domenica 2 marzo 2008

Veltroni a El Pais : «Siamo riformisti, non di sinistra»
da l'Unità qui
l'intervista originale su El Pais qui

Fausto Bertinotti: «Veltroni è reoconfesso»

Veltroni «non c'è ragione di temere che nel Pd i cattolici siano mortificati. Al contrario, è di tutta evidenza come essi rappresentino una delle colonne portanti del partito: non solo sul piano quantitativo, ma anche sul piano della qualità e dell'autorevolezza delle idee».

Bertinotti dice che è "reoconfesso"

l'Unità 2.3.08
Fascisti tra noi
di Furio Colombo

Nessuno, credo, ha dimenticato il bellissimo “Fascisti su Marte”, lo spettacolo Tv e il film di Corrado Guzzanti. Si rideva del ridicolo, che imitava riti veri e gesti veri di veri e ridicoli e sanguinari fascisti italiani, nei vent’anni del loro governo marcato dalla vergogna assassina delle leggi razziali. Si rideva come se il ridicolo fosse l’esagerazione un po’ spiritosa e cattiva di una vecchia realtà. Chi c’era, a quel tempo, chi ha visto, chi può ancora narrare quei giorni, può dire che sono stati peggiori di tutto ciò che abbiamo letto o ascoltato, sia nella parte ridicola (di cui, in tempo reale, era pericolo mortale ridere) sia nel volto tragico che prometteva sangue e ha sempre mantenuto quella promessa.
Se vi sembra che questo linguaggio sia un po’ pesante, in un’Italia dove tutti vogliono parlare con un tono più neutrale, tenete conto dei fascisti. Tenete conto del fatto che, in queste elezioni sono “in corsa” anche i fascisti. Strani primati, infatti, distinguono l’Italia dagli altri Paesi dell’Unione.
Siamo stati gli unici in Europa ad avere personaggi come Borghezio, Lega Nord, molto attivi nel dare fuoco ai giacigli di immigrati poveri sotto i ponti della Dora a Torino (condanna per un reato spregevole, passata in giudicato, ma che non ha impedito a Borghezio di essere, come è tutt’ora, deputato a Strasburgo della Repubblica italiana, molto attivo, tra la costernazione di tutti i suoi colleghi psichicamente e politicamente normali, nell’ aggredire e insultare il capo dello Stato italiano quando si reca al Parlamento europeo).
Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.
Non ho letto un solo editoriale dei “liberali” che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.
Adesso siamo i soli ad avere il fascismo che torna. Si chiama fascismo, reclama la sua eredità di cadaveri.
Non ho letto un solo editoriale dei “liberali” che animano la grande stampa italiana e sono sempre angosciati dalle sorti di tutta la sinistra in generale, e dalle sorti del nuovo Partito democratico in particolare, ma non hanno speso una parola o una riga di perplessità sul tranquillo ritorno del fascismo in Italia.
Molti commentatori e corsivisti trovano divertente che vi siano signore della buona società che si dichiarano «orgogliose di essere fasciste» e si iscrivono al primo e al secondo posto della lista elettorale fascista. Le intervistano come a una sfilata di moda e registrano senza obiezioni risposte deliranti e certamente estranee alla Costituzione in vigore che, in qualunque altro Paese, sarebbe un argine invalicabile.
Ma prima delle signore che stanno accorrendo dalle migliori famiglie intorno all’iniziativa dichiaratamente fascista di Storace, credo sia necessario esibire un’altra evidenza, come si direbbe in un processo: il fascismo nelle scuole. Ne ha parlato su questo giornale Marina Boscaino, insegnante e giornalista. Ha fatto notare le nuove dimensioni del problema. Non stiamo parlando di “gruppetti” e meno che mai di “nostalgici”. Per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra, una parte dei ragazzi italiani che va a scuola (non i più stupidi o volgari o disattenti e - tra loro - alcuni veri leader) guarda al passato solo come area di raccolta di simboli e senso di quello che fanno. Il passato è una prova che si può fare. Fare che cosa? Passare all’azione. Contro un mondo che non funziona, non può funzionare perché si chiama democrazia.
In altre parole, questi ragazzi sono ben radicati nel presente, e nonostante la propensione tipicamente fascista per riti o celebrazioni funebri, hanno cose da fare per il presente, e un senso molto vivo, niente affatto qualunquista o opportunista, del futuro. L’immagine è quella di una lama che taglia i nodi della complicazione che è la democrazia imbrogliona e borghese, della ingiustizia che in un simile mondo è inevitabile, della “legalità”, parola pronunciata con ribrezzo, in nome di una civiltà pulita che si crea con uno slancio superiore di persone decise a tutto e consapevoli della loro missione nella storia. Insomma un nuovo fascismo “allo stato nascente”, per usare l’efficace definizione di Francesco Alberoni.
***
Traggo materiale e ragioni di ciò che sto dicendo da una lettera pubblicata da la Repubblica (28 febbraio) a cui risponde Corrado Augias.
La lettera: «Frequento il secondo anno del liceo classico Virgilio di Roma, ho letto e assistito a manifestazioni scolastiche di rinascita di movimenti fascisti nelle scuole.... Voi forse pensavate che il fascismo avesse dato gli ultimi colpi di coda, che fosse un’ideologia logora. Avevate ragione. Quelli che oggi nelle scuole si autodefiniscono “fascisti” sono ragazzi come me e tanti altri.... Questa lettera è anche una richiesta di comprensione. Il presente è vostro. Il domani no».
Trascrivo in parte la risposta di Corrado Augias: «”Il fascismo” è il rivestimento, la buccia, di domande piuttosto ragionevoli. La buccia fascista, però, si accompagna inevitabilmente a una certa voglia di menar le mani. L’aspetto veramente preoccupante è che i ragazzi di sinistra hanno perso l’iniziativa. Non hanno capito in tempo che bisognava mettere da parte il dibattito sulle ideologie, che ormai interessano poco, e lottare invece per i problemi di ogni giorno».
Utilissima questa lettera e questa risposta, e dobbiamo cominciare da qui.
Lo farò alla luce della pubblicazione “Blocco Studentesco” (anno I, numero 2) diffuso in questi giorni nei licei romani, che ha per sottotitolo «l’avvento dei giovani al potere contro lo spirito parlamentare, burocratico, accademico».
Titolo di copertina. «Giustizia!» Spiega l’articolo di fondo: «La Giustizia è troppo spesso accomunata alla legalità. Per favore non diciamo cazzate. In un Paese dove avere la casa è un lusso, dove i mezzi di informazione sono controllati, dove un innocente come Luigi Ciavardini (ritenuto co-autore della strage di Bologna, ndr) viene condannato a trenta, dico trenta anni di reclusione, dove un ragazzo come Gabriele Sandri viene assassinato senza motivo (il tifoso della Lazio ucciso sulla A1 da un agente di polizia che parla di colpo accidentale, Ndr) dove, a distanza di trent’anni da una delle peggiori stragi degli anni di piombo, quella di Acca Larenzia, non c’è nessun colpevole, chi ancora vuole venire a parlarci di giustizia?»
Per chiarire a quale fonte stiamo attingendo, occorre far sapere ai lettori ciò che Tv e giornali non ci dicono: “Blocco studentesco” colleziona risultati importanti in un bel numero di elezioni scolastiche e di istituto, piazza negli organi di rappresentanza studentesca i suoi esponenti, ricopre cariche, parla a nome di molti. Niente a che fare con i “gruppetti”.
Ma l’ideologia c’è, eccome. È ideologia rigorosamente fascista. Ma un modo di interpretare, o di completare l’intuizione di Augias (e anche del ragazzo che gli scrive) è questa: nonostante il tono funebre della rievocazione e l’aspra cattiveria motivata dal ricordo, qui non siamo nel passato. Vediamo perché.
Un primo segnale, quasi una parola codice del nuovo fascismo, sono le Foibe. Il ricordo di una tragedia preparata a lungo, con crudeltà dalla occupazione fascista e nazista, ma conclusasi poi con una feroce vendetta jugoslava contro migliaia di italiani, diventa nelle pagine di “Blocco Studentesco” (come accade del resto anche nelle piazze, nel Parlamento italiano e in televisione) uno strumento per rivendicare la guerra fascista, la sacralità della nazione e dei confini, l’uso continuo dell’altra parola codice, «martiri» (parola che riguarda solo i morti fascisti) per tenere sotto ricatto i giovani di sinistra (che non sanno che la tragedia delle Foibe non è mai stata nascosta e non è mai stata un segreto; posso testimoniarlo perché l’ho studiata e discussa in liceo) e per profittare di uno strano atteggiamento dell’antifascismo adulto italiano, che sembra ogni volta colto di sorpresa da uno degli argomenti più dibattuti da decenni nella vita politica e nella storiografia contemporanea italiana.
La novità introdotta dal nuovo fascismo è di parlare dell’orrore delle Foibe come fenomeno del tutto isolato e indipendente dal feroce orrore assassino del fascismo italiano e tedesco nella Jugoslavia invasa e distrutta.
Le Foibe, comunque, servono per non parlare della Shoah, servono a rovesciare l’indignazione verso il fascismo in indignazione del fascismo. Potete infatti leggere su “Blocco Studentesco”, in un articolo firmato «Giorgio Bg»: «Sì, avete capito bene: il 25 aprile è una data fondamentale per la nostra nazione: è il compleanno di Guglielmo Marconi, inventore della radio.... E a tutti abbiamo ricordato che una delle battaglie portate avanti da “Blocco Studentesco” è quella di distruggere il concetto di “antifascismo militante”».
Come si vede, l’idea è chiara e politicamente intelligente. I ragazzi del Blocco non sono né incolti né disinformati. Sanno che stanno lavorando per loro gli storiografi improvvisati che si sono dedicati alla diffamazione della Resistenza. Sanno di poter contare sui molti insegnanti che di Resistenza non parlerebbero mai e non hanno parlato mai. Sanno di disporre di uno spazio vuoto, nel quale la Costituzione italiana rimane ignorata e isolata.
A leggere quello che scrivono, e come scrivono, sono tipi seri che non si occupano del fatto che due belle signore della mondanità milanese, la signora Santanché e la signora Paola Ferrari (moglie del giovane imprenditore Marco De Benedetti) sono la candidata n.1 e la candidata numero 2 nella lista ufficialmente fascista organizzata e promossa da Francesco Storace.
L’effetto mondano però li beneficia comunque. Invece di essere i resti di qualcosa che nel mondo è scomparso per sempre sotto il mare di cadaveri che ha provocato, sono l’avanguardia di un futuro che penetra le aree eleganti e persino zone che ti aspetteresti, in modo naturale, estranee al fascismo.
***
Ma c’è un alleato in più per questi ragazzi non male informati e non male organizzati che, se necessario, sembrano in grado di tirare le fila di assembramenti più grandi.
Sono quella manodopera di giovani aspri, aggressivi, e decisi a non accettare alcun dialogo con la politica, qualunque politica, perché sono i militanti duri, ambi-destri e ambi-sinistri dell’antipolitica.
Michele Santoro ne espone ogni tanto gli esemplari in certe sue trasmissioni come quella puntata di Annozero a cui è accaduto anche a me di partecipare (la sera del 7 febbraio). Non ti guardano, non ti parlano, gridano quasi solo “cazzo”.
Sono giovani ostili per le condizioni in cui vivono e la vita che fanno. Ma rifiutano con estrema durezza ogni contatto. Ostentano un disprezzo per tutto ciò che è democrazia e Parlamento. È un disprezzo che li collega di fatto con i giovani di “Blocco Studentesco”, esattamente come deve essere accaduto negli anni Venti. Dunque qui nessuno si muove nel vuoto. E non ha più senso pensare a frange o gruppetti. Che lo abbia voluto o no, la destra italiana ha creato le condizioni per una destra estrema che raccoglie volentieri certi simboli e parole codice dal passato. Ma invece di nostalgia ha progetti per il futuro. E poiché la discussione e il dibattito non sono i suoi naturali strumenti - e infatti vengono sviliti ed evitati - il progetto è in attesa di una linea strategica. Ma il ritorno di una certa area fascista, con la sua componente di massa (”Blocco Studentesco” ci dice che a Roma esiste una «Casa Pound», dal nome del poeta americano fascista e antisemita, e una «Casa Prati» occupata insieme a famiglie di sfrattati) e la sua componente alto-borghese, è già cominciato.
Per questo è stato importante, e anche consolante, assistendo giorni fa alla commemorazione di Aldo Moro (30 anni dal delitto) ascoltare Alfredo Reichlin, Leopoldo Elia e Walter Veltroni dire: «Il senso della politica di Moro è stato di affermare con tenacia il legame fra la democrazia italiana e l’antifascismo, un legame rappresentato dalla Costituzione nata nella Resistenza».
Questa è l’Italia nel suo passato indimenticabile, nel suo presente difficile, nel futuro per il quale ci ostiniamo ad avere speranza, in nome di ciò che è accaduto, e nonostante ciò che sta accadendo. Una cosa sappiamo: non siamo fuori pericolo.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 2.3.08
Gaza. Battaglia infernale: 60 palestinesi uccisi, tra cui 9 bambini
Attacco di Israele a Gaza, torna l’inferno
di Umberto De Giovannangeli

Vicino al campo profughi di Jabaliya uccisi 60 palestinesi tra cui 9 bambini. L’operazione militare decisa dopo i lanci di missili Qassam. Abu Mazen: è un olocausto. Consiglio di sicurezza Onu riunito d’urgenza

IL CREPITARE dei mitragliatori spezza il silenzio della notte. I razzi illuminano il teatro di guerra. I colpi di artiglieria rimbombano assordanti. Paura e morte. La battaglia di Jabaliya inizia poco dopo l'una della scorsa notte, quando unità speciali israeliane tenta-
no di penetrare nella periferia orientale della città, a nord di Gaza. Miliziani palestinesi individuano le teste di cuoio israeliane e aprono un fitto fuoco di sbarramento. A sostegno del commando israeliano intervengono prima elicotteri da combattimento e poi mezzi corazzati, che per ore martellano le postazioni palestinesi. Ad agire nella Striscia è un intero reggimento di Tsahal, duemila soldati. Da edifici sventrati dai missili aria-terra sparati dagli elicotteri Apache si alzano colonne di fumo. Nelle vie, i miliziani palestinesi improvvisano barricate con carcasse di automobili e cassonetti dell'immondizia incendiati. L'aria diviene irrespirabile. La zona dei combattimenti si trova molto vicina al centro abitato di Jabaliya, e questo spiegherebbe almeno in parte il coinvolgimento dei civili. Una donna palestinese che ha perso negli attacchi la figlia Jacqueline di 12 anni e il figlio Iyad di 11, racconta che a sparare contro i due bambini sarebbe stato un cecchino israeliano appostato su un palazzo.
Tra i miliziani palestinesi rimasti uccisi c'è anche il figlio di un deputato di Hamas: si tratta di Abdurahman Shihab, membro brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, e figlio di Mohammed Shihab, eletto parlamentare proprio a Jabaliya nel 2006 come rappresentante di Hamas. Due giorni fa a Gaza era stato ucciso anche il figlio del capogruppo parlamentare di Hamas, anche egli arruolato nelle brigate Al Qassam. Col passare delle ore cresce il bilancio dei morti, nella giornata più sanguinosa dallo scoppio della seconda Intifada (settembre 2000): almeno 60 (di cui nove bambini, uno dei quali un neonato di due giorni, e quattro donne); i feriti sono 150, compresi molti civili. I violentissimi combattimenti impediscono alle ambulanze palestinesi di recuperare i cadaveri che si trovano sul campo di battaglia e prestare soccorso ai feriti. «Sono in dodici, li consideriamo ancora feriti ma in realtà qui a Gaza non abbiamo nessuna possibilità di tenerli in vita»: è il drammatico appello di Halid Radi, portavoce del ministero della Sanità palestinese che nella Striscia di Gaza è controllato da Hamas. Radi chiede che quei dodici feriti, giunti l'altro ieri nell'ospedale Shiva, a Gaza City, dal campo di battaglia intorno a Jabaliya possano essere trasferiti al più presto in Israele: «È l'unica speranza che hanno per poter essere curati - spiega - noi qui non abbiamo specialisti, e neppure i farmaci adatti: la sola cosa che possiamo fare noi è guardarli mentre muoiono».
L'enorme flusso di feriti che ormai da quattro giorni continuano a giungere dalle zone dei combattimenti, rischia di portare al collasso gli ospedali di Gaza, già messi a dura prova da mesi di assedio. «Solo oggi (ieri, ndr.) abbiamo soccorso più di 100 feriti - dice ancora Halid Radi - molti richiedono la terapia intensiva, ma i posti letto disponibili sono tutti esauriti». E così le corsie sono state svuotate dei malati meno gravi per dare spazio ai ricoveri più urgenti. «Ormai inizia a scarseggiare tutto - prosegue il portavoce - persino bende e cerotti, che sono la prima cosa ad essere impiegata nella chirurgia di guerra». Da parte israeliana un portavoce dell'esercito riferisce che due soldati sono rimasti uccisi nei combattimenti e altri sei sono stati feriti Due bambini israeliani e un altro civile sono invece rimasti feriti dal lancio di razzi sulla città di Asqhelon che, nonostante gli intensi combattimenti, sono continuati a piovere (62 nelle ultime ventiquattr'ore su Asqhelon e Sderot). A Jabaliya si combatte strada per strada, casa per casa. Dai minareti delle moschee, i muezzin esortano alla resistenza. Da Ramallah si alza la voce del presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Ciò che si sta consumando nella Striscia di Gaza, afferma Abu Mazen, è «più che un olocausto», riferendosi a quanto detto l'altro ieri dal vice ministro della Difesa dello Stato ebraico Matan Vilnai. «Purtroppo Israele usa in questi giorni un termine generalmente evitato da 60 anni, e questo è il termine olocausto...Ciò che accade a Gaza è più che un olocausto», afferma il rais, che chiedere «protezione internazionale per il popolo palestinese». «È impensabile - aggiunge il capo dell'Anp in al Consiglio nazionale palestinese - che la reazione israeliana a dei lanci di razzi palestinesi, che pure noi condanniamo, sia così terribile e spaventosa» e colpisca «innocenti, donne, bambini, anziani». Il presidente palestinese chiede una riunione d'emergenza della Lega Araba e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, oltre che una presa di posizione del Quartetto per il Medio Oriente. L’Onu raccoglie la richiesta e convoca una riunione urgente. Il capo negoziatore palestinese, l'ex premier Ahmed Qrei (Abu Ala) afferma che « il negoziato sarà sospeso», infatti le trattative sono sospese. «Ciò che sta avvenendo a Gaza è un massacro di civili, donne e bambini, un genocidio». Secca la risposta di Gerusalemme: «Anche se i palestinesi desiderano sospendere i colloqui di pace ciò non avrà alcun effetto sulle decisioni di Israele a Gaza», dichiara la ministra degli Esteri israeliana, Tzipi Livni.

l'Unità 2.3.08
L’obiettivo su Balla
di Pier Paolo Pancotto

Sembra incredibile ma un autore fondamentale nella storia dell’arte italiana ed internazionale del XX secolo come Giacomo Balla (Torino, 1871-Roma, 1958) non risulta a tutt’oggi ancora dotato non solo di un catalogo generale che ne documenti scientificamente tutta la produzione ma, in termini più generali, di una fortuna critica così ampia ed esaustiva quale sarebbe lecito attendersi rispetto all’importanza della sua opera. Non che siano mancati contributi significativi da parte di alcuni dei maggiori studiosi del Novecento; basti pensare, tra gli altri, a quelli esemplari condotti da Maurizio Fagiolo dell’Arco. Ma tranne alcuni casi, come ad esempio il Balla firmato da Giovanni Lista nel 1982, si tratta per lo più di progetti editoriali legati a delle circostanze espositive, spesso tese ad indagare un aspetto specifico o una fase circoscritta del lavoro dell’artista. Un’iniziativa della casa editrice Electa inverte questa tendenza pubblicando il volume Giacomo Balla, genio futurista (pp. 304, euro 35,00) di Fabio Benzi. Il quale nel tracciare il percorso creativo di Balla, dagli esordi in ambito divisionista alla lunga stagione futurista fino a quella volta sui termini della figurazione, pur seguendo un ordine cronologico si sofferma opportunamente a riflettere su alcuni temi di particolare rilievo rispetto all’esperienza biografica e artistica di Balla, dal suo rapporto con la tecnica fotografica a quello con le discipline teosofiche, mettendone in luce una notevole molteplicità d’aspetti alcuni dei quali inediti. In tal modo egli offre un’immagine quanto mai ampia e variegata del «genio futurista» rendendo un personale ed appassionato omaggio ad un protagonista assoluto della cultura del ‘900.

l'Unità lettere 2.3.08
Libera Chiesa in... non libero Stato
Cara Unità,
Sottoscrivere la petizione Liberadonna di Micro Mega, ha attenuato quel mio strisciante malessere che diventa rabbia accompagnata da un frustrante senso di impotenza ogni volta che la Chiesa sentenzia e i nostri politici ne accolgono ossequiosamente i dettami. I nostri onorevoli sono tutti cattolici. Divorziano, si uniscono a compagne e compagni, ma manifestano nel giorno del family day. Parlano di metodi naturali per evitare nascite indesiderate ma quasi nessuno ha famiglie numerose. Sfido chiunque a ritenere che sia opera di Ogino Knaus. Ma forse gli onorevoli sono l’espressione di un popolo che , a sua volta, si dichiara cattolico ma divorzia, convive e, come anticoncezionale, unsa la pillola, la spirale e altri metodi certamente più sicuri. A pagare le conseguenze sono sempre i più deboli. È sempre la povera gente e, in particolare, quella fascia di età giovanile priva di esperienza e di corretta informazione su come evitare una gravidanza indesiderata. In Italia i consultori sono ormai nicchie in cui vige per lo più il passa parola come mezzo di pubblicizzazione. Sono in numero inferiore alle reali necessità, il numero degli addetti e i fondi sono inadeguati. Dov’è la sinistra? Il Pd non ha un’identità definita. Nato per unire, nei fatti è causa di ulteriori frammentazioni. I cattolicissimi della Margherita poco o niente hanno a che dividere con gli ex Ds. Dove sono le donne? Le manifestazioni servono se hanno un prima e un dopo e non devono essere un semplice sfogo.Chiuse in circoli autorefernziali le ex femministe, tutte volte a distinguere tra emancipazione (ormai parolaccia) e movimento di liberazione, hanno perso il contatto con i reali bisogni delle donne. E, se è vero che il pensiero della differenza ha un valore indiscusso nella liberazione della donna, è altrettanto vero che poco l'aiuta a liberarsi dalla fatica che, tra le mura domestiche, ogni donna paga alla quotidiana necessità anche quando lavora fuori casa.
Maria Teresa Santelli

Repubblica 2.3.08
Il dollaro ha perso il dominio del mondo
di Eugenio Scalfari

Alcuni "guru" della finanza americana fanno previsioni catastrofiche sull´evoluzione della crisi scatenata dai "subprime" immobiliari; altri, in America e in Europa, usano toni meno drammatici e prevedono che al massimo entro un anno la tempesta si placherà e rivedremo il sereno.
Nessuno può giurare sull´una o sull´altra tesi, le scommesse fanno parte del gioco e del funzionamento del mercato, ma bisogna esser ben consapevoli che si gioca a testa o croce, o al rosso e nero: cinquanta per cento di probabilità di vincere o di perdere.
Ciò premesso, ribadirò quanto scrissi nel giugno dell´anno scorso di fronte ai primi segnali dell´uragano: questa non è una crisi come le altre, non si limita ad un settore geografico del pianeta ma lo coinvolge tutto, non ha soltanto carattere finanziario ma dilaga nell´economia reale e intacca inevitabilmente i cosiddetti "fondamentali", cioè gli elementi di fondo che sorreggono l´economia. Merita quindi d´esser chiamata "grande crisi", definizione fin qui riservata a designare quella che cominciò a Wall Street nel 1929, si diffuse in Europa nel 1931 e non cessò di incombere sull´intero pianeta fino allo scoppio della guerra del 1939, nonostante che nel frattempo ci fosse stato il "New Deal" rooseveltiano e i fascismi europei.
Siamo dunque di fronte ad una grande crisi. Forse sbollirà tra un anno, forse si aggraverà ancora di più e si prolungherà. Forse intaccherà le strutture portanti del capitalismo e della democrazia oppure – a tempesta passata – tutto tornerà come prima. Ma a quest´ultima ipotesi, francamente non credo.
Mario Deaglio in un bell´articolo sulla "Stampa" di qualche giorno fa, ha spiegato quali sono i mutamenti più che mai reali che stanno fin d´ora modificando le strutture del sistema economico mondiale. Concordo completamente con la sua analisi che segnala i tre fattori della mutazione in corso.
Primo: una massa sterminata di nuovi consumatori si sta affacciando sul mercato delle derrate alimentari di base, soprattutto i cereali e il grano in particolare. Quantitativamente si tratta di almeno un miliardo di persone e nei prossimi anni questa cifra è destinata a raddoppiare a parità di abitanti del pianeta; ma sappiamo già che il tasso demografico è destinato ad aumentare di molto la popolazione mondiale con gli effetti nutrizionali che ne deriveranno.
Secondo: le nazioni emergenti (Cina, India, America Latina) hanno fame di energia e premono sulle risorse esistenti, in particolare sul petrolio. La ricerca di nuovi giacimenti e di nuove fonti sarà certamente stimolata, ma non abbastanza da ridurre l´effetto della domanda sui prezzi.
Terzo: il dollaro sta perdendo una parte del suo ruolo di moneta esclusiva sia per quanto riguarda le transazioni commerciali sia come unica moneta di riserva del valore.
La grande crisi non è responsabile di queste mutazioni, ma funziona come acceleratore. Spinge avanti i tre fenomeni in atto e li diffonde ovunque rendendo più difficile il contenimento e la gradualità.
* * *
Nouriel Roubini, il maggior catastrofista tra gli economisti che disegnano gli scenari del prossimo futuro, valuta a mille miliardi di dollari le perdite causate dai "subprime" immobiliari, dai debiti dei proprietari di case, dai debiti "in sofferenza" causati dagli strumenti finanziari "derivati", dai debiti dei titolari di carte di credito, dai debiti delle imprese fallite o minacciate da fallimento, dalle perdite che le banche e le compagnie d´assicurazione non hanno ancora iscritto nei loro bilanci e, infine, dall´andamento negativo delle Borse mondiali e dall´andamento altrettanto negativo dei margini di copertura degli operatori finanziari.
Mille miliardi di perdite sono una cifra enorme. Anche se non tutti i ragionamenti di Roubini sono condivisibili, la sua valutazione delle perdite complessive sembra abbastanza ragionevole. Essa incide soprattutto sul terzo degli elementi di mutazione del sistema e cioè sul ruolo del dollaro e sulla tenuta del "dollar standard" in vigore fin dai primi anni Settanta.
Le istituzioni monetarie internazionali e cioè il Fondo monetario, le Banche centrali (comprese quelle di Pechino, di New Delhi, di Brasilia, di Buenos Aires e di Città del Messico) e i rispettivi governi dovrebbero prendere l´iniziativa di una riforma del sistema monetario mondiale.
Capisco che una proposta del genere ha il sapore di un´ipotesi priva di fattibilità politica, ma in mancanza di un tentativo convinto in quella direzione tra pochi anni saranno i governi e le Banche centrali asiatiche a dettare la legge. Il grosso del finanziamento del Tesoro americano e delle attività finanziarie denominate in dollari è da tempo nelle mani di Cina, India e Giappone. Per cifre minori ma altrettanto cospicue, a quelle attività finanziarie monetarie dei tre grandi paesi asiatici vanno aggiunti i petrodollari in mano ai paesi arabi e alla Russia.
Una situazione del genere è estremamente squilibrata, può creare oscillazioni dei cambi molto gravi, delle quali l´attuale apprezzamento dell´euro rappresenta soltanto una pallida anticipazione. Una riforma del sistema non può che andare verso meccanismi di ridistribuzione dei valori monetari e dei tassi di cambio che ne sono l´espressione, connessa con il reddito reale delle varie aree economiche del pianeta, con le rispettive quote di commercio internazionale e con la stabilità dei bilanci dei singoli paesi.
Nel 1945 problemi analoghi furono esaminati da esperti e governi dei paesi vincitori, soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Sulla visione più equilibrata suggerita da Keynes prevalse il "dollar exchange standard" sostenuto dal governo americano. Mi azzardo a dire che una rilettura aggiornata e politica del piano Keynes potrebbe fornire idee di attuale interesse. Non varrebbe la pena di promuovere un´iniziativa di questa natura?
* * *
Su scala infinitamente minore ma per noi molto più vicina alla nostra vita quotidiana, si pone il tema della politica economica italiana nell´ambito della campagna elettorale in corso, delle proposte avanzate dalle forze politiche e di ciò che potrà avvenire quando dalle urne uscirà una nuova maggioranza e nuove opposizioni.
In proposito non ho che da ribadire quanto già scritto nelle scorse settimane: credo necessario mirare – nei limiti del possibile – ad una strategia anticiclica che sostenga una crescita purtroppo appiattita e in progressivo rallentamento. I margini per una linea di questa natura esistono. Si tratta a mio avviso di mobilitare risorse pari ad un punto di Pil (1.500 miliardi in cifra tonda) concentrando l´azione sul rifinanziamento della domanda interna di consumi e di investimenti, capace di contenere il rallentamento del Pil creando nuove risorse cui attingere negli esercizi 2009-2010.
Per non girare intorno e chiamare invece le cose con il loro nome, credo sia possibile attuare una calcolata politica di "deficit spending" senza oltrepassare la soglia europea del 3 per cento e coordinando quest´operazione con alienazioni di patrimonio da destinare interamente ad un abbassamento del debito pubblico e quindi degli oneri che ne derivano al bilancio dello Stato.
L´ex ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, mi ha cortesemente inviato il testo della sua "deposizione" dinanzi alle competenti commissioni parlamentari. Lo ringrazio di quest´attenzione anche se conoscevo già quel documento. Esso rappresenta una ricostruzione difensiva della politica attuata dal ministro dell´Economia durante il quinquennio del governo Berlusconi.
Non interessa in questa sede discutere il merito di quella difesa, convincente su alcuni aspetti e non convincente affatto su altri non marginali. Salvo un punto che merita risposta. Tremonti ritiene (con ragione) che il cambio di moneta dalle valute nazionali all´euro, effettuato nel 2000, abbia prodotto consistenti mutamenti nella distribuzione della ricchezza e della povertà tra le varie classi sociali, alimentando un malcontento largamente maggioritario nella popolazione europea e in quella italiana in particolare nei confronti dell´euro e dell´Europa.
L´ex ministro dell´Economia ritiene che l´errore dei governi dell´Eurozona sia stato quello di effettuare in un colpo solo il cambio della moneta. Le cose sarebbero andate diversamente se per tre-quattro anni ci fosse stata nei paesi di Eurolandia una doppia circolazione, quella dell´euro affiancata dalle monete nazionali.
Tremonti pensa che la doppia circolazione avrebbe evitato i massicci spostamenti di ricchezza e di povertà e le massicce speculazioni che li hanno prodotti. Penso che abbia ragione in teoria, ma torto politicamente: la doppia circolazione era impossibile; il passaggio dalle monete nazionali all´euro avvenne dopo una durissima battaglia soprattutto tra tedeschi e francesi, che fu vinta dal cancelliere Kohl quando riuscì a convincere Mitterrand, pur in contrasto con il parere delle rispettive Banche centrali. Una tergiversazione era a quel punto impossibile; la doppia circolazione, per di più, non avrebbe reso irreversibile il cambio di moneta e avrebbe alimentato innumerevoli speculazioni contro le monete più deboli, a cominciare dalla nostra, polverizzando l´operazione e agitando quotidianamente il mercato dei cambi.
Tremonti è un buon avvocato difensore di se stesso "ex post", ma sostituisce in questo caso la sua soggettiva visione alla dura realtà. Sta di fatto che il "money exchange" non fu seguito dal governo con gli opportuni controlli e infatti gli effetti sulla società italiana furono decisamente peggiori di quanto avvenne contemporaneamente negli altri maggiori paesi di Eurolandia.
Su un punto mi dichiaro del tutto d´accordo con l´ex ministro dell´Economia: egli ricorda d´esser stato favorevole al piano Delors di finanziare un grande programma di opere pubbliche europee con l´emissione di Eurobond sul mercato finanziario internazionale. Aveva ragione. Posso dire che il suo appoggio a quella proposta non fu così energico come avrebbe potuto e dovuto? Il governo Berlusconi-Tremonti pose le sue priorità su altri obiettivi politici ed economici. L´appoggio al piano Delors fu puramente accademico e non sortì infatti alcun effetto.
Domando a mia volta: qual è l´opinione di Tremonti su una politica anticiclica da adottare subito dopo il 14 aprile, quale che sia la maggioranza che uscirà dalle urne? Questo sì, sarebbe interessante saperlo. Grazie se vorrà dircelo.

Repubblica 2.3.08
E Quasimodo insultava Montale
di Paolo Mauri

Un libro, "Così tante vite", e una prossima mostra online ricostruiscono la vicenda culturale del secondo Novecento attraverso le carte lasciate da Giancarlo Vigorelli, intellettuale e giornalista: i salotti letterari, i giochi dietro le quinte dei premi più prestigiosi, i rancori e le rivalità tra sommi poeti vincitori di Nobel
"Eusebio nei miei riguardi si è dimostrato il peggior lacchè di un monarca decaduto..."

Gli archivi di Giancarlo Vigorelli riserveranno probabilmente molte sorprese viste le numerose amicizie testimoniate nell´album fotografico Così tante vite a cominciare da quella con Gadda foriera di lettere inedite: di volume in volume l´epistolario gaddiano comincia a diventare davvero cospicuo, una sorta di racconto parallelo alle opere. Ci dobbiamo, intanto, contentare dei frammenti finora emersi e diluiti nel corso del tempo: lettere di Montale, di Quasimodo, di Moravia e di Dacia Maraini, della Ginzburg. Lettere al critico, ma anche lettere all´amico: la società letteraria italiana è sempre stata abbastanza ristretta, limitata a pochi circoli, geograficamente legati alle solite città, Milano, Firenze e poi Roma e, finché c´erano, ai soliti caffè. Nel nostro caso è Vigorelli a spostarsi: da lombardo diventa romano e da critico giornalista per dirigere Momento sera. Tornerà poi a Milano. Ma veniamo ai «frammenti»: il primo, cospicuo, è firmato da Montale (Eusebio) che gli scrive chiamandolo Eustachio. La lettera, da Firenze, è datata 4 marzo 1940 e qui la trascrivo:
«Caro Eustachio, sono atterrito. Come farai? E poi chi legge l´"Assalto"? Ti pagano almeno? Finirai per maledirmi. Ma non fare note biografiche. Quelle poche le vedi nella Treccani "volume supplemento". Non ho però compiuto studi come crede A. Bocelli al quale io non l´ho mai detto. Ne ho fatti, dai Barnabiti, senza esito. Sapevo qualcosa di latino, nulla di greco. Ma queste cose non dirle, ché mi rovineresti. In più puoi dire che ho tradotto 3 lavori di Shak.: Winter´s Tale, Timon of Athens e Comedy of Errore - e da Eliot, da Guillén, da Leonie Adams. (Non sono, tra parentesi, come crede Titta Rosa, un eliotiano: il monthly (allora) criterion ha pubblicato Arsenio nel 1928, "prima" cioè che uscissero le liriche che avrei imitato in Arsenio. Confronta e vedi.) Ora traduco persino dello Steinbeck, per vivere. Delle Occasioni esce a giorni la 2a ediz. con quattro aggiunte da poco. Inediti proprio non ne ho. Come fare? Se mi venisse fatto qualcosa in questi giorni non mancherei di avvisarti. Puoi dire, en passant, che il New York Times del 29 gennaio mi ha dedicato un grosso feuilleton, che se t´interessa poso anche mandarti. È di Henry Furst. In Corrente mi ha salvato Traverso, altrimenti si restava alla nota dell´aficionado Elio. Stroncature poche: quella di Sigillino e quella di Eurialo. E questa, io non ho mai detto che sia stata suggerita da altri: ma che certe conversioni di E. (che ormai non è più fermo a Betti) escludendomi rivelano il solito traffico, al quale non mi assoggetto. All right. Tutto è andato bene. Io sono un bischero ma non è colpa mia se gli altri sono più bischeri...
«Nell´antologia metti anche due o tre ossi, in modo che le occasioni non siano più di un 60% dell´intera serie pubblicata. (Anche per ragioni editoriali)
Sai che Ojetti m´aveva proposto (dopo essersi comprato il libro) per un piccolo pourboire dell´Accademia, ma Papini si oppone a spada tratta, persino con accuse politiche? Quanto alle poesie dice che le faceva meglio lui 20 anni fa, ma che ora ha mutato idee. Quindi è probabile che resterò a becco asciutto. Tanto meglio, se non fosse per quei quattro maledetti soldi.
«Qui noia, ma non si sta certo peggio che altrove. Il Marques girava con una tua lettera pazzo di felicità. È convinto di muoversi in una pepiniera di genii che gli faranno una piattaforma immortale. Siccome l´ho scoperto io, anni fa, tra gli abbonati del W.C. (Vieusseux), mi crede il suo Virgilio. Carlino è un po´ abbacchiato, sospeso tra la vita militare incombente e le varie stroncature; ma si rimetterà.
«Come vedi, temo di poterti dare poco aiuto. Se vuoi rifiutare l´onorifico incarico del camerata Granzotto fallo pure. Ti devo già fin troppo.
«Non so come stai fra i varii "gruppi" e se puoi ancora uscire di casa. Salutami quelli che si ricordano benevolmente di me».
La lettera è firmata con un «sempre aff. mo Eugenio Montale».
A questo punto servirebbero molte chiose per mettere in chiaro, fin dove possibile, i numerosi riferimenti a persone ed eventi. Mi limito a far notare il problema dei «maledetti soldi». Montale è stato licenziato dal Vieusseux in data 1 dicembre 1938, «nonostante i suoi meriti letterari e lo zelo e competenza», si legge nel verbale, poiché sprovvisto dell´appartenenza al Pnf. Gli viene liquidata l´indennità di preavviso e quella di licenziamento, ma all´atto pratico si ritrova privo di uno stipendio. Come accenna anche in questa lettera incomincia a tradurre per sopravvivere. Nel ‘40 esce un solo articolo di Montale ed è la recensione al Ricordo della Basca di Antonio Delfini. Quanto alle Occasioni, il libro di poesie cui si fa più di un cenno, è uscito alla fine di ottobre del ‘39. Il disoccupato Montale, che per un po´ pensò anche di andarsene in America, aveva scritto in quei mesi a Bobi Bazlen di aver evitato due suicidi in due mesi: e così registrava l´invio a Einaudi dell´opera: «Sono 50 poesie di cui 40 brevi e 17 sono inedite. Verrà un 120 pagine. Versi 1131 di fronte ai 1600 degli Ossi. Totale versi 2731; Leopardi ne ha scritto (esclusa la Batracomiomachia) 3996». Delle stroncature e delle altre chiacchiere del tempo non c´è ormai quasi più traccia.
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Vent´anni dopo un altro poeta italiano, Premio Nobel (1959) molto prima di Montale, e cioè Salvatore Quasimodo, scrive a Vigorelli a proposito di una intervista venezuelana contenente giudizi su Ungaretti e Montale. «Quello che riguarda Ungaretti, è chiaro, non l´avrei detto oggi e di questo puoi rassicurare il poeta. Per Montale, pur non avendo detto nulla in quella occasione, non mi pentirei di sottoscriverlo anche oggi perché Eusebio nei miei riguardi si è dimostrato, e continua a dimostrarsi, come il peggior lacchè di un monarca decaduto. Comunque non sono stato io mai a dirottare dalle buone qualità umane che ogni uomo di cultura dovrebbe avere "dentro". E se Eusebio, invece di fare gli scongiuri insieme col suo diletto fossile salottiero appena sente il mio nome, si mettesse una mano al posto del cuore (almeno sulla giacca) le cose andrebbero meglio. Io vivo a Milano e la città di Milano (parlo della ruota dei chierici) non mi sarebbe stata per lungo tempo nemica in virtù della presenza del nostro poeta». Dunque se Montale alludeva ai benevoli nei suoi confronti, Quasimodo reclama meno ostilità: Vigorelli, ma non solo lui, avrebbe potuto testimoniare della complessa vita (e psiche) dei letterati, spesso alle prese con invidie, maldicenze e colpi bassi.
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Di un colpo basso si lamenta Dacia Maraini in una lettera del ‘62 a Vigorelli, piena di amarezza. Era accaduto che Vigorelli se la prendesse con L´età del malessere, opera della giovanissima Maraini candidata al Premio Formentor (che poi vinse). Vigorelli aveva attaccato la scrittrice, presentata da Moravia, alla libreria Einaudi di Roma. Poi aveva scritto alla Maraini ed ecco che lei gli rispondeva: «Caro Vigorelli, La ringrazio per la sua lettera. Soltanto non riesco a capire come lei possa scindere così facilmente la persona dello scrittore dalla sua opera. Lei non può dire che non ha nulla contro di me se tratta con tanto disprezzo ciò che scrivo e i termini in cui mi si è attaccato quella sera alla libreria Einaudi mi hanno offesa proprio perché i miei libri sono la più diretta espressione della mia persona. Ed io non mi presento al pubblico per essere ammirata per la mia faccia o per la mia giovane età, ma lavoro seriamente per dire alcune cose che mi stanno a cuore...».
A sostegno della Maraini era intervenuto anche Moravia con una successiva lettera a Vigorelli: «Caro Vigorelli, come già ti dissi il giorno del nostro incontro per strada, non ho niente in contrario, per quanto riguarda la mia persona, a dimenticare quanto è accaduto dentro e fuori la libreria Einaudi. Tuttavia vorrei dire alcune cose circa la tua lettera a Dacia Maraini. Secondo me avresti dovuto riflettere un poco prima di riconfermare con tanta sicurezza e decisione il tuo giudizio negativo sull´opera della Maraini». Moravia aveva scritto una prefazione e presentato l´opera al premio Formentor. Grande bagarre. I premi sono un´altra occasione di scontro, non sempre effimero, tra i letterati. Per questo mi piace citare una lettera a Vigorelli di Natalia Ginzburg che, a proposito della candidatura al Campiello del suo libro Caro Michele, avverte il giurato Vigorelli: «Non desidero concorrere al Premio, anche perché, essendovi fra quei libri scelti alcuni libri che trovo molto belli, e nomi di amici che mi sono molto cari, non desidero entrare in competizione».

Corriere della Sera 2.3.08
Romanzi e politica: la lezione di Orwell
Perché la narrativa è più efficace dei saggi
di Robert Harris

Confesso, chi ha visto nel mio ultimo romanzo — Il ghost writer (Mondadori) — il profilo politico e il carattere di Tony Blair aveva ragione. Il mio Adam Lang è lui, almeno in parte. Ma anche il caso ha giocato un ruolo in questa storia.
Tutto comincia con un'idea che ho avuto tanti anni fa. Dopo Fatherland,
volevo scrivere una pièce teatrale con tre personaggi principali: un primo ministro, sua moglie e un ghostwriter. Avevo due problemi. La scelta del leader politico su cui plasmare il mio personaggio di fiction e l'ambientazione. Poi una sera, guardando la Bbc, ho sentito dire che Blair poteva essere perseguito dal tribunale penale internazionale per la guerra in Iraq. A quel punto tutti i tasselli del mio puzzle sono andati a posto. Ho deciso di ambientare la vicenda in America perché gli Stati Uniti sono uno dei pochi Paesi che non riconosce il tribunale internazionale: potevano negare l'estradizione del mio personaggio, Adam Lang. La mia frequentazione di Tony Blair rendeva, inoltre, più semplice immaginare il carattere e le attività di Lang.
Ho incontrato Blair per la prima volta nel 1992 e sono stato uno dei più convinti sostenitori del blairismo. Quando è stato eletto per la prima volta nel maggio del 1997, ero accanto a lui mentre pronunciava il suo primo discorso da premier. Ho cominciato a dubitare di lui quando si è cinicamente liberato di Peter Mandelson, l'ideologo del New Labour e mio grande amico. A quell'epoca Mandelson era segretario di Stato per l'Irlanda del Nord e Blair lo liquidò per questioni interne al partito. Sacrificò uno degli intellettuali laburisti più validi per il proprio tornaconto.
Poi, nel 2003, c'è stata la guerra in Iraq e le menzogne con cui venne giustificata e l'appiattimento della Gran Bretagna sulle posizioni dell'America di Bush. Da quel momento i nostri rapporti si sono ulteriormente raffreddati. Continuo a pensare che Tony Blair sia stato un uomo politico dotato di talento e che abbia fatto tanto per il mio Paese, ma su Mandelson e l'Iraq si è rivelato una grossa delusione.
Questo romanzo, però, credetemi, non è stato scritto con spirito di rivincita o con cattiveria. Ho soltanto pensato che attraverso un romanzo potevo esprimere la mia critica alla politica estera blairiana e raggiungere anche i lettori che di solito non leggono saggistica.
Si può scrivere di politica anche in un romanzo senza guastare né l'una né l'altro. Il libro che più ammiro è 1984 di George Orwell, uno degli scrittori più significativi del Novecento inglese. Orwell era convinto che si potesse fare della «scrittura politica» un'arte, grazie alla chiarezza espositiva e a un linguaggio semplice, scarno.
A queste sue idee avevo ripensato scrivendo la biografia non autorizzata di Bernard Inghamn che era lo spin doctor, il consigliere personale di Margaret Thatcher. Anche Tony Blair, purtroppo, ne aveva uno, Alastair Campbell. Da quando esiste la politica, esiste lo spin. È normale che la classe dirigente di un Paese cerchi di far passare un certo messaggio rispetto a un altro, così come è normale che si cerchi di mettere a tacere alcuni fatti scomodi. Tutto deve però restare nella proporzione delle cose.
Il New Labour ha perso di vista il buon senso e ha dato alla comunicazione e alla distorsione dei fatti un'importanza eccessiva. Nessuno avrebbe mai pensato che una volta al governo i laburisti sarebbero ricorsi allo spin più di Margaret Thatcher e più di John Major. Il governo conservatore di Major crollò proprio per l'immagine poco pulita che dava di sé, per gli scandali e per i tentativi di insabbiamento. Blair ha dato ad Alastair Campbell un potere senza precedenti. Campbell era de facto più importante di un ministro, più importante di un parlamentare laburista. Per le regole della democrazia britannica questo non era accettabile. Come diceva il mio amico ed ex ministro laburista, Roy Jenkins, «non sono contro il blairismo, sono contro il campbellismo
». La politica è valida quando lo sono gli argomenti di cui tratta. Anche se la fine delle ideologie ha impoverito il dibattito politico. Oramai sono pochissime le persone che ascoltano i discorsi dei politici o vanno ai congressi dei partiti. Tutto dev'essere immediato, di facile comprensione. Conta di più l'aspetto esteriore delle cose — lo spettacolo — del contenuto. La gente spesso si lamenta di questo ma ne è anche la causa. Quando Blair ha lasciato il posto a Brown molti hanno detto: «Finalmente ora si parlerà di contenuti e non di immagine! ». Eppure adesso che Brown è in difficoltà nei sondaggi, lo si accusa di essere un cattivo comunicatore e di non curare abbastanza l'immagine! In un certo senso un uomo politico, in una società altamente tecnologica come la nostra, è anche lui un ghost, un fantasma. Pensa di comandare un partito, ma in realtà chi comanda sono quelli come Campbell, loro determinano l'agenda politica.
È ormai così in tutto il mondo, altrimenti Roman Polanski non mi avrebbe telefonato, gridando entusiasta: « It's fantastic! », quando ha letto il manoscritto del romanzo. Qualche anno fa avevamo pensato di fare un film tratto da Pompei.
Poi ci siamo accorti che sarebbe venuto a costare troppo. Girare Il ghost writer è molto più economico. Non so ancora chi interpreterà Adam Lang, ci vorrebbe qualcuno di brillante, a suo agio sotto i riflettori e in mezzo alla folla, uno capace di sedurre e di vendersi al pubblico. Forse Pierce Brosnan sarebbe l'ideale.
Anzi, la verità è che nessuno potrebbe interpretare meglio la parte di Tony Blair dello stesso Tony Blair. Dopotutto non ha più responsabilità di governo. Sono convinto che la cosa gli piacerebbe da morire.
(Testo a cura di Daniele Meloni)

sabato 1 marzo 2008

Bassolino a giudizio: «Truffa e abusi nella gestione»
I quattro segretari regionali di Prc, Pdci, Verdi e Sd: «Sarà la magistratura a stabilire se le gravi accuse che vengono formulate nei confronti del governatore siano rispondenti alla verità. Dal punto di vista politico, però, è evidente che si tratta di un momento delicato che impone una profonda autocritica al centrosinistra, al suo modello di gestione del territorio e una valutazione obiettiva sulla fine di un sistema politico. Motivo per il quale riteniamo necessario andare al voto anticipato in tempi rapidi».

l’Unità 1.3.08
Valle Giulia, tutti figli di quella giornata
di Bruno Gravagnuolo


ANNIVERSARI Quaranta anni fa gli scontri con la polizia alla facoltà di Architettura di Roma. Chi c’era e chi non c’era, e come e perché quel giorno entrò nell’immaginario del movimento che voleva mandare «l’immaginazione al potere»

Tanto per cominciare noi a Valle Giulia quel giorno non c’eravamo. Andò così. Lo sgombro dell’Università di Roma voluto dal rettore D’Avack, inclusa la facoltà d’Architettura, aveva generato uno sciopero, al quale aderivano gli studenti medi. Qualcuno della mia classe e del mio Liceo, il Tasso, aveva deciso di andare a Piazza di Spagna, da dove sarebbe partito il corteo verso Valle Giulia, sede a Villa Borghese di Architettura, e presidiata dalla Polizia. E fu così che quei «compagni» si trovarono a pieno titolo dentro la colonna sonora di quell’evento. La canzone di Paolo Pietrangeli, ricordate? «Piazza di Spagna splendida giornata...». Altri come chi scrive e un altro gruppetto, decisero di andare a zonzo in quella splendida giornata, dopo aver partecipato ad una delle tante assemblee interne, che fin da allora avevano terremotato il clima di quell’austero liceo, con tanto di preside socialista turatiano e lunga barba. E che quando urlava (in latino!) faceva tremare i muri: «Lei è un’idiota e glielo dico ore rotundooo!».
Roba normale per chi parlottava nei corridoi, non rientrava dalla ricreazione o tirava qualche palla di carta. E dire che il Tasso era uno dei licei più libertari e liberali. Con tanto di «Circolo Tasso», liste parapolitiche legate all’Unuri, dibattiti, teatro, professori di italiano, tipo un certo Sermonti, matematici come la famosa Castelnuovo, e studenti svegli e un dì famosi come Paolo Mieli, Paolo Franchi, il meno famoso Valerio Veltroni fratello di Walter, anche lui in seguito al Tasso.
Insomma il 1968 era come ci fosse già stato lì, non solo perché l’anno prima, nel 1967, la vicenda di Paolo Rossi aveva visto il liceo in prima fila nelle proteste per la morte dello studente. Ma anche per l’atmosfera di sinistra spinta che vi si respirava, satura fin da allora di discussioni furiose su Marx, sul «revisionismo kruscioviano», su Pasolini. E non senza contrattacchi vivaci di una destra giovanile niente affato muta, e sempre pronta a contestare, da destra ovviamente, le celebrazioni sulla Resistenza. Riti invisi, quelli, anche a sinistra, per la loro ufficialità: altro che egemonia e vulgata resistenziale! Impossibile dimenticare la scena in classe del professore di latino e italiano Corigliano, che roteava una sedia dal basso in alto verso la radio interna, da cui il buon Casotti esaltava il 25 aprile, mentre eravamo intenti al tema di pramattica sul «Secondo Risorgimento». E Corigliano, amatissimo e scombinato umanista, era un comunista Doc, desanctisiano e togliattiano, benché con tentazioni psiupparde! Bene per tornare a Valle Giulia, dai concitati racconti dei compagni, risultava questo: il corteo aveva raggiunto la collina in cima alla quale c’era l’ingresso di Architettura, per «liberarla». E la polizia, dopo i rituali squilli di tromba, aveva attaccato. «Non siam scappati più!», recitava la canzone di cui sopra. E così, a quanto pare, andò. Con scontri furiosi, inseguimenti, piccoli focolai di guerriglia campestre sui saliscendi. Certo un po’ dispiaceva agli assenti non esserci stati. E i reduci eccitatissimi ce lo facevano sentire come un’occasione mancata. Sicchè quella giornata - dove c’era il gotha della contestazione, Piperno, Franco Russo, Fuksas, Petruccioli Jr, fratello di Claudio e da allora molto più popolare di lui - entrò dentro l’immaginazione di tutti. Anche di chi non c’era. Era stata come un «gesto», una specie di battesimo della protesta non vittimista, ma autorisarcitoria: non siamo scappati più. Non abbiamo paura della polizia che picchia duro (e picchiava duro!). Sta di fatto, epico o meno che fosse lo scontro su cui Pasolini appuntò i suoi strali populisti, quella giornata fu l’instantanea di un lungo album. Il fotogramma base di un lungometraggio che andava ben al di là dell’insorgenza di una massa di studenti borghesi e piccolo-borghesi romani. Fu l’atto di autopresentazione di un «movimento» animato da pulsioni contrastanti. Anarchiche e antiautoritarie, «edipiche» in certo senso, contro la generazione dei padri che ci invitava a cercarci «un posto» e un ruolo professionale rispettato nella vita. Ma del pari, pulsioni aggressive, autoritative. Come se la distruzione dell’autorità dichiarata illegittima, dovesse lasciare il campo a certezze non meno asseverative. Globali, quanto la globalità delle verità rifiutate.
Molte illusioni ebbero corso allora. Molti «ripescaggi» di vicende ideologiche antiche e pregresse, specie nella storia della sinistra. Ad esempio, un’idea della purezza «di classe», nella classificazione della politica e della cultura, che riproduceva il primitivismo di certe visioni bordighiane. E un’idea della polarizzazione dello scontro sociale, dove ogni concessione «riformista» celava il pericolo dell’integrazione nel Moloch del sistema dai mille tentacoli seduttivi. Poi la riscoperta di Trotzky, dei soviet, persino di Stalin e del «marxismo-leninismo», vissuti come oggetti luccicanti e nuovi, magari con ironia o in chiave provocatoria e contundente. Eppure, accanto a queste pulsioni di ordine contro l’ordine fallace, c’erano spinte di tutt’altro tenore: libertarie, individualistiche, estetizzanti e finanche «surrealistiche». Un classico dell’epoca era questo: gli «Uccelli». Gruppo «dada» autopromossosi a cattiva coscienza dell’ideologia. Che si arrampicò sulla cupola della Sapienza, mobilitando mediaticamente l’attenzione. E che irrompeva nelle assemblee, facendo mucchio e aprendo l’ombrello contro il diluvio di parole e sintagmi ideologici: «nella misura e a livello in cui il ciclo del Capitale si ristruttura....». Oppure, tentava di costruire piscine nel giardino di Architettura, con assalti da commandos a colpi di badile, uscendo da un furgone. E il capo degli «uccelli» sapete chi era? Paolo Liguori, ormai berlusconiano doc, dopo essere passato per Comunione e Liberazione.
Dunque il ’68 fu tante cose, psicologicamente. Qualcosa di «narcisistico» e pure di «gregario» dal punto di vista giovanile, nel senso di moda, tendenza, linguaggio, liberazione di emozioni. Con quel tanto di «delirante» che ogni sommovimento include. Ma più che altro fu due cose. Innanzitutto fu un gigantesco spostamento politico e di generazione a sinistra: di gioventù operaia e studentesca, verso la realtà dei ceti subalterni e le loro culture. Verso realtà escluse dai frutti del boom degli anni ’60. E in tal senso quello spostamento allargò i diritti civili e il perimetro del Welfare state. Ma a scala mondiale, ovviamente. E nelle crepe di un ordine geopolitico dei blocchi che cominciava a franare.
Infine, come onda mediatica, il 1968, fu una gigantesca rivoluzione antropologica. La prima manifestazione mondiale del «globalismo». Che irrompeva sul proscenio come partecipazione vissuta alla storia sentita come presente e contemporanea. Una immensa diretta dell’immaginazione. Nella quale, malgrado le maledizioni a ritroso, si sono formati tutti, anche quelli che oggi stanno su barricate opposte all’anno mirabile o che lo hanno tradito. Sicché, per uno strano paradosso, senza bisogno di scomodare Guy Debord, in fondo persino Berlusconi è nato a Valle Giulia. Come padrone di quell’immaginazione che noi volevamo liberare.

l’Unità 1.3.08
Polemica sul viceministro della Difesa
«Per gli abitanti di Gaza sarà “shoah”, cioè la catastrofe»
di Umberto De Giovannangeli


«Non rinunceremo a nessuna azione per costringere i miliziani palestinesi a porre fine al lancio dei razzi contro le nostre città. I capi di Hamas lo sanno bene, ma sono degli irresponsabili». A parlare è il vice ministro della Difesa israeliano, Matan Vilnai (laburista).
Nel sud di Israele, a Gaza, la parola è ormai alle armi?
«Non abbiamo altra scelta. A fronte del continuo ripetersi del lancio di razzi contro le nostre città, un’operazione militare di vasta portata appare ormai inevitabile. Sia chiaro: Israele non ha alcuna intenzione di rioccupare Gaza, questa operazione ha solo scopi difensivi. Siamo consapevoli che un’operazione del genere avrà costi enormi e sarà difficile, ma di ciò i capi di Hamas si assumeranno per intero la responsabilità. Uno Stato ha il diritto-dovere di difendere la vita dei suoi cittadini. Per quanto ci riguarda, non ci sottrarremo alle nostre responsabilità».
Oltre Sderot, i missili palestinesi hanno iniziato a bersagliare anche Ashqelon, la più popolosa città del sud di Israele.
«Quanto più si intensifica il lancio di razzi contro le nostre città e quanto più la loro gittata si allunga, tanto più i palestinesi si espongono al rischio di una "shoah" (catastrofe, ndr.) ancora più grande, perché noi useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per difenderci»..
La comunità internazionale ha espresso forte preoccupazione per questa escalation di violenza.
«Siamo i primi a condividere questa preoccupazione ma al tempo stesso siamo consapevoli che di fronte alla cinica irresponsabilità dei capi di Hamas l’azione militare è una via obbligata. Lo ripeto: ogni giorno civili inermi israeliani vengono bersagliati da decine, centinaia di razzi sparati dalla Striscia di Gaza, un territorio dal quale Israele si è ritirato unilateralmente nell’estate del 2005. Oggi Gaza è stata trasformata in una immensa rampa di lancio per i missili Qassam. La responsabilità di ciò è tutta di Hamas, che con il suo comportamento irresponsabile tiene in ostaggio due popoli».
La parola dialogo non ha diritto di cittadinanza in questo tormentato angolo del mondo?
«Il dialogo è una strada che abbiamo deciso di intraprendere assieme al presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.). Ma nessuno può chiederci di dialogare sotto la minaccia costante dei missili sparati da chi non intende solo colpire cittadini israeliani ma con il terrore mira a far fallire ogni sforzo di pace».

Repubblica 1.3.08
"Il feto va sempre rianimato" bioetica, il documento dei saggi
di Mario Reggio


ROMA - Il feto viene alla luce prematuro? Presenta segni di vitalità? Allora deve essere curato e rianimato anche se i genitori di dicono contrari. Lo ha deciso, a maggioranza, la Commissione nazionale di Bioetica. Ma restano alcuni di punti interrogativi. Anche i ginecologi cattolici non sanno indicare se le pratiche di rianimazione devono essere praticate solo dopo la ventiduesima settimana di gravidanza, anche perché ogni feto ha caratteristiche diverse. E malgrado i progressi delle terapie si rischia l´accanimento terapeutico. E poi fa discutere l´esclusione dei genitori da qualsiasi decisione. Tra l´altro il quesito è uno dei tre, assieme all´applicazione integrale della 194 e della Ru486, sottoposti dal ministro della Salute Livia Turco al Consiglio superiore di Sanità che non ha ancora espresso il suo parere.
Un documento che, nonostante sia stato approvato dalla maggioranza, ha comunque determinato una spaccatura all´interno del Cnb, con alcuni membri, tra i quali il ginecologo Carlo Flamigni, che si sono dichiarati contrari. E la posizione assunta dal Comitato si allontana da quella espressa invece dagli esperti: documenti di molte società scientifiche, infatti, indicano nella ventiduesima settimana il limite al di sotto del quale le cure intensive al neonato si configurerebbero come accanimento terapeutico.
Insomma, si pongono dei ‘limiti temporali´ alle cure sulla base dell´età del feto, cosa che secondo il Cnb è inaccettabile.
Il punto centrale del documento, spiega il vicepresidente del Cnb Lorenzo D´Avack, «è che si ritiene che il feto debba essere rianimato sempre se è vitale. Non è eticamente accettabile, cioè, porre dei paletti temporali per fissare a partire da quale età gestazionale si debba o meno procedere alla rianimazione del feto». Altro nodo centrale è rappresentato dal ruolo dei genitori in queste difficili circostanze: «E´ chiaro - dice D´Avack - che è sempre opportuno cercare una linea condivisa con i genitori, che vanno adeguatamente e costantemente informati. Tuttavia, nella eventualità che, in presenza di feto vitale fortemente prematuro, non si giunga ad una posizione condivisa, allora deve essere prevalente la decisione del medico a favore della rianimazione. Ad eccezione, però, se si tratta di terapie sperimentali, nel qual caso il parere dei genitori è invece vincolante». Totale dissenso arriva da Carlo Flamigni, ginecologo e membro del Cnb, che sottolinea di aver espresso un voto contrario, annunciando che presenterà un parere di dissenso: «In situazioni di questo tipo - afferma - il parere dei genitori nella decisione di procedere alla rianimazione del feto nato fortemente prematuro, e che potrebbe avere gravi danni o deficit, deve essere vincolante». Il punto vero, conclude Flamigni, è che «una vita senza alcuna qualità o speranza, a mio parere, non merita di essere vissuta».

Repubblica 1.3.08
L’annuncio di 2 medici. Flamigni: molti dubbi
"Test genetico su ovulo così l´embrione è intatto"


ROMA - Sono già almeno 80 le coppie portatrici di malattie ereditarie che sperano di poter evitare il cosiddetto «turismo della provetta» e sono in attesa di poter provare in Italia il nuovo test di diagnosi eseguito sull´ovulo anziché sull´embrione. Dopo un anno di prove in laboratorio, è stata ottenuta la prima gravidanza. La donna, portatrice di una malattia ereditaria, è al terzo mese di gravidanza e il feto è sano, come ha dimostrato anche l´analisi dei villi coriali.
A presentare il risultato, ieri a Roma, sono stati il biologo Francesco Fiorentino, direttore del laboratorio Genoma, e il direttore del centro di procreazione assistita dello European Hospital, Ermanno Greco. Quella che viene analizzata è una formazione che compare nell´ovocita al momento dell´ovulazione, chiamata globulo polare. E´ una struttura che racchiude specularmente il Dna dell´ovulo e che va perduta con la maturazione dell´ovocita.
Ma c´è anche chi, come il professor Carlo Flamigni, non nasconde le sue perplessità: «L´analisi viene effettuata solo un globulo polare dell´ovocita, prima che venga fecondato, mentre per avere riscontri scientificamente corretti e geneticamente certi dovrebbe avvenire sui due globuli polari dopo la fecondazione, una pratica che in Italia, grazie alla legge 40 non è consentita».

Corriere della Sera 1.3.08
«Un passo avanti L'embrione non viene toccato»
Lo scienziato «Ma non si risolve tutto»
di Edoardo Boncinelli


È proprio vero che la necessità aguzza l'ingegno! Poiché in Italia oggi non è permessa la diagnosi genetica cosiddetta preimpianto sui primissimi stadi di sviluppo dell'embrione, prima appunto che questo si impianti nell'utero materno, qualcuno ha pensato di analizzare la cellula-uovo della futura mamma prima che venga fecondata dallo spermatozoo del futuro papà. In questa maniera non si sacrifica nessun embrione o progetto di embrione: il concepimento infatti non è ancora avvenuto. Questo dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) mettere a tacere molte critiche di ordine etico-religioso.
Se è così perché non ci si è pensato prima? Ci sono almeno due ragioni per cui non ci si è pensato prima, e questa tecnica si presenta come relativamente nuova. La prima ragione è che fare l'analisi genetica di una cellula- uovo non è come bere un bicchier d'acqua. Per prima cosa, non è facilissimo condurre un'analisi genetica sicura sopra una singola cellula. Qualche anno fa avrebbe avuto dell'incredibile, ma oggi questo sembra ormai definitivamente acquisito: si è appunto capaci di fare un'analisi su di una singola cellula. In secondo luogo, non posso condurla direttamente sulla cellula-uovo, perché appena l'ho analizzata, quella non c'è più. Mi comporterei come Cecco Grullo che per sapere se una scatola di fiammiferi era buona, li accese tutti: poi non gliene rimase nessuno da adoperare! Fortunatamente la cellula-uovo ha una piccola compagna silenziosa, chiamata globulo polare, la quale è geneticamente identica ad essa e non serve a niente. Basta allora analizzare il globulo polare ed è come se si fosse analizzata la cellula-uovo stessa. Per svilupparsi appieno la cellula-uovo ha bisogno di circondarsi di questa compagna silenziosa, della quale poi finirà per sbarazzarsi. L'analisi genetica del globulo polare è equivalente a quella della cellula-uovo stessa, senza bisogno di sacrificarla.
C'è anche un altro aspetto. Analizzando la cellula-uovo non ci si mette al sicuro da ogni embrione geneticamente malato, perché non si analizza il contributo del padre. Si risolvono completamente però più della metà dei casi e ci si mette al sicuro da un buon tre quarti delle possibilità avverse. Si escludono infatti la totalità dei geni dominanti, e una buona parte di quelli recessivi, trasmessi dalla mamma, a patto ovviamente che si conosca l'assetto genetico del futuro padre. Ma questo in genere è noto. Insomma, un grosso avanzamento, anche se non una soluzione definitiva.

Repubblica 1.3.08
Malattie mentali a 30 anni dalla legge Basaglia
di Corrado Augias


Caro Augias, tra poche settimane cade l'anniversario della famosa Legge Basaglia di riforma psichiatrica approvata dal Parlamento il 13 maggio 1978. Tale legge ha portato ad una chiusura dei manicomi che ha sostituito con programmi di assistenza sul territorio basati sui servizi di igiene mentale. L'«antipsichiatria» che stava nello spirito della legge promossa dal prof. Basaglia, doveva togliere l'attenzione dal singolo individuo per andare a ricercare le cause sociali che avevano generato il malessere psichico. Caro Augias, onestamente qualche fatto di cronaca mi pone degli interrogativi. La legge 180 è stata promossa o è da rivedere alla luce dell'evoluzione sociale?

Andrea Sillioni Bolsena (Vt) sillioni@alice. it

La domanda è complessa, mi sono rivolto al prof. Alberto Siracusano, che ringrazio, ordinario di Psichiatria all'Università di Roma Tor Vergata nonché presidente della Società Italiana di Psichiatria. Ecco in sintesi la sua opinione: la riforma introdotta trent'anni fa (legge Basaglia) non abolì solo i manicomi come comunemente si crede, ha cambiato il modo d'intendere la cura delle malattie mentali diffondendo l'assistenza psichiatrica nel territorio. So che alcuni pensano che i 'matti' siano talvolta abbandonati a se stessi. Resiste il pregiudizio contro la malattia mentale, contro la possibilità che quei disturbi possano essere curati. Anche se molto è stato fatto c'è ancora molto da fare per organizzare meglio le strutture di assistenza, tenendo però sempre conto del fatto che indietro non si può tornare. La psichiatria è cambiata per sempre e oggi deve guardare al futuro, alla grande diffusione del disagio psichico.

Secondo l'Oms i disturbi depressivi saranno presto al secondo posto nelle patologie subito dopo le malattie cardiovascolari. Nelle obiezioni che sento in giro affiora il rimpianto per la figura dello psichiatra come custode del malato; per di più si confonde spesso la malattia psichica con la violenza ignorando che l'aggressività è un fattore complesso da affrontare non con la semplice repressione ma con interventi specifici. Oggi il modello della malattia mentale viene definito 'bio-psico-sociale', disagi di origine biologica, psichici individuali, e che possono derivare dall'ambiente familiare e sociale. La psichiatria moderna deve rispondere alle richieste di una società in profonda evoluzione curare fattori di rischio quali: la diffusione del consumo di droghe, comprese quelle cosiddette 'leggere', la fragilità delle relazioni familiari, con genitori assenti o poco presenti, il disagio provocato dalla vita nelle aree urbane La psichiatria è impegnata a prevenire in modo mirato nelle fasi più delicate della vita: l'età evolutiva, l'adolescenza, le fasi problematiche della vita femminile, l'età anziana. La legge Basaglia ha rappresentato un grande stimolo al cambiamento, a pensare in modo libero, a formulare nuove teorie, soprattutto ci ha insegnato a non rimpiangere il passato.

Repubblica 1.3.08
Ecco l’America dei carcerati
Un americano su cento è in prigione
di Vittorio Zucconi


Un cittadino su cento vive dietro le sbarre Superati Cina, Russia, Iran e India
Il record degli Usa "paese dei liberi" con più carcerati
In prigione si finisce per reati gravi ma anche per piccole infrazioni ripetute
L´economia in crisi non ce la fa più a sopportare il peso del sistema carcerario

Un americano su cento è in prigione. Una cifra record, che fa degli Stati Uniti il paese che fa più ricorso alla carcerazione: 2,3 milioni di detenuti su 230 milioni di abitanti adulti, più che in stati come Cina, Russia, India e Iran. Ma non tutti i cittadini degli States hanno le stesse probabilità di finire dietro le sbarre: vive infatti in stato di detenzione un giovane nero su nove. Un sistema che fa discutere, visto che in alcuni stati spendono più per le carceri che per l´istruzione.
C´è una città sommersa, un´Atlantide di uomini numero, che cresce più di tutte le altre in America ed è ormai la quarta per popolazione, subito dietro New York, Los Angeles e Chicago. Non cercatela sulla carta, perché non ha nome. Non ha case, ma celle, non ha sindaci, ma guardiani. È la città dei carcerati, che con 2 milioni e 259mila involontari residenti in questo 2008 ha dato agli Stati Uniti il record mondiale della popolazione in gabbia, più di Cina, Russia, India, Iran, in numero assoluto e in rapporto alla popolazione.
Nella terra dei «coraggiosi e dei liberi», come canta l´inno nazionale, c´è un «non libero» ogni cento abitanti adulti (250 milioni fra i 18 e il 70 anni) e uno ogni dieci, se il «coraggioso» ha la sfortuna di avere la carnagione di Barack Obama. Partoriti dal panico giustizialista e repressivo che aveva travolto la nazione negli anni ‘80 della grande ondata di crimine e che si era tradotta in leggi draconiane negli anni ‘90 al grido di sbatteteli tutti dentro, la città è cresciuta come un cancro fuori controllo, si è metastizzata in 38 «supercarceri» in ogni stato, dal Massachusetts all´Arizona, e in migliaia di istituti di pena locali, di contea e federali, dove sono affastellati insieme gente come Ramzi Yusef, il terrorista che tentò per primo di demolire le Torri Gemelle nel 1993 e come Kevin Weber, condannato nel 1995 a 26 anni per avere rubato biscotti in un McDonald´s, ma erano biscotti al cioccolato.
La spesa per il sistema carcerario, cresce molto più in fretta della spesa per l´istruzione pubblica. Costa settanta miliardi di dollari, un tesorone, 26mila dollari per ogni carcerato all´anno, e mentre nuove costruzioni sono lanciate ovunque, scatta l´implacabile paradosso delle autostrade: più se ne fanno e più sono piene. In California, lo stato dove per primo scattò il panico da sicurezza pubblica, il «California Penal System» accoglie 180mila detenuti in carceri costruite per ingabbiarne 80mila. Lo stato, perennemente in crisi fiscale, non ha più fondi per costruirne altre e i giudici sono costretti a migliaia di micro «indulti» individuali, scarcerando «su parola» detenuti che rientreranno per il 70% entro un anno. Il carcere diviene un´immensa porta girevole.
Mentre la nazione sta entrando in una massiccia crisi finanziaria e di liquidità, che proprio stati, contee (province) e comuni pagano per primi non riuscendo a collocare obbligazioni, quella città in salopette arancione, la più portata fra le «mise» dei carcerati, le zavorra come una palla di ferro al piede. Ma il sistema giudiziario è ammanettato alle leggi dei «tre colpi e sei fuori dalla società», come furono chiamate negli anni ‘90 usando una metafora del baseball. Alla terza condanna, il tribunale è obbligato, in 28 stati, a irrogare il massimo della pena, anche se i tre reati commessi non sono gli stessi nè di uguale gravità. Si spiegano così i casi celebri e grotteschi del condannato a 26 perchè sorpreso a rubare «chocolate chip cookies», biscotti al cioccolato, in un fast food, che aveva due precedenti per spaccio e rapina. I 25 anni a Gary Ewing, che come «terzo colpo» aveva rubato una sacca di mazze da golf in un country club. I sei anni a Dewayne Williams, che aveva portato via una ripugnante pizza al salame piccante a un gruppo di ragazzini, ma era recidivo per furti in un supermercato.
Ma è soprattutto il panico da «guerra alla droga», quella guerra che la droga sta facilmente vincendo come dimostra la continua caduta dei prezzi di strada, quello che ha imbottito le carcere americane. Fra tutti i reati violenti e non violenti che da quindici anni sono i diminuzione negli Stati Uniti, sia laddove si applica la legge dei «tre colpi» sia dove il giudice mantiene la discrezionalità della pena dunque smentendo il rapporti di cause ed effetto fra le severità e la sicurezza, sono il possesso e lo spaccio di sostanza «controllate», gli ingranaggi che divorano milioni di cittadini e soprattutto di giovani di colore. Su due che entrano nella «porta girevole» delle carceri, uno ci va per reati di «droga», decuplicati in vent´anni. Persino in California, i giudici hanno ottenuto di poter tramutare la detenzione in riabilitazione, per non far esplodere gli istituti di pena (dove, tra le altre piacevolezze, il 37% dei detenuti maschi e il 42% delle femmine denuncia varie forme di violenza o di molestie sessuali gravi).
Per l´aumento della popolazione generale, che fra nascite e immigrazione vede crescere gli abitanti di circa 20 milioni all´anno dal 1980, il popolo del continente invisibile è destinato ad aumentare ancora, perchè l´età media della popolazione diminuisce e sono i giovani coloro che commettono più crimini. La prospettiva di una nuova, lunga recessione, dopo quasi 20 anni di crescita quasi ininterrotta sotto Clinton e Bush il Giovane promette di popolare ancora più l´Atlantide dietro le sbarre.
Nessun´altra nazione importante nel mondo può avvicinare il record americano di 750 detenuti ogni 100 mila persone (neonati e moribondi inclusi), non il Sudafrica, con 341 per 100 mila, l´Iran, con 222, la deprecata Cina, con 119.
Persino la Russia del neo zar Putin, che non gode nel mondo di grande stima garantista, ha 890mila carcerati, un terzo degli Stati Uniti con circa metà degli abitanti. Si calcola che nel 1776, quando le 13 colonie originarie proclamarono la loro Indipendenza dalla corona Britannica, vivessero sulle coste dell´Atlantico, 2 milioni e mezzo di coloni. Oggi sarebbero tutti in galera.

Repubblica 1.3.08
Libretto rosso
Torna in libreria il "vangelo" di Mao che avvelenò la Cina
Un best seller miracoloso
di Federico Rampini


Alcuni giornali riferirono che i medici armati delle "Citazioni" guarivano i ciechi
Nel 1979 Deng Xiaoping demolisce il libretto per la sua "influenza vasta e negativa"
In quarant´anniè stato diffuso in cinque miliardi di esemplari , commentatoe interpretato
Di pochi libri si può dire davvero, a decenni di distanza, che hanno segnato un´epoca. Questo ha tentato di cambiare il mondo e c´è quasi riuscito. Ha impresso il suo colore rosso sugli anni Sessanta e Settanta: in Cina, nei campus universitari occidentali, nelle rivoluzioni del Terzo mondo. E´ il secondo best-seller di tutti i tempi dopo la Bibbia. Si dice che in quarant´anni sia stato diffuso in cinque miliardi di esemplari. Nel solo 1967, all´apice della Rivoluzione culturale, ne vengono stampati e diffusi 350 milioni di esemplari. In quell´anno le Citazioni hanno già sprigionato tutta la loro potenza d´indottrinamento delle masse. A partire dal 16 agosto 1966 la cerchia dei fedelissimi di Mao comincia a lanciare appelli pubblici perché gli studenti affluiscano da tutto il paese verso la capitale. Si apre la nuova fase della rivoluzione comunista. Il Grande Timoniere che ha fondato la Repubblica popolare nel 1949 vuole liberarsi degli avversari interni e delle fazioni moderate. Scatena la rivolta dal basso contro gli apparati burocratici del partito, il «bombardamento del quartier generale». Saltando ogni intermediazione, scavalcando la nomenklatura, il popolo deve venire direttamente a contatto con il leader carismatico. Tra l´agosto e il novembre del ‘66, a ondate successive, sulla Piazza Tienanmen di Pechino si rovesciano adunate oceaniche per osannare il leader. Il sinologo Ross Terrill ricorda la bellezza coreografica di quelle maree umane, l´effetto scenico speciale che derivava proprio dal movimento di centinaia di migliaia di braccia che sventolavano verso il cielo il Libretto: «Agitate in aria, tutte quelle copertine rosse facevano apparire la Piazza Tienanmen come una prateria piena di farfalle».
Via via che il culto di Mao assume connotati sempre più prossimi a una religione, i poteri soprannaturali del Grande Timoniere si estendono al piccolo florilegio dei suoi pensieri. Il reporter britannico Philip Short che visse in Cina in quegli anni ricorda che al Libretto rosso vennero attribuiti veri e propri miracoli. «Alcuni giornali riferirono che dei medici armati delle Citazioni avevano guarito i ciechi e i sordomuti; che un paralitico appoggiandosi sul Libretto si era messo a camminare; che in un altro caso l´apparizione di quelle pagine coi pensieri di Mao aveva resuscitato un morto».
Il vero miracolo di questo Libretto rosso fu un altro, avvenne nei salotti e nelle assemblee studentesche dei nostri paesi: l´innamoramento di certe élites borghesi dell´Occidente per il maoismo lo trasfigurò in un testo prezioso e arcano, perfino esoterico. Raffinati intellettuali europei si esercitarono in una esegesi colta, per disvelare in ogni aforisma significati sempre più profondi, visioni lungimiranti a cui avrebbero dovuto ispirarsi le nostre società, che a quell´epoca erano ben più sviluppate della Cina. Era il mondo a rovescio. Nell´ebbrezza del maoismo occidentale un potente allucinogeno era rappresentato dalla convinzione che l´esperimento cinese fosse irriducibilmente diverso dagli altri socialismi realizzati, in particolare dal modello sovietico. Una rivoluzione dal basso, più democratica, più genuina, più spontanea. Una società dove comandavano davvero le masse, non gli apparati di partito. Che Mao usasse spesso analisi identiche a Stalin era irrilevante. Le medesime parole pronunciate da lui volevano dire «altro», per gli ammiratori occidentali. È istruttivo rileggere oggi l´Introduzione con cui la casa editrice Einaudi pubblicò in Italia la raccolta Rivoluzione e costruzione, con i testi di Mao dal 1949 al 1957. Pur uscendo nel 1979, quindi tre anni dopo la morte del leader cinese e quando molte verità scomode su di lui stavano affiorando perfino a Pechino, il testo italiano era ancora segnato da una tale venerazione, che arrivava a negare l´evidenza e il significato letterale delle parole: «Il lettore non deve essere tratto in inganno dal fatto che anche Mao usi qui, come farà del resto anche negli anni successivi, una terminologia in parte identica a quella impiegata a quel tempo nel «campo socialista». Espressioni come «centralismo democratico», «direzione del partito», «dittatura del proletariato», «economia pianificata», sono un guscio che racchiude una sostanza diversa e quasi sempre antitetica a quella di altri socialismi». In quel fascino irradiato urbi et orbi traspare la grandezza di Mao, e una delle ragioni per cui è ancora venerato dai cinesi, a cui restituì la fierezza e l´orgoglio di una potenza. Perfino Confucio e le sue dottrine non si esportarono così diffusamente.
Per illuminare le attrazioni del maoismo nella sua stagione più radicale, Zhu Xueqin evoca un parallelismo con la Rivoluzione francese. Zhu è docente universitario e fa parte della generazione dei «figli di Mao». «Molte Guardie rosse - dice - studiarono la Rivoluzione francese. I giacobini ispirarono il loro idealismo utopico. L´esempio della crudeltà giacobina e della violenza rivoluzionaria in Francia fu importante per tutti coloro che pensavano che il vecchio ordine costituito si potesse schiacciare solo con la forza. Più gli studenti erano idealisti, più erano disposti ad accettare la violenza».
Tra le vittime delle prime fiammate di violenza studentesca c´è la professoressa Bian Zhongyun, cinquantenne madre di quattro figli, linciata selvaggiamente dalle sue alunne il 5 agosto 1966 a Pechino. La storia della signora Bian è una delle più note per lo scenario in cui si svolge: un liceo «perbene» frequentato da molti rampolli di alti dirigenti comunisti, tra cui le figlie dello stesso Mao Zedong, dell´allora presidente della Repubblica Liu Shiaoqi, e di Deng Xiaoping. Nei mesi di giugno e luglio di quell´anno le sue studentesse iniziano una virulenta campagna di attacchi contro la professoressa Bian accusandola di essere una controrivoluzionaria e di non rispettare Mao. Quest´ultima accusa si basa su un «incidente» accaduto durante una delle periodiche esercitazioni antisismiche. Mentre la docente fa evacuare la sua classe dalle alunne, una ragazza le chiede se non sia egualmente importante portare in salvo il ritratto di Mao. Bian non risponde con il «livello di entusiasmo adeguato» e questo le sarà rinfacciato come una macchia infamante. Al culmine di una serie di umilianti processi pubblici il 5 agosto viene assalita e pestata a morte dalle sue alunne. Il suo corpo è abbandonato in una carriola nel cortile della scuola, ricoperto di manifesti di insulti. Dopo molte ore qualcuno porta la carriola in ospedale. Quando il marito e la figlia maggiore accorrono, trovano il cadavere tumefatto e sfigurato, reso irriconoscibile dalla violenza delle botte. Nessuno si prenderà mai la responsabilità di quella morte, che sarà archiviata come «decesso per cause ignote».
Il bilancio complessivo delle vittime della Rivoluzione culturale? Solo nelle campagne muoiono per le violenze e le esecuzioni sommarie tra i 750.000 e il milione e mezzo di persone, a seconda delle stime.
Come simbolo di un decennio da dimenticare molto in fretta, senza fare i conti con le cause e le responsabilità di quell´orrore, il Libretto rosso viene scomunicato tre anni dopo la morte di Mao. Nel 1979 sotto la leadership di Deng Xiaoping una direttiva interna del partito informa i quadri che le Citazioni «hanno avuto un´influenza vasta e negativa». Oggi lo si trova in vendita, in tutte le lingue, nelle bancarelle di souvenir e paccottiglia per turisti.

Repubblica 1.3.08
Celebrazioni / I sessant'anni della nostra carta fondamentale
Una costituzione tutta d’un pezzo
di Leopoldo Elia


Quel documento nei decenni si è consolidato, mentre il tempo ha travolto le forze politiche che avevano contribuito a scriverlo

Pubblichiamo parte del discorso che , presidente emerito della Corte costituzionale, ha pronunciato ieri durante la cerimonia per i sessant´anni della Costituzione della Repubblica italiana

l compimento del sessantennio trascorso dall´entrata in vigore della Costituzione repubblicana ad oggi suggerisce qualche riflessione sul passato e qualche proposito per il futuro. Già Madison metteva in guardia contro le frequenti revisioni del testo costituzionale, che lo avrebbero fatto apparire difettoso per troppe lacune, e notava che la Costituzione avrebbe potuto trarre beneficio da «quella venerazione che il tempo accorda ad ogni cosa» (Il Federalista, saggio n. 49).
Almeno nel caso nostro il giudizio sulla universale venerazione va limitato alla Carta che in questi decenni si è consolidata, mentre il tempo ha travolto le forze politiche che avevano contribuito a formarla insieme a componenti essenziali delle loro ideologie. Del resto già Giovanni XXIII, conversando con Vittorio Bachelet, aveva concluso: «E poi l´Italia ha una buona Costituzione». Questa duplicità di effetti tra la buona Costituzione che perdura e le strutture politiche fondatrici che scompaiono è una costante che si ripete proprio quando la continua vigenza della Carta scavalca alcune generazioni.
Cresce anche la spinta a considerare con criteri storici le vicende costituzionali nel lungo periodo che ci separa dal 1º gennaio 1948, affrontando i problemi della periodizzazione e della scelta dei materiali da utilizzare: che non possono essere solo leggi e sentenze ma sono anche gli eventi in grado di influire sulla Costituzione vivente, dall´approvazione di un ordine del giorno in sede parlamentare all´esito di una consultazione referendaria. (...)
A mero titolo esemplificativo richiamo tre diversissimi precedenti, peraltro di grande significato. Il primo è rappresentato dalla sentenza n. 1 del 1956 di questa Corte che costituisce, malgrado le chiarissime differenze, una decisione analoga alla Marbury vs Madison nella situazione italiana, caratterizzata dall´opposizione del Presidente del Consiglio dell´epoca, a mezzo dell´Avvocatura dello Stato, alla competenza della Corte a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anteriori alla entrata in vigore della Costituzione. Colpisce ancora, al di là della motivazione essenzialissima su questo tema cruciale, la volontà autoassertiva della Corte di allora espressa nella formula iniziale di considerare "fuori discussione" la competenza esclusiva della Corte a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi senza distinzione tra quelle anteriori e quelle posteriori alla Costituzione. (...)
Il secondo caso, veramente di tutt´altra natura, è il tormentato "dialogo costituzionale" che Aldo Moro propose al partito comunista di Enrico Berlinguer particolarmente nel discorso di Benevento (18 novembre 1977). Mentre prendeva atto delle dichiarazioni (anche a Mosca) del leader comunista sulla democrazia «come valore storicamente universale», Moro avanzava dubbi sulla vera sostanza di «un´originale società socialista», democraticamente fondata: a suo avviso i lineamenti di quella "autentica" società socialista rimanevano ancora indistinti poiché essi non si esprimevano in nessun modello riconosciuto ed al quale si facesse riferimento; come si configura - egli chiedeva - «la coesistenza di dati, quali quello del pluralismo sociale, della pluralità politica e i modi di rispetto della libertà in confronto alla gestione dell´economia»? Domande che corrispondono alla constatazione di Norberto Bobbio sulla mancata elaborazione in seno alla sinistra di un coerente pensiero in tema di Stato. Moro sarà poi rassicurato sulla natura ormai "costituzionale" del partito comunista in successivi colloqui con Berlinguer; ma ancora nella conversazione con Eugenio Scalfari del 18 febbraio 1978 (ma pubblicata il 14 ottobre di quell´anno), ribadendo la sua contrarietà al progetto di compromesso storico, respingerà l´idea di "società consociativa", non accettabile per l´Italia. Evidentemente, a differenza della "solidarietà nazionale", l´idea di società consociativa poteva in nuce precludere la reversibilità del potere una volta che questo fosse stato conquistato democraticamente dalla forza politica rappresentativa della classe operaia. Invece l´alternativa, nella prospettiva di Moro, non poteva essere disgiunta dall´alternanza tra partiti e schieramenti di partiti dotati di pari legittimazione. Alla fine, si può aggiungere, che, grazie anche alla forza integrativa della Costituzione, la tendenza ad includere nel circuito del governo, e non della sola rappresentanza, sarebbe prevalsa su quella ad escludere, che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda. E così lo storico Franco De Felice poté affermare che in Italia il muro di Berlino era caduto con dieci anni di anticipo.
Il terzo evento è più vicino alla nostra esperienza, anzi è appena di ieri: mi riferisco all´esito del referendum del 25-26 giugno 2006 che forse è stato troppo sbrigativamente passato agli archivi. È arbitrario, a mio avviso, pretendere di pesare il voto ostile alla revisione in rapporto ai vari temi compresi nella riforma: devolution, forma di governo, bicameralismo. Sfugge così il carattere globale della deliberazione popolare che intese, per la prima volta dopo l´entrata in vigore della Carta, confermare esplicitamente il valore della Costituzione come testo unitario. Il che non preclude emendamenti correttivi o integrativi ma induce a rifiutare l´idea di grande riforma o di "progetto organico" di revisione. D´altra parte nel corso della campagna referendaria è apparso chiaramente lo stretto collegamento tra prima e seconda parte della Costituzione: taluni squilibri, provocati, ad esempio, nelle competenze degli organi di garanzia o nell´ordinamento costituzionale della Magistratura, possono compromettere la tutela delle situazioni soggettive considerate nella prima parte.

Repubblica 1.3.08
Un romanzo sulla guerra civile
di Paolo Collo


Arriva in Italia il libro di Julio Llamazares che racconta l´epopea di un gruppo di repubblicani braccati dai franchisti. Alcuni dei quali fino agli anni Cinquanta
Si nascosero sulle montagne o nelle miniere, morendo di freddo, di fame e di malattie
Furono dimenticati persino dai parenti che preferirono non subire rappresaglie

Con la recente uscita in libreria di Luna da lupi (a cura di Paola Tomasinelli, Passigli Editori, pagg.160, euro 14,50) dello scrittore leonese Julio Llamazares (Vegamián, 1955) il lettore italiano può finalmente completare in buona parte la propria conoscenza - letteraria, s´intende - del prima, del durante, e del dopo la Guerra Civile spagnola.
In questi ultimi anni, infatti, abbiamo assistito a un deciso rifiorire di libri sull´argomento. Segnale, forse, di una sorta di sdoganamento, di chiusura con i conti del passato, di riesumazione e poi di definitiva sepoltura di una terrificante guerra civile e internazionale al contempo.
E´ il caso del più famoso di tutti, quel Soldati di Salamina, di Javier Cercas, che - affrontando il problema del ricordo e della rimozione o meno della memoria - tanto ha fatto discutere sia a destra e sia a sinistra; o delle «microstorie» superbamente raccontate da Antonio Soler in Il nome che ora dico, da Manuel Rivas con La lingua delle farfalle (ed è da questo libro che è stato tratto il film sicuramente più bello), da Alberto Méndez nei suoi racconti I girasoli ciechi, da Manuel Vázquez Montalbán de Il pianista, da Ignacio Martínez de Pisón in Morte di un traduttore, e, ultimamente, dal recente vincitore del Grinzane-Cavour: Bernardo Atxaga nel suo splendido Il libro di mio fratello e poi ancora tanti altri, tra cui Javier Marías o Antonio Munoz Molina.
Ma anche da parte italiana la lettura - o la rilettura - di quegli anni è passata per i più diversi percorsi letterari: dal Ricordo della Basca di Antonio Delfini a Michele a Guadalajara di Francesco Jovine, così come dal bellissimo L´antimonio di Leonardo Sciascia fino al più recente e altrettanto notevole Tempo perso di Bruno Arpaia, e poi ancora i testi di Fabrizia Ramondino, di Massimo Carlotto, di Carlo Lucarelli, o di Roberto Baravalle. Per un pubblico particolarmente interessato al tema va ricordata l´uscita - a quasi cinquant´anni dalla pubblicazione einaudiana del saggio di Aldo Garosci sugli intellettuali e la Guerra di Spagna - del lavoro di Luciano Curreri, un giovane studioso italiano che insegna all´Università di Liegi: quel Le farfalle di Madrid (Bulzoni, 2007) che presto verrà pubblicato anche in Spagna (cosa non certo da poco).
Questa la doverosa premessa per poter inquadrare un libro straordinario, e cioè il breve romanzo «storico» che Julio Llamazares scrisse nell´ormai lontano 1985, e dal quale venne poi tratta una fedele versione cinematografica per la regia di Julio Sánchez Valdez.
E una volta tanto l´abusato aggettivo «straordinario» è sensatamente scritto a proposito. Perché questo è un libro decisamente fuori del comune. Per come è scritto: senza una parola di troppo; senza autocompiacimento; ricco di una tensione emotiva che non tende mai a mollare, come in un noir ben riuscito, e che lascia il lettore col fiato sospeso dalla prima all´ultima riga.
Straordinario per la storia che racconta: nessuno ci aveva mai narrato le vicende di quei soldati repubblicani che, nell´autunno del 1937, all´indomani del crollo del fronte delle Asturie, si ritrovarono tanto nell´impossibilità di fuggire via mare quanto di raggiungere la frontiera francese: e vissero per mesi, alcuni per anni (addirittura fino agli anni Cinquanta) tra quelle montagne, nascondendosi nelle miniere abbandonate, morendo di freddo, di fame, di malattie, torturati e poi fucilati dalla Guardia Civil. Come lupi, appunto. Feroci e affamati. In piccoli «branchi» di disperati, rifiutati anche dai propri parenti - anche loro vittime della guerra, della povertà e della dittatura - che preferivano dimenticarli e piangerli da morti piuttosto di subire le rappresaglie della spietata repressione di Franco.
Repressione che, ora s´è definitivamente accertato, fu un vero e proprio massacro, una macelleria con decine di migliaia di vittime fatte sparire e poi gettate in quelle fosse comuni - le «fosas de Franco» - che stanno venendo alla luce in questi ultimi anni (e a tale proposito è un peccato che non sia stato tradotto il brillante saggio-inchiesta di Emilio Silva e Santiago Macías pubblicato in Spagna nel 2003 dalle edizioni Temas de Hoy): altro che dittatore timorato di Dio e sorta di buon papà di tutti gli spagnoli!
Un libro, quello di Llamazares, straordinario per l´intelligenza di un autore - che è anche poeta, sceneggiatore e giornalista - il quale riesce a fondere all´interno di questo suo primo romanzo - scritto a soli trent´anni - una sorta di iperrealisno antropologico che non lascia nulla al caso o a una visione romantica e celebrativa di questa specie di guerra partigiana combattuta all´insaputa dei più.
Intelligenza che poi ritroveremo in quel suo altro «tremendissimo» romanzo dal titolo La pioggia gialla (La lluvia amarilla) - pluripremiato in Italia e in tutto il mondo - pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993 che raccontava la biografia dell´ultimo abitante (ma forse anche lui è un fantasma, come i protagonisti di Pedro Páramo, il romanzo capolavoro del messicano Juan Rulfo) di un paese nei Pirenei aragonesi che finisce sommerso dalle acque di una diga.
Un viaggio nel tempo e nella memoria, nel fango e nella neve, nella degradazione umana, nell´oscurità delle miniere, dei nascondigli nei fienili e delle notti senza luna, in una natura che graffia e che infetta, che ghiaccia d´inverno e che scotta d´estate, umida e malsana, dove non c´è più spazio per l´amore - che si può solo rubare - e per l´amicizia - sempre pericolosa.
Presenze estranee e sconosciute, come un lupo in mezzo a un gregge. Ma anche una storia vera raccontata attraverso la ricostruzione di quelle fonti orali che l´Autore udiva affascinato da bambino. Come quella di Gregorio García Díaz, «Gorete», il leggendario soldato delle esercito repubblicano che visse nascosto in montagna, e completamente solo, per undici anni, tre mesi e cinque giorni. E della Guerra Civile, infatti, di quella scoppiata nel ‘36, si parla poco, solo qualche cenno, qualche nebuloso flash-back, come se Llamazares avesse preferito concentrarsi unicamente sulle vite dei suoi quattro personaggi, sul loro progressivo imbarbarimento, sulla loro inevitabile ferinità.
Da quelle parti, a quei tempi, cacciavano ancora i lupi come gli uomini primitivi: «Quando li vedono suonano il corno e tutti, uomini donne e bambini, accorrono a partecipare alla battuta. Io l´ho visto una volta. Nessuno può portare armi, solo bastoni e barattoli. La strategia sta nell´accerchiare il lupo e spingerlo piano piano fino a un precipizio alla fine del quale c´è quello che chiamano chorco: una fossa profonda, nascosta dai rami. Quando il lupo si avvicina al precipizio, gli uomini cominciano a corrergli dietro gridando e agitando i bastoni e le donne e i bambini escono da dietro gli alberi facendo un gran frastuono con le latte. Il lupo, spaventato, scappa in avanti e cade nella trappola. Lo prendono vivo e, nei giorni seguenti, lo portano in giro per i villaggi perché la gente lo insulti e gli sputi addosso prima di ammazzarlo».
Di Julio Llamazares è stata anche tradotta un´antologia di poesie «epiche», Memoria della neve (Amos Edizioni), un libro dal titolo Tras-os-Montes, che narra di un suo viaggio nella regione più povera e dimenticata del Portogallo (Feltrinelli), e una raccolta di racconti, A metà di nessuna parte, di prossima pubblicazione sempre con Passigli.

Corriere della Sera 1.3.08
Avanguardie Nell'antologia «La donna, la libertà, l'amore» discussioni e scritti sul principio del piacere
Il Kamasutra dei surrealisti
Le pagelle sull'erotismo di André Breton e del suo circolo
di Pierluigi Panza


Amici del bar sport, e voi, liceali che commentate come sono fatte le compagne di classe, non siete i primi e non siete i soli a passare le serate così: i celebrati poeti surrealisti— sì, quelli messi sul piedistallo a scuola alla voce «Avanguardie artistiche» — passavano il tempo come voi. Ovvero parlando di orgasmo, onanismo, omosessualità, lato A e lato B, posizioni predilette, senso della conquista e dando i voti a cosa conta di più e di meno in una donna (anticipiamo un risultato: autoritarismo e gelosia sono agli ultimi posti).
Nella casa di Parigi di André Breton, come mostrano alcuni testi pubblicati nell'antologia
La donna, la libertà, l'amore. Una antologia del surrealismo di Paola Dècina Lombardi (Mondadori, pp. 632, e 14) e come mostra il documento inedito qui a fianco (proveniente dagli Archives du surrealisme), tra la fine del 1927 e il 31 gennaio del 1928 si svolsero sedute di autoanalisi collettiva dove si faceva anche il gioco della verità. In una delle sedute, André Breton, con sua moglie Simone Breton, Benjamin Péret, Robert Desnos, Max Morise e Paul Éluard pensarono di mettere sotto esame «La Femme», assegnando da -20 a + 20 punti ai suoi diversi caratteri.
Éluard tracciò su una pagina bianca orizzontalmente i nomi dei partecipanti e verticalmente la lista delle caratteristiche. Dai seni ai capelli, dall'andatura all'altezza..., una cinquantina di voci che coprono un ampio ventaglio dell'eterno femminino. Il catalogo, da votare, fu questo: seni, capelli, bocca, occhi, denti, gambe, ventre, braccia, peli, lingua, sesso, natiche, mani, orecchio, piedi, nuca, collo, anche, andatura, sonno, modo di svestirsi (non vestirsi!), pudore, voce, riso, sguardo, naso, pulizia, cortesia, volgarità, cattiveria, bontà, perversione, rigore, odore, profumi, nome, silenzio durante l'amore, iniziativa, giovinezza, vecchiaia, tenerezza, gelosia, libertà mentale, altezza, eleganza, estraneità, autoritarismo.
Ne uscirono voti abbastanza omogenei: occhi, sguardo, seni, collo, mani ebbero la meglio sul lato B. Il modo di svestirsi, la pulizia, l'iniziativa risultarono più apprezzati della voce e dell'altezza. E mentre l'eleganza ebbe la sua parte, le belle maniere, sinonimo d'ipocrisia borghese, non vennero apprezzate: voto zero. Ma il voto più basso, -20, andò al pudore, alla gelosia, al silenzio nel fare l'amore e alla volgarità; mentre il più alto, +20, andò alla libertà mentale, alla perversità e alla stravaganza. Insomma, già allora — intellettuali o meno — eravamo alle solite: nell'amore, meglio le cattive che le brave ragazze!
Dal documento si evince che la partecipazione di Simone Breton si bloccò alla settima voce del gioco. Poi lasciò in bianco la sua casella: si trattava, scriverà, di «un gioco assai idiota, benché sul momento divertente ».
Su ciò che caratterizza l'amour fou, Breton è complessivamente l'unico surrealista, o quasi, a credere nella monogamia; e sul suo rifiuto della pederastia si trova quasi tutti contro. E non per difesa di parte, visto che l'unico omosessuale dichiarato che frequentava il gruppo era René Crevel. Nella seduta del 31 gennaio 1928 in diversi ammettono la poligamia. Domanda infatti Péret agli altri: «Si può ammettere la possibilità di fare l'amore con una donna se se ne ama un'altra?». «Molto probabile», risponde Marcel Duhamel. «Ne sono capace, a un'unica condizione: che l'atto episodico vada a iscriversi semplicemente nel corso di un'avventura più generale, non tanto a causa mia quanto a causa della donna che amo», aggiunge Louis Aragon. «La cosa non mi interessa» è la risposta di Jacques Baron.
«Le dodici sedute — afferma Paola Dècina Lombardi — testimoniano quanto i surrealisti, guardando alle nozioni freudiane di principio del piacere e principio di realtà, tentino di liberarsi da inibizioni e tabù interrogandosi sui termini della morale sessuale ».
Il tema venne portato avanti da Breton ed Éluard nel 1930 quando pubblicarono L'immaculée conception, blasfemo kamasutra surrealista che dà nome a una lunga gamma di posizioni: «Quando la donna è sul dorso e l'uomo è steso su di lei, si ha la cediglia...
Quando l'uomo e la sua amante sono distesi di fianco e si osservano, si ha il parabrezza...
Quando l'uomo e la donna sono stesi sul fianco, e soltanto il dorso della donna si lascia osservare, si ha La palude del diavolo... ». Insomma, posizioni su posizioni (32 in tutto, l'ultima, la più complessa, è
l'aurora boreale) che nemmeno i dépliant illustrativi dei più accreditati night club riescono ad esibire.
Eppure, anche se l'amore inteso come eros trasgressivo, humour e gioco sembrano farla da padroni, dal vecchio amore romantico alla Tristano e Isotta neppure i surrealisti e i loro eredi riuscirono del tutto a separarsi. Anzi, l'amore come la poesia appaiono come l'ultima testimonianza dell'individuo di fronte al nulla. «La poesia», scriveva Breton, «si fa in un letto come l'amore» e «le lenzuola sfatte son l'aurora delle cose». Una ricetta applicata da Jacques Prévert, il poeta degli innamorati, che si sono scritti le parole del loro amore con le parole di Prévert: «Questo amore / Così violento / Così fragile / Così tenero / Così disperato. / Questo amore bello come il giorno / Cattivo come il tempo...». Insomma l'amore che sorge improvviso, ci tende la mano, ci porta in salvo.

Liberazione 1.3.08
Ecco che cosa è lo sfruttamento
Il peggior peccato, diceva un papa...
di Fausto Bertinotti

I morti sul lavoro sono tutti uguali, uguali la tragedia, il dolore e la rabbia. Tutte le morti sul lavoro suscitano un'indignazione perché sono intollerabili anche perché rinviano ad una causa primigenia. Che, nella nostra società, è tornata a farsi così pesante: lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Papa Giovanni XXIII lo definì il più grande peccato dell'umanità. E tanto più ugualmente intollerabili risultano perché non si può dire che, in questo ultimo quarto di secolo, il lavoro sia stato oggetto di riconoscimento e di tutela. Ma quando a Genova, in un santuario del movimento operaio, come la CULMV, muore il portuale Fabrizio Canonero, figlio di un padre che pure morì sulle banchine del porto quando Fabrizio ancora era un bambino, allora bisogna proprio dire, tutti insieme, basta. Ognuno batta un colpo, come a dire che ci siamo anche noi in questa lotta per la vita.
Il governo convochi immediatamente il Consiglio dei Ministri per varare i decreti attuativi del testo unico sulla sicurezza sul lavoro. Le forze politiche presenti nella campagna elettorale non comincino nessuna iniziativa in questi giorni senza dedicarvi la prima parte ai morti sul lavoro e specifichino con quali proposte combattere questa terribile piaga sociale.
La televisione pubblica mandi in onda, in prima serata, il film "Morire di lavoro" fatto solo di testimonianze dirette e sconvolgenti di donne e di uomini colpiti dagli infortuni, affinché nessuno più possa non vedere e tacere.
Lo sciopero proclamato dalle organizzazioni sindacali in tutti i porti italiani segni l'avvio di una nuova mobilitazione generale dei lavoratori, delle forze sociali e politiche della cultura italiana. Domani non sia più come ieri.

Liberazione 1.3.08
«Neanche Ingrao ci capì. E il '68 si spense in fretta»
Parla Franco Russo, il leader del movimento studentesco romano
Aveva 23 anni, era stato espulso dal Pci, e non sopportava l'idcea di autorità

«Valeva per tutti e per tutto. Nei rapporti familiari, così come nelle fabbriche. Dove gli operai contestavano la legittimità di una gerarchia costruita su una divisione del lavoro che già non esisteva più: c'era la catena, si faceva tutti lo stesso lavoro e allora perché accettare un'autorità semplicemente imposta dall'alto?».
E ancora: «C'era antiautoritarismo, c'era il rifiuto alla legittimazione di una gerarchia imposta dall'esterno, anche quando si diceva di no alle commissione interne. Si rifiutava, insomma, qualsiasi cosa fosse esterna al proprio agire, fosse diversa dalla scelta di rappresentarsi direttamente».
E questo filo tiene insieme anche gli studenti. «Ma qual è l'autorevolezza che vi legittima come autorità? Perché, voi professori, salite in cattedra a raccontarci cose che non sono vere? E questo valeva per e contro tutti i professori. Anche quelli che si dicevano di sinistra: valeva per Romeo come per Colletti, Sapegno, Asor Rosa».
Oggi qualcuno - perché non fare nomi? uno su tutti: Walter Veltroni - ironizza sugli strumenti che quel movimento scelse per le sue battaglie. «Lo so, leggo anch'ìo del candidato premier dei democratici che irride agli anni in cui si chiedeva il "voto unico". E dice che è arrivato, invece, il momento di esaltare la meritocrazia. A parte che credo che occorra discutere su cosa sia e cosa significhi anche oggi il merito, quell'esperienza, l'obiettivo del voto uguale per tutti era dentro quella logica antiautoritaria. Tu dici che vuoi premiare il merito? Chi è più bravo? Ma in realtà ci avete dato una scuola che è già manomessa all'origine: dove il ricco, il figlio del ricco, sarà per forza più bravo, avrà più tempo per studiare. Potrà sapere di più. Ecco cos'era il "voto politico", la denuncia di una scuola, di un'università di classe, gerarchica. La denuncia di una falsa meritocrazia che faceva il movimento, che faceva Don Milani».
Contestazione delle gerarchie. Che ognuno faceva nel suo ambito. «Sì, perché gli studenti occupano gli atenei, ma prima, pochi mesi prima, i giovani e gli operai avevano abbattuto a Valdagno la statua dell'imprenditore buono. Ed aveva la stesso valore simbolico». Lo stesso identico che avranno la nascita di psichiatria democratica o di magistratura democratica: «Anche nelle associazioni dei professionisti si comprende che occorre abbattere i pilastri del sapere costituito, si mette in discussione come si esercita il proprio lavoro».
E si prova a mettere in discussione le gerarchie prefabbricate anche nell'attività politica: si innova- si prova ad innovare - il linguaggio della politica, si prova a ragionare sul «fatto che non sta scritto da nessuna parte che uno deve scrivere un volantino e un altro distribuirlo». Si prova a ragionare sul fatto che non ha senso che c'è chi «indice una manifestazione» e un altro che a quella manifestazione «deve solo andarci». Deve solo fare numero. Ma, appunto: ci si prova e basta. Perché la "critica alla politica personalizzata, alla politica fatta solo di leadership", la critica al professionismo della politica durerà il tempo di un battito d'ali. Le innovazioni nel campo semantico, nel linguaggio, nel modo di disegnare le gerarchie - nei partiti, nei movimenti e giù, fino alle assemblee - saranno brevissime. Poco dopo, si riproporrà tutto il vecchio armamentario. E tutti lo adotteranno. «Perché fa un po' impressione - continua Franco Russo - a distanza di 40 anni, ricordarsi che le nuove organizzazioni, a cominciare dal Manifesto, non trovando nulla a disposizione cui poter attingere, decisero di voltare lo sguardo all'indietro. Alle organizzazioni marxiste-leniniste, addirittura - è drammatico ma bisogna dirlo - c'era chi si rivolse alle strutture staliniste».
Franco Russo, insomma, disegna un movimento antiautoritario "ingabbiato" dentro logiche autoritarie. O comunque gerarchiche. «Con un Pci che non capì nulla», aggiunge. Non capì nulla Amendola - da sempre il leader della destra comunista - che per primo bollò come "ribelismo" piccolo borghese l'ondata di lotte studentesche e giovanili. Un'analisi che avrebbe segnato una rottura. In qualche modo inevitabile. «Sì, inevitabile è la parola giusta. Perché un'intera generazione che si rivolta contro l'assetto del potere, contro i valori e i costumi della società, non è una categoria che possa essere compresa se si usano gli strumenti interpretativi del marxismo». Anche del marxismo nella variante del Pci. La richiesta di democrazia diretta, la richiesta di un sapere che forse ingenuamente rifiuta tutto il sapere come era stato codificato fino ad allora, non potevano essere capiti dal partito comunista. Dalla sua cultura, dai suoi quadri. «Un partito che per esempio era fiero, faceva vanto dei successi professionali dei suoi militanti operai. Detentori di un "sapere" che li avrebbe dovuti rendere irreprensibili anche agli occhi dei padroni. Ma quei giovani contestavano appunto quelle gerarchie, anche quelle costruite sulle capacità professionali. No, il Pci non poteva capire».
O meglio: una chance ci sarebbe stata. «E non sto parlando del Manifesto. Un gruppo che appunto adottò pratiche e tipologia d'organizzazione attingendo alla storia antichissima, già vecchia in quegli anni, del movimento comunista. No, penso che davvero si sarebbe potuta operare una frattura dentro il Pci». Se una parte dei dirigenti di quel partito - che per cultura, modi di fare, modi di concepire la lotta politica - erano più "aperti" avessero scelto di confrontarsi con le ragioni del '68. Con le ragioni di chi occupava le università, poi le scuole e infine le fabbriche. Stai parlando di Pietro Ingrao? «Non ha molto senso fare nomi, quarant'anni dopo. Ma è ovvio che penso a quei dirigenti. E ti dico di più: un loro intervento, uno sforzo da parte loro di comprensione delle straordinarie novità che mettevano in discussione magari principi teorici ma immettevano enormi potenzialità, avrebbe probabilmente attenuato alcune spinte irrazionali. Che già nel '68 cominciavano a manifestarsi».
Comunque, è andata così. Ma davvero non resta nulla? «Quell'anno, anche dopo l'espulsione del Pci - avvenuta il 13 novembre del '67 per l'esattezza- noi facevamo davvero politica. Nel comitato antimperialista sulla Tiburtina, per esempio. Lì, c'era la Fgci, il Psiup ma c'erano soprattutto tanti ragazzi senza tessere. Tanti ragazzi che non avevano avuto mai a che fare col Pci. Bernocchi, per dirtene uno. Quella storia, quella piccola grande storia ci ha insegnato che esistono consapevolezze, passioni, scelte di militanza che non sono tutte uguali. Ma tutte devono avere la stessa dignità. Se ci pensi è un valore che vale anche per l'oggi». Se ci si pensa è la logica inaugurata dai Social Forum. E ancora: «Per un breve periodo 40 anni fa, riuscimmo davvero a disegnare una politica senza personalizzazioni, senza enfasi sulla leadership. Riuscimmo a sperimentare pratiche e modi nuovi di far politica. Lì abbiamo imparato che la lotta, la lotta di classe, non era tutta scritta nei libri. Ma è un discorso che ancora molti oggi, a sinistra, stentano a capire...».

Liberazione 1.3.08
E' la sensibilità di comprendere e interpretare ciò che non può essere detto con le parole
La parola chiave nel lessico '68:
coscienza. Di classe e sociale
di Franco Berardi Bifo

Coscienza è una parola chiave nel lessico del '68.
Coscienza sociale, coscienza di classe, ma anche coscienza sensibile della sofferenza altrui e del piacere altrui. E infine coscienza storica: coscienza della storia che si invera hegelianamente, attraverso l'azione consapevole.
L'essere sociale determina la coscienza, aveva detto Karl Marx. Ma con l'intellettualizzazione dei processi lavorativi l'essere sociale diviene tutt'uno con il processo intellettuale tecnico e scientifico, e la coscienza diventa parte dell'essere sociale. Hans Jurgen Krahl, che del '68 tedesco fu uno dei teorici più interessanti, riformula la questione della coscienza, sottraendola a una certa evanescenza che questa parola aveva nella sfera del pensiero idealistico. Krahl collega la coscienza all'intelletto generale, al sapere produttivo di cui è portatore il nuovo proletariato che nasce dalle lotte studentesche: il lavoro intellettuale non è più separato dal processo di produzione di valore, anzi ne diviene l'anima. Di conseguenza la coscienza sociale nasce all'interno dello stesso processo di lavoro intellettuale.
Il concetto di coscienza di classe indica comprensione collettiva dello sfruttamento e rovesciamento della cooperazione produttiva: rifiuto del lavoro, autonomia, trasformazione, collaborazione sovversiva, egualitarismo dell'amicizia, liberazione dallo sfruttamento.
Nel lessico del movimento la parola coscienza significa anche sensibilità, cioè coscienza dell'altro.
La sensibilità è facoltà di comprendere e interpretare ciò che non può essere detto con le parole, ed in essa si fonda la coscienza estetica (o erotica) da cui il '68 trasse la sua energia fondamentale.
Con la parola solidarietà ci si riferisce a un aspetto particolare dell'empatia: non la solidarietà della volontà, dei buoni sentimenti, o della militanza, ma la simpatia fra corpi che abitano comunemente uno spazio urbano, sociale, mentale.
In questa accezione della parola coscienza convergevano negli anni Sessanta influenze culturali di tipo diverso: non solo la cultura comunista, ma anche la cultura cristiana dell'amore, l'influenza buddista (che nel '68 americano agì potentemente) della Grande Compassione, ovvero della continuità corporea e spirituale tra i diecimila esseri. Al di là delle diverse ideologie strategie affiliazioni, l'elemento comune alla cultura del '68 fu l'immediatezza etica della condivisione. Il dolore dell'altro, per quanto lontano e diverso, era presente, vicino e insopportabile.
Giustamente Mc Luhan afferma che il '68 è il primo movimento dell'era televisiva: la prima generazione che vide il mondo attraverso lo schermo del televisore non era ancora assuefatta al flusso videoelettronico, e non confondeva ancora l'immagine con la simulazione. La foto dei bambini vietnamiti bruciati dal napalm scatenava una reazione etica collettiva, il bisogno di agire collettivamente perché quel dolore finisse. La rivolta era reazione immediata al sopruso patito dall'altro.
Coscienza significa anche condivisione sensibile: le architetture leggere della felicità collettiva sono fondate sulla consapevolezza che il piacere del mio corpo è possibile solo quando i corpi che lo circondano provano vibrazioni simili di piacere. La coscienza erotica anima la cultura hippy: una cultura della sensibilità planetaria, del piacere diffuso che dissolve gli ostacoli sociali e culturali che incontra sulla sua strada. La politicizzazione di massa che culminò nell'esplosione del movimento fu il prodotto di questa percezione acutissima della vicinanza degli altri.
Vi è poi una terza accezione della parola coscienza, che potremmo definire storico-dialettica: su questa si fonda la dimensione etica e l'agire politico di quel movimento. Qui c'è un punto di slittamento che produce l'autoinganno ideologico per cui una parte dell'intellettualità sessantottina si è identificata con il potere, e se ne è fatta strumento cinico.
Il '68 fondò l'etica dell'azione su una certezza di origine storicista e idealista, la certezza di un futuro dialetticamente necessario. La generazione del '68 credette nella promessa di un realizzarsi necessario e progressivo della Ragione, e fece dipendere il suo impegno etico da quella certezza: che la classe operaia è destinata a liberarsi dall'oppressione del capitale, l'alienazione è destinata a scomparire nell'uomo nuovo, il comunismo è destinato a realizzarsi come superamento e abolizione del presente. L'azione fu motivata dalla sua destinazione storica: poiché chi ha ragione è destinato a vincere, dunque chi vince ha ragione.
Il ceto politico nato dal '68 assimilò essenzialmente questo dispositivo dialettico, respingendo sullo sfondo le altre dimensioni della coscienza, quella sociale e quella sensibile, che pure avevano sorretto la sua emergenza, la sua immediatezza esistenziale. E quando, contrariamente alla promessa dialettica, nel conflitto sociale di fine secolo apparve chiaro che non la classe operaia, ma il capitalismo e la guerra erano i vincitori della storia, almeno nella sfera temporale della nostra generazione, ecco allora che quel ceto politico, nella sua maggioranza, si sottomise al potere perché solo così poteva trovare un senso alla propria vita ed alla propria azione, avendo introiettato l'identificazione tra ragione e realtà, tra senso e potere.
La sottomissione della sfera etica alla forza della storia produsse il cinismo di buona parte del ceto politico formatosi a partire dal '68. Incapace di pensare l'etica in una dimensione indipendente dalla storia, incapace di pensare in termini di autonomia e di estraneità, il ceto politico nato dal '68 nella sua maggioranza preferì immolare la propria esistenza, la propria sensibilità, la propria bellezza etica ed estetica sull'altare della storia intesa come storia del potere, in nome di un'idea della dialettica storica di derivazione hegeliana. Dato che la ragione è destinata a vincere, allora chi vince ha ragione.
Guardiamo la biografia di coloro che dopo l'esperienza dei movimenti si sono convertiti in ceto politico e sono passati armi e bagagli dalla parte degli oppressori. Costoro, nella loro grande maggioranza, si identificarono con il comunismo totalitario fin quando questo pareva destinato ad espandersi e a vincere. Poi repentinamente nel giro di un decennio (gli anni '80), seguirono la curva evolutiva che li portati a divenire apologeti e gestori del capitalismo vincente.