mercoledì 5 marzo 2008


Repubblica 5.3.08
L'ex vice dell'Antimafia escluso dalle liste del Pd
Lumia: "Sono preoccupato ora resto senza protezione"
"Veltroni aveva avuto parole di stima per me Ma nella politica il tema della lotta alla mafia non è ancora una priorità"
di Massimo Lorello

PALERMO - «Sono preoccupato per l´isolamento che può calare su quanti in Sicilia si battono contro la mafia». Escluso dalle liste del Pd, il vice presidente della commissione Antimafia, Giuseppe Lumia, più che sull´amarezza per una bocciatura «assolutamente inaspettata», si sofferma sugli effetti che questa, a suo dire, potrebbe determinare: «Casi come il mio sono sempre stati tutelati con una copertura istituzionale. Nella storia della lotta alla mafia, le protezioni più efficaci sono arrivate soprattutto grazie al Parlamento. Rischia di non essere più così».
Perché non le hanno dato la deroga per candidarsi?
«Perché nella politica italiana il tema della lotta alla mafia non è ancora considerato una priorità. Eppure il Pd in precedenza aveva mostrato grande attenzione. E lo stesso Walter Veltroni, nelle sue visite in Sicilia, ha avuto parole di stima senza precedenti nei miei confronti».
Veltroni però oggi dice di essere refrattario all´idea «che ciascuno consideri se stesso l´antimafia».
«Veltroni ha ragione a parlare di lotta collettiva. Ma a maggior ragione è importante tenere conto di chi su questo tema si batte da quando ha iniziato a fare politica, anche se ciò ha significato ricevere minacce pesantissime e correre rischi elevati».
I vertici del Pd sembra vogliano nominarla responsabile del partito per la lotta alle mafie. Cosa c´è di vero?
«È possibile, valuterò il da farsi. Ma non ne faccio una questione personale: il punto centrale resta come dare voce e rappresentanza anche in Sicilia a quel grande progetto di innovazione che Veltroni sta realizzando nel resto del Paese».
Ritiene possibile un suo rientro in extremis il lista?
«Devo ancora parlare con Veltroni».
Italia dei valori ha speranze di ingaggiarla?
«Sono un dirigente del Pd e voglio restare qui. Tuttavia, pure Italia dei valori ha un progetto legato al Partito democratico».
E la guida dell´Antiracket?
«Per ora, solo un´ipotesi».

l'Unità 5.3.08
Giuseppe Lumia. Polemico il leader dell’antimafia non ricandidato: il problema che pongo prescinde dal mio nome. Non si batte in questo modo un sistema di malaffare
«Così il rinnovamento del Pd si ferma in Sicilia»
di Enrico Fierro

Peppe Lumia, una vita a occuparsi di mafia. Ora è fuori dalle liste. “Un errore non candidarlo”, dice Anna Finocchiaro. “Ha fatto più di due legislature”, replicano dal loft veltroniano. “La lotta alla mafia è una pratica e non una persona. Penso che Lumia verrà a lavorare con noi, è un amico”, promette Veltroni. Intanto lui, Giuseppe Lumia, non risponde al telefono. I capi del Pd ieri lo hanno cercato inutilmente.
Onorevole, nel prossimo Parlamento ci sarà Totò Cuffaro, l'uomo che festeggia a cannoli e rosolio una condanna a cinque anni, e lei no. E' questo il rischio?
“Effettivamente questo rischio c'è, vedremo nelle prossime ore cosa succederà, se ci saranno dei ripensamenti”.
Se il Pd non dovesse candidarla, sceglierà altre liste, altri partiti?
“In questo momento sono interessato al grande progetto del Pd. Veltroni è riuscito a mettere in piedi una grande innovazione che ha raggiunto e scosso le fondamenta del Paese, sia nella società che nella politica. Mi dispiace che una volta arrivati in Sicilia questo grande progetto si blocchi. E' un destino amaro: il rinnovamento si ferma sempre alla punta dello Stretto, viene frenato, storpiato. Il mio impegno di queste ore è salvare questo progetto, fare in modo che viva anche nelle candidature e che sia in grado di tenere insieme legalità e sviluppo.
Si candiderà con Di Pietro?
“Per ora sto ponendo un problema che prescinde dalla mia persona e forse anche dalla mia candidatura. In Sicilia abbiamo un sistema di potere che è entrato finalmente in crisi. Un sistema che fa perno sulle collusioni mafiose, sulle burocrazie corrotte, sul clientelismo di massa e che è in profonda difficoltà, c'è una domanda di cambiamento che mai si era vista. Mi riferisco al mondo dell'impresa e della produzione, alle università, alle associazioni. Ecco, io sto lavorando perché questa domanda di cambiamento trovi una risposta nella politica e abbia una possibilità di riversarsi nelle istituzioni”.
Nella lista al Senato del Pd c'è Vladimiro Crisafulli che nel 2001 parlava amabilmente con un boss di Enna, tale Bevilacqua. Nulla di penalmente rilevante, però...
“Questa candidatura è una cattiva novità che ho sempre combattuto secondo principi di etica politica. Non c'entra niente il dato penale, peraltro risolto con un richiesta di archiviazione da parte del magistrato, parlo delle enormi responsabilità politiche. Contesto questa candidatura, la combatto anche e soprattutto nella sua idea di fondo, nel modo di praticare la politica, nel suo rapporto con le istituzioni, nell'idea che si ha della Sicilia e del suo futuro. E continuerò a combatterla. Il Pd in Italia sta riformando la politica. Ma in Sicilia...”
In Sicilia?
“C'è questo meccanismo, l'isola la si considera un mondo a parte, spesso ci si arrende di fronte alla possibilità di promuovere una classe dirigente in grado di coniugare legalità e sviluppo. C'è una subalternità delle classi dirigenti siciliane verso Roma e i partiti centrali, i quali spesso lasciano mano libera ai vari potentati sul territorio. Tutto ciò è una palla al piede che impedisce la creazione di una classe dirigente moderna”.
Aspirazione difficilmente conciliabile col fatto che Totò Cardinale lascia il posto in Parlamento a patto che venga candidata sua figlia?
“Che dire? C'è una sfida tra innovazione e un panorama di candidature negative, contestate in Sicilia anche da quel mondo moderato che guarda con simpatia al Pd. Bisogna cambiare subito rotta”.
Onorevole, ha sentito Veltroni?
Ho fiducia in Walter, ma in Sicilia deve avere lo stesso coraggio che sta dimostrando sulle questioni del Nord, e lo stesso coraggio che ha avuto in Calabria e in Campania, insomma è necessario che anche sulla Sicilia faccia un investimento profondo e volti pagina sulle candidature”.
Lei ha fiducia che tutto ciò avvenga e che in Sicilia non vinca l'eterno gattopardo?
“La mia non è una fiducia statica, ma dinamica ed è frutto di impegno quotidiano, di lotta, di programma e di progetto. Sto lavorando perché il Pd dia risposte serie anche con le candidature a quella Sicilia del cambiamento che è frastornata ed ha bisogno di un messaggio forte”.

l'Unità 5.3.08
Ruffolo: il Pd è di sinistra perché vuole l’uguaglianza
di Bruno Gravagnuolo

«Non amo la dizione “centrosinistra”. Preferisco dire sinistra se parlo di Pd, e sinistra e destra, se parlo di politica». È netto Giorgio Ruffolo, economista, presidente del Cer, riformista doc, e come lui dice «di sinistra». Ma in che senso? Nel senso della chiarezza certo: contro il trasformismo. E poi «per» una certa sinistra: quella che assume lo sviluppo come fine, nell’equità e nelle compatibilità ambientali. E senza dover «stabilire a priori natura pubblica o privata delle imprese». Vale a dire, anche le grandi imprese private devono funzionare «come istituzioni volte al benessere generale». Ecco, per Ruffolo il Pd «di sinistra» e «di programma» deve stare in questa ottica. Riscoprendo in chiave non statalista «il ruolo anticiclico dello stato», come ha scritto Scalfari. Senza impiccarsi ai parametri di Maastricht, pur dentro il 3% del deficit...
Professore, il Pd è solo riformista? Riformista di centrosinistra, come Veltroni ha precisato dopo l’intervista al «Pais»? O è meglio definirlo di sinistra?
«Meglio uscire dai termini astratti. Essere di sinistra o di destra è un approccio alla politica, non un fatto semantico. La divisione passa tra chi insegue il mutamento nel senso dell’eguaglianza, e chi preferisce l’ineguaglianza. Ma, diceva Bobbio, il discrimine non è la pura “innovazione”. Da tempo ormai anche i conservatori innovano».
Approccio classico alla Bobbio. Ma quale eguaglianza?
«Eguaglianza come stella polare della sinistra. Non egualitarismo, che per Tocqueville conduce alla servitù, bensì una tendenza. E, per una politica di sinistra, ciò significa diminuzione delle disparità e delle ingiustizie. Personalmente critico il concetto di “centrosinistra”. Come dice Michele Salvati, non esiste un territorio politico di centrosinistra. Così come non c’è un’Italia centrosettentrionale o centromeridionale. Ci sono il nord e il sud, il meridione e il settentrione, destra e sinistra. Ciascun polo va declinato nelle sue gradazioni. Sinistra più radicale o più riformista; e destra più reazionaria o più moderata».
Sicché lei manterrebbe la qualifica di sinistra per il Pd?
«Certo, è utile, e le parole a questo servono. In politica c’è una gamma che va da un punto a un altro. Meglio caratterizzare quei due punti in modo netto, senza tralasciare le gradazioni»
Per esempio, “meno tasse su lavoro e produzione” rientrano nella sua accezione di “sinistra”?
«In una sinistra riformista il problema non si risolve con il più o il meno, ma con soluzioni equilibrate. Le tasse che servono per i servizi pubblici vanno finanziate al minimo prezzo e con il massimo rendimento. Mercato e stato? Ancora una falsa dicotomia. L’economia di un paese moderno si contraddistingue per l’armonia tra queste polarità. E mercato e stato devono integrarsi in una prospettiva equilibrata, a beneficio dell’interesse generale. In Italia la pressione fiscale è troppo alta, troppo squilibrata e ingiusta. Genera risultati inefficienti. Meglio che si paghino meno tasse, meno tasse per ciascuno. Ma che ciascuno le paghi, e che il loro impiego sia mirato ed efficiente»
Tutto questo, visto dalla sua sinistra, in che direzione deve andare? Sviluppo, programma, piena occupazione, non sono termini a lei cari?
«Mi sono cari e restano. Ma il riformismo è il massimo di benessere per il massimo della popolazione, come sapevano i vecchi utilitaristi. Significa: certezza dei bisogni fondamentali, e il massimo di occupazione possibile. Per chi vuole lavorare. E ancora: servizi al minimo costo, e pubblica amministrazione con produttività elevata. Il che oggi non è. Insomma, il buon riformismo tende all’equilibrio»
La “leva pubblica” mantiene una funzione attiva in questo quadro, o è solo un regolatore notturno?
«Intanto non parlerei più di leva pubblica. Per evitare di evocare lo stato che leva dalle tasche di qualcuno, per dare a qualcun altro. Parlerei di regolazione, programmazione, governo dell’economia..»
L’impresa pubblica non serve più? Anche se l’Eni, gestisce le grandi risorse energetiche e partecipa a grandi progetti in Venezuela o all’est con il gas?
«L’Eni viene dagli anni 60, che furono cruciali. E però non conta che l’imprese inalberino il marchio pubblico dei “Sali e Tabacchi”, per dirla con Turati. Ieri come oggi conta che le imprese, specie quelle grandi, svolgano funzioni pubbliche, anche se in mani private. A Davos un imprenditore privato lo ha detto: le grandi imprese si rivolgono al benessere generale e su questo vanno misurate. Acquisizione teorica importante, che va oltre il profitto di corto respiro, finanziario. Non nuova in verità, basti pensare a Galbraith. È questo il criterio con cui muoversi: imprese-istituzioni, non case da gioco. Non importa siano private. Purché le si indirizzi, con vari strumenti di politica economica, sui beni pubblici. Diceva Marx: non è necessario che un direttore di orchestra possieda gli strumenti per dirigere. E lo diceva nel 1860, riferendosi ai manager. Che non possedevano i mezzi di produzione ed erano diversi dai capitalisti proprietari»
Il punto è la direzione dell’accumulazione: benessere collettivo o speculazione...
«Ovviamente. Ma lo stato ha ogni mezzo per contrastare ed orientare le tendenze, cominciando col far pagare le tasse...».
Pd e candidature. Dentro le liste, Calearo, Ichino, l’operaio della Thyssen, Colaninno. Trasformismo elettorale o invenzione egemonica tipo “patto dei produttori”?
«Vorrei vedere in queste scelte il lato buono, non l’intento elettoralistico, che mi parrebbe miope e controproducente. Chi è motivato da valori moderati non tarderà a confliggere con il contesto di cui è ospite. Diciamo che c’è una maggiore apertura verso ceti in precedenza considerati conservatori e ostili all’eguaglianza. Alla quale fa riscontro un’analoga apertura. Ceti imprenditorali in fuga dalla destra, che hanno inteso che anche il profitto privato è impossibile senza soddisfare obiettivi pubblici di eguaglianza e giustizia. L’augurio è che sia un’impresa comune, nel segno di un’egemonia della sinistra riformista, e non del trasformismo».

l'Unità 5.3.08
«Feti prematuri, no all’accanimento terapeutico»
Il Css fissa i paletti: rianimati ma anche accompagnati alla fine. No a limiti d’età e privilegiare il consenso dei genitori
di Anna Tarquini

RIANIMARE sempre i feti prematuri, privilegiando la vita, ma se questi non rispondono alle terapie vanno accompagnati verso la fine. Il Consiglio superiore di sanità, organo consultivo del ministro, fa un passo oltre i colleghi di Bioetica e rimette al centro del problema l’arbitrio dello scienziato e in parte anche quello dei genitori. E dice che non ha senso fissare un’età gestazionale a partire dalla quale il medico è tenuto a curare il feto, anche in aborto terapeutico, anche contro il parere dei genitori, come ad esempio le famose 22 settimane fissate dai ginecologi delle quattro università romane in un documento che ha aperto le polemiche. L’età e il dovere di rianimare deve essere valutato dal medico anche in rapporto alla capacità reattiva. E quanto all’ipotesi che i genitori si oppongano - fermo restando il dovere del medico di rianimare - si deve privilegiare sempre il consenso e fornire la massima informazione.
Quarantacinque voti a favore, un astenuto. Il parere del Css che era stato richiesto dal ministro della Salute Livia Turco il sette gennaio scorso proprio perché i progressi della medicina avevano reso necessaria una maggiore chiarezza sui comportamenti deontologici davanti ai neonati molto prematuri. Quando rianimare? Quando lasciarli andare? E soprattutto c’era un’età gestazionale da fissare visto che la medicina consente anche ai più prematuri di vivere, ma che poi i posti rianimazione sono pochi e si rischia di fare scelte sbagliate?
Ecco, tutto era nato dagli stessi medici che avevano chiesto linee guida. Il trend di crescita dei parti pre-termine registrato negli ultimi anni ed i casi di sopravvivenza di feti anche molto piccoli dopo interventi di interruzioni di gravidanza imponevano e impongono un ripensamento. E l’assistenza per feti di età gestazionale «limite» (cioè anche sotto la 22esima settimana) accende i riflettori sul problema delle strutture: appena 120 terapie intensive neonatali su tutto il territorio nazionale. «Se salvo uno che ha bassa probabilità di farcela - dicevano i medici - posso rischiare di non avere posto per uno che ce la farà». Poi però - grazie al documento pubblicato dai ginecologi che voleva la rianimazione degli aborti anche contro il parere dei genitori - la polemica si era spostata verso l’aborto e la rianimazione dei feti in aborto terapeutico. Appena 4 giorni fa il Comitato di Bioetica aveva poi sorpreso con un parere molto duro: «Cure e rianimazione per il feto nato fortemente prematuro e che presenta segni di vitalità, anche se i genitori dicono “no”».
Ieri, il Consiglio superiore di sanità, ha messo i paletti. Un documento chiaro che offre - a leggerlo bene - anche chiare indicazioni a chi in futuro dovrà occuparsi e legiferare sul tema più delicato dell’eutanasia. Accanimento terapeutico mai, si alle cure compassionevoli e all’idratazione e all’alimentazioni compatibilmente con il quadro clinico, accompagnamento alla fine vita. E soprattutto niente limite d’età gestazionale e, in caso di conflitto tra le richieste dei genitori e la scienza, «la ricerca di una soluzione condivisa andrà perseguita nel confronto esplicito ed onesto delle ragioni esibite dalle parti, tenendo in fondamentale considerazione, la tutela della vita e della salute del feto e del neonato».

l'Unità 5.3.08
Gaza, radiografia di una strage
di Umberto De Giovannangeli

Iyad e Jacqueline Muhammad Abu-Shbak. Erano sorella e fratello. Avevano 14 e 12 anni. Sono morti il primo di marzo a Jabaliya «mentre assistevano dietro i vetri della finestra di casa ai combattimenti». Muhammad al Buri. Aveva appena sei mesi. È morto nel bombardamento della sua abitazione «colpita nonostante non fosse un obiettivo militare».
Salwa e Samah Zedan. Erano sorelle. Aveavano rispettivamente 13 e 17 anni. Il 2 marzo sono state uccise nella loro casa alla periferia di Jabaliya. La famiglia Attalla è stata colpita da un missile di 1 tonnellata sparato da un F-16 israeliano.

IYAD, Jacqueline, Muhammad, Salwa, Samah. Sono alcuni dei bambini uccisi nell’offensiva militare israeliana a Jabaliya, nord di Gaza. Non sono solo numeri, sono volti, storie, giovani vite spezzate. Ricordarli è un modo per onorarne la memoria e perché un silenzio assordante non cali sulla tragedia di Gaza
Il missile ha distrutto la loro casa di due piani, alla periferia di Jabaliya, causando la morte di quattro membri della famiglia, tra i quali il piccolo Thabet, 11 anni. Zahira, 23 anni, è stata colpita al cuore da un proiettile mentre stava preparando la colazione ai suoi bambini. Un carro armato ha colpito la casa della famiglia Okel, uccidendo un bambino di 3 anni e la sua sorellina di 9. Quattro bambini colpiti da un razzo israeliano il 28 febbraio mentre giocavano a pallone alla periferia di Jabaliya. Radiografia di un massacro: quello che ha segnato il campo profughi di Jabaliya, nord di Gaza, investito per sei giorni dall’offensiva militare israeliana, nome in codice «Inverno caldo». In passato, l’Unità ha dato conto dell’angoscia, della paura, del trauma che scadenzano la quotidianità dei bambini israeliani di Sderot, la città frontaliera investita ogni giorno, da sette anni, da un martellante lancio di razzi Qassam. Oggi vogliamo raccontare la sofferenza di altri bambini e di una popolazione civile di 1milione e 400mila persone, quella della Striscia di Gaza, sottoposte ad una sofferenza senza fine. Radiografia di una tragedia, raccontata attraverso i rapporti, le testimonianze, i dati di associazioni umanitarie che non hanno mai taciuto di fronte agli attacchi contro civili israeliani, negli anni dell’«Intifada dei kamikaze», e non hanno mai lesinato parole di condanna per gli attacchi missilistici contro Sderot, Asqhelon, il sud d’Israele.
Organizzazioni come «Btselem», l’associazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei Territitori. «Secondo i dati in nostro possesso - afferma Sarit Michaeli, direttore della comunicazione di Btselem - i morti palestinesi sono stati in sei giorni di scontro 111: fra questi 56 erano civili non coinvolti in azioni di combattimento, e 25 di questi erano minorenni». «Btselem» accusa le forze armate dello Stato ebraico di aver violato le norme di guerra che proibiscono di colpire obiettivi militari quando questi attacchi, per la vicinanza ai centri abitati, rischiano di provocare un numero sproporzionato di vittime anche fra i civili.
I dati di «Btselem», per ciò che concerne i minorenni uccisi nei sei giorni di combattimenti, trovano conferma nel rapporto dell’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia. L’Unicef evidenzia che «la Convenzione sui diritti dell’infanzia sottolinea la necessità di prendere tutte le misure possibili per garantire la protezione e assistenza ai bambini colpiti da un conflitto armato. Oltre a quelli che ne sono vittime dirette, tutti i bambini sono colpiti dall’impatto terrificante di questo conflitto. I bambini costituiscono oltre la metà della popolazione di Gaza e subiscono l’urto della crisi». Bambini che «soffrono già a causa di una serie di restrizioni, fra cui il blocco della maggior parte delle derrate imposto sin dal giugno 2007». L’ultimo ciclo di uccisioni e distruzione, rimarca a sua volta Amnesty International, «giunge mentre il milione e mezzo di abitanti di Gaza sta soffrendo una crisi umanitaria a seguito dei sempre più rigidi blocchi imposti da Israele». Gli ospedali e le strutture sanitarie, già alle prese con la mancanza di elettricità, carburante, attrezzature e parti di ricambio stanno lottando per fare fronte alla nuova ondata di feriti causata dall’offensiva israeliana. «Coi confini di Gaza sigillati - rileva il direttore del Programma Medio Oriente e Africa di Amnesty, Malcom Smart - molti pazienti che hanno bisogno disperato di cure mediche non disponibili in loco, non possono essere trasferiti in ospedali all’estero e rischiano di perdere la vita» Tra questi, c’è Ahlam Abu Auda, 13 anni. Intisar Abu Auda, 48 anni, mamma di Ahlam racconta: «Cinque dei miei figli sono morti perché malati, non hanno potuto ricevere cure adeguate. Ora, il mio timore più grande e che, a causa dell’assedio, possa perdere anche la sesta». «L’assedio di Gaza - dice la piccola Ahlam - ha peggiorato molto le mie condizioni, e forse ha accelerato i tempi in cui troverò la morte. Basta un black-out elettriche, le macchine per la dialisi si fermano...». Solo negli ultimi due mesi - ricorda ancora Amnesty - le forze israeliane hanno ucciso quasi 200 palestinesi a Gaza, un terzo dei quali erano civili disarmati ed estranei agli scontri. Altre centinaia di persone sono rimaste ferite, molte delle quali in modo permanente. Nello stesso periodo, un civile israeliano è rimasto ucciso e diversi altri sono stati feriti dai razzi lanciati dai gruppi armati palestinesi di Gaza, che hanno colpito Sderot e altre zone del sud di Israele. La tragedia di Gaza è in una quotidianità che impone solo un obiettivo: la sopravvivenza. Sempre più difficile. Sempre più dipendente dagli aiuti umanitari. Oggi, rileva un recente rapporto del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam), il 70% della popolazione di Gaza è priva di sicurezza alimentare e la grande maggioranza dipende dall’assistenza dell’Onu per i bisogni basilari.


l'Unità 5.3.08

Marquez, 80 anni con gli occhi di Macondo
di Maurizio Chierici

LA FESTA. Gabito, come lo chiamano gli amici, festeggerà domani il suo compleanno. E anche se la sua fierezza di narratore che non abbassa mai la testa sembra sbiadita dalla malattia, è difficile pensare a lui come ad un intellettuale disimpegnato

Ottant’anni è un segno che gira il calendario, ma nel calendario di García Márquez i segni sono tanti: sempre nascosti, vita da orso. Le sole parole pubbliche inseguono letteratura, cinema; è tornato al giornalismo. Ricordi, rimpianti, mai ricette politiche anche nelle battaglie per i diritti umani. Amico polemico di Castro, non ha scritto una riga in favore di Castro: prende in giro chi lo racconta in modo che ritiene sbagliato. «E mi fermo lì». Mai moglie e i due figli ne hanno diviso il trionfo. Mercedes è una compagna nell’ombra. Solo Mario Vargas Llosa - una volta - ha acceso la ribalta sulla vita privata dell’amico-nemico. Pugilato a Barcellona, Gabo con l’occhio nero. Malizie che i biografi recuperano per dare un brivido alla collezione del niente.
Vargas Llosa si sarebbe vendicato del Gabo perché faceva il filo alla moglie provvisoriamente abbandonata per una fuga d’amore. Ma non era gelosia sentimentale: quel Nobel «rubato», piuttosto. Il gran borghese della letteratura latina ancora lo aspetta. Mercedes è sposata con Gabo da 48 anni. Adora vestirsi di bianco. E scioglie il bianco in ogni stanza: moquette, pareti, librerie. Nella casa di Bogotà, nella casa di Cuernavaca, Messico, dove Gabo era scappato minacciato dai califfi della «Violencia», politica e coca durante una guerra-non guerra civile. Povera Colombia che non cambia mai. Bianca e luminosa anche la casa messa in ordine a Cartagena accanto al monastero di Santa Clara, teatro del suo ultimo barocco: una novizia muore adolescente nei giorni della peste, ma i cappelli continuano a crescere un secolo dopo l’altro. Oggi il monastero è diventato l’albergo Santa Clara. Affitta stanze a prezzi millimetrati. Le finestre che si affacciano sulla terrazza di García Márquez costano dieci dollari in più. Il depliant invita gli ospiti ad aprire le finestre alle 7 del mattino perché «alle sette del mattino lo scrittore già lavora ed è possibile spiarne i momenti della creazione». Lavoro protetto da siepi verdi, grandi ombrelli. Il fratello Eligio ripete con malinconia: «Appena la salute lo permette, Gabo ritorna. Nostalgia della terrazza. All’alba si incanta ad aspettare il sole guardando il mare». Ormai vive a Città del Messico prigioniero di quel male. Dialisi e medici attorno. Il grande ospedale si è trasformato nella casa bianca dalla quale gli riesce difficile allontanarsi.
Il privato possibile da raccontare è tutto qui.
Gli anniversari ne hanno ossessionato gli ultimi mesi. Venticinque anni fa il premio Nobel e i quarant’anni di Cento anni di solitudine illuminano ogni piega del passato. Brindisi, discorsi, riflettori. Adesso gli ottanta ai quali è arrivato «resistendo per continuare a scrivere». Per quel che lo conosco, lo immagino diviso tra la vanità del sentirsi celebrato e il fastidio per chi ne ricorda la vita inquieta, primo scrittore ad aver aperto all’Europa distratta la letteratura latina. Letteratura che ha cambiato strada. Dalle mulatte sensuali di Jorge Amado a La casa verde di Vargas Llosa, eroi contadini di Carlos Fuentes, viaggi, mare e foreste del Gabbiere di Alvaro Mutis: una generazione ha raccontato le radici misteriose di un continente che ha cambiato radici. La solitudine senza misteri è ormai urbana. I nuovi narratori esplorano le città. E gli amati romanzi si perdono in un limbo quasi sconosciuto ai lettori dell’altra America come lo erano per i lettori d’Europa i protagonisti surreali di Cento anni di solitudine. «Surreali - spiega Gabo - perché l’esilio politico nella Parigi del surrealismo ha aperto un mondo che non avevo sospettato. Parigi mi ha dato la prospettiva dell’America Latina. Ho capito di non essere latino-americano, ma colombiano dei Caraibi. Sono un Caribe che finalmente capisce qual è la cultura che accende la nostra fantasia».
La giovinezza è lo spazio nel quale si formano i caratteri ed è la giovinezza a segnare in modo diverso le biografie degli scrittori latini che ci hanno fatto innamorare. Il segno di Vargas Llosa ha il profilo salottiero del nipote del prefetto di Piura, deserti bollenti del nord cileno. La fama ne ha allargato le soffici abitudini dell’adolescenza. Alvaro Mutis è un immaginifico dalle tenerezze politiche che adorano l’eccentricità, ultimo intellettuale dell’altra America a rimpiangere i sovrani spagnoli.
Carlos Fuentes è cresciuto nelle ambasciate del padre ed ha scritto del suo Messico scamiciato quando era ambasciatore a Parigi e continua a scrivere nella mansarda bomboniera, Londra bianca del ’700. Gli è impossibile penetrare i nuovi caratteri delle folle urbane e sceglie l’indifferenza. «La politica non ha ormai bisogno dei consigli degli intellettuali. I tempi sono cambiati: televisione, radio, giornali, internet fanno sapere alle folle cosa può succedere e gli allarmi degli scrittori tornano nell’ombra».
Gabo viene dalle retrovie: Aracataca, paese inventato dalla United Fruit, scalo ferroviario per banane. Ha cambiato nome per dare un senso alla polvere che lo avvolge come un temporale. Ed è diventato Macondo indossando il nome dietro il quale Gabo ne aveva nascosto la geografia in Cento anni di solitudine.
A dare retta alle statistiche che misurano l’età media di sopravvivenza, 80 anni è il compleanno ancora giovane di una vecchia avviata alla decadenza. Ma la vecchiaia è la nebbia che le bizzarrie del vento sciolgono e ricompattono, va e viene: furori che non si spengono, inerzie che addormentano. Comincia l’indifferenza. Non rinnega il passato, ne sfugge il confronto con pagine a volte sorprendenti. Tre settimane fa, attorno al tavolo della cena romana, Yolanda Pulecio de Betancourt, madre della Ingrid prigioniera Farc, ancora commossa per l’incontro con Benedetto XVI, confessa una disillusione che evita di rendere pubblica nel pellegrinaggio da un paese all’altro per salvare la figlia. «Sono andata in Messico a parlare con Gabo, amico del cuore. L’ho pregato di usare fascino e amicizie per aiutare la liberazione della mia ragazza. Ascoltva con occhi stanchi. Due parole ed ha cambiato discorso: “Non so cosa fare. Non conosco nessuno”». Ma il vento scioglie e ricompatta le nebbie dell’indifferenza: Yolanda continua a sperare che Gabo ci ripensi. Una madre non si arrende mai.
Racconto a Yolanda della madre di Gabo: come il Gabo d’antan non si sarebbe arresa. Quando ho incontrato Luisa Santiaga aveva 84 anni: minuta, gentile, ma un filo invisibile d’acciaio negava la fragilità. Capelli bianchissimi. L’impalcatura dei pettini li raccoglieva nell’acconciatura di un tempo perduto. Non ricordava la Fermina Daza, protagonista dell’Amore ai tempi del colera, cronaca familiare della famiglia Márquez. A Cartagena mi apre la porta Rita, quinta di otto figli. Ma la signora si agitava impaziente: «Andiamo da te. Ho solo due stanze. Staremo più comodi». Pochi passi in là, abbracci per strada: «Non ero la ragazzina che racconta Gabito nel romanzo. Avevo 20 anni e sfogliavo e sfogliavo un libro su una panchina dei giardini di Arataca quando Gabriel Eligio è passato. Mi ha guardata e ho incontrato i suoi occhi. Innamorata per tutta la vita».
Arriva un’altra figlia, Ligia: porta le foto del matrimonio contrastato dal padre di Luisa-Fermina: immaginava per l’unica erede un marito solenne, non un piccolo telegrafista. Le immagini sono appena quattro. Scatti nella luce incerta del giorno che nasce. Luisa Santiaga apparte non solo felice: lo sguardo sembra stupito mentre Gabriel Eligio Márquez si pavoneggia con la pomposità di un trigueno elegante. «Trigueño» viene da trigo, grano. Pelle dorata del giovanotto arrivato dal Sucre per pestare il tasto del telegrafo. Eligio non piace al colonnello Nicolas Ricardo e quando la figlia confessa di aspettare un bambino, il colonnello pretende due cose: matrimonio nascosto alle cinque del mattino, chiesa senza ospiti, due zii per testimoni; pretende soprattutto che l’erede debba nascere e crescere nella sua casa.
E il 6 marzo 1928 viene al mondo Gabriel García, nome dovuto al rispetto del padre ma ingombrante sulle labbra di chi lo chiama. Diventa Gabo, Gabito, gli amici gli si rivolgono ancora così. 80 anni dopo la fierezza di un narratore che non ha mai abbassato la testa, appare sbiadita come succede ad una certa età, malattie che infiaccano, giorni che si accorciano. Ma nessuno è proprio sicuro che Gabo, Gabito, Gabriel García Márquez, sia disposto alla pensione dell’intellettuale disimpegnato, come Carlos Fuentes, per esempio...

l'Unità 5.3.08
Chi ascolta i bambini inizia a curarli
di Claudio Foti*

UN CONVEGNO a Roma, promosso da Luigi Cancrini, si occupa di «Infanzia negata», ovvero di come la violenza degli adulti e la loro indifferenza verso i più piccoli mini la loro possibilità di crescere e vivere

In base alle ricerche retrospettive sull’abuso in età infantile e adolescenziale, svolte in tutte le parti del mondo emergono cifre impressionanti sull’impatto traumatico con la sessualità dei «minori» prima dei 18 anni: dal 7 al 15 % della popolazione maschile prima dei 18 anni, dal 10 al 35% di quella femminile. Se si proiettano sulla popolazione italiana i dati emergenti da un’indagine dell’Istat su un campione di 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni si può dedurre il dato sconvolgente, in base a cui 6 milioni e 700 mila donne hanno subito in Italia episodi di violenza fisica e sessuale nel corso della loro vita. 5 milioni di donne hanno subito almeno un episodio di violenza sessuale e 1 milione e 400 mila possono essere le donne che hanno subito una qualche forma di violenza prima dei 16 anni. Una ricerca dell’Istituto degli Innocenti ha permesso di stimare che il 5, 9% di tale popolazione femminile ha patito una qualche forma di abuso sessuale, il 18,1% ha esperito sia eventi di abuso sessuale che di maltrattamenti, mentre il 49, 6% ha vissuto una qualche forma di esperienza sfavorevole che ha danneggiato l’evoluzione infantile e adolescenziale. Le vittime tendono per lo più a rimuovere o a espellere dalla mente e non già a comunicare la violenza subita. Una buona parte di queste violenze non sono mai state esplicitate a nessuno nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Solo una ridottissima percentuale (2, 9%) ha denunciato all’autorità giudiziaria l’abuso sessuale subito. La maggior parte degli abusi rimane chiusa dal silenzio e dal senso di colpa della vittima, avvolta nel segreto e nell’imbroglio, in una sintomatologia che perde sempre più i nessi con le sue cause.
La violenza sui bambini è il risultato di una grave ostruzione della comunicazione sociale. I blocchi sono due: le vittime fanno fatica a chiedere aiuto in forme esplicite, gli adulti che li circondano fanno resistenza all’ascolto. Tutto questo va contrastato, ma innanzitutto capito: il contenuto che dovrebbe essere comunicato concerne un trauma e il trauma presenta un carattere talmente penoso e sconvolgente che non risulta interamente pensabile da parte della vittima. Di più: è un’esperienza che tende a travalicare non solo la capacità di ammissione da parte dell’autore, ma anche la capacità di percezione del testimone e la capacità di riconoscimento culturale della comunità e, spesso, della stessa comunità scientifica.
La negazione è intrinseca alla violenza. Non esiste una guerra o sterminio senza un sistema di propaganda impegnato a dimostrare la legittimità di quegli eventi o a sostenere che non si ha a che fare con guerra e sterminio, bensì con iniziative nobili e necessarie. Non esiste storia di una genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare che a ben vedere genocidio non c’è stato. Il furto di verità accompagna sempre la violenza sul bambino. L’abuso si produce in due tempi: c’è il tempo dell’azione in cui si consuma il coinvolgimento sessuale e c’è il tempo della negazione nel quale l’adulto abusante trasmette al bambino il messaggio implicito od esplicito Non devi accorgerti che questa è violenza…: «Non è abuso, sono coccole… e anche a te piace!», «Non è abuso, ti sto facendo scoprire un gioco meraviglioso…», «Non è abuso, tutti i padri lo fanno…».
Nello scenario dell’abuso c’è un autore della violenza che attraverso la minaccia e il diniego punta a isolare la vittima dalle comunicazioni con il contesto sociale; c’è poi un bambino che non riesce a porsi come emittente efficace della comunicazione per la presenza di pesantissimi ostacoli esterni ed interni alla rivelazione; c’è infine un adulto, potenziale ricevente delle comunicazioni del bambino che spesso fa barriera all’ascolto delle emozioni e quindi lascia cadere di fatto le richieste di soccorso del bambino e i suoi tentativi di individuare e mettere alla prova un interlocutore adulto meritevole di fiducia.
La violenza sessuale sui bambini non avrebbe modo di prodursi in modo continuativo se non ci fossero adulti perversi interessati a costruire un cordone di silenzio attorno alle loro prede, se non ci fossero piccole vittime, incapaci di esplicitare con chiarezza il proprio malessere e, soprattutto, se non ci fosse un ambiente circostante tendente all’insensibilità e all’indifferenza e scarsamente disponibile all’ascolto dei bambini. Quando ogni comunicazione attorno all’abuso è bloccata, l’abuso sessuale su un bambino diventa «un delitto perfetto», come scrivono Gruyer e altri: viene messa una pesante pietra sopra la verità dell’accaduto e sopra il futuro della vittima.
Delle tre figure fondamentali del dramma del maltrattamento, quella che primariamente può e deve mettersi in discussione è quella dell’adulto che può diventare testimone soccorrevole del malessere del bambino e non più testimone cieco, sordo e muto di fronte alle svariate forme di svelamento passivo ed attivo dell’abuso. Il primo passo non lo può fare il bambino che si trova in grave situazione di difficoltà, fin tanto che non trova qualcuno che lo aiuti a sbloccare la comunicazione dei propri sentimenti e della propria storia. Né tanto meno il primo passo lo può compiere l’adulto perverso, che è impegnato a nascondere le tracce della violenza. Sono gli adulti che entrano in contatto con il bambino, che devono imparare a mettere i più piccoli nelle condizioni di esprimere il loro disagio, piccolo o grande, i loro problemi piccoli o grandi, riducendo il giudizio, la fretta e aumentando l’accettazione, la disponibilità mentale e di tempo, la vicinanza emotiva. Sono i genitori e coloro che ricevono un mandato sociale e istituzionale per l’educazione, la cura e l’assistenza dei bambini che devono fare il primo passo nell’attivare il circuito positivo della comunicazione attorno al disagio, innanzitutto mettendosi in discussione e riconoscendo la propria difficoltà di ascolto e le proprie componenti d’incompetenza emotiva e relazionale.
Una delle principali cause dell’inibizione della piccola vittima è la vergogna, ovvero la difficoltà a rivelare aspetti di sé lontani dall’immagine ideale che vorrebbe presentare. La vergogna è dovuta frequentemente al fatto di aver svolto - costretto dall’iniziativa seduttiva dell’abusante - ruoli attivi ed eccitanti nel corso dell’abuso. La comunicazione di un bambino che vive una condizione di forte disagio inizia non dalla sua bocca, ma dall’orecchio di chi ascolta, ovvero dalla disponibilità ad un ascolto benevolo da parte di un adulto che si pone come testimone soccorrevole.
Occorre in conclusione aumentare la capacità di ascolto sociale della comunità adulta, contrastando l’indifferenza, l’insensibilità, l’indisponibilità. Solo se noi adulti impareremo il linguaggio della comprensione empatica e dell’intelligenza emotiva, favoriremo il passaggio di tante vicende di abuso sui bambini dall’impensabilità e dall’indicibilità, all’orizzonte della comunicazione e della protezione, dall’oscurità del segreto alla prospettiva di un delitto, che non sarà più «perfetto», ma che potrà trovare ascolto, cura e riparazione.
*Presidente del centro studi Hansel e Gretel

Repubblica 5.3.08
Benny Shanon ipotizza il consumo di bacche dall´effetto stupefacente dietro alcune immagini bibliche
"Il popolo di Mosè usò allucinogeni" bufera su un ricercatore israeliano
Proteste dei lettori sul sito di Haaretz dopo la pubblicazione dello studio
di a.s.

GERUSALEMME - È il momento in cui Mosè sta per ricevere le tavole della Legge. «E vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba - si legge nel capitolo 19 dell´Esodo - tutto il popolo che era nell´accampamento fu scosso dal tremore. Il monte Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parla e Dio gli rispondeva con voce di tuono».
Per secoli laici e religiosi, si sono chiesti dove i compilatori del Libro avessero attinto gli elementi di una così potente descrizione. La risposta, secondo Benny Shanon, professore di psicologia cognitiva alla Hebrew University di Gerusalemme, potrebbe essere più banale di quanto si è finora pensato. In un articolo per la rivista filosofica Time and Mind uscita qualche giorno fa a Oxford, Shanon ipotizza, provocatoriamente, ma non troppo, che quella scena potrebbe essere stata partorita da menti sotto effetto di sostanze allucinogene, facilmente reperibili in natura. Sostanze di cui gli antichi israeliti avrebbero potuto fare uso durante le loro cerimonie religiose. Un trip collettivo, insomma, cui non si sarebbe sottratto neanche Mosè. Shanon ha ricavato questa convinzione - che, ammette il professore, non potrà mai ricevere nessuna sanzione scientifica - comparando la descrizione biblica con le esperienze avute quando, visitando l´Amazzonia, bevve una pozione ricavata da una pianta chiamata "ayahuasca". Nome scientifico: Peganum Harmala, una delicata piantina che produce un fiore bianco a cinque petali, di cui i popoli primordiali dell´America del sud usavano le bacche.
Dopo aver bevuto la pozione, ricorda Shanon, «ho avuto visioni che avevano una connotazione spirituale-religiosa». E se il popolo di Mosè non si fosse a suo tempo trovato nella stessa identica condizione? Lo studioso avanza l´ipotesi che gli antichi israeliti avrebbero potuto imbattersi nel Sinai e nel Negev in due piante simili all´ayahuasca: una è una radice selvatica usata come allucinogeno dalle tribù beduine fino ai giorni nostri. L´altra è la famosissima acacia dai cui tronchi venne ricavato il fasciame adoperato per costruire l´Arca di Noè. Chissà.
La notizia, riportata dal quotidiano israeliano Haaretz, ha scatenato una ridda di reazione fra i lettori. Uno dei commenti più ricorrenti era: «E Shanon, cosa ha fumato prima di scrivere il suo studio?» Il professore di Gerusalemme da parte sua vede segni d´alterazione anche nell´episodio, raccontato nell´Esodo, che ritrae Mosè mentre osserva il cespuglio e d´un tratto gli compare Dio. Mosè guardò, e scorse il cespuglio in preda alle fiamme e il cespuglio non ne fu consumato» si legge. «Il tempo - dice il professore - passa diversamente sotto l´effetto di un allucinogeno e durante quel tempo Mosè sentì la voce di Dio parlargli. «Naturalmente - conclude - non tutti quelli che usano queste piante possono ricevere la Torah. Per questo, bisogna essere Mosè».

Corriere della Sera 5.3.08
Confronti Lo storico interviene nella discussione aperta dal filosofo della scienza sulla sintesi tra Voltaire e Pascal
Ma l'unica fede dell'illuminismo è la ragione
di Giuseppe Galasso

Voltaire e Pascal a braccetto? Per me l'auspicio di Giorello è bellissimo. Da un lato, il brio di un'intelligenza vivacissima e spiritosissima, dalle larghe vedute. Dall'altro, un'intelligenza profonda e trepidante nel considerare che c'è la géometrie, ma anche la
finesse. Divento, tuttavia, un po' più perplesso all'idea di portare nell'ottica «illuministica » un intellettuale di suggestiva taglia critica e filosofica, ma dalla inconfondibile fisionomia di teologo inteso ad altri valori, qual è il papa Ratzinger. E più perplesso ancora divento a sentire di un Gesù «illuminista», perché sanamente ostile al formalismo dei farisei (e anche ai mercanti del tempio). Confesso, poi, che l'idea dello sradicamento di ogni pianta non piantata dal Padre celeste mi preoccupa parecchio. Non si sa mai. I pretendenti alla paternità celeste sono, come si sa, innumerevoli sempre e ovunque. Preferisco di gran lunga il Gesù, dolce e buon pastore, di tanta parte del Vangelo e di tanta arte europea.
In effetti, che cosa spinge l'illuminismo nella sua più autentica motivazione di fondo? Certo, la tolleranza è un suo valore primario, e Giorello lo mette bene in evidenza. Tutti ricordano quel che si insegna (o si insegnava) a scuola come principio illuministico: «non condivido le vostre idee, ma pagherei con la mia vita la vostra possibilità di esprimerle ». Tolleranza? Direi, piuttosto, liberalismo, e tra tolleranza e libertà la distanza è, come si sa, parecchia. E poi: fin dove essere tolleranti? Domanda di sempre, anche senza pensare agli Hitler o ai Pol Pot.
Che c'entra?, mi direte. C'entra, c'entra. C'è il terremoto di Lisbona, un disastro terribile e assurdo, dinanzi al quale non c'è che da prenderne atto. Ma, se lo potessimo impedire, non lo impediremmo? L'illuminista dice subito di sì. Il suo sogno, ma anche la sua certezza, è che tutti i disastri della natura, della salute, della società, dell'ordine politico e morale, della storia possano essere curati mediante l'esercizio della ragione. Perché è in questo principio primo e supremo — la fede nella ragione e nel suo potere, rischiaratore e risolutivo ai fini della felicità umana — l'essenza dell'Illuminismo, il suo carattere più «originale ». E la sua grandezza sta nell'aver fissato il punto che la ragione non è un seme che fruttifichi da sé nelle praterie della storia e dell'esperienza umana. Occorre coltivarla, esercitarla, la ragione. Occorre deporre ogni timore o condizionamento limitativo che impedisca di sentirne e capirne la voce.
Kant, che meglio di ogni altro ne capì ed espresse lo spirito, lo disse in pochissime, stupende parole: l'illuminismo è il coraggio di sapere ciò che la ragione ci dice; è l'uscita dalla minore età in cui vi sono autorità che pensano per noi e ci dettano verità e norme di cui non siamo autori. L'età dell'illuminismo è l'età dell'umanità adulta, maggiorenne, che ragiona e opera in piena autonomia e responsabilità alla luce della ragione. Dimenticare l'illuminismo significa dimenticare non solo la ragione, ma anche quell'autonomia e quella responsabilità.
Il mondo contemporaneo lo ha dimenticato, e lo dimentica, spesso, e ne ha pagato, e ne paga, le giuste pene. Certo, l'illuminismo non basta. E aveva poi le sue distrazioni. Con le armate della Grande Rivoluzione si pretese di portarne i principi là dove li si aspettava con passione e là dove se ne voleva assolutamente fare a meno. Con la crisi dell'illuminismo e del suo mondo, e con la formidabile rivoluzione culturale dell'età idealistica e romantica, la risposta ai problemi che ne nascevano fu vista, però, nella storia, l'altro grande valore che affiancò quello illuministico della ragione. Non ci si rimise, insomma, ai valori pre-illuministici, ma a una più alta forma di ragione. Che anch'essa ha avuto e ha i suoi fasti e nefasti, ma, come l'illuminismo, rimane irrinunciabile nel patrimonio morale e culturale dell'umanità. Al di fuori vi sono altre cose. C'è, ad esempio, la religione, che accetta francamente il mistero come un ordine del cosmo e della vicenda universale. È una scelta legittima e più che umana e rispettabile. Ma al mistero — come ha ben osservato Givone, che questa scelta sostiene — possono rispondere solo l'arte o la fede. O, come diceva Pascal, l'esprit de finesse. La ragione lavora altrove: è un'altra cosa.

martedì 4 marzo 2008

La Stampa 4.3.08
Bertinotti attacca Veltroni: "Calearo un falco degli industriali"
Lo schiaffo del leader di Rifondazione. «Il Pd ha una vocazione neocentrista»
qui

il Riformista 4.3.08
Il Pd copia l'America allontanandosi dall'Europa
Vuole dimostrare che si può fare a meno della sinistra
di Pasqualina Napoletano e Roberto Musacchio


Avete mai visto una campagna elettorale in cui l'attività prevalente dei due principali contendenti è quella di accanirsi contro le formazioni che, per motivi diversi, non fanno parte delle loro coalizioni, piuttosto che concentrarsi nel dimostrare al Paese il carattere alternativo delle rispettive proposte? Tutto questo sarebbe ancora fisiologico se non si fosse arrivati addirittura a darsi una mano reciprocamente con appelli al voto incrociati. Non è forse questa la migliore rappresentazione di quella melassa italiana che rende il Paese vischioso, non competitivo, vecchio e fermo?
Il Partito democratico e quello del Popolo delle libertà stanno preparando reti di salvataggio solide basate su rassicurazioni reciproche. Nessuno, infatti, deve cadere e farsi male. Altro che interesse del Paese! È un grande patto di potere quello che si sta stringendo in queste ore sotto i nostri occhi. Diciamo patto di potere perché, a differenza della Germania, dove la grosse Koalition è stata conseguenza di un risultato elettorale controverso, da noi, che siamo più furbi dei tedeschi, l'esito è anticipato da una campagna elettorale che tenta di indirizzare il voto degli elettori esattamente in quella direzione.
I programmi stessi risentono di questa impostazione. Infatti, a cosa risponde la scelta di tenere fuori dalla campagna elettorale i temi che essi stessi definiscono «eticamente sensibili», se non a questo? Chi ha seguito lunedì scorso il faccia a faccia televisivo tra Zapatero e Rajoy ha potuto constatare come la legge sul matrimonio gay, il divorzio breve, la libertà della ricerca siano stati temi dibattuti e rivendicati da chi ha governato, come conquiste che hanno contribuito all'evoluzione democratica e alla dinamicità della Spagna.
Non poteva essere altrimenti poiché si tratta di decisioni che hanno impegnato il Parlamento e il governo e quindi pienamente attinenti alla sfera politica e programmatica. La Germania, poi, proprio in queste ore sembra costituire un cruccio per il Partito democratico. Infatti, nella Spd è in corso un dibattito che apre a una alleanza politica con la Linke, l'esatto opposto della direzione presa in Italia. L'anomalia italiana risalta ancora una volta nel panorama politico europeo e non è un caso.
Da tempo conoscevamo la devozione del presidente Berlusconi per l'America di Bush, la novità è che la politica del Pd sembra guardare anch'essa sempre più oltre oceano e, come è avvenuto in America, prova a dimostrare che anche qui si può fare a meno della sinistra. In Europa, per tradizione, «sinistra» è sinonimo di stato sociale. Di conseguenza, allontanarsi dall'Europa comporta il rischio di fuoriuscire dal riferimento al modello sociale europeo. Pur sapendo che non si tratta di un modello univoco e che necessita di forti adeguamenti, il rischio è particolarmente grave per l'Italia che ha accumulato una debolezza storica in questo campo, non a caso è il Paese europeo in cui negli ultimi quindici anni le diseguaglianze sono cresciute maggiormente.
Il pericolo è proprio quello di avviarsi sulla china di una modernizzazione che abbandoni l'Europa senza neanche trovare l'America. La struttura del capitalismo italiano, legato alla rendita e riluttante ad assumere le stesse regole europee ne è un sintomo. A questo proposito si possono portare moltissimi esempi: dal saccheggio compiuto attraverso i Cip6 dei fondi destinati ai cambiamenti climatici e alle energie rinnovabili, usati da grandi gruppi industriali per produzioni sporche e altamente redditizie, al regime delle grandi opere senza appalti; dal record di infrazioni che l'Italia ha collezionato, all'inefficacia dei fondi europei di cui per decenni il sud ha beneficiato senza risultati significativi, caso unico in Europa.
Al di là di ogni valutazione sul sistema economico, sociale e politico americano, le condizioni in Europa e soprattutto in Italia sono talmente incomparabili che ogni tentativo di riproduzione pedissequa è destinato a creare squilibri e distorsioni ben più grandi di quelle che esistono in America, senza, per contro, beneficiare degli aspetti positivi che pure in quella società esistono.
La metafora potrebbe essere proprio quella delle tanto sbandierate primarie. Scimmiottare il modello americano ha voluto dire per il Pd proporre agli elettori elezioni primarie con un candidato già designato. Siamo ad anni luce dallo scontro vero e senza rete che in queste ore si sta consumando soprattutto nel campo democratico.
Tornando all'Italia, se la tendenza sembra essere quella verso il grande accordo, lo stesso discorso sul voto utile diviene privo di significato. È allora importante far sì che la sinistra non scompaia dalla politica italiana e, con essa, la speranza di rendere più giusto, più libero, più pulito il nostro Paese. Ciò oltre a far bene all'Italia serve al futuro politico dell'Europa.
parlamentari europei - Sinistra Arcobaleno

il Riformista 4.3.08
Laicità. Il rapporto tra fede e ragione
Nel secolo della rivoluzione biogenetica la scienza ha soppiantato la politica
Per la Chiesa si apre un'inedita «questione antopologica»
di Luigi Agostini


«La scienza non redime l'uomo. La scienza può anche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa». Non c'è nell'Enciclica Spe Salvi una frase che con più coincisione esprima l'idea di Papa Ratzinger circa il rapporto con la scienza. Con il richiamo alla eteronomia della scienza (se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa) Papa Ratzinger propone una visione dell'uomo in cui ragione ed etica sono sia irrimediabilmente separate, sia fortemente gerarchizzate: prima viene l'etica, poi la ragione.
Ma dopo Darwin (e Marx, e Freud) è difficile per tutti sottrarsi a una visione storico/evoluzionista dell'uomo: dell'uomo nella sua unitaria capacità sia di elaborare ragionamenti astratti, sia di elaborare giudizi etici. Entrambe le dimensioni coesistono e coevolvono, come ci indica Damasio (Alla ricerca di Spinoza ) e tanti altri neuroscienziati. La laicità incrocia entrambe le dimensioni, nel loro procedere, e, a sua volta, è un prodotto della storia.
La laicità è storicamente il prodotto dell'Umanesimo-Rinascimento, ha ovviamente molti precursori, svariati testimoni; il portale d'ingresso del mondo moderno è presidiato però da due opere classiche, anche se di argomento molto diverso: I Dialoghi intorno a due nuove scienze di Galileo Galilei ed Il Principe di Nicolò Machiavelli.
«Il mio talento - diceva Galilei - è di proporre una nuovissima scienza che tratta di un antichissimo argomento. Forse non è in natura cosa più antica del moto, intorno al quale i libri scritti dai filosofi non sono né pochi né piccoli: tuttavia ho discoperto, con l'esperimento, alcune proprietà di esso, degne di venir conosciute e che fin qui non sono state osservate, né dimostrate».
A proposito dei nuovi Principati, Machiavelli diceva che «gli è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa».
Galilei quindi, che sostituisce al detto di Isaia - se non crederete non capirete - e alla agostiniana «intelligenza illuminata dalla fede», la ragione che illumina se stessa, come poi avrebbe detto Spinoza; Machiavelli quindi, che sostituisce al detto di San Paolo - ogni potere viene da Dio (nulla potesta nisi a Deo) - la virtù del Principe e la sua fortuna.
Con Machiavelli, la laicità della politica trova per la prima volta la sua fondazione teorica. La laicità, a partire dal Rinascimento, scorre per tutto il Lungo Illuminismo sui due binari: da una parte religione/politica, dall'altro fede/scienza. Storicamente i due binari si sono sovrapposti o distinti o in dialettica fra di loro, pur avendo a riferimento una stesso principio, l'autonomia della ragione; sicuramente sulla affermazione concreta del processo di laicità l'evoluzione della relazione religione/politica ha pesato in termini più diretti e massicci della evoluzione della relazione scienza/fede.
Nel Lungo Illuminismo - rispetto alla laicità - il tratto dominante è stato impresso dal rapporto religione/politica piuttosto che dal rapporto fede/scienza: Machiavelli ha pesato molto di più di Galilei. La tesi che vorrei proporre è che il secolo che si apre - il secolo biotech, come chiamato da alcuni, la combinazione cioè tra rivoluzione informatica e rivoluzione biogenetica - cambia l'ordine dei fattori e quindi, l'ordine del discorso: il tema scienza/fede assume e assumerà sempre più un peso dominante rispetto al tema politica/fede, aspetto che, sul versante della Chiesa sembrava aver trovato una sua sistemazione, con il tentativo operato da Maritain e da altri di cristianizzare la modernità.
Ma il tema scienza/fede può aprire una nuova Questione Galileiana. Infatti, rispetto al passato, il peso della relazione scienza/fede sarà progressivamente dominante proprio per la pervasività che la rivoluzione scientifica ha di investire non solo tutti gli aspetti della vita quotidiana, ma la stessa vita e le sue scansioni. Il matrimonio tra rivoluzione informatica e rivoluzione genetica costituisce una valanga scientifica, tecnologica, produttiva, di potenza inedita: come alcuni sostengono, se il secolo ventesimo è stato il secolo della fisica e della chimica, il secolo che si apre sarà il secolo della biologia.
La rivoluzione genetica corre sulle ali della potenza di calcolo, messa a disposizione dalla rivoluzione informatica, che a sua volta procede a velocità esponenziale.
Il cambiamento, dalla scienza come fisica alla scienza come biologia, per usare tale metafora, avviene nell'ultima parte del secolo e niente illustra meglio questo cambiamento che la cancellazione da parte del Congresso Americano (come racconta Lewontin), negli anni 90, del costosissimo progetto del Supercollider destinato a scoprire gli ultimi mattoni costitutivi della materia, e la contemporanea approvazione del costosissimo Progetto Genoma Umano, progetto che nel 2000 porterà a individuare la sequenza completa del Dna.
È attraverso il progetto Genoma Umano, come sostengono Lewontin, Gould, Watson etc., che la scienza biologica ha preso il posto delle scienze fisiche classiche, sia per prestigio che per potenza economica, tanto nella comunità scientifica che presso l'opinione pubblica. Il progetto Genoma Umano rappresenta quindi uno spartiacque storico, non solo per la storia della scienza ma per la storia in generale; da qui si origina la vera uscita del Novecento, la grande e inedita questione che riproblematizza i termini storici della stessa laicità.
Anche simbolicamente è necessario partire da qui, per reimpostare il discorso della laicità, perché solo così saremo in grado di ricomprendere i termini della nuova complessità e affrontare l'effetto di spiazzamento che tale spartiacque ha determinato sulle varie forze sia religiose che laiche. Sinteticamente, pervasività e velocità costituiscono gli aspetti dominanti della Rivoluzione biogenetica: le nuove conoscenze scientifiche sono il motore evolutivo della società contemporanea, informano la cultura come l'economia e continuamente modificano la percezione che l'uomo ha di sé, del proprio ambiente, della propria vita quotidiana, fino a rendere impervio il processo di metabolizzazione sociale degli stessi esiti scientifici.
Siamo infatti la prima generazione che conosce i meccanismi in base ai quali l'umanità si è evoluta e che, forse, ha la possibilità di aprire una porta all'infinito sapere, piuttosto che quella di porre una barriera all'infinita ignoranza. Siamo entrati, come alcuni sostengono, nell'era della riproducibilità tecnica dell'uomo; la decifrazione del genoma rende possibile interventi che gettano una luce, impensabile fino ad oggi, sulla condizione umana; l'ingegneria genetica, mette a nostra disposizione la nostra stessa base biologica. Infine, la biogenetica, sostiene Boncinelli, si avvicina sempre più all'essenza dell'essere umano, alla sua mente.
L'attacco della Chiesa al relativismo, alla «cultura basata su una razionalità puramente funzionale» (la sensata experientia Galileiana), apre, a ben vedere, oltre a un conflitto politico più o meno contingente con il mondo laico, un conflitto culturale ancora più profondo con il mondo scientifico: conflitto di enorme portata e con implicazioni generali su tutti i piani e senza confini.
Karol Wojtyla aveva cercato di chiudere la ferita aperta di Galilei, riconoscendo l'autonomia della ricerca scientifica, ponendo però allo stesso tempo due limiti: le applicazioni della conoscenza scientifica (vedi ad esempio le politiche di controllo demografico) e soprattutto la ricerca intorno all'uomo.
In questi casi, sosteneva Wojtyla, la religione ha il dovere di intervenire per delimitare la sfera di competenza della scienza. «Con la ricerca del codice genetico - sosteneva già il Cardinale Ratzinger - la ragione si impossessa delle radici della vita», e impossessandosi di quelle radici tende sempre più a non vedere nell'uomo un dono del Creatore (o della Natura) e a trasformarlo in un prodotto. Così che, attraverso la genetica, l'uomo viene «fatto» e ciò che si può fare si può anche disfare; la natura e la dignità dell'uomo, concludeva Ratzinger, allora scompare.
Dall'avanzare di tale processo, per la Chiesa, emerge una inedita questione, la questione antropologica, con il suo seguito di sacralità della natura umana e di valori non negoziabili. Qui sta il nuovo nocciolo duro del nuovo conflitto tra religione e scienza, tra fede e ragione: torna la concezione agostiniana dell'intelligenza, che è tale solo se illuminata dalla fede; torna l'idea che la conoscenza dell'uomo, nei suoi aspetti più intimi, appartenga solo alla religione e sia - e debba essere - preclusa alla ragione e alla scienza; torna la concezione della Chiesa come «maestra e monopolista del discorso etico».
Il significato più profondo di tale posizione, anche se schematicamente, mi sembra così riassumibile: la posizione della Chiesa riconfigura un ritorno della «questione cattolica», nella sua essenza, sotto specie di «questione biotecnologica». Ma se la scienza che si occupa dell'uomo, è a sua volta una delle manifestazioni più grandi della scienza prodotta dall'uomo, ricostruire «una pace autentica tra ragione e fede» non sarà un compito semplice per Papa Ratzinger: sta infatti soprattutto qui - nel secolo biotech - il nodo da sciogliere e la stessa possibilità di traghettare la Chiesa nella società della conoscenza, Chiesa che ha metabolizzato Maritain ma non De Chardin.
Ma sta anche qui, per la Sinistra laica, la necessità di reimpostare il proprio compito, all'altezza della propria storia, senza addomesticare i termini del problema, in nome delle esigenze tattiche del momento: dopo la gramsciana «quistione» vaticana, dopo la novecentesca Questione Sociale, questioni che hanno trovato nella storia recente una loro qualche composizione, la nuova sfida che lo sviluppo della rivoluzione scientifica propone, ha al centro la così detta questione antropologica per un verso, o questione galileiana per un altro, con tutte le ricadute, a cascata, su eticità, laicità e politica. Dipanare tale groviglio di questioni - la nuova questione galileiana, per intenderci - sul versante della sinistra laica, non sarà facile, ma Galilei e Machiavelli stanno lì, toujours en vedette. In tale scenario la vicenda della Sapienza è solo un segno dei tempi.

il manifesto 4.3.08
Dario Vergassola: «Walterino basta, manca solo l'ufologo»
di Sara Menafra
[domani qui]

il manifesto 4.3.08
Approvata a maggioranza la libertà di alleanze per i lander. Ma la destra interna già prepara le barricate
Germania, Spd apre alla Linke per le regionali
di Rudi Ostler
Volente o nolente, la Spd segue la svolta a sinistra del suo presidente. Volker Beck, dopo aver per mesi assicurato che mai i socialdemocratici sarebbero venuti a patti nelle [domani qui]

l’Unità 4.3.08
Sinistra arcobaleno punta a 75 seggi
di Simone Collini


Settantacinque. È il numero di deputati e senatori che la Sinistra arcobaleno conta di portare in Parlamento col voto di aprile. Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica hanno messo a punto, separatamente, le liste di candidati. Lavoro non semplice, ma quello veramente complicato viene ora, quando i vertici dei quattro partiti dovranno, insieme, mettere nero su bianco entro sabato le liste della Sinistra arcobaleno. Lo schema su cui hanno trovato l’accordo prevede che il 45% dei posti sicuri sia riservato al Prc, il 19% ai Verdi e ai Comunisti italiani, il 17% alla Sinistra democratica. È saltata l’ipotesi di riservare una quota alle candidature esterne, anche perché stando ai sondaggi solo la metà degli attuali parlamentari verrà riconfermato, e su questo si sta lavorando, anche sacrificando l’apertura alla società civile.
Oltre al candidato premier Fausto Bertinotti, che dovrebbe correre come capolista nel Lazio, Rifondazione ha presentato un elenco di 46 nomi formato per metà da uomini e metà da donne. Tra queste ultime spuntano come new entry Rita Borsellino (dovrebbe correre come capolista per il Senato in Campania) e la giovane ricercatrice Cristina Tajani (circoscrizione Lombardia 1 per la Camera). Verranno riconfermati Wladimir Luxuria, Lidia Menapace e Francesco Caruso (nonostante Bertinotti abbia ammesso non molto tempo fa che «non è stata una mossa felice» portarlo in Parlamento), così come Titti De Simone, il ministro Paolo Ferrero, il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore e anche Alberto Burgio e Claudio Grassi, della minoranza “Essere comunisti” (non ci sarà invece nessuno delle minoranze trotzkiste). La deroga è stata confermata al segretario Franco Giordano (che dovrebbe essere capolista in Toscana), a Francesco Forgione e, tra le polemiche, all’indipendente Pietro Folena.
I Verdi candidano il magistrato esperto di reati ambientali Gianfranco Amendola. Paolo Cento ha ottenuto la deroga, Marco Boato no. Alfonso Pecoraro Scanio sarà capolista in Puglia, mentre in Campania dovrebbe correre in questa postazione Grazia Francescato. Si sta però anche valutando l’opportunità di presentare Oliviero Diliberto come capolista (insieme all’ipotesi Piemonte) in un collegio di questa regione, soprattutto pensando al fatto che il Pdci non è mai entrato in una giunta Bassolino. Quanto alle altre candidature dei Comunisti italiani, verranno ripresentati tutti gli uscenti, frutto di un rinnovamento la passata tornata elettorale, ma tra i quali la “quota rosa” è sotto il 20%.
Sinistra democratica conferma Fabio Mussi (probabile capolista in Liguria) e Cesare Salvi, Arturo Scotto (il più giovane deputato dell’attuale legislatura), Carlo Leoni, Titti Di Salvo e, come new entry dal mondo del sindacato, la segretaria dei pensionati Cgil Betty Leone.

l’Unità .3.08
Liberadonna, l’appello ha già raccolto 50.000 firme


MALGRADO le scarse notizie sulla stampa, la lettera aperta di Liberadonna a Veltroni, Bertinotti e agli altri dirigenti del centrosinistra (tra le prime firmatarie Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Dacia Maraini, Lidia Ravera, Rossana Rossanda) ha raggiunto le 50.000 firme e continua a raccogliere adesioni sul sito www.firmiamo.it/liberadonna). La lettera reagisce all’«offensiva clericale contro le donne - spesso vera e propria crociata bigotta - che ha raggiunto livelli intollerabili. Ma egualmente intollerabile appare la mancanza di reazione dello schieramento politico di centro-sinistra. Con l’oscena proposta di moratoria dell’aborto, che tratta le donne da assassine, e la recente ingiunzione a rianimare i feti ultraprematuri anche contro la volontà della madre, i corpi delle donne sono tornati ad essere “cose”, terreno di scontro per il fanatismo religioso, sui quali esercitare potere». La lettera esige «una presa di posizione chiara e inequivocabile, che condanni senza mezzi termini tutti i tentativi - da qualunque pulpito provengano - di mettere a rischio l’autodeterminazione delle donne». E «se di una revisione ha bisogno la 194 è quella di eliminare l’obiezione di coscienza».

Apcom 3.3.08
Anoressia. Sul web 300mila siti paragonano la malattia alla perfezione
Su internet la malattia è invocata, chiamata 'amica' e 'dea'


Roma, 3 mar. (Apcom) - Oltre 300.000 siti internet pro-anoressia, che descrivono la malattia e le aspirazioni ossessive al raggiungimento della magrezza come "uno stato di grazia", un tentativo di arrivare alla "perfezione assoluta". E' quanto ha rilevato nel 2006 una ricerca sui disordini alimentari e Internet condotta dall'Università di Torino, pubblicata all'epoca sulla rivista scientifica 'Eating and Weight Disorders'. La ricerca torinese, guidata dal professore Secondo Fassino, è giunta a risultati allarmanti: è sufficiente digitare sul motore di ricerca Google parole chiave come "anorexia nervosa (AN) and treatment", "AN and psychotherapy", "AN and pharmacotherapy", "pro-anorexia", "pro-ana sites", "thinspiration" e "anorexicnation" che davanti agli occhi dell'utente si squadernano circa 300.000 siti che inneggiano al raggiungimento della magrezza come modo per raggiungere la perfezione. Spesso l'anoressia viene definita 'ana' e la bulimia 'mia': e in molti casi sono definite come 'amica', 'dio', 'santità', 'dea' e in essi sono contenuti consigli pratici su come perdere peso in modo rapido, automotivandosi con immagini di modelle, ginnaste magrissime, ballerine tremendamente scarne.

Di questi siti, 257.000 siti contengono la parola chiave "pro-anorexia", 18.600 "pro-axa", 14.200 "thinspiration" (ispirazione alla magrezza, alla sottigliezza) e 577 "anorexicnation", ovvero "nazione anoressica". Tutte parole che mirano a creare una sorta di 'cultura dell'anoressia'. A fronte di questi siti che sublimano la malattia, nel web ci sono almeno 800.000 siti che trattano l'anoressia nervosa in chiave patologica e danno indicazioni sulle terapie adeguate, in particolare psichiatriche e farmacologiche.

Apcom 3.3.08
Anoressia. In Italia ne soffrono oltre 750mila ragazze
1,45 mln soffrono di bulimia, disturbi Dap in aumento tra maschi


Roma, 3 mar. (Apcom) - Sarebbero oltre 2,2 milioni le ragazze che, in Italia, soffrono di un disturbo alimentare psicogeno: 1,45 milioni sono le bulimiche, 750mila le anoressiche. Ma solo il 40% di esse, dopo 3 o 4 anni durante i quali nascondono la propria ossessione nei confronti del cibo, lottando contro la bilancia e del grasso spesso inesistente, ammette l'esistenza del problema, ammette di essere malata. Questi i dati forniti dal Cidap, il centro italiani disturbi alimentari psicogeni. I dati sono sconfortanti: su 2,2 milioni di ragazze che soffrono di disturbi alimentari solo 880mila lo ammettono e solo il 30% di esse, 265mila ragazze, dopo un anno di 'resistenza' di fronte a qualsiasi terapia, decide di affrontare seriamente il problema. E ancora, solo il 40-50% di questo gruppetto affronta effettivamente un percorso terapeutico e cioè circa 130.000 ragazze.

E quello che era un allarme tutto al femminile, si sta ormai da qualche anno spostando anche nell'altra metà del cielo: anche i maschi, infatti, iniziano a soffrire di disturbi alimentari. Negli ultimi 5 anni si è constatato, spiega il Cidap, uno spostamento dei rapporto Dap (disturbo alimentare psicogeno) maschili da 9:1 a 8:2, per cui in Italia il numero degli anoressici si aggira intorno ai 75.000 soggetti, mentre i bulimici sono tra i 120 e i 150mila. Il periodo critico per i maschi è compreso in una fascia di età fra i 16 e i 24 anni e nega di essere malato il 60% dei maschi: per questo si registra in Italia una casistica italiana di 'soli' 80.000 soggetti che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, di questi il 10% accetta di andare in terapia.

Secondo il ministero della Salute l'incidenza dell'anoressia nervosa negli ultimi anni risulta stabilizzata su valori di 4-8 nuovi casi annui per 100.000 abitanti, mentre quella della bulimia nervosa risulta in aumento, ed è valutata in 9-12 nuovi casi/anno. La maggior parte degli studi è stata effettuata in paesi anglosassoni e in Italia sono stati rilevati dati sovrapponibili.

Anche l'ultimo rapporto dell'Eurispes conferma i dati e parla di circa due milioni i giovani italiani tra i 12 e i 25 anni, che hanno disturbi del comportamento alimentare: nella maggior parte dei casi si tratta di donne, circa il 5% delle giovani tra i 13 e i 35 anni ne soffre, ma l'incidenza sta tornando a salire anche tra i quarantenni e tra gli uomini.


Corriere della Sera 4.3.08
Anna Karenina
Mascia Musy: «Nekrosius fa dell'eroina di Tolstoj una donna sensualissima»
di Emilia Costantini


Un affresco corale
«È un grande impegno per noi attori, che restiamo quattro ore e mezza sul palcoscenico: un vero affresco corale»
«Essere diretta da un grande regista come Eimuntas Nekrosius - dice Mascia Musy dà un senso alla mia vita professionale. E nel personaggio mi affascina la capacità d'amare fino all'estremo sacrificio»

Sul grande schermo è stata impersonata dalla mitica Greta Garbo, nel celebre film del 1935 con Friedrich March, e poi da Vivien Leigh nel 1948, fino alla recente interpretazione di Sophie Marceau nel 1997. Sul piccolo schermo, in Italia, è memorabile Lea Massari nello sceneggiato del 1974, con la regia di Sandro Bolchi. Ora è Mascia Musy a vestire i panni di Anna Karenina, l'eroina romantica di Tolstoj, nella versione teatrale del romanzo. Lo spettacolo, 4 ore e mezzo di rappresentazione, debutta all'Argentina stasera con la regia del lituano Eimuntas Nekrosius (in scena fino al 16 marzo). Ne è ovviamente entusiasta la protagonista: «Mi è accaduta la cosa più bella che poteva accadere a un'attrice. Anna Karenina è un'eroina mondiale, unica nel suo genere, speciale: non a caso, in un recentissimo sondaggio, il romanzo era al primo posto, come il più letto. Inoltre, essere diretta da un maestro come Nekrosius, dà un senso alla mia vita professionale».
Sentenzia la prima frase dell'opera di Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». La storia, ambientata alla fine dell'Ottocento, è quella di una donna che, trascurata dal marito, si innamora di un bell'ufficiale e fugge con lui, abbandonando anche il figlioletto. Costretta a rinunciare all'amante e non potendo tornare a casa, si uccide. Riprende la Musy: «Una storia estrema, soprattutto una storia d'amore. Ecco - riflette - è proprio la capacità di amare fino all'estremo sacrificio, ad affascinarmi nel personaggio ». Amore, ma anche sensualità e gioco della seduzione: «Certo - ribatte Mascia - Sensualità e seduzione fammo parte della natura più intima di Anna, stanno nel suo dna. Nekrosius fortifica questa realtà». Ma tra le attrici che l'hanno preceduta, qual è quella cui si sente più vicina? Risponde: «Per preparami allo spettacolo, ho visto tutti i materiali a disposizione, i film e naturalmente anche lo sceneggiato. La Garbo fu straordinaria, con una recitazione modernissima per l'epoca. Forse, però, la Massari è quella che mi è rimasta più impressa, anche se poi, quando sono diventata io Anna Karenina, ho necessariamente dimenticato tutti i precedenti».
Riletto alla luce dei «Diari» dell'autore russo, così come di altre sue opere affini, il romanzo è stato tradotto da Nekrosius in uno spettacolo di attori: «È un affresco corale dice la Musy - e un grande impegno non solo per noi attori, in scena per quattro ore e mezzo, ma anche per il pubblico: non è facile e non è consueto tenere la platea interessata ed entusiasta per tante ore di seguito. Eppure, ogni volta riusciamo nel miracolo: rendiamo felici gli spettatori ». Cosa ha insegnato, alla donna Mascia, la donna Anna: «Che l'amore è sempre una scelta radicale».

Liberazione 4.3.08
Bertinotti: solo noi a volere un cambio radicale
Dal candidato della Sinistra una svolta nella campagna elettorale
Duro col Pd che candida «falchi padronali» e autocritico su Prodi

di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Sì, il clima della campagna elettorale è cambiato. E ad interpretare questo mutamento di senso e di intensità, intanto, è la novità che si è prodotta a sinistra, appunto la Sinistra Arcobaleno. Erano lo stesso tono, lo stesso stile oratorio, la stessa passione del suo candidato premier, Fausto Bertinotti, a segnalarlo nel discorso tenuto domenica nel teatro Ambra Jovinelli traboccante di partecipanti, davvero diversi fra loro. E ancora Bertinotti, di questo cambiamento della competizione politica, ha dato conto, analiticamente, ieri sera nel confronto con Pier Ferdinando Casini a Porta a Porta . Ha infatti risposto a Bruno Vespa che per quanto riguarda la sinistra «sì, è cambiato il nostro approccio nei confronti del Partito democratico e di Veltroni». Perché dopo che lui stesso, Bertinotti, aveva fatto appello per «bandire la logica dei "fratelli-coltelli"» e misurarsi con il programma piddino «sull'efficacia delle proposte di alternativa alle destre», dopo questo è arrivato altro: proprio per mano del Pd, "in concorso" con il Popolo delle libertà berlusconiano.
Anzitutto la «scelta», convergente, di agire «un sistematico martellamento» diretto a «ridurre l'immagine della competizione ad un duopolio». Ma poi, prima Berlusconi e poi Veltroni hanno deciso di brandire la «truffa», il «messaggio illiberale» del «voto utile». E dal Pd, con le dichiarazioni di Anna Finocchiaro «mai smentite da Veltroni», si è arrivati a «fare appello a votare solo uno dei due maggiori partiti, suggerendo che votare per il Pdl sarebbe al limite preferibile a dare il voto alla Sinistra e perciò spingendosi a sollecitare un tradimento del proprio stesso campo». Dunque, sì: la sinistra ha a sua volta cambiato tono. Per una ulteriore causa scatenante: ed è che il Pd ha esibito il fondamento profondo di questo accanimento, di questa pulsione escludente verso sinistra, che sta nella riproposizione d'un «pensiero unico» sulla società. E' emerso definitivamente con la conferma della candidatura del «falco padronale», il presidente di Federmeccanica, il rappresentante dei «discendenti di Valletta».
D'altra parte, è la realtà stessa a premere la campagna elettorale. Uno sfondo che si macchia di sangue a sprazzi, dietro il velame di messaggi di fuoriuscita da ogni concezione del conflitto sociale, da ogni denuncia del «sistema di dominazione» che così si propone di lasciar riprodurre «all'infinito», come Bertinotti ha gridato domenica all'Ambra Jovinelli. Lo gridava, là, facendosi soprendere con la voce strozzata in gola a ricordare il 39enne «operaio e compagno» Fabrizio Cannonero, morto a Genova «camallo tra i camalli» e soprattutto morto proprio come suo padre. E Bertinotti ha dovuto ripeterlo ieri sera, davanti alle telecamere Rai di Vespa, per commentare il fatto del giorno, piombato sull'inizio della trasmissione come uno squarcio di verità: la nuova strage del lavoro, di dimensioni paragonabili a quelle della Thyssen torinese, stavolta all'altro capo del Paese, in quella maledetta cisterna di zolfo a Molfetta. Un coro tragico che la Sininistra Arcobaleno cerca di raccogliere e, comunque, sola può farlo: come Bertinotti ancora domenica sottolineava, alzando la voce nella rivendicazione che è «la vera novità» è questo «soggetto unitario e plurale fondato sulla condivisione della critica radicale al modello economico e sociale».
Così è di nuovo solo con la sola sinistra, Bertinotti, a invocare dopo la strage di Molfetta la risposta più semplice e immediata, che dovrebbe essere atto dovuto d'una politica pubblica, del governo e dello Stato: la convocazione immediata, stamattina stessa, d'un consiglio dei ministri straordinario per «approvare in via definitiva i decreti attuativi della nuova normativa per la sicurezza sul lavoro». E, poi, solitudine anche nel pretendere ciò che ugualmente dovuto sarebbe da parte del servizio pubblico: di nuovo oggi stesso, stasera, la «trasmissione in prima serata d'un film, uno qualunque, sui morti sul lavoro» - e Bertinotti fa l'esempio di quello di Daniele Segre - per «dare uno choc al Paese, far vedere questa realtà inaccettabile».
Ma Bertinotti ricorda che «politiche» sono le «responsabilità» anche in questo «dramma»: che dalle «politiche del lavoro» deriva, anzi dalle «politiche economiche e sociali», ossia sul mercato del lavoro come sull'organizzazione produttiva, con le quali si è «trascinato il Paese in uno sforzo di competizione basato sull'abbattimento dei salari, sulla regressione dei diritti e sulla flessibilità». Dunque, per rispondere davvero a e di quei morti, è queste politiche che «bisogna cambiare».
E così il discrimine tra sinistra e «riformismo non di sinistra», come Veltroni ha detto a El Paìs , è rilevato nella sua maggiore profondità: o almeno lo è quello tra sinistra e «un centrosinistra che guarda al centro», che Bertinotti all'Ambra Jovinelli domenica ha concesso come la «più ottimista» definizione del Pd. Un «centrosinistra» la cui deriva verso destra nell'asse generale della politica e della concezione della società, pure, non è irreversibile, ma ad una sola condizione: che sia fatta forte e sia così fatta valere una sinistra, unico fattore di «possibile inversione» in futuro anche dell'orientamento piddino.
Non solo per il lavoro, non solo per «la classe», pur intesa nel senso più esteso e rinnovato che fornisce la chiave di lettura della «precarietà», scandagliata domenica da Bertinotti «fuori da un certo economicismo» della tradizione del movimento operaio, in una visione persino «antropologica» e «globale», che guarda al «deposito dei movimenti di Seattle e di Genova», alle nuove generazioni politiche invitate direttamente ad «occupare» il «nuovo edificio da costruire» a sinistra.
Nella più distesa circostanza della comunicazione con la platea dell'Ambra Jovinelli, dopo l'introduzione di Patrizia Sentinelli tornata nei combattivi panni di candidata romana da quelli di viceministra degli Esteri e dopo gli appassionati interventi a tutto campo, nel campo delle lotte, di quattro figure come uno studente medio, una dipendente precaria del Comune, un universitario e un'attivista ecologista sul territorio, il candidato premier della Sinistra Arcobaleno ha offerto questo «strumento» ad un ben più vasto spettro di «domande e soggetti di liberazione». Quelle che pure formavano la vasta «domanda di cambiamento» cui Bertinotti ammette, con nettezza, «non siamo stati capaci di rispondere» con l'esperienza dell'Unione e del governo Prodi.
Domande che restano e che hanno trovato nel frattempo i loro percorsi di «resistenza» e i modi di «esprimere ricchezza». Dalle «donne» e dalla loro «libertà necessaria», alle nuove «figure della cittadinanza» che sono i migranti come le «libere scelte di orientamento sessuale», gay, lesbico, transgender che sia. Dalla difesa dei territori alla ricerca culturale e artistica, all'azione critica dei e sui saperi.
Appunto, l'Arcobaleno di tutti i colori del prendere parte. E, intanto, almeno un'altra campagna elettorale è possibile.

Liberazione 4.3.08
Sul sito del partito democratico campeggia un articolo di Khaled Fouad Allam che riduce il pensatore francese a un teorico della governabilità in salsa veltroniana. E cancella l'analisi sulle tecniche di assoggettamento degli individui nel neoliberismo
Che pena, Foucault critico del potere arruolato pure lui nel Pd
di Anna Simone


Michel Foucault si starà rivoltando nella tomba. Una vita spesa a fare ricerche genealogiche sul potere per denudarlo, smontarlo, decostruirlo a partire dal ‘700 sino all'ultima tendenza neoliberale dei governi occidentali di destra e di sinistra; una vita trascorsa tra i carcerati, i folli, i movimenti anti-autoritari per mostrare come il potere "produca" gli stessi soggetti da normalizzare; una vita trascorsa ad insegnare, leggere, discutere tradita in un solo momento da un articolo mistificante, capzioso e del tutto irrispettoso nei confronti delle sue tesi.
Ci riferiamo all'articolo di Khaled Fouad Allam dal titolo "Michel Foucault e il Partito Democratico" che in questi giorni compare sul sito del partito medesimo. E' vero che i morti non possono rispondere e quindi in quanto tali possono essere strumentalizzati per fini al di là di ogni ragionevole immaginazione, ma è pur vero che chi ne riceve l'insegnamento traducendolo in pratica politica quotidiana può e deve rispondere. Non è la prima volta che grandi autori vengano ridotti a veline innamorate del potere.
Nella seconda metà degli anni '90, per mano e intelligenza di uno studioso di storia delle dottrine politiche barese, Gramsci divenne in men che non si dica liberale perché il Pds di allora doveva sostanziare la sua inarrestabile corsa verso il liberalismo e non aveva più "padri" di riferimento. Poi è arrivato Berlusconi, il quale per sostanziare la necessità di evitarsi e di far evitare il carcere ai suoi "compagni di merenda" citava ampi stralci di Sorvegliare e punire di Michel Foucault dinanzi a parlamentari e senatori. In questo caso, però, per quanto utilizzata per finalità inaccettabili (dal momento che il garantismo dovrebbe essere applicato a tutti e non solo ad una minoranza di privilegiati) la citazione era tale e quale, virgolettata nel testo. Neanche Berlusconi cioè ha saputo spingersi tanto quanto ha fatto il Pd attraverso Khaled Fouad Allam sul sito del neonato partito. Il sociologo, infatti, non cita ma fa una sintesi degli ultimi due corsi di Foucault tradotti in italiano, Nascita della biopolitica e Sicurezza, territorio, popolazione dicendo l'esatto contrario di quanto affermato da Foucault nell'arco di una vita. Vediamo perché. Allam "traduce" tutto il paziente lavoro foucaultiano di ricostruzione e al contempo di decostruzione del liberalismo in tutte le sue nefandezze (dalla nascita del concetto di capitale umano all'apologia della società civile intesa come forza che sostituisce il welfare e lo Stato-nazione nella "gestione" del sociale), nonché tutto il paziente lavoro di stabilire un nesso tra sicurezza-territorio-popolazione per mostrare come funzionano i nuovi terribili dispositivi di sicurezza, facendo diventare il filosofo francese un accanito sostenitore di tutto quel che lui stesso vedeva come inaccettabile. Così come la biopolitica foucaultiana non è l'apologia della vita della Binetti, le analisi sul neoliberalismo, sul capitale umano, sulla "governamentalità" intesa come un dispositivo nel quale si traducono i poteri del presente (e non sulla "governabilità" - come invece scrive Allam-) non sono nella maniera più assoluta riducibili all'apologia del liberalismo compassionevole e in salsa molle del Pd. Foucault, infatti, in quei due corsi ci mette in guardia su come si vanno trasformando i dispositivi di assoggettamento degli individui con la crisi della sovranità degli Stati-nazionali perché ha a cuore la costruzione di un nuovo ethos della libertà. Ora l'ethos della libertà non è per Foucault né il liberalismo veltroniano, né la bioetica cattolica, sadica più che buonista, nei confronti delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche e via discorrendo. Ma, semmai, è il "dire la verità" sul funzionamento del potere per resistergli, per aggirarlo, per metterlo in scacco. Capisco che il vuoto pneumatico del Pd dal punto di vista contenutistico possa portare a siffatte operazioni "disperate", ma far diventare l'autore della critica a tutte le forme di assoggettamento degli individui cosiddetti "anormali" l'alter ego del chierichetto che vuole prendere il potere è francamente inaccettabile. Come se non bastasse, Allam in chiusa del suo articolo cita gli scritti foucaultiani sulla rivoluzione iraniana facendoli diventare degli scritti sul riformismo politically correct del Pd. Da straniero o da ex-straniero il sociologo ha evidentemente a cuore una società multiculturale e fin qui è possibile fare uno sforzo di comprensione rispetto alla sua posizione, ma far diventare l'entusiasmo foucaultiano per la rivoluzione iraniana un entusiasmo per il riformismo è - lo diciamo ancora - francamente inaccettabile (su questi scritti consigliamo ad Allam la lettura di un bel saggio di Ottavio Marzocca pubblicato dalla manifesto libri dal titolo piuttosto esplicativo: Perché il governo ).
E' vero che l'opera foucaltiana ha conosciuto soprattutto in Francia una ricezione "strana" dal momento che alcuni suoi vecchi allievi sono entrati a pieno regime nella gestione del potere proponendo l'elaborazione di nuovi diritti, ma è altresì vero che loro hanno avuto il coraggio di dichiarare pubblicamente la loro presa di distanza dal maestro su questo. Ad Allam non chiediamo questo dal momento che lui non è mai stato neppure un suo allievo ma gli proponiamo di rivedersi una massima di Wittgenstein: "di tutto quel che non si sa è meglio tacere". Buona campagna elettorale.

lunedì 3 marzo 2008

l'Unità 3.3.08
Bertinotti: il Pd guarda al centro e a Confindustria. Noi siamo dalla parte degli oppressi
Il leader della Sinistra arcobaleno: competitività e crescita non sono valori assoluti. Alle ingiustizie è giusto ribellarsi. A questo serve un nuovo soggetto politico forte
di Simone Collini


«Non dobbiamo pensare di essere dei profeti disarmati». Fausto Bertinotti sprona alla battaglia, perché la Sinistra arcobaleno ha «la possibilità di cambiare il corso degli eventi» e, se non oggi con queste elezioni, in un domani non troppo lontano può raggiungere quello che è sempre stato l’obiettivo delle forze di sinistra: «Mutare il modello economico e sociale in campo».
Il presidente della Camera lascia nell’armadio l’abito istituzionale, torna alla cravatta rossa e parlando al migliaio di persone assiepate al teatro Ambra Jovinelli definisce «unico voto utile» quello che «fa vivere la sinistra e spezza il pensiero unico». Unico, perché per il candidato premier della forza rosso-verde non sono veramente alternativi i programmi della «destra populista» e del «Pd che guarda al centro», perché entrambi accettano l’attuale modello economico e sociale: «Il Pd propone di correggere, di mitigare questa modernizzazione». Impresa «irrealizzabile», per Bertinotti, e che soprattutto non riflette abbastanza sul «binomio flessibilità-precarietà», sul fatto che la flessibilità in questi anni si è dimostrata non andare incontro agli interessi dei lavoratori, al loro desiderio di avere più tempo da dedicare ai propri affetti o alle proprie passioni, ma a quelli delle aziende. «E agli amici del Pd dico che competitività e crescita non si possono assumere come valori assoluti». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno vuole evitare il modello «fratelli-coltelli» con Walter Veltroni, ma si domanda come gli sia venuto in mente di mettere nelle liste del Pd, «che ci scavalca verso Confindustria», il capo di Federmeccanica Massimo Calearo. «Sui temi della convivenza vale il modello dell’“e-e”, ma poi, se la politica vuole essere seria, deve valere il modello dell’“aut-aut”, “o-o”. O si sta con i lavoratori o con i padroni, perché altrimenti parlando di interesse generale si finisce per essere dalla parte soltanto dei dominatori. Noi siamo dalla parte dei dominati, che non vogliono più esserlo».
Gli applausi si fanno sentire, dentro il teatro e tra le decine di persone rimaste fuori per mancanza di spazio (proprio come dieci giorni fa al Piccolo Eliseo, quando per rimediare il presidente della Camera promise questo nuovo appuntamento). Bertinotti sa che di fronte al «duopolio opprimente» formato da Pd e Pdl gli spazi di manovra sono stretti, e che magari sarebbe opportuno organizzare «una manifestazione colorata attorno alla Rai per ricordare l’importanza del servizio pubblico come strumento di democrazia». Ma sa anche che l’«oscuramento» attuato dai grandi mezzi di comunicazione «va denunciato, ma senza lamentarci troppo». Per «disvelare il trucco» di una sfida a due tra forze alternative una all’altra, dice, bisogna andare a parlare nel territorio, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, e soprattutto bisogna parlare di cosa si vuole fare in futuro, piuttosto che soltanto criticare le proposte altrui o lamentare quanto non fatto in passato: «Non è andata bene l'esperienza del governo Prodi - dice comunque - abbiamo fatto molte cose, ma l’essenziale non l’abbiamo fatto, la domanda di cambiamento che viene dal Paese che non è stata raccolta».
Da qui bisogna ripartire, e il programma che mette in campo Bertinotti è racchiuso in un punto di partenza e in un obiettivo finale. Il primo è quasi un precetto: «Alle ingiustizie bisogna ribellarsi». E allora bisogna ribellarsi alla «violenza del profitto e della competitività che finiscono per valere più della vita umana», dice ricordando i troppi morti sul lavoro, bisogna ribellarsi di fronte ai palestinesi uccisi dall’esercito israeliano a Gaza, ribellarsi a chi vuole impedire che sia la donna ad avere «la prima e l’ultima parola sulla maternità», a chi vuole imporre «liberismo nei rapporti economici e autoritarismo nei rapporti sociali». Ribellarsi e costruire le condizioni per «mutare il modello economico e sociale in campo». Un obiettivo che non è di breve scadenza, e infatti Bertinotti sprona militanti e leader dei partiti fondatori della Sinistra arcobaleno a guardare oltre il voto di aprile: «I voti sono necessari, ma l’impresa è un’altra, è cioè costruire un nuovo soggetto politico che occupi la scena da protagonista e porti al cambiamento».

l'Unità 3.3.08
Marcovaldo, il papa e la lectio magistralis
di Luigi Cancrini


Una mattina come tante Marcovaldo si trovava nella sua università. Era un’università prestigiosa che aveva ospitato grandi scienziati, grandi filosofi e grandi poeti. Era l’università di Federico Chabod e di Ungaretti. Quella mattina Marcovaldo venne a sapere che si stava organizzando una protesta contro il papa. "Il papa?", si chiese turbato, "Cosa mai aveva fatto il papa?" Gli dissero che si doveva armare di fischietto e quando quello passava doveva fischiare più forte che poteva. Marcovaldo si domandava il perchè di tutto quel baccano e iniziò a ricercare i motivi. Alla fine capì che il problema non poteva che essere l’occasione. Scopri così che il papa era stato invitato ad inaugurare l’anno accademico. "Cosa significava?"
Significava che era stato invitato niente popo’ di meno che dal magnifico rettore in persona a tenere una che aveva come studenti i professori che si trovavano nelle più alte cariche della gerarchia universitaria. Questa lezione tanto particolare aveva un nome altrettanto particolare: si chiamava lectio magistralis. "Con che titoli il papa veniva a sostenere una prestigiosa lezione universitaria?" I giorni passarono e le tv gozzovigliarono all’idea che al papa era stato impedito di parlare. Marcovaldo si sentiva davvero stupido. Era come se non riuscisse a fare lo stesso ragionamento di tv e telegiornali. Proprio non ci arrivava, sentiva sempre che se si metteva a ragionare e ad analizzare causa ed effetto gli veniva un risultato diverso. In fondo il papa era l’unica persona che avesse il diritto di parlare e dire la sua sui telegiornali nazionali tutti i giorni, alle più svariate ore. Per non parlare poi della messa la domenica mattina! Nessun professore, armato di mera conoscenza scientifica non rivelata, aveva lo stesso diritto. Eppure tutti gridavano alla censura. Censura che non c’era stata. Era stato Ratzinger stesso a decidere di non parlare. Studenti e professori volevano soltanto manifestare il loro disappunto al suo discorso; non vietargli di parlare, ma solo mettere in discussione. Quella sera Marcovaldo era stanco e triste. Si sentiva impotente. Decise, commettendo un grave errore, di accendere la tv. Lì, sul primo canale, c’era un insetto molto fastidioso, simile ad una vespa. Sosteneva che la Sapienza non era aperta al dialogo.
Lorenzo d’Orsi - Lulù Cancrini

Cara Lulù, caro Lorenzo, ho dovuto abbreviare la vostra lettera, e me ne dispiace, per ragioni di spazio. Pubblicarla mi è sembrato importante, però, perché introduce l’aria fresca della perplessità di Marcovaldo nel pieno di una campagna elettorale in cui così spesso di questo argomento si discute, del diritto del Papa a parlare e di uno Stato a sentirsi e ad essere laico. Riportando a dimensioni realistiche e ragionevoli un episodio di cui sicuramente si è parlato troppo: superando ampiamente i limiti dell’assurdo con una serie di discorsi, inutilmente passionali, sul Papa cui qualcuno avrebbe impedito di "parlare".
La linea forte della riflessione di Marcovaldo, che io condivido appieno, è quella, infatti, della collocazione esatta del fatto. Come più volte affermato da Cini e dagli altri professori che scrissero la famosa lettera, il problema non era quello della visita di Papa Ratzinger né quello della sua libertà di esprimere il suo pensiero nel corso della sua visita. Il problema era quello, reale, dell’idea voluta da qualcuno di riconoscergli un ruolo che non è il suo: quello di professore cui si riconosce, nell’Università che è o dovrebbe essere il tempio della scienza e della ricerca, una competenza non religiosa ma scientifica. Di primus inter pares a livello dei professori e dei ricercatori all’interno di una contingenza storica in cui più e più volte egli (Egli?) ha detto di ritenere che la scienza deve fermarsi al limite di una fede (Fede?) nel nome della quale lui (Lui?) solo è autorizzato a parlare. Nel nome di Dio e della Verità. Riconoscendo coi fatti nel momento in cui non gli si chiedeva una benedizione o un saluto ma una lectio magistralis che questa sua tesi era condivisa dai docenti dell’Ateneo, che la scienza deve essere pronta a chinare la testa nel momento in cui a parlare è la Chiesa. A Roma. Dove la Chiesa, come voi ben sapete, ha parlato da sempre un po’ troppo. Correva l’anno 1600 e narrano le cronache di come fu accompagnato a Roma, dalle segrete di Castel Sant’Angelo fino a Campo dei Fiori un grande scienziato e filosofo del tempo, Giordano Bruno. Uomo colto e versatile, autore di libri su cui ancora oggi studenti e professori faticano alla ricerca della verità, docente per anni e anni, all’interno di un faticoso e durissimo pellegrinaggio da perseguitato, in tutte le più importanti Università d’Europa, quest’uomo era considerato eretico dalla Chiesa del tempo ed era stato confrontato, nei giorni precedenti alla sua condanna, con il Cardinale Roberto Bellarmino. Allora come adesso, il Cardinale parlava (credeva, diceva di parlare) nel nome della Verità e della Fede, forte dell’appoggio del Papa. In modo diverso da adesso, la Chiesa poteva condannare al silenzio e alla morte gli scienziati che non si piegavano, pur avendo ragione, alla sua autorità. Bruciando i suoi libri e torturando con una morsa di ferro, la mordacchia, la sua lingua blasfema: per impedirgli anche di proferire parole ("infettando con le sue parole chi l’avesse incontrato") nel breve tragitto che avrebbe dovuto percorrere incontrando altri prima di arrivare al rogo già preparato per lui. E uccidendolo, alla fine, con la potenza di un fuoco purificatore tra le urla della folla e i canti dei religiosi. Definitivamente affermando, con la forza dei fatti, la superiorità della Fede sulla scienza di chi in modo laico riflette e fa ricerca. Episodio terribile, la morte di Giordano Bruno accrebbe la fama e l’importanza del suo accusatore. Un Papa di cui non so più il nome lo innalzò addirittura alla gloria degli altari e lo insignì del titolo di dottore della Chiesa. Senza pudore alcuno dedicando al suo nome, meno di un secolo fa, una Chiesa che dista poco più di un chilometro dall’Università in cui il Papa non ha tenuto, per fortuna di tutti, la sua lectio magistralis. Rendendosi responsabile, la Chiesa nel cui nome anche quell’altro Papa parlava di un orrore di cui i Papi successivi e quello di oggi nulla hanno saputo o voluto dire. Un orrore che potrebbe essere perdonato a questo Papa e alla Chiesa nel cui nome egli parla solo nel giorno in cui, al termine di una ricerca rigorosamente laica, decidesse di dedicare a Giordano Bruno e al suo amore per la verità la Chiesa dedicata oggi all’uomo, crudele e non molto dotato dal punto di vista culturale, che seppe zittirlo solo con la mordacchia e che arrivò a farlo bruciare vivo nella piazza più bella di questa nostra splendida città.

l'Unità 3.3.08
Psichiatria, quante frasi fatte
di Marco D’Alema

«Elettroshock da riabilitare». «Antidepressivi che non servono a niente». «Abuso di psico farmaci per i bambini». «La chiusura dei manicomi? Una follia». «Troppi crimini in famiglia? Colpa della 180». Sono più o meno questi i toni di molti articoli e commenti apparsi recentemente sulla stampa in materia di salute mentale. A leggerli vien da pensare che sia in atto una specie di rivoluzione in campo psichiatrico accompagnata dal fallimento delle politiche di assistenza sin qui seguite.
Per fortuna così non è. Ma andiamo per ordine. Prendiamo il caso dell’appello per la riabilitazione dell’elettroshock lanciato al congresso della Società italiana di psicopatologia. Primo elemento di confusione: in Italia non c’è alcun divieto a praticare l’elettroschock. Quindi perché un appello? Sarebbe stato molto più giusto, semmai, riproporre in sede scientifica nuove argomentazioni sulla sua utilizzazione e soprattutto, se vi fossero, sulla sua efficacia. Tutte discussioni utili se svolte in sede scientifica e non mediatico-politica. Per questo quell’uscita mi è apparsa se non altro poco responsabile. E almeno per tre motivi:
1) perché può indurre il cittadino a credere che la soluzione dei complessi problemi legati alla salute mentale sia collegata all’uso di un singolo intervento terapeutico;
2) perché ottiene l’effetto di riportare la discussione su un terreno di scontro ideologico;
3) perché contribuisce ad aumentare la confusione dell’opinione pubblica su un tema così importante per la salute dei cittadini.
Un altro esempio. Un noto esponente politico, l’onorevole Volonté dell’Udc, è intervenuto recentemente sostenendo che è stata una follia chiudere i manicomi, sottolineando, a sostegno di questa affermazione, che "la scomparsa dei manicomi, luoghi di cura della follia, ha fatto esplodere la follia della società". Per poi proseguire con una rievocazione sconcertante dei fantasmi della pericolosità del malato mentale, non ottenendo altro risultato che quello, di contribuire al rafforzamento di idee false che concorrono a determinare lo stigma.
Mi fermo a questi due esempi per far capire come "non" si dovrebbe discutere di salute mentale. Il che non vuol dire che non si debba discuterne. Anzi, è importante che modi e pratiche di assistenza, insieme alle politiche più generali per l’organizzazione dei servizi di salute mentale, tornino ad essere al centro dell’attenzione dei decisori e delle istituzioni preposte.
Con questo obiettivo abbiamo lavorato in questi venti mesi al Ministero della Salute per mettere a punto un vero e proprio piano di interventi e di indirizzi, che ora ci accingiamo a trasformare in accordo Stato-Regioni nella prossima conferenza prevista per il 20 marzo. Il nostro presupposto resta quello di evitare percorsi di istituzionalizzazioni del malato mentale e della sua presa in carico sul territorio e in ambiti di vita e assistenza il più possibile inclusivi e non emarginanti.
Un approccio che mantiene inalterata la sua validità. Anzi, esso appare oggi ancor più da perseguire dinanzi al clima di crescente insicurezza nelle condizioni di vita e di lavoro. Un clima contrassegnato spesso dal contrasto tra un sentimento di impotenza che coglie l’individuo di fronte alla complessità della realtà in cui è immerso e lo sviluppo della tecnica che crea l’illusione che tutto sia possibile.
Inoltre il prevalere dell’esaltazione del ruolo dell’individuo ha messo in discussione la funzione protettiva e generativa dei legami sociali, dando luogo a una frammentazione degli affetti e delle sicurezze e determinando contesti dove gli individui e i gruppi sociali vivono nell’incertezza di riferimenti e di supporti.
Questi cambiamenti producono l’emergere di nuovi problemi. Dalle patologie depressive ai disturbi dello sviluppo, con il correlato di comportamenti di abuso, di forme di marginalità psicosociale, di comportamenti violenti e di disturbi di personalità. Problematiche che coinvolgono anche l’età evolutiva e in particolare l’età adolescenziale.
Senza contare poi come tutto ciò aggravi i sentimenti di difficoltà e di abbandono delle famiglie con pazienti portatori di gravi disturbi psichiatrici. Uno scenario ben rappresentato da Zardini e Sereni in recenti interventi sulla stampa.
Le linee di indirizzo che abbiamo messo a punto sono una risposta concreta a questi nuovi bisogni. Esse riaffermano la validità dei principi della 180, peraltro riconosciuti anche in ambito europeo come testimoniato dal "libro verde" in materia di salute mentale approvato recentemente dal Parlamento europeo.
E scaturiscono da un percorso di incontri seminariali che ha affrontato le principali questioni e le criticità nel campo della salute mentale e al quale hanno partecipato circa 400 tra professionisti, operatori, associazioni che operano nel territorio, familiari, utenti, amministratori locali e delle Aziende Sanitarie.
Il primo obiettivo che ci siamo posti è quello della promozione della "salute mentale di comunità", integrando le politiche per la salute con quelle per il lavoro, per l’istruzione, per la tutela sociale, per le pari opportunità, per il contrasto alle povertà e all’emarginazione e a nuove forme di istituzionalizzazione.
Per raggiungere tali obiettivi, nel quadro di un nuovo welfare di comunità così come disegnato dalla legge 328 del 2000, le Aziende Sanitarie e gli Enti Locali dovranno coinvolgere attivamente i cittadini, secondo i principi della responsabilità e della sussidiarietà.
In questo quadro diventano veramente essenziali la garanzia dell’accesso, l’appropriatezza e la continuità delle cure e la personalizzazione del progetto terapeutico.
Solo così si potranno infatti garantire risposte a tutta la cittadinanza. Attivando specifici programmi per aree critiche ed emergenti della popolazione, per età (età evolutiva e anziani), per marginalità sociale (carceri, senza fissa dimora, minoranze etniche), per problematicità psicopatologica (internati in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, rischio suicidario). Il tutto favorendo e incentivando idonei e innovativi percorsi di formazione e di ricerca.
Parliamo di questo. Confrontiamoci su queste linee di intervento. Ma, per favore e per amore del nostro lavoro e della nostra missione, abbandoniamo ricette e denunce facili o scioccanti. A rimetterci, come sempre, sarebbero per primi proprio i destinatari del nostro impegno e i loro familiari. Gli stessi che ci chiedono aiuto, ascolto e scelte responsabili.

* Consigliere del Ministro della Salute per le politiche della salute mentale

l'Unità 3.3.08
Corrado Guzzanti: Ferrara, l’aborto e noi
di Stefano Miliani

«La campagna sulla moratoria all’aborto è ambigua e violenta Ma è vero che oggi i politici corrono sotto il balcone di San Pietro»

Ce so andato a parlà co' Ferrara stava dentro a sta vasca, in una confusione…vabbè… Gli ho detto a Giulià, ma che dobbiamo fa esattamente, spiegame. che vordì a moratoria sull'aborto? A moratoria sulla pena di morte vuol dire impedire di ammazzà i condannati, a queste glie impediamo de abortì?
No dice lui, "non potemo obbligà una a partorì pe forza". Allora a 194 a lasciamo così? No, dice lui, "è omicidio"! E quinni che famo? A cambiamo sta legge. "Nun ho detto questo". E che hai detto Giulià? "Vojo fa na battaglia curturale". Ma allora va fa i girotondi daa vita che ce vai a fa in parlamento?

Pur rivestendo l'abito talare, l'«eminente teologo» padre Pizzarro introdotto ieri sera da Serena Dandini a Parla con me su Raitre appariva piuttosto trucido. Nel linguaggio e nella capigliatura. La conduttrice ricordava vagamente di averlo incontrato molti anni prima, chiedendosi peraltro se per lei sia stato un bene, tuttavia lo aveva invitato al programma per avere risposte illuminanti sul «divario storico» tra laici e cattolici, su temi come donne e aborto e Giuliano Ferrara, e anche se le risposte non sembravano illuminarla molto e hanno lasciato la conduttrice alquanto perplessa non poteva mandarlo via quando ormai aveva l’uomo religioso lì sul teleschermo che le spegneva speranze e bisogno di conforto. Corrado Guzzanti, che ha indossato quell'abito talare e ha espresso concetti di cui leggete un estratto qui a fianco, prova a rimediare.
Padre Pizzarro pare alquanto scafato. È anche un personaggio d'attualità, no?
«È un personaggio abbastanza inedito né ben identificato. Lo feci anni fa, mi pare all'Ottavo nano e, sì, è attualissimo».
Il «teologo» trova Ferrara in una vasca: un riferimento allo sketch nel «Decameron» di Daniele Luttazzi che è stata la causa, almeno ufficiale, del recente licenziamento del comico da La7?
«Sì. È un omaggio a Luttazzi».
Il teologo non pare convinto della battaglia contro la legge sull'aborto di Ferrara, non gli pare fattibile. In piazza ha visto solo «quattro scalmanate», per lui si fa «un porverone», comunque propone di togliere punti della patente alle donne che devono abortire. Tema serio.
«Gioca sul fatto che questa battagla contro l'aborto è abbastanza ambigua. Su un unico punto tutti si dicono d'accordo: la vita va difesa, la donna che abortisce per problemi suoi va aiutata. Tante belle parole ma nella realtà trovo curioso quanto accade. La legge attuale è di compromesso su una tragedia: si intende modificarla nel punto principale, cioè che la è donna padrona del proprio corpo, o si intende negarle questo diritto? Trovo la campagna sulla moratoria - ripeto - ambigua e anche aggressiva: si sono usate parole come "assassinio", come "omicidio"… ».
Padre Pizzarro tocca un'altra polemica: apprende che l'ingerenza non è «roba de magnà», dice che la Chiesa fa il suo lavoro, ma sono i laici, sono i politici italiani, a venirle dietro.
«Infatti è la politica che cerca di guadagnare il consenso della Chiesa e del mondo che rappresenta facendo battaglie ideologiche. Il mio personaggio è imbarazzato: ci troviamo troppo peso addosso, diciamo cose che abbiamo sempre detto - sostiene padre Pizzarro - siete voi che venite disperateamente sotto il balcone di San Pietro e cercate di schierarvi dalla nostra parte. È il capovolgimento dell'ingerenza del politico che cerca elettori di centro seguendo poi un'identificazione perfino obsoleta perché ormai non è vero che i cattolici stanno al centro. Questo avviene perché la politica ha perso gran parte della sua identità: se leggi gli slogan sono così vaghi che non sapresti riconoscere da che parte vengono».
E oggi diritti che parevano acquisiti sono invece in discussione. Così il teologo propone di far controllare il corpo delle donne dalle guardie svizzere…
«Riporto un finto dialogo con Ferrara che, ho letto, ora è anche contrario all'uso del preservativo. Non è più un pensiero solo politico. Non ho niente contro di lui, cercavo di capire i suoi argomenti. Torniamo lì. Il punto centrale è: si vuole limitare o anche togliere il diritto di scelta di una donna? Sì o no? Questo punto non viene affrontato frontalmente. Non c'è stata una proposta precisa, si dice che non si può costringere una donna a partorire e poi si dice che l’aborto è omicidio. Contro la 194, che serve a combattere l'aborto clandestino, è partita una campagna violenta perché giudico violento dire che le donne che abortiscono sono assassine».
Tanto più ora che la tv è sotto la par condicio, vi aspettate polemiche?
«Spero di no. Sono temi che riguardano tutti, si parla di diritti civili che non possono essere sequestrati perché una lista propone la moratoria sull'aborto. Sarebbe paradossale».

SATIRA TV Cosa propone padre Pizzarro - Guzzanti
«A ste ragazze levamoje i punti della patente»
di Corrado Guzzanti

Questo è un estratto delle risposte date ieri sera da Corrado Guzzanti nei panni di Padre Pizzarro a Serena Dandini a Parla con me, su Raitre. Lo pubblichiamo per gentile concessione dell’autore
In Parlamento se fanno ‘e leggi. Voi cambia’ ‘a legge? «Sì no però Bò bà».
Gli ho detto: a Giulia’, er fojo ci ha quattro paggine, a prossima enciclica ce n’ha trecentosessanta, io vado a lavora’, se vedemo n’artra vorta.
(...) Sull’aborto due so’ ‘e cose: o lo vietiamo e ricominciano quelli clandestini o lo lasciamo così, ma che poi fa’ partorì una pefforza? Che famo je commissariamo er corpo? Je mannamo le guardie svizzere? Nun ze po’ fa’ magari!, nun ce lo fanno fa’, nun ce lo faranno mai fa’. È ‘na battaglia persa. Accontentamose, continuamo quello che stamo a fa’ continuamo a piazza’ obiettori de coscienza da per tutto che poi je famo fa’ carriera e all’artri no e va bene così. Al massimo j’ho detto a Giulia’ tanto pe’ fallo contento, famo ’na cosa più piccola, ho detto a ‘ste ragazze levamoje i punti della patente...
(...) Si non porti avanti ‘a gravidanza, allora non porti manco a machina, sei ’n’assassina, delinguente magari me vieni pure addosso, bò a lui non glie stava bene, vabbé. . . vo’ anda’ ar Senato, deve anda’ ar Senato. . . vo’ fa’ ‘na cosa sua
(...) a noi ce interessa proprio la vita dal concepimento alla nascita, già un quarto d’ora dopo non gliene frega più niente a nessuno, prova a cercà n’asilo nido…
(...) Ma che pensi che semo tutti pella vita allo stesso modo? Ma che pensi che l’idea daa vita nostra e la difesa della vita vostra so uguali? Ma manco pe niente. . .
(...) I laici pensano che è un valore assoluto noiartri pensamo che è un valore relativo che ci ha donato dio. Er padrone è lui e ce dobbiamo fa quello che dice lui. . . E che pensi che senfuturo la scienza se inventa un modo de fa diventà a gente immortale, che (per un laico) sarebbe er massimo daaaffermazione della vita, che pensi che noi semo daccordo?
(...) Ma nun zemo d’accordo peggnente! , amo deciso che a na cert’ora se deve morì e se deve morì! sennò ar regno dei cieli quanno ci annamo? Lo vedi che so du cose diverse? Stamo a fa er gioco delle tre carte peffà sembrà che semo tutti d’accordo ma nun semo d’accordo fondamentarmente peggnente.

l'Unità 3.3.08
Sulla 194 è utile conoscere recenti scoperte

Cara Unità,
seguo in questi giorni sui vari giornali il dibattito sulla delicata e fondamentale questione della legge 194 e vorrei raccontare delle recenti ricerche nel campo della neonatologia di cui ho sentito parlare in un interessante incontro-convegno svoltosi recentemente a Roma dal titolo “Né assassine né peccatrici”. La neonatologa Maria Gabriella Gatti, ricercatrice e docente all’università di Siena, ha parlato in questa occasione della recente scoperta della formazione della retina alla 24sima settimana di gravidanza, fondamentale perché poi solamente alla nascita, attraverso la reazione allo stimolo luminoso, si possano attivare tutte le aree cerebrali. Insieme a questo ha spiegato anche che il feto, durante il passaggio nel canale del parto, a causa della fortissima pressione subisce uno schiacciamento delle ossa craniche addirittura di alcuni centimetri, cosa che causerebbe la morte istantanea di qualunque essere umano. Queste scoperte permettono alle donne di rifiutare totalmente ogni possibile accusa di omicidio nel momento in cui dovessero o volessero abortire, perché dimostrano scientificamente che il feto non solo non sente perchè non può sentire, ma che non è vivo, perchè se così fosse, durante il passaggio nel canale del parto morirebbe.
Filippo Trojano

Repubblica 3.3.08
Le ragioni del dubbio
il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky per una morale a misura d´uomo
di Umberto Galimberti

S´intitola "Contro l´etica della verità" È una critica molto netta alle credenze assolute di ogni religione
C´è anche una presa di distanza dallo scetticismo radicale tipico del nostro tempo
Solo l´inquietudine dell´intelletto di fronte alla fede rende possibile il dialogo coi laici

Contro l´etica della verità, l´ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky (Laterza, pagg. 172, euro 15) pronuncia finalmente una parola chiara sia contro l´etica che discende da una verità assoluta come sono solite proclamarla le religioni compresa la religione cristiana, sia contro lo scetticismo radicale tipico dell´atmosfera nichilista che caratterizza il nostro tempo. La tesi è che il dubbio, da cui discende l´etica del dialogo tra posizioni differenti e spesso contrastanti, non è il contrario della verità, ma un omaggio che le si fa a partire dal riconoscimento che la conoscenza umana non è mai una conoscenza perfetta. Come ci ricorda Jaspers nel suo grande libro Sulla verità (che nessun editore ha avuto ancora il coraggio di tradurre in italiano): «Noi non viviamo nell´immediatezza dell´essere, perciò la verità non è un nostro possesso definitivo. Noi viviamo nell´essere temporale, perciò la verità è la nostra via».
Lungo questa via incontriamo anche il dubbio radicale degli scettici che si astiene dall´affermare di ogni cosa che sia vera o sia falsa. Il dubbio che propone Zagrebelsky lungo il sentiero della verità non ha nulla a che fare con il dubbio scettico, perché, a differenza di quest´ultimo, non si astiene dal giudizio, ma lo promuove attraverso il dialogo, con l´avvertenza che la verità a cui si giunge è suscettibile di essere di continuo riesaminata e riscoperta. Quindi relativismo, contro l´assolutismo delle religioni, e di questi tempi anche della religione cattolica.
Dico di questi tempi perché il pensiero cristiano, nelle sue più alte espressioni teologiche, ha sempre sostenuto una verità mai disgiunta dal dubbio. Agostino, ad esempio, nel De praedestinatione sanctorum scrive che «La fede consiste nella volontà di credere». Secoli dopo Tommaso d´Aquino torna a sottolineare il carattere volontaristico dell´assenso fideistico in cui l´intelletto è «terminatus ad unum ex estrinseco (ex voluntate)» e non «ut ad proprium terminum» (ossia dell´evidenza del contenuto). Sempre Tommaso, nel De fide, commentando san Paolo, osserva che la fede conduce «in captivitatem omnem intellectum» cioè rende l´intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e quindi gli è estraneo (alienus), sicché l´intelletto è inquieto di fronte alla fede.
Sembra che il magistero di Ratzinger e dei cattolici che lo seguono e lo fanno proprio non soffra più di questa inquietudine. E allora come è possibile una convivenza o un dialogo tra i laici che cercano la verità con la cautela del dubbio e i cattolici che, accolta la verità enunciata dal magistero ecclesiastico, la assumono come assoluta e non tollerano di essere sfiorati dal minimo dubbio? Non è qui in gioco la democrazia come libero confronto di opinioni? E che ne è della tolleranza tanto rivendicata contro il fondamentalismo, quando uno dei dialoganti si arresta ogni volta che si imbatte in una verità di fede? Ma soprattutto che significa una «verità di fede»? Non è questa una contraddizione in termini? La fede, infatti, crede perché non sa. Tra fede e sapere non c´è quindi compatibilità. Le due cose non possono convivere usurpando l´una le prerogative dell´altro.
La verità, in quegli ambiti molto limitati in cui può essere raggiunta, è intollerante, perché non tollera posizioni diverse da quanto è stato accertato, come in matematica, in fisica, in biologia e in generale in ambito scientifico, ma la fede, proprio perché si fonda sulla volontà di credere e non su prove da chiunque verificabili, non può che essere tollerante. Dove per «tolleranza» non si intende non imprigionare o bruciare chi la pensa diversamente come accadeva una volta, ma ipotizzare che chi la pensa diversamente possa avere un gradiente di verità superiore al proprio. Solo a queste condizioni può incominciare il dialogo e dar vita a quel tipo di convivenza che si chiama democrazia.
Su questo tema Zagrebelsky insiste con parole chiare. E da eminente giurista non può evitare di constatare il conflitto tra l´universalità della legge e la storicità delle situazioni concrete, che non è qualcosa di sporadico o di accidentale, ma una costante che ricorre con una frequenza insospettata. Quando ad esempio nella cultura d´Occidente si proclamano i diritti dell´uomo e insieme il rispetto delle differenze culturali, siamo sicuri che il contenuto concreto di questi diritti non siano le consuetudini di noi occidentali, che potrebbero benissimo sgretolarsi a contatto con le differenze culturali di cui pure proclamiamo il rispetto? E allora solo una discussione tra le culture, al termine di una storia ancora a venire, potrà dire quali universali pretesi diventeranno universali riconosciuti.
Un altro esempio di conflitto dei doveri può essere desunto dall´etica kantiana a proposito della sollecitudine per la persona e del suo equivalente morale che è il rispetto. Che ne è di quest´etica in ordine alla donna nei primi mesi di gravidanza e in ordine al morente nelle sofferenze della sua agonia? Che ne è della rispettiva angoscia e delle regole morali e giuridiche indifferenti a queste situazioni di angoscia? Che etica deve qui entrare in azione: il rispetto della persona o il rispetto della regola? Kant ci ricorda che la morale è fatta per l´uomo e non l´uomo per la morale. Un´espressione questa che ricalca quella di Gesù là dove dice che il sabato è fatto per l´uomo, non l´uomo per il sabato.
Nei casi citati solo l´etica del dubbio invocata da Zagrebelsky si solleva all´altezza della questione, che non consiste nel decidere se abortire o meno, se praticare o meno l´eutanasia, ma nel decidere tra doveri che meritano entrambi rispetto e attenzione, perché ciascuno di essi è confortato da potenti e fondate motivazioni etiche. E siccome non vi è regola per decidere tra le regole, per questo e non per altro occorre un dialogo senza pregiudiziali in cui, tra regole che appaiono entrambe giuste, si cerca di reperire quella equa.
Questo oltrepassamento della legge in nome dell´equità è stato teorizzato e discusso da Aristotele in quei numerosi passi dell´Etica a Nicomaco dove si introduce il concetto di saggezza pratica o phrónesis, che è quella forma di saggezza legata all´applicazione della norma in situazione, là dove la situazione si rivela decisamente più complessa della semplicità con cui la norma universale è formulata. Scrive infatti Aristotele: «Tra i discorsi che riguardano le azioni, quelli universali sono i più vuoti, e quelli che riguardano i casi particolari sono i più veritieri, e, dato che le azioni riguardano i casi particolari, è necessario adeguarsi ad essi». Qui l´etica del dubbio, che commisura la norma universale con le situazioni particolari, fa un servizio alla verità maggiore di chi, in nome della verità o dei principi, applica la norma prescindendo dalle situazioni concrete che spesso mal si attagliano all´universalità della legge, la cui applicazione sarebbe senz´altro corretta e non soggetta a obiezioni, ma fondamentalmente ingiusta.
«E´ necessario, scrive Zagrebelsky, che tutte le convinzioni e le fedi più radicate, cessino di essere verità e si trasformino in opinioni quando diventano pubbliche nel rapporto degli uni con gli altri». Senza questa capacità di trasformazione non si dà il dialogo, così spesso retoricamente invocato, e tanto meno democrazia. Del resto lo stesso Jacques Maritain, il filosofo cattolico a cui spesso faceva riferimento Paolo VI, distingueva la fede, campo della verità dogmatica, dalla politica che è il campo del possibile. E questo anche in omaggio alla risposta che Gesù rese a Pilato. «Il mio regno non è di questo mondo». Ma forse proprio qui si incaglia il cristianesimo che guarda alla «città celeste», e perciò assegna allo Stato che governa la «città terrena», non la realizzazione del bene, ma la semplice limitazione delle condizioni che possono ostacolare il destino ultraterreno, dove l´individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione. Ma la dove la realizzazione individuale viene distinta dalla realizzazione sociale, etica e politica si separano, al punto che Rousseau può dire: «Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo».
Quando i cristiani e in generale tutti i detentori di una presunta verità assoluta riusciranno convincersi che la politica e l´etica civile che ne deriva non sono la semplice applicazione delle proprie radicate fedi o convinzioni, ma mediazione tra fedi, convinzioni, opinioni, norme e concrete situazioni? Per accedere a questa, che è poi la condizione della vita democratica, non c´è altra via se non quella che Zagrebelsky chiama «etica del dubbio», l´unica che fa onore alla verità che nessuno possiede, perché, di epoca in epoca, la verità si trova sempre per via.


Corriere della Sera 3.2.08
Veltroni candida Calearo. La sinistra attacca
di Monica Guerzoni

Sinistra arcobaleno all'attacco: state con i padroni
Sui nomi da candidare scontro aperto in Veneto, Piemonte e Campania. L'ex pm «recupera» il girotondino Pancho Pardi

PISA — L'abbraccio con don Paoli sulle colline di Lucca gli ha messo addosso la «forza della leggerezza» e la concreta speranza di sconfiggerlo davvero, il centrodestra. E alla ventiquattresima provincia Walter Veltroni si lancia in una affermazione un po' enfatica alla quale mostra di credere sul serio: «Guardate che si può vincere, si può fare la più grande rimonta della storia italiana». In bella mostra sul palco applaudono Ettore Scola e Sandro Veronesi e tra la folla si alza un lenzuolo che dice «Walter, hai la stoffa del campione ». E qui il segretario si gioca l'asso e annuncia che «il dottor Massimo Calearo, grande industriale veneto» ha ceduto al corteggiamento. Sarà capolista e se al Pd riuscirà di sovvertire i pronostici, anche ministro. Addio lotta di classe? Il segretario non bada alle accuse e promette un «grande patto tra produttori, lavoratori e imprenditori». La notizia che il Pd punta a sedurre «un pezzo di borghesia dinamica», parole di Goffredo Bettini, rimbalza a Roma e la Sinistra si scatena. «O con gli oppressi o con gli oppressori», invoca chiarezza Bertinotti. «State con i padroni», rincara Ferrero. A Manuela Palermi vengono «i brividi» e tra Pd e «cosa rossa » il baratro è scavato, col rischio per i democratici di pagare un prezzo in termini elettorali. Veltroni cita Kennedy e si paragona a Obama e chissà se basta dirsi «riformisti di centrosinistra » per neutralizzare le accuse di Bertinotti&Co, i quali vedono in Calearo, Ichino e Colaninno la prova che il Pd è un partito di solo centro.
Nelle stesse ore Bettini dice a Lucia Annunziata che Antonio Di Pietro «non sarà mai ministro della Giustizia» e al tavolo delle candidature è braccio di ferro sino all'alba. Si litiga in Veneto perché il segretario del Pd, Giaretta, ha deciso di rientrare in corsa, ci si azzuffa in Piemonte e anche in Campania, causa Bassolino che non vuole il ministro Nicolais in cima alla lista. Toccherà a Veltroni, in una manciata di ore, decidere la vita o la morte politica di Tiziano Treu o Renzo Lusetti, contenere il malumore di esclusi del calibro del rettore Latteri (che lascerà il Pd) e arginare, se crede, la débacle dei fassiniani: fuori De Piccoli, Verducci, Cuillo mentre Anna Serafini scivola in posizione per nulla blindata.
Più chiaro il quadro dei numeri uno. Franceschini capolista in Toscana, Letta in Lombardia, Fassino e Bonino in Piemonte, Bindi in Veneto, Marini nel Lazio, Rutelli e Sereni in Umbria. E ancora D'Alema in Puglia, Follini in Campania, Fioroni in Sicilia, Parisi e Soro in Sardegna, Pinotti in Liguria... Bersani e Finocchiaro in cima alla lista dell'Emilia e chissà se è vero che, in Sicilia, Enzo Bianco dovrà cedere a Ignazio Marino il posto d'onore. Prodi premia la capo ufficio stampa Sandra Zampa e torna sulla scena, chiamato da Di Pietro, il girotondino «Pancho» Pardi.
Sono le 11 quando Veltroni sbarca a Pisa e ad attenderlo, reclutati in gran parte da Ermete Realacci, sono migliaia, quanti non se ne vedevano da uno storico comizio di Ingrao del '75. Dalle finestre uno striscione sbeffeggia «Tu vo' fa' l'americano », i militanti fischiano e Walter porge l'altra guancia: «La democrazia è bella anche per questo ». Ma quando, dopo le ovazioni e gli autografi, un ragazzo gli chiede se taglierà due reti a Mediaset, lui allunga il passo e schiva lo sgambetto. Il buonismo non lo ha rinnegato, però il tempo delle stoccate all'avversario arriverà e Veltroni comincia a scaldarsi. Il programma di Berlusconi, attacca, non ha copertura se non per un terzo, mentre quello del Pd, col suo complesso di manovre «tra 16 e 21 miliardi» coperti per 18 dal recupero dell'evasione e da tagli alla spesa pubblica, «è un programma ragionevole». Quella del Pdl è «la vecchia Italia» rinnova la sfida Veltroni, l'Italia di Calderoli che scrive leggi «porcata» e l'Italia di Bossi, che «ha scelto la via insurrezionale ».

Corriere della Sera 3.2.08
La reazione Il leader del Prc: torna la linea «larghe intese»
Giordano: viene da ridere Giustificò lo sciopero fiscale

ROMA — All'inizio Franco Giordano (nella foto) non ci voleva credere. «Massimo Calearo? Quale Massimo Calearo? ». Il segretario di Rifondazione comunista ha poi fatto delle ricerche e alla fine ha scoperto che «sì era proprio lui, il presidente di Federmeccanica che, in una sede non neutra quale era il meeting di Cl, ebbe a dire, sullo sciopero fiscale proposto dalla Lega, che "a mali estremi estremi rimedi", insomma approvò la cosa». E Giordano ora si domanda: «Se si andassero a riprendere le reazioni che ebbero allora i dirigenti di Ds e Margherita ci sarebbe da ridere». Ci sarà anche da ridere, ma Calearo è un candidato su cui Veltroni punta molto: «Punta su uno — replica il leader del Prc — che ha fatto fare 50 ore di sciopero ai metalmeccanici, che poi hanno ottenuto 127 euro lordi di aumento? Senza dimenticare che, chiuso quell'accordo, Calearo ha annunciato: "Questo è l'ultimo contratto nazionale"». Va bene, però, con Calearo Veltroni conta di raddrizzare le sorti elettorali del suo partito nel Nord est... «La questione, temo, è diversa. Indipendentemente dalle persone, per cui bisogna avere sempre il massimo rispetto, le candidature pesanti del Pd stanno delineando quale sarà la politica economica di quel partito. Ora si è arrivati addirittura a candidare, con Calearo, un uomo di Confindustria che appartiene a una cordata diversa da quella di Matteo Colaninno. Non era successo neanche ai tempi della Dc che in un partito fossero rappresentate tutte le anime di Confindustria».
Non è forse normale per un partito che vuole essere lo specchio della società? E poi se per Calearo questo non vale per Colaninno si può dire tranquillamente che è sempre stato vicino a una determinata parte politica. «Per Colaninno si può dire che nella sua azienda fa contratti a 520 euro al mese e che in un'intervista a
Panorama ebbe a dire che l'opposizione di Berlusconi meritava un voto più alto di quanto meritasse il governo». Insomma, Giordano vede un progressivo spostamento del Pd a destra... «E che devo dire, nelle liste c'è anche Ichino. Per carità, il massimo rispetto per la persona, ma trovo francamente difficile immaginare che una proposta come l'abrogazione dell'articolo 18 possa dare maggiore stabilità ai precari ».
Per farla breve, con tutte queste candidature, secondo il leader del Prc, «persino la logica comincia ad avere qualche scricchiolìo». Solo su una cosa c'è massima chiarezza: «In tema di politica economica il Pd ha scelto la Confindustria. E qui torna il tema delle larghe intese, perché al di là di quel che dicono Berlusconi e Veltroni, basta vedere le candidature di peso scelte dal Pd, per capire che la linea di quel partito è tutta anti-sinistra. Basti pensare al generale Del Vecchio che, esplicitamente, si candida solo contro di noi. La recessione e la crisi economica faranno il resto: cioè, aiuteranno Berlusconi e Veltroni a fare le larghe intese». E allora, aggiunge Giordano «comincio a temere che il giovane operaio della Thyssen rischia di restare solo in compagnia di quelli che da sempre hanno posizioni avverse alle sue».
Non è che ha ragione Veltroni e che voi del Prc siete rimasti fermi al '53? «Perché Bertinotti ha detto che tra Colaninno e l'operaio della Thyssen ce ne era uno di troppo? E pensare che non sapeva — e nemmeno poteva immaginare — che il Pd avrebbe candidato addirittura Calearo! Comunque, per rispondere a Veltroni: stiamo peggio di quanto stessimo nel '53: abbiamo milioni di precari e di lavoratori in nero, grazie alla politica economica di Confindustria che il Partito democratico ha sposato in pieno ».
Maria Teresa Meli ❜❜ E' evidente che in tema di politica economica il Pd ha scelto la Confindustria

Corriere della Sera 3.2.08

L'intervista L'ex presidente di Federmeccanica: mai votato il centrosinistra
«Ci sarà un ministro veneto Walter mi ha convinto così»
Montezemolo mi ha detto che è contento che anche gli imprenditori si mettano al servizio del Paese. E che per ora li vede solo nel Pd: spera ne arrivino anche nel Pdl
La Lega mi aveva parlato di una candidatura a sindaco. E l'Udc, ma prima della rottura con Berlusconi, mi aveva proposto un seggio da senatore
di Raffaella Polato

MILANO — Imprenditore, e nel cuore del Veneto roccaforte berlusconian- bossiana. Presidente (da ieri ex) di Federmeccanica. Falco — secondo il sindacato — delle trattative confindustriali. Suona insomma un po' strano che Massimo Calearo si candidi per il Partito democratico.
«E perché? Al contrario: dimostra che qualcosa sta finalmente cambiando, in questo Paese. Il Pd è la prova che un progetto riformista e di rinnovamento ci può essere. E in questo progetto un imprenditore che si ritiene moderno ci sta».
Lei però ha sempre dato l'idea di essere, semmai, più «tendenza Pdl»...
«Difatti non ho mai votato centrosinistra prima d'ora».
Appunto. E dunque?
«E dunque il muro delle ideologie è caduto da un pezzo e, per fortuna, adesso ad accorgersene è anche la politica. Almeno quella "nuova". Qui, nel Pd, c'è un programma chiaro. Quello del centrodestra gli assomiglia, è vero. Ma come ho detto a Gianfranco Fini la settimana scorsa...».
Scusi l'interruzione: l'ha corteggiata anche lui? O qualcun altro del Pdl?
«La Lega mi aveva parlato di una candidatura a sindaco. E l'Udc, ma prima della rottura con Silvio Berlusconi, mi aveva proposto un seggio da senatore. Con Fini ci siamo semplicemente visti qui a Vicenza».
E gli ha detto?
«Che i programmi possono assomigliarsi. Ma la differenza la fanno gli uomini: bisogna stare attenti a chi si candida».
A proposito di programmi e uomini. Al centro del progetto Pd c'è la questione salariale. E tra i candidati c'è Antonio Boccuzzi, l'operaio sopravvissuto al rogo Thyssen. Difficile che abbiate la stessa visione, anzi: lui ha già criticato l'arruolamento del "falco" di Federmeccanica.
«Guardi: di sicuro lui ha messo tutto se stesso nel suo lavoro come io ho messo tutto me stesso nel mio. Credo che abbiamo gli stessi obiettivi: un Paese che cresca, e in cui non succedano più tragedie come quella della Thyssen, e nel quale nessuno fatichi più ad arrivare alla fine del mese. Poi possiamo avere visioni diverse sulle strade per arrivarci. Però se ne discute, ci si confronta, si arriva a una sintesi. Io dico: per fortuna ci sono candidati sia tra gli operai sia tra gli imprenditori. Dimostriamo che il Pd non è un partito monocratico, che qui la democrazia è vera».
Resta il fatto che lei, con il sindacato, ha battagliato duramente fino a poche settimane fa. E il sindacato è una parte importante, dell'elettorato di riferimento Pd.
«C'è sindacato e sindacato. Io ho sempre avuto rapporti buoni con tutti, tranne che con la Fiom. Ma sa che c'è? Le critiche di Cremaschi mi fanno piacere, come quelle di Bertinotti: a loro volta dimostrano che questo è un partito nuovo. Che non è quello dei no global, no Tav, no tutto».
Però non è solo la Fiom a criticare.
«Ma guardi che anche dentro al sindacato è in corso un profondo cambiamento culturale. Venite in Veneto: cosa si pensa, che l'operaio creda ancora alle classi, e quindi alla "lotta" di classe? E che questo sia popolo bue?».
Il pressing di Veltroni è durato a lungo: come l'ha convinta, alla fine? È vera la storia di un ministero in caso di vittoria?
«E' vero che gli ho detto: che sia io o un altro, il Veneto ha bisogno di una presenza forte nel governo. Non ce l'ha da troppi anni, ed è una delle ragioni del malessere Nord est. L'altro ieri mi ha risposto: hai ragione, ok».
E se non vincerete? Farà il deputato qualsiasi?
«Chi l'ha detto che non possiamo vincere? Comunque: non mi metto in gioco solo per la vittoria. Questo Paese mi ha dato molto. Penso, spero di poter restituire qualcosa. E lo si può fare anche da deputati».
Ovviamente ha pre-avvertito Luca Cordero di Montezemolo. Cosa le ha detto?
«Che è contento che anche gli imprenditori si mettano al servizio del Paese. E che per ora li vede solo nel Pd: spera ne arrivino anche dall'altra parte».
Già, perché tra Matteo Colaninno e lei dal Pdl dicono: "Vedete? Avevamo ragione, Confindustria è un covo...".
«Chi lo dice dà agli imprenditori italiani degli stupidi. Sono invece persone intelligenti, che decidono in proprio. E le loro singole scelte le fanno come in azienda: valutando non le bandiere, ma il progetto che convince di più. Le ideologie sono finite da un pezzo anche qui».

Corriere della Sera 3.2.08

Il ruolo della ragione come libera scelta, la tolleranza «appannaggio dell'umanità»: i modelli per una «buona società»
Per un nuovo illuminismo
Voltaire e Pascal, sintesi per un'alleanza tra razionalisti e cattolici
di Giulio Giorello

Ci sono dei classici che innervano la comprensione del nostro presente anche se paiono abbastanza inattuali. Uno di questi è il Dizionario filosofico di Voltaire.
L'illuminismo non è oggi di moda; lo è la sua critica. La celebrazione della Ragione non ha portato al Terrore? Non ha spianato la via ai dispotismi del Novecento? Non ha sancito il dominio della tecnica sull'uomo? Tutto sarebbe nato da quella «strana confusione» che si è prodotta da quando alcuni individui hanno «osato pensare di testa loro », e ci hanno pure preso gusto!
Così faceva già intendere nel dialogo sulla «Libertà di pensiero» (entro il Dizionario) il conte Medroso, settecentesco notabile portoghese, cui però ribatte milord Boldmind (alla lettera, spirito coraggioso): «Noi in Inghilterra siamo felici solo da quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire il proprio parere». Replica l'altro: «Anche noi siamo molto tranquilli a Lisbona, dove nessuno può dire il suo». E l'inglese: «Siete tranquilli, ma non siete felici. È la tranquillità dei galeotti, che remano in cadenza e in silenzio». A questo punto ci si aspetterebbe che il portavoce dell'illuminismo voltairiano pretenda di «emancipare» il povero lusitano. Medroso: «Ma se io mi trovo bene in galera?». Boldmind: «In tal caso, meritate di esserci!».
Per l'illuminista non si dà né totalitarismo della ragione, né qualche cosa come un partito che abbia come compito di emancipare chicchessia controvoglia, finendo col rappresentare il disciolto enigma della Storia. L'illuminista, come Socrate, sa di non sapere. Sa quanto delicate siano le nostre costruzioni intellettuali. È consapevole che tecnica e scienza non risolvono tutto (anche se possono rivelarsi di grande giovamento nel caso di epidemie, tsunami, terremoti, ecc.). Ha acquisito la cognizione dell'umana fragilità. Come recita l'esordio della voce «Tolleranza» del Dizionario: «Perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze», poiché «siamo tutti impastati di debolezze e di errori». La parola tolleranza non gode attualmente di buona stampa: è un atteggiamento che viene sospettato di paternalismo, condiscendenza o di un più o meno celato senso di superiorità. Per alcuni, la tolleranza rappresenterebbe addirittura un ostacolo a una genuina partecipazione, a un profondo rispetto, al dispiegarsi del vero amore: occorrerebbe spingersi «oltre la tolleranza», offrendo a chiunque la possibilità (o l'obbligo?) di integrarsi. Ma io preferisco Voltaire, per il quale la tolleranza era «l'appannaggio dell'umanità » — fuor di metafora, il modo per uscire dal bagno di sangue delle guerre di religione e della violenza politica. Ricordiamoci dell'immagine di Pascal: l'uomo è come un giunco, una delle cose più deboli («non c'è bisogno che tutto l'universo si alzi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d'acqua basta per ucciderlo») — ma è un giunco «capace di pensare». E Pascal conclude: «Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale». Ma Voltaire ci fa capire che la tolleranza è il nucleo di questo stesso pensiero. Sarebbe ben «stupido» che un giunco piegato dal vento nel fango intimasse al giunco vicino, piegato in senso contrario: «Striscia come me, miserabile, o ti denuncerò perché tu sia divelto e bruciato! ».
La mia modesta proposta è tenere insieme l'illuminista del Dizionario e il cattolico giansenista dei Pensieri, quel Blaise Pascal spintosi persino alla rinuncia ai frutti del suo «talento geometrico » — perché colpito dal fluire del mondo, che dispiega ai nostri occhi «l'orribile spettacolo del dileguarsi di tutto quello che possediamo».
Ritrovo un'eco di questa riflessione pascaliana nella fenomenologia della speranza, lievito e a un tempo illusione dell'umana avventura, che Joseph Ratzinger ha delineato nella sua ultima enciclica: ogni speranza «fugge sempre più lontano» man mano che si definiscono gli sforzi per realizzarla.
Ma perché anche la speranza possa fluire nel mondo è comunque necessaria per Ratzinger la libertà! I paragrafi della Spe salvi che trovo più incisivi sono quelli che enfatizzano il ruolo della ragione come scelta. «La situazione delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che a essa appartengono » (n. 30). E ancora: «Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata — buona — condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone» (n. 24).
Quest'esortazione assume maggior forza in una prospettiva tipicamente illuministica. Forse ci piacerebbe essere tutti Boldmind, ma talvolta cediamo alla tentazione di ripiegare come il conte Medroso. Magari qualcuno si trova tranquillo sulla sua galera, e non vuol rischiare quella «strana confusione» che agli occhi di Boldmind costituiva la libertà inglese. Di quest'ultima Voltaire si dichiarava ammiratore senza riserve, forse non badando troppo al fatto che quella tolleranza e quella libertà non erano piovute dall'alto, ma si erano faticosamente prodotte con dissenso e opposizione dal basso — da parte chi, in particolare, aveva rifiutato nelle isole britanniche la riduzione della varietà dell'esperienza religiosa a una Chiesa di Stato di cui il monarca era il capo spirituale. Dopotutto, l'anglicanesimo non era che il modello specularmente rovesciato del detestato «papismo»: la teocrazia si esprimeva a Roma in una gerarchia che aveva al proprio vertice il pontefice, a Londra il sovrano del corpo politico. Ma non è possibile mettere in relazione fede e società civile al di fuori di quei due schemi? Potrà sembrare paradossale, ma le parole di Benedetto XVI che abbiamo sopra citato possono venire coerentemente impiegate per dissolvere qualunque pretesa di realizzare una «società buona» indipendentemente dalle preferenze dei singoli — in particolare, ogni tentativo di servirsi del sentimento religioso per imporre questa o quella «struttura».
Non penso soltanto a istituzioni in senso stretto politiche, quanto alle stesse richieste di «senso » da conferire a ricerche intellettuali o a pratiche quotidiane. Non pochi, di fronte alla crescente complessità del nostro mondo, dichiarano magari «con acredine» come il Walter del romanzo di Musil che non si deve «rinunciare a cercare un senso nella vita». Ma ribatte Ulrich, uomo senza qualità: «Perché mai occorre un senso?». Da voltairiani che si rifiutano di ingabbiare il flusso della vita in questo o quello schema, o Dio in una qualche immagine fatta a nostra somiglianza, amiamo il Gesù «illuminista» e insofferente di ogni formalismo del Vangelo di Matteo (15,13): «Ogni pianta che non piantò il Padre mio celeste sarà sradicata».

Corriere della Sera 3.2.08

Riscoperte. Evangelisti, Moresco e Scurati raccontano la «rivoluzione mancata» del dopo 1848
Il romanzo torna al Risorgimento
Guarnieri: la repressione del brigantaggio fu come in Vietnam o in Iraq
di Ranieri Polese

Forse è per via di un anniversario (i 160 anni dalle Cinque Giornate di Milano: vi accenna Valerio Evangelisti nella introduzione a Controinsurrezioni, edito negli Oscar Mondadori, pp. 120, e 8,40) ma forse no. L'interesse per il Risorgimento fra i narratori italiani di oggi è, comunque, un fatto. Il '48 va per la maggiore: Una storia romantica di Antonio Scurati, uscito da Bompiani nell'autunno scorso, si ambienta nella Milano insorta contro gli austriaci. Poi ci sono Antonio Moresco ed Evangelisti (quest'ultimo sui giorni estremi della Repubblica romana del '49). Luigi Guarnieri si sposta un po' più in là: il suo I sentieri del cielo (Rizzoli, pp. 327, e 19) parla della guerra al brigantaggio nella Calabria del 1863. Di queste prove narrative, quella di Antonio Moresco, nata come un soggetto per un film, sfrutta i mezzi cinematografici (montaggio incrociato, flashback eccetera) per moltiplicare i piani temporali con un passare continuo tra la Milano delle barricate del '48 e la Napoli del 1799, dai pensieri atei di Leopardi alla morte di Pisacane, a Sapri, 1857.
Comune a tutti e quattro gli scrittori la scelta di un periodo storico dimenticato, cancellato dalla memoria collettiva, tanto che oggi nessuno sa più che cosa e chi rappresentino i monumenti e le statue celebrative che, erette all'indomani dell'Unità, devitalizzarono una storia fatta di sangue, passioni, coraggio, morti. È, nei fatti, una ripresa della lettura gramsciana del Risorgimento in termini di «rivoluzione passiva», della nascita dello Stato unitario come conquista regia, della mancata rivoluzione sociale che approfondì il divario tra le minoranze dei patrioti e le grandi masse contadine. Tra le due Italie, il Centro-Nord e il Meridione dove, appunto, braccianti delusi dalla mancata distribuzione delle terre e soldati sbandati del disciolto esercito borbonico dettero vita, dopo il 1860, a una guerra civile etichettata con il nome di brigantaggio.
Per tutti questi scrittori vale quello che ha dichiarato Scurati: è il Risorgimento «l'unica stagione epica del nostro immaginario poetico-nazionale a essere la più dimenticata». Ed è quella che — sempre Scurati — suona come una «condanna dell'avvilente piccineria del nostro presente ». Gli fa eco Moresco che presentando il suo racconto lo descrive come «una cosa che ha qualcosa di forte da dire nella situazione di oggi, in mezzo agli anniversari e alle celebrazioni retoriche e vuote del Risorgimento che coprono una profonda e grottesca restaurazione in ogni campo».
Certo, Scurati, Moresco ed Evangelisti scelgono il momento — il biennio 1848-49 — in cui è la linea radicale a prendere l'iniziativa; qui c'è una «tensione etica », anche un furore giacobino che non si ritroveranno certo nel programma della monarchia piemontese e nei moderati del partito di Cavour. La sconfitta mazziniana del '49 e la caduta della Repubblica romana segnano infatti la svolta verso la «conquista regia». Diversa è la situazione storica del romanzo di Guarnieri: conquistato il Sud da Garibaldi, 100 mila soldati del nuovo Regno vengono mandati a combattere contro i banditi del Meridione, con massacri, fucilazioni sommarie, violenze che la storia ufficiale non riporterà.
Un passato, insomma, doppiamente rimosso: censurato all'epoca, dimenticato poi (nonostante il folcloristico revisionismo filo-borbonico di quest'ultimo decennio). Per i soldati del 1863 le illusioni, gli ideali non contano più, c'è solo una sporca guerra da vincere a ogni costo. Ma pure per Guarnieri qui c'è «materia epica, un'occasione unica per un narratore di oggi, che voglia con realismo raccontare fatti storici dimenticati». E tutti questi scrittori sono concordi nella convinzione che solo il romanzo può servire a capire, far capire il nostro passato. «Solo la narrativa può restituire, in parte, il sapore di ciò che accadde. Gli odori, i colori: una verità che lo storico, vincolato a criteri quantitativi e a valutazioni asettiche, non può permettersi» scrive Evangelisti. Ai romanzi, dunque, spetta il compito di non disperdere una volta ancora «la vivacità sovversiva dei fatti d'arme — cruenti più di quanto non si creda — che ci hanno fatto nazione. Solo gli scrittori potrebbero rianimare il Risorgimento, e farlo uscire dal sacello, simile alla ghiacciaia di un frigorifero, in cui è rinchiuso. Conservato bene, però freddo freddo».
Calabria, inverno del 1863. Lo squadrone di soldati a cavallo, comandato dal maggiore Albertis, perlustra la Sila in caccia della banda di Evangelista Boccadoro, il capo-ribelle che dal suo rifugio sui monti conduce una guerriglia spietata contro i «piemontesi», i latifondisti che si sono spartite le terre, i borghesi che hanno giurato fedeltà al nuovo Stato. Siamo nel culmine della Guerra del Brigantaggio, la tremenda guerra civile che durò nel Meridione d'Italia per circa dieci anni dopo l'Unificazione. Una guerra spietata, condotta con poteri eccezionali sanciti, nel 1863, dalla Legge Pica. Un conflitto contrassegnato da una serie di barbari rituali, come le fotografie post mortem dei banditi, le loro teste mozzate esposte come monito per le popolazioni. Un dispendio di vite, una quantità di efferatezze incalcolabili. Anche i banditi, dal canto loro, si comportavano con altrettanta ferocia, sterminando le famiglie dei possidenti, ammazzando il bestiame, avvelenando i pozzi, dando fuoco alle colture, castigando con la morte e le mutilazioni i traditori e le spie.
«Ho voluto raccontare una guerra rimossa, che la storia ufficiale ha cercato di far dimenticare: il nuovo Stato voleva vincere a tutti i costi, certo però fece di tutto per nascondere i metodi e l'ampiezza di quel conflitto», spiega Guarnieri. «Ci fu, è vero, una commissione parlamentare d'inchiesta, ma molti dei suoi atti furono occultati. Doveva passare una sola versione: che si trattava di una rivolta di briganti analfabeti armati dai Borbone e dallo Stato Pontificio». Tornano in mente le parole di Antonio Gramsci, che già nel 1920, su Ordine nuovo scriveva: «Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti». «Per questo non uso mai la parola briganti nel libro», continua Guarnieri. «Certo, non copro, non maschero nemmeno le azioni terribili degli insorti: il racconto dei pochi mesi di quell'inverno 1863 registra atrocità da una parte e dall'altra. Sì, questi soldati mandati in un mondo arretrato di cui non capiscono la lingua e non conoscono gli usi, le tradizioni, le credenze, ricordano i militari americani in Vietnam, Afghanistan, Iraq. E c'è un'altra concordanza: l'aver sciolto l'esercito borbonico e rimesso in libertà quei soldati fornì ai ribelli un'enorme massa di sbandati. Un po' come è successo in Iraq con l'esercito di Saddam ».

Corriere della Sera 3.2.08

Da Leopardi a Heidegger
Il seme nascosto delle parole
di Natalino Irti

Un gioco continuo fra il vincolo dell'ètimo, l'eleganza verbale e la scientificità

Il destino della parola, di ciascuna parola del nostro linguaggio, si muove tra fissità etimologica e mutevole storicità dei significati. Ètimo indica — come appunto si svela nell'origine greca — il "vero", l'originario e autentico significato, il bisogno esistenziale che la parola ha soddisfatto al principio del suo cammino. Ci sono così i grandi ascoltatori delle parole, capaci di restituirle alla trasparenza aurorale, di reintegrarle nella loro incontaminata radice. La pagina di Heidegger mostra questo eccezionale talento, questo fascinoso consultare e scrutare dentro la parola.
Ma la parola assai spesso sfugge all'ètimo e cammina con sciolta libertà: è usata e poi lasciata cadere in oblio, volta a nuove accezioni e congiunta con altre, inserita nella frase e nei contesti di discorso: insomma, si carica di tempo, e fa tutt'uno con l'essere storico dell'uomo. Essa si distacca dal significato originario, il quale vi rimane dentro come in un angolo segreto, intorno a cui si affollino genti nuovissime e irriguardose. Talvolta riemerge, e ancora fa sentire la propria forza vincolante.
I significati storici, sovrapponendosi al significato etimologico (il quale è anch'esso storico, ma quasi di una remota e perduta antichità), sollevano la questione della "'proprietà" della parola. Propria è la parola esatta, che coglie ed esprime le cose nella loro concreta specificità, ed è pronta a sacrificare per questo scopo colori e sfumature e tonalità di suono. Alla proprietà delle parole dedicò pensieri profondi Giacomo Leopardi, distinguendola dall'eleganza e dalla purità del lessico. La proprietà, come precisione espositiva e didascalica, è «assolutamente di sua natura incompatibile colla eleganza », ma «compatibilissima colla purità, come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano» (Zibaldone, 2013, 30 ottobre 1821).
Il sopravvenire di scoperte scientifiche e applicazioni tecniche, il diverso atteggiarsi di costumi e stili di vita, nuovi metodi e risultati di pensiero, esigono un lor proprio linguaggio, e perciò o piegano vecchie parole ad altre accezioni o coniano nuove parole. Leggo ora, nella dotta e perspicua pagina di Tullio Gregory («Origini della terminologia filosofica moderna», Olschki editore, 2006), una proposizione di Erasmo: vocabula nova cum rebus novis exhorta sunt. Le cose nuove nascono insieme con parole nuove, le quali non vengono dopo, non sono aggiunte e sovrapposte, ma sorgono nel medesimo atto e sono tutt'uno con ciò che esprimono e significano. Qui la proprietà tecnica, se pur sacrifichi eleganza e aggraziati stilemi, può ben segnare il ritorno al significato originario e riscoprire il seme nascosto nella parola matura o consunta.
L'autore di queste colonnine, non ignaro di problemi giuridici, rammenta che l'interprete deve accogliere le parole della legge nel «significato proprio»: cioè, non nel significato originario o in altro storicamente emerso, ma nell'accezione tecnica, nell'uso praticato dal sistema normativo e dagli studiosi di diritto. La tecnica mobilita tutte le risorse della lingua, determina ritorni alle radici o corruzioni dell'antica purezza, genera nuovi significati o nuove parole, sfrutta il patrimonio nazionale o attinge allo straniero. Bisogna disporsi al sacrificio della eleganza o della purità etimologica, perché la proprietà tecnica è sempre disciplina del pensiero e difesa contro la barbarie del vago e del confuso. Il giuoco storico è tra vincolo dell'ètimo, eleganza fonica e proprietà di singoli rami scientifici. Nessuno può dettare una regola e decidere la partita.



Liberazione 2.3.08
Informazione e politica. Altro che libertà: quello che sta accadendo si chiama censura
di Rina Gagliardi

Alle prossime elezioni politiche, Rita Borsellino sarà candidata nelle liste de "La Sinistra, l'arcobaleno" - e candidata unitaria, nella coalizione che raccoglie tutte le forze (partitiche e non solo) della sinistra-sinistra. Ecco una bella notizia. Ecco, soprattutto, una notizia: Rita Borsellino non è solo un "simbolo" della lotta contro la mafia e la sua cultura di morte, ma una personalità di grande spicco civile e politico, tanto che, in Sicilia, dove si voterà anche per il rinnovo del governo regionale, il Pd l'ha voluta come numero due, nel così detto ticket con Anna Finocchiaro. Peccato che questa notizia sia stata quasi radicalmente censurata dal sistema mediatico, Tv e grandi giornali. In particolare, ieri non ne se ne trovava traccia alcuna nel Corriere della Sera - e negli altri se ne trovano a stento un paio di righe sbrigative, in pastoni titolati su questa o quella candidatura "eccellente". Ora voi direte che i giornali sono liberi di dare il rilievo che vogliono, alle notizie, secondo le loro gerarchie. Giusto, sì. Ma sono liberi anche di violare le regole basilari dell'informazione, quelle che ti insegnano all'esame di giornalismo e che cominciano dallo straclassico "cane morde uomo"? Curiosa libertà quella che induce Repubblica a titolare sulla possibile (si badi bene, solo possibile) candidatura di Massimo Calearo, sconosciuto presidente di Federmeccanica, nelle liste del Pd e a relegare nel sommario quella di Rita Borsellino - ai miei tempi, una simile gerarchia sarebbe costata la bocciatura all'esame! Strano pluralismo quello che spinge il cugino Corriere a riempire le pagine interne di interviste (o ritratti) alle Veltroni-girls - ieri erano addirittura in due! - e a tacere, in toto, della scelta di Rita Borsellino. Altro che libertà: questa si chiama censura. Censura bella e buona. Scelta politica di parte, volta specificamente a danneggiare la Sinistra, l'unico "ingombro" che potrebbe minacciare il duopolio veltrusconiano (ma anche finiano, diniano, mussoliniano, dipietrista, pannelliano, "pizzicano" eccetera eccetera).
La verità è che i grandi giornali, come la Tv, hanno già scelto il bipartitismo: hanno cioè deciso che lo scontro elettorale si svolgerà solo tra due contendenti e buttano su questa carta tutto il loro (considerevole) peso, per orientare il lettore-elettore e più generale l'opinione pubblica. No che non si sono distratti. No che non conoscono le leggi elementari del giornalismo: al buon giornalismo, al giornalismo "normale" e corretto, preferiscono la cattiva politica. La sinistra deve scomparire, va cancellata, oscurata, il più possibile ridotta ad una "varia" o ad una "breve": ecco la ferrea linea politica di Paolo Mieli ed Ezio Mauro. Ecco la logica di regime che si annuncia - anzi, che si pratica in questa campagna elettorale. E che avrà giocoforza qualche eccezione - per la carità, il diritto di tribuna non si nega a nessuno, nemmeno alla Santanché. Nemmeno, ogni tanto, a qualche esponente della sinistra.
Giacché ha totalmente ragione Fabio Mussi, nella lucida intervista apparsa ieri su "Repubblica on line": il «coro inaudito dei media, con tanto di cimbali, trombe e pifferi intenti a cantare le lodi del Pd e del Pdl» fa davvero infuriare. C'è una "mobilitazione senza precedenti", denuncia il fondatore di Sinistra Democratica (a proposito un abbraccio da tutti noi e auguri di un'ottima convalescenza) per ridurre a due il sistema politico italiano: non due partiti, ma due aggregati, composti secondo le logiche di compatibilità con i rispettivi Principi. Non il bipartitismo, ma un duopolio "che non ha eguali in Europa" e che porterà quasi inevitabilmente i due protagonisti ad una sostanziale convergenza politica - in chiave trash, come è già avvenuto nel sistema televisivo. Il fatto è che la tanto sbandierata scelta di "andare da soli", ripetuta da Veltroni e da Berlusconi, si è rivelata una bufala: l'obiettivo vero del Pd era - ed è - quello di distruggere la sinistra, ridurla ai minimi termini, farla fallire (così come l'obiettivo del Cavaliere è quello di sbarazzarsi dei partner scomodi, tipo Casini: guardate come funzionano queste nuove convergenze parallele). E non è vero neppure che il leader piddino vuole, in qualche modo, in forme temperate e maldestre, rappresentarla lui, la sinistra: al Pais , proprio ieri, ha dichiarato a chiare lettere che «noi (il Pd) siamo riformisti ma non siamo di sinistra» e ha rivendicato con fierezza la rottura con la sinistra radicale, in forza delle «abissali differenze» che la dividono dal nuovo partito. Ci viene da rivolgere al nostro Walter qualche domandina: ma come mai la filosofia dell'"et-et" si applica a tutto, all'universo mondo, alle più disparate Weltanschaungen, e si ferma, inesorabile, sul limitare che separa i "riformisti" dalla sinistra? E come abbiamo fatto, allora, a superare questi abissi in venti mesi di governo Prodi, o in tanti anni di governo di Roma? E perché mai tutte queste distanze non ci sono tra i "riformisti" e i dipietristi, che hanno passato gran parte di quei venti mesi a destabilizzare e disturbare la maggioranza? Domande inutili. Il Leader Ecumenico non ha bisogno di coerenze: ha disegnato a sua immagine e su sua misura una forza politica che compete sulla zona grigia del Grande Centro - forse inventatata dai sociologi della politica - dove solo si può vincere. Perciò deve rompere con la sinistra, per tentare di fare il pieno dei voti "moderati". Perciò, in contemporanea, deve ridurre la sinistra all'oscurità mediatica: per svuotarla di protagonismo e di efficacia e raccoglierne il capitale di voti, a tutt'oggi robusto. A forza di talk show televisivi, di paginoni del Corriere e della Repubblica , di campagne scientificamente studiate, l'elettore di Sinistra finirà col convincersi che la sinistra non c'è, non è credibile, non conta nulla, non vale la pena di votarla, visto che è un'illustre Ignota?
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Questo è il micidiale pericolo che incombe, adesso, nella nostra battaglia politica. Essa, lo sapevamo, era ed è durissima - ma la realtà si incarica quasi sempre di superare le peggiori previsioni. Ora, però, è tempo di smettere con le denunce e con i lamenti: bisogna reagire con la massima determinazione di cui siamo capaci. Bisogna combattere - perché non cominciare col portare la nostra protesta, non solo simbolica, davanti alle sedi della Rai e sotto le redazioni dei grandi giornali? Bisogna moltiplicare l'impegno con tutti i mezzi necessari, da quelli più sofisticati e moderni a quelli più antichi. La posta in gioco è la qualità della democrazia italiana. E per la Sinistra vale più che mai l'antico motto: "Primum vivere, deinde philosophare".

Liberazione 2.3.08
Bertinotti: «Finita l'era del governo è ora di riorganizzare la lotta»
di Angela Mauro

Ottaviano. Al castello di Ottaviano l'impianto di aria condizionata è naturale. Piccoli fori nel pavimento di pietra lavica sono il passaggio per invisibili geyser di aria fredda. Sotto, il vuoto, che se diventa pieno è ricchezza. Cisterna, acqua, potere. E' il trittico che segna la storia del palazzo mediceo, 365 stanze alle falde del Vesuvio. Ma fermarsi all'acqua è come dire che il problema di Palermo è il traffico (Begnini docet). Ottaviano, provincia di Napoli, castello e potere. E il potere da queste parti ha significato camorra, in passato, in parte anche nel presente.
Negli anni '80 qui il problema non era il signorotto padrone dell'acqua, ma la criminalità già ricca che comprò il luogo simbolo del potere e ne fece il suo quartier generale per il traffico di droga, le estorsioni, gli omicidi. Un nome: Raffaele Cutolo, che amministrava da quelle stanze alle falde del Vesuvio. ‘O professore', cui il castello è stato confiscato all'inizio degli anni '90. Ora sede dell'Ente Parco del Vesuvio. «Questo non è il castello di Cutolo. E' il castello mediceo». Il sindaco Mario Iervolino del Pd tenta di scacciare l'onta del passato. La sala è stracolma e incontinente, i geyser hanno un senso anche se è inverno, il tentativo di Iervolino riesce se oggi il castello di Ottaviano può ospitare la prima della tappa della campagna elettorale di Fausto Bertinotti in Campania.
«Io lotto, mi ribello, mi sono votato al suicidio sociale». Anche nei tempi bui, Ottaviano l'ha conosciuta la rivolta. I versi sono di Mimmo Beneventano, medico e poeta, consigliere comunale del Pci, ucciso dalla Camorra il 9 novembre dell'80. Sullo sfondo il simbolo unitario della Sinistra Arcobaleno, in sala il suo "Urlo" viene recitato. «Grido per coloro che non hanno più voce». Ed è il "la" per il dibattito con i ragazzi delle associazioni anticamorra e con i rappresentanti di vari mondi che chiedono diritti: operai, gay, trans, disabili. Bertinotti declina la parola "sinistra". «Ribellarsi contro le ingiustizie, come Beneventano: non per fare l'eroe o cercare medaglie, ma per vivere e dare senso primordiale alla libertà». Un «io non ci sto» che per diventare «ribellione di molti» ha bisogno della «sinistra politica».
La campagna elettorale è difficile, il candidato premier non si stanca di ripeterlo, e qui in Campania poi il fatturato criminale è ancora il 40 per cento del pil regionale. C'è un governatore, Antonio Bassolino, rinviato a giudizio per lo scandalo dei rifiuti. «Rispetto il lavoro della magistratura, mi auguro possa dimostrare di essere estraneo ai fatti», si limita a dire Bertinotti. Quanto alle scelte che farà il Prc, attualmente in maggioranza in regione, «sta all'autonomia della dirigenza locale deciderle». Il punto non è stare al governo o all'opposizione. Non è in questo senso che va manifestata la «diversità». Il punto è stare «nella comunità, nella fabbrica, nella società prima ancora di stare in Parlamento o in un consiglio comunale». E' la sfida attuale. Il brutto della lotta «non è vincere o perdere, ma quando sei al governo e non sai come dare voce ai bisogni perché al governo ci stai con gente che non la pensa come te». Ora, «finita la zona grigia del governo, va riorganizzata la lotta, va individuato l'obiettivo, va ricostruita la comunità». La speranza? E' «in noi, non fuori: è dura, ma siamo fratelli di tanta gente che lotta in condizioni più drammatiche. Pensate se fossimo a Gaza e un raid israeliano avesse ucciso donne e bambini». Bertinotti frena la foga: «Se poi qualcuno è tentato di rispondere alla violenza con il terrorismo, gli va spiegato che la marcia è lunga e che a chi vuole cambiare il mondo tocca la parte più difficile».
Come Beneventano e gli altri che hanno fatto la stessa fine. Michele della militante Radio Onda Pazza è duro: «Da tempo non operiamo più con alcun partito perché qui tutti i partiti prendono i voti nei fortini della camorra. Senza garanzie di assenza di collusioni, non faremo la campagna elettorale per nessuno». Pur nella forte esigenza di lotta, testimoniata dall'affollamento della sala, emerge la delusione. «Onorevole, vorrei capire che cos'è questa sinistra…», chiede disperato Gianluigi, disabile alle prese da anni con la ricerca di lavoro: invano. Tommaso Pirozzi della Fiat di Pomigliano è «sfiduciato», non ha più la tessera del Prc, con le lacrime agli occhi richiama il sacrificio di Beneventano per ricordare che «non si muore solo quando il cuore non batte più, ma anche quando ti limitano la lotta: qui la mafia ha il potere di "espellere" i lavoratori dalle fabbriche».
Bertinotti parte dalla questione salariale, «di prima grandezza, contro un padronato della borghesia che dura da più di 25 anni», da quando i salari in Italia erano tra i più alti d'Europa, ora sono i più bassi. C'è stata la sconfitta del 900, del movimento operaio, una «rivoluzione chiamata globalizzazione», un'onda che ha anche spazzato via diritti, creato povertà, messo in crisi la politica. «Noi come Prc - dice Bertinotti - non abbiamo mai fatto parte della classe politica, abbiamo provato ma non siamo riusciti a rompere quell'onda. Ora siamo tutti coinvolti». Ecco perché la comunità che va ricostruita, la lotta da riorganizzare, l'onda da spezzare richiedono altre forme della politica: «Mettiamoci insieme a sinistra senza l'illusione che ci sia una stanza dei bottoni e che basta arrivarci per cambiare tutto. Iniziamo noi nella comunità, iniziamo anche con il voto».
La sala applaude, ma non è finita. Già, il voto. «Temo il voto utile», ammette Bertinotti, intendendo la croce che molti possono essere tentati di segnare sul Pd per bloccare Berlusconi. Tuttavia, basta chiedersi se «c'è una causa ai nostri guai. Sì. E' questo modello economico-sociale che il Pd vuole solo mitigare: come togliere l'acqua dal mare con un secchiello. Va rovesciato». E se a El Pais è Veltroni stesso ad ammettere di essere «riformista, ma non di sinistra», beh: il gioco è fatto. «E' reo confesso. Ora chi è di sinistra non ha più scuse per votare Pd…».
"Non s' lassa a terra p' na mala annata". Il detto contadino, citato da Luigi dell'associazione anticamorra "Scetammece" (Svegliamoci!) incita ad andare avanti. E' possibile il «compromesso per arrivare alla liberazione totale», mette in guardia Bertinotti. Unioni civili o matrimonio? «Vorrei che ognuno fosse libero di optare tra le due cose, ma avere subito le prime aiuta a rompere il meccanismo di oppressione». Ciò che conta è che «per la prima volta i diritti civili stanno nel dna di una forza politica: la sinistra». Fuori è buio, l'aria del Vesuvio è pungente, dentro i geyser prendono il sopravvento anche sulle onte del passato. Forse.

Liberazione 2.3.08
Mussi: «Cancellare la sinistra è la parola d'ordine del Pd»

di Claudia Fusani
(da repubblica.it)

Fabio Mussi, sessant'anni, leader storico del Pci prima e dei Ds poi, fondatore di Sinistra democratica e poi con Rc, Pdci e Verdi di La Sinistra-L'Arcobaleno, ha subìto il 10 febbraio scorso il doppio trapianto dei reni. Questa è la prima intervista che rilascia. Malato di... politica, Mussi è a Bergamo dove è stato operato anche se non è più ricoverato.

Primo scorcio di campagna elettorale. Qualcosa l'ha fatta arrabbiare?
Il coro. L'inaudito corteo dei media, con cimbali, trombe e pifferi a cantare compatti le lodi di Pd e Pdl. Non si è ancora formato il duopolio e i mezzi di comunicazione sembrano già in monopolio...

C'è davvero un rischio duopolio?
Ho visto una mobilitazione senza precedenti per ridurre a due il sistema politico italiano. Naturalmente non due partiti, ma due aggregati. Da una parte il Pdl di Berlusconi, Fini piu Mussolini, Dini e merci varie, collegate a Lega Nord e Lega Sud. Dall'altra il Pd con dentro i radicali e il tutto collegato con Di Pietro. Gli uni e gli altri intenzionati a fare terra bruciata. Questo è uno schema che non ha eguali in Europa e che provocherebbe un'amputazione della democrazia. Tanto più che in assenza di altre opzioni i due blocchi tenderebbero inesorabilmente a convergere, sul piano politico, culturale, e programmatico. I segni non mancano.

E' come se Veltroni e Berlusconi avessero realizzato per via extraparlamentare quella riforma bipolare su cui avevano trovato l'accordo prima di Natale.
La novità non è il bipolarismo, quello c'era già. La novità è il duopolio. E, com'è avvenuto con le televisioni, temo che il duopolio porti inesorabilmente al trash...

Il Pd non ha voluto voi ma imbarca Di Pietro e i Radicali. Perché?
Perché le affermazioni "andiamo da soli" e "il programma non è trattabile", erano una bufala. L'obiettivo vero è cancellare la sinistra. Fondamentale è farla fallire

Veltroni vi accusa di essere "conservatori".
Una boutade. Qualche volta ci accusano di essere conservatori, qualche volta estremisti

Siete estremisti?
Sull'estremismo farei una riflessione: io per esempio trovo piuttosto estremista che una parte grande delle nuove generazioni sia destinata a passare decenni in lavori precari con salari da fame. Trovo moderato che dopo un certo periodo il lavoro e la vita escano dalla precarietà. Trovo estremista che l'Italia sia settima al mondo per spese militari (4° per spese militari pro-capite e 32° per spese in Università e ricerca scientifica). Trovo moderato che si scenda da una parte e si salga dall'altra...

Nelle prossime settimane userete fair play con gli ex cugini Ds ora nel Pd?
Per la verità gli schiaffi li abbiamo già ricevuti da loro: prima una totale chiusura, non dico ad un'intesa ma a un confronto programmatico. Poi una campagna mistificatoria sul "voto utile". Infine addirittura qualche appello del tipo "votate Pd o Pdl.

Ha molto da rimproverare?
Una cosa mi ha parecchio colpito: il Pd, nell'ultima legislatura, ha avuto nelle proprie file 18 ministri su 25, il Presidente del Consiglio, due vicepresidenti, tutti i ministeri chiave, i due gruppi parlamentari più grandi e non si è assunto alcuna responsabilità per i risultati del Governo Prodi, tentando di scaricare tutto sugli alleati (per la verità non tutti, visto che Di Pietro che ha rappresentato uno dei maggiori fattori di instabilità del governo, ha la lista collegata col Pd). Questo non è decoroso. Ogni volta che la Sinistra ha provato a fare qualcosa di più, sui salari, sul precariato, sui diritti civili, sulla ricerca, ha trovato nel Pd un muro. Perché ora dovrebbero essere credibili i mirabolanti annunci?

Ieri la Sinistra-L'Arcobaleno, il soggetto unico a sinistra del Pd su cui lei ha tanto investito, ha presentato il suo programma. Parola d'ordine: "Fai una scelta di parte". Crede veramente che il paese abbia voglia di fare una scelta di parte? Di sentirsi e quindi di definirsi di destra o di sinistra?
In una democrazia matura nessun soggetto rappresenta il tutto. E' una patologia che qualcuno lo pensi. Quanto alla distinzione in "destra" e "sinistra", si tratta di una delle cose politicamente sensate che valgono da un paio di secoli e che non sono tramontate. Sostituirle con categorie insignificanti - tipo vecchio/nuovo , moderno/antico - è un'autentica truffa. Può dar luogo anche a rappresentazioni suggestive, ma dice poco o niente della vita e del mondo reale.

Quali sono i punti forti di questo programma su cui punterete?
Rimessa in valore del lavoro umano e dell'ambiente naturale. Libertà delle persone, il che comporta difesa integrale della laicità dello stato. Lotta senza quartiere contro la corruzione e le mafie. Disarmo e strategie di pace e di cooperazione internazionale

Parlate anche di lotta alla precarietà e aumento delle retribuzioni. Con quale copertura finanziaria pensate di farlo considerando che la congiuntura economica internazionale è e sarà pessima?
Scusi ma lei fa a me questa obiezione?! Qualcuno ha fatto un qualche studio sui dodici punti da trasformare in leggi annunciati dal Partito Democratico? Io mi sono fatto fare una ragionevole stima: trattasi, a occhio e croce, di 40 miliardi di euro di nuove spese, e di realistici risparmi di 4 miliardi di euro.

Quindi è impossibile?
Forse, quando si parla di risorse occorrerebbe non trascurare il punto essenziale: la disuguaglianza. L'Italia, come dimostrano tutti gli indicatori, è diventato negli anni uno dei paesi più diseguali del mondo. Il 10% delle famiglie possiede il 45% della ricchezza. E' cresciuta l'area della povertà assoluta e relativa, i salari sono precipitati agli ultimi posti in Europa, sono precipitate le condizioni di vita di una parte grande delle classi medie. Bisogna intervenire con politiche redistributive forti per ridurre la disuguaglianza, e per ritornare dall'attuale "repubblica fondata sulle rendite" alla "repubblica fondata sul lavoro".

Veltroni ha definito il Pd "il partito del lavoro": ha candidato il numero 1 della Confindustria giovani e l'operaio sopravvissuto della Thyssen-krupp. L'economista Ichino e l'impiegata di un call center.
Non mi scandalizzano le candidature in sé. Ma le candidature più le idee che l'accompagnano: per esempio quella che l'imprenditore e l'operaio sono entrambi lavoratori. E' vero che l'imprenditore è un lavoratore, ma non è vero il contrario, perché di mezzo c'è il piccolo dettaglio che si chiama il capitale. I dati sono noti: il lavoro operaio e dipendente è numericamente cresciuto, ma un'enorme quota di ricchezza prodotta si è spostata dai salari ai profitti e alle rendite. Siamo tornati ad una quota del Pil destinata ai salari pari a quella della fine degli anni cinquanta, prima del boom.

Gli imprenditori non hanno investito in innovazione e ricerca?
Assolutamente no. Le imprese italiane su questo punto sono molto indietro a quelle europee. Una parte grande di questo fiume di soldi è andato ad alimentare quello che Ricardo, uno dei padri dell'economia classica inglese, chiamava "consumo signorile". Parlo di automobili, gioielli, case di lusso, prostitute... se non si spezza questo diabolico meccanismo l'Italia è perduta.

Il Pd si è disfatto del fardello comunismo ma gli scoppia in casa la questione laica. Come finisce tra Binetti e Bonino?
E chi lo sa! So che la Bonino è a favore dell'abrogazione del Concordato, è contro la legge 40, è a favore dell'eutanasia. Non sarà facile.

Ha visto: Veltroni definisce quelle della Chiesa su temi come la famiglia "sollecitazioni e non ingerenze". Cosa ne pensa?
Naturalmente definire quelle della Chiesa attuale "sollecitazioni" è un discreto eufemismo. Io sono a favore della più totale libertà religiosa e del più incondizionato diritto alla parola della Chiesa, come mi pare di aver dimostrato nel caso della visita del Papa alla Sapienza. Guai però a dimenticare che i diritti della chiesa nella repubblica italiana si esercitano nel quadro dell'articolo 7 della Costituzione. E oggi mi pare che siamo davvero all'ingerenza, nella politica e nel processo di formazione delle leggi.

Ha mai pensato che Nichi Vendola, il governatore della Puglia, potesse essere un candidato più a sorpresa e quindi più vincente rispetto a Bertinotti?
Bertinotti è una forte personalità e sta facendo benissimo. Nichi Vendola avrà un grande peso nella costruzione della sinistra unita.

Tra voi e il Pd è un divorzio per sempre?
No, in futuro spero un'alleanza. Ma questo comporta ora una competizione.

il Riformista 1.3.08
Fraintendimenti: non va ridotto a icona di ateismo e razionalismo
Giordano Bruno, il copernicano esoterico e panteista
Il discorso che fece a Oxford era un plagio da Ficino

Il luogo è adatto alle proteste anticlericali. A poca distanza da San Pietro, qui, nella Roma di Campo de' Fiori, il 17 febbraio del 1600, Giordano Bruno volava a esplorare l'infinità degli altri mondi in uno degli ultimi roghi di piazza. Qui, appena tre secoli dopo, nel 1889, un bel tripudio di labari massonici salutava con un rogo simbolico l'inaugurazione del monumento al filosofo eretico, celebre opera del futuro Gran Maestro Ettore Ferrari e sberleffo ai cattolici (per l'occasione più di una chiesa aveva tenuto le porte serrate e molti preti avevano abbandonato la città). Oggi il Nolano continua a riflettere torvo e il 17 di febbraio si è svolto ai suoi piedi un happening «ateo e razionalista» per celebrarne la memoria.
Che i roghi siano sconvenienti va da sé, e il più delle volte lo erano persino allora - l'Inquisizione pare che chiese fino all'ultimo al filosofo una minuscola ritrattazione così da concedergli la decapitazione; Bruno non era affatto il tipo. Che al grande eretico vada la nostra simpatia è scontato. Curioso è vedere, casomai, come davvero, in questi tempi di confuse ideologie, molto più simili all'età di Bruno di quanto si creda, ogni categoria storica, sapienziale, religiosa, sia pronta a entrare in confusione, ed ogni scuola di pensiero sia più disposta a darsi al dogma che alla ricerca della verità. In una strana, rediviva battaglia sciamanica, i nuovi gnostici si abbandonano a best-seller che svelano le trame esoteriche di Newton; gli atei e i razionalisti onorano un mago panteista che di «ateismo e di razionalismo» sarebbe stato rivale fierissimo.
Confusione storica. È ciò che avvenne d'altra parte anche nel 1463, quando Leonardo da Pistoia tornò a Firenze con ciò che sarebbe passato alla Storia come il Corpus Hermeticum , complesso di scritti che si dicevano composti da Ermete Trismegisto in persona, profeta più antico di Mosè, pronto a svelare i segreti del cosmo. Vi si leggeva di una antichissima sapienza egiziana e, fatto ancora più mirabile, recante in nuce ogni elemento della filosofia greca, del platonismo, del cristianesimo persino. Nulla di strano, a dire il vero, visto che il corpus con l'antico Egitto aveva poco a che spartire ed era stato in realtà scritto intorno al II o III secolo.
Pazienza. Cosimo de' Medici ne fu catturato; Ficino si affrettò a tradurlo. E quindi Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa: con l'ermetismo, all'improvviso, si poté assistere alla nascita della magia cinquecentesca, magia cristiana, che coniugava gli amuleti e il misticismo biblico (l'evocazione degli angeli, la cabala di Pico) con una visione sacrale del cosmo come corpo vivente.
Come ha mostrato Frances Yates, è proprio seguendo questo solco che uno studioso italiano, uscito dall'ordine dei domenicani per convinzioni eterodosse, si presentò a Oxford nel 1583 per un ciclo di conferenze sulla teoria copernicana. Così l'avrebbe raccontato Abbot, professore oxfordiano presente agli incontri: «Quando quell'omicciattolo italiano, che si autodefiniva magis elaborata Theologia Doctor ecc... visitò la nostra università, non stava nei panni per il desiderio di divenire famoso. Quando ebbe occupato il posto più alto della nostra più famosa scuola, rimboccandosi le maniche come un giocoliere e facendoci un gran parlare di chenturm & chirculus & circumferenchia (tale è infatti la pronuncia del suo paese), egli intraprese il tentativo di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava».
Qualcosa accadde, tuttavia; qualcosa che, nella Cena de le ceneri , avrebbe portato Bruno a scagliarsi contro i "pedanti" di Oxford. «Un uomo grave, che occupava una posizione eminente in quella università, ebbe l'impressione di aver letto da qualche parte quelle stesse cose che il dottore stava esponendoci. Recatosi nel suo studio, trovò che sia la prima sia la seconda lettura erano state tratte, quasi parola per parola, dalle opere di Marsilius Ficinus». Così, con questa figuraccia, «la questione ebbe termine».
Plagio di Bruno a parte, come scrisse la Yates, che scena meravigliosa! Il filosofo che espone la teoria copernicana nel contesto della magia astrale e del culto solare del De vita coelitus comparanda del mago Ficino!
C'è una poesia sottile in questo; una poesia quasi barocca. L'infinità dell'universo, dei pianeti, dei mondi, veniva appoggiata per culto ermetista. Le prime intuizioni eliocentriche, di per sé vere, venivano sostenute da un mago italiano per via rigidamente non-scientifica, bensì sulla base di un culto solare egiziano. Davvero nessun trionfo scientifico. In tempi in cui ancora il reale veniva esperito in base al testo, o ad una fede (qualsiasi testo, qualsiasi fede), poteva semplicemente accadere d'imbattersi poeticamente nella verità: era accaduto un secolo prima a Colombo che, ritenendo la Terra più piccola di quanto non fosse in realtà, aveva sbattuto casualmente contro delle Indie immaginarie. È quanto avvenne anche con Bruno, che alla sua fede fondata su un errore storico rimase attaccato per tutta la vita, teorizzando magici «teatri della memoria», studiando cabale e influenze astrali, facendosi arrestare a Venezia per traffico di trattati esoterici e condannare poco dopo a Roma in quanto mago (non certo in quanto sostenitore di Copernico, che pure apprezzava, benché un po' troppo «matematico»!), e che attraverso la propria magia era arrivato per caso al reale.
Oggi, a distanza ormai di secoli, un cosmo infinito continua ad assistere impassibile a quel complesso di fraintendimenti che ha fatto la storia dell'umanità. Nulla di meno «razionale» dell'elevare il Bruno a campione di scienza e di antireligiosità (contro chi avrebbero manifestato gli atei, se la riforma religiosa sognata dal fiero filosofo avesse trionfato?). Ma questo è il segreto dell'universo vivente: errori e conflitti nella Carne, e il Cielo delle stelle fisse ad osservarci, immobile e, per sempre, armonico.

il Riformista 2.3.08
Negli ultimi giorni, un po' tutti i quotidiani hanno dato notizia della decisione degli editori di procedere a un cambio di direzione del "Riformista" che coinciderebbe con un mutamento dell'indirizzo politico del giornale

Negli ultimi giorni, un po' tutti i quotidiani hanno dato notizia della decisione degli editori di procedere a un cambio di direzione del "Riformista" che coinciderebbe con un mutamento dell'indirizzo politico del giornale. Non c'è ancora una comunicazione ufficiale ed è per questo che noi pubblichiamo ancora la nostra rivista insieme al "Riformista" di cui abbiamo condiviso, fino ad oggi, la linea editoriale. Se e quando ci sarà un annuncio ufficiale anche noi prenderemo le nostre decisioni volte a salvaguardare l'autonomia, la continuità, la linea politica che "Le nuove ragioni del socialismo" segue con coerenza dal giorno in cui fu stampato il primo numero nel febbraio del 1996. Questa nostra determinazione si è rafforzata in questi mesi in cui lo scenario politico italiano è cambiato, e di molto. E non c'è dubbio che questo cambiamento è in gran parte dovuto alla presenza sulla scena politica del Partito democratico. Il quale è nato dopo che i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita hanno preso atto che si trovavano "al capolinea", come scrisse Scalfari, e "al capolinea" si trovavano il governo di Prodi e il centrosinistra che si fondava sull'alleanza tra i due partiti e la sinistra radicale.
Come sono andate le cose dopo l'ascesa di Veltroni al vertice del Pd è stato oggetto di discussione e confronti su questa rivista e anche su altre pubblicazioni. Oggi il Pd è alla sua prima prova elettorale e lo sono anche, non solo il Partito del popolo di Berlusconi e Fini, ma anche altre formazioni: i centristi cattolici di Casini e quelli di Tabacci e Pezzotta, che a quanto pare si unificheranno, la destra di Storace e i socialisti. I quali indubbiamente affrontano il cimento elettorale in una situazione difficile. È vero che è mancato il tempo per fare decollare la Costituente socialista, ma dobbiamo anche dire che i vertici del Ps hanno sbagliato a bussare alla porta di Veltroni. Il quale, dopo aver fatto l'accordo con Di Pietro qualificando o squalificando così la linea che aveva scelto di presentare il Pd solo, ha incluso nelle sue liste nove esponenti dei radicali. Ai socialisti, se abbiamo capito bene, era stato offerta la stessa collocazione dei radicali: sciogliersi nel Pd, nel quale c'è già una componente che si definisce di sinistra e dove sono alcuni ex socialisti, con i quali avrebbero dovuto confondersi. Vogliamo dire che era noto ed evidente il fatto che il Pd di Veltroni consideri la presenza autonoma dei socialisti la testimonianza che è possibile, anche in Italia, l'esistenza di una forza di sinistra che non sia assimilabile né all'estremismo antico della Cosa rossa, né al liquidazionismo del Pd.
I dirigenti del Ps hanno quindi giustamente rifiutato la prospettiva dello scioglimento. Ma si sono mossi, però, in modo difensivo rispetto a chi ritiene di avere in mano tutte le chiavi per aprire o chiudere storie politiche nuove o antiche. Tuttavia una domanda oggi si pone: la storia del socialismo italiano, che non è solo quella del Psi o del Psdi, ma di chi, anche militando nel Pci, al socialismo democratico voleva approdare, si è esaurita? Noi pensiamo di no. Pensiamo che come in tutta l'Europa ci sono "nuove ragioni del socialismo", così come c'è una nuova questione sociale figlia del capitalismo globalizzato e l'esigenza di nuovi diritti civili espressi dai processi di secolarizzazione delle società moderne. Si tratta di temi che hanno travagliato tutti i partiti socialisti cui sono state date risposte diverse - ma sono state date - in Inghilterra, in Spagna, in Germania e nei Paesi scandinavi.
Temi che anche la Costituente socialista si è posti, e che avrebbe dovuto sviluppare per dare un'identità al socialismo italiano più consona ai problemi di oggi. Temi che avrebbero dovuto porsi anche Mussi e Bertinotti, dal momento che dicono di voler riflettere sulle nuove frontiere del socialismo. I due esponenti della sinistra, invece, si sono messi insieme a Diliberto e a Pecoraro Scanio per fare un aggregato senza anima, senza riferimenti con le forze politiche che in Europa che, con posizioni diverse e autonome, costituiscono la sola alternativa alle forze conservatrici. E la Sinistra arcobaleno appare solo come un residuato del passato. Un regalo al Pd di Veltroni e alle sue ambiguità a proposito dei rapporti col socialismo europeo e con la modernità. Una competizione virtuosa, invece, avrebbe dovuto svolgersi tra il Pd e una sinistra che si colloca con la sua storia e la sua autonomia nell'ambito del socialismo europeo e si candida come forza di governo, anche quando è all'opposizione.
In questo quadro noi lavoreremo per costruire anche in Italia questa forza socialista e ci rivolgeremo anche ai gruppi che nel Pd non hanno abbandonato l'idea di dar vita a una forza di sinistra autonoma. La lista del Pd, apparentata con quella di Di Pietro, è una somma di storie politiche, di culture, di persone che credono in una battaglia di rinnovamento e in una prospettiva, ma è una somma e non una sintesi politico-culturale: un coacervo dove non mancano certo le presenze di clientele e di opportunisti che salgono sul carro del vincitore, di interessi e di un personale politico legati alla spesa pubblica nazionale e locale; un coacervo in cui oggi le contraddizioni sono coperte dalle elezioni e non composte dalla politica.
I socialisti devono guardare anche a sinistra dove contraddizioni di segno diverso scomporranno, dopo le elezioni, la Cosa rossa. La presenza di una lista socialista ha quindi un significato per tutti coloro, comunque collocati, che guardano non solo alle elezioni di aprile, ma al futuro. Noi aiuteremo, come ci è possibile, questo processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra socialista italiana.

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
Il politico e lo psichiatra In platea i «fedeli» di Fagioli
di Sara Menafra

Ai cultori del comizio politico non sarà sfuggita, ieri mattina, la quantità di parole poco «tradizionalmente di sinistra» finite nell'intervento di Bertinotti al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Il candidato della Sinistra arcobaleno si è appellato al senso di «fraternità, come dimensione dello stare insieme», ha parlato della «condivisione delle passioni», di un futuro «colorato di gioia, contro il colore nero» dell'«arcobaleno come orizzonte politico».
E' quasi primavera e a Roma c'era pure il sole, ma non è questo il motivo che ha spinto Bertinotti ad affrontare temi tanto arditi. Bastava dare un'occhiata alla platea per rendersene conto: le poltroncine rosse erano zeppe di «fagiolini», cioè di seguaci dello psichiatra Massimo Fagioli, espulso dalla Società psicoanalitica italiana nel 1976 e da allora diventato il capostipite di una scuola di «Analisi collettiva» che ha parecchi seguaci nella gauche caviar capitolina e tra i pazienti «noti» vede anche il regista Marco Bellocchio.
Nata nel 2005, la liaison tra Bertinotti e Fagioli s'è fatta sempre più intensa. Anche grazie a Fausto, lo psichiatra è divenato il vate del settimanale Left (ex Avvenimenti) al cui secondo compleanno, dieci giorni fa, s'è presentato anche l'ex segretario del Prc, osannato dalla folla. E sabato scorso alcuni dirigenti Prc hanno organizzato una iniziativa per discutere della legge 194. Secondo il Fagioli-pensiero, quando un feto raggiunge le 24 settimane si può parlare di vita umana, perché negli occhi si forma la retina. Bertinotti non c'era, ma erano presenti Ritanna Armeni, Pietro Folena e altri dirigenti del partito.

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
La sfida di Bertinotti
Il candidato della Sinistra arcobaleno apre la campagna elettorale a Roma
Sinistra, Fausto accelera: «Siamo un nuovo soggetto»
di Sara Menafra


Un programma di lotta, più che di governo. Fausto Bertinotti, in versione candidato de La Sinistra l'arcobaleno, mette nel frullatore riflessioni sulla lotta operaia e strizzatine d'occhio alla psichiatria militante di Massimo Fagioli.
Nei giorni delle prime anticipazioni sul programma, i grandi giornali l'hanno attaccato, spiegando che nel 2008 l'anticapitalismo rischia di essere poco credibile. E ora che si tratta di presentare ufficialmente quel programma, ospite il teatro Ambra Jovinelli di Roma, Bertinotti risponde che quel che conta è l'orizzonte: «Il programma è l'idea che trasmetti, è una bandiera. E noi per la prima volta decidiamo che la base comune di tutta la sinistra sarà la lotta ad un modello economico e sociale che ci è stato imposto e di cui proponiamo una modifica radicale». L'assenza di altri leader sul palco, peraltro, gli dà l'occasione per bacchettare chi pensa che la Sinistra arcobaleno sia solo un un cartello elettorale e ripetere più volte che si tratta, invece, di «un nuovo soggetto politico».
Parte dalle «storie di lotta degli anni '70, una grande risorsa che non ci possiamo permettere di dilapidare», passa per la «riflessione critica sul passato recente» - «Non è andata bene, abbiamo fatto alcune cose ma non è stata ascoltata l'essenziale domanda di cambiamento» - e non dimentica di prendersela con l'oscuramento operato dai grandi media: «Non ci lamentiamo perché è l'occasione per stare a contatto con la gente, ma organizzeremo una manifestazione molto colorata attorno alla Rai perché non è accettabile che sia anche il servizio pubblico ad eliminare tutto ciò che non è Pd o Pdl».
La critica al Pd è «netta ma non irrispettosa»: «Non capisco come venga in mente al Pd di candidare il capo di Federmeccanica. Veltroni dice che Calearo e Boccuzzi (l'operaio della Thyssen candidato del Pd) sono simili. Dove? In che cosa sono simili rispetto ad un lavoro che asservisce tutto, anche il tuo corpo?». Distanza, dunque: «Mi piace l'"e... e..." di Veltroni, quando include, quando mette insieme le differenze valorizzandole. Ma sulle scelte di campo, come quella tra dominanti e dominanti, bisogna decidere».
E' vero, oggi il Pd è lontano, guarda al centro. Ma se la Sinistra arcobaleno riuscirà a sopravvivere a questa tornata elettorale le cose potrebbero cambiare: «Potrebbe accadere quel che è successo in Germania tra la Spd e la Linke. Se saremo forti il Pd sarà costretto a guardare un po' a sinistra».

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
Acque torbide
di Rossana Rossanda


Siamo tutti adulti e vaccinati, non facciamo finta che queste siano elezioni come le altre. In ballo non è solo un cambio di governo, ma la cancellazione dalla scena politica di ogni sinistra di ispirazione sociale. Questa è la novità, reclamata ormai non più solo dalla destra ma dall'ex Pci, poi Pds poi Ds e ora confluito, assieme alla cattolica Margherita, nel Partito democratico. E' l'approdo della «svolta» del 1989 e il suo vero senso: non si trattava di condannare le derive del comunismo o dei «socialismi reali», ma di stabilire che il capitalismo è l'unico modo di produzione possibile.
Ci sono voluti diversi anni di manfrina ma ora Veltroni dichiara tutti i giorni che la sola società possibile è quella di «mercato», e a governarla «democraticamente» bastano due partiti come nel modello anglosassone, uno più «compassionevole» e l'altro più feroce. Che ci sia un conflitto di classe fra proprietari e non, che i primi possano sfruttare, usare e gettare i secondi, che questi siano riusciti a conquistarsi dei diritti extramercato è stata una favola cattiva, che ha seminato l'odio e spezzato l'armonia del paese. Operai e padroni sono egualmente lavoratori, hanno un interesse comune che è l'azienda, anzi il padrone, detto più benevolmente l'imprenditore, vi rischia di più il suo capitale, mentre l'operaio solo il suo salario. Veltroni ha così liquidato due secoli di lotte sociali e ridotto la democrazia secondo il modello americano a sistema elettorale e poco più. Il suo «riformismo» non mira, come quello delle socialdemocrazie, a correggere il capitale: ma a «riformare i diritti del lavoro» fino a farne, com'era all'inizio del XIX secolo, una merce come le altre, abolirne ogni regolamentazione a cominciare dalla durata.
Agitando un'avvenente flexsicurity che, oltre a mandare all'aria qualsiasi professionalità (perché, quando sei licenziato devi accettare qualsiasi secondo mestiere ti si offra) è una frottola se non dove, come in Danimarca, è altissima la spesa sociale e per quattro anni, aiutato dal sindacato, puoi cercare un altro impiego senza perdere il salario. Da noi vige il comandamento: ridurre la spesa pubblica, già inferiore alla media europea dell'Ocse. Il trend è ridurre il «bene pubblico» e l'«intervento pubblico» in genere. Già nel prodiano «sussidiarietà» stava il germe del teorema: il pubblico interviene «soltanto dove il privato non arriva». Negli Stati uniti non rispondono a questa regola anche istruzione e sanità? E per la pensione non ci sono le assicurazioni private?
Il sindaco d'Italia aggiunge con uno smagliante sorriso che solo se «aumenta la ricchezza» ci sarà meno disuguaglianza. La torta piccola si divide fra pochi. E precisa che se non ci fossero stati i comunisti (lui nel profondo del cuore non lo è mai stato) o i veti sindacali o le leggi tipo Giugni eccetera, saremmo un paese prospero e felice. Lo ridiventeremo votando lui o Berlusconi, che ha ripescato quando era al suo punto più basso, considerandolo il solo in grado di rappresentare l'«altro» grande leader. E quello si è attaccato alla pertica che gli veniva tesa e s'è fuso con Fini. Poi se la vedranno ciascuno con i propri cespugli - come li ha prontamente definiti la stampa - il primo con il centro, Casini e compagni, il secondo con quel che resta della sinistra. A sinistra non sarà facile. Ma a questo fine supremo il Nostro ha preferito sacrificare il premio che in caso di vittoria l'attuale legge gli darebbe se corresse coalizzato. Forse, sapendo che la recessione è in arrivo, non gli dispiacerebbe che grandinasse sulla testa di Berlusconi piuttosto che sulla sua.
E' a questa strategia che gli italiani democratici e già benevolmente progressisti vogliono dare una mano? Facciano. Ma non raccontiamoci storie, voteranno per un capitalismo che resterà straccione, con una manodopera vieppiù senza difesa e con garanzie zero contro la nota propensione agli imbrogli. Evitiamo la figura ridicola dei francesi che, dopo aver intronizzato Nicolas Sarkozy, scoprono che è un padrone duro, cosa che non aveva mai nascosto, oltre che un nevrotico narcisista. Lo hanno fatto precipitare nei sondggi dal 66% di settembre al 42% di oggi. Ma se lo dovranno tenere per cinque anni a meno di andare sulle barricate.
Che comporta la piega che stiamo prendendo? Uscita di scena anche da noi una sinistra di derivazione classista e marxista, trascolora la cultura politica europea - il cui segno dal 1789 al 1989 è stato quello sociale, diversamente dagli Stati Uniti e dal mondo non occidentale. Nel Novecento questa sinistra si era aspramente divisa fra correnti rivoluzionarie e gradualiste - cioè sul «come» cambiare una società ingiusta - ma che fosse ingiusta e andasse cambiata è il tema che ha alimentato due secoli di storia e era penetrato anche nella classe proprietaria attraverso l'assioma «per essere conservato il capitalismo va regolato», legittimando e legiferando la dualità di interessi. Decisiva era stata la crisi del 1929, a definire le forme della regolamentazione era stato il keynesismo. L'ultimo sprazzo, ma rimasto isolato, è stato il tentativo teorico di Michel Aglietta. Con il ritorno a Von Hayek, non è un sistema «economico» che muta, è un arretramento dell'idea di società che ha retto il grande pensiero politico moderno. Che una democrazia immobile ed esclusivamente di mercato portasse dei pericoli l'aveva intuito perfino de Toqueville, alla fine della sua grande opera controrivoluzionaria «De la démocratie en Amérique» (sospetto che non ha sfiorato Furet cento anni dopo). In verità, che resta della tradizione fondante dell'Europa, della rivoluzione inglese e francese e poi russa? Vacillano i pilastri di una democrazia non meramente elettorale, che democrazia può anche non essere affatto, quando al posto delle dichirazioni del 1789 e della loro complessa filiazione subentra il solo mercato attivando a mo' di risposta i fuochi devastanti delle etnie e dei fondamentalismi. L'ultimo Lucio Colletti, ormai polemico con il marxismo, si chiedeva tuttavia quali mostri avrebbero preso corpo nel caso che venisse a cessare la speranza di una liberazione egualitaria in terra.
Una seconda considerazione è ancora più cogente. Nella rapida e crudele mondializzazione della produzione e dei commerci e nel giganteggiare delle operazioni puramente speculative, l'Europa e quel che resta dei suoi stati nazionali perdono ogni propria fisionomia politico-sociale. Le regole della Ue assicurano la mera lubrificazione dei capitali del resto del mondo che la sfondano da tutte le parti, demolendo quella che era stata la sua conquista e caratteristica principale: i diritti e il compenso del lavoro. Le nazioni più deboli come la nostra vacillano sotto la tempesta, si dilatano oltre ogni dire disuguaglianza e povertà perché i primi a passare sono i redditi non da capitale, cioè il 90% di essi. Non c'è più posto né legittimità per una politica industriale - basta veder oggi la fatica che fanno Gran Bretagna e Germania per salvare alcune banche, squassate dalla crisi dei subprime, e come i nostri più fiacchi capitali si diano allo sport di comprare aziende più o meno decotte in Francia o Spagna per spostarle in Tunisia, dove il lavoro costa meno lasciando a piedi la manodopera continentale. La frattura sociale torna ad allargarsi come all'inizio del Novecento. Il capovolgimento politico della Russia e della Cina, con la loro intollerabile miseria salariale, può concorrere illimitatamente con le produzioni occidentali, minandone le società e inducendovi una inclinazione autoritaria. Si è tolto senso alla libertà salvo a quella di imprendere, comprare e vendere, si è dichiarata la fine della storia e poi si va elucubrando sulla «poltiglia» degli adulti e la «violenza» dei giovani.
E' fuori del Partito democratico che cade la responsabilità di una linea di difesa e di opposizione a questo trend devastante. Ma come sostenere che le sinistre alla sua sinistra hanno saputo in questi anni delinearla e praticarla? Veltroni dice molte stravaganze, ma una non lo è: nelle grandi fasi di mutamento non si regge sulla sola linea del «no». No del tutto fondati quando vanno contro i diritti elementari della persona (nel lavoro, nell'immigrazione, nella pratica repressiva) e ormai sempre più spesso contro gli equilibri fondamentali del sistema ecologico-ambientale, per non parlare della guerra. Ma è sotto gli occhi di tutti come le lesioni degli uni e degli altri non vengano più ormai da scelte controvertibili su un piano locale ma da una spinta potente e univoca su scala mondiale, contro la quale le azioni locali sono essenziali ma non contano molto oltre la testimonianza. La vicenda del popolo di Seattle ha avuto un peso incalcolabile sulla formazione della soggettività, nullo sulla forza concreta della Wto - le forze che chiamavamo «strutturali» avendo raggiunto con la propria mondializzazione e la frammentazione di chi le avversa un impatto mai raggiunto prima. L'ampiezza e inoperatività del movimento per la pace obbligano a riflettere sul mutamento avvenuto nel rapporto fra maturazione delle coscienze e agenti di decisione economico-militari.
In Italia la Sinistra Arcobaleno, in Francia le sinistre disunite comunista, ecologista, trotzkiste, in Germania la Linke (è quella che sta andando più avanti e sta obbligando la Spd a una riflessione cui era impreparata) hanno da rendersi conto di questa dimensione e passare dalla resistenza alla proposta. Che non può essere, una volta passata la notte elettorale, la sommatoria di tre o quattro urgenze pur evidenti. L'arretramento è stato grande e poco conta dolersene o sdegnarsene - niente è più derisorio delle punte di astensionismo che emergono qua e là, infantile «Non gioco piu!» mentre rotola il mondo. Molto va aggiornato, molto va ricominciato da capo. A questa ricerca tenteremo di partecipare. E va da sé che il giornale è aperto.

il manifesto, speciale campagna elettorale 3.3.08
L'arcobaleno. Voto utile per frenare il Pd
di Valentino Parlato


Buona, direi molto buona, la partenza della campagna elettorale dell'Arcobaleno, con il comizio di Fausto Bertinotti ieri a Roma. Molto appassionata (continui gli applausi della platea) ma anche molto razionale e anche autocritico sul recente passato di partecipazione al governo. Non un elenco di obiettivi, più o meno mirabolanti, ma una indicazione di lavoro sulla base di un'analisi della società italiana, nella quale anche nei settori (scuola, sanità, pubblica amministrazione, etc) che vanno male, tuttavia al loro interno ci sono forze e soggettività positive che possono contribuire a una politica di risanamento e dare forza alla sinistra. Dunque una linea politica, che già nel corso della campagna elettorale può accrescere forza e consensi.
Insomma un ottimismo della ragione, che solo può dare forza alla volontà. La ragione vede e dichiara che in queste elezioni la vera posta in gioco è la cancellazione delle forze di sinistra e di ogni speranza di cambiare anche di poco lo stato di cose esistente. Ma la stessa ragione ci dice che nella società, nel mondo del lavoro, nella cultura ci sono forze che possono impedire questa deriva, che possono dar vita a una controffensiva, dopo la dura sconfitta che il mondo del lavoro ha subito in questi ultimi decenni.
E così anche la sacrosanta polemica nei confronti del Partito Democratico (non possono stare insieme l'operaio della ThyssenKrupp e il presidente della Federmeccanica) si intreccia con un messaggio positivo: un'affermazione elettorale della sinistra contribuirebbe a invertire o almeno fermare la deriva a destra del Partito Democratico. Insomma il voto veramente utile è quello all'Arcobaleno. Un'affermazione dell'Arcobaleno - quasi un "sic vos, non vobis" - frenerebbe la deriva di un partito ultramoderato (il Pd) nel quale ancora tanti sono i compagni.