Mussi: il duopolio Pd-Pdl amputa la democrazia
di Simone Collini
«Si risale la china», dice con un sospiro di sollievo Fabio Mussi. Passato un mese da quando è stato sottoposto a un doppio trapianto di reni, il ministro dell’Università è alle prese con le terapie anti rigetto. «La scienza italiana, nonostante quello che ci investiamo, raggiunge straordinari livelli di eccellenza».
È questa la cosa che più le dispiace di questi 20 mesi di governo, che non avete fatto di più per la ricerca?
«Questa, ma anche un’altra, di carattere più generale. Il Partito democratico aveva 18 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier, tutti i ministeri chiave, il gruppo parlamentare più forte, ma non ha avuto il coraggio e la serietà di assumersi la responsabilità anche di ciò che è andato storto, addossandola invece tutta agli alleati minori».
Veltroni dice che i ministri in piazza non hanno aiutato.
«Non so bene di cosa si parli. Immagino ci si riferisca a Fioroni, che ha partecipato al Family day contro una legge del governo, i Dico, o alle manifestazioni di Di Pietro contro l’indulto».
Veniamo al futuro: la Sinistra arcobaleno è data sotto l’8% in diverse regioni. È preoccupato?
«No, sono sondaggi di inizio di campagna elettorale, vedremo alla fine. La cosa importante, di grande valore strategico, è affermare la presenza consistente di una sinistra politica rinnovata e unita. Oggi è in corso una battente campagna tesa a dimostrare che c’è un solo voto utile, che è bene una riduzione a due del sistema politico italiano, che i voti che non si danno alle due maggiori formazioni sono sprecati. Campagna che si è spinta fino al paradosso di esponenti del Pd che dicono di votare o Veltroni o Berlusconi».
Non se l’aspettava?
«No, però lo trovo sintomatico. Per questo è molto importante, per l’avvenire di questo Paese, che esista una sinistra politica. Caratterizzazione, quella di sinistra, che mi pare non interessi minimamente al Pd, come dimostra anche l’intervista di Veltroni al Pais: siamo riformisti, non di sinistra».
Riformisti di centrosinistra, ha precisato.
«Sì, va bene. Quel che è certo è che, se non la parola, è la sostanza che è rimasta incustodita. Ecco perché non è auspicabile un gioco a due, anche per evitare attrazioni fatali e magari qualche progetto di riforma costituzionale che veda protagonisti esclusivi il Pdl e il Pd».
È più auspicabile la frammentazione?
«Figuriamoci, ma da venticinque partiti a due c’è un salto che porta all’americanizzazione, che porta fuori dal quadro europeo dove ovunque c’è bipolarismo e aggancio con le grandi tradizioni politiche sorte sul continente, e in nessun paese c’è bipartitismo. Quello che è auspicabile è la presenza di una, per quanto ridotta, pluralità di soggetti. In un paese come il nostro, escludere gran parte della rappresentanza politica e di parti sostanziali della società è un azzardo. Nel duopolio si amputa la democrazia».
Addirittura?
«Sì, se si pensa che questa campagna elettorale ha due poste in gioco. La prima è il governo dei prossimi cinque anni. La seconda, oserei dire persino più importante, sono gli assetti della democrazia italiana e del sistema politico dei prossimi cinquanta anni».
Vede il rischio di una scomparsa di una sinistra politica?
«Vedo il Pd che fa l’appello a non votare più a sinistra, perché non gli dispiacerebbe che scomparisse questo competitore, sino a ieri alleato».
Magari non gli dispiace che scomparisse perché, come dice Veltroni, siete dei conservatori e impedite la modernizzazione del paese.
«Questa è una bella boutade. Le categorie destra e sinistra sono state sostituite con moderno-antico. Categorie politicamente insignificanti. Anche se quando si sente pronunciare in politica troppo spesso la parola moderno ci si deve mettere con le spalle al muro, perché qualcuno cerca di fregarti. In nome della modernità Calearo sostiene che la legge 30 è ottima e che sarebbe bene abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Mi ha impressionato».
Non è Calearo ma Veltroni che vi ha detto che siete rimasti agli anni 50.
«Non siamo noi, è la situazione che è tornata quella degli anni 50: morti sul lavoro e salari da fame. E abbiamo visto la posizione pazzesca assunta da Confindustria, e in special modo dal suo vicepresidente Bombassei, smontare tutta quella versione armonica del rapporto tra imprenditori e lavoratori nella quale è impegnato il Pd. Alla prima prova, di fronte a una strage insopportabile di lavoratori come quella in corso, Confindustria si è detta contraria ai decreti che rafforzano i controlli e le sanzioni. Questo a riprova che tra l’imprenditore e il lavoratore c’è anche qualche conflitto».
Però un patto per la crescita tra imprenditori e operai può incidere sui salari, non crede?
«I salari sono fermi dal 2000. Dal rapporto Mediobanca dello scorso anno emerge che la parte di valore aggiunto destinata ai salari scende dal 40 al 30%, e i profitti salgono di 11 punti. Prendiamo il lungo periodo, gli ultimi 35 anni: la quota del Pil che va al lavoro dipendente scende dal 59 al 48%. E quand’era a questa percentuale? A metà degli anni 50. Quello che manca ai salari finisce ai profitti e alle rendite. E lo ritroviamo in altri indicatori, che dicono che in Italia il 10% dei più ricchi possiede il 45% di tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare privata. La malattia italiana si chiama diseguaglianza, prima ancora che scarsa crescita».
D’alema non esclude in futuro una collaborazione tra voi e il Pd. Che ne pensa?
«Mi fa piacere, vuol dire che c’è qualcuno che ancora riflette. Neanch’io la escudo, anzi mi auguro che in futuro si riapra la possibilità di un’alleanza di centrosinistra, perché altrimenti vedo difficile la possibilità di governare questo Paese. Ma oggi c’è competizione. Almeno finché non si capisce qual è la posizione del Pd, se quella di Calearo e Ichino o quella di Paolo Nerozzi, almeno nella versione che ho conosciuto io».
Dice che è diversa da quella odierna?
«Fu il principale organizzatore dei tre milioni in piazza contro l’abrogazione dell’articolo 18. Oggi è candidato per il Pd in Senato in Veneto, dove c’è capolista alla Camera Calearo».
A proposito di candidature, la Sinistra ne presenta pochissime di esterni.
«Sì, siamo al di qua del necessario e del possibile. Tuttavia, si fa un passo alla volta».
Repubblica 6.3.08
Sicurezza, nessun accordo Confindustria boccia il decreto
Palazzo Chigi: oggi approviamo le nuove norme
Nulla di fatto nel confronto. Contributi alle piccole imprese per la prevenzione
di Marco Reggio
ROMA - Sul decreto sicurezza Confindustria ribadisce la sua linea: è confuso, troppo oneroso per le aziende, serve tempo per chiarire. E l´incontro con le parti sociali, che si è chiuso ieri sera poco dopo le 21, ha confermato le posizioni. Gli imprenditori avevano già parlato in mattinata, e in serata la delegazione di Confindustria ha preso atto senza commentare della scelta del governo di andare avanti per la sua strada. Oggi il Consiglio dei ministri è convocato per le 17, prima il testo definitivo del decreto verrà reso noto alle parti sociali, ma senza modifiche. Tra le misure allo studio di Palazzo Chigi l´utilizzo di una parte dei fondi del "tesoretto" dell´Inail, che ammonterebbe a 12 miliardi di euro, per finanziare l´adeguamento delle misure di sicurezza delle piccole imprese.
E arrivano le reazioni dei partiti. «È necessario che il governo vari immediatamente il decreto - commenta Fausto Bertinotti - senza farsi condizionare, perché c´è una pressione che viene dalla tragedia, più forte di qualunque resistenza». Rassicura Massimo D´Alema: «La posizione del Partito Democratico non è quella non è quella dei falchi di Confindustria. La nostra è quella del responsabile del Lavoro Cesare Damiano».
E il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che è uno dei relatori del decreto, parla chiaro: «La linea di Confindustria è ormai svelata: passiamo un altro mese a discutere, sarà il nuovo governo a riprendere le fila della questione. Quindi tutto rimandato alla fine dell´estate 2008. Impossibile. La legge delega votata dal Parlamento non è soggetta alla firma di un protocollo con le parti sociali, ma è un atto autonomo. Il Consiglio dei ministri lo approverà così come è stato scritto».
Perché Confindustria ha deciso il muro contro muro? Cosa, in realtà, non condivide? Il primo punto: i responsabili delle aziende dove si svolgono attività particolarmente pericolose sono obbligati a redigere e rendere pubblico il "documento di valutazione del rischio". Se non lo fanno sono punibili con l´arresto. I responsabili di tutte le altre aziende, se non lo fanno, rischiano un ammenda fino all´arresto. Tutto questo viene ritenuto "eccessivo" da parte di Confidustria.
Secondo: tutte le imprese che hanno in servizio più del 20 per cento di lavoratori in nero, che non rispettano le misure antincendio, l´esposizione all´amianto, rischiano la sospensione dell´attività e l´interdizione dagli appalti pubblici. Terzo: se accade un incidente grave, con morti o feriti, scatta una sanzione amministrativa fino ad un milione e mezzo di euro, il blocco dell´attività e degli appalti pubblici, oltre alle imputazioni di carattere penale, come le lesioni o l´omicidio colposo, per il numero uno dell´impresa. Anche questo non va bene per Confindustria.
Eppure il punto più "indigesto" per l´associazione degli industriali potrebbe essere la nascita dei "rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza". Cosa sono? Delegati eletti in ogni azienda che, assieme ai dirigenti dell´impresa, gli ispettori delle Asl e dell´Inail avranno libero accesso a tutti gli impianti per verificare, sempre, se le misure di sicurezza previste dalla legge vengono rispettate. «Misure e scelte già concordate con la Thyssenkrupp e l´Ilva di Taranto - afferma il sottosegretario Giampaolo Patta - mentre la Fiat si è sempre opposta a firmare un accordo».
Repubblica 6.3.08
Il vice presidente degli industriali Bombassei: troppa fretta, il decreto non serve
"Pene più severe? È demagogia se ne occupi il prossimo governo"
di Luisa Grion
ROMA - Confindustria chiede qualche giorno in più, tempo necessario a mettere in piedi «un sistema di norme e di sanzioni che possano davvero mettere un freno al dramma delle morti bianche». Perché per Alberto Bombassei, vicepresidente dell´associazione degli imprenditori, «la fretta non aiuta a evitare le tragedie e se il decreto in discussione passerà così com´è non cambierà nulla».
A cosa servirebbero questi giorni in più?
«A esaminare seriamente i 300 articoli del testo che ci hanno consegnato solo pochi giorni fa. A verificare che ci sia davvero, come il governo ci aveva promesso, un sistema di sanzioni proporzionato alle responsabilità e un insieme di norme tecniche chiare. Adesso mancano».
Gian Paolo Patta, il sottosegretario alla Salute, sostiene che voi in realtà cercate solo di perdere tempo: se il decreto non passa adesso, dice, non se ne parlerà più. Fra un mese ci saranno le elezioni, e poi ci sarà un nuovo governo. Ha senso aspettare ancora?
«Voglio essere chiaro: questa è demagogia che m´indigna. Non ci possono essere contrapposizioni su un tema come questo. Le imprese vogliono il testo unico, sono state le prime a chiederlo. Il fatto è che ora per motivi di propaganda elettorale, per mettersi la coscienza a posto, si vuol concludere in fretta e approvare un documento che non avrà l´efficacia che invece dovrebbe avere. Tutti dicono di essere d´accordo sulla estrema urgenza del tema, allora che problema c´è? Messe a punto le nuove norme il governo che uscirà dalle urne lo metterà al primo posto in agenda e varerà un sistema davvero valido. Questo non lo è».
Perché il decreto, così com´è, secondo lei non servirà a nulla?
«Perché è impostato soprattutto sull´inasprimento delle sanzioni. Ma l´esperienza dimostra che aumentare le pene non fa diminuire i reati. Invece bisogna agire a largo raggio: norme chiare, ma anche prevenzione, formazione e educazione alla sicurezza, sia per le imprese che per i lavoratori. C´è a disposizione un fondo d´impresa, usiamolo per fare prevenzione, per diffondere conoscenza. E aumentiamo i controlli».
Ma le sanzioni devono aumentare o no, secondo lei? E in caso di inadempienza grave perché non ci dovrebbe essere l´arresto?
«In caso di responsabilità gravi devono esserci sanzioni alte e arresto, questo è fuori dubbio. Ma non è corretto che le stesse sanzioni colpiscano semplici errori di compilazione di documenti formali. Creare un apparato sanzionatorio indiscriminato finirà per mettere in difficoltà le imprese serie e aumentare il livello di economia sommersa».
Tutti sono contro di voi. Anche Berlusconi e la Cei dicono di fare in fretta. Questa comunanza di vedute non mette qualche dubbio alle vostre posizioni?
«Io rispondo alla mia coscienza e voglio una cosa fatta bene, la soluzione improvvisata non mi interessa».
Repubblica 6.3.08
Saviano non corre e attacca "Si parla poco di criminalità"
LONDRA - L´autore di «Gomorra» non sarà candidato alle prossime elezioni politiche, né con il Partito Democratico, come affermavano alcune indiscrezioni dei giorni scorsi, né con alcun altro partito. Roberto Saviano lo ha detto ieri a Londra, dove si trova per il lancio dell´edizione inglese del suo libro, accolto da recensioni molto positive anche in Gran Bretagna. «Non mi candiderò a queste elezioni politiche», ha affermato lo scrittore durante un´affollata conferenza stampa, «perché il mio mestiere è fare lo scrittore e la mia responsabilità è dunque quella della parola, non della politica. Il mio nome come possibile candidato era stato fatto nell´ottica di affrontare in maniera nuova il tema della criminalità organizzata. Ma devo dire che purtroppo, in un Paese come il nostro in cui l´economia sommersa e la criminalità organizzata sono uno dei settori più redditizi dell´economia, la parola criminalità organizzata non è mai stata usata in maniera esplicita nell´attuale campagna elettorale. Comunque vadano le elezioni - ha aggiunto - la sfida per me è sconfiggere il meccanismo del voto di scambio, che consegna il potere nelle mani dei gruppi camorristi e mafiosi». Alla domanda di un giornalista che gli ha chiesto se abbia paura a girare sempre sotto scorta a causa delle minacce che ha ricevuto dopo la pubblicazione in Italia del libro, Saviano ha risposto: «Non mi sarei mai immaginato di trovarmi in una situazione simile. Mi dispiace per la mia famiglia, che ne è stata coinvolta». Domani lo scrittore avrà un dibattito con docenti e studenti all´università di Oxford.
(e. f.)
Corriere della Sera 6.3.08
Giorgio Israel attacca gli integralisti del progresso tecnologico Giorello: troppi pregiudizi spiritualisti. Pievani: una caricatura
Scienza, il nuovo tabù
Un pamphlet critica i sostenitori più accesi del darwinismo e il «disastro educativo» dell'istruzione pubblica italiana
di Antonio Carioti
Lo scientismo nuoce alla cultura scientifica. Lo afferma il matematico Giorgio Israel, firma del Foglio, nel libro Chi sono i nemici della scienza? (Lindau, pp. 346, € 21,50), in cui accusa la sinistra orfana del marxismo di aver abbracciato una fede acritica nel progresso tecnologico, che la porta a scomunicare chiunque voglia fissare dei limiti alla manipolazione della natura e della stessa vita umana. L'attacco è rivolto a studiosi portatori di concezioni molto diverse: alcuni ritengono che la scienza abbia un valore oggettivo, altri la considerano una fonte di conoscenze provvisorie e relative. Ma tutti costoro, secondo Israel, «marciano separati per colpire uniti», perché sono compatti nel contrapporre nettamente scienza e religione, così come nel respingere ogni critica al darwinismo.
Gli interessati non gradiscono. Giulio Giorello, chiamato in causa, respinge le accuse di Israel: «Non ho mai pensato che le verità scientifiche siano fondate sulla roccia o che gli scienziati debbano decidere tutto. Ma l'Italia non è minacciata dallo scientismo. Vedo piuttosto avanzare pregiudizi antiscientifici che si nutrono di spiritualismo e di timore per gli aspetti più emancipativi delle biotecnologie. Un'offensiva cui l'ex comunista Israel si unisce con uno zelo da prete spretato». Analoga la reazione di un altro filosofo della scienza, Telmo Pievani: «Israel dipinge uno scientismo caricaturale. Nessuna persona ragionevole pensa che le tecnoscienze debbano correre a briglia sciolta senza vincoli, specie nel campo più delicato della biogenetica. Tutti concordano, per esempio, sul divieto di far nascere bambini per clonazione».
Vi è tuttavia tra gli studiosi chi condivide i timori di Israel per il predominio delle tecnoscienze. Così Lucio Russo, autore del saggio Flussi e riflussi
(Feltrinelli): «C'è una biforcazione crescente tra la ricerca scientifica teorica e quella puramente tecnologica. Le applicazioni concrete hanno sempre svolto una funzione essenziale di stimolo alla scienza, ma non credo sia giusto invocare la libertà di ricerca come giustificazione ideale del lavoro di messa a punto di qualsiasi prodotto o tecnica per fini commerciali. Esistono casi in cui l'opportunità di sviluppare e applicare una determinata tecnologia non dovrebbe sfuggire a un giudizio morale, che andrebbe dato caso per caso».
In difesa della ricerca si schiera Enrico Bellone, direttore della rivista Le Scienze, anch'egli preso di mira da Israel: «Sulle biotecnologie circolano molte sciocchezze. Per esempio le cosiddette chimere, presentate dai media come creature mostruose, sono uno strumento prezioso per capire come funzionano le cellule e trovare una cura a malattie terribili come l'Alzheimer. La polemica di Israel lascia disarmati perché non è argomentata. Basta vedere come stronca il mio libro L'origine delle teorie (Codice edizioni), di chiara matrice evoluzionista: non entra nel merito e si limita a proclamare che il darwinismo è dannoso». Ma davvero non si possono avanzare dubbi sulla teoria dell'evoluzione? «Bisogna distinguere — risponde Pievani — perché un conto è il dibattito scientifico sul programma di ricerca neodarwiniano, al quale si possono muovere obiezioni pienamente legittime, come quelle esposte di recente da Massimo Piattelli Palmarini sul Corriere. Madiverso è il tentativo di screditare l'evoluzione per dare spazio a teorie di stampo religioso, come il "disegno intelligente", del tutto estranee alla scienza». Non a caso Pievani è autore, con Carla Castellacci, del pamphlet anticlericale Sante ragioni
(Chiarelettere). Ma si dichiara distante dalla «metafisica materialista» denunciata da Israel: «Ci sono studiosi, come Richard Dawkins, secondo i quali il darwinismo porta necessariamente all'ateismo. Se Israel ce l'ha con loro, sono d'accordo con lui. Infatti l'evoluzione non esclude affatto l'esistenza di Dio, ma semplicemente permette di spiegare lo sviluppo della vita sulla terra senza ricorrere a ipotesi sovrannaturali».
Giorello è sulla stessa linea: «È appena uscito, nella collana che dirigo per Raffaello Cortina, il libro
Preghiera darwiniana di Michele Luzzatto, uno studioso di fede ebraica che traccia un suggestivo parallelo tra Darwin e alcuni personaggi biblici. Noi liberi pensatori relativisti siamo aperti alla cultura religiosa, ma non ci pieghiamo ad alcuna ortodossia, mentre mi pare che Israel aspiri a fare la mosca cocchiera di Benedetto XVI».
Più critico verso la comunità degli scienziati si mostra Russo: «Noto nell'accademia una triste omogeneità di pareri: sembra che l'unica esigenza sia difendere tutto ciò che ha un'etichetta scientifica da nemici più immaginari che reali. E non credo che la scienza sia minacciata dall'oscurantismo della Chiesa cattolica. Commettono un grave errore gli scienziati laici in buona fede che, confondendo la razionalità scientifica con l'adozione della logica di mercato come unico possibile criterio di scelta, lasciano ai religiosi il monopolio dei giudizi di valore. E poi quando sento tuonare contro i padri inquisitori non posso fare a meno di ricordare che, per conciliare il desiderio di sentirsi paladini degli oppressi con i vantaggi derivanti dall'acquiescenza ai potenti, il metodo più seguito è sempre stato quello di difendere gli oppressi di epoche precedenti, ponendosi in sintonia con i detentori del potere del proprio tempo». Bellone concorda solo in parte: «La Chiesa non è monolitica e non tutti i cattolici considerano la scienza una minaccia. Ma anni fa Ratzinger scrisse che la biogenetica era una patologia della ragione, addirittura peggiore del totalitarismo di Pol Pot».
Corriere della Sera 6.3.08
Cina a Palazzo Strozzi
Quel Rinascimento venuto dall'Oriente
di Wanda Lattes
Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani e per l'oreficeria in giada e bronzo
Statue enormi in pietra decorata con intagli artistici, gruppi stupefacenti in bronzo, figure vivaci in terracotta colorata o minuscole in argilla, oro e argento, pitture fantastiche e ritratti veritieri, scrigni e vasi lussuosi in metallo prezioso, quali oggi nessun superpotente, divo, magnate o politico, oserebbe commissionare.
Qualunque tempo il visitatore abbia programmato per vedere, capire la mostra «Cina: alla corte degli Imperatori» probabilmente dovrà, alla fine, allontanarsi con rimpianto da Palazzo Strozzi. Perché questa incursione nel tempo, nello spazio, nelle culture di un mondo lontano risulta davvero stupefacente.
Dopo l'itinerario intrapreso oltre un anno fa a Roma con la mostra alle Scuderie del Quirinale sulla Cina del primo millennio a. C., il periodo di miracolosa produttività qui esemplificato comprende uno spazio temporale che va dal 25 d. C. al 907, dalla tradizione della dinastia Han allo splendore di quella Tang. In Europa nel frattempo si assiste al trionfo e poi al declino dell'impero romano, alle invasioni barbariche, alla minaccia musulmana che arriva alle porte di Parigi, al primo concetto di Europa unificata con l'incoronazione di Carlo Magno. Un lungo periodo cupo e minaccioso dove l'unico salvataggio della cultura a un certo punto è costituito dal certosino lavoro nei monasteri.
Ebbene, nella Cina che ci raccontano a Firenze, una nazione proiettata in spazi infinitamente più grandi dell'intera Europa, due dinastie, la Hang e la Tang, riescono a primeggiare e a diventare fari di civiltà: laboratori politici, sociali, scientifici, terreni fertili per sfide e raffinatezze artistiche. Tutto mentre il Confucianesimo cede il passo, per qualche secolo, al Buddismo.
La magnifica eleganza della corte Tang (617-907) viene vantata come il Rinascimento cinese. Ma qui a Firenze, ad interpretare una Rinascita umanistica e libera, intellettuali e artisti ci arrivarono mezzo millennio dopo. La mostra, ovviamente, non è tanto una riflessione su quel periodo Tang che lo storico Charles Fitzgerald definiva «grande epoca creativa», né soltanto pentimento per quella ignoranza che accredita Marco Polo e pochi altri viaggiatori come portatori di civiltà tra gente semplice, quando invece la Via della Seta era già da tempo legame ininterrotto di merci e cultura.
È un'occasione per ammirare il talento dei pittori che lavorarono su seta e ceramica, l'abilità dei modellatori di urne e vasi ma anche di minuscole e realistiche torri, case, porcili e perfino esseri umani. All'opposto di questa arte minuta ci sono l'imponente Budda (alto due metri e mezzo) sistemato al centro del cortile del palazzo e l'incredibile processione di cavalli e carri di bronzo. Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani, per l'oreficeria in giada e bronzo. E si va avanti con stupore nella ricca vita di corte fino ai ritratti delle impudiche, seducenti concubine dell'imperatore.
Corriere della Sera 6.3.08
Arte&potere Un'epoca che unì virtù civili e religiose
La burocrazia celeste che plasmò la storia
di Alessandra Lavagnino
L'impero raggiunge la sua massima espansione e la floridezza economica. Epoca d'oro di poesia e arte (terracotta e porcellana)
Quale storia racconta questa mostra? La storia di un grande Paese che costruisce la propria, solida, identità culturale attraverso una quantità straordinaria di sfaccettature. Il filo conduttore degli oggetti esposti non è solo la loro fattura, che definire «squisita» appare a dire poco riduttivo, ma soprattutto il possesso per ognuno di essi di una qualità peculiare, un tratto geniale che deriva da una gestualità del tutto imprevista o dalla torsione in un corpo inaspettata e vitale, dall'inaspettato panneggio danzante in una tunica o da un azzardato accostamento di colore, improbabile e forse orribile se raccontato ma straordinariamente toccante una volta visto: indescrivibile ad esempio è il lucore delle invetriature sulle statuine funerarie, oggetti che accompagnavano nella tomba un onorabile defunto e costituivano il suo doppio nel regno degli inferi: ecco i sontuosi cortei, con carrozze e cavalli, ecco le sinuose musicanti e danzatrici che ne dovevano allietare il soggiorno nell'aldilà, la profusione di case e granai, cortili e piccole pagode che costruiscono un villaggio dell'oltretomba nel quale l'altra vita del defunto sarà gioiosa e serena. Un'abitudine, questa dei cortei funebri in bronzo e poi in terracotta, che attraversa costante tutta la storia culturale cinese, e costituisce non soltanto una preziosa testimonianza della vita quotidiana nella Cina imperiale, impeccabile supporto scenografico che racconta l'ordine e il decoro della vita sociale, ma soprattutto dà prova della continuità culturale di tradizioni, abitudini, costumi e credenze.
Si inizia con la seconda dinastia Han, quegli Han Orientali che raccolgono e mantengono alto il nome della Dinastia imperiale degli Han per quasi tre secoli (nome che rimarrà ancor oggi a designare la principale etnia cinese Han ren, gente Han), e il cui impero centralizzato si sgretola sotto i colpi delle contese interne e le pressioni delle genti barbariche del nord ovest (220 d.C). Ma nei successivi tre secoli di divisione del Paese, di frammentazione in mille piccole dinastie, in quello che la storiografia occidentale ha definito con una interessante analogia il Medioevo cinese, non si costruisce, come in occidente, un qualche sistema che si propone come coerente alternativa a quello imperiale, legittimato da millenni attraverso il «mandato del Cielo» al governo per il Sovrano, che di quel Cielo è il Figlio (Tianzi); al contrario, il tempo che trascorre dall'inizio del III sec. d.C. fino alla fine del VI sec. costituisce il periodo nel quale si vanno gradualmente ricostituendo le condizioni che porteranno alla formazione di strutture sociali ed economiche peculiari del sistema imperiale. È l'epoca feconda in cui nello sterminato territorio che chiamiamo Cina — pur spezzettato in regni e dinastie barbariche al nord e in mille famiglie in discordia al sud — arriva dall'India, attraverso la Via della Seta, il Buddismo. Contemporaneamente, nei circoli degli Eruditi si discute dell'importanza della scrittura (wen) come fondamentale elemento di civiltà, dell'essenza stessa della letteratura, si teorizzano i canoni della pittura, si parla del «vuoto e del pieno», si dipingono ritratti e si affrescano prodigiosi santuari rupestri. Qui verranno poi stipati testi su carta e su seta, rotoli buddisti di preghiere e di dipinti.
Ed è proprio nella ritrovata unità dell'impero, realizzata dall'effimera quanto interessante dinastia Sui — artefice, tra l'altro, del prodigioso Canale imperiale (605 d. C.), un'immensa rete di vie navigabili, collegamento materiale e unione simbolica tra il Sud e il Nord del Paese — che troveranno certezza e solidità, rassicurazione e coesione le mille istanze di uno straordinario mosaico di cultura. Il governo viene esercitato mediante il predominio delle virtù «civili» (wen, «segno scritto/ cultura/civiltà») che vincono su quelle «militari» (wu «arma/guerra»), e il costante riconoscimento, di chiara derivazione confuciana, verso il sistema imperiale viene garantito dal solido perpetuarsi della «burocrazia celeste », fedele garante della continuità istituzionale, accuratamente selezionata in base al sistema degli esami imperiali, colonna portante della stabilità del sistema.
Lo splendore della dinastia Tang, che risalta, unico, nei pezzi qui in mostra, nasce da tutto questo: la solidità di un sistema, quello imperiale, che conta su di un meccanismo perfetto, nel quale ciascun ingranaggio fornisce il proprio ordinato contributo: si tratta sempre di un incastro sociale che deve essere costantemente riverificato, ma nel quale possono agevolmente entrare — purché attentamente vagliati in base al criterio principe dell'efficacia — nuovi elementi, costituiti vuoi dalle componenti religiose, il Buddismo venuto dall'India come il Cristianesimo nestoriano o l'Islam, che si mescolano con il Taoismo e i culti locali, ma sono prodigiosamente tenuti insieme dal collante sociale costituito dalla burocrazia confuciana. Una burocrazia che, ricordiamolo, basa il proprio potere sulla conoscenza, sul sapere, sulle «virtù civili».
Docente di lingua e cultura cinese all'Università degli Studi di Milano
il Riformista 6.3.08
Ho cercato di fare un giornale scomodo
di Paolo Franchi
Di sinistra (e non come la destra della sinistra, perché i riformisti, almeno secondo me, non sono questo). E di frontiera, perché certezze non ce ne sono più, e nemmeno rifugi sicuri dove attestarsi, e quindi bisogna, anche a sinistra, mettere in circolo idee nuove, rischiare e rischiarsi. Così scrissi del Riformista che volevo fare venti mesi fa, quando lasciai il Corriere, una corazzata, per assumere la direzione di questo piccolo naviglio. A ripensarci adesso, nel momento del commiato dai lettori, la prima cosa che mi viene da dire è che, credo, il mio Riformista questo impegno lo ha rispettato; o almeno ha fatto tutto il possibile per rispettarlo, tra difficoltà di ogni tipo, in tempi che non sono esattamente i migliori per simili avventure... (il seguito più tardi)
il Riformista 6.3.08
Non troverete più il vostro em.ma
di Emanuele Macaluso
Mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che nel momento in cui cambia la direzione del Riformista cessa anche la mia collaborazione col giornale: non ci sarà più “em.ma”, non ci saranno i miei interventi del martedì e altro. E spiego perché. Quando Antonio Polito, insieme ad altri, fondò questo giornale mi chiese di collaborare, spiegandomi quale era il suo piano editoriale, e le intenzioni politico-culturali che avrebbero segnato il carattere del nuovo giornale. Conoscevo Antonio, dato che aveva lavorato con me all’Unità, e avevo seguito e apprezzato il suo lavoro a Repubblica. Tuttavia gli manifestai i miei dubbi dovuti al complesso dei miei impegni, visto che dirigevo una rivista e collaboravo, come editorialista, con tre quotidiani. Ma Polito non si arrese, insistette, e io, tentato da un’avventura giornalistica per tanti versi nuova avviata sotto il segno del Riformista, accettai. E devo dire che la collaborazione con Polito è stata sempre cordiale, anche nei momenti in cui i nostri punti di vista non collimavano... (il seguito più tardi)
Ho cercato di fare un giornale scomodo
di Paolo Franchi
Di sinistra (e non come la destra della sinistra, perché i riformisti, almeno secondo me, non sono questo). E di frontiera, perché certezze non ce ne sono più, e nemmeno rifugi sicuri dove attestarsi, e quindi bisogna, anche a sinistra, mettere in circolo idee nuove, rischiare e rischiarsi. Così scrissi del Riformista che volevo fare venti mesi fa, quando lasciai il Corriere, una corazzata, per assumere la direzione di questo piccolo naviglio. A ripensarci adesso, nel momento del commiato dai lettori, la prima cosa che mi viene da dire è che, credo, il mio Riformista questo impegno lo ha rispettato; o almeno ha fatto tutto il possibile per rispettarlo, tra difficoltà di ogni tipo, in tempi che non sono esattamente i migliori per simili avventure... (il seguito più tardi)
il Riformista 6.3.08
Non troverete più il vostro em.ma
di Emanuele Macaluso
Mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che nel momento in cui cambia la direzione del Riformista cessa anche la mia collaborazione col giornale: non ci sarà più “em.ma”, non ci saranno i miei interventi del martedì e altro. E spiego perché. Quando Antonio Polito, insieme ad altri, fondò questo giornale mi chiese di collaborare, spiegandomi quale era il suo piano editoriale, e le intenzioni politico-culturali che avrebbero segnato il carattere del nuovo giornale. Conoscevo Antonio, dato che aveva lavorato con me all’Unità, e avevo seguito e apprezzato il suo lavoro a Repubblica. Tuttavia gli manifestai i miei dubbi dovuti al complesso dei miei impegni, visto che dirigevo una rivista e collaboravo, come editorialista, con tre quotidiani. Ma Polito non si arrese, insistette, e io, tentato da un’avventura giornalistica per tanti versi nuova avviata sotto il segno del Riformista, accettai. E devo dire che la collaborazione con Polito è stata sempre cordiale, anche nei momenti in cui i nostri punti di vista non collimavano... (il seguito più tardi)