da l'Unità qui
l'intervista originale su El Pais qui
Fausto Bertinotti: «Veltroni è reoconfesso»
Veltroni «non c'è ragione di temere che nel Pd i cattolici siano mortificati. Al contrario, è di tutta evidenza come essi rappresentino una delle colonne portanti del partito: non solo sul piano quantitativo, ma anche sul piano della qualità e dell'autorevolezza delle idee».
Bertinotti dice che è "reoconfesso"
l'Unità 2.3.08
Fascisti tra noi
di Furio Colombo
Nessuno, credo, ha dimenticato il bellissimo “Fascisti su Marte”, lo spettacolo Tv e il film di Corrado Guzzanti. Si rideva del ridicolo, che imitava riti veri e gesti veri di veri e ridicoli e sanguinari fascisti italiani, nei vent’anni del loro governo marcato dalla vergogna assassina delle leggi razziali. Si rideva come se il ridicolo fosse l’esagerazione un po’ spiritosa e cattiva di una vecchia realtà. Chi c’era, a quel tempo, chi ha visto, chi può ancora narrare quei giorni, può dire che sono stati peggiori di tutto ciò che abbiamo letto o ascoltato, sia nella parte ridicola (di cui, in tempo reale, era pericolo mortale ridere) sia nel volto tragico che prometteva sangue e ha sempre mantenuto quella promessa.
Se vi sembra che questo linguaggio sia un po’ pesante, in un’Italia dove tutti vogliono parlare con un tono più neutrale, tenete conto dei fascisti. Tenete conto del fatto che, in queste elezioni sono “in corsa” anche i fascisti. Strani primati, infatti, distinguono l’Italia dagli altri Paesi dell’Unione.
Siamo stati gli unici in Europa ad avere personaggi come Borghezio, Lega Nord, molto attivi nel dare fuoco ai giacigli di immigrati poveri sotto i ponti della Dora a Torino (condanna per un reato spregevole, passata in giudicato, ma che non ha impedito a Borghezio di essere, come è tutt’ora, deputato a Strasburgo della Repubblica italiana, molto attivo, tra la costernazione di tutti i suoi colleghi psichicamente e politicamente normali, nell’ aggredire e insultare il capo dello Stato italiano quando si reca al Parlamento europeo).
Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.
Non ho letto un solo editoriale dei “liberali” che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.
Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.
Non ho letto un solo editoriale dei “liberali” che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.
Molti commentatori e corsivisti trovano divertente che vi siano signore della buona società che si dichiarano «orgogliose di essere fasciste» e si iscrivono al primo e al secondo posto della lista elettorale fascista. Le intervistano come a una sfilata di moda e registrano senza obiezioni risposte deliranti e certamente estranee alla Costituzione in vigore che, in qualunque altro Paese, sarebbe un argine invalicabile.
Ma prima delle signore che stanno accorrendo dalle migliori famiglie intorno all’iniziativa dichiaratamente fascista di Storace, credo sia necessario esibire un’altra evidenza, come si direbbe in un processo: il fascismo nelle scuole. Ne ha parlato su questo giornale Marina Boscaino, insegnante e giornalista. Ha fatto notare le nuove dimensioni del problema. Non stiamo parlando di “gruppetti” e meno che mai di “nostalgici”. Per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra, una parte dei ragazzi italiani che va a scuola (non i più stupidi o volgari o disattenti e - tra loro - alcuni veri leader) guarda al passato solo come area di raccolta di simboli e senso di quello che fanno. Il passato è una prova che si può fare. Fare che cosa? Passare all’azione. Contro un mondo che non funziona, non può funzionare perché si chiama democrazia.
In altre parole, questi ragazzi sono ben radicati nel presente, e nonostante la propensione tipicamente fascista per riti o celebrazioni funebri, hanno cose da fare per il presente, e un senso molto vivo, niente affatto qualunquista o opportunista, del futuro. L’immagine è quella di una lama che taglia i nodi della complicazione che è la democrazia imbrogliona e borghese, della ingiustizia che in un simile mondo è inevitabile, della “legalità”, parola pronunciata con ribrezzo, in nome di una civiltà pulita che si crea con uno slancio superiore di persone decise a tutto e consapevoli della loro missione nella storia. Insomma un nuovo fascismo “allo stato nascente”, per usare l’efficace definizione di Francesco Alberoni.
***
Traggo materiale e ragioni di ciò che sto dicendo da una lettera pubblicata da la Repubblica (28 febbraio) a cui risponde Corrado Augias.La lettera: «Frequento il secondo anno del liceo classico Virgilio di Roma, ho letto e assistito a manifestazioni scolastiche di rinascita di movimenti fascisti nelle scuole.... Voi forse pensavate che il fascismo avesse dato gli ultimi colpi di coda, che fosse un’ideologia logora. Avevate ragione. Quelli che oggi nelle scuole si autodefiniscono “fascisti” sono ragazzi come me e tanti altri.... Questa lettera è anche una richiesta di comprensione. Il presente è vostro. Il domani no».
Trascrivo in parte la risposta di Corrado Augias: «”Il fascismo” è il rivestimento, la buccia, di domande piuttosto ragionevoli. La buccia fascista, però, si accompagna inevitabilmente a una certa voglia di menar le mani. L’aspetto veramente preoccupante è che i ragazzi di sinistra hanno perso l’iniziativa. Non hanno capito in tempo che bisognava mettere da parte il dibattito sulle ideologie, che ormai interessano poco, e lottare invece per i problemi di ogni giorno».
Utilissima questa lettera e questa risposta, e dobbiamo cominciare da qui.
Lo farò alla luce della pubblicazione “Blocco Studentesco” (anno I, numero 2) diffuso in questi giorni nei licei romani, che ha per sottotitolo «l’avvento dei giovani al potere contro lo spirito parlamentare, burocratico, accademico».
Titolo di copertina. «Giustizia!» Spiega l’articolo di fondo: «La Giustizia è troppo spesso accomunata alla legalità. Per favore non diciamo cazzate. In un Paese dove avere la casa è un lusso, dove i mezzi di informazione sono controllati, dove un innocente come Luigi Ciavardini (ritenuto co-autore della strage di Bologna, ndr) viene condannato a trenta, dico trenta anni di reclusione, dove un ragazzo come Gabriele Sandri viene assassinato senza motivo (il tifoso della Lazio ucciso sulla A1 da un agente di polizia che parla di colpo accidentale, Ndr) dove, a distanza di trent’anni da una delle peggiori stragi degli anni di piombo, quella di Acca Larenzia, non c’è nessun colpevole, chi ancora vuole venire a parlarci di giustizia?»
Per chiarire a quale fonte stiamo attingendo, occorre far sapere ai lettori ciò che Tv e giornali non ci dicono: “Blocco studentesco” colleziona risultati importanti in un bel numero di elezioni scolastiche e di istituto, piazza negli organi di rappresentanza studentesca i suoi esponenti, ricopre cariche, parla a nome di molti. Niente a che fare con i “gruppetti”.
Ma l’ideologia c’è, eccome. È ideologia rigorosamente fascista. Ma un modo di interpretare, o di completare l’intuizione di Augias (e anche del ragazzo che gli scrive) è questa: nonostante il tono funebre della rievocazione e l’aspra cattiveria motivata dal ricordo, qui non siamo nel passato. Vediamo perché.
Un primo segnale, quasi una parola codice del nuovo fascismo, sono le Foibe. Il ricordo di una tragedia preparata a lungo, con crudeltà dalla occupazione fascista e nazista, ma conclusasi poi con una feroce vendetta jugoslava contro migliaia di italiani, diventa nelle pagine di “Blocco Studentesco” (come accade del resto anche nelle piazze, nel Parlamento italiano e in televisione) uno strumento per rivendicare la guerra fascista, la sacralità della nazione e dei confini, l’uso continuo dell’altra parola codice, «martiri» (parola che riguarda solo i morti fascisti) per tenere sotto ricatto i giovani di sinistra (che non sanno che la tragedia delle Foibe non è mai stata nascosta e non è mai stata un segreto; posso testimoniarlo perché l’ho studiata e discussa in liceo) e per profittare di uno strano atteggiamento dell’antifascismo adulto italiano, che sembra ogni volta colto di sorpresa da uno degli argomenti più dibattuti da decenni nella vita politica e nella storiografia contemporanea italiana.
La novità introdotta dal nuovo fascismo è di parlare dell’orrore delle Foibe come fenomeno del tutto isolato e indipendente dal feroce orrore assassino del fascismo italiano e tedesco nella Jugoslavia invasa e distrutta.
Le Foibe, comunque, servono per non parlare della Shoah, servono a rovesciare l’indignazione verso il fascismo in indignazione del fascismo. Potete infatti leggere su “Blocco Studentesco”, in un articolo firmato «Giorgio Bg»: «Sì, avete capito bene: il 25 aprile è una data fondamentale per la nostra nazione: è il compleanno di Guglielmo Marconi, inventore della radio.... E a tutti abbiamo ricordato che una delle battaglie portate avanti da “Blocco Studentesco” è quella di distruggere il concetto di “antifascismo militante”».
Come si vede, l’idea è chiara e politicamente intelligente. I ragazzi del Blocco non sono né incolti né disinformati. Sanno che stanno lavorando per loro gli storiografi improvvisati che si sono dedicati alla diffamazione della Resistenza. Sanno di poter contare sui molti insegnanti che di Resistenza non parlerebbero mai e non hanno parlato mai. Sanno di disporre di uno spazio vuoto, nel quale la Costituzione italiana rimane ignorata e isolata.
A leggere quello che scrivono, e come scrivono, sono tipi seri che non si occupano del fatto che due belle signore della mondanità milanese, la signora Santanché e la signora Paola Ferrari (moglie del giovane imprenditore Marco De Benedetti) sono la candidata n.1 e la candidata numero 2 nella lista ufficialmente fascista organizzata e promossa da Francesco Storace.
L’effetto mondano però li beneficia comunque. Invece di essere i resti di qualcosa che nel mondo è scomparso per sempre sotto il mare di cadaveri che ha provocato, sono l’avanguardia di un futuro che penetra le aree eleganti e persino zone che ti aspetteresti, in modo naturale, estranee al fascismo.
***
Ma c’è un alleato in più per questi ragazzi non male informati e non male organizzati che, se necessario, sembrano in grado di tirare le fila di assembramenti più grandi.Sono quella manodopera di giovani aspri, aggressivi, e decisi a non accettare alcun dialogo con la politica, qualunque politica, perché sono i militanti duri, ambi-destri e ambi-sinistri dell’antipolitica.
Michele Santoro ne espone ogni tanto gli esemplari in certe sue trasmissioni come quella puntata di Annozero a cui è accaduto anche a me di partecipare (la sera del 7 febbraio). Non ti guardano, non ti parlano, gridano quasi solo “cazzo”.
Sono giovani ostili per le condizioni in cui vivono e la vita che fanno. Ma rifiutano con estrema durezza ogni contatto. Ostentano un disprezzo per tutto ciò che è democrazia e Parlamento. È un disprezzo che li collega di fatto con i giovani di “Blocco Studentesco”, esattamente come deve essere accaduto negli anni Venti. Dunque qui nessuno si muove nel vuoto. E non ha più senso pensare a frange o gruppetti. Che lo abbia voluto o no, la destra italiana ha creato le condizioni per una destra estrema che raccoglie volentieri certi simboli e parole codice dal passato. Ma invece di nostalgia ha progetti per il futuro. E poiché la discussione e il dibattito non sono i suoi naturali strumenti - e infatti vengono sviliti ed evitati - il progetto è in attesa di una linea strategica. Ma il ritorno di una certa area fascista, con la sua componente di massa (”Blocco Studentesco” ci dice che a Roma esiste una «Casa Pound», dal nome del poeta americano fascista e antisemita, e una «Casa Prati» occupata insieme a famiglie di sfrattati) e la sua componente alto-borghese, è già cominciato.
Per questo è stato importante, e anche consolante, assistendo giorni fa alla commemorazione di Aldo Moro (30 anni dal delitto) ascoltare Alfredo Reichlin, Leopoldo Elia e Walter Veltroni dire: «Il senso della politica di Moro è stato di affermare con tenacia il legame fra la democrazia italiana e l’antifascismo, un legame rappresentato dalla Costituzione nata nella Resistenza».
Questa è l’Italia nel suo passato indimenticabile, nel suo presente difficile, nel futuro per il quale ci ostiniamo ad avere speranza, in nome di ciò che è accaduto, e nonostante ciò che sta accadendo. Una cosa sappiamo: non siamo fuori pericolo.
furiocolombo@unita.it
l'Unità 2.3.08
Gaza. Battaglia infernale: 60 palestinesi uccisi, tra cui 9 bambini
Attacco di Israele a Gaza, torna l’inferno
di Umberto De Giovannangeli
Vicino al campo profughi di Jabaliya uccisi 60 palestinesi tra cui 9 bambini. L’operazione militare decisa dopo i lanci di missili Qassam. Abu Mazen: è un olocausto. Consiglio di sicurezza Onu riunito d’urgenza
IL CREPITARE dei mitragliatori spezza il silenzio della notte. I razzi illuminano il teatro di guerra. I colpi di artiglieria rimbombano assordanti. Paura e morte. La battaglia di Jabaliya inizia poco dopo l'una della scorsa notte, quando unità speciali israeliane tenta-
no di penetrare nella periferia orientale della città, a nord di Gaza. Miliziani palestinesi individuano le teste di cuoio israeliane e aprono un fitto fuoco di sbarramento. A sostegno del commando israeliano intervengono prima elicotteri da combattimento e poi mezzi corazzati, che per ore martellano le postazioni palestinesi. Ad agire nella Striscia è un intero reggimento di Tsahal, duemila soldati. Da edifici sventrati dai missili aria-terra sparati dagli elicotteri Apache si alzano colonne di fumo. Nelle vie, i miliziani palestinesi improvvisano barricate con carcasse di automobili e cassonetti dell'immondizia incendiati. L'aria diviene irrespirabile. La zona dei combattimenti si trova molto vicina al centro abitato di Jabaliya, e questo spiegherebbe almeno in parte il coinvolgimento dei civili. Una donna palestinese che ha perso negli attacchi la figlia Jacqueline di 12 anni e il figlio Iyad di 11, racconta che a sparare contro i due bambini sarebbe stato un cecchino israeliano appostato su un palazzo.
Tra i miliziani palestinesi rimasti uccisi c'è anche il figlio di un deputato di Hamas: si tratta di Abdurahman Shihab, membro brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, e figlio di Mohammed Shihab, eletto parlamentare proprio a Jabaliya nel 2006 come rappresentante di Hamas. Due giorni fa a Gaza era stato ucciso anche il figlio del capogruppo parlamentare di Hamas, anche egli arruolato nelle brigate Al Qassam. Col passare delle ore cresce il bilancio dei morti, nella giornata più sanguinosa dallo scoppio della seconda Intifada (settembre 2000): almeno 60 (di cui nove bambini, uno dei quali un neonato di due giorni, e quattro donne); i feriti sono 150, compresi molti civili. I violentissimi combattimenti impediscono alle ambulanze palestinesi di recuperare i cadaveri che si trovano sul campo di battaglia e prestare soccorso ai feriti. «Sono in dodici, li consideriamo ancora feriti ma in realtà qui a Gaza non abbiamo nessuna possibilità di tenerli in vita»: è il drammatico appello di Halid Radi, portavoce del ministero della Sanità palestinese che nella Striscia di Gaza è controllato da Hamas. Radi chiede che quei dodici feriti, giunti l'altro ieri nell'ospedale Shiva, a Gaza City, dal campo di battaglia intorno a Jabaliya possano essere trasferiti al più presto in Israele: «È l'unica speranza che hanno per poter essere curati - spiega - noi qui non abbiamo specialisti, e neppure i farmaci adatti: la sola cosa che possiamo fare noi è guardarli mentre muoiono».
L'enorme flusso di feriti che ormai da quattro giorni continuano a giungere dalle zone dei combattimenti, rischia di portare al collasso gli ospedali di Gaza, già messi a dura prova da mesi di assedio. «Solo oggi (ieri, ndr.) abbiamo soccorso più di 100 feriti - dice ancora Halid Radi - molti richiedono la terapia intensiva, ma i posti letto disponibili sono tutti esauriti». E così le corsie sono state svuotate dei malati meno gravi per dare spazio ai ricoveri più urgenti. «Ormai inizia a scarseggiare tutto - prosegue il portavoce - persino bende e cerotti, che sono la prima cosa ad essere impiegata nella chirurgia di guerra». Da parte israeliana un portavoce dell'esercito riferisce che due soldati sono rimasti uccisi nei combattimenti e altri sei sono stati feriti Due bambini israeliani e un altro civile sono invece rimasti feriti dal lancio di razzi sulla città di Asqhelon che, nonostante gli intensi combattimenti, sono continuati a piovere (62 nelle ultime ventiquattr'ore su Asqhelon e Sderot). A Jabaliya si combatte strada per strada, casa per casa. Dai minareti delle moschee, i muezzin esortano alla resistenza. Da Ramallah si alza la voce del presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Ciò che si sta consumando nella Striscia di Gaza, afferma Abu Mazen, è «più che un olocausto», riferendosi a quanto detto l'altro ieri dal vice ministro della Difesa dello Stato ebraico Matan Vilnai. «Purtroppo Israele usa in questi giorni un termine generalmente evitato da 60 anni, e questo è il termine olocausto...Ciò che accade a Gaza è più che un olocausto», afferma il rais, che chiedere «protezione internazionale per il popolo palestinese». «È impensabile - aggiunge il capo dell'Anp in al Consiglio nazionale palestinese - che la reazione israeliana a dei lanci di razzi palestinesi, che pure noi condanniamo, sia così terribile e spaventosa» e colpisca «innocenti, donne, bambini, anziani». Il presidente palestinese chiede una riunione d'emergenza della Lega Araba e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, oltre che una presa di posizione del Quartetto per il Medio Oriente. L’Onu raccoglie la richiesta e convoca una riunione urgente. Il capo negoziatore palestinese, l'ex premier Ahmed Qrei (Abu Ala) afferma che « il negoziato sarà sospeso», infatti le trattative sono sospese. «Ciò che sta avvenendo a Gaza è un massacro di civili, donne e bambini, un genocidio». Secca la risposta di Gerusalemme: «Anche se i palestinesi desiderano sospendere i colloqui di pace ciò non avrà alcun effetto sulle decisioni di Israele a Gaza», dichiara la ministra degli Esteri israeliana, Tzipi Livni.
l'Unità 2.3.08
L’obiettivo su Balla
di Pier Paolo Pancotto
Sembra incredibile ma un autore fondamentale nella storia dell’arte italiana ed internazionale del XX secolo come Giacomo Balla (Torino, 1871-Roma, 1958) non risulta a tutt’oggi ancora dotato non solo di un catalogo generale che ne documenti scientificamente tutta la produzione ma, in termini più generali, di una fortuna critica così ampia ed esaustiva quale sarebbe lecito attendersi rispetto all’importanza della sua opera. Non che siano mancati contributi significativi da parte di alcuni dei maggiori studiosi del Novecento; basti pensare, tra gli altri, a quelli esemplari condotti da Maurizio Fagiolo dell’Arco. Ma tranne alcuni casi, come ad esempio il Balla firmato da Giovanni Lista nel 1982, si tratta per lo più di progetti editoriali legati a delle circostanze espositive, spesso tese ad indagare un aspetto specifico o una fase circoscritta del lavoro dell’artista. Un’iniziativa della casa editrice Electa inverte questa tendenza pubblicando il volume Giacomo Balla, genio futurista (pp. 304, euro 35,00) di Fabio Benzi. Il quale nel tracciare il percorso creativo di Balla, dagli esordi in ambito divisionista alla lunga stagione futurista fino a quella volta sui termini della figurazione, pur seguendo un ordine cronologico si sofferma opportunamente a riflettere su alcuni temi di particolare rilievo rispetto all’esperienza biografica e artistica di Balla, dal suo rapporto con la tecnica fotografica a quello con le discipline teosofiche, mettendone in luce una notevole molteplicità d’aspetti alcuni dei quali inediti. In tal modo egli offre un’immagine quanto mai ampia e variegata del «genio futurista» rendendo un personale ed appassionato omaggio ad un protagonista assoluto della cultura del ‘900.
l'Unità lettere 2.3.08
Libera Chiesa in... non libero Stato
Cara Unità,
Sottoscrivere la petizione Liberadonna di Micro Mega, ha attenuato quel mio strisciante malessere che diventa rabbia accompagnata da un frustrante senso di impotenza ogni volta che la Chiesa sentenzia e i nostri politici ne accolgono ossequiosamente i dettami. I nostri onorevoli sono tutti cattolici. Divorziano, si uniscono a compagne e compagni, ma manifestano nel giorno del family day. Parlano di metodi naturali per evitare nascite indesiderate ma quasi nessuno ha famiglie numerose. Sfido chiunque a ritenere che sia opera di Ogino Knaus. Ma forse gli onorevoli sono l’espressione di un popolo che , a sua volta, si dichiara cattolico ma divorzia, convive e, come anticoncezionale, unsa la pillola, la spirale e altri metodi certamente più sicuri. A pagare le conseguenze sono sempre i più deboli. È sempre la povera gente e, in particolare, quella fascia di età giovanile priva di esperienza e di corretta informazione su come evitare una gravidanza indesiderata. In Italia i consultori sono ormai nicchie in cui vige per lo più il passa parola come mezzo di pubblicizzazione. Sono in numero inferiore alle reali necessità, il numero degli addetti e i fondi sono inadeguati. Dov’è la sinistra? Il Pd non ha un’identità definita. Nato per unire, nei fatti è causa di ulteriori frammentazioni. I cattolicissimi della Margherita poco o niente hanno a che dividere con gli ex Ds. Dove sono le donne? Le manifestazioni servono se hanno un prima e un dopo e non devono essere un semplice sfogo.Chiuse in circoli autorefernziali le ex femministe, tutte volte a distinguere tra emancipazione (ormai parolaccia) e movimento di liberazione, hanno perso il contatto con i reali bisogni delle donne. E, se è vero che il pensiero della differenza ha un valore indiscusso nella liberazione della donna, è altrettanto vero che poco l'aiuta a liberarsi dalla fatica che, tra le mura domestiche, ogni donna paga alla quotidiana necessità anche quando lavora fuori casa.
Maria Teresa Santelli
Repubblica 2.3.08
Il dollaro ha perso il dominio del mondo
di Eugenio Scalfari
Alcuni "guru" della finanza americana fanno previsioni catastrofiche sull´evoluzione della crisi scatenata dai "subprime" immobiliari; altri, in America e in Europa, usano toni meno drammatici e prevedono che al massimo entro un anno la tempesta si placherà e rivedremo il sereno.
Nessuno può giurare sull´una o sull´altra tesi, le scommesse fanno parte del gioco e del funzionamento del mercato, ma bisogna esser ben consapevoli che si gioca a testa o croce, o al rosso e nero: cinquanta per cento di probabilità di vincere o di perdere.
Ciò premesso, ribadirò quanto scrissi nel giugno dell´anno scorso di fronte ai primi segnali dell´uragano: questa non è una crisi come le altre, non si limita ad un settore geografico del pianeta ma lo coinvolge tutto, non ha soltanto carattere finanziario ma dilaga nell´economia reale e intacca inevitabilmente i cosiddetti "fondamentali", cioè gli elementi di fondo che sorreggono l´economia. Merita quindi d´esser chiamata "grande crisi", definizione fin qui riservata a designare quella che cominciò a Wall Street nel 1929, si diffuse in Europa nel 1931 e non cessò di incombere sull´intero pianeta fino allo scoppio della guerra del 1939, nonostante che nel frattempo ci fosse stato il "New Deal" rooseveltiano e i fascismi europei.
Siamo dunque di fronte ad una grande crisi. Forse sbollirà tra un anno, forse si aggraverà ancora di più e si prolungherà. Forse intaccherà le strutture portanti del capitalismo e della democrazia oppure – a tempesta passata – tutto tornerà come prima. Ma a quest´ultima ipotesi, francamente non credo.
Mario Deaglio in un bell´articolo sulla "Stampa" di qualche giorno fa, ha spiegato quali sono i mutamenti più che mai reali che stanno fin d´ora modificando le strutture del sistema economico mondiale. Concordo completamente con la sua analisi che segnala i tre fattori della mutazione in corso.
Primo: una massa sterminata di nuovi consumatori si sta affacciando sul mercato delle derrate alimentari di base, soprattutto i cereali e il grano in particolare. Quantitativamente si tratta di almeno un miliardo di persone e nei prossimi anni questa cifra è destinata a raddoppiare a parità di abitanti del pianeta; ma sappiamo già che il tasso demografico è destinato ad aumentare di molto la popolazione mondiale con gli effetti nutrizionali che ne deriveranno.
Secondo: le nazioni emergenti (Cina, India, America Latina) hanno fame di energia e premono sulle risorse esistenti, in particolare sul petrolio. La ricerca di nuovi giacimenti e di nuove fonti sarà certamente stimolata, ma non abbastanza da ridurre l´effetto della domanda sui prezzi.
Terzo: il dollaro sta perdendo una parte del suo ruolo di moneta esclusiva sia per quanto riguarda le transazioni commerciali sia come unica moneta di riserva del valore.
La grande crisi non è responsabile di queste mutazioni, ma funziona come acceleratore. Spinge avanti i tre fenomeni in atto e li diffonde ovunque rendendo più difficile il contenimento e la gradualità.
* * *
Nouriel Roubini, il maggior catastrofista tra gli economisti che disegnano gli scenari del prossimo futuro, valuta a mille miliardi di dollari le perdite causate dai "subprime" immobiliari, dai debiti dei proprietari di case, dai debiti "in sofferenza" causati dagli strumenti finanziari "derivati", dai debiti dei titolari di carte di credito, dai debiti delle imprese fallite o minacciate da fallimento, dalle perdite che le banche e le compagnie d´assicurazione non hanno ancora iscritto nei loro bilanci e, infine, dall´andamento negativo delle Borse mondiali e dall´andamento altrettanto negativo dei margini di copertura degli operatori finanziari.Mille miliardi di perdite sono una cifra enorme. Anche se non tutti i ragionamenti di Roubini sono condivisibili, la sua valutazione delle perdite complessive sembra abbastanza ragionevole. Essa incide soprattutto sul terzo degli elementi di mutazione del sistema e cioè sul ruolo del dollaro e sulla tenuta del "dollar standard" in vigore fin dai primi anni Settanta.
Le istituzioni monetarie internazionali e cioè il Fondo monetario, le Banche centrali (comprese quelle di Pechino, di New Delhi, di Brasilia, di Buenos Aires e di Città del Messico) e i rispettivi governi dovrebbero prendere l´iniziativa di una riforma del sistema monetario mondiale.
Capisco che una proposta del genere ha il sapore di un´ipotesi priva di fattibilità politica, ma in mancanza di un tentativo convinto in quella direzione tra pochi anni saranno i governi e le Banche centrali asiatiche a dettare la legge. Il grosso del finanziamento del Tesoro americano e delle attività finanziarie denominate in dollari è da tempo nelle mani di Cina, India e Giappone. Per cifre minori ma altrettanto cospicue, a quelle attività finanziarie monetarie dei tre grandi paesi asiatici vanno aggiunti i petrodollari in mano ai paesi arabi e alla Russia.
Una situazione del genere è estremamente squilibrata, può creare oscillazioni dei cambi molto gravi, delle quali l´attuale apprezzamento dell´euro rappresenta soltanto una pallida anticipazione. Una riforma del sistema non può che andare verso meccanismi di ridistribuzione dei valori monetari e dei tassi di cambio che ne sono l´espressione, connessa con il reddito reale delle varie aree economiche del pianeta, con le rispettive quote di commercio internazionale e con la stabilità dei bilanci dei singoli paesi.
Nel 1945 problemi analoghi furono esaminati da esperti e governi dei paesi vincitori, soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Sulla visione più equilibrata suggerita da Keynes prevalse il "dollar exchange standard" sostenuto dal governo americano. Mi azzardo a dire che una rilettura aggiornata e politica del piano Keynes potrebbe fornire idee di attuale interesse. Non varrebbe la pena di promuovere un´iniziativa di questa natura?
* * *
Su scala infinitamente minore ma per noi molto più vicina alla nostra vita quotidiana, si pone il tema della politica economica italiana nell´ambito della campagna elettorale in corso, delle proposte avanzate dalle forze politiche e di ciò che potrà avvenire quando dalle urne uscirà una nuova maggioranza e nuove opposizioni.In proposito non ho che da ribadire quanto già scritto nelle scorse settimane: credo necessario mirare – nei limiti del possibile – ad una strategia anticiclica che sostenga una crescita purtroppo appiattita e in progressivo rallentamento. I margini per una linea di questa natura esistono. Si tratta a mio avviso di mobilitare risorse pari ad un punto di Pil (1.500 miliardi in cifra tonda) concentrando l´azione sul rifinanziamento della domanda interna di consumi e di investimenti, capace di contenere il rallentamento del Pil creando nuove risorse cui attingere negli esercizi 2009-2010.
Per non girare intorno e chiamare invece le cose con il loro nome, credo sia possibile attuare una calcolata politica di "deficit spending" senza oltrepassare la soglia europea del 3 per cento e coordinando quest´operazione con alienazioni di patrimonio da destinare interamente ad un abbassamento del debito pubblico e quindi degli oneri che ne derivano al bilancio dello Stato.
L´ex ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, mi ha cortesemente inviato il testo della sua "deposizione" dinanzi alle competenti commissioni parlamentari. Lo ringrazio di quest´attenzione anche se conoscevo già quel documento. Esso rappresenta una ricostruzione difensiva della politica attuata dal ministro dell´Economia durante il quinquennio del governo Berlusconi.
Non interessa in questa sede discutere il merito di quella difesa, convincente su alcuni aspetti e non convincente affatto su altri non marginali. Salvo un punto che merita risposta. Tremonti ritiene (con ragione) che il cambio di moneta dalle valute nazionali all´euro, effettuato nel 2000, abbia prodotto consistenti mutamenti nella distribuzione della ricchezza e della povertà tra le varie classi sociali, alimentando un malcontento largamente maggioritario nella popolazione europea e in quella italiana in particolare nei confronti dell´euro e dell´Europa.
L´ex ministro dell´Economia ritiene che l´errore dei governi dell´Eurozona sia stato quello di effettuare in un colpo solo il cambio della moneta. Le cose sarebbero andate diversamente se per tre-quattro anni ci fosse stata nei paesi di Eurolandia una doppia circolazione, quella dell´euro affiancata dalle monete nazionali.
Tremonti pensa che la doppia circolazione avrebbe evitato i massicci spostamenti di ricchezza e di povertà e le massicce speculazioni che li hanno prodotti. Penso che abbia ragione in teoria, ma torto politicamente: la doppia circolazione era impossibile; il passaggio dalle monete nazionali all´euro avvenne dopo una durissima battaglia soprattutto tra tedeschi e francesi, che fu vinta dal cancelliere Kohl quando riuscì a convincere Mitterrand, pur in contrasto con il parere delle rispettive Banche centrali. Una tergiversazione era a quel punto impossibile; la doppia circolazione, per di più, non avrebbe reso irreversibile il cambio di moneta e avrebbe alimentato innumerevoli speculazioni contro le monete più deboli, a cominciare dalla nostra, polverizzando l´operazione e agitando quotidianamente il mercato dei cambi.
Tremonti è un buon avvocato difensore di se stesso "ex post", ma sostituisce in questo caso la sua soggettiva visione alla dura realtà. Sta di fatto che il "money exchange" non fu seguito dal governo con gli opportuni controlli e infatti gli effetti sulla società italiana furono decisamente peggiori di quanto avvenne contemporaneamente negli altri maggiori paesi di Eurolandia.
Su un punto mi dichiaro del tutto d´accordo con l´ex ministro dell´Economia: egli ricorda d´esser stato favorevole al piano Delors di finanziare un grande programma di opere pubbliche europee con l´emissione di Eurobond sul mercato finanziario internazionale. Aveva ragione. Posso dire che il suo appoggio a quella proposta non fu così energico come avrebbe potuto e dovuto? Il governo Berlusconi-Tremonti pose le sue priorità su altri obiettivi politici ed economici. L´appoggio al piano Delors fu puramente accademico e non sortì infatti alcun effetto.
Domando a mia volta: qual è l´opinione di Tremonti su una politica anticiclica da adottare subito dopo il 14 aprile, quale che sia la maggioranza che uscirà dalle urne? Questo sì, sarebbe interessante saperlo. Grazie se vorrà dircelo.
Repubblica 2.3.08
E Quasimodo insultava Montale
di Paolo Mauri
Un libro, "Così tante vite", e una prossima mostra online ricostruiscono la vicenda culturale del secondo Novecento attraverso le carte lasciate da Giancarlo Vigorelli, intellettuale e giornalista: i salotti letterari, i giochi dietro le quinte dei premi più prestigiosi, i rancori e le rivalità tra sommi poeti vincitori di Nobel
"Eusebio nei miei riguardi si è dimostrato il peggior lacchè di un monarca decaduto..."
Gli archivi di Giancarlo Vigorelli riserveranno probabilmente molte sorprese viste le numerose amicizie testimoniate nell´album fotografico Così tante vite a cominciare da quella con Gadda foriera di lettere inedite: di volume in volume l´epistolario gaddiano comincia a diventare davvero cospicuo, una sorta di racconto parallelo alle opere. Ci dobbiamo, intanto, contentare dei frammenti finora emersi e diluiti nel corso del tempo: lettere di Montale, di Quasimodo, di Moravia e di Dacia Maraini, della Ginzburg. Lettere al critico, ma anche lettere all´amico: la società letteraria italiana è sempre stata abbastanza ristretta, limitata a pochi circoli, geograficamente legati alle solite città, Milano, Firenze e poi Roma e, finché c´erano, ai soliti caffè. Nel nostro caso è Vigorelli a spostarsi: da lombardo diventa romano e da critico giornalista per dirigere Momento sera. Tornerà poi a Milano. Ma veniamo ai «frammenti»: il primo, cospicuo, è firmato da Montale (Eusebio) che gli scrive chiamandolo Eustachio. La lettera, da Firenze, è datata 4 marzo 1940 e qui la trascrivo:
«Caro Eustachio, sono atterrito. Come farai? E poi chi legge l´"Assalto"? Ti pagano almeno? Finirai per maledirmi. Ma non fare note biografiche. Quelle poche le vedi nella Treccani "volume supplemento". Non ho però compiuto studi come crede A. Bocelli al quale io non l´ho mai detto. Ne ho fatti, dai Barnabiti, senza esito. Sapevo qualcosa di latino, nulla di greco. Ma queste cose non dirle, ché mi rovineresti. In più puoi dire che ho tradotto 3 lavori di Shak.: Winter´s Tale, Timon of Athens e Comedy of Errore - e da Eliot, da Guillén, da Leonie Adams. (Non sono, tra parentesi, come crede Titta Rosa, un eliotiano: il monthly (allora) criterion ha pubblicato Arsenio nel 1928, "prima" cioè che uscissero le liriche che avrei imitato in Arsenio. Confronta e vedi.) Ora traduco persino dello Steinbeck, per vivere. Delle Occasioni esce a giorni la 2a ediz. con quattro aggiunte da poco. Inediti proprio non ne ho. Come fare? Se mi venisse fatto qualcosa in questi giorni non mancherei di avvisarti. Puoi dire, en passant, che il New York Times del 29 gennaio mi ha dedicato un grosso feuilleton, che se t´interessa poso anche mandarti. È di Henry Furst. In Corrente mi ha salvato Traverso, altrimenti si restava alla nota dell´aficionado Elio. Stroncature poche: quella di Sigillino e quella di Eurialo. E questa, io non ho mai detto che sia stata suggerita da altri: ma che certe conversioni di E. (che ormai non è più fermo a Betti) escludendomi rivelano il solito traffico, al quale non mi assoggetto. All right. Tutto è andato bene. Io sono un bischero ma non è colpa mia se gli altri sono più bischeri...
«Nell´antologia metti anche due o tre ossi, in modo che le occasioni non siano più di un 60% dell´intera serie pubblicata. (Anche per ragioni editoriali)
Sai che Ojetti m´aveva proposto (dopo essersi comprato il libro) per un piccolo pourboire dell´Accademia, ma Papini si oppone a spada tratta, persino con accuse politiche? Quanto alle poesie dice che le faceva meglio lui 20 anni fa, ma che ora ha mutato idee. Quindi è probabile che resterò a becco asciutto. Tanto meglio, se non fosse per quei quattro maledetti soldi.
«Qui noia, ma non si sta certo peggio che altrove. Il Marques girava con una tua lettera pazzo di felicità. È convinto di muoversi in una pepiniera di genii che gli faranno una piattaforma immortale. Siccome l´ho scoperto io, anni fa, tra gli abbonati del W.C. (Vieusseux), mi crede il suo Virgilio. Carlino è un po´ abbacchiato, sospeso tra la vita militare incombente e le varie stroncature; ma si rimetterà.
«Come vedi, temo di poterti dare poco aiuto. Se vuoi rifiutare l´onorifico incarico del camerata Granzotto fallo pure. Ti devo già fin troppo.
«Non so come stai fra i varii "gruppi" e se puoi ancora uscire di casa. Salutami quelli che si ricordano benevolmente di me».
La lettera è firmata con un «sempre aff. mo Eugenio Montale».
A questo punto servirebbero molte chiose per mettere in chiaro, fin dove possibile, i numerosi riferimenti a persone ed eventi. Mi limito a far notare il problema dei «maledetti soldi». Montale è stato licenziato dal Vieusseux in data 1 dicembre 1938, «nonostante i suoi meriti letterari e lo zelo e competenza», si legge nel verbale, poiché sprovvisto dell´appartenenza al Pnf. Gli viene liquidata l´indennità di preavviso e quella di licenziamento, ma all´atto pratico si ritrova privo di uno stipendio. Come accenna anche in questa lettera incomincia a tradurre per sopravvivere. Nel ‘40 esce un solo articolo di Montale ed è la recensione al Ricordo della Basca di Antonio Delfini. Quanto alle Occasioni, il libro di poesie cui si fa più di un cenno, è uscito alla fine di ottobre del ‘39. Il disoccupato Montale, che per un po´ pensò anche di andarsene in America, aveva scritto in quei mesi a Bobi Bazlen di aver evitato due suicidi in due mesi: e così registrava l´invio a Einaudi dell´opera: «Sono 50 poesie di cui 40 brevi e 17 sono inedite. Verrà un 120 pagine. Versi 1131 di fronte ai 1600 degli Ossi. Totale versi 2731; Leopardi ne ha scritto (esclusa la Batracomiomachia) 3996». Delle stroncature e delle altre chiacchiere del tempo non c´è ormai quasi più traccia.
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Vent´anni dopo un altro poeta italiano, Premio Nobel (1959) molto prima di Montale, e cioè Salvatore Quasimodo, scrive a Vigorelli a proposito di una intervista venezuelana contenente giudizi su Ungaretti e Montale. «Quello che riguarda Ungaretti, è chiaro, non l´avrei detto oggi e di questo puoi rassicurare il poeta. Per Montale, pur non avendo detto nulla in quella occasione, non mi pentirei di sottoscriverlo anche oggi perché Eusebio nei miei riguardi si è dimostrato, e continua a dimostrarsi, come il peggior lacchè di un monarca decaduto. Comunque non sono stato io mai a dirottare dalle buone qualità umane che ogni uomo di cultura dovrebbe avere "dentro". E se Eusebio, invece di fare gli scongiuri insieme col suo diletto fossile salottiero appena sente il mio nome, si mettesse una mano al posto del cuore (almeno sulla giacca) le cose andrebbero meglio. Io vivo a Milano e la città di Milano (parlo della ruota dei chierici) non mi sarebbe stata per lungo tempo nemica in virtù della presenza del nostro poeta». Dunque se Montale alludeva ai benevoli nei suoi confronti, Quasimodo reclama meno ostilità: Vigorelli, ma non solo lui, avrebbe potuto testimoniare della complessa vita (e psiche) dei letterati, spesso alle prese con invidie, maldicenze e colpi bassi.***
Di un colpo basso si lamenta Dacia Maraini in una lettera del ‘62 a Vigorelli, piena di amarezza. Era accaduto che Vigorelli se la prendesse con L´età del malessere, opera della giovanissima Maraini candidata al Premio Formentor (che poi vinse). Vigorelli aveva attaccato la scrittrice, presentata da Moravia, alla libreria Einaudi di Roma. Poi aveva scritto alla Maraini ed ecco che lei gli rispondeva: «Caro Vigorelli, La ringrazio per la sua lettera. Soltanto non riesco a capire come lei possa scindere così facilmente la persona dello scrittore dalla sua opera. Lei non può dire che non ha nulla contro di me se tratta con tanto disprezzo ciò che scrivo e i termini in cui mi si è attaccato quella sera alla libreria Einaudi mi hanno offesa proprio perché i miei libri sono la più diretta espressione della mia persona. Ed io non mi presento al pubblico per essere ammirata per la mia faccia o per la mia giovane età, ma lavoro seriamente per dire alcune cose che mi stanno a cuore...».A sostegno della Maraini era intervenuto anche Moravia con una successiva lettera a Vigorelli: «Caro Vigorelli, come già ti dissi il giorno del nostro incontro per strada, non ho niente in contrario, per quanto riguarda la mia persona, a dimenticare quanto è accaduto dentro e fuori la libreria Einaudi. Tuttavia vorrei dire alcune cose circa la tua lettera a Dacia Maraini. Secondo me avresti dovuto riflettere un poco prima di riconfermare con tanta sicurezza e decisione il tuo giudizio negativo sull´opera della Maraini». Moravia aveva scritto una prefazione e presentato l´opera al premio Formentor. Grande bagarre. I premi sono un´altra occasione di scontro, non sempre effimero, tra i letterati. Per questo mi piace citare una lettera a Vigorelli di Natalia Ginzburg che, a proposito della candidatura al Campiello del suo libro Caro Michele, avverte il giurato Vigorelli: «Non desidero concorrere al Premio, anche perché, essendovi fra quei libri scelti alcuni libri che trovo molto belli, e nomi di amici che mi sono molto cari, non desidero entrare in competizione».
Corriere della Sera 2.3.08
Romanzi e politica: la lezione di Orwell
Perché la narrativa è più efficace dei saggi
di Robert Harris
Confesso, chi ha visto nel mio ultimo romanzo — Il ghost writer (Mondadori) — il profilo politico e il carattere di Tony Blair aveva ragione. Il mio Adam Lang è lui, almeno in parte. Ma anche il caso ha giocato un ruolo in questa storia.
Tutto comincia con un'idea che ho avuto tanti anni fa. Dopo Fatherland,
volevo scrivere una pièce teatrale con tre personaggi principali: un primo ministro, sua moglie e un ghostwriter. Avevo due problemi. La scelta del leader politico su cui plasmare il mio personaggio di fiction e l'ambientazione. Poi una sera, guardando la Bbc, ho sentito dire che Blair poteva essere perseguito dal tribunale penale internazionale per la guerra in Iraq. A quel punto tutti i tasselli del mio puzzle sono andati a posto. Ho deciso di ambientare la vicenda in America perché gli Stati Uniti sono uno dei pochi Paesi che non riconosce il tribunale internazionale: potevano negare l'estradizione del mio personaggio, Adam Lang. La mia frequentazione di Tony Blair rendeva, inoltre, più semplice immaginare il carattere e le attività di Lang.
Ho incontrato Blair per la prima volta nel 1992 e sono stato uno dei più convinti sostenitori del blairismo. Quando è stato eletto per la prima volta nel maggio del 1997, ero accanto a lui mentre pronunciava il suo primo discorso da premier. Ho cominciato a dubitare di lui quando si è cinicamente liberato di Peter Mandelson, l'ideologo del New Labour e mio grande amico. A quell'epoca Mandelson era segretario di Stato per l'Irlanda del Nord e Blair lo liquidò per questioni interne al partito. Sacrificò uno degli intellettuali laburisti più validi per il proprio tornaconto.
Poi, nel 2003, c'è stata la guerra in Iraq e le menzogne con cui venne giustificata e l'appiattimento della Gran Bretagna sulle posizioni dell'America di Bush. Da quel momento i nostri rapporti si sono ulteriormente raffreddati. Continuo a pensare che Tony Blair sia stato un uomo politico dotato di talento e che abbia fatto tanto per il mio Paese, ma su Mandelson e l'Iraq si è rivelato una grossa delusione.
Questo romanzo, però, credetemi, non è stato scritto con spirito di rivincita o con cattiveria. Ho soltanto pensato che attraverso un romanzo potevo esprimere la mia critica alla politica estera blairiana e raggiungere anche i lettori che di solito non leggono saggistica.
Si può scrivere di politica anche in un romanzo senza guastare né l'una né l'altro. Il libro che più ammiro è 1984 di George Orwell, uno degli scrittori più significativi del Novecento inglese. Orwell era convinto che si potesse fare della «scrittura politica» un'arte, grazie alla chiarezza espositiva e a un linguaggio semplice, scarno.
A queste sue idee avevo ripensato scrivendo la biografia non autorizzata di Bernard Inghamn che era lo spin doctor, il consigliere personale di Margaret Thatcher. Anche Tony Blair, purtroppo, ne aveva uno, Alastair Campbell. Da quando esiste la politica, esiste lo spin. È normale che la classe dirigente di un Paese cerchi di far passare un certo messaggio rispetto a un altro, così come è normale che si cerchi di mettere a tacere alcuni fatti scomodi. Tutto deve però restare nella proporzione delle cose.
Il New Labour ha perso di vista il buon senso e ha dato alla comunicazione e alla distorsione dei fatti un'importanza eccessiva. Nessuno avrebbe mai pensato che una volta al governo i laburisti sarebbero ricorsi allo spin più di Margaret Thatcher e più di John Major. Il governo conservatore di Major crollò proprio per l'immagine poco pulita che dava di sé, per gli scandali e per i tentativi di insabbiamento. Blair ha dato ad Alastair Campbell un potere senza precedenti. Campbell era de facto più importante di un ministro, più importante di un parlamentare laburista. Per le regole della democrazia britannica questo non era accettabile. Come diceva il mio amico ed ex ministro laburista, Roy Jenkins, «non sono contro il blairismo, sono contro il campbellismo
». La politica è valida quando lo sono gli argomenti di cui tratta. Anche se la fine delle ideologie ha impoverito il dibattito politico. Oramai sono pochissime le persone che ascoltano i discorsi dei politici o vanno ai congressi dei partiti. Tutto dev'essere immediato, di facile comprensione. Conta di più l'aspetto esteriore delle cose — lo spettacolo — del contenuto. La gente spesso si lamenta di questo ma ne è anche la causa. Quando Blair ha lasciato il posto a Brown molti hanno detto: «Finalmente ora si parlerà di contenuti e non di immagine! ». Eppure adesso che Brown è in difficoltà nei sondaggi, lo si accusa di essere un cattivo comunicatore e di non curare abbastanza l'immagine! In un certo senso un uomo politico, in una società altamente tecnologica come la nostra, è anche lui un ghost, un fantasma. Pensa di comandare un partito, ma in realtà chi comanda sono quelli come Campbell, loro determinano l'agenda politica.
È ormai così in tutto il mondo, altrimenti Roman Polanski non mi avrebbe telefonato, gridando entusiasta: « It's fantastic! », quando ha letto il manoscritto del romanzo. Qualche anno fa avevamo pensato di fare un film tratto da Pompei.
Poi ci siamo accorti che sarebbe venuto a costare troppo. Girare Il ghost writer è molto più economico. Non so ancora chi interpreterà Adam Lang, ci vorrebbe qualcuno di brillante, a suo agio sotto i riflettori e in mezzo alla folla, uno capace di sedurre e di vendersi al pubblico. Forse Pierce Brosnan sarebbe l'ideale.
Anzi, la verità è che nessuno potrebbe interpretare meglio la parte di Tony Blair dello stesso Tony Blair. Dopotutto non ha più responsabilità di governo. Sono convinto che la cosa gli piacerebbe da morire.
(Testo a cura di Daniele Meloni)