di costruire un progetto globale di democrazia radicale al di là degli Stati-nazionali e al di là di certo marxismo autistico nei confronti delle pratiche di resistenza di altre soggettività come, per esempio, il femminismo (si veda anche a tal proposito un bellissimo pamphlet scritto insieme a Gayatri Spivak appena tradotto in Francia, L'Etat global , Payot, pp. 108, euro 12). E un'ipotesi nuova. La costruzione da parte dei movimenti di contestazione della norma e di contro-condotta di una nuova idea di libertà "posizionata" in grado di criticare tutte le forme di strumentalizzazione per fini astratti e bellicisti della stessa idea di libertà, così come ci viene propinata a partire dall'illuminismo, passando per il repubblicanesimo sino al neoliberalismo.
La conferenza finisce e comincia il dibattito. Una giovane studente interviene e dice: d'accordo, però, come facciamo per "aiutare" le donne islamiche a togliersi il velo o a non praticare l'infibulazione? Judith Butler sorride e risponde: noi non dobbiamo "aiutare" le donne islamiche, ma dobbiamo lavorare affinché il femminismo diventi un progetto transnazionale in grado di decostruire la presunta superiorità della donna bianca. Impossibile darle torto.

Liberazione 29.2.08
Le problematiche relazioni umane e il controllo del comportamento
di Luigi Attenasio* Angelo Di Gennaro**


La notizia inquieta: il Segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, nonché candidato premier, apre alla castrazione chimica dei pedofili. Essa consiste nella somministrazione di farmaci che bloccano gli ormoni sessuali maschili. Apertura che fa seguito a quanto affermato cinque anni fa dal leghista Calderoli e, più recentemente, dopo i fatti di Agrigento, da Gianfranco Fini. A questo punto cominciano le prese di posizione. La destra è d'accordo. Veronesi pure: può dare risultati. Il farmacologo Silvio Garattini insiste sulla mancata sperimentazione e sulla necessità di usare, semmai, terapie psichiatriche: non è soltanto un disturbo ormonale ma, soprattutto, psichiatrico. Bindi ritiene che si tratti di una soluzione anticostituzionale e perfino pericolosa. Non è affatto certo, afferma lo stesso Presidente della Commissione Sanità al Senato Ignazio Marino in un recente dibattito televisivo, che il farmaco sia in grado di controllare un fenomeno che presenta numerosi risvolti di carattere psicologico e, proprio per questo motivo, la pedofilia, quand'anche "castrata", potrebbe prendere altre strade ed altre forme. L'idea non piace neanche alla Chiesa: è grave e non neutralizza il pericolo. Raffaele Morelli parla esplicitamente della castrazione come un modo per vendicarsi. La scienza e la Chiesa scelgono la cautela, la "grande politica" opta per la linea dura.
E noi? Scontato evidentemente che queste persone devono essere messe in condizione di non nuocere a tutti i costi ma questo non è il nostro compito, a noi questa vicenda ne ricorda altre. Per esempio, la tecnica del problem-solving, ossia la filosofia, decisamente americaneggiante, secondo la quale ad ogni problema non può che corrispondere una soluzione ma anche soprattutto che non esiste il problema se non c'è la soluzione, e cioè che vi è una connessione diretta tra la conoscenza scientifica del problema e l'intervento operativo che conduce alla soluzione razionale, che supponiamo ottimale. Ci sarebbe tanto da discutere sui danni fatti da un tale paradigma e sulla logica conseguente ma per ora ci basta ricordare che far leva sul maneggiamento dei sintomi piuttosto che discutere con il paziente su come migliorare la sua qualità di vita è tutt'altro atteggiamento, sia scientifico che umano. Se il primo rimanda ad una visione secondo la quale è legittimo manipolare persino la vita umana, il secondo si fonda sulla fiducia verso il dialogo tra umani, ovi trovi un posto dignitoso persino la follia, non solo oggetto di conoscenza ma anche strumento di conoscenza e conoscenza essa stessa.
E ancora il Ritalin: dobbiamo forse dimenticare la tendenza sempre più frequente a somministrare Ritalin, amfetaminosimile, ai bambini con disturbo da deficit da attenzione e iperattività?
Oppure ci dobbiamo dimenticare della lobotomia, cioè togliere un pezzo di cervello, ripresa in America alla grande non più utilizzando il punteruolo da ghiaccio, come si faceva fino agli anni 80 (proprio così!!!) ma il più "scientifico" e incruento laser?
Oppure dobbiamo trascurare quanto proposto giorni fa da alcuni psichiatri italiani di favorire un maggiore uso dell'elettroshock nei pazienti psichiatrici? Le parentele tra tutto ciò ci sembrano abbastanza strette. Per risolvere la problematicità delle relazioni umane l'unica strada possibile diventa quella del controllo del comportamento, o quella di amputare (non più un arto o una parte del cervello), cosa estremamente più drammatica, i conflitti, quelli interni, quelli relazionali, le problematiche familiari, del lavoro, della casa, tutto quello insomma che è parte determinante della vita, della storia di una persona, riproponendo tra l'altro il nefando, perverso connubio tra cura e controllo, cura e custodia.
Insomma, da questa breve analisi emerge chiaramente che siamo di fronte al dilagare di una politica liquida in trasformazione, ad una ex/fu sinistra che rincorre la destra, probabilmente per qualche voto in più al centro e per marcare sempre più nettamente le distanze dalla vera Sinistra, ma anche a un sostituto procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Roma che sul Messaggero di oggi riesuma la categoria della pericolosità dei "matti" (che nella legge non esiste più!!!) affermando che l'unica eccezione per sottoporre qualcuno a pratiche sanitarie contro la sua volontà è costituita dal Trattamento Sanitario Obbligatorio per pazienti psichiatrici in quanto "pericolosi per sé e per gli altri".
Che cosa ci rimane, dunque, di tutta questa vicenda? Quale rispetto poter avere di noi stessi come operatori democratici se dimentichiamo quanto imparato in questi anni di lotta antiistituzionale e cioè che la terapia è arricchimento e varietà di reti aperte a più attori e risorse che entra nel rischio della vita, e non dunque procedura ossificata e codificata che soffoca e "castra" le spinte emancipative. Ci sovviene quanto ci disse Pietro Ingrao tempo fa parlando di chi soffre: "Qui è la domanda a cui non so rispondere: che cosa è la salute e che cosa è la malattia? Fin dove quella malattia è malattia o è ricerca disperata di salute, illusione di salute? Mi rivolgo agli operatori: che cosa è la cura, fin dove è aiuto e fratellanza, e fin dove, invece, è coercizione?"
Ingrao parlò, e non fu una lusinga, di rispetto verso quegli operatori, cioè noi, che ogni giorno cercano risposte a domande così aspre e un criterio per muoversi in quella tensione dell'individualità che in qualche modo confligge con la norma, e quale norma, e fatta da chi. Con grande umiltà, molto lontana dalle attuali arroganze e superficialità, continuò, "io non sono capace di dare non dico aiuto, ma qualche consiglio per questo aspro compito; insomma il problema inaudito che si trovano ad affrontare ogni giorno, non so con quante speranze e con quante carte in mano". Se cura è dunque non solo trattamento, esito, ma anche gestione, prendersi cura con implicito il concetto di preoccupazione, ansia e anche attenzione nei confronti di chi soffre o di chi è più debole, dove lavoro terapeutico e liberazione vanno a braccetto, quale migliore definizione di terapia di quella di Franco Fortini: "la terapia di cui parlo è l'insieme dei processi intenzionali, messi in opera al fine di modificare i rapporti tra gli uomini vissuti come sofferenza priva di meta e trasformarli in rapporti tra uomini vissuti come sofferenza dotata di meta, ossia come una modalità della gioia".
*Presidente
**Direttivo Psichiatria Democratica Lazio

Liberazione 29.2.08
Per il medico che per primo ha sperimentato l'aborto medico l'attacco di Avvenire
«è un clamoroso autogol. I dati delle Agenzie del farmaco di mezzo mondo parlano da soli»

Viale: «Pericolosa la Ru486? La gravidanza è più rischiosa»
di Davide Varì


Non bastava la campagna contro la legge 194, ora nel mirino del giornale dei vescovi italiani è partita un'altra campagna: quella contro la Ru486, la molecola abortiva che evita qualsiasi intervento chirurgico. A scatenare l'indignazione di Avvenire la decisione dell'Aifa, l'Agenzia del farmaco italiana, che appena qualche giorno fa ha dato il primo ok ufficiale al farmaco che consente un aborto non invasivo. Troppo facile abortire senza sofferenze, senza bisogno di interventi chirurgici e di ospedalizzazioni.
Ma questa volta Avvenire non brandisce, come fa di solito, la difesa della vita. Per portare avanti la sua nuova battaglia il giornale cattolico mette in primo piano la salute della donna. Insomma, sostituendosi ai "trials clinici" dell'"European Medicines Agency" e di quelli della "Food and Drug Administration", il giornale mette in guardia dai presunti rischi mortali e dai "pericolosissimi" effetti collaterali di questo farmaco: indice di mortalità, complicazioni e scarsa efficacia. «Balle», sbotta Silvio Viale. «Balle in piena regola», ripete il medico che per primo ha sperimentato la Ru486 subendo gli strali dei "defensor vitae" nostrani.

Dottor Viale, Avvenire di ieri l'altro ha dedicato un'intera paginata ai rischi mortali della Ru486...
Penso che sia un clamoroso autogol. Portare la battaglia contro l'aborto medico su un piano scientifico significa, per loro, perdere la battaglia.

Iniziamo dalla mortalità. Secondo il giornale cattolico ci sarebbero 16 morti accertate, causa diretta del farmaco. Conferma?
Assolutamente no. Negli Stati Uniti le morti dovute a infezione sono 6 che corrispondono a uno 0,8 per centomila casi. Un dato del tutto analogo a quello della mortalità dell'aborto spontaneo. Senza contare che la mortalità in gravidanza è cento volte superiore di quella dell'aborto chirurgico e dieci volte di quello medico.

Sta dicendo che portare avanti la gravidanza è più rischioso che abortire?
Non lo dico io, lo dicono i dati. E' evidente che si tratta di un paradosso, io non consiglierei mai a una donna di abortire per evitare complicazioni in gravidanza. Detto questo, come ha ribadito l'Agenzia europea del farmaco e la Food and Drug Administration, non c'è nesso tra queste morti e la Ru486. Aggiungo inoltre che tante altre morti non c'entrano nulla con la 486 ma riguardano l'ostetricia in generale. Per quel che riguarda la "Clostridium sordelii" - l'infezione responsabile di alcuni decessi - dopo le segnalazioni e il monitoraggio predisposto dalle autorità americane si è scoperto che è causa di morte in tanti altri campi della medicina.

Ma Avvenire parla anche di tante complicanze: emorragie, gravidanze extrauterine e così via...
Le complicanze sono possibili in tutti gli aborti. Ma di certo le complicanze dell'aborto medico sono notevolmente inferiori a quelle degli aborti chirurgici. L'ostetricia e la gravidanza in generale sono sempre condizioni di rischio che spesso si sottovalutano e le complicazioni in gravidanza sono sempre superiori a quelle degli aborti anche nei Paesi dove l'aborto è clandestino.

E sull'efficacia? Sempre secondo Avvenire, con la Ru486 molti aborti si prolungano per molte settimane con il rischio conseguente di interventi chirurgici...
In un terzo dei casi i sintomi dopo l'assunzione del farmaco sono poco più di una mestruazione; in un altro terzo danno dolori assolutamente sopportabili e nell'ultimo terzo dei casi è sufficiente un semplice antidolorifico. Nell'aborto chirurgico, invece, serve sempre un'anestesia. Il fatto è che di solito parlano di aborto coloro che non sanno cosa sia. Tendono a esagerare e terrorizzare usando temini come emorragia che di per se non vuol dire nulla se consideriamo che la normale mestruazione è essa stessa un'emorragia.

In effetti le agenzie del farmaco sperimentano la Ru486 da anni...
Certo, dietro la Ru486 c'è un'esperienza ventennale di Paesi come Francia Svezia e Inghilterra. La Food and Drug Administration, nel 2007 ha confermato la sicurezza del farmaco e l'Aifa, superati i momenti i cui i ministri Sirchia e Storace ordinavano di evitare la Ru486 in italia, non può non confermare le valutazioni delle agenzie mondiali.

Un'ultima domanda, stavolta politica: la sua candidatura col piddì in Piemonte ha scatenato le ire dei Teodem. Non è che ha sbagliato partito?
Beh, io sono un Radicale, forse è stato il mio partito ad aver sbagliato alleanza. In effetti sembra proprio che i cattolici del piddì non mi vogliano. Vedremo...

Corriere della Sera 29.2.08
Bimbi malati di vivacità
«Iperattivi»: in Italia sono 80 mila I medici si dividono sulle cure
di Mariolina Iossa


Non sta mai fermo, non porta a termine un compito, non ascolta, non rispetta le regole. È aggressivo oppure se ne sta per conto suo, non riesce a restare concentrato per più di pochi minuti o addirittura pochi secondi e quindi a scuola non fa progressi. Non ha amici, viene emarginato e gli insegnanti spesso pensano che sia un ritardato mentale.
Un bambino con questi comportamenti non è affatto ritardato, anzi è molto intelligente ma potrebbe avere l'Adhd, sindrome da iperattività e deficit di attenzione. Di questo disturbo fino a pochi anni fa non si sapeva nulla, oggi se ne parla sempre più spesso e per migliaia di famiglie è cominciato un lungo calvario. In America nel giro di pochi anni sono stati diagnosticati ben 730 mila bambini con sindrome da Adhd e per almeno un terzo di loro sono arrivate le medicine: il Ritalin (metilfenidato) e lo Strattera (Atomoxetina Cloridrato). Ma la facilità con cui sono state prescritte ha insospettito molti. Troppi medici, genitori e insegnanti favorevoli ad una pillola miracolosa e troppi bambini trattati con psicofarmaci. Sei vivace? Eccoti la medicina così stai tranquillo, non disturbi i compagni e mamma e papà placano le loro ansie.
Dagli Usa all'Europa, Ritalin e Strattera hanno viaggiato molto veloci, solo che in Europa il rischio di abuso ha creato subito grande allarme. I casi di Adhd si sono sì moltiplicati ma non come in America. E se è vero che l'Organizzazione mondiale della Sanità ha riconosciuto l'Adhd come una sindrome di natura biologica, è anche vero che i bambini davvero malati sarebbero una percentuale molto più bassa di quella diffusa fino allo scorso anno. Senza considerare che gli effetti collaterali dei farmaci non sono insignificanti: perdita di peso, sonnolenza, arresto della crescita. Depressione e istinti suicidi negli adolescenti che lo prendono da anni.
In Italia il Ritalin era illegale fino allo scorso anno. Chi lo ha dato ai propri figli doveva procurarselo a Lugano o a San Marino con la ricetta di un medico consenziente. Dall'8 marzo 2007 anche i bambini italiani con Adhd possono accedere al farmaco. «Ma c'è tutto un percorso da fare prima di arrivarci — spiega Pietro Panei dell'Istituto Superiore di Sanità —. Con il decreto dell'aprile 2007 è nato il registro nazionale, uno strumento unico al mondo. Da noi la cura dell'Adhd è di tipo multimodale, non si prende la pillola e basta, si seguono diversi percorsi psicoterapeutici. Perché il farmaco non cura, agisce sui sintomi e permette di attivare le altre terapie». Soltanto i centri accreditati che hanno i requisiti di legge e un'équipe di professionisti possono prescrivere le medicine. I centri sono 112, per ora ne operano 52. Nomi e indirizzi si trovano sul sito www.iss.it.
Ma quanti sono in Italia i bambini che prendono i farmaci? «Oggi soltanto 302 — risponde Panei —. Tutti iscritti nel registro. Il 40 per cento prende il Ritalin e il 60 per cento lo Strattera». I bambini ai quali è stata diagnosticata l'Adhd sono invece stimati attorno all'1 per cento, circa 80 mila. Quelli che prendono il farmaco non aumenteranno in maniera esponenziale. Con la nascita del registro e l'affiorare dei casi, noi stimiamo una crescita di 30-40 nuovi iscritti al mese per il 2008, poi di 15-20 al mese per il 2009. Infine ci stabilizzeremo. Credo che nel 2010 non saranno più di 1.200-1.500 i bambini trattati con le medicine».
«Il registro nazionale è un'ottima cosa — conferma Patrizia Stacconi, presidente dell'Aifa, la più conosciuta associazione di famiglie che hanno figli con Adhd —. Noi genitori siamo i primi a stare attenti. Chi ci accusa di volere le medicine per deresponsabilizzarci fa solo terrorismo psicologico. La verità è che oggi le famiglie di molti bambini malati, che prima erano sole e disperate, hanno qualcuno a cui rivolgersi. E non privatamente ma con il servizio pubblico. Il Ritalin non costa molto, 6 euro a confezione, ma la psicoterapia sì. Una sola seduta va dai 25 euro della Sicilia ai 150 della Lombardia. La maggior parte dei bambini con Adhd non prende medicine ma della psicoterapia ha assolutamente bisogno ».
Eppure per l'associazione «Giù le mani dai bambini» il registro nazionale non abbasserà il rischio di abuso. «Nei giorni scorsi davanti ad alcune scuole di Bologna un'associazione di genitori ha distribuito volantini pro-Ritalin alle famiglie, consigliando di andare in Veneto per farsi prescrivere il farmaco perché il centro del capoluogo emiliano è restìo a darlo. La Procura ha aperto un'inchiesta — racconta il portavoce Luca Poma —. Bisogna tenere alta l'attenzione. Adesso l'Iss fa marcia indietro. Lo scorso anno però dava percentuali più alte, fino al 3% di bambini con Adhd e la Società italiana di neuropsichiatria infantile pensava che fossero il 3-5%. Se non stiamo attenti saranno molto più di 1.500 i bambini italiani a dover prendere le medicine».
Concorda Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell'Istituto di Ortofonologia di Roma: «Non esiste un protocollo diagnostico certo per questa Adhd. Il questionario per la valutazione ha così tante lacune scientifiche che un medico in Emilia Romagna ti fa una diagnosi diversa rispetto ad uno specialista in Veneto, per esempio». Bianchi di Castelbianco non nega che «con il Ritalin i bambini si calmino. Ma a che serve? Questi disturbi hanno altre cause, diverse tra loro, e si curano con differenti percorsi terapeutici. L'Adhd è solo un'etichetta. Stiamo attenti a non dare medicine inutili a chi soffre di depressione, disturbi del comportamento o è solo ribelle».
Eppure a sentire le famiglie dei piccoli malati di Adhd la realtà è ben diversa. «Mio figlio Ivan — racconta Giuliana M. — prende il Ritalin da 4 anni e mezzo. Fin da piccolo non stava mai fermo, non aveva amici, era aggressivo e violento. In prima elementare

Corriere della Sera 29.2.08
L'esperto Il neuropsichiatra Curatolo. In arrivo un nuovo farmaco senza effetti collaterali
«Ma le pillole siano l'ultima spiaggia»

ROMA — «L'Adhd è un disturbo riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della Sanità, che ha cause biologiche ma che può essere efficacemente curato, nella maggior parte dei casi, con un trattamento psicopedagogico».
Paolo Curatolo è docente di Neuropsichiatria infantile dell'università di Roma Tor Vergata. Dirige uno dei più importanti centri italiani per la diagnosi della sindrome da iperattività e deficit di attenzione. Per Curatolo «questo disturbo non va banalizzato, perché se non è trattato correttamente può incidere pesantemente sulla vita del bambino. Occorre dirlo con chiarezza: il bambino con Adhd non ha colpe, non è ribelle, maleducato e neppure svogliato o aggressivo. Il suo disturbo non è provocato da genitori cattivi, né da mamme troppo fredde o in carriera ».
Il farmaco va sempre prescritto con estrema cautela. «Ritalin e Strattera vanno dati — continua Curatolo — solo nei casi più gravi e che non rispondono a nessun'altra cura. Sono l'ultima risorsa terapeutica.
Quanto al protocollo è uno strumento di garanzia unico al mondo, messo a punto dalla comunità scientifica e certo è perfettibile, ma non è un questionario qualsiasi. Con il protocollo in un qualunque centro italiano verrebbe data la stessa diagnosi. Non si può identificare questo disturbo con un'eccessiva vivacità, così come non si può dire che un bambino molto timido è autistico».
Non esistono solo Ritalin e Strattera, ad ogni modo, presto ci potrebbe essere un'alternativa senza effetti collaterali. È proprio di questi giorni la notizia che due ricercatori della Cattolica di Roma, il genetista Giovanni Neri e la neuropsichiatra infantile Maria Giulia Torrioli, hanno coordinato uno studio internazionale, pubblicato online sull'American
Journal of Medical Genetics, che ha scoperto nel L-acetilcarnitina (in commercio come Nicetile) un valido aiuto per i bambini con X fragile (forma di ritardo mentale) ai quali era stata diagnosticata anche l'Adhd. «La sperimentazione è durata un anno su 60 bambini — spiega Neri —. Noi pensavamo che Nicetile potesse riattivare il gene mutante dell'X fragile. Questo non è accaduto. Ma già dopo un mese l'iperattività è diminuita e a distanza di tempo il farmaco si è rivelato un ottimo aiuto per i bimbi iperattivi. La cosa più importante è però un'altra: questo farmaco non ha effetti collaterali perché non è uno psicofarmaco ma agisce sul sistema nervoso centrale a livello di metabolismo energetico».
M. Io.

Corriere della Sera 29.2.08
Steiner. «L'invidia, l'erotismo, Dio Indago i tabù della coscienza»
Un'opera-testamento: per me è il tempo dei rimpianti e degli addii
di Nuccio Ordine


Incontri Lo storico della cultura presenta il suo ultimo lavoro, «I libri che non ho scritto»: un bilancio che è insieme privato e letterario
Nato a Parigi nel 1929, Steiner è storico della cultura, figura di primo piano del dibattito internazionale, e critico letterario

«Un libro non scritto è come un'ombra attiva che accompagna, con ironia e tristezza, le opere realizzate. Si tratta di una vita che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto, di un viaggio che avremmo potuto compiere e non abbiamo compiuto. Ma la possibilità mancata può avere conseguenze imprevedibili. Proprio il libro non scritto potrebbe fare talvolta la differenza. Un fallimento? Un successo? Chissà...». George Steiner, a settantanove anni, non finisce di stupire. E anche se i lettori sono abituati ai suoi saggi dominati da paradossi, da provocazioni, da contraddizioni, da argomenti pro e contro che lottano tra loro dalla prima all'ultima pagina, questa volta si troveranno di fronte a qualcosa di diverso. Non tanto per i singoli temi o per i concetti analizzati. Ma, soprattutto, perché ne I libri che non ho scritto Steiner parla di se stesso e della sua percezione dei tabù, accompagnandoci in un affascinante viaggio nelle pieghe dell'anima. Come in uno specchio (impossibile non pensare al Narciso di Caravaggio) i setti capitoli dei sette libri non scritti riflettono le ansie e le paure, le tristezze e i fallimenti, i conflitti e le fragilità che hanno costretto l'autore a rinunciare ai suoi progetti.
Anche una vita piena di successi, di premi, di cattedre prestigiose può conoscere la tristezza dell'«impossibilità». Pubblicato in Francia da Gallimard (la traduzione italiana per Garzanti uscirà dopo l'estate), il volume è già un caso letterario per la sua originalità.
George Steiner, che con entusiasmo sottolinea il suo grande amore per l'Italia, accetta di parlare del suo volume nella villa di Barrow Road a Cambridge. «Con questo ultimo lavoro — ci dice mentre accarezza il suo cane Ben — ho voluto guardare in due direzioni. Da una parte, esprimere una serie di rimpianti e il bisogno di dire addio: alla mia età non si ha più il tempo per scrivere ciò che si vorrebbe scrivere. Dall'altra parte, ho pensato al futuro: spero che altri potranno occuparsi di alcuni problemi essenziali che ho sollevato. Penso allo studio comparato dei grandi sistemi scolastici e universitari che richiede un lavoro d'équipe o all'interazione tra erotismo e lingue. Spero che questo piccolo libro potrà generarne altri...».
Dietro ogni singolo tema affrontato (l'invidia, la politica, l'ebraismo, l'istruzione, la critica, l'eros, gli animali, l'esistenza di Dio), Steiner cerca di illuminare proprio gli angoli più bui della coscienza. «Questa volta, a differenza di Errata, ho tentato di penetrare i tabù interiori. Non solo, quindi, quelli ufficiali: ma esploro ciò che in me ha provocato delle barriere molto difficili da superare». Il rapporto tra Cecco d'Ascoli e Dante, per esempio, diventa occasione per una lunga digressione sull'invidia e sul mestiere parassitario del critico: «Tutta la mia vita ho cercato di distinguere i grandi creatori da noi (i critici, i commentatori, i professori). Noi siamo i "postini" (come ricordava Puškin) che hanno il compito di imbucare le lettere nei posti giusti. Noi interpretiamo, annotiamo, glossiamo i testi dei grandi creatori: noi abbiamo bisogno di loro per esistere, ma loro non hanno bisogno di noi. Ogni mattina penso a questa distinzione. E, nonostante il mio mestiere mi abbia dato tantissime soddisfazioni, non posso nascondere il rimpianto di non aver avuto veramente il coraggio di correre il rischio di scrivere lettere. Ho pubblicato anche versi e romanzi, ma forse avrei potuto, come dice Beckett, "fallire meglio"... ».
Anche le pagine dedicate al rapporto tra eros e linguaggio intrecciano considerazioni scientifiche a esperienze personali. «Ho avuto il privilegio di fare l'amore in quattro lingue. E in questo capitolo, che ha suscitato una serie di critiche in America e in Inghilterra, affronto un tema essenziale: come il sesso incontra la coscienza e l'immaginazione linguistica. C'è tantissimo da scoprire. Abbiamo, per esempio, studi interessanti sui non-vedenti, ma non abbiamo nulla che possa aiutarci a comprendere la vita erotica interiore del sordomuto. Spero che gli esperti potranno indagare meglio questi aspetti. Ho posto dei problemi. Anche qui ho dovuto rinunciare a un affondo per evitare di ferire persone molto care...».
L'intero volume è percorso da un sottile elogio della discrezione, del bisogno di proteggere la vita intima in una società in cui tutto viene esibito e ridotto a spettacolo. «Mai come adesso, anche nella alta erudizione e nella filosofia, dilagano i "paparazzi" del pensiero che infettano tutta la nostra vita. Io vorrei un ritorno al pudore, allo spazio riservato della vita interiore. Per questo ho voluto parlare della mia diffidenza per la politica. Spesso mi hanno chiesto di firmare documenti, appelli, di partecipare a movimenti. Ma io mi sento come l'" idiota" di cui parla Aristotele. Resto a casa, perché ho l'impressione che la politica somigli a un campo di nudisti. Coltivo l'arte della solitudine e sono geloso della mia intimità. Ma so bene che non votare e non partecipare alla vita politica mi espone a critiche legittime: altri decidono per me».
Steiner esprime, a più riprese, il senso della solitudine che accompagna molto spesso la vita intellettuale. Rivendica la sua condizione di «invitato», di ebreo errante, di chi vive sempre con la valigia in mano. «La questione dell'identità ebraica — a causa dei drammatici avvenimenti in Medio Oriente e della condizione tragica di Israele — diventa sempre più urgente. E senza dimenticare che in Europa, e altrove, l'antisemitismo si infiamma, io penso che la missione del pellegrino ebreo sia quella di imparare a essere l'"invitato" degli altri. Come ci ricordava Heidegger, noi tutti siamo gli invitati della vita. Per oltre duemila anni, gli ebrei non hanno torturato nessuno e questo faceva la loro gloria tragica. Adesso per sopravvivere — voglio sottolinearlo: per sopravvivere — Israele deve umiliare e talvolta infliggere dolore ad altri esseri umani. Ciò macchia questa "nobiltà" del nostro popolo, di cui io sono stato sempre fiero». Steiner non nasconde le sue angosce, le sue perplessità per il sionismo. «So bene che per molti ebrei dopo la Shoah questa nascita di una nazione si rendeva necessaria. Ma io sono convinto che Baal Shem Tov, uno dei maestri del chassidismo, avesse ragione: la verità è sempre in esilio. Fermarsi in una nazione armata fino ai denti, significa diventare uomini ordinari. Ma — non posso ignorare la domanda — è legittimo criticare Israele quando si vive lontani da chi lotta in quelle terre per difendere la vita?».
I temi si intrecciano tra loro. Steiner confessa candidamente che l'orrore di Auschwitz e il male diffuso nel mondo lo spingono a escludere l'esistenza di un Dio e tesse coraggiosamente un elogio delle incertezze. Lui, il male, lo ha conosciuto presto, dovendo anche misurarsi sin dalla nascita con un impedimento fisico. «Questa difficoltà — conclude con fierezza — è stata per me una scuola di vita. Ma non bisogna dimenticare che chi ha un handicap vive in un mondo diverso: non migliore, non peggiore. Un mondo diverso».

Corriere della Sera 29.2.08
Foucault arruolato nel Pd
di Pierluigi Panza


Salvate il «soldato» Michel Foucault arruolato da Khaled Fouad Allam nel Partito democratico (vedere sito del Pd).
Complicato il legame: «Nei suoi scritti apparsi sul "Corriere" alla fine degli anni '70, si interessava all'Iran perché vedeva apparirvi una questione che avrebbe travolto la nostra era globale... e profeticamente intuito il delinearsi della crisi della cittadinanza». Come mostrato da Renzo Guolo (come Fouad Allam commentatore della «Repubblica») in un libro, per 8 reportage su 9 dall'Iran, Foucault prese l'abbaglio di credere che quella fosse una rivoluzione «dal basso», maoista, filo68.
Quando iniziarono i processi sommari, si accorse che era la nascita del fondamentalismo islamico. Ma «che c'azzecca» il Pd (alleato di Di Pietro) con lui? Foucault, che era nel Pcf e contro ogni «istituzione totale» forse si candiderebbe nella Sinistra arcobaleno. O forse con Ferrando. O, forse non sarebbe meglio evitare questi cortocircuiti?