lunedì 3 marzo 2008

l'Unità 3.3.08
Bertinotti: il Pd guarda al centro e a Confindustria. Noi siamo dalla parte degli oppressi
Il leader della Sinistra arcobaleno: competitività e crescita non sono valori assoluti. Alle ingiustizie è giusto ribellarsi. A questo serve un nuovo soggetto politico forte
di Simone Collini


«Non dobbiamo pensare di essere dei profeti disarmati». Fausto Bertinotti sprona alla battaglia, perché la Sinistra arcobaleno ha «la possibilità di cambiare il corso degli eventi» e, se non oggi con queste elezioni, in un domani non troppo lontano può raggiungere quello che è sempre stato l’obiettivo delle forze di sinistra: «Mutare il modello economico e sociale in campo».
Il presidente della Camera lascia nell’armadio l’abito istituzionale, torna alla cravatta rossa e parlando al migliaio di persone assiepate al teatro Ambra Jovinelli definisce «unico voto utile» quello che «fa vivere la sinistra e spezza il pensiero unico». Unico, perché per il candidato premier della forza rosso-verde non sono veramente alternativi i programmi della «destra populista» e del «Pd che guarda al centro», perché entrambi accettano l’attuale modello economico e sociale: «Il Pd propone di correggere, di mitigare questa modernizzazione». Impresa «irrealizzabile», per Bertinotti, e che soprattutto non riflette abbastanza sul «binomio flessibilità-precarietà», sul fatto che la flessibilità in questi anni si è dimostrata non andare incontro agli interessi dei lavoratori, al loro desiderio di avere più tempo da dedicare ai propri affetti o alle proprie passioni, ma a quelli delle aziende. «E agli amici del Pd dico che competitività e crescita non si possono assumere come valori assoluti». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno vuole evitare il modello «fratelli-coltelli» con Walter Veltroni, ma si domanda come gli sia venuto in mente di mettere nelle liste del Pd, «che ci scavalca verso Confindustria», il capo di Federmeccanica Massimo Calearo. «Sui temi della convivenza vale il modello dell’“e-e”, ma poi, se la politica vuole essere seria, deve valere il modello dell’“aut-aut”, “o-o”. O si sta con i lavoratori o con i padroni, perché altrimenti parlando di interesse generale si finisce per essere dalla parte soltanto dei dominatori. Noi siamo dalla parte dei dominati, che non vogliono più esserlo».
Gli applausi si fanno sentire, dentro il teatro e tra le decine di persone rimaste fuori per mancanza di spazio (proprio come dieci giorni fa al Piccolo Eliseo, quando per rimediare il presidente della Camera promise questo nuovo appuntamento). Bertinotti sa che di fronte al «duopolio opprimente» formato da Pd e Pdl gli spazi di manovra sono stretti, e che magari sarebbe opportuno organizzare «una manifestazione colorata attorno alla Rai per ricordare l’importanza del servizio pubblico come strumento di democrazia». Ma sa anche che l’«oscuramento» attuato dai grandi mezzi di comunicazione «va denunciato, ma senza lamentarci troppo». Per «disvelare il trucco» di una sfida a due tra forze alternative una all’altra, dice, bisogna andare a parlare nel territorio, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, e soprattutto bisogna parlare di cosa si vuole fare in futuro, piuttosto che soltanto criticare le proposte altrui o lamentare quanto non fatto in passato: «Non è andata bene l'esperienza del governo Prodi - dice comunque - abbiamo fatto molte cose, ma l’essenziale non l’abbiamo fatto, la domanda di cambiamento che viene dal Paese che non è stata raccolta».
Da qui bisogna ripartire, e il programma che mette in campo Bertinotti è racchiuso in un punto di partenza e in un obiettivo finale. Il primo è quasi un precetto: «Alle ingiustizie bisogna ribellarsi». E allora bisogna ribellarsi alla «violenza del profitto e della competitività che finiscono per valere più della vita umana», dice ricordando i troppi morti sul lavoro, bisogna ribellarsi di fronte ai palestinesi uccisi dall’esercito israeliano a Gaza, ribellarsi a chi vuole impedire che sia la donna ad avere «la prima e l’ultima parola sulla maternità», a chi vuole imporre «liberismo nei rapporti economici e autoritarismo nei rapporti sociali». Ribellarsi e costruire le condizioni per «mutare il modello economico e sociale in campo». Un obiettivo che non è di breve scadenza, e infatti Bertinotti sprona militanti e leader dei partiti fondatori della Sinistra arcobaleno a guardare oltre il voto di aprile: «I voti sono necessari, ma l’impresa è un’altra, è cioè costruire un nuovo soggetto politico che occupi la scena da protagonista e porti al cambiamento».

l'Unità 3.3.08
Marcovaldo, il papa e la lectio magistralis
di Luigi Cancrini


Una mattina come tante Marcovaldo si trovava nella sua università. Era un’università prestigiosa che aveva ospitato grandi scienziati, grandi filosofi e grandi poeti. Era l’università di Federico Chabod e di Ungaretti. Quella mattina Marcovaldo venne a sapere che si stava organizzando una protesta contro il papa. "Il papa?", si chiese turbato, "Cosa mai aveva fatto il papa?" Gli dissero che si doveva armare di fischietto e quando quello passava doveva fischiare più forte che poteva. Marcovaldo si domandava il perchè di tutto quel baccano e iniziò a ricercare i motivi. Alla fine capì che il problema non poteva che essere l’occasione. Scopri così che il papa era stato invitato ad inaugurare l’anno accademico. "Cosa significava?"
Significava che era stato invitato niente popo’ di meno che dal magnifico rettore in persona a tenere una che aveva come studenti i professori che si trovavano nelle più alte cariche della gerarchia universitaria. Questa lezione tanto particolare aveva un nome altrettanto particolare: si chiamava lectio magistralis. "Con che titoli il papa veniva a sostenere una prestigiosa lezione universitaria?" I giorni passarono e le tv gozzovigliarono all’idea che al papa era stato impedito di parlare. Marcovaldo si sentiva davvero stupido. Era come se non riuscisse a fare lo stesso ragionamento di tv e telegiornali. Proprio non ci arrivava, sentiva sempre che se si metteva a ragionare e ad analizzare causa ed effetto gli veniva un risultato diverso. In fondo il papa era l’unica persona che avesse il diritto di parlare e dire la sua sui telegiornali nazionali tutti i giorni, alle più svariate ore. Per non parlare poi della messa la domenica mattina! Nessun professore, armato di mera conoscenza scientifica non rivelata, aveva lo stesso diritto. Eppure tutti gridavano alla censura. Censura che non c’era stata. Era stato Ratzinger stesso a decidere di non parlare. Studenti e professori volevano soltanto manifestare il loro disappunto al suo discorso; non vietargli di parlare, ma solo mettere in discussione. Quella sera Marcovaldo era stanco e triste. Si sentiva impotente. Decise, commettendo un grave errore, di accendere la tv. Lì, sul primo canale, c’era un insetto molto fastidioso, simile ad una vespa. Sosteneva che la Sapienza non era aperta al dialogo.
Lorenzo d’Orsi - Lulù Cancrini

Cara Lulù, caro Lorenzo, ho dovuto abbreviare la vostra lettera, e me ne dispiace, per ragioni di spazio. Pubblicarla mi è sembrato importante, però, perché introduce l’aria fresca della perplessità di Marcovaldo nel pieno di una campagna elettorale in cui così spesso di questo argomento si discute, del diritto del Papa a parlare e di uno Stato a sentirsi e ad essere laico. Riportando a dimensioni realistiche e ragionevoli un episodio di cui sicuramente si è parlato troppo: superando ampiamente i limiti dell’assurdo con una serie di discorsi, inutilmente passionali, sul Papa cui qualcuno avrebbe impedito di "parlare".
La linea forte della riflessione di Marcovaldo, che io condivido appieno, è quella, infatti, della collocazione esatta del fatto. Come più volte affermato da Cini e dagli altri professori che scrissero la famosa lettera, il problema non era quello della visita di Papa Ratzinger né quello della sua libertà di esprimere il suo pensiero nel corso della sua visita. Il problema era quello, reale, dell’idea voluta da qualcuno di riconoscergli un ruolo che non è il suo: quello di professore cui si riconosce, nell’Università che è o dovrebbe essere il tempio della scienza e della ricerca, una competenza non religiosa ma scientifica. Di primus inter pares a livello dei professori e dei ricercatori all’interno di una contingenza storica in cui più e più volte egli (Egli?) ha detto di ritenere che la scienza deve fermarsi al limite di una fede (Fede?) nel nome della quale lui (Lui?) solo è autorizzato a parlare. Nel nome di Dio e della Verità. Riconoscendo coi fatti nel momento in cui non gli si chiedeva una benedizione o un saluto ma una lectio magistralis che questa sua tesi era condivisa dai docenti dell’Ateneo, che la scienza deve essere pronta a chinare la testa nel momento in cui a parlare è la Chiesa. A Roma. Dove la Chiesa, come voi ben sapete, ha parlato da sempre un po’ troppo. Correva l’anno 1600 e narrano le cronache di come fu accompagnato a Roma, dalle segrete di Castel Sant’Angelo fino a Campo dei Fiori un grande scienziato e filosofo del tempo, Giordano Bruno. Uomo colto e versatile, autore di libri su cui ancora oggi studenti e professori faticano alla ricerca della verità, docente per anni e anni, all’interno di un faticoso e durissimo pellegrinaggio da perseguitato, in tutte le più importanti Università d’Europa, quest’uomo era considerato eretico dalla Chiesa del tempo ed era stato confrontato, nei giorni precedenti alla sua condanna, con il Cardinale Roberto Bellarmino. Allora come adesso, il Cardinale parlava (credeva, diceva di parlare) nel nome della Verità e della Fede, forte dell’appoggio del Papa. In modo diverso da adesso, la Chiesa poteva condannare al silenzio e alla morte gli scienziati che non si piegavano, pur avendo ragione, alla sua autorità. Bruciando i suoi libri e torturando con una morsa di ferro, la mordacchia, la sua lingua blasfema: per impedirgli anche di proferire parole ("infettando con le sue parole chi l’avesse incontrato") nel breve tragitto che avrebbe dovuto percorrere incontrando altri prima di arrivare al rogo già preparato per lui. E uccidendolo, alla fine, con la potenza di un fuoco purificatore tra le urla della folla e i canti dei religiosi. Definitivamente affermando, con la forza dei fatti, la superiorità della Fede sulla scienza di chi in modo laico riflette e fa ricerca. Episodio terribile, la morte di Giordano Bruno accrebbe la fama e l’importanza del suo accusatore. Un Papa di cui non so più il nome lo innalzò addirittura alla gloria degli altari e lo insignì del titolo di dottore della Chiesa. Senza pudore alcuno dedicando al suo nome, meno di un secolo fa, una Chiesa che dista poco più di un chilometro dall’Università in cui il Papa non ha tenuto, per fortuna di tutti, la sua lectio magistralis. Rendendosi responsabile, la Chiesa nel cui nome anche quell’altro Papa parlava di un orrore di cui i Papi successivi e quello di oggi nulla hanno saputo o voluto dire. Un orrore che potrebbe essere perdonato a questo Papa e alla Chiesa nel cui nome egli parla solo nel giorno in cui, al termine di una ricerca rigorosamente laica, decidesse di dedicare a Giordano Bruno e al suo amore per la verità la Chiesa dedicata oggi all’uomo, crudele e non molto dotato dal punto di vista culturale, che seppe zittirlo solo con la mordacchia e che arrivò a farlo bruciare vivo nella piazza più bella di questa nostra splendida città.

l'Unità 3.3.08
Psichiatria, quante frasi fatte
di Marco D’Alema

«Elettroshock da riabilitare». «Antidepressivi che non servono a niente». «Abuso di psico farmaci per i bambini». «La chiusura dei manicomi? Una follia». «Troppi crimini in famiglia? Colpa della 180». Sono più o meno questi i toni di molti articoli e commenti apparsi recentemente sulla stampa in materia di salute mentale. A leggerli vien da pensare che sia in atto una specie di rivoluzione in campo psichiatrico accompagnata dal fallimento delle politiche di assistenza sin qui seguite.
Per fortuna così non è. Ma andiamo per ordine. Prendiamo il caso dell’appello per la riabilitazione dell’elettroshock lanciato al congresso della Società italiana di psicopatologia. Primo elemento di confusione: in Italia non c’è alcun divieto a praticare l’elettroschock. Quindi perché un appello? Sarebbe stato molto più giusto, semmai, riproporre in sede scientifica nuove argomentazioni sulla sua utilizzazione e soprattutto, se vi fossero, sulla sua efficacia. Tutte discussioni utili se svolte in sede scientifica e non mediatico-politica. Per questo quell’uscita mi è apparsa se non altro poco responsabile. E almeno per tre motivi:
1) perché può indurre il cittadino a credere che la soluzione dei complessi problemi legati alla salute mentale sia collegata all’uso di un singolo intervento terapeutico;
2) perché ottiene l’effetto di riportare la discussione su un terreno di scontro ideologico;
3) perché contribuisce ad aumentare la confusione dell’opinione pubblica su un tema così importante per la salute dei cittadini.
Un altro esempio. Un noto esponente politico, l’onorevole Volonté dell’Udc, è intervenuto recentemente sostenendo che è stata una follia chiudere i manicomi, sottolineando, a sostegno di questa affermazione, che "la scomparsa dei manicomi, luoghi di cura della follia, ha fatto esplodere la follia della società". Per poi proseguire con una rievocazione sconcertante dei fantasmi della pericolosità del malato mentale, non ottenendo altro risultato che quello, di contribuire al rafforzamento di idee false che concorrono a determinare lo stigma.
Mi fermo a questi due esempi per far capire come "non" si dovrebbe discutere di salute mentale. Il che non vuol dire che non si debba discuterne. Anzi, è importante che modi e pratiche di assistenza, insieme alle politiche più generali per l’organizzazione dei servizi di salute mentale, tornino ad essere al centro dell’attenzione dei decisori e delle istituzioni preposte.
Con questo obiettivo abbiamo lavorato in questi venti mesi al Ministero della Salute per mettere a punto un vero e proprio piano di interventi e di indirizzi, che ora ci accingiamo a trasformare in accordo Stato-Regioni nella prossima conferenza prevista per il 20 marzo. Il nostro presupposto resta quello di evitare percorsi di istituzionalizzazioni del malato mentale e della sua presa in carico sul territorio e in ambiti di vita e assistenza il più possibile inclusivi e non emarginanti.
Un approccio che mantiene inalterata la sua validità. Anzi, esso appare oggi ancor più da perseguire dinanzi al clima di crescente insicurezza nelle condizioni di vita e di lavoro. Un clima contrassegnato spesso dal contrasto tra un sentimento di impotenza che coglie l’individuo di fronte alla complessità della realtà in cui è immerso e lo sviluppo della tecnica che crea l’illusione che tutto sia possibile.
Inoltre il prevalere dell’esaltazione del ruolo dell’individuo ha messo in discussione la funzione protettiva e generativa dei legami sociali, dando luogo a una frammentazione degli affetti e delle sicurezze e determinando contesti dove gli individui e i gruppi sociali vivono nell’incertezza di riferimenti e di supporti.
Questi cambiamenti producono l’emergere di nuovi problemi. Dalle patologie depressive ai disturbi dello sviluppo, con il correlato di comportamenti di abuso, di forme di marginalità psicosociale, di comportamenti violenti e di disturbi di personalità. Problematiche che coinvolgono anche l’età evolutiva e in particolare l’età adolescenziale.
Senza contare poi come tutto ciò aggravi i sentimenti di difficoltà e di abbandono delle famiglie con pazienti portatori di gravi disturbi psichiatrici. Uno scenario ben rappresentato da Zardini e Sereni in recenti interventi sulla stampa.
Le linee di indirizzo che abbiamo messo a punto sono una risposta concreta a questi nuovi bisogni. Esse riaffermano la validità dei principi della 180, peraltro riconosciuti anche in ambito europeo come testimoniato dal "libro verde" in materia di salute mentale approvato recentemente dal Parlamento europeo.
E scaturiscono da un percorso di incontri seminariali che ha affrontato le principali questioni e le criticità nel campo della salute mentale e al quale hanno partecipato circa 400 tra professionisti, operatori, associazioni che operano nel territorio, familiari, utenti, amministratori locali e delle Aziende Sanitarie.
Il primo obiettivo che ci siamo posti è quello della promozione della "salute mentale di comunità", integrando le politiche per la salute con quelle per il lavoro, per l’istruzione, per la tutela sociale, per le pari opportunità, per il contrasto alle povertà e all’emarginazione e a nuove forme di istituzionalizzazione.
Per raggiungere tali obiettivi, nel quadro di un nuovo welfare di comunità così come disegnato dalla legge 328 del 2000, le Aziende Sanitarie e gli Enti Locali dovranno coinvolgere attivamente i cittadini, secondo i principi della responsabilità e della sussidiarietà.
In questo quadro diventano veramente essenziali la garanzia dell’accesso, l’appropriatezza e la continuità delle cure e la personalizzazione del progetto terapeutico.
Solo così si potranno infatti garantire risposte a tutta la cittadinanza. Attivando specifici programmi per aree critiche ed emergenti della popolazione, per età (età evolutiva e anziani), per marginalità sociale (carceri, senza fissa dimora, minoranze etniche), per problematicità psicopatologica (internati in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, rischio suicidario). Il tutto favorendo e incentivando idonei e innovativi percorsi di formazione e di ricerca.
Parliamo di questo. Confrontiamoci su queste linee di intervento. Ma, per favore e per amore del nostro lavoro e della nostra missione, abbandoniamo ricette e denunce facili o scioccanti. A rimetterci, come sempre, sarebbero per primi proprio i destinatari del nostro impegno e i loro familiari. Gli stessi che ci chiedono aiuto, ascolto e scelte responsabili.

* Consigliere del Ministro della Salute per le politiche della salute mentale

l'Unità 3.3.08
Corrado Guzzanti: Ferrara, l’aborto e noi
di Stefano Miliani

«La campagna sulla moratoria all’aborto è ambigua e violenta Ma è vero che oggi i politici corrono sotto il balcone di San Pietro»

Ce so andato a parlà co' Ferrara stava dentro a sta vasca, in una confusione…vabbè… Gli ho detto a Giulià, ma che dobbiamo fa esattamente, spiegame. che vordì a moratoria sull'aborto? A moratoria sulla pena di morte vuol dire impedire di ammazzà i condannati, a queste glie impediamo de abortì?
No dice lui, "non potemo obbligà una a partorì pe forza". Allora a 194 a lasciamo così? No, dice lui, "è omicidio"! E quinni che famo? A cambiamo sta legge. "Nun ho detto questo". E che hai detto Giulià? "Vojo fa na battaglia curturale". Ma allora va fa i girotondi daa vita che ce vai a fa in parlamento?

Pur rivestendo l'abito talare, l'«eminente teologo» padre Pizzarro introdotto ieri sera da Serena Dandini a Parla con me su Raitre appariva piuttosto trucido. Nel linguaggio e nella capigliatura. La conduttrice ricordava vagamente di averlo incontrato molti anni prima, chiedendosi peraltro se per lei sia stato un bene, tuttavia lo aveva invitato al programma per avere risposte illuminanti sul «divario storico» tra laici e cattolici, su temi come donne e aborto e Giuliano Ferrara, e anche se le risposte non sembravano illuminarla molto e hanno lasciato la conduttrice alquanto perplessa non poteva mandarlo via quando ormai aveva l’uomo religioso lì sul teleschermo che le spegneva speranze e bisogno di conforto. Corrado Guzzanti, che ha indossato quell'abito talare e ha espresso concetti di cui leggete un estratto qui a fianco, prova a rimediare.
Padre Pizzarro pare alquanto scafato. È anche un personaggio d'attualità, no?
«È un personaggio abbastanza inedito né ben identificato. Lo feci anni fa, mi pare all'Ottavo nano e, sì, è attualissimo».
Il «teologo» trova Ferrara in una vasca: un riferimento allo sketch nel «Decameron» di Daniele Luttazzi che è stata la causa, almeno ufficiale, del recente licenziamento del comico da La7?
«Sì. È un omaggio a Luttazzi».
Il teologo non pare convinto della battaglia contro la legge sull'aborto di Ferrara, non gli pare fattibile. In piazza ha visto solo «quattro scalmanate», per lui si fa «un porverone», comunque propone di togliere punti della patente alle donne che devono abortire. Tema serio.
«Gioca sul fatto che questa battagla contro l'aborto è abbastanza ambigua. Su un unico punto tutti si dicono d'accordo: la vita va difesa, la donna che abortisce per problemi suoi va aiutata. Tante belle parole ma nella realtà trovo curioso quanto accade. La legge attuale è di compromesso su una tragedia: si intende modificarla nel punto principale, cioè che la è donna padrona del proprio corpo, o si intende negarle questo diritto? Trovo la campagna sulla moratoria - ripeto - ambigua e anche aggressiva: si sono usate parole come "assassinio", come "omicidio"… ».
Padre Pizzarro tocca un'altra polemica: apprende che l'ingerenza non è «roba de magnà», dice che la Chiesa fa il suo lavoro, ma sono i laici, sono i politici italiani, a venirle dietro.
«Infatti è la politica che cerca di guadagnare il consenso della Chiesa e del mondo che rappresenta facendo battaglie ideologiche. Il mio personaggio è imbarazzato: ci troviamo troppo peso addosso, diciamo cose che abbiamo sempre detto - sostiene padre Pizzarro - siete voi che venite disperateamente sotto il balcone di San Pietro e cercate di schierarvi dalla nostra parte. È il capovolgimento dell'ingerenza del politico che cerca elettori di centro seguendo poi un'identificazione perfino obsoleta perché ormai non è vero che i cattolici stanno al centro. Questo avviene perché la politica ha perso gran parte della sua identità: se leggi gli slogan sono così vaghi che non sapresti riconoscere da che parte vengono».
E oggi diritti che parevano acquisiti sono invece in discussione. Così il teologo propone di far controllare il corpo delle donne dalle guardie svizzere…
«Riporto un finto dialogo con Ferrara che, ho letto, ora è anche contrario all'uso del preservativo. Non è più un pensiero solo politico. Non ho niente contro di lui, cercavo di capire i suoi argomenti. Torniamo lì. Il punto centrale è: si vuole limitare o anche togliere il diritto di scelta di una donna? Sì o no? Questo punto non viene affrontato frontalmente. Non c'è stata una proposta precisa, si dice che non si può costringere una donna a partorire e poi si dice che l’aborto è omicidio. Contro la 194, che serve a combattere l'aborto clandestino, è partita una campagna violenta perché giudico violento dire che le donne che abortiscono sono assassine».
Tanto più ora che la tv è sotto la par condicio, vi aspettate polemiche?
«Spero di no. Sono temi che riguardano tutti, si parla di diritti civili che non possono essere sequestrati perché una lista propone la moratoria sull'aborto. Sarebbe paradossale».

SATIRA TV Cosa propone padre Pizzarro - Guzzanti
«A ste ragazze levamoje i punti della patente»
di Corrado Guzzanti

Questo è un estratto delle risposte date ieri sera da Corrado Guzzanti nei panni di Padre Pizzarro a Serena Dandini a Parla con me, su Raitre. Lo pubblichiamo per gentile concessione dell’autore
In Parlamento se fanno ‘e leggi. Voi cambia’ ‘a legge? «Sì no però Bò bà».
Gli ho detto: a Giulia’, er fojo ci ha quattro paggine, a prossima enciclica ce n’ha trecentosessanta, io vado a lavora’, se vedemo n’artra vorta.
(...) Sull’aborto due so’ ‘e cose: o lo vietiamo e ricominciano quelli clandestini o lo lasciamo così, ma che poi fa’ partorì una pefforza? Che famo je commissariamo er corpo? Je mannamo le guardie svizzere? Nun ze po’ fa’ magari!, nun ce lo fanno fa’, nun ce lo faranno mai fa’. È ‘na battaglia persa. Accontentamose, continuamo quello che stamo a fa’ continuamo a piazza’ obiettori de coscienza da per tutto che poi je famo fa’ carriera e all’artri no e va bene così. Al massimo j’ho detto a Giulia’ tanto pe’ fallo contento, famo ’na cosa più piccola, ho detto a ‘ste ragazze levamoje i punti della patente...
(...) Si non porti avanti ‘a gravidanza, allora non porti manco a machina, sei ’n’assassina, delinguente magari me vieni pure addosso, bò a lui non glie stava bene, vabbé. . . vo’ anda’ ar Senato, deve anda’ ar Senato. . . vo’ fa’ ‘na cosa sua
(...) a noi ce interessa proprio la vita dal concepimento alla nascita, già un quarto d’ora dopo non gliene frega più niente a nessuno, prova a cercà n’asilo nido…
(...) Ma che pensi che semo tutti pella vita allo stesso modo? Ma che pensi che l’idea daa vita nostra e la difesa della vita vostra so uguali? Ma manco pe niente. . .
(...) I laici pensano che è un valore assoluto noiartri pensamo che è un valore relativo che ci ha donato dio. Er padrone è lui e ce dobbiamo fa quello che dice lui. . . E che pensi che senfuturo la scienza se inventa un modo de fa diventà a gente immortale, che (per un laico) sarebbe er massimo daaaffermazione della vita, che pensi che noi semo daccordo?
(...) Ma nun zemo d’accordo peggnente! , amo deciso che a na cert’ora se deve morì e se deve morì! sennò ar regno dei cieli quanno ci annamo? Lo vedi che so du cose diverse? Stamo a fa er gioco delle tre carte peffà sembrà che semo tutti d’accordo ma nun semo d’accordo fondamentarmente peggnente.

l'Unità 3.3.08
Sulla 194 è utile conoscere recenti scoperte

Cara Unità,
seguo in questi giorni sui vari giornali il dibattito sulla delicata e fondamentale questione della legge 194 e vorrei raccontare delle recenti ricerche nel campo della neonatologia di cui ho sentito parlare in un interessante incontro-convegno svoltosi recentemente a Roma dal titolo “Né assassine né peccatrici”. La neonatologa Maria Gabriella Gatti, ricercatrice e docente all’università di Siena, ha parlato in questa occasione della recente scoperta della formazione della retina alla 24sima settimana di gravidanza, fondamentale perché poi solamente alla nascita, attraverso la reazione allo stimolo luminoso, si possano attivare tutte le aree cerebrali. Insieme a questo ha spiegato anche che il feto, durante il passaggio nel canale del parto, a causa della fortissima pressione subisce uno schiacciamento delle ossa craniche addirittura di alcuni centimetri, cosa che causerebbe la morte istantanea di qualunque essere umano. Queste scoperte permettono alle donne di rifiutare totalmente ogni possibile accusa di omicidio nel momento in cui dovessero o volessero abortire, perché dimostrano scientificamente che il feto non solo non sente perchè non può sentire, ma che non è vivo, perchè se così fosse, durante il passaggio nel canale del parto morirebbe.
Filippo Trojano

Repubblica 3.3.08
Le ragioni del dubbio
il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky per una morale a misura d´uomo
di Umberto Galimberti

S´intitola "Contro l´etica della verità" È una critica molto netta alle credenze assolute di ogni religione
C´è anche una presa di distanza dallo scetticismo radicale tipico del nostro tempo
Solo l´inquietudine dell´intelletto di fronte alla fede rende possibile il dialogo coi laici

Contro l´etica della verità, l´ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky (Laterza, pagg. 172, euro 15) pronuncia finalmente una parola chiara sia contro l´etica che discende da una verità assoluta come sono solite proclamarla le religioni compresa la religione cristiana, sia contro lo scetticismo radicale tipico dell´atmosfera nichilista che caratterizza il nostro tempo. La tesi è che il dubbio, da cui discende l´etica del dialogo tra posizioni differenti e spesso contrastanti, non è il contrario della verità, ma un omaggio che le si fa a partire dal riconoscimento che la conoscenza umana non è mai una conoscenza perfetta. Come ci ricorda Jaspers nel suo grande libro Sulla verità (che nessun editore ha avuto ancora il coraggio di tradurre in italiano): «Noi non viviamo nell´immediatezza dell´essere, perciò la verità non è un nostro possesso definitivo. Noi viviamo nell´essere temporale, perciò la verità è la nostra via».
Lungo questa via incontriamo anche il dubbio radicale degli scettici che si astiene dall´affermare di ogni cosa che sia vera o sia falsa. Il dubbio che propone Zagrebelsky lungo il sentiero della verità non ha nulla a che fare con il dubbio scettico, perché, a differenza di quest´ultimo, non si astiene dal giudizio, ma lo promuove attraverso il dialogo, con l´avvertenza che la verità a cui si giunge è suscettibile di essere di continuo riesaminata e riscoperta. Quindi relativismo, contro l´assolutismo delle religioni, e di questi tempi anche della religione cattolica.
Dico di questi tempi perché il pensiero cristiano, nelle sue più alte espressioni teologiche, ha sempre sostenuto una verità mai disgiunta dal dubbio. Agostino, ad esempio, nel De praedestinatione sanctorum scrive che «La fede consiste nella volontà di credere». Secoli dopo Tommaso d´Aquino torna a sottolineare il carattere volontaristico dell´assenso fideistico in cui l´intelletto è «terminatus ad unum ex estrinseco (ex voluntate)» e non «ut ad proprium terminum» (ossia dell´evidenza del contenuto). Sempre Tommaso, nel De fide, commentando san Paolo, osserva che la fede conduce «in captivitatem omnem intellectum» cioè rende l´intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e quindi gli è estraneo (alienus), sicché l´intelletto è inquieto di fronte alla fede.
Sembra che il magistero di Ratzinger e dei cattolici che lo seguono e lo fanno proprio non soffra più di questa inquietudine. E allora come è possibile una convivenza o un dialogo tra i laici che cercano la verità con la cautela del dubbio e i cattolici che, accolta la verità enunciata dal magistero ecclesiastico, la assumono come assoluta e non tollerano di essere sfiorati dal minimo dubbio? Non è qui in gioco la democrazia come libero confronto di opinioni? E che ne è della tolleranza tanto rivendicata contro il fondamentalismo, quando uno dei dialoganti si arresta ogni volta che si imbatte in una verità di fede? Ma soprattutto che significa una «verità di fede»? Non è questa una contraddizione in termini? La fede, infatti, crede perché non sa. Tra fede e sapere non c´è quindi compatibilità. Le due cose non possono convivere usurpando l´una le prerogative dell´altro.
La verità, in quegli ambiti molto limitati in cui può essere raggiunta, è intollerante, perché non tollera posizioni diverse da quanto è stato accertato, come in matematica, in fisica, in biologia e in generale in ambito scientifico, ma la fede, proprio perché si fonda sulla volontà di credere e non su prove da chiunque verificabili, non può che essere tollerante. Dove per «tolleranza» non si intende non imprigionare o bruciare chi la pensa diversamente come accadeva una volta, ma ipotizzare che chi la pensa diversamente possa avere un gradiente di verità superiore al proprio. Solo a queste condizioni può incominciare il dialogo e dar vita a quel tipo di convivenza che si chiama democrazia.
Su questo tema Zagrebelsky insiste con parole chiare. E da eminente giurista non può evitare di constatare il conflitto tra l´universalità della legge e la storicità delle situazioni concrete, che non è qualcosa di sporadico o di accidentale, ma una costante che ricorre con una frequenza insospettata. Quando ad esempio nella cultura d´Occidente si proclamano i diritti dell´uomo e insieme il rispetto delle differenze culturali, siamo sicuri che il contenuto concreto di questi diritti non siano le consuetudini di noi occidentali, che potrebbero benissimo sgretolarsi a contatto con le differenze culturali di cui pure proclamiamo il rispetto? E allora solo una discussione tra le culture, al termine di una storia ancora a venire, potrà dire quali universali pretesi diventeranno universali riconosciuti.
Un altro esempio di conflitto dei doveri può essere desunto dall´etica kantiana a proposito della sollecitudine per la persona e del suo equivalente morale che è il rispetto. Che ne è di quest´etica in ordine alla donna nei primi mesi di gravidanza e in ordine al morente nelle sofferenze della sua agonia? Che ne è della rispettiva angoscia e delle regole morali e giuridiche indifferenti a queste situazioni di angoscia? Che etica deve qui entrare in azione: il rispetto della persona o il rispetto della regola? Kant ci ricorda che la morale è fatta per l´uomo e non l´uomo per la morale. Un´espressione questa che ricalca quella di Gesù là dove dice che il sabato è fatto per l´uomo, non l´uomo per il sabato.
Nei casi citati solo l´etica del dubbio invocata da Zagrebelsky si solleva all´altezza della questione, che non consiste nel decidere se abortire o meno, se praticare o meno l´eutanasia, ma nel decidere tra doveri che meritano entrambi rispetto e attenzione, perché ciascuno di essi è confortato da potenti e fondate motivazioni etiche. E siccome non vi è regola per decidere tra le regole, per questo e non per altro occorre un dialogo senza pregiudiziali in cui, tra regole che appaiono entrambe giuste, si cerca di reperire quella equa.
Questo oltrepassamento della legge in nome dell´equità è stato teorizzato e discusso da Aristotele in quei numerosi passi dell´Etica a Nicomaco dove si introduce il concetto di saggezza pratica o phrónesis, che è quella forma di saggezza legata all´applicazione della norma in situazione, là dove la situazione si rivela decisamente più complessa della semplicità con cui la norma universale è formulata. Scrive infatti Aristotele: «Tra i discorsi che riguardano le azioni, quelli universali sono i più vuoti, e quelli che riguardano i casi particolari sono i più veritieri, e, dato che le azioni riguardano i casi particolari, è necessario adeguarsi ad essi». Qui l´etica del dubbio, che commisura la norma universale con le situazioni particolari, fa un servizio alla verità maggiore di chi, in nome della verità o dei principi, applica la norma prescindendo dalle situazioni concrete che spesso mal si attagliano all´universalità della legge, la cui applicazione sarebbe senz´altro corretta e non soggetta a obiezioni, ma fondamentalmente ingiusta.
«E´ necessario, scrive Zagrebelsky, che tutte le convinzioni e le fedi più radicate, cessino di essere verità e si trasformino in opinioni quando diventano pubbliche nel rapporto degli uni con gli altri». Senza questa capacità di trasformazione non si dà il dialogo, così spesso retoricamente invocato, e tanto meno democrazia. Del resto lo stesso Jacques Maritain, il filosofo cattolico a cui spesso faceva riferimento Paolo VI, distingueva la fede, campo della verità dogmatica, dalla politica che è il campo del possibile. E questo anche in omaggio alla risposta che Gesù rese a Pilato. «Il mio regno non è di questo mondo». Ma forse proprio qui si incaglia il cristianesimo che guarda alla «città celeste», e perciò assegna allo Stato che governa la «città terrena», non la realizzazione del bene, ma la semplice limitazione delle condizioni che possono ostacolare il destino ultraterreno, dove l´individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione. Ma la dove la realizzazione individuale viene distinta dalla realizzazione sociale, etica e politica si separano, al punto che Rousseau può dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo».
Quando i cristiani e in generale tutti i detentori di una presunta verità assoluta riusciranno convincersi che la politica e l´etica civile che ne deriva non sono la semplice applicazione delle proprie radicate fedi o convinzioni, ma mediazione tra fedi, convinzioni, opinioni, norme e concrete situazioni? Per accedere a questa, che è poi la condizione della vita democratica, non c´è altra via se non quella che Zagrebelsky chiama «etica del dubbio», l´unica che fa onore alla verità che nessuno possiede, perché, di epoca in epoca, la verità si trova sempre per via.


Corriere della Sera 3.2.08
Veltroni candida Calearo. La sinistra attacca
di Monica Guerzoni

Sinistra arcobaleno all'attacco: state con i padroni
Sui nomi da candidare scontro aperto in Veneto, Piemonte e Campania. L'ex pm «recupera» il girotondino Pancho Pardi

PISA — L'abbraccio con don Paoli sulle colline di Lucca gli ha messo addosso la «forza della leggerezza» e la concreta speranza di sconfiggerlo davvero, il centrodestra. E alla ventiquattresima provincia Walter Veltroni si lancia in una affermazione un po' enfatica alla quale mostra di credere sul serio: «Guardate che si può vincere, si può fare la più grande rimonta della storia italiana». In bella mostra sul palco applaudono Ettore Scola e Sandro Veronesi e tra la folla si alza un lenzuolo che dice «Walter, hai la stoffa del campione ». E qui il segretario si gioca l'asso e annuncia che «il dottor Massimo Calearo, grande industriale veneto» ha ceduto al corteggiamento. Sarà capolista e se al Pd riuscirà di sovvertire i pronostici, anche ministro. Addio lotta di classe? Il segretario non bada alle accuse e promette un «grande patto tra produttori, lavoratori e imprenditori». La notizia che il Pd punta a sedurre «un pezzo di borghesia dinamica», parole di Goffredo Bettini, rimbalza a Roma e la Sinistra si scatena. «O con gli oppressi o con gli oppressori», invoca chiarezza Bertinotti. «State con i padroni», rincara Ferrero. A Manuela Palermi vengono «i brividi» e tra Pd e «cosa rossa » il baratro è scavato, col rischio per i democratici di pagare un prezzo in termini elettorali. Veltroni cita Kennedy e si paragona a Obama e chissà se basta dirsi «riformisti di centrosinistra » per neutralizzare le accuse di Bertinotti&Co, i quali vedono in Calearo, Ichino e Colaninno la prova che il Pd è un partito di solo centro.
Nelle stesse ore Bettini dice a Lucia Annunziata che Antonio Di Pietro «non sarà mai ministro della Giustizia» e al tavolo delle candidature è braccio di ferro sino all'alba. Si litiga in Veneto perché il segretario del Pd, Giaretta, ha deciso di rientrare in corsa, ci si azzuffa in Piemonte e anche in Campania, causa Bassolino che non vuole il ministro Nicolais in cima alla lista. Toccherà a Veltroni, in una manciata di ore, decidere la vita o la morte politica di Tiziano Treu o Renzo Lusetti, contenere il malumore di esclusi del calibro del rettore Latteri (che lascerà il Pd) e arginare, se crede, la débacle dei fassiniani: fuori De Piccoli, Verducci, Cuillo mentre Anna Serafini scivola in posizione per nulla blindata.
Più chiaro il quadro dei numeri uno. Franceschini capolista in Toscana, Letta in Lombardia, Fassino e Bonino in Piemonte, Bindi in Veneto, Marini nel Lazio, Rutelli e Sereni in Umbria. E ancora D'Alema in Puglia, Follini in Campania, Fioroni in Sicilia, Parisi e Soro in Sardegna, Pinotti in Liguria... Bersani e Finocchiaro in cima alla lista dell'Emilia e chissà se è vero che, in Sicilia, Enzo Bianco dovrà cedere a Ignazio Marino il posto d'onore. Prodi premia la capo ufficio stampa Sandra Zampa e torna sulla scena, chiamato da Di Pietro, il girotondino «Pancho» Pardi.
Sono le 11 quando Veltroni sbarca a Pisa e ad attenderlo, reclutati in gran parte da Ermete Realacci, sono migliaia, quanti non se ne vedevano da uno storico comizio di Ingrao del '75. Dalle finestre uno striscione sbeffeggia «Tu vo' fa' l'americano », i militanti fischiano e Walter porge l'altra guancia: «La democrazia è bella anche per questo ». Ma quando, dopo le ovazioni e gli autografi, un ragazzo gli chiede se taglierà due reti a Mediaset, lui allunga il passo e schiva lo sgambetto. Il buonismo non lo ha rinnegato, però il tempo delle stoccate all'avversario arriverà e Veltroni comincia a scaldarsi. Il programma di Berlusconi, attacca, non ha copertura se non per un terzo, mentre quello del Pd, col suo complesso di manovre «tra 16 e 21 miliardi» coperti per 18 dal recupero dell'evasione e da tagli alla spesa pubblica, «è un programma ragionevole». Quella del Pdl è «la vecchia Italia» rinnova la sfida Veltroni, l'Italia di Calderoli che scrive leggi «porcata» e l'Italia di Bossi, che «ha scelto la via insurrezionale ».

Corriere della Sera 3.2.08
La reazione Il leader del Prc: torna la linea «larghe intese»
Giordano: viene da ridere Giustificò lo sciopero fiscale

ROMA — All'inizio Franco Giordano (nella foto) non ci voleva credere. «Massimo Calearo? Quale Massimo Calearo? ». Il segretario di Rifondazione comunista ha poi fatto delle ricerche e alla fine ha scoperto che «sì era proprio lui, il presidente di Federmeccanica che, in una sede non neutra quale era il meeting di Cl, ebbe a dire, sullo sciopero fiscale proposto dalla Lega, che "a mali estremi estremi rimedi", insomma approvò la cosa». E Giordano ora si domanda: «Se si andassero a riprendere le reazioni che ebbero allora i dirigenti di Ds e Margherita ci sarebbe da ridere». Ci sarà anche da ridere, ma Calearo è un candidato su cui Veltroni punta molto: «Punta su uno — replica il leader del Prc — che ha fatto fare 50 ore di sciopero ai metalmeccanici, che poi hanno ottenuto 127 euro lordi di aumento? Senza dimenticare che, chiuso quell'accordo, Calearo ha annunciato: "Questo è l'ultimo contratto nazionale"». Va bene, però, con Calearo Veltroni conta di raddrizzare le sorti elettorali del suo partito nel Nord est... «La questione, temo, è diversa. Indipendentemente dalle persone, per cui bisogna avere sempre il massimo rispetto, le candidature pesanti del Pd stanno delineando quale sarà la politica economica di quel partito. Ora si è arrivati addirittura a candidare, con Calearo, un uomo di Confindustria che appartiene a una cordata diversa da quella di Matteo Colaninno. Non era successo neanche ai tempi della Dc che in un partito fossero rappresentate tutte le anime di Confindustria».
Non è forse normale per un partito che vuole essere lo specchio della società? E poi se per Calearo questo non vale per Colaninno si può dire tranquillamente che è sempre stato vicino a una determinata parte politica. «Per Colaninno si può dire che nella sua azienda fa contratti a 520 euro al mese e che in un'intervista a
Panorama ebbe a dire che l'opposizione di Berlusconi meritava un voto più alto di quanto meritasse il governo». Insomma, Giordano vede un progressivo spostamento del Pd a destra... «E che devo dire, nelle liste c'è anche Ichino. Per carità, il massimo rispetto per la persona, ma trovo francamente difficile immaginare che una proposta come l'abrogazione dell'articolo 18 possa dare maggiore stabilità ai precari ».
Per farla breve, con tutte queste candidature, secondo il leader del Prc, «persino la logica comincia ad avere qualche scricchiolìo». Solo su una cosa c'è massima chiarezza: «In tema di politica economica il Pd ha scelto la Confindustria. E qui torna il tema delle larghe intese, perché al di là di quel che dicono Berlusconi e Veltroni, basta vedere le candidature di peso scelte dal Pd, per capire che la linea di quel partito è tutta anti-sinistra. Basti pensare al generale Del Vecchio che, esplicitamente, si candida solo contro di noi. La recessione e la crisi economica faranno il resto: cioè, aiuteranno Berlusconi e Veltroni a fare le larghe intese». E allora, aggiunge Giordano «comincio a temere che il giovane operaio della Thyssen rischia di restare solo in compagnia di quelli che da sempre hanno posizioni avverse alle sue».
Non è che ha ragione Veltroni e che voi del Prc siete rimasti fermi al '53? «Perché Bertinotti ha detto che tra Colaninno e l'operaio della Thyssen ce ne era uno di troppo? E pensare che non sapeva — e nemmeno poteva immaginare — che il Pd avrebbe candidato addirittura Calearo! Comunque, per rispondere a Veltroni: stiamo peggio di quanto stessimo nel '53: abbiamo milioni di precari e di lavoratori in nero, grazie alla politica economica di Confindustria che il Partito democratico ha sposato in pieno ».
Maria Teresa Meli ❜❜ E' evidente che in tema di politica economica il Pd ha scelto la Confindustria

Corriere della Sera 3.2.08

L'intervista L'ex presidente di Federmeccanica: mai votato il centrosinistra
«Ci sarà un ministro veneto Walter mi ha convinto così»
Montezemolo mi ha detto che è contento che anche gli imprenditori si mettano al servizio del Paese. E che per ora li vede solo nel Pd: spera ne arrivino anche nel Pdl
La Lega mi aveva parlato di una candidatura a sindaco. E l'Udc, ma prima della rottura con Berlusconi, mi aveva proposto un seggio da senatore
di Raffaella Polato

MILANO — Imprenditore, e nel cuore del Veneto roccaforte berlusconian- bossiana. Presidente (da ieri ex) di Federmeccanica. Falco — secondo il sindacato — delle trattative confindustriali. Suona insomma un po' strano che Massimo Calearo si candidi per il Partito democratico.
«E perché? Al contrario: dimostra che qualcosa sta finalmente cambiando, in questo Paese. Il Pd è la prova che un progetto riformista e di rinnovamento ci può essere. E in questo progetto un imprenditore che si ritiene moderno ci sta».
Lei però ha sempre dato l'idea di essere, semmai, più «tendenza Pdl»...
«Difatti non ho mai votato centrosinistra prima d'ora».
Appunto. E dunque?
«E dunque il muro delle ideologie è caduto da un pezzo e, per fortuna, adesso ad accorgersene è anche la politica. Almeno quella "nuova". Qui, nel Pd, c'è un programma chiaro. Quello del centrodestra gli assomiglia, è vero. Ma come ho detto a Gianfranco Fini la settimana scorsa...».
Scusi l'interruzione: l'ha corteggiata anche lui? O qualcun altro del Pdl?
«La Lega mi aveva parlato di una candidatura a sindaco. E l'Udc, ma prima della rottura con Silvio Berlusconi, mi aveva proposto un seggio da senatore. Con Fini ci siamo semplicemente visti qui a Vicenza».
E gli ha detto?
«Che i programmi possono assomigliarsi. Ma la differenza la fanno gli uomini: bisogna stare attenti a chi si candida».
A proposito di programmi e uomini. Al centro del progetto Pd c'è la questione salariale. E tra i candidati c'è Antonio Boccuzzi, l'operaio sopravvissuto al rogo Thyssen. Difficile che abbiate la stessa visione, anzi: lui ha già criticato l'arruolamento del "falco" di Federmeccanica.
«Guardi: di sicuro lui ha messo tutto se stesso nel suo lavoro come io ho messo tutto me stesso nel mio. Credo che abbiamo gli stessi obiettivi: un Paese che cresca, e in cui non succedano più tragedie come quella della Thyssen, e nel quale nessuno fatichi più ad arrivare alla fine del mese. Poi possiamo avere visioni diverse sulle strade per arrivarci. Però se ne discute, ci si confronta, si arriva a una sintesi. Io dico: per fortuna ci sono candidati sia tra gli operai sia tra gli imprenditori. Dimostriamo che il Pd non è un partito monocratico, che qui la democrazia è vera».
Resta il fatto che lei, con il sindacato, ha battagliato duramente fino a poche settimane fa. E il sindacato è una parte importante, dell'elettorato di riferimento Pd.
«C'è sindacato e sindacato. Io ho sempre avuto rapporti buoni con tutti, tranne che con la Fiom. Ma sa che c'è? Le critiche di Cremaschi mi fanno piacere, come quelle di Bertinotti: a loro volta dimostrano che questo è un partito nuovo. Che non è quello dei no global, no Tav, no tutto».
Però non è solo la Fiom a criticare.
«Ma guardi che anche dentro al sindacato è in corso un profondo cambiamento culturale. Venite in Veneto: cosa si pensa, che l'operaio creda ancora alle classi, e quindi alla "lotta" di classe? E che questo sia popolo bue?».
Il pressing di Veltroni è durato a lungo: come l'ha convinta, alla fine? È vera la storia di un ministero in caso di vittoria?
«E' vero che gli ho detto: che sia io o un altro, il Veneto ha bisogno di una presenza forte nel governo. Non ce l'ha da troppi anni, ed è una delle ragioni del malessere Nord est. L'altro ieri mi ha risposto: hai ragione, ok».
E se non vincerete? Farà il deputato qualsiasi?
«Chi l'ha detto che non possiamo vincere? Comunque: non mi metto in gioco solo per la vittoria. Questo Paese mi ha dato molto. Penso, spero di poter restituire qualcosa. E lo si può fare anche da deputati».
Ovviamente ha pre-avvertito Luca Cordero di Montezemolo. Cosa le ha detto?
«Che è contento che anche gli imprenditori si mettano al servizio del Paese. E che per ora li vede solo nel Pd: spera ne arrivino anche dall'altra parte».
Già, perché tra Matteo Colaninno e lei dal Pdl dicono: "Vedete? Avevamo ragione, Confindustria è un covo...".
«Chi lo dice dà agli imprenditori italiani degli stupidi. Sono invece persone intelligenti, che decidono in proprio. E le loro singole scelte le fanno come in azienda: valutando non le bandiere, ma il progetto che convince di più. Le ideologie sono finite da un pezzo anche qui».

Corriere della Sera 3.2.08

Il ruolo della ragione come libera scelta, la tolleranza «appannaggio dell'umanità»: i modelli per una «buona società»
Per un nuovo illuminismo
Voltaire e Pascal, sintesi per un'alleanza tra razionalisti e cattolici
di Giulio Giorello

Ci sono dei classici che innervano la comprensione del nostro presente anche se paiono abbastanza inattuali. Uno di questi è il Dizionario filosofico di Voltaire.
L'illuminismo non è oggi di moda; lo è la sua critica. La celebrazione della Ragione non ha portato al Terrore? Non ha spianato la via ai dispotismi del Novecento? Non ha sancito il dominio della tecnica sull'uomo? Tutto sarebbe nato da quella «strana confusione» che si è prodotta da quando alcuni individui hanno «osato pensare di testa loro », e ci hanno pure preso gusto!
Così faceva già intendere nel dialogo sulla «Libertà di pensiero» (entro il Dizionario) il conte Medroso, settecentesco notabile portoghese, cui però ribatte milord Boldmind (alla lettera, spirito coraggioso): «Noi in Inghilterra siamo felici solo da quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire il proprio parere». Replica l'altro: «Anche noi siamo molto tranquilli a Lisbona, dove nessuno può dire il suo». E l'inglese: «Siete tranquilli, ma non siete felici. È la tranquillità dei galeotti, che remano in cadenza e in silenzio». A questo punto ci si aspetterebbe che il portavoce dell'illuminismo voltairiano pretenda di «emancipare» il povero lusitano. Medroso: «Ma se io mi trovo bene in galera?». Boldmind: «In tal caso, meritate di esserci!».
Per l'illuminista non si dà né totalitarismo della ragione, né qualche cosa come un partito che abbia come compito di emancipare chicchessia controvoglia, finendo col rappresentare il disciolto enigma della Storia. L'illuminista, come Socrate, sa di non sapere. Sa quanto delicate siano le nostre costruzioni intellettuali. È consapevole che tecnica e scienza non risolvono tutto (anche se possono rivelarsi di grande giovamento nel caso di epidemie, tsunami, terremoti, ecc.). Ha acquisito la cognizione dell'umana fragilità. Come recita l'esordio della voce «Tolleranza» del Dizionario: «Perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze», poiché «siamo tutti impastati di debolezze e di errori». La parola tolleranza non gode attualmente di buona stampa: è un atteggiamento che viene sospettato di paternalismo, condiscendenza o di un più o meno celato senso di superiorità. Per alcuni, la tolleranza rappresenterebbe addirittura un ostacolo a una genuina partecipazione, a un profondo rispetto, al dispiegarsi del vero amore: occorrerebbe spingersi «oltre la tolleranza», offrendo a chiunque la possibilità (o l'obbligo?) di integrarsi. Ma io preferisco Voltaire, per il quale la tolleranza era «l'appannaggio dell'umanità » — fuor di metafora, il modo per uscire dal bagno di sangue delle guerre di religione e della violenza politica. Ricordiamoci dell'immagine di Pascal: l'uomo è come un giunco, una delle cose più deboli («non c'è bisogno che tutto l'universo si alzi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d'acqua basta per ucciderlo») — ma è un giunco «capace di pensare». E Pascal conclude: «Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale». Ma Voltaire ci fa capire che la tolleranza è il nucleo di questo stesso pensiero. Sarebbe ben «stupido» che un giunco piegato dal vento nel fango intimasse al giunco vicino, piegato in senso contrario: «Striscia come me, miserabile, o ti denuncerò perché tu sia divelto e bruciato! ».
La mia modesta proposta è tenere insieme l'illuminista del Dizionario e il cattolico giansenista dei Pensieri, quel Blaise Pascal spintosi persino alla rinuncia ai frutti del suo «talento geometrico » — perché colpito dal fluire del mondo, che dispiega ai nostri occhi «l'orribile spettacolo del dileguarsi di tutto quello che possediamo».
Ritrovo un'eco di questa riflessione pascaliana nella fenomenologia della speranza, lievito e a un tempo illusione dell'umana avventura, che Joseph Ratzinger ha delineato nella sua ultima enciclica: ogni speranza «fugge sempre più lontano» man mano che si definiscono gli sforzi per realizzarla.
Ma perché anche la speranza possa fluire nel mondo è comunque necessaria per Ratzinger la libertà! I paragrafi della Spe salvi che trovo più incisivi sono quelli che enfatizzano il ruolo della ragione come scelta. «La situazione delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che a essa appartengono » (n. 30). E ancora: «Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata — buona — condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone» (n. 24).
Quest'esortazione assume maggior forza in una prospettiva tipicamente illuministica. Forse ci piacerebbe essere tutti Boldmind, ma talvolta cediamo alla tentazione di ripiegare come il conte Medroso. Magari qualcuno si trova tranquillo sulla sua galera, e non vuol rischiare quella «strana confusione» che agli occhi di Boldmind costituiva la libertà inglese. Di quest'ultima Voltaire si dichiarava ammiratore senza riserve, forse non badando troppo al fatto che quella tolleranza e quella libertà non erano piovute dall'alto, ma si erano faticosamente prodotte con dissenso e opposizione dal basso — da parte chi, in particolare, aveva rifiutato nelle isole britanniche la riduzione della varietà dell'esperienza religiosa a una Chiesa di Stato di cui il monarca era il capo spirituale. Dopotutto, l'anglicanesimo non era che il modello specularmente rovesciato del detestato «papismo»: la teocrazia si esprimeva a Roma in una gerarchia che aveva al proprio vertice il pontefice, a Londra il sovrano del corpo politico. Ma non è possibile mettere in relazione fede e società civile al di fuori di quei due schemi? Potrà sembrare paradossale, ma le parole di Benedetto XVI che abbiamo sopra citato possono venire coerentemente impiegate per dissolvere qualunque pretesa di realizzare una «società buona» indipendentemente dalle preferenze dei singoli — in particolare, ogni tentativo di servirsi del sentimento religioso per imporre questa o quella «struttura».
Non penso soltanto a istituzioni in senso stretto politiche, quanto alle stesse richieste di «senso » da conferire a ricerche intellettuali o a pratiche quotidiane. Non pochi, di fronte alla crescente complessità del nostro mondo, dichiarano magari «con acredine» come il Walter del romanzo di Musil che non si deve «rinunciare a cercare un senso nella vita». Ma ribatte Ulrich, uomo senza qualità: «Perché mai occorre un senso?». Da voltairiani che si rifiutano di ingabbiare il flusso della vita in questo o quello schema, o Dio in una qualche immagine fatta a nostra somiglianza, amiamo il Gesù «illuminista» e insofferente di ogni formalismo del Vangelo di Matteo (15,13): «Ogni pianta che non piantò il Padre mio celeste sarà sradicata».

Corriere della Sera 3.2.08

Riscoperte. Evangelisti, Moresco e Scurati raccontano la «rivoluzione mancata» del dopo 1848
Il romanzo torna al Risorgimento
Guarnieri: la repressione del brigantaggio fu come in Vietnam o in Iraq
di Ranieri Polese

Forse è per via di un anniversario (i 160 anni dalle Cinque Giornate di Milano: vi accenna Valerio Evangelisti nella introduzione a Controinsurrezioni, edito negli Oscar Mondadori, pp. 120, e 8,40) ma forse no. L'interesse per il Risorgimento fra i narratori italiani di oggi è, comunque, un fatto. Il '48 va per la maggiore: Una storia romantica di Antonio Scurati, uscito da Bompiani nell'autunno scorso, si ambienta nella Milano insorta contro gli austriaci. Poi ci sono Antonio Moresco ed Evangelisti (quest'ultimo sui giorni estremi della Repubblica romana del '49). Luigi Guarnieri si sposta un po' più in là: il suo I sentieri del cielo (Rizzoli, pp. 327, e 19) parla della guerra al brigantaggio nella Calabria del 1863. Di queste prove narrative, quella di Antonio Moresco, nata come un soggetto per un film, sfrutta i mezzi cinematografici (montaggio incrociato, flashback eccetera) per moltiplicare i piani temporali con un passare continuo tra la Milano delle barricate del '48 e la Napoli del 1799, dai pensieri atei di Leopardi alla morte di Pisacane, a Sapri, 1857.
Comune a tutti e quattro gli scrittori la scelta di un periodo storico dimenticato, cancellato dalla memoria collettiva, tanto che oggi nessuno sa più che cosa e chi rappresentino i monumenti e le statue celebrative che, erette all'indomani dell'Unità, devitalizzarono una storia fatta di sangue, passioni, coraggio, morti. È, nei fatti, una ripresa della lettura gramsciana del Risorgimento in termini di «rivoluzione passiva», della nascita dello Stato unitario come conquista regia, della mancata rivoluzione sociale che approfondì il divario tra le minoranze dei patrioti e le grandi masse contadine. Tra le due Italie, il Centro-Nord e il Meridione dove, appunto, braccianti delusi dalla mancata distribuzione delle terre e soldati sbandati del disciolto esercito borbonico dettero vita, dopo il 1860, a una guerra civile etichettata con il nome di brigantaggio.
Per tutti questi scrittori vale quello che ha dichiarato Scurati: è il Risorgimento «l'unica stagione epica del nostro immaginario poetico-nazionale a essere la più dimenticata». Ed è quella che — sempre Scurati — suona come una «condanna dell'avvilente piccineria del nostro presente ». Gli fa eco Moresco che presentando il suo racconto lo descrive come «una cosa che ha qualcosa di forte da dire nella situazione di oggi, in mezzo agli anniversari e alle celebrazioni retoriche e vuote del Risorgimento che coprono una profonda e grottesca restaurazione in ogni campo».
Certo, Scurati, Moresco ed Evangelisti scelgono il momento — il biennio 1848-49 — in cui è la linea radicale a prendere l'iniziativa; qui c'è una «tensione etica », anche un furore giacobino che non si ritroveranno certo nel programma della monarchia piemontese e nei moderati del partito di Cavour. La sconfitta mazziniana del '49 e la caduta della Repubblica romana segnano infatti la svolta verso la «conquista regia». Diversa è la situazione storica del romanzo di Guarnieri: conquistato il Sud da Garibaldi, 100 mila soldati del nuovo Regno vengono mandati a combattere contro i banditi del Meridione, con massacri, fucilazioni sommarie, violenze che la storia ufficiale non riporterà.
Un passato, insomma, doppiamente rimosso: censurato all'epoca, dimenticato poi (nonostante il folcloristico revisionismo filo-borbonico di quest'ultimo decennio). Per i soldati del 1863 le illusioni, gli ideali non contano più, c'è solo una sporca guerra da vincere a ogni costo. Ma pure per Guarnieri qui c'è «materia epica, un'occasione unica per un narratore di oggi, che voglia con realismo raccontare fatti storici dimenticati». E tutti questi scrittori sono concordi nella convinzione che solo il romanzo può servire a capire, far capire il nostro passato. «Solo la narrativa può restituire, in parte, il sapore di ciò che accadde. Gli odori, i colori: una verità che lo storico, vincolato a criteri quantitativi e a valutazioni asettiche, non può permettersi» scrive Evangelisti. Ai romanzi, dunque, spetta il compito di non disperdere una volta ancora «la vivacità sovversiva dei fatti d'arme — cruenti più di quanto non si creda — che ci hanno fatto nazione. Solo gli scrittori potrebbero rianimare il Risorgimento, e farlo uscire dal sacello, simile alla ghiacciaia di un frigorifero, in cui è rinchiuso. Conservato bene, però freddo freddo».
Calabria, inverno del 1863. Lo squadrone di soldati a cavallo, comandato dal maggiore Albertis, perlustra la Sila in caccia della banda di Evangelista Boccadoro, il capo-ribelle che dal suo rifugio sui monti conduce una guerriglia spietata contro i «piemontesi», i latifondisti che si sono spartite le terre, i borghesi che hanno giurato fedeltà al nuovo Stato. Siamo nel culmine della Guerra del Brigantaggio, la tremenda guerra civile che durò nel Meridione d'Italia per circa dieci anni dopo l'Unificazione. Una guerra spietata, condotta con poteri eccezionali sanciti, nel 1863, dalla Legge Pica. Un conflitto contrassegnato da una serie di barbari rituali, come le fotografie post mortem dei banditi, le loro teste mozzate esposte come monito per le popolazioni. Un dispendio di vite, una quantità di efferatezze incalcolabili. Anche i banditi, dal canto loro, si comportavano con altrettanta ferocia, sterminando le famiglie dei possidenti, ammazzando il bestiame, avvelenando i pozzi, dando fuoco alle colture, castigando con la morte e le mutilazioni i traditori e le spie.
«Ho voluto raccontare una guerra rimossa, che la storia ufficiale ha cercato di far dimenticare: il nuovo Stato voleva vincere a tutti i costi, certo però fece di tutto per nascondere i metodi e l'ampiezza di quel conflitto», spiega Guarnieri. «Ci fu, è vero, una commissione parlamentare d'inchiesta, ma molti dei suoi atti furono occultati. Doveva passare una sola versione: che si trattava di una rivolta di briganti analfabeti armati dai Borbone e dallo Stato Pontificio». Tornano in mente le parole di Antonio Gramsci, che già nel 1920, su Ordine nuovo scriveva: «Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti». «Per questo non uso mai la parola briganti nel libro», continua Guarnieri. «Certo, non copro, non maschero nemmeno le azioni terribili degli insorti: il racconto dei pochi mesi di quell'inverno 1863 registra atrocità da una parte e dall'altra. Sì, questi soldati mandati in un mondo arretrato di cui non capiscono la lingua e non conoscono gli usi, le tradizioni, le credenze, ricordano i militari americani in Vietnam, Afghanistan, Iraq. E c'è un'altra concordanza: l'aver sciolto l'esercito borbonico e rimesso in libertà quei soldati fornì ai ribelli un'enorme massa di sbandati. Un po' come è successo in Iraq con l'esercito di Saddam ».

Corriere della Sera 3.2.08

Da Leopardi a Heidegger
Il seme nascosto delle parole
di Natalino Irti

Un gioco continuo fra il vincolo dell'ètimo, l'eleganza verbale e la scientificità

Il destino della parola, di ciascuna parola del nostro linguaggio, si muove tra fissità etimologica e mutevole storicità dei significati. Ètimo indica — come appunto si svela nell'origine greca — il "vero", l'originario e autentico significato, il bisogno esistenziale che la parola ha soddisfatto al principio del suo cammino. Ci sono così i grandi ascoltatori delle parole, capaci di restituirle alla trasparenza aurorale, di reintegrarle nella loro incontaminata radice. La pagina di Heidegger mostra questo eccezionale talento, questo fascinoso consultare e scrutare dentro la parola.
Ma la parola assai spesso sfugge all'ètimo e cammina con sciolta libertà: è usata e poi lasciata cadere in oblio, volta a nuove accezioni e congiunta con altre, inserita nella frase e nei contesti di discorso: insomma, si carica di tempo, e fa tutt'uno con l'essere storico dell'uomo. Essa si distacca dal significato originario, il quale vi rimane dentro come in un angolo segreto, intorno a cui si affollino genti nuovissime e irriguardose. Talvolta riemerge, e ancora fa sentire la propria forza vincolante.
I significati storici, sovrapponendosi al significato etimologico (il quale è anch'esso storico, ma quasi di una remota e perduta antichità), sollevano la questione della "'proprietà" della parola. Propria è la parola esatta, che coglie ed esprime le cose nella loro concreta specificità, ed è pronta a sacrificare per questo scopo colori e sfumature e tonalità di suono. Alla proprietà delle parole dedicò pensieri profondi Giacomo Leopardi, distinguendola dall'eleganza e dalla purità del lessico. La proprietà, come precisione espositiva e didascalica, è «assolutamente di sua natura incompatibile colla eleganza », ma «compatibilissima colla purità, come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano» (Zibaldone, 2013, 30 ottobre 1821).
Il sopravvenire di scoperte scientifiche e applicazioni tecniche, il diverso atteggiarsi di costumi e stili di vita, nuovi metodi e risultati di pensiero, esigono un lor proprio linguaggio, e perciò o piegano vecchie parole ad altre accezioni o coniano nuove parole. Leggo ora, nella dotta e perspicua pagina di Tullio Gregory («Origini della terminologia filosofica moderna», Olschki editore, 2006), una proposizione di Erasmo: vocabula nova cum rebus novis exhorta sunt. Le cose nuove nascono insieme con parole nuove, le quali non vengono dopo, non sono aggiunte e sovrapposte, ma sorgono nel medesimo atto e sono tutt'uno con ciò che esprimono e significano. Qui la proprietà tecnica, se pur sacrifichi eleganza e aggraziati stilemi, può ben segnare il ritorno al significato originario e riscoprire il seme nascosto nella parola matura o consunta.
L'autore di queste colonnine, non ignaro di problemi giuridici, rammenta che l'interprete deve accogliere le parole della legge nel «significato proprio»: cioè, non nel significato originario o in altro storicamente emerso, ma nell'accezione tecnica, nell'uso praticato dal sistema normativo e dagli studiosi di diritto. La tecnica mobilita tutte le risorse della lingua, determina ritorni alle radici o corruzioni dell'antica purezza, genera nuovi significati o nuove parole, sfrutta il patrimonio nazionale o attinge allo straniero. Bisogna disporsi al sacrificio della eleganza o della purità etimologica, perché la proprietà tecnica è sempre disciplina del pensiero e difesa contro la barbarie del vago e del confuso. Il giuoco storico è tra vincolo dell'ètimo, eleganza fonica e proprietà di singoli rami scientifici. Nessuno può dettare una regola e decidere la partita.



Liberazione 2.3.08
Informazione e politica. Altro che libertà: quello che sta accadendo si chiama censura
di Rina Gagliardi

Alle prossime elezioni politiche, Rita Borsellino sarà candidata nelle liste de "La Sinistra, l'arcobaleno" - e candidata unitaria, nella coalizione che raccoglie tutte le forze (partitiche e non solo) della sinistra-sinistra. Ecco una bella notizia. Ecco, soprattutto, una notizia: Rita Borsellino non è solo un "simbolo" della lotta contro la mafia e la sua cultura di morte, ma una personalità di grande spicco civile e politico, tanto che, in Sicilia, dove si voterà anche per il rinnovo del governo regionale, il Pd l'ha voluta come numero due, nel così detto ticket con Anna Finocchiaro. Peccato che questa notizia sia stata quasi radicalmente censurata dal sistema mediatico, Tv e grandi giornali. In particolare, ieri non ne se ne trovava traccia alcuna nel Corriere della Sera - e negli altri se ne trovano a stento un paio di righe sbrigative, in pastoni titolati su questa o quella candidatura "eccellente". Ora voi direte che i giornali sono liberi di dare il rilievo che vogliono, alle notizie, secondo le loro gerarchie. Giusto, sì. Ma sono liberi anche di violare le regole basilari dell'informazione, quelle che ti insegnano all'esame di giornalismo e che cominciano dallo straclassico "cane morde uomo"? Curiosa libertà quella che induce Repubblica a titolare sulla possibile (si badi bene, solo possibile) candidatura di Massimo Calearo, sconosciuto presidente di Federmeccanica, nelle liste del Pd e a relegare nel sommario quella di Rita Borsellino - ai miei tempi, una simile gerarchia sarebbe costata la bocciatura all'esame! Strano pluralismo quello che spinge il cugino Corriere a riempire le pagine interne di interviste (o ritratti) alle Veltroni-girls - ieri erano addirittura in due! - e a tacere, in toto, della scelta di Rita Borsellino. Altro che libertà: questa si chiama censura. Censura bella e buona. Scelta politica di parte, volta specificamente a danneggiare la Sinistra, l'unico "ingombro" che potrebbe minacciare il duopolio veltrusconiano (ma anche finiano, diniano, mussoliniano, dipietrista, pannelliano, "pizzicano" eccetera eccetera).
La verità è che i grandi giornali, come la Tv, hanno già scelto il bipartitismo: hanno cioè deciso che lo scontro elettorale si svolgerà solo tra due contendenti e buttano su questa carta tutto il loro (considerevole) peso, per orientare il lettore-elettore e più generale l'opinione pubblica. No che non si sono distratti. No che non conoscono le leggi elementari del giornalismo: al buon giornalismo, al giornalismo "normale" e corretto, preferiscono la cattiva politica. La sinistra deve scomparire, va cancellata, oscurata, il più possibile ridotta ad una "varia" o ad una "breve": ecco la ferrea linea politica di Paolo Mieli ed Ezio Mauro. Ecco la logica di regime che si annuncia - anzi, che si pratica in questa campagna elettorale. E che avrà giocoforza qualche eccezione - per la carità, il diritto di tribuna non si nega a nessuno, nemmeno alla Santanché. Nemmeno, ogni tanto, a qualche esponente della sinistra.
Giacché ha totalmente ragione Fabio Mussi, nella lucida intervista apparsa ieri su "Repubblica on line": il «coro inaudito dei media, con tanto di cimbali, trombe e pifferi intenti a cantare le lodi del Pd e del Pdl» fa davvero infuriare. C'è una "mobilitazione senza precedenti", denuncia il fondatore di Sinistra Democratica (a proposito un abbraccio da tutti noi e auguri di un'ottima convalescenza) per ridurre a due il sistema politico italiano: non due partiti, ma due aggregati, composti secondo le logiche di compatibilità con i rispettivi Principi. Non il bipartitismo, ma un duopolio "che non ha eguali in Europa" e che porterà quasi inevitabilmente i due protagonisti ad una sostanziale convergenza politica - in chiave trash, come è già avvenuto nel sistema televisivo. Il fatto è che la tanto sbandierata scelta di "andare da soli", ripetuta da Veltroni e da Berlusconi, si è rivelata una bufala: l'obiettivo vero del Pd era - ed è - quello di distruggere la sinistra, ridurla ai minimi termini, farla fallire (così come l'obiettivo del Cavaliere è quello di sbarazzarsi dei partner scomodi, tipo Casini: guardate come funzionano queste nuove convergenze parallele). E non è vero neppure che il leader piddino vuole, in qualche modo, in forme temperate e maldestre, rappresentarla lui, la sinistra: al Pais , proprio ieri, ha dichiarato a chiare lettere che «noi (il Pd) siamo riformisti ma non siamo di sinistra» e ha rivendicato con fierezza la rottura con la sinistra radicale, in forza delle «abissali differenze» che la dividono dal nuovo partito. Ci viene da rivolgere al nostro Walter qualche domandina: ma come mai la filosofia dell'"et-et" si applica a tutto, all'universo mondo, alle più disparate Weltanschaungen, e si ferma, inesorabile, sul limitare che separa i "riformisti" dalla sinistra? E come abbiamo fatto, allora, a superare questi abissi in venti mesi di governo Prodi, o in tanti anni di governo di Roma? E perché mai tutte queste distanze non ci sono tra i "riformisti" e i dipietristi, che hanno passato gran parte di quei venti mesi a destabilizzare e disturbare la maggioranza? Domande inutili. Il Leader Ecumenico non ha bisogno di coerenze: ha disegnato a sua immagine e su sua misura una forza politica che compete sulla zona grigia del Grande Centro - forse inventatata dai sociologi della politica - dove solo si può vincere. Perciò deve rompere con la sinistra, per tentare di fare il pieno dei voti "moderati". Perciò, in contemporanea, deve ridurre la sinistra all'oscurità mediatica: per svuotarla di protagonismo e di efficacia e raccoglierne il capitale di voti, a tutt'oggi robusto. A forza di talk show televisivi, di paginoni del Corriere e della Repubblica , di campagne scientificamente studiate, l'elettore di Sinistra finirà col convincersi che la sinistra non c'è, non è credibile, non conta nulla, non vale la pena di votarla, visto che è un'illustre Ignota?
***
Questo è il micidiale pericolo che incombe, adesso, nella nostra battaglia politica. Essa, lo sapevamo, era ed è durissima - ma la realtà si incarica quasi sempre di superare le peggiori previsioni. Ora, però, è tempo di smettere con le denunce e con i lamenti: bisogna reagire con la massima determinazione di cui siamo capaci. Bisogna combattere - perché non cominciare col portare la nostra protesta, non solo simbolica, davanti alle sedi della Rai e sotto le redazioni dei grandi giornali? Bisogna moltiplicare l'impegno con tutti i mezzi necessari, da quelli più sofisticati e moderni a quelli più antichi. La posta in gioco è la qualità della democrazia italiana. E per la Sinistra vale più che mai l'antico motto: "Primum vivere, deinde philosophare".

Liberazione 2.3.08
Bertinotti: «Finita l'era del governo è ora di riorganizzare la lotta»
di Angela Mauro

Ottaviano. Al castello di Ottaviano l'impianto di aria condizionata è naturale. Piccoli fori nel pavimento di pietra lavica sono il passaggio per invisibili geyser di aria fredda. Sotto, il vuoto, che se diventa pieno è ricchezza. Cisterna, acqua, potere. E' il trittico che segna la storia del palazzo mediceo, 365 stanze alle falde del Vesuvio. Ma fermarsi all'acqua è come dire che il problema di Palermo è il traffico (Begnini docet). Ottaviano, provincia di Napoli, castello e potere. E il potere da queste parti ha significato camorra, in passato, in parte anche nel presente.
Negli anni '80 qui il problema non era il signorotto padrone dell'acqua, ma la criminalità già ricca che comprò il luogo simbolo del potere e ne fece il suo quartier generale per il traffico di droga, le estorsioni, gli omicidi. Un nome: Raffaele Cutolo, che amministrava da quelle stanze alle falde del Vesuvio. ‘O professore', cui il castello è stato confiscato all'inizio degli anni '90. Ora sede dell'Ente Parco del Vesuvio. «Questo non è il castello di Cutolo. E' il castello mediceo». Il sindaco Mario Iervolino del Pd tenta di scacciare l'onta del passato. La sala è stracolma e incontinente, i geyser hanno un senso anche se è inverno, il tentativo di Iervolino riesce se oggi il castello di Ottaviano può ospitare la prima della tappa della campagna elettorale di Fausto Bertinotti in Campania.
«Io lotto, mi ribello, mi sono votato al suicidio sociale». Anche nei tempi bui, Ottaviano l'ha conosciuta la rivolta. I versi sono di Mimmo Beneventano, medico e poeta, consigliere comunale del Pci, ucciso dalla Camorra il 9 novembre dell'80. Sullo sfondo il simbolo unitario della Sinistra Arcobaleno, in sala il suo "Urlo" viene recitato. «Grido per coloro che non hanno più voce». Ed è il "la" per il dibattito con i ragazzi delle associazioni anticamorra e con i rappresentanti di vari mondi che chiedono diritti: operai, gay, trans, disabili. Bertinotti declina la parola "sinistra". «Ribellarsi contro le ingiustizie, come Beneventano: non per fare l'eroe o cercare medaglie, ma per vivere e dare senso primordiale alla libertà». Un «io non ci sto» che per diventare «ribellione di molti» ha bisogno della «sinistra politica».
La campagna elettorale è difficile, il candidato premier non si stanca di ripeterlo, e qui in Campania poi il fatturato criminale è ancora il 40 per cento del pil regionale. C'è un governatore, Antonio Bassolino, rinviato a giudizio per lo scandalo dei rifiuti. «Rispetto il lavoro della magistratura, mi auguro possa dimostrare di essere estraneo ai fatti», si limita a dire Bertinotti. Quanto alle scelte che farà il Prc, attualmente in maggioranza in regione, «sta all'autonomia della dirigenza locale deciderle». Il punto non è stare al governo o all'opposizione. Non è in questo senso che va manifestata la «diversità». Il punto è stare «nella comunità, nella fabbrica, nella società prima ancora di stare in Parlamento o in un consiglio comunale». E' la sfida attuale. Il brutto della lotta «non è vincere o perdere, ma quando sei al governo e non sai come dare voce ai bisogni perché al governo ci stai con gente che non la pensa come te». Ora, «finita la zona grigia del governo, va riorganizzata la lotta, va individuato l'obiettivo, va ricostruita la comunità». La speranza? E' «in noi, non fuori: è dura, ma siamo fratelli di tanta gente che lotta in condizioni più drammatiche. Pensate se fossimo a Gaza e un raid israeliano avesse ucciso donne e bambini». Bertinotti frena la foga: «Se poi qualcuno è tentato di rispondere alla violenza con il terrorismo, gli va spiegato che la marcia è lunga e che a chi vuole cambiare il mondo tocca la parte più difficile».
Come Beneventano e gli altri che hanno fatto la stessa fine. Michele della militante Radio Onda Pazza è duro: «Da tempo non operiamo più con alcun partito perché qui tutti i partiti prendono i voti nei fortini della camorra. Senza garanzie di assenza di collusioni, non faremo la campagna elettorale per nessuno». Pur nella forte esigenza di lotta, testimoniata dall'affollamento della sala, emerge la delusione. «Onorevole, vorrei capire che cos'è questa sinistra…», chiede disperato Gianluigi, disabile alle prese da anni con la ricerca di lavoro: invano. Tommaso Pirozzi della Fiat di Pomigliano è «sfiduciato», non ha più la tessera del Prc, con le lacrime agli occhi richiama il sacrificio di Beneventano per ricordare che «non si muore solo quando il cuore non batte più, ma anche quando ti limitano la lotta: qui la mafia ha il potere di "espellere" i lavoratori dalle fabbriche».
Bertinotti parte dalla questione salariale, «di prima grandezza, contro un padronato della borghesia che dura da più di 25 anni», da quando i salari in Italia erano tra i più alti d'Europa, ora sono i più bassi. C'è stata la sconfitta del 900, del movimento operaio, una «rivoluzione chiamata globalizzazione», un'onda che ha anche spazzato via diritti, creato povertà, messo in crisi la politica. «Noi come Prc - dice Bertinotti - non abbiamo mai fatto parte della classe politica, abbiamo provato ma non siamo riusciti a rompere quell'onda. Ora siamo tutti coinvolti». Ecco perché la comunità che va ricostruita, la lotta da riorganizzare, l'onda da spezzare richiedono altre forme della politica: «Mettiamoci insieme a sinistra senza l'illusione che ci sia una stanza dei bottoni e che basta arrivarci per cambiare tutto. Iniziamo noi nella comunità, iniziamo anche con il voto».
La sala applaude, ma non è finita. Già, il voto. «Temo il voto utile», ammette Bertinotti, intendendo la croce che molti possono essere tentati di segnare sul Pd per bloccare Berlusconi. Tuttavia, basta chiedersi se «c'è una causa ai nostri guai. Sì. E' questo modello economico-sociale che il Pd vuole solo mitigare: come togliere l'acqua dal mare con un secchiello. Va rovesciato». E se a El Pais è Veltroni stesso ad ammettere di essere «riformista, ma non di sinistra», beh: il gioco è fatto. «E' reo confesso. Ora chi è di sinistra non ha più scuse per votare Pd…».
"Non s' lassa a terra p' na mala annata". Il detto contadino, citato da Luigi dell'associazione anticamorra "Scetammece" (Svegliamoci!) incita ad andare avanti. E' possibile il «compromesso per arrivare alla liberazione totale», mette in guardia Bertinotti. Unioni civili o matrimonio? «Vorrei che ognuno fosse libero di optare tra le due cose, ma avere subito le prime aiuta a rompere il meccanismo di oppressione». Ciò che conta è che «per la prima volta i diritti civili stanno nel dna di una forza politica: la sinistra». Fuori è buio, l'aria del Vesuvio è pungente, dentro i geyser prendono il sopravvento anche sulle onte del passato. Forse.

Liberazione 2.3.08
Mussi: «Cancellare la sinistra è la parola d'ordine del Pd»

di Claudia Fusani
(da repubblica.it)

Fabio Mussi, sessant'anni, leader storico del Pci prima e dei Ds poi, fondatore di Sinistra democratica e poi con Rc, Pdci e Verdi di La Sinistra-L'Arcobaleno, ha subìto il 10 febbraio scorso il doppio trapianto dei reni. Questa è la prima intervista che rilascia. Malato di... politica, Mussi è a Bergamo dove è stato operato anche se non è più ricoverato.

Primo scorcio di campagna elettorale. Qualcosa l'ha fatta arrabbiare?
Il coro. L'inaudito corteo dei media, con cimbali, trombe e pifferi a cantare compatti le lodi di Pd e Pdl. Non si è ancora formato il duopolio e i mezzi di comunicazione sembrano già in monopolio...

C'è davvero un rischio duopolio?
Ho visto una mobilitazione senza precedenti per ridurre a due il sistema politico italiano. Naturalmente non due partiti, ma due aggregati. Da una parte il Pdl di Berlusconi, Fini piu Mussolini, Dini e merci varie, collegate a Lega Nord e Lega Sud. Dall'altra il Pd con dentro i radicali e il tutto collegato con Di Pietro. Gli uni e gli altri intenzionati a fare terra bruciata. Questo è uno schema che non ha eguali in Europa e che provocherebbe un'amputazione della democrazia. Tanto più che in assenza di altre opzioni i due blocchi tenderebbero inesorabilmente a convergere, sul piano politico, culturale, e programmatico. I segni non mancano.

E' come se Veltroni e Berlusconi avessero realizzato per via extraparlamentare quella riforma bipolare su cui avevano trovato l'accordo prima di Natale.
La novità non è il bipolarismo, quello c'era già. La novità è il duopolio. E, com'è avvenuto con le televisioni, temo che il duopolio porti inesorabilmente al trash...

Il Pd non ha voluto voi ma imbarca Di Pietro e i Radicali. Perché?
Perché le affermazioni "andiamo da soli" e "il programma non è trattabile", erano una bufala. L'obiettivo vero è cancellare la sinistra. Fondamentale è farla fallire

Veltroni vi accusa di essere "conservatori".
Una boutade. Qualche volta ci accusano di essere conservatori, qualche volta estremisti

Siete estremisti?
Sull'estremismo farei una riflessione: io per esempio trovo piuttosto estremista che una parte grande delle nuove generazioni sia destinata a passare decenni in lavori precari con salari da fame. Trovo moderato che dopo un certo periodo il lavoro e la vita escano dalla precarietà. Trovo estremista che l'Italia sia settima al mondo per spese militari (4° per spese militari pro-capite e 32° per spese in Università e ricerca scientifica). Trovo moderato che si scenda da una parte e si salga dall'altra...

Nelle prossime settimane userete fair play con gli ex cugini Ds ora nel Pd?
Per la verità gli schiaffi li abbiamo già ricevuti da loro: prima una totale chiusura, non dico ad un'intesa ma a un confronto programmatico. Poi una campagna mistificatoria sul "voto utile". Infine addirittura qualche appello del tipo "votate Pd o Pdl.

Ha molto da rimproverare?
Una cosa mi ha parecchio colpito: il Pd, nell'ultima legislatura, ha avuto nelle proprie file 18 ministri su 25, il Presidente del Consiglio, due vicepresidenti, tutti i ministeri chiave, i due gruppi parlamentari più grandi e non si è assunto alcuna responsabilità per i risultati del Governo Prodi, tentando di scaricare tutto sugli alleati (per la verità non tutti, visto che Di Pietro che ha rappresentato uno dei maggiori fattori di instabilità del governo, ha la lista collegata col Pd). Questo non è decoroso. Ogni volta che la Sinistra ha provato a fare qualcosa di più, sui salari, sul precariato, sui diritti civili, sulla ricerca, ha trovato nel Pd un muro. Perché ora dovrebbero essere credibili i mirabolanti annunci?

Ieri la Sinistra-L'Arcobaleno, il soggetto unico a sinistra del Pd su cui lei ha tanto investito, ha presentato il suo programma. Parola d'ordine: "Fai una scelta di parte". Crede veramente che il paese abbia voglia di fare una scelta di parte? Di sentirsi e quindi di definirsi di destra o di sinistra?
In una democrazia matura nessun soggetto rappresenta il tutto. E' una patologia che qualcuno lo pensi. Quanto alla distinzione in "destra" e "sinistra", si tratta di una delle cose politicamente sensate che valgono da un paio di secoli e che non sono tramontate. Sostituirle con categorie insignificanti - tipo vecchio/nuovo , moderno/antico - è un'autentica truffa. Può dar luogo anche a rappresentazioni suggestive, ma dice poco o niente della vita e del mondo reale.

Quali sono i punti forti di questo programma su cui punterete?
Rimessa in valore del lavoro umano e dell'ambiente naturale. Libertà delle persone, il che comporta difesa integrale della laicità dello stato. Lotta senza quartiere contro la corruzione e le mafie. Disarmo e strategie di pace e di cooperazione internazionale

Parlate anche di lotta alla precarietà e aumento delle retribuzioni. Con quale copertura finanziaria pensate di farlo considerando che la congiuntura economica internazionale è e sarà pessima?
Scusi ma lei fa a me questa obiezione?! Qualcuno ha fatto un qualche studio sui dodici punti da trasformare in leggi annunciati dal Partito Democratico? Io mi sono fatto fare una ragionevole stima: trattasi, a occhio e croce, di 40 miliardi di euro di nuove spese, e di realistici risparmi di 4 miliardi di euro.

Quindi è impossibile?
Forse, quando si parla di risorse occorrerebbe non trascurare il punto essenziale: la disuguaglianza. L'Italia, come dimostrano tutti gli indicatori, è diventato negli anni uno dei paesi più diseguali del mondo. Il 10% delle famiglie possiede il 45% della ricchezza. E' cresciuta l'area della povertà assoluta e relativa, i salari sono precipitati agli ultimi posti in Europa, sono precipitate le condizioni di vita di una parte grande delle classi medie. Bisogna intervenire con politiche redistributive forti per ridurre la disuguaglianza, e per ritornare dall'attuale "repubblica fondata sulle rendite" alla "repubblica fondata sul lavoro".

Veltroni ha definito il Pd "il partito del lavoro": ha candidato il numero 1 della Confindustria giovani e l'operaio sopravvissuto della Thyssen-krupp. L'economista Ichino e l'impiegata di un call center.
Non mi scandalizzano le candidature in sé. Ma le candidature più le idee che l'accompagnano: per esempio quella che l'imprenditore e l'operaio sono entrambi lavoratori. E' vero che l'imprenditore è un lavoratore, ma non è vero il contrario, perché di mezzo c'è il piccolo dettaglio che si chiama il capitale. I dati sono noti: il lavoro operaio e dipendente è numericamente cresciuto, ma un'enorme quota di ricchezza prodotta si è spostata dai salari ai profitti e alle rendite. Siamo tornati ad una quota del Pil destinata ai salari pari a quella della fine degli anni cinquanta, prima del boom.

Gli imprenditori non hanno investito in innovazione e ricerca?
Assolutamente no. Le imprese italiane su questo punto sono molto indietro a quelle europee. Una parte grande di questo fiume di soldi è andato ad alimentare quello che Ricardo, uno dei padri dell'economia classica inglese, chiamava "consumo signorile". Parlo di automobili, gioielli, case di lusso, prostitute... se non si spezza questo diabolico meccanismo l'Italia è perduta.

Il Pd si è disfatto del fardello comunismo ma gli scoppia in casa la questione laica. Come finisce tra Binetti e Bonino?
E chi lo sa! So che la Bonino è a favore dell'abrogazione del Concordato, è contro la legge 40, è a favore dell'eutanasia. Non sarà facile.

Ha visto: Veltroni definisce quelle della Chiesa su temi come la famiglia "sollecitazioni e non ingerenze". Cosa ne pensa?
Naturalmente definire quelle della Chiesa attuale "sollecitazioni" è un discreto eufemismo. Io sono a favore della più totale libertà religiosa e del più incondizionato diritto alla parola della Chiesa, come mi pare di aver dimostrato nel caso della visita del Papa alla Sapienza. Guai però a dimenticare che i diritti della chiesa nella repubblica italiana si esercitano nel quadro dell'articolo 7 della Costituzione. E oggi mi pare che siamo davvero all'ingerenza, nella politica e nel processo di formazione delle leggi.

Ha mai pensato che Nichi Vendola, il governatore della Puglia, potesse essere un candidato più a sorpresa e quindi più vincente rispetto a Bertinotti?
Bertinotti è una forte personalità e sta facendo benissimo. Nichi Vendola avrà un grande peso nella costruzione della sinistra unita.

Tra voi e il Pd è un divorzio per sempre?
No, in futuro spero un'alleanza. Ma questo comporta ora una competizione.

il Riformista 1.3.08
Fraintendimenti: non va ridotto a icona di ateismo e razionalismo
Giordano Bruno, il copernicano esoterico e panteista
Il discorso che fece a Oxford era un plagio da Ficino

Il luogo è adatto alle proteste anticlericali. A poca distanza da San Pietro, qui, nella Roma di Campo de' Fiori, il 17 febbraio del 1600, Giordano Bruno volava a esplorare l'infinità degli altri mondi in uno degli ultimi roghi di piazza. Qui, appena tre secoli dopo, nel 1889, un bel tripudio di labari massonici salutava con un rogo simbolico l'inaugurazione del monumento al filosofo eretico, celebre opera del futuro Gran Maestro Ettore Ferrari e sberleffo ai cattolici (per l'occasione più di una chiesa aveva tenuto le porte serrate e molti preti avevano abbandonato la città). Oggi il Nolano continua a riflettere torvo e il 17 di febbraio si è svolto ai suoi piedi un happening «ateo e razionalista» per celebrarne la memoria.
Che i roghi siano sconvenienti va da sé, e il più delle volte lo erano persino allora - l'Inquisizione pare che chiese fino all'ultimo al filosofo una minuscola ritrattazione così da concedergli la decapitazione; Bruno non era affatto il tipo. Che al grande eretico vada la nostra simpatia è scontato. Curioso è vedere, casomai, come davvero, in questi tempi di confuse ideologie, molto più simili all'età di Bruno di quanto si creda, ogni categoria storica, sapienziale, religiosa, sia pronta a entrare in confusione, ed ogni scuola di pensiero sia più disposta a darsi al dogma che alla ricerca della verità. In una strana, rediviva battaglia sciamanica, i nuovi gnostici si abbandonano a best-seller che svelano le trame esoteriche di Newton; gli atei e i razionalisti onorano un mago panteista che di «ateismo e di razionalismo» sarebbe stato rivale fierissimo.
Confusione storica. È ciò che avvenne d'altra parte anche nel 1463, quando Leonardo da Pistoia tornò a Firenze con ciò che sarebbe passato alla Storia come il Corpus Hermeticum , complesso di scritti che si dicevano composti da Ermete Trismegisto in persona, profeta più antico di Mosè, pronto a svelare i segreti del cosmo. Vi si leggeva di una antichissima sapienza egiziana e, fatto ancora più mirabile, recante in nuce ogni elemento della filosofia greca, del platonismo, del cristianesimo persino. Nulla di strano, a dire il vero, visto che il corpus con l'antico Egitto aveva poco a che spartire ed era stato in realtà scritto intorno al II o III secolo.
Pazienza. Cosimo de' Medici ne fu catturato; Ficino si affrettò a tradurlo. E quindi Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa: con l'ermetismo, all'improvviso, si poté assistere alla nascita della magia cinquecentesca, magia cristiana, che coniugava gli amuleti e il misticismo biblico (l'evocazione degli angeli, la cabala di Pico) con una visione sacrale del cosmo come corpo vivente.
Come ha mostrato Frances Yates, è proprio seguendo questo solco che uno studioso italiano, uscito dall'ordine dei domenicani per convinzioni eterodosse, si presentò a Oxford nel 1583 per un ciclo di conferenze sulla teoria copernicana. Così l'avrebbe raccontato Abbot, professore oxfordiano presente agli incontri: «Quando quell'omicciattolo italiano, che si autodefiniva magis elaborata Theologia Doctor ecc... visitò la nostra università, non stava nei panni per il desiderio di divenire famoso. Quando ebbe occupato il posto più alto della nostra più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere e facendoci un gran parlare di chenturm & chirculus & circumferenchia (tale è infatti la pronuncia del suo paese), egli intraprese il tentativo di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava».
Qualcosa accadde, tuttavia; qualcosa che, nella Cena de le ceneri , avrebbe portato Bruno a scagliarsi contro i "pedanti" di Oxford. «Un uomo grave, che occupava una posizione eminente in quella università, ebbe l'impressione di aver letto da qualche parte quelle stesse cose che il dottore stava esponendoci. Recatosi nel suo studio, trovò che sia la prima sia la seconda lettura erano state tratte, quasi parola per parola, dalle opere di Marsilius Ficinus». Così, con questa figuraccia, «la questione ebbe termine».
Plagio di Bruno a parte, come scrisse la Yates, che scena meravigliosa! Il filosofo che espone la teoria copernicana nel contesto della magia astrale e del culto solare del De vita coelitus comparanda del mago Ficino!
C'è una poesia sottile in questo; una poesia quasi barocca. L'infinità dell'universo, dei pianeti, dei mondi, veniva appoggiata per culto ermetista. Le prime intuizioni eliocentriche, di per sé vere, venivano sostenute da un mago italiano per via rigidamente non-scientifica, bensì sulla base di un culto solare egiziano. Davvero nessun trionfo scientifico. In tempi in cui ancora il reale veniva esperito in base al testo, o ad una fede (qualsiasi testo, qualsiasi fede), poteva semplicemente accadere d'imbattersi poeticamente nella verità: era accaduto un secolo prima a Colombo che, ritenendo la Terra più piccola di quanto non fosse in realtà, aveva sbattuto casualmente contro delle Indie immaginarie. È quanto avvenne anche con Bruno, che alla sua fede fondata su un errore storico rimase attaccato per tutta la vita, teorizzando magici «teatri della memoria», studiando cabale e influenze astrali, facendosi arrestare a Venezia per traffico di trattati esoterici e condannare poco dopo a Roma in quanto mago (non certo in quanto sostenitore di Copernico, che pure apprezzava, benché un po' troppo «matematico»!), e che attraverso la propria magia era arrivato per caso al reale.
Oggi, a distanza ormai di secoli, un cosmo infinito continua ad assistere impassibile a quel complesso di fraintendimenti che ha fatto la storia dell'umanità. Nulla di meno «razionale» dell'elevare il Bruno a campione di scienza e di antireligiosità (contro chi avrebbero manifestato gli atei, se la riforma religiosa sognata dal fiero filosofo avesse trionfato?). Ma questo è il segreto dell'universo vivente: errori e conflitti nella Carne, e il Cielo delle stelle fisse ad osservarci, immobile e, per sempre, armonico.

il Riformista 2.3.08
Negli ultimi giorni, un po' tutti i quotidiani hanno dato notizia della decisione degli editori di procedere a un cambio di direzione del "Riformista" che coinciderebbe con un mutamento dell'indirizzo politico del giornale

Negli ultimi giorni, un po' tutti i quotidiani hanno dato notizia della decisione degli editori di procedere a un cambio di direzione del "Riformista" che coinciderebbe con un mutamento dell'indirizzo politico del giornale. Non c'è ancora una comunicazione ufficiale ed è per questo che noi pubblichiamo ancora la nostra rivista insieme al "Riformista" di cui abbiamo condiviso, fino ad oggi, la linea editoriale. Se e quando ci sarà un annuncio ufficiale anche noi prenderemo le nostre decisioni volte a salvaguardare l'autonomia, la continuità, la linea politica che "Le nuove ragioni del socialismo" segue con coerenza dal giorno in cui fu stampato il primo numero nel febbraio del 1996. Questa nostra determinazione si è rafforzata in questi mesi in cui lo scenario politico italiano è cambiato, e di molto. E non c'è dubbio che questo cambiamento è in gran parte dovuto alla presenza sulla scena politica del Partito democratico. Il quale è nato dopo che i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita hanno preso atto che si trovavano "al capolinea", come scrisse Scalfari, e "al capolinea" si trovavano il governo di Prodi e il centrosinistra che si fondava sull'alleanza tra i due partiti e la sinistra radicale.
Come sono andate le cose dopo l'ascesa di Veltroni al vertice del Pd è stato oggetto di discussione e confronti su questa rivista e anche su altre pubblicazioni. Oggi il Pd è alla sua prima prova elettorale e lo sono anche, non solo il Partito del popolo di Berlusconi e Fini, ma anche altre formazioni: i centristi cattolici di Casini e quelli di Tabacci e Pezzotta, che a quanto pare si unificheranno, la destra di Storace e i socialisti. I quali indubbiamente affrontano il cimento elettorale in una situazione difficile. È vero che è mancato il tempo per fare decollare la Costituente socialista, ma dobbiamo anche dire che i vertici del Ps hanno sbagliato a bussare alla porta di Veltroni. Il quale, dopo aver fatto l'accordo con Di Pietro qualificando o squalificando così la linea che aveva scelto di presentare il Pd solo, ha incluso nelle sue liste nove esponenti dei radicali. Ai socialisti, se abbiamo capito bene, era stato offerta la stessa collocazione dei radicali: sciogliersi nel Pd, nel quale c'è già una componente che si definisce di sinistra e dove sono alcuni ex socialisti, con i quali avrebbero dovuto confondersi. Vogliamo dire che era noto ed evidente il fatto che il Pd di Veltroni consideri la presenza autonoma dei socialisti la testimonianza che è possibile, anche in Italia, l'esistenza di una forza di sinistra che non sia assimilabile né all'estremismo antico della Cosa rossa, né al liquidazionismo del Pd.
I dirigenti del Ps hanno quindi giustamente rifiutato la prospettiva dello scioglimento. Ma si sono mossi, però, in modo difensivo rispetto a chi ritiene di avere in mano tutte le chiavi per aprire o chiudere storie politiche nuove o antiche. Tuttavia una domanda oggi si pone: la storia del socialismo italiano, che non è solo quella del Psi o del Psdi, ma di chi, anche militando nel Pci, al socialismo democratico voleva approdare, si è esaurita? Noi pensiamo di no. Pensiamo che come in tutta l'Europa ci sono "nuove ragioni del socialismo", così come c'è una nuova questione sociale figlia del capitalismo globalizzato e l'esigenza di nuovi diritti civili espressi dai processi di secolarizzazione delle società moderne. Si tratta di temi che hanno travagliato tutti i partiti socialisti cui sono state date risposte diverse - ma sono state date - in Inghilterra, in Spagna, in Germania e nei Paesi scandinavi.
Temi che anche la Costituente socialista si è posti, e che avrebbe dovuto sviluppare per dare un'identità al socialismo italiano più consona ai problemi di oggi. Temi che avrebbero dovuto porsi anche Mussi e Bertinotti, dal momento che dicono di voler riflettere sulle nuove frontiere del socialismo. I due esponenti della sinistra, invece, si sono messi insieme a Diliberto e a Pecoraro Scanio per fare un aggregato senza anima, senza riferimenti con le forze politiche che in Europa che, con posizioni diverse e autonome, costituiscono la sola alternativa alle forze conservatrici. E la Sinistra arcobaleno appare solo come un residuato del passato. Un regalo al Pd di Veltroni e alle sue ambiguità a proposito dei rapporti col socialismo europeo e con la modernità. Una competizione virtuosa, invece, avrebbe dovuto svolgersi tra il Pd e una sinistra che si colloca con la sua storia e la sua autonomia nell'ambito del socialismo europeo e si candida come forza di governo, anche quando è all'opposizione.
In questo quadro noi lavoreremo per costruire anche in Italia questa forza socialista e ci rivolgeremo anche ai gruppi che nel Pd non hanno abbandonato l'idea di dar vita a una forza di sinistra autonoma. La lista del Pd, apparentata con quella di Di Pietro, è una somma di storie politiche, di culture, di persone che credono in una battaglia di rinnovamento e in una prospettiva, ma è una somma e non una sintesi politico-culturale: un coacervo dove non mancano certo le presenze di clientele e di opportunisti che salgono sul carro del vincitore, di interessi e di un personale politico legati alla spesa pubblica nazionale e locale; un coacervo in cui oggi le contraddizioni sono coperte dalle elezioni e non composte dalla politica.
I socialisti devono guardare anche a sinistra dove contraddizioni di segno diverso scomporranno, dopo le elezioni, la Cosa rossa. La presenza di una lista socialista ha quindi un significato per tutti coloro, comunque collocati, che guardano non solo alle elezioni di aprile, ma al futuro. Noi aiuteremo, come ci è possibile, questo processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra socialista italiana.

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
Il politico e lo psichiatra In platea i «fedeli» di Fagioli
di Sara Menafra

Ai cultori del comizio politico non sarà sfuggita, ieri mattina, la quantità di parole poco «tradizionalmente di sinistra» finite nell'intervento di Bertinotti al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Il candidato della Sinistra arcobaleno si è appellato al senso di «fraternità, come dimensione dello stare insieme», ha parlato della «condivisione delle passioni», di un futuro «colorato di gioia, contro il colore nero» dell'«arcobaleno come orizzonte politico».
E' quasi primavera e a Roma c'era pure il sole, ma non è questo il motivo che ha spinto Bertinotti ad affrontare temi tanto arditi. Bastava dare un'occhiata alla platea per rendersene conto: le poltroncine rosse erano zeppe di «fagiolini», cioè di seguaci dello psichiatra Massimo Fagioli, espulso dalla Società psicoanalitica italiana nel 1976 e da allora diventato il capostipite di una scuola di «Analisi collettiva» che ha parecchi seguaci nella gauche caviar capitolina e tra i pazienti «noti» vede anche il regista Marco Bellocchio.
Nata nel 2005, la liaison tra Bertinotti e Fagioli s'è fatta sempre più intensa. Anche grazie a Fausto, lo psichiatra è divenato il vate del settimanale Left (ex Avvenimenti) al cui secondo compleanno, dieci giorni fa, s'è presentato anche l'ex segretario del Prc, osannato dalla folla. E sabato scorso alcuni dirigenti Prc hanno organizzato una iniziativa per discutere della legge 194. Secondo il Fagioli-pensiero, quando un feto raggiunge le 24 settimane si può parlare di vita umana, perché negli occhi si forma la retina. Bertinotti non c'era, ma erano presenti Ritanna Armeni, Pietro Folena e altri dirigenti del partito.

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
La sfida di Bertinotti
Il candidato della Sinistra arcobaleno apre la campagna elettorale a Roma
Sinistra, Fausto accelera: «Siamo un nuovo soggetto»
di Sara Menafra


Un programma di lotta, più che di governo. Fausto Bertinotti, in versione candidato de La Sinistra l'arcobaleno, mette nel frullatore riflessioni sulla lotta operaia e strizzatine d'occhio alla psichiatria militante di Massimo Fagioli.
Nei giorni delle prime anticipazioni sul programma, i grandi giornali l'hanno attaccato, spiegando che nel 2008 l'anticapitalismo rischia di essere poco credibile. E ora che si tratta di presentare ufficialmente quel programma, ospite il teatro Ambra Jovinelli di Roma, Bertinotti risponde che quel che conta è l'orizzonte: «Il programma è l'idea che trasmetti, è una bandiera. E noi per la prima volta decidiamo che la base comune di tutta la sinistra sarà la lotta ad un modello economico e sociale che ci è stato imposto e di cui proponiamo una modifica radicale». L'assenza di altri leader sul palco, peraltro, gli dà l'occasione per bacchettare chi pensa che la Sinistra arcobaleno sia solo un un cartello elettorale e ripetere più volte che si tratta, invece, di «un nuovo soggetto politico».
Parte dalle «storie di lotta degli anni '70, una grande risorsa che non ci possiamo permettere di dilapidare», passa per la «riflessione critica sul passato recente» - «Non è andata bene, abbiamo fatto alcune cose ma non è stata ascoltata l'essenziale domanda di cambiamento» - e non dimentica di prendersela con l'oscuramento operato dai grandi media: «Non ci lamentiamo perché è l'occasione per stare a contatto con la gente, ma organizzeremo una manifestazione molto colorata attorno alla Rai perché non è accettabile che sia anche il servizio pubblico ad eliminare tutto ciò che non è Pd o Pdl».
La critica al Pd è «netta ma non irrispettosa»: «Non capisco come venga in mente al Pd di candidare il capo di Federmeccanica. Veltroni dice che Calearo e Boccuzzi (l'operaio della Thyssen candidato del Pd) sono simili. Dove? In che cosa sono simili rispetto ad un lavoro che asservisce tutto, anche il tuo corpo?». Distanza, dunque: «Mi piace l'"e... e..." di Veltroni, quando include, quando mette insieme le differenze valorizzandole. Ma sulle scelte di campo, come quella tra dominanti e dominanti, bisogna decidere».
E' vero, oggi il Pd è lontano, guarda al centro. Ma se la Sinistra arcobaleno riuscirà a sopravvivere a questa tornata elettorale le cose potrebbero cambiare: «Potrebbe accadere quel che è successo in Germania tra la Spd e la Linke. Se saremo forti il Pd sarà costretto a guardare un po' a sinistra».

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
Acque torbide
di Rossana Rossanda


Siamo tutti adulti e vaccinati, non facciamo finta che queste siano elezioni come le altre. In ballo non è solo un cambio di governo, ma la cancellazione dalla scena politica di ogni sinistra di ispirazione sociale. Questa è la novità, reclamata ormai non più solo dalla destra ma dall'ex Pci, poi Pds poi Ds e ora confluito, assieme alla cattolica Margherita, nel Partito democratico. E' l'approdo della «svolta» del 1989 e il suo vero senso: non si trattava di condannare le derive del comunismo o dei «socialismi reali», ma di stabilire che il capitalismo è l'unico modo di produzione possibile.
Ci sono voluti diversi anni di manfrina ma ora Veltroni dichiara tutti i giorni che la sola società possibile è quella di «mercato», e a governarla «democraticamente» bastano due partiti come nel modello anglosassone, uno più «compassionevole» e l'altro più feroce. Che ci sia un conflitto di classe fra proprietari e non, che i primi possano sfruttare, usare e gettare i secondi, che questi siano riusciti a conquistarsi dei diritti extramercato è stata una favola cattiva, che ha seminato l'odio e spezzato l'armonia del paese. Operai e padroni sono egualmente lavoratori, hanno un interesse comune che è l'azienda, anzi il padrone, detto più benevolmente l'imprenditore, vi rischia di più il suo capitale, mentre l'operaio solo il suo salario. Veltroni ha così liquidato due secoli di lotte sociali e ridotto la democrazia secondo il modello americano a sistema elettorale e poco più. Il suo «riformismo» non mira, come quello delle socialdemocrazie, a correggere il capitale: ma a «riformare i diritti del lavoro» fino a farne, com'era all'inizio del XIX secolo, una merce come le altre, abolirne ogni regolamentazione a cominciare dalla durata.
Agitando un'avvenente flexsicurity che, oltre a mandare all'aria qualsiasi professionalità (perché, quando sei licenziato devi accettare qualsiasi secondo mestiere ti si offra) è una frottola se non dove, come in Danimarca, è altissima la spesa sociale e per quattro anni, aiutato dal sindacato, puoi cercare un altro impiego senza perdere il salario. Da noi vige il comandamento: ridurre la spesa pubblica, già inferiore alla media europea dell'Ocse. Il trend è ridurre il «bene pubblico» e l'«intervento pubblico» in genere. Già nel prodiano «sussidiarietà» stava il germe del teorema: il pubblico interviene «soltanto dove il privato non arriva». Negli Stati uniti non rispondono a questa regola anche istruzione e sanità? E per la pensione non ci sono le assicurazioni private?
Il sindaco d'Italia aggiunge con uno smagliante sorriso che solo se «aumenta la ricchezza» ci sarà meno disuguaglianza. La torta piccola si divide fra pochi. E precisa che se non ci fossero stati i comunisti (lui nel profondo del cuore non lo è mai stato) o i veti sindacali o le leggi tipo Giugni eccetera, saremmo un paese prospero e felice. Lo ridiventeremo votando lui o Berlusconi, che ha ripescato quando era al suo punto più basso, considerandolo il solo in grado di rappresentare l'«altro» grande leader. E quello si è attaccato alla pertica che gli veniva tesa e s'è fuso con Fini. Poi se la vedranno ciascuno con i propri cespugli - come li ha prontamente definiti la stampa - il primo con il centro, Casini e compagni, il secondo con quel che resta della sinistra. A sinistra non sarà facile. Ma a questo fine supremo il Nostro ha preferito sacrificare il premio che in caso di vittoria l'attuale legge gli darebbe se corresse coalizzato. Forse, sapendo che la recessione è in arrivo, non gli dispiacerebbe che grandinasse sulla testa di Berlusconi piuttosto che sulla sua.
E' a questa strategia che gli italiani democratici e già benevolmente progressisti vogliono dare una mano? Facciano. Ma non raccontiamoci storie, voteranno per un capitalismo che resterà straccione, con una manodopera vieppiù senza difesa e con garanzie zero contro la nota propensione agli imbrogli. Evitiamo la figura ridicola dei francesi che, dopo aver intronizzato Nicolas Sarkozy, scoprono che è un padrone duro, cosa che non aveva mai nascosto, oltre che un nevrotico narcisista. Lo hanno fatto precipitare nei sondggi dal 66% di settembre al 42% di oggi. Ma se lo dovranno tenere per cinque anni a meno di andare sulle barricate.
Che comporta la piega che stiamo prendendo? Uscita di scena anche da noi una sinistra di derivazione classista e marxista, trascolora la cultura politica europea - il cui segno dal 1789 al 1989 è stato quello sociale, diversamente dagli Stati Uniti e dal mondo non occidentale. Nel Novecento questa sinistra si era aspramente divisa fra correnti rivoluzionarie e gradualiste - cioè sul «come» cambiare una società ingiusta - ma che fosse ingiusta e andasse cambiata è il tema che ha alimentato due secoli di storia e era penetrato anche nella classe proprietaria attraverso l'assioma «per essere conservato il capitalismo va regolato», legittimando e legiferando la dualità di interessi. Decisiva era stata la crisi del 1929, a definire le forme della regolamentazione era stato il keynesismo. L'ultimo sprazzo, ma rimasto isolato, è stato il tentativo teorico di Michel Aglietta. Con il ritorno a Von Hayek, non è un sistema «economico» che muta, è un arretramento dell'idea di società che ha retto il grande pensiero politico moderno. Che una democrazia immobile ed esclusivamente di mercato portasse dei pericoli l'aveva intuito perfino de Toqueville, alla fine della sua grande opera controrivoluzionaria «De la démocratie en Amérique» (sospetto che non ha sfiorato Furet cento anni dopo). In verità, che resta della tradizione fondante dell'Europa, della rivoluzione inglese e francese e poi russa? Vacillano i pilastri di una democrazia non meramente elettorale, che democrazia può anche non essere affatto, quando al posto delle dichirazioni del 1789 e della loro complessa filiazione subentra il solo mercato attivando a mo' di risposta i fuochi devastanti delle etnie e dei fondamentalismi. L'ultimo Lucio Colletti, ormai polemico con il marxismo, si chiedeva tuttavia quali mostri avrebbero preso corpo nel caso che venisse a cessare la speranza di una liberazione egualitaria in terra.
Una seconda considerazione è ancora più cogente. Nella rapida e crudele mondializzazione della produzione e dei commerci e nel giganteggiare delle operazioni puramente speculative, l'Europa e quel che resta dei suoi stati nazionali perdono ogni propria fisionomia politico-sociale. Le regole della Ue assicurano la mera lubrificazione dei capitali del resto del mondo che la sfondano da tutte le parti, demolendo quella che era stata la sua conquista e caratteristica principale: i diritti e il compenso del lavoro. Le nazioni più deboli come la nostra vacillano sotto la tempesta, si dilatano oltre ogni dire disuguaglianza e povertà perché i primi a passare sono i redditi non da capitale, cioè il 90% di essi. Non c'è più posto né legittimità per una politica industriale - basta veder oggi la fatica che fanno Gran Bretagna e Germania per salvare alcune banche, squassate dalla crisi dei subprime, e come i nostri più fiacchi capitali si diano allo sport di comprare aziende più o meno decotte in Francia o Spagna per spostarle in Tunisia, dove il lavoro costa meno lasciando a piedi la manodopera continentale. La frattura sociale torna ad allargarsi come all'inizio del Novecento. Il capovolgimento politico della Russia e della Cina, con la loro intollerabile miseria salariale, può concorrere illimitatamente con le produzioni occidentali, minandone le società e inducendovi una inclinazione autoritaria. Si è tolto senso alla libertà salvo a quella di imprendere, comprare e vendere, si è dichiarata la fine della storia e poi si va elucubrando sulla «poltiglia» degli adulti e la «violenza» dei giovani.
E' fuori del Partito democratico che cade la responsabilità di una linea di difesa e di opposizione a questo trend devastante. Ma come sostenere che le sinistre alla sua sinistra hanno saputo in questi anni delinearla e praticarla? Veltroni dice molte stravaganze, ma una non lo è: nelle grandi fasi di mutamento non si regge sulla sola linea del «no». No del tutto fondati quando vanno contro i diritti elementari della persona (nel lavoro, nell'immigrazione, nella pratica repressiva) e ormai sempre più spesso contro gli equilibri fondamentali del sistema ecologico-ambientale, per non parlare della guerra. Ma è sotto gli occhi di tutti come le lesioni degli uni e degli altri non vengano più ormai da scelte controvertibili su un piano locale ma da una spinta potente e univoca su scala mondiale, contro la quale le azioni locali sono essenziali ma non contano molto oltre la testimonianza. La vicenda del popolo di Seattle ha avuto un peso incalcolabile sulla formazione della soggettività, nullo sulla forza concreta della Wto - le forze che chiamavamo «strutturali» avendo raggiunto con la propria mondializzazione e la frammentazione di chi le avversa un impatto mai raggiunto prima. L'ampiezza e inoperatività del movimento per la pace obbligano a riflettere sul mutamento avvenuto nel rapporto fra maturazione delle coscienze e agenti di decisione economico-militari.
In Italia la Sinistra Arcobaleno, in Francia le sinistre disunite comunista, ecologista, trotzkiste, in Germania la Linke (è quella che sta andando più avanti e sta obbligando la Spd a una riflessione cui era impreparata) hanno da rendersi conto di questa dimensione e passare dalla resistenza alla proposta. Che non può essere, una volta passata la notte elettorale, la sommatoria di tre o quattro urgenze pur evidenti. L'arretramento è stato grande e poco conta dolersene o sdegnarsene - niente è più derisorio delle punte di astensionismo che emergono qua e là, infantile «Non gioco piu!» mentre rotola il mondo. Molto va aggiornato, molto va ricominciato da capo. A questa ricerca tenteremo di partecipare. E va da sé che il giornale è aperto.

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
L'arcobaleno. Voto utile per frenare il Pd
di Valentino Parlato


Buona, direi molto buona, la partenza della campagna elettorale dell'Arcobaleno, con il comizio di Fausto Bertinotti ieri a Roma. Molto appassionata (continui gli applausi della platea) ma anche molto razionale e anche autocritico sul recente passato di partecipazione al governo. Non un elenco di obiettivi, più o meno mirabolanti, ma una indicazione di lavoro sulla base di un'analisi della società italiana, nella quale anche nei settori (scuola, sanità, pubblica amministrazione, etc) che vanno male, tuttavia al loro interno ci sono forze e soggettività positive che possono contribuire a una politica di risanamento e dare forza alla sinistra. Dunque una linea politica, che già nel corso della campagna elettorale può accrescere forza e consensi.
Insomma un ottimismo della ragione, che solo può dare forza alla volontà. La ragione vede e dichiara che in queste elezioni la vera posta in gioco è la cancellazione delle forze di sinistra e di ogni speranza di cambiare anche di poco lo stato di cose esistente. Ma la stessa ragione ci dice che nella società, nel mondo del lavoro, nella cultura ci sono forze che possono impedire questa deriva, che possono dar vita a una controffensiva, dopo la dura sconfitta che il mondo del lavoro ha subito in questi ultimi decenni.
E così anche la sacrosanta polemica nei confronti del Partito Democratico (non possono stare insieme l'operaio della ThyssenKrupp e il presidente della Federmeccanica) si intreccia con un messaggio positivo: un'affermazione elettorale della sinistra contribuirebbe a invertire o almeno fermare la deriva a destra del Partito Democratico. Insomma il voto veramente utile è quello all'Arcobaleno. Un'affermazione dell'Arcobaleno - quasi un "sic vos, non vobis" - frenerebbe la deriva di un partito ultramoderato (il Pd) nel quale ancora tanti sono i compagni.