giovedì 6 marzo 2008

l'Unità 6.3.08
Mussi: il duopolio Pd-Pdl amputa la democrazia
di Simone Collini


«Si risale la china», dice con un sospiro di sollievo Fabio Mussi. Passato un mese da quando è stato sottoposto a un doppio trapianto di reni, il ministro dell’Università è alle prese con le terapie anti rigetto. «La scienza italiana, nonostante quello che ci investiamo, raggiunge straordinari livelli di eccellenza».
È questa la cosa che più le dispiace di questi 20 mesi di governo, che non avete fatto di più per la ricerca?
«Questa, ma anche un’altra, di carattere più generale. Il Partito democratico aveva 18 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier, tutti i ministeri chiave, il gruppo parlamentare più forte, ma non ha avuto il coraggio e la serietà di assumersi la responsabilità anche di ciò che è andato storto, addossandola invece tutta agli alleati minori».
Veltroni dice che i ministri in piazza non hanno aiutato.
«Non so bene di cosa si parli. Immagino ci si riferisca a Fioroni, che ha partecipato al Family day contro una legge del governo, i Dico, o alle manifestazioni di Di Pietro contro l’indulto».
Veniamo al futuro: la Sinistra arcobaleno è data sotto l’8% in diverse regioni. È preoccupato?
«No, sono sondaggi di inizio di campagna elettorale, vedremo alla fine. La cosa importante, di grande valore strategico, è affermare la presenza consistente di una sinistra politica rinnovata e unita. Oggi è in corso una battente campagna tesa a dimostrare che c’è un solo voto utile, che è bene una riduzione a due del sistema politico italiano, che i voti che non si danno alle due maggiori formazioni sono sprecati. Campagna che si è spinta fino al paradosso di esponenti del Pd che dicono di votare o Veltroni o Berlusconi».
Non se l’aspettava?
«No, però lo trovo sintomatico. Per questo è molto importante, per l’avvenire di questo Paese, che esista una sinistra politica. Caratterizzazione, quella di sinistra, che mi pare non interessi minimamente al Pd, come dimostra anche l’intervista di Veltroni al Pais: siamo riformisti, non di sinistra».
Riformisti di centrosinistra, ha precisato.
«Sì, va bene. Quel che è certo è che, se non la parola, è la sostanza che è rimasta incustodita. Ecco perché non è auspicabile un gioco a due, anche per evitare attrazioni fatali e magari qualche progetto di riforma costituzionale che veda protagonisti esclusivi il Pdl e il Pd».
È più auspicabile la frammentazione?
«Figuriamoci, ma da venticinque partiti a due c’è un salto che porta all’americanizzazione, che porta fuori dal quadro europeo dove ovunque c’è bipolarismo e aggancio con le grandi tradizioni politiche sorte sul continente, e in nessun paese c’è bipartitismo. Quello che è auspicabile è la presenza di una, per quanto ridotta, pluralità di soggetti. In un paese come il nostro, escludere gran parte della rappresentanza politica e di parti sostanziali della società è un azzardo. Nel duopolio si amputa la democrazia».
Addirittura?
«Sì, se si pensa che questa campagna elettorale ha due poste in gioco. La prima è il governo dei prossimi cinque anni. La seconda, oserei dire persino più importante, sono gli assetti della democrazia italiana e del sistema politico dei prossimi cinquanta anni».
Vede il rischio di una scomparsa di una sinistra politica?
«Vedo il Pd che fa l’appello a non votare più a sinistra, perché non gli dispiacerebbe che scomparisse questo competitore, sino a ieri alleato».
Magari non gli dispiace che scomparisse perché, come dice Veltroni, siete dei conservatori e impedite la modernizzazione del paese.
«Questa è una bella boutade. Le categorie destra e sinistra sono state sostituite con moderno-antico. Categorie politicamente insignificanti. Anche se quando si sente pronunciare in politica troppo spesso la parola moderno ci si deve mettere con le spalle al muro, perché qualcuno cerca di fregarti. In nome della modernità Calearo sostiene che la legge 30 è ottima e che sarebbe bene abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Mi ha impressionato».
Non è Calearo ma Veltroni che vi ha detto che siete rimasti agli anni 50.
«Non siamo noi, è la situazione che è tornata quella degli anni 50: morti sul lavoro e salari da fame. E abbiamo visto la posizione pazzesca assunta da Confindustria, e in special modo dal suo vicepresidente Bombassei, smontare tutta quella versione armonica del rapporto tra imprenditori e lavoratori nella quale è impegnato il Pd. Alla prima prova, di fronte a una strage insopportabile di lavoratori come quella in corso, Confindustria si è detta contraria ai decreti che rafforzano i controlli e le sanzioni. Questo a riprova che tra l’imprenditore e il lavoratore c’è anche qualche conflitto».
Però un patto per la crescita tra imprenditori e operai può incidere sui salari, non crede?
«I salari sono fermi dal 2000. Dal rapporto Mediobanca dello scorso anno emerge che la parte di valore aggiunto destinata ai salari scende dal 40 al 30%, e i profitti salgono di 11 punti. Prendiamo il lungo periodo, gli ultimi 35 anni: la quota del Pil che va al lavoro dipendente scende dal 59 al 48%. E quand’era a questa percentuale? A metà degli anni 50. Quello che manca ai salari finisce ai profitti e alle rendite. E lo ritroviamo in altri indicatori, che dicono che in Italia il 10% dei più ricchi possiede il 45% di tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare privata. La malattia italiana si chiama diseguaglianza, prima ancora che scarsa crescita».
D’alema non esclude in futuro una collaborazione tra voi e il Pd. Che ne pensa?
«Mi fa piacere, vuol dire che c’è qualcuno che ancora riflette. Neanch’io la escudo, anzi mi auguro che in futuro si riapra la possibilità di un’alleanza di centrosinistra, perché altrimenti vedo difficile la possibilità di governare questo Paese. Ma oggi c’è competizione. Almeno finché non si capisce qual è la posizione del Pd, se quella di Calearo e Ichino o quella di Paolo Nerozzi, almeno nella versione che ho conosciuto io».
Dice che è diversa da quella odierna?
«Fu il principale organizzatore dei tre milioni in piazza contro l’abrogazione dell’articolo 18. Oggi è candidato per il Pd in Senato in Veneto, dove c’è capolista alla Camera Calearo».
A proposito di candidature, la Sinistra ne presenta pochissime di esterni.
«Sì, siamo al di qua del necessario e del possibile. Tuttavia, si fa un passo alla volta».

Repubblica 6.3.08
Sicurezza, nessun accordo Confindustria boccia il decreto
Palazzo Chigi: oggi approviamo le nuove norme
Nulla di fatto nel confronto. Contributi alle piccole imprese per la prevenzione
di Marco Reggio


ROMA - Sul decreto sicurezza Confindustria ribadisce la sua linea: è confuso, troppo oneroso per le aziende, serve tempo per chiarire. E l´incontro con le parti sociali, che si è chiuso ieri sera poco dopo le 21, ha confermato le posizioni. Gli imprenditori avevano già parlato in mattinata, e in serata la delegazione di Confindustria ha preso atto senza commentare della scelta del governo di andare avanti per la sua strada. Oggi il Consiglio dei ministri è convocato per le 17, prima il testo definitivo del decreto verrà reso noto alle parti sociali, ma senza modifiche. Tra le misure allo studio di Palazzo Chigi l´utilizzo di una parte dei fondi del "tesoretto" dell´Inail, che ammonterebbe a 12 miliardi di euro, per finanziare l´adeguamento delle misure di sicurezza delle piccole imprese.
E arrivano le reazioni dei partiti. «È necessario che il governo vari immediatamente il decreto - commenta Fausto Bertinotti - senza farsi condizionare, perché c´è una pressione che viene dalla tragedia, più forte di qualunque resistenza». Rassicura Massimo D´Alema: «La posizione del Partito Democratico non è quella non è quella dei falchi di Confindustria. La nostra è quella del responsabile del Lavoro Cesare Damiano».
E il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che è uno dei relatori del decreto, parla chiaro: «La linea di Confindustria è ormai svelata: passiamo un altro mese a discutere, sarà il nuovo governo a riprendere le fila della questione. Quindi tutto rimandato alla fine dell´estate 2008. Impossibile. La legge delega votata dal Parlamento non è soggetta alla firma di un protocollo con le parti sociali, ma è un atto autonomo. Il Consiglio dei ministri lo approverà così come è stato scritto».
Perché Confindustria ha deciso il muro contro muro? Cosa, in realtà, non condivide? Il primo punto: i responsabili delle aziende dove si svolgono attività particolarmente pericolose sono obbligati a redigere e rendere pubblico il "documento di valutazione del rischio". Se non lo fanno sono punibili con l´arresto. I responsabili di tutte le altre aziende, se non lo fanno, rischiano un ammenda fino all´arresto. Tutto questo viene ritenuto "eccessivo" da parte di Confidustria.
Secondo: tutte le imprese che hanno in servizio più del 20 per cento di lavoratori in nero, che non rispettano le misure antincendio, l´esposizione all´amianto, rischiano la sospensione dell´attività e l´interdizione dagli appalti pubblici. Terzo: se accade un incidente grave, con morti o feriti, scatta una sanzione amministrativa fino ad un milione e mezzo di euro, il blocco dell´attività e degli appalti pubblici, oltre alle imputazioni di carattere penale, come le lesioni o l´omicidio colposo, per il numero uno dell´impresa. Anche questo non va bene per Confindustria.
Eppure il punto più "indigesto" per l´associazione degli industriali potrebbe essere la nascita dei "rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza". Cosa sono? Delegati eletti in ogni azienda che, assieme ai dirigenti dell´impresa, gli ispettori delle Asl e dell´Inail avranno libero accesso a tutti gli impianti per verificare, sempre, se le misure di sicurezza previste dalla legge vengono rispettate. «Misure e scelte già concordate con la Thyssenkrupp e l´Ilva di Taranto - afferma il sottosegretario Giampaolo Patta - mentre la Fiat si è sempre opposta a firmare un accordo».

Repubblica 6.3.08
Il vice presidente degli industriali Bombassei: troppa fretta, il decreto non serve
"Pene più severe? È demagogia se ne occupi il prossimo governo"
di Luisa Grion


ROMA - Confindustria chiede qualche giorno in più, tempo necessario a mettere in piedi «un sistema di norme e di sanzioni che possano davvero mettere un freno al dramma delle morti bianche». Perché per Alberto Bombassei, vicepresidente dell´associazione degli imprenditori, «la fretta non aiuta a evitare le tragedie e se il decreto in discussione passerà così com´è non cambierà nulla».
A cosa servirebbero questi giorni in più?
«A esaminare seriamente i 300 articoli del testo che ci hanno consegnato solo pochi giorni fa. A verificare che ci sia davvero, come il governo ci aveva promesso, un sistema di sanzioni proporzionato alle responsabilità e un insieme di norme tecniche chiare. Adesso mancano».
Gian Paolo Patta, il sottosegretario alla Salute, sostiene che voi in realtà cercate solo di perdere tempo: se il decreto non passa adesso, dice, non se ne parlerà più. Fra un mese ci saranno le elezioni, e poi ci sarà un nuovo governo. Ha senso aspettare ancora?
«Voglio essere chiaro: questa è demagogia che m´indigna. Non ci possono essere contrapposizioni su un tema come questo. Le imprese vogliono il testo unico, sono state le prime a chiederlo. Il fatto è che ora per motivi di propaganda elettorale, per mettersi la coscienza a posto, si vuol concludere in fretta e approvare un documento che non avrà l´efficacia che invece dovrebbe avere. Tutti dicono di essere d´accordo sulla estrema urgenza del tema, allora che problema c´è? Messe a punto le nuove norme il governo che uscirà dalle urne lo metterà al primo posto in agenda e varerà un sistema davvero valido. Questo non lo è».
Perché il decreto, così com´è, secondo lei non servirà a nulla?
«Perché è impostato soprattutto sull´inasprimento delle sanzioni. Ma l´esperienza dimostra che aumentare le pene non fa diminuire i reati. Invece bisogna agire a largo raggio: norme chiare, ma anche prevenzione, formazione e educazione alla sicurezza, sia per le imprese che per i lavoratori. C´è a disposizione un fondo d´impresa, usiamolo per fare prevenzione, per diffondere conoscenza. E aumentiamo i controlli».
Ma le sanzioni devono aumentare o no, secondo lei? E in caso di inadempienza grave perché non ci dovrebbe essere l´arresto?
«In caso di responsabilità gravi devono esserci sanzioni alte e arresto, questo è fuori dubbio. Ma non è corretto che le stesse sanzioni colpiscano semplici errori di compilazione di documenti formali. Creare un apparato sanzionatorio indiscriminato finirà per mettere in difficoltà le imprese serie e aumentare il livello di economia sommersa».
Tutti sono contro di voi. Anche Berlusconi e la Cei dicono di fare in fretta. Questa comunanza di vedute non mette qualche dubbio alle vostre posizioni?
«Io rispondo alla mia coscienza e voglio una cosa fatta bene, la soluzione improvvisata non mi interessa».

Repubblica 6.3.08
Saviano non corre e attacca "Si parla poco di criminalità"


LONDRA - L´autore di «Gomorra» non sarà candidato alle prossime elezioni politiche, né con il Partito Democratico, come affermavano alcune indiscrezioni dei giorni scorsi, né con alcun altro partito. Roberto Saviano lo ha detto ieri a Londra, dove si trova per il lancio dell´edizione inglese del suo libro, accolto da recensioni molto positive anche in Gran Bretagna. «Non mi candiderò a queste elezioni politiche», ha affermato lo scrittore durante un´affollata conferenza stampa, «perché il mio mestiere è fare lo scrittore e la mia responsabilità è dunque quella della parola, non della politica. Il mio nome come possibile candidato era stato fatto nell´ottica di affrontare in maniera nuova il tema della criminalità organizzata. Ma devo dire che purtroppo, in un Paese come il nostro in cui l´economia sommersa e la criminalità organizzata sono uno dei settori più redditizi dell´economia, la parola criminalità organizzata non è mai stata usata in maniera esplicita nell´attuale campagna elettorale. Comunque vadano le elezioni - ha aggiunto - la sfida per me è sconfiggere il meccanismo del voto di scambio, che consegna il potere nelle mani dei gruppi camorristi e mafiosi». Alla domanda di un giornalista che gli ha chiesto se abbia paura a girare sempre sotto scorta a causa delle minacce che ha ricevuto dopo la pubblicazione in Italia del libro, Saviano ha risposto: «Non mi sarei mai immaginato di trovarmi in una situazione simile. Mi dispiace per la mia famiglia, che ne è stata coinvolta». Domani lo scrittore avrà un dibattito con docenti e studenti all´università di Oxford.
(e. f.)

Corriere della Sera 6.3.08
Giorgio Israel attacca gli integralisti del progresso tecnologico Giorello: troppi pregiudizi spiritualisti. Pievani: una caricatura
Scienza, il nuovo tabù
Un pamphlet critica i sostenitori più accesi del darwinismo e il «disastro educativo» dell'istruzione pubblica italiana
di Antonio Carioti


Lo scientismo nuoce alla cultura scientifica. Lo afferma il matematico Giorgio Israel, firma del Foglio, nel libro Chi sono i nemici della scienza? (Lindau, pp. 346, € 21,50), in cui accusa la sinistra orfana del marxismo di aver abbracciato una fede acritica nel progresso tecnologico, che la porta a scomunicare chiunque voglia fissare dei limiti alla manipolazione della natura e della stessa vita umana. L'attacco è rivolto a studiosi portatori di concezioni molto diverse: alcuni ritengono che la scienza abbia un valore oggettivo, altri la considerano una fonte di conoscenze provvisorie e relative. Ma tutti costoro, secondo Israel, «marciano separati per colpire uniti», perché sono compatti nel contrapporre nettamente scienza e religione, così come nel respingere ogni critica al darwinismo.
Gli interessati non gradiscono. Giulio Giorello, chiamato in causa, respinge le accuse di Israel: «Non ho mai pensato che le verità scientifiche siano fondate sulla roccia o che gli scienziati debbano decidere tutto. Ma l'Italia non è minacciata dallo scientismo. Vedo piuttosto avanzare pregiudizi antiscientifici che si nutrono di spiritualismo e di timore per gli aspetti più emancipativi delle biotecnologie. Un'offensiva cui l'ex comunista Israel si unisce con uno zelo da prete spretato». Analoga la reazione di un altro filosofo della scienza, Telmo Pievani: «Israel dipinge uno scientismo caricaturale. Nessuna persona ragionevole pensa che le tecnoscienze debbano correre a briglia sciolta senza vincoli, specie nel campo più delicato della biogenetica. Tutti concordano, per esempio, sul divieto di far nascere bambini per clonazione».
Vi è tuttavia tra gli studiosi chi condivide i timori di Israel per il predominio delle tecnoscienze. Così Lucio Russo, autore del saggio Flussi e riflussi
(Feltrinelli): «C'è una biforcazione crescente tra la ricerca scientifica teorica e quella puramente tecnologica. Le applicazioni concrete hanno sempre svolto una funzione essenziale di stimolo alla scienza, ma non credo sia giusto invocare la libertà di ricerca come giustificazione ideale del lavoro di messa a punto di qualsiasi prodotto o tecnica per fini commerciali. Esistono casi in cui l'opportunità di sviluppare e applicare una determinata tecnologia non dovrebbe sfuggire a un giudizio morale, che andrebbe dato caso per caso».
In difesa della ricerca si schiera Enrico Bellone, direttore della rivista Le Scienze, anch'egli preso di mira da Israel: «Sulle biotecnologie circolano molte sciocchezze. Per esempio le cosiddette chimere, presentate dai media come creature mostruose, sono uno strumento prezioso per capire come funzionano le cellule e trovare una cura a malattie terribili come l'Alzheimer. La polemica di Israel lascia disarmati perché non è argomentata. Basta vedere come stronca il mio libro L'origine delle teorie (Codice edizioni), di chiara matrice evoluzionista: non entra nel merito e si limita a proclamare che il darwinismo è dannoso». Ma davvero non si possono avanzare dubbi sulla teoria dell'evoluzione? «Bisogna distinguere — risponde Pievani — perché un conto è il dibattito scientifico sul programma di ricerca neodarwiniano, al quale si possono muovere obiezioni pienamente legittime, come quelle esposte di recente da Massimo Piattelli Palmarini sul Corriere. Madiverso è il tentativo di screditare l'evoluzione per dare spazio a teorie di stampo religioso, come il "disegno intelligente", del tutto estranee alla scienza». Non a caso Pievani è autore, con Carla Castellacci, del pamphlet anticlericale Sante ragioni
(Chiarelettere). Ma si dichiara distante dalla «metafisica materialista» denunciata da Israel: «Ci sono studiosi, come Richard Dawkins, secondo i quali il darwinismo porta necessariamente all'ateismo. Se Israel ce l'ha con loro, sono d'accordo con lui. Infatti l'evoluzione non esclude affatto l'esistenza di Dio, ma semplicemente permette di spiegare lo sviluppo della vita sulla terra senza ricorrere a ipotesi sovrannaturali».
Giorello è sulla stessa linea: «È appena uscito, nella collana che dirigo per Raffaello Cortina, il libro
Preghiera darwiniana di Michele Luzzatto, uno studioso di fede ebraica che traccia un suggestivo parallelo tra Darwin e alcuni personaggi biblici. Noi liberi pensatori relativisti siamo aperti alla cultura religiosa, ma non ci pieghiamo ad alcuna ortodossia, mentre mi pare che Israel aspiri a fare la mosca cocchiera di Benedetto XVI».
Più critico verso la comunità degli scienziati si mostra Russo: «Noto nell'accademia una triste omogeneità di pareri: sembra che l'unica esigenza sia difendere tutto ciò che ha un'etichetta scientifica da nemici più immaginari che reali. E non credo che la scienza sia minacciata dall'oscurantismo della Chiesa cattolica. Commettono un grave errore gli scienziati laici in buona fede che, confondendo la razionalità scientifica con l'adozione della logica di mercato come unico possibile criterio di scelta, lasciano ai religiosi il monopolio dei giudizi di valore. E poi quando sento tuonare contro i padri inquisitori non posso fare a meno di ricordare che, per conciliare il desiderio di sentirsi paladini degli oppressi con i vantaggi derivanti dall'acquiescenza ai potenti, il metodo più seguito è sempre stato quello di difendere gli oppressi di epoche precedenti, ponendosi in sintonia con i detentori del potere del proprio tempo». Bellone concorda solo in parte: «La Chiesa non è monolitica e non tutti i cattolici considerano la scienza una minaccia. Ma anni fa Ratzinger scrisse che la biogenetica era una patologia della ragione, addirittura peggiore del totalitarismo di Pol Pot».

Corriere della Sera 6.3.08
Cina a Palazzo Strozzi
Quel Rinascimento venuto dall'Oriente
di Wanda Lattes


Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani e per l'oreficeria in giada e bronzo

Statue enormi in pietra decorata con intagli artistici, gruppi stupefacenti in bronzo, figure vivaci in terracotta colorata o minuscole in argilla, oro e argento, pitture fantastiche e ritratti veritieri, scrigni e vasi lussuosi in metallo prezioso, quali oggi nessun superpotente, divo, magnate o politico, oserebbe commissionare.
Qualunque tempo il visitatore abbia programmato per vedere, capire la mostra «Cina: alla corte degli Imperatori» probabilmente dovrà, alla fine, allontanarsi con rimpianto da Palazzo Strozzi. Perché questa incursione nel tempo, nello spazio, nelle culture di un mondo lontano risulta davvero stupefacente.
Dopo l'itinerario intrapreso oltre un anno fa a Roma con la mostra alle Scuderie del Quirinale sulla Cina del primo millennio a. C., il periodo di miracolosa produttività qui esemplificato comprende uno spazio temporale che va dal 25 d. C. al 907, dalla tradizione della dinastia Han allo splendore di quella Tang. In Europa nel frattempo si assiste al trionfo e poi al declino dell'impero romano, alle invasioni barbariche, alla minaccia musulmana che arriva alle porte di Parigi, al primo concetto di Europa unificata con l'incoronazione di Carlo Magno. Un lungo periodo cupo e minaccioso dove l'unico salvataggio della cultura a un certo punto è costituito dal certosino lavoro nei monasteri.
Ebbene, nella Cina che ci raccontano a Firenze, una nazione proiettata in spazi infinitamente più grandi dell'intera Europa, due dinastie, la Hang e la Tang, riescono a primeggiare e a diventare fari di civiltà: laboratori politici, sociali, scientifici, terreni fertili per sfide e raffinatezze artistiche. Tutto mentre il Confucianesimo cede il passo, per qualche secolo, al Buddismo.
La magnifica eleganza della corte Tang (617-907) viene vantata come il Rinascimento cinese. Ma qui a Firenze, ad interpretare una Rinascita umanistica e libera, intellettuali e artisti ci arrivarono mezzo millennio dopo. La mostra, ovviamente, non è tanto una riflessione su quel periodo Tang che lo storico Charles Fitzgerald definiva «grande epoca creativa», né soltanto pentimento per quella ignoranza che accredita Marco Polo e pochi altri viaggiatori come portatori di civiltà tra gente semplice, quando invece la Via della Seta era già da tempo legame ininterrotto di merci e cultura.
È un'occasione per ammirare il talento dei pittori che lavorarono su seta e ceramica, l'abilità dei modellatori di urne e vasi ma anche di minuscole e realistiche torri, case, porcili e perfino esseri umani. All'opposto di questa arte minuta ci sono l'imponente Budda (alto due metri e mezzo) sistemato al centro del cortile del palazzo e l'incredibile processione di cavalli e carri di bronzo. Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani, per l'oreficeria in giada e bronzo. E si va avanti con stupore nella ricca vita di corte fino ai ritratti delle impudiche, seducenti concubine dell'imperatore.

Corriere della Sera 6.3.08
Arte&potere Un'epoca che unì virtù civili e religiose
La burocrazia celeste che plasmò la storia
di Alessandra Lavagnino


L'impero raggiunge la sua massima espansione e la floridezza economica. Epoca d'oro di poesia e arte (terracotta e porcellana)

Quale storia racconta questa mostra? La storia di un grande Paese che costruisce la propria, solida, identità culturale attraverso una quantità straordinaria di sfaccettature. Il filo conduttore degli oggetti esposti non è solo la loro fattura, che definire «squisita» appare a dire poco riduttivo, ma soprattutto il possesso per ognuno di essi di una qualità peculiare, un tratto geniale che deriva da una gestualità del tutto imprevista o dalla torsione in un corpo inaspettata e vitale, dall'inaspettato panneggio danzante in una tunica o da un azzardato accostamento di colore, improbabile e forse orribile se raccontato ma straordinariamente toccante una volta visto: indescrivibile ad esempio è il lucore delle invetriature sulle statuine funerarie, oggetti che accompagnavano nella tomba un onorabile defunto e costituivano il suo doppio nel regno degli inferi: ecco i sontuosi cortei, con carrozze e cavalli, ecco le sinuose musicanti e danzatrici che ne dovevano allietare il soggiorno nell'aldilà, la profusione di case e granai, cortili e piccole pagode che costruiscono un villaggio dell'oltretomba nel quale l'altra vita del defunto sarà gioiosa e serena. Un'abitudine, questa dei cortei funebri in bronzo e poi in terracotta, che attraversa costante tutta la storia culturale cinese, e costituisce non soltanto una preziosa testimonianza della vita quotidiana nella Cina imperiale, impeccabile supporto scenografico che racconta l'ordine e il decoro della vita sociale, ma soprattutto dà prova della continuità culturale di tradizioni, abitudini, costumi e credenze.
Si inizia con la seconda dinastia Han, quegli Han Orientali che raccolgono e mantengono alto il nome della Dinastia imperiale degli Han per quasi tre secoli (nome che rimarrà ancor oggi a designare la principale etnia cinese Han ren, gente Han), e il cui impero centralizzato si sgretola sotto i colpi delle contese interne e le pressioni delle genti barbariche del nord ovest (220 d.C). Ma nei successivi tre secoli di divisione del Paese, di frammentazione in mille piccole dinastie, in quello che la storiografia occidentale ha definito con una interessante analogia il Medioevo cinese, non si costruisce, come in occidente, un qualche sistema che si propone come coerente alternativa a quello imperiale, legittimato da millenni attraverso il «mandato del Cielo» al governo per il Sovrano, che di quel Cielo è il Figlio (Tianzi); al contrario, il tempo che trascorre dall'inizio del III sec. d.C. fino alla fine del VI sec. costituisce il periodo nel quale si vanno gradualmente ricostituendo le condizioni che porteranno alla formazione di strutture sociali ed economiche peculiari del sistema imperiale. È l'epoca feconda in cui nello sterminato territorio che chiamiamo Cina — pur spezzettato in regni e dinastie barbariche al nord e in mille famiglie in discordia al sud — arriva dall'India, attraverso la Via della Seta, il Buddismo. Contemporaneamente, nei circoli degli Eruditi si discute dell'importanza della scrittura (wen) come fondamentale elemento di civiltà, dell'essenza stessa della letteratura, si teorizzano i canoni della pittura, si parla del «vuoto e del pieno», si dipingono ritratti e si affrescano prodigiosi santuari rupestri. Qui verranno poi stipati testi su carta e su seta, rotoli buddisti di preghiere e di dipinti.
Ed è proprio nella ritrovata unità dell'impero, realizzata dall'effimera quanto interessante dinastia Sui — artefice, tra l'altro, del prodigioso Canale imperiale (605 d. C.), un'immensa rete di vie navigabili, collegamento materiale e unione simbolica tra il Sud e il Nord del Paese — che troveranno certezza e solidità, rassicurazione e coesione le mille istanze di uno straordinario mosaico di cultura. Il governo viene esercitato mediante il predominio delle virtù «civili» (wen, «segno scritto/ cultura/civiltà») che vincono su quelle «militari» (wu «arma/guerra»), e il costante riconoscimento, di chiara derivazione confuciana, verso il sistema imperiale viene garantito dal solido perpetuarsi della «burocrazia celeste », fedele garante della continuità istituzionale, accuratamente selezionata in base al sistema degli esami imperiali, colonna portante della stabilità del sistema.
Lo splendore della dinastia Tang, che risalta, unico, nei pezzi qui in mostra, nasce da tutto questo: la solidità di un sistema, quello imperiale, che conta su di un meccanismo perfetto, nel quale ciascun ingranaggio fornisce il proprio ordinato contributo: si tratta sempre di un incastro sociale che deve essere costantemente riverificato, ma nel quale possono agevolmente entrare — purché attentamente vagliati in base al criterio principe dell'efficacia — nuovi elementi, costituiti vuoi dalle componenti religiose, il Buddismo venuto dall'India come il Cristianesimo nestoriano o l'Islam, che si mescolano con il Taoismo e i culti locali, ma sono prodigiosamente tenuti insieme dal collante sociale costituito dalla burocrazia confuciana. Una burocrazia che, ricordiamolo, basa il proprio potere sulla conoscenza, sul sapere, sulle «virtù civili».
Docente di lingua e cultura cinese all'Università degli Studi di Milano

il Riformista 6.3.08
Ho cercato di fare un giornale scomodo
di Paolo Franchi

Di sinistra (e non come la destra della sinistra, perché i riformisti, almeno secondo me, non sono questo). E di frontiera, perché certezze non ce ne sono più, e nemmeno rifugi sicuri dove attestarsi, e quindi bisogna, anche a sinistra, mettere in circolo idee nuove, rischiare e rischiarsi. Così scrissi del Riformista che volevo fare venti mesi fa, quando lasciai il Corriere, una corazzata, per assumere la direzione di questo piccolo naviglio. A ripensarci adesso, nel momento del commiato dai lettori, la prima cosa che mi viene da dire è che, credo, il mio Riformista questo impegno lo ha rispettato; o almeno ha fatto tutto il possibile per rispettarlo, tra difficoltà di ogni tipo, in tempi che non sono esattamente i migliori per simili avventure... (il seguito più tardi)

il Riformista 6.3.08
Non troverete più il vostro em.ma
di Emanuele Macaluso

Mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che nel momento in cui cambia la direzione del Riformista cessa anche la mia collaborazione col giornale: non ci sarà più “em.ma”, non ci saranno i miei interventi del martedì e altro. E spiego perché. Quando Antonio Polito, insieme ad altri, fondò questo giornale mi chiese di collaborare, spiegandomi quale era il suo piano editoriale, e le intenzioni politico-culturali che avrebbero segnato il carattere del nuovo giornale. Conoscevo Antonio, dato che aveva lavorato con me all’Unità, e avevo seguito e apprezzato il suo lavoro a Repubblica. Tuttavia gli manifestai i miei dubbi dovuti al complesso dei miei impegni, visto che dirigevo una rivista e collaboravo, come editorialista, con tre quotidiani. Ma Polito non si arrese, insistette, e io, tentato da un’avventura giornalistica per tanti versi nuova avviata sotto il segno del Riformista, accettai. E devo dire che la collaborazione con Polito è stata sempre cordiale, anche nei momenti in cui i nostri punti di vista non collimavano... (il seguito più tardi)

mercoledì 5 marzo 2008


Repubblica 5.3.08
L'ex vice dell'Antimafia escluso dalle liste del Pd
Lumia: "Sono preoccupato ora resto senza protezione"
"Veltroni aveva avuto parole di stima per me Ma nella politica il tema della lotta alla mafia non è ancora una priorità"
di Massimo Lorello

PALERMO - «Sono preoccupato per l´isolamento che può calare su quanti in Sicilia si battono contro la mafia». Escluso dalle liste del Pd, il vice presidente della commissione Antimafia, Giuseppe Lumia, più che sull´amarezza per una bocciatura «assolutamente inaspettata», si sofferma sugli effetti che questa, a suo dire, potrebbe determinare: «Casi come il mio sono sempre stati tutelati con una copertura istituzionale. Nella storia della lotta alla mafia, le protezioni più efficaci sono arrivate soprattutto grazie al Parlamento. Rischia di non essere più così».
Perché non le hanno dato la deroga per candidarsi?
«Perché nella politica italiana il tema della lotta alla mafia non è ancora considerato una priorità. Eppure il Pd in precedenza aveva mostrato grande attenzione. E lo stesso Walter Veltroni, nelle sue visite in Sicilia, ha avuto parole di stima senza precedenti nei miei confronti».
Veltroni però oggi dice di essere refrattario all´idea «che ciascuno consideri se stesso l´antimafia».
«Veltroni ha ragione a parlare di lotta collettiva. Ma a maggior ragione è importante tenere conto di chi su questo tema si batte da quando ha iniziato a fare politica, anche se ciò ha significato ricevere minacce pesantissime e correre rischi elevati».
I vertici del Pd sembra vogliano nominarla responsabile del partito per la lotta alle mafie. Cosa c´è di vero?
«È possibile, valuterò il da farsi. Ma non ne faccio una questione personale: il punto centrale resta come dare voce e rappresentanza anche in Sicilia a quel grande progetto di innovazione che Veltroni sta realizzando nel resto del Paese».
Ritiene possibile un suo rientro in extremis il lista?
«Devo ancora parlare con Veltroni».
Italia dei valori ha speranze di ingaggiarla?
«Sono un dirigente del Pd e voglio restare qui. Tuttavia, pure Italia dei valori ha un progetto legato al Partito democratico».
E la guida dell´Antiracket?
«Per ora, solo un´ipotesi».

l'Unità 5.3.08
Giuseppe Lumia. Polemico il leader dell’antimafia non ricandidato: il problema che pongo prescinde dal mio nome. Non si batte in questo modo un sistema di malaffare
«Così il rinnovamento del Pd si ferma in Sicilia»
di Enrico Fierro

Peppe Lumia, una vita a occuparsi di mafia. Ora è fuori dalle liste. “Un errore non candidarlo”, dice Anna Finocchiaro. “Ha fatto più di due legislature”, replicano dal loft veltroniano. “La lotta alla mafia è una pratica e non una persona. Penso che Lumia verrà a lavorare con noi, è un amico”, promette Veltroni. Intanto lui, Giuseppe Lumia, non risponde al telefono. I capi del Pd ieri lo hanno cercato inutilmente.
Onorevole, nel prossimo Parlamento ci sarà Totò Cuffaro, l'uomo che festeggia a cannoli e rosolio una condanna a cinque anni, e lei no. E' questo il rischio?
“Effettivamente questo rischio c'è, vedremo nelle prossime ore cosa succederà, se ci saranno dei ripensamenti”.
Se il Pd non dovesse candidarla, sceglierà altre liste, altri partiti?
“In questo momento sono interessato al grande progetto del Pd. Veltroni è riuscito a mettere in piedi una grande innovazione che ha raggiunto e scosso le fondamenta del Paese, sia nella società che nella politica. Mi dispiace che una volta arrivati in Sicilia questo grande progetto si blocchi. E' un destino amaro: il rinnovamento si ferma sempre alla punta dello Stretto, viene frenato, storpiato. Il mio impegno di queste ore è salvare questo progetto, fare in modo che viva anche nelle candidature e che sia in grado di tenere insieme legalità e sviluppo.
Si candiderà con Di Pietro?
“Per ora sto ponendo un problema che prescinde dalla mia persona e forse anche dalla mia candidatura. In Sicilia abbiamo un sistema di potere che è entrato finalmente in crisi. Un sistema che fa perno sulle collusioni mafiose, sulle burocrazie corrotte, sul clientelismo di massa e che è in profonda difficoltà, c'è una domanda di cambiamento che mai si era vista. Mi riferisco al mondo dell'impresa e della produzione, alle università, alle associazioni. Ecco, io sto lavorando perché questa domanda di cambiamento trovi una risposta nella politica e abbia una possibilità di riversarsi nelle istituzioni”.
Nella lista al Senato del Pd c'è Vladimiro Crisafulli che nel 2001 parlava amabilmente con un boss di Enna, tale Bevilacqua. Nulla di penalmente rilevante, però...
“Questa candidatura è una cattiva novità che ho sempre combattuto secondo principi di etica politica. Non c'entra niente il dato penale, peraltro risolto con un richiesta di archiviazione da parte del magistrato, parlo delle enormi responsabilità politiche. Contesto questa candidatura, la combatto anche e soprattutto nella sua idea di fondo, nel modo di praticare la politica, nel suo rapporto con le istituzioni, nell'idea che si ha della Sicilia e del suo futuro. E continuerò a combatterla. Il Pd in Italia sta riformando la politica. Ma in Sicilia...”
In Sicilia?
“C'è questo meccanismo, l'isola la si considera un mondo a parte, spesso ci si arrende di fronte alla possibilità di promuovere una classe dirigente in grado di coniugare legalità e sviluppo. C'è una subalternità delle classi dirigenti siciliane verso Roma e i partiti centrali, i quali spesso lasciano mano libera ai vari potentati sul territorio. Tutto ciò è una palla al piede che impedisce la creazione di una classe dirigente moderna”.
Aspirazione difficilmente conciliabile col fatto che Totò Cardinale lascia il posto in Parlamento a patto che venga candidata sua figlia?
“Che dire? C'è una sfida tra innovazione e un panorama di candidature negative, contestate in Sicilia anche da quel mondo moderato che guarda con simpatia al Pd. Bisogna cambiare subito rotta”.
Onorevole, ha sentito Veltroni?
Ho fiducia in Walter, ma in Sicilia deve avere lo stesso coraggio che sta dimostrando sulle questioni del Nord, e lo stesso coraggio che ha avuto in Calabria e in Campania, insomma è necessario che anche sulla Sicilia faccia un investimento profondo e volti pagina sulle candidature”.
Lei ha fiducia che tutto ciò avvenga e che in Sicilia non vinca l'eterno gattopardo?
“La mia non è una fiducia statica, ma dinamica ed è frutto di impegno quotidiano, di lotta, di programma e di progetto. Sto lavorando perché il Pd dia risposte serie anche con le candidature a quella Sicilia del cambiamento che è frastornata ed ha bisogno di un messaggio forte”.

l'Unità 5.3.08
Ruffolo: il Pd è di sinistra perché vuole l’uguaglianza
di Bruno Gravagnuolo

«Non amo la dizione “centrosinistra”. Preferisco dire sinistra se parlo di Pd, e sinistra e destra, se parlo di politica». È netto Giorgio Ruffolo, economista, presidente del Cer, riformista doc, e come lui dice «di sinistra». Ma in che senso? Nel senso della chiarezza certo: contro il trasformismo. E poi «per» una certa sinistra: quella che assume lo sviluppo come fine, nell’equità e nelle compatibilità ambientali. E senza dover «stabilire a priori natura pubblica o privata delle imprese». Vale a dire, anche le grandi imprese private devono funzionare «come istituzioni volte al benessere generale». Ecco, per Ruffolo il Pd «di sinistra» e «di programma» deve stare in questa ottica. Riscoprendo in chiave non statalista «il ruolo anticiclico dello stato», come ha scritto Scalfari. Senza impiccarsi ai parametri di Maastricht, pur dentro il 3% del deficit...
Professore, il Pd è solo riformista? Riformista di centrosinistra, come Veltroni ha precisato dopo l’intervista al «Pais»? O è meglio definirlo di sinistra?
«Meglio uscire dai termini astratti. Essere di sinistra o di destra è un approccio alla politica, non un fatto semantico. La divisione passa tra chi insegue il mutamento nel senso dell’eguaglianza, e chi preferisce l’ineguaglianza. Ma, diceva Bobbio, il discrimine non è la pura “innovazione”. Da tempo ormai anche i conservatori innovano».
Approccio classico alla Bobbio. Ma quale eguaglianza?
«Eguaglianza come stella polare della sinistra. Non egualitarismo, che per Tocqueville conduce alla servitù, bensì una tendenza. E, per una politica di sinistra, ciò significa diminuzione delle disparità e delle ingiustizie. Personalmente critico il concetto di “centrosinistra”. Come dice Michele Salvati, non esiste un territorio politico di centrosinistra. Così come non c’è un’Italia centrosettentrionale o centromeridionale. Ci sono il nord e il sud, il meridione e il settentrione, destra e sinistra. Ciascun polo va declinato nelle sue gradazioni. Sinistra più radicale o più riformista; e destra più reazionaria o più moderata».
Sicché lei manterrebbe la qualifica di sinistra per il Pd?
«Certo, è utile, e le parole a questo servono. In politica c’è una gamma che va da un punto a un altro. Meglio caratterizzare quei due punti in modo netto, senza tralasciare le gradazioni»
Per esempio, “meno tasse su lavoro e produzione” rientrano nella sua accezione di “sinistra”?
«In una sinistra riformista il problema non si risolve con il più o il meno, ma con soluzioni equilibrate. Le tasse che servono per i servizi pubblici vanno finanziate al minimo prezzo e con il massimo rendimento. Mercato e stato? Ancora una falsa dicotomia. L’economia di un paese moderno si contraddistingue per l’armonia tra queste polarità. E mercato e stato devono integrarsi in una prospettiva equilibrata, a beneficio dell’interesse generale. In Italia la pressione fiscale è troppo alta, troppo squilibrata e ingiusta. Genera risultati inefficienti. Meglio che si paghino meno tasse, meno tasse per ciascuno. Ma che ciascuno le paghi, e che il loro impiego sia mirato ed efficiente»
Tutto questo, visto dalla sua sinistra, in che direzione deve andare? Sviluppo, programma, piena occupazione, non sono termini a lei cari?
«Mi sono cari e restano. Ma il riformismo è il massimo di benessere per il massimo della popolazione, come sapevano i vecchi utilitaristi. Significa: certezza dei bisogni fondamentali, e il massimo di occupazione possibile. Per chi vuole lavorare. E ancora: servizi al minimo costo, e pubblica amministrazione con produttività elevata. Il che oggi non è. Insomma, il buon riformismo tende all’equilibrio»
La “leva pubblica” mantiene una funzione attiva in questo quadro, o è solo un regolatore notturno?
«Intanto non parlerei più di leva pubblica. Per evitare di evocare lo stato che leva dalle tasche di qualcuno, per dare a qualcun altro. Parlerei di regolazione, programmazione, governo dell’economia..»
L’impresa pubblica non serve più? Anche se l’Eni, gestisce le grandi risorse energetiche e partecipa a grandi progetti in Venezuela o all’est con il gas?
«L’Eni viene dagli anni 60, che furono cruciali. E però non conta che l’imprese inalberino il marchio pubblico dei “Sali e Tabacchi”, per dirla con Turati. Ieri come oggi conta che le imprese, specie quelle grandi, svolgano funzioni pubbliche, anche se in mani private. A Davos un imprenditore privato lo ha detto: le grandi imprese si rivolgono al benessere generale e su questo vanno misurate. Acquisizione teorica importante, che va oltre il profitto di corto respiro, finanziario. Non nuova in verità, basti pensare a Galbraith. È questo il criterio con cui muoversi: imprese-istituzioni, non case da gioco. Non importa siano private. Purché le si indirizzi, con vari strumenti di politica economica, sui beni pubblici. Diceva Marx: non è necessario che un direttore di orchestra possieda gli strumenti per dirigere. E lo diceva nel 1860, riferendosi ai manager. Che non possedevano i mezzi di produzione ed erano diversi dai capitalisti proprietari»
Il punto è la direzione dell’accumulazione: benessere collettivo o speculazione...
«Ovviamente. Ma lo stato ha ogni mezzo per contrastare ed orientare le tendenze, cominciando col far pagare le tasse...».
Pd e candidature. Dentro le liste, Calearo, Ichino, l’operaio della Thyssen, Colaninno. Trasformismo elettorale o invenzione egemonica tipo “patto dei produttori”?
«Vorrei vedere in queste scelte il lato buono, non l’intento elettoralistico, che mi parrebbe miope e controproducente. Chi è motivato da valori moderati non tarderà a confliggere con il contesto di cui è ospite. Diciamo che c’è una maggiore apertura verso ceti in precedenza considerati conservatori e ostili all’eguaglianza. Alla quale fa riscontro un’analoga apertura. Ceti imprenditorali in fuga dalla destra, che hanno inteso che anche il profitto privato è impossibile senza soddisfare obiettivi pubblici di eguaglianza e giustizia. L’augurio è che sia un’impresa comune, nel segno di un’egemonia della sinistra riformista, e non del trasformismo».

l'Unità 5.3.08
«Feti prematuri, no all’accanimento terapeutico»
Il Css fissa i paletti: rianimati ma anche accompagnati alla fine. No a limiti d’età e privilegiare il consenso dei genitori
di Anna Tarquini

RIANIMARE sempre i feti prematuri, privilegiando la vita, ma se questi non rispondono alle terapie vanno accompagnati verso la fine. Il Consiglio superiore di sanità, organo consultivo del ministro, fa un passo oltre i colleghi di Bioetica e rimette al centro del problema l’arbitrio dello scienziato e in parte anche quello dei genitori. E dice che non ha senso fissare un’età gestazionale a partire dalla quale il medico è tenuto a curare il feto, anche in aborto terapeutico, anche contro il parere dei genitori, come ad esempio le famose 22 settimane fissate dai ginecologi delle quattro università romane in un documento che ha aperto le polemiche. L’età e il dovere di rianimare deve essere valutato dal medico anche in rapporto alla capacità reattiva. E quanto all’ipotesi che i genitori si oppongano - fermo restando il dovere del medico di rianimare - si deve privilegiare sempre il consenso e fornire la massima informazione.
Quarantacinque voti a favore, un astenuto. Il parere del Css che era stato richiesto dal ministro della Salute Livia Turco il sette gennaio scorso proprio perché i progressi della medicina avevano reso necessaria una maggiore chiarezza sui comportamenti deontologici davanti ai neonati molto prematuri. Quando rianimare? Quando lasciarli andare? E soprattutto c’era un’età gestazionale da fissare visto che la medicina consente anche ai più prematuri di vivere, ma che poi i posti rianimazione sono pochi e si rischia di fare scelte sbagliate?
Ecco, tutto era nato dagli stessi medici che avevano chiesto linee guida. Il trend di crescita dei parti pre-termine registrato negli ultimi anni ed i casi di sopravvivenza di feti anche molto piccoli dopo interventi di interruzioni di gravidanza imponevano e impongono un ripensamento. E l’assistenza per feti di età gestazionale «limite» (cioè anche sotto la 22esima settimana) accende i riflettori sul problema delle strutture: appena 120 terapie intensive neonatali su tutto il territorio nazionale. «Se salvo uno che ha bassa probabilità di farcela - dicevano i medici - posso rischiare di non avere posto per uno che ce la farà». Poi però - grazie al documento pubblicato dai ginecologi che voleva la rianimazione degli aborti anche contro il parere dei genitori - la polemica si era spostata verso l’aborto e la rianimazione dei feti in aborto terapeutico. Appena 4 giorni fa il Comitato di Bioetica aveva poi sorpreso con un parere molto duro: «Cure e rianimazione per il feto nato fortemente prematuro e che presenta segni di vitalità, anche se i genitori dicono “no”».
Ieri, il Consiglio superiore di sanità, ha messo i paletti. Un documento chiaro che offre - a leggerlo bene - anche chiare indicazioni a chi in futuro dovrà occuparsi e legiferare sul tema più delicato dell’eutanasia. Accanimento terapeutico mai, si alle cure compassionevoli e all’idratazione e all’alimentazioni compatibilmente con il quadro clinico, accompagnamento alla fine vita. E soprattutto niente limite d’età gestazionale e, in caso di conflitto tra le richieste dei genitori e la scienza, «la ricerca di una soluzione condivisa andrà perseguita nel confronto esplicito ed onesto delle ragioni esibite dalle parti, tenendo in fondamentale considerazione, la tutela della vita e della salute del feto e del neonato».

l'Unità 5.3.08
Gaza, radiografia di una strage
di Umberto De Giovannangeli

Iyad e Jacqueline Muhammad Abu-Shbak. Erano sorella e fratello. Avevano 14 e 12 anni. Sono morti il primo di marzo a Jabaliya «mentre assistevano dietro i vetri della finestra di casa ai combattimenti». Muhammad al Buri. Aveva appena sei mesi. È morto nel bombardamento della sua abitazione «colpita nonostante non fosse un obiettivo militare».
Salwa e Samah Zedan. Erano sorelle. Aveavano rispettivamente 13 e 17 anni. Il 2 marzo sono state uccise nella loro casa alla periferia di Jabaliya. La famiglia Attalla è stata colpita da un missile di 1 tonnellata sparato da un F-16 israeliano.

IYAD, Jacqueline, Muhammad, Salwa, Samah. Sono alcuni dei bambini uccisi nell’offensiva militare israeliana a Jabaliya, nord di Gaza. Non sono solo numeri, sono volti, storie, giovani vite spezzate. Ricordarli è un modo per onorarne la memoria e perché un silenzio assordante non cali sulla tragedia di Gaza
Il missile ha distrutto la loro casa di due piani, alla periferia di Jabaliya, causando la morte di quattro membri della famiglia, tra i quali il piccolo Thabet, 11 anni. Zahira, 23 anni, è stata colpita al cuore da un proiettile mentre stava preparando la colazione ai suoi bambini. Un carro armato ha colpito la casa della famiglia Okel, uccidendo un bambino di 3 anni e la sua sorellina di 9. Quattro bambini colpiti da un razzo israeliano il 28 febbraio mentre giocavano a pallone alla periferia di Jabaliya. Radiografia di un massacro: quello che ha segnato il campo profughi di Jabaliya, nord di Gaza, investito per sei giorni dall’offensiva militare israeliana, nome in codice «Inverno caldo». In passato, l’Unità ha dato conto dell’angoscia, della paura, del trauma che scadenzano la quotidianità dei bambini israeliani di Sderot, la città frontaliera investita ogni giorno, da sette anni, da un martellante lancio di razzi Qassam. Oggi vogliamo raccontare la sofferenza di altri bambini e di una popolazione civile di 1milione e 400mila persone, quella della Striscia di Gaza, sottoposte ad una sofferenza senza fine. Radiografia di una tragedia, raccontata attraverso i rapporti, le testimonianze, i dati di associazioni umanitarie che non hanno mai taciuto di fronte agli attacchi contro civili israeliani, negli anni dell’«Intifada dei kamikaze», e non hanno mai lesinato parole di condanna per gli attacchi missilistici contro Sderot, Asqhelon, il sud d’Israele.
Organizzazioni come «Btselem», l’associazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei Territitori. «Secondo i dati in nostro possesso - afferma Sarit Michaeli, direttore della comunicazione di Btselem - i morti palestinesi sono stati in sei giorni di scontro 111: fra questi 56 erano civili non coinvolti in azioni di combattimento, e 25 di questi erano minorenni». «Btselem» accusa le forze armate dello Stato ebraico di aver violato le norme di guerra che proibiscono di colpire obiettivi militari quando questi attacchi, per la vicinanza ai centri abitati, rischiano di provocare un numero sproporzionato di vittime anche fra i civili.
I dati di «Btselem», per ciò che concerne i minorenni uccisi nei sei giorni di combattimenti, trovano conferma nel rapporto dell’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia. L’Unicef evidenzia che «la Convenzione sui diritti dell’infanzia sottolinea la necessità di prendere tutte le misure possibili per garantire la protezione e assistenza ai bambini colpiti da un conflitto armato. Oltre a quelli che ne sono vittime dirette, tutti i bambini sono colpiti dall’impatto terrificante di questo conflitto. I bambini costituiscono oltre la metà della popolazione di Gaza e subiscono l’urto della crisi». Bambini che «soffrono già a causa di una serie di restrizioni, fra cui il blocco della maggior parte delle derrate imposto sin dal giugno 2007». L’ultimo ciclo di uccisioni e distruzione, rimarca a sua volta Amnesty International, «giunge mentre il milione e mezzo di abitanti di Gaza sta soffrendo una crisi umanitaria a seguito dei sempre più rigidi blocchi imposti da Israele». Gli ospedali e le strutture sanitarie, già alle prese con la mancanza di elettricità, carburante, attrezzature e parti di ricambio stanno lottando per fare fronte alla nuova ondata di feriti causata dall’offensiva israeliana. «Coi confini di Gaza sigillati - rileva il direttore del Programma Medio Oriente e Africa di Amnesty, Malcom Smart - molti pazienti che hanno bisogno disperato di cure mediche non disponibili in loco, non possono essere trasferiti in ospedali all’estero e rischiano di perdere la vita» Tra questi, c’è Ahlam Abu Auda, 13 anni. Intisar Abu Auda, 48 anni, mamma di Ahlam racconta: «Cinque dei miei figli sono morti perché malati, non hanno potuto ricevere cure adeguate. Ora, il mio timore più grande e che, a causa dell’assedio, possa perdere anche la sesta». «L’assedio di Gaza - dice la piccola Ahlam - ha peggiorato molto le mie condizioni, e forse ha accelerato i tempi in cui troverò la morte. Basta un black-out elettriche, le macchine per la dialisi si fermano...». Solo negli ultimi due mesi - ricorda ancora Amnesty - le forze israeliane hanno ucciso quasi 200 palestinesi a Gaza, un terzo dei quali erano civili disarmati ed estranei agli scontri. Altre centinaia di persone sono rimaste ferite, molte delle quali in modo permanente. Nello stesso periodo, un civile israeliano è rimasto ucciso e diversi altri sono stati feriti dai razzi lanciati dai gruppi armati palestinesi di Gaza, che hanno colpito Sderot e altre zone del sud di Israele. La tragedia di Gaza è in una quotidianità che impone solo un obiettivo: la sopravvivenza. Sempre più difficile. Sempre più dipendente dagli aiuti umanitari. Oggi, rileva un recente rapporto del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam), il 70% della popolazione di Gaza è priva di sicurezza alimentare e la grande maggioranza dipende dall’assistenza dell’Onu per i bisogni basilari.


l'Unità 5.3.08

Marquez, 80 anni con gli occhi di Macondo
di Maurizio Chierici

LA FESTA. Gabito, come lo chiamano gli amici, festeggerà domani il suo compleanno. E anche se la sua fierezza di narratore che non abbassa mai la testa sembra sbiadita dalla malattia, è difficile pensare a lui come ad un intellettuale disimpegnato

Ottant’anni è un segno che gira il calendario, ma nel calendario di García Márquez i segni sono tanti: sempre nascosti, vita da orso. Le sole parole pubbliche inseguono letteratura, cinema; è tornato al giornalismo. Ricordi, rimpianti, mai ricette politiche anche nelle battaglie per i diritti umani. Amico polemico di Castro, non ha scritto una riga in favore di Castro: prende in giro chi lo racconta in modo che ritiene sbagliato. «E mi fermo lì». Mai moglie e i due figli ne hanno diviso il trionfo. Mercedes è una compagna nell’ombra. Solo Mario Vargas Llosa - una volta - ha acceso la ribalta sulla vita privata dell’amico-nemico. Pugilato a Barcellona, Gabo con l’occhio nero. Malizie che i biografi recuperano per dare un brivido alla collezione del niente.
Vargas Llosa si sarebbe vendicato del Gabo perché faceva il filo alla moglie provvisoriamente abbandonata per una fuga d’amore. Ma non era gelosia sentimentale: quel Nobel «rubato», piuttosto. Il gran borghese della letteratura latina ancora lo aspetta. Mercedes è sposata con Gabo da 48 anni. Adora vestirsi di bianco. E scioglie il bianco in ogni stanza: moquette, pareti, librerie. Nella casa di Bogotà, nella casa di Cuernavaca, Messico, dove Gabo era scappato minacciato dai califfi della «Violencia», politica e coca durante una guerra-non guerra civile. Povera Colombia che non cambia mai. Bianca e luminosa anche la casa messa in ordine a Cartagena accanto al monastero di Santa Clara, teatro del suo ultimo barocco: una novizia muore adolescente nei giorni della peste, ma i cappelli continuano a crescere un secolo dopo l’altro. Oggi il monastero è diventato l’albergo Santa Clara. Affitta stanze a prezzi millimetrati. Le finestre che si affacciano sulla terrazza di García Márquez costano dieci dollari in più. Il depliant invita gli ospiti ad aprire le finestre alle 7 del mattino perché «alle sette del mattino lo scrittore già lavora ed è possibile spiarne i momenti della creazione». Lavoro protetto da siepi verdi, grandi ombrelli. Il fratello Eligio ripete con malinconia: «Appena la salute lo permette, Gabo ritorna. Nostalgia della terrazza. All’alba si incanta ad aspettare il sole guardando il mare». Ormai vive a Città del Messico prigioniero di quel male. Dialisi e medici attorno. Il grande ospedale si è trasformato nella casa bianca dalla quale gli riesce difficile allontanarsi.
Il privato possibile da raccontare è tutto qui.
Gli anniversari ne hanno ossessionato gli ultimi mesi. Venticinque anni fa il premio Nobel e i quarant’anni di Cento anni di solitudine illuminano ogni piega del passato. Brindisi, discorsi, riflettori. Adesso gli ottanta ai quali è arrivato «resistendo per continuare a scrivere». Per quel che lo conosco, lo immagino diviso tra la vanità del sentirsi celebrato e il fastidio per chi ne ricorda la vita inquieta, primo scrittore ad aver aperto all’Europa distratta la letteratura latina. Letteratura che ha cambiato strada. Dalle mulatte sensuali di Jorge Amado a La casa verde di Vargas Llosa, eroi contadini di Carlos Fuentes, viaggi, mare e foreste del Gabbiere di Alvaro Mutis: una generazione ha raccontato le radici misteriose di un continente che ha cambiato radici. La solitudine senza misteri è ormai urbana. I nuovi narratori esplorano le città. E gli amati romanzi si perdono in un limbo quasi sconosciuto ai lettori dell’altra America come lo erano per i lettori d’Europa i protagonisti surreali di Cento anni di solitudine. «Surreali - spiega Gabo - perché l’esilio politico nella Parigi del surrealismo ha aperto un mondo che non avevo sospettato. Parigi mi ha dato la prospettiva dell’America Latina. Ho capito di non essere latino-americano, ma colombiano dei Caraibi. Sono un Caribe che finalmente capisce qual è la cultura che accende la nostra fantasia».
La giovinezza è lo spazio nel quale si formano i caratteri ed è la giovinezza a segnare in modo diverso le biografie degli scrittori latini che ci hanno fatto innamorare. Il segno di Vargas Llosa ha il profilo salottiero del nipote del prefetto di Piura, deserti bollenti del nord cileno. La fama ne ha allargato le soffici abitudini dell’adolescenza. Alvaro Mutis è un immaginifico dalle tenerezze politiche che adorano l’eccentricità, ultimo intellettuale dell’altra America a rimpiangere i sovrani spagnoli.
Carlos Fuentes è cresciuto nelle ambasciate del padre ed ha scritto del suo Messico scamiciato quando era ambasciatore a Parigi e continua a scrivere nella mansarda bomboniera, Londra bianca del ’700. Gli è impossibile penetrare i nuovi caratteri delle folle urbane e sceglie l’indifferenza. «La politica non ha ormai bisogno dei consigli degli intellettuali. I tempi sono cambiati: televisione, radio, giornali, internet fanno sapere alle folle cosa può succedere e gli allarmi degli scrittori tornano nell’ombra».
Gabo viene dalle retrovie: Aracataca, paese inventato dalla United Fruit, scalo ferroviario per banane. Ha cambiato nome per dare un senso alla polvere che lo avvolge come un temporale. Ed è diventato Macondo indossando il nome dietro il quale Gabo ne aveva nascosto la geografia in Cento anni di solitudine.
A dare retta alle statistiche che misurano l’età media di sopravvivenza, 80 anni è il compleanno ancora giovane di una vecchia avviata alla decadenza. Ma la vecchiaia è la nebbia che le bizzarrie del vento sciolgono e ricompattono, va e viene: furori che non si spengono, inerzie che addormentano. Comincia l’indifferenza. Non rinnega il passato, ne sfugge il confronto con pagine a volte sorprendenti. Tre settimane fa, attorno al tavolo della cena romana, Yolanda Pulecio de Betancourt, madre della Ingrid prigioniera Farc, ancora commossa per l’incontro con Benedetto XVI, confessa una disillusione che evita di rendere pubblica nel pellegrinaggio da un paese all’altro per salvare la figlia. «Sono andata in Messico a parlare con Gabo, amico del cuore. L’ho pregato di usare fascino e amicizie per aiutare la liberazione della mia ragazza. Ascoltva con occhi stanchi. Due parole ed ha cambiato discorso: “Non so cosa fare. Non conosco nessuno”». Ma il vento scioglie e ricompatta le nebbie dell’indifferenza: Yolanda continua a sperare che Gabo ci ripensi. Una madre non si arrende mai.
Racconto a Yolanda della madre di Gabo: come il Gabo d’antan non si sarebbe arresa. Quando ho incontrato Luisa Santiaga aveva 84 anni: minuta, gentile, ma un filo invisibile d’acciaio negava la fragilità. Capelli bianchissimi. L’impalcatura dei pettini li raccoglieva nell’acconciatura di un tempo perduto. Non ricordava la Fermina Daza, protagonista dell’Amore ai tempi del colera, cronaca familiare della famiglia Márquez. A Cartagena mi apre la porta Rita, quinta di otto figli. Ma la signora si agitava impaziente: «Andiamo da te. Ho solo due stanze. Staremo più comodi». Pochi passi in là, abbracci per strada: «Non ero la ragazzina che racconta Gabito nel romanzo. Avevo 20 anni e sfogliavo e sfogliavo un libro su una panchina dei giardini di Arataca quando Gabriel Eligio è passato. Mi ha guardata e ho incontrato i suoi occhi. Innamorata per tutta la vita».
Arriva un’altra figlia, Ligia: porta le foto del matrimonio contrastato dal padre di Luisa-Fermina: immaginava per l’unica erede un marito solenne, non un piccolo telegrafista. Le immagini sono appena quattro. Scatti nella luce incerta del giorno che nasce. Luisa Santiaga apparte non solo felice: lo sguardo sembra stupito mentre Gabriel Eligio Márquez si pavoneggia con la pomposità di un trigueno elegante. «Trigueño» viene da trigo, grano. Pelle dorata del giovanotto arrivato dal Sucre per pestare il tasto del telegrafo. Eligio non piace al colonnello Nicolas Ricardo e quando la figlia confessa di aspettare un bambino, il colonnello pretende due cose: matrimonio nascosto alle cinque del mattino, chiesa senza ospiti, due zii per testimoni; pretende soprattutto che l’erede debba nascere e crescere nella sua casa.
E il 6 marzo 1928 viene al mondo Gabriel García, nome dovuto al rispetto del padre ma ingombrante sulle labbra di chi lo chiama. Diventa Gabo, Gabito, gli amici gli si rivolgono ancora così. 80 anni dopo la fierezza di un narratore che non ha mai abbassato la testa, appare sbiadita come succede ad una certa età, malattie che infiaccano, giorni che si accorciano. Ma nessuno è proprio sicuro che Gabo, Gabito, Gabriel García Márquez, sia disposto alla pensione dell’intellettuale disimpegnato, come Carlos Fuentes, per esempio...

l'Unità 5.3.08
Chi ascolta i bambini inizia a curarli
di Claudio Foti*

UN CONVEGNO a Roma, promosso da Luigi Cancrini, si occupa di «Infanzia negata», ovvero di come la violenza degli adulti e la loro indifferenza verso i più piccoli mini la loro possibilità di crescere e vivere

In base alle ricerche retrospettive sull’abuso in età infantile e adolescenziale, svolte in tutte le parti del mondo emergono cifre impressionanti sull’impatto traumatico con la sessualità dei «minori» prima dei 18 anni: dal 7 al 15 % della popolazione maschile prima dei 18 anni, dal 10 al 35% di quella femminile. Se si proiettano sulla popolazione italiana i dati emergenti da un’indagine dell’Istat su un campione di 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni si può dedurre il dato sconvolgente, in base a cui 6 milioni e 700 mila donne hanno subito in Italia episodi di violenza fisica e sessuale nel corso della loro vita. 5 milioni di donne hanno subito almeno un episodio di violenza sessuale e 1 milione e 400 mila possono essere le donne che hanno subito una qualche forma di violenza prima dei 16 anni. Una ricerca dell’Istituto degli Innocenti ha permesso di stimare che il 5, 9% di tale popolazione femminile ha patito una qualche forma di abuso sessuale, il 18,1% ha esperito sia eventi di abuso sessuale che di maltrattamenti, mentre il 49, 6% ha vissuto una qualche forma di esperienza sfavorevole che ha danneggiato l’evoluzione infantile e adolescenziale. Le vittime tendono per lo più a rimuovere o a espellere dalla mente e non già a comunicare la violenza subita. Una buona parte di queste violenze non sono mai state esplicitate a nessuno nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Solo una ridottissima percentuale (2, 9%) ha denunciato all’autorità giudiziaria l’abuso sessuale subito. La maggior parte degli abusi rimane chiusa dal silenzio e dal senso di colpa della vittima, avvolta nel segreto e nell’imbroglio, in una sintomatologia che perde sempre più i nessi con le sue cause.
La violenza sui bambini è il risultato di una grave ostruzione della comunicazione sociale. I blocchi sono due: le vittime fanno fatica a chiedere aiuto in forme esplicite, gli adulti che li circondano fanno resistenza all’ascolto. Tutto questo va contrastato, ma innanzitutto capito: il contenuto che dovrebbe essere comunicato concerne un trauma e il trauma presenta un carattere talmente penoso e sconvolgente che non risulta interamente pensabile da parte della vittima. Di più: è un’esperienza che tende a travalicare non solo la capacità di ammissione da parte dell’autore, ma anche la capacità di percezione del testimone e la capacità di riconoscimento culturale della comunità e, spesso, della stessa comunità scientifica.
La negazione è intrinseca alla violenza. Non esiste una guerra o sterminio senza un sistema di propaganda impegnato a dimostrare la legittimità di quegli eventi o a sostenere che non si ha a che fare con guerra e sterminio, bensì con iniziative nobili e necessarie. Non esiste storia di una genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare che a ben vedere genocidio non c’è stato. Il furto di verità accompagna sempre la violenza sul bambino. L’abuso si produce in due tempi: c’è il tempo dell’azione in cui si consuma il coinvolgimento sessuale e c’è il tempo della negazione nel quale l’adulto abusante trasmette al bambino il messaggio implicito od esplicito Non devi accorgerti che questa è violenza…: «Non è abuso, sono coccole… e anche a te piace!», «Non è abuso, ti sto facendo scoprire un gioco meraviglioso…», «Non è abuso, tutti i padri lo fanno…».
Nello scenario dell’abuso c’è un autore della violenza che attraverso la minaccia e il diniego punta a isolare la vittima dalle comunicazioni con il contesto sociale; c’è poi un bambino che non riesce a porsi come emittente efficace della comunicazione per la presenza di pesantissimi ostacoli esterni ed interni alla rivelazione; c’è infine un adulto, potenziale ricevente delle comunicazioni del bambino che spesso fa barriera all’ascolto delle emozioni e quindi lascia cadere di fatto le richieste di soccorso del bambino e i suoi tentativi di individuare e mettere alla prova un interlocutore adulto meritevole di fiducia.
La violenza sessuale sui bambini non avrebbe modo di prodursi in modo continuativo se non ci fossero adulti perversi interessati a costruire un cordone di silenzio attorno alle loro prede, se non ci fossero piccole vittime, incapaci di esplicitare con chiarezza il proprio malessere e, soprattutto, se non ci fosse un ambiente circostante tendente all’insensibilità e all’indifferenza e scarsamente disponibile all’ascolto dei bambini. Quando ogni comunicazione attorno all’abuso è bloccata, l’abuso sessuale su un bambino diventa «un delitto perfetto», come scrivono Gruyer e altri: viene messa una pesante pietra sopra la verità dell’accaduto e sopra il futuro della vittima.
Delle tre figure fondamentali del dramma del maltrattamento, quella che primariamente può e deve mettersi in discussione è quella dell’adulto che può diventare testimone soccorrevole del malessere del bambino e non più testimone cieco, sordo e muto di fronte alle svariate forme di svelamento passivo ed attivo dell’abuso. Il primo passo non lo può fare il bambino che si trova in grave situazione di difficoltà, fin tanto che non trova qualcuno che lo aiuti a sbloccare la comunicazione dei propri sentimenti e della propria storia. Né tanto meno il primo passo lo può compiere l’adulto perverso, che è impegnato a nascondere le tracce della violenza. Sono gli adulti che entrano in contatto con il bambino, che devono imparare a mettere i più piccoli nelle condizioni di esprimere il loro disagio, piccolo o grande, i loro problemi piccoli o grandi, riducendo il giudizio, la fretta e aumentando l’accettazione, la disponibilità mentale e di tempo, la vicinanza emotiva. Sono i genitori e coloro che ricevono un mandato sociale e istituzionale per l’educazione, la cura e l’assistenza dei bambini che devono fare il primo passo nell’attivare il circuito positivo della comunicazione attorno al disagio, innanzitutto mettendosi in discussione e riconoscendo la propria difficoltà di ascolto e le proprie componenti d’incompetenza emotiva e relazionale.
Una delle principali cause dell’inibizione della piccola vittima è la vergogna, ovvero la difficoltà a rivelare aspetti di sé lontani dall’immagine ideale che vorrebbe presentare. La vergogna è dovuta frequentemente al fatto di aver svolto - costretto dall’iniziativa seduttiva dell’abusante - ruoli attivi ed eccitanti nel corso dell’abuso. La comunicazione di un bambino che vive una condizione di forte disagio inizia non dalla sua bocca, ma dall’orecchio di chi ascolta, ovvero dalla disponibilità ad un ascolto benevolo da parte di un adulto che si pone come testimone soccorrevole.
Occorre in conclusione aumentare la capacità di ascolto sociale della comunità adulta, contrastando l’indifferenza, l’insensibilità, l’indisponibilità. Solo se noi adulti impareremo il linguaggio della comprensione empatica e dell’intelligenza emotiva, favoriremo il passaggio di tante vicende di abuso sui bambini dall’impensabilità e dall’indicibilità, all’orizzonte della comunicazione e della protezione, dall’oscurità del segreto alla prospettiva di un delitto, che non sarà più «perfetto», ma che potrà trovare ascolto, cura e riparazione.
*Presidente del centro studi Hansel e Gretel

Repubblica 5.3.08
Benny Shanon ipotizza il consumo di bacche dall´effetto stupefacente dietro alcune immagini bibliche
"Il popolo di Mosè usò allucinogeni" bufera su un ricercatore israeliano
Proteste dei lettori sul sito di Haaretz dopo la pubblicazione dello studio
di a.s.

GERUSALEMME - È il momento in cui Mosè sta per ricevere le tavole della Legge. «E vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba - si legge nel capitolo 19 dell´Esodo - tutto il popolo che era nell´accampamento fu scosso dal tremore. Il monte Sinai era tutto fumante perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parla e Dio gli rispondeva con voce di tuono».
Per secoli laici e religiosi, si sono chiesti dove i compilatori del Libro avessero attinto gli elementi di una così potente descrizione. La risposta, secondo Benny Shanon, professore di psicologia cognitiva alla Hebrew University di Gerusalemme, potrebbe essere più banale di quanto si è finora pensato. In un articolo per la rivista filosofica Time and Mind uscita qualche giorno fa a Oxford, Shanon ipotizza, provocatoriamente, ma non troppo, che quella scena potrebbe essere stata partorita da menti sotto effetto di sostanze allucinogene, facilmente reperibili in natura. Sostanze di cui gli antichi israeliti avrebbero potuto fare uso durante le loro cerimonie religiose. Un trip collettivo, insomma, cui non si sarebbe sottratto neanche Mosè. Shanon ha ricavato questa convinzione - che, ammette il professore, non potrà mai ricevere nessuna sanzione scientifica - comparando la descrizione biblica con le esperienze avute quando, visitando l´Amazzonia, bevve una pozione ricavata da una pianta chiamata "ayahuasca". Nome scientifico: Peganum Harmala, una delicata piantina che produce un fiore bianco a cinque petali, di cui i popoli primordiali dell´America del sud usavano le bacche.
Dopo aver bevuto la pozione, ricorda Shanon, «ho avuto visioni che avevano una connotazione spirituale-religiosa». E se il popolo di Mosè non si fosse a suo tempo trovato nella stessa identica condizione? Lo studioso avanza l´ipotesi che gli antichi israeliti avrebbero potuto imbattersi nel Sinai e nel Negev in due piante simili all´ayahuasca: una è una radice selvatica usata come allucinogeno dalle tribù beduine fino ai giorni nostri. L´altra è la famosissima acacia dai cui tronchi venne ricavato il fasciame adoperato per costruire l´Arca di Noè. Chissà.
La notizia, riportata dal quotidiano israeliano Haaretz, ha scatenato una ridda di reazione fra i lettori. Uno dei commenti più ricorrenti era: «E Shanon, cosa ha fumato prima di scrivere il suo studio?» Il professore di Gerusalemme da parte sua vede segni d´alterazione anche nell´episodio, raccontato nell´Esodo, che ritrae Mosè mentre osserva il cespuglio e d´un tratto gli compare Dio. Mosè guardò, e scorse il cespuglio in preda alle fiamme e il cespuglio non ne fu consumato» si legge. «Il tempo - dice il professore - passa diversamente sotto l´effetto di un allucinogeno e durante quel tempo Mosè sentì la voce di Dio parlargli. «Naturalmente - conclude - non tutti quelli che usano queste piante possono ricevere la Torah. Per questo, bisogna essere Mosè».

Corriere della Sera 5.3.08
Confronti Lo storico interviene nella discussione aperta dal filosofo della scienza sulla sintesi tra Voltaire e Pascal
Ma l'unica fede dell'illuminismo è la ragione
di Giuseppe Galasso

Voltaire e Pascal a braccetto? Per me l'auspicio di Giorello è bellissimo. Da un lato, il brio di un'intelligenza vivacissima e spiritosissima, dalle larghe vedute. Dall'altro, un'intelligenza profonda e trepidante nel considerare che c'è la géometrie, ma anche la
finesse. Divento, tuttavia, un po' più perplesso all'idea di portare nell'ottica «illuministica » un intellettuale di suggestiva taglia critica e filosofica, ma dalla inconfondibile fisionomia di teologo inteso ad altri valori, qual è il papa Ratzinger. E più perplesso ancora divento a sentire di un Gesù «illuminista», perché sanamente ostile al formalismo dei farisei (e anche ai mercanti del tempio). Confesso, poi, che l'idea dello sradicamento di ogni pianta non piantata dal Padre celeste mi preoccupa parecchio. Non si sa mai. I pretendenti alla paternità celeste sono, come si sa, innumerevoli sempre e ovunque. Preferisco di gran lunga il Gesù, dolce e buon pastore, di tanta parte del Vangelo e di tanta arte europea.
In effetti, che cosa spinge l'illuminismo nella sua più autentica motivazione di fondo? Certo, la tolleranza è un suo valore primario, e Giorello lo mette bene in evidenza. Tutti ricordano quel che si insegna (o si insegnava) a scuola come principio illuministico: «non condivido le vostre idee, ma pagherei con la mia vita la vostra possibilità di esprimerle ». Tolleranza? Direi, piuttosto, liberalismo, e tra tolleranza e libertà la distanza è, come si sa, parecchia. E poi: fin dove essere tolleranti? Domanda di sempre, anche senza pensare agli Hitler o ai Pol Pot.
Che c'entra?, mi direte. C'entra, c'entra. C'è il terremoto di Lisbona, un disastro terribile e assurdo, dinanzi al quale non c'è che da prenderne atto. Ma, se lo potessimo impedire, non lo impediremmo? L'illuminista dice subito di sì. Il suo sogno, ma anche la sua certezza, è che tutti i disastri della natura, della salute, della società, dell'ordine politico e morale, della storia possano essere curati mediante l'esercizio della ragione. Perché è in questo principio primo e supremo — la fede nella ragione e nel suo potere, rischiaratore e risolutivo ai fini della felicità umana — l'essenza dell'Illuminismo, il suo carattere più «originale ». E la sua grandezza sta nell'aver fissato il punto che la ragione non è un seme che fruttifichi da sé nelle praterie della storia e dell'esperienza umana. Occorre coltivarla, esercitarla, la ragione. Occorre deporre ogni timore o condizionamento limitativo che impedisca di sentirne e capirne la voce.
Kant, che meglio di ogni altro ne capì ed espresse lo spirito, lo disse in pochissime, stupende parole: l'illuminismo è il coraggio di sapere ciò che la ragione ci dice; è l'uscita dalla minore età in cui vi sono autorità che pensano per noi e ci dettano verità e norme di cui non siamo autori. L'età dell'illuminismo è l'età dell'umanità adulta, maggiorenne, che ragiona e opera in piena autonomia e responsabilità alla luce della ragione. Dimenticare l'illuminismo significa dimenticare non solo la ragione, ma anche quell'autonomia e quella responsabilità.
Il mondo contemporaneo lo ha dimenticato, e lo dimentica, spesso, e ne ha pagato, e ne paga, le giuste pene. Certo, l'illuminismo non basta. E aveva poi le sue distrazioni. Con le armate della Grande Rivoluzione si pretese di portarne i principi là dove li si aspettava con passione e là dove se ne voleva assolutamente fare a meno. Con la crisi dell'illuminismo e del suo mondo, e con la formidabile rivoluzione culturale dell'età idealistica e romantica, la risposta ai problemi che ne nascevano fu vista, però, nella storia, l'altro grande valore che affiancò quello illuministico della ragione. Non ci si rimise, insomma, ai valori pre-illuministici, ma a una più alta forma di ragione. Che anch'essa ha avuto e ha i suoi fasti e nefasti, ma, come l'illuminismo, rimane irrinunciabile nel patrimonio morale e culturale dell'umanità. Al di fuori vi sono altre cose. C'è, ad esempio, la religione, che accetta francamente il mistero come un ordine del cosmo e della vicenda universale. È una scelta legittima e più che umana e rispettabile. Ma al mistero — come ha ben osservato Givone, che questa scelta sostiene — possono rispondere solo l'arte o la fede. O, come diceva Pascal, l'esprit de finesse. La ragione lavora altrove: è un'altra cosa.

martedì 4 marzo 2008

La Stampa 4.3.08
Bertinotti attacca Veltroni: "Calearo un falco degli industriali"
Lo schiaffo del leader di Rifondazione. «Il Pd ha una vocazione neocentrista»
qui

il Riformista 4.3.08
Il Pd copia l'America allontanandosi dall'Europa
Vuole dimostrare che si può fare a meno della sinistra
di Pasqualina Napoletano e Roberto Musacchio


Avete mai visto una campagna elettorale in cui l'attività prevalente dei due principali contendenti è quella di accanirsi contro le formazioni che, per motivi diversi, non fanno parte delle loro coalizioni, piuttosto che concentrarsi nel dimostrare al Paese il carattere alternativo delle rispettive proposte? Tutto questo sarebbe ancora fisiologico se non si fosse arrivati addirittura a darsi una mano reciprocamente con appelli al voto incrociati. Non è forse questa la migliore rappresentazione di quella melassa italiana che rende il Paese vischioso, non competitivo, vecchio e fermo?
Il Partito democratico e quello del Popolo delle libertà stanno preparando reti di salvataggio solide basate su rassicurazioni reciproche. Nessuno, infatti, deve cadere e farsi male. Altro che interesse del Paese! È un grande patto di potere quello che si sta stringendo in queste ore sotto i nostri occhi. Diciamo patto di potere perché, a differenza della Germania, dove la grosse Koalition è stata conseguenza di un risultato elettorale controverso, da noi, che siamo più furbi dei tedeschi, l'esito è anticipato da una campagna elettorale che tenta di indirizzare il voto degli elettori esattamente in quella direzione.
I programmi stessi risentono di questa impostazione. Infatti, a cosa risponde la scelta di tenere fuori dalla campagna elettorale i temi che essi stessi definiscono «eticamente sensibili», se non a questo? Chi ha seguito lunedì scorso il faccia a faccia televisivo tra Zapatero e Rajoy ha potuto constatare come la legge sul matrimonio gay, il divorzio breve, la libertà della ricerca siano stati temi dibattuti e rivendicati da chi ha governato, come conquiste che hanno contribuito all'evoluzione democratica e alla dinamicità della Spagna.
Non poteva essere altrimenti poiché si tratta di decisioni che hanno impegnato il Parlamento e il governo e quindi pienamente attinenti alla sfera politica e programmatica. La Germania, poi, proprio in queste ore sembra costituire un cruccio per il Partito democratico. Infatti, nella Spd è in corso un dibattito che apre a una alleanza politica con la Linke, l'esatto opposto della direzione presa in Italia. L'anomalia italiana risalta ancora una volta nel panorama politico europeo e non è un caso.
Da tempo conoscevamo la devozione del presidente Berlusconi per l'America di Bush, la novità è che la politica del Pd sembra guardare anch'essa sempre più oltre oceano e, come è avvenuto in America, prova a dimostrare che anche qui si può fare a meno della sinistra. In Europa, per tradizione, «sinistra» è sinonimo di stato sociale. Di conseguenza, allontanarsi dall'Europa comporta il rischio di fuoriuscire dal riferimento al modello sociale europeo. Pur sapendo che non si tratta di un modello univoco e che necessita di forti adeguamenti, il rischio è particolarmente grave per l'Italia che ha accumulato una debolezza storica in questo campo, non a caso è il Paese europeo in cui negli ultimi quindici anni le diseguaglianze sono cresciute maggiormente.
Il pericolo è proprio quello di avviarsi sulla china di una modernizzazione che abbandoni l'Europa senza neanche trovare l'America. La struttura del capitalismo italiano, legato alla rendita e riluttante ad assumere le stesse regole europee ne è un sintomo. A questo proposito si possono portare moltissimi esempi: dal saccheggio compiuto attraverso i Cip6 dei fondi destinati ai cambiamenti climatici e alle energie rinnovabili, usati da grandi gruppi industriali per produzioni sporche e altamente redditizie, al regime delle grandi opere senza appalti; dal record di infrazioni che l'Italia ha collezionato, all'inefficacia dei fondi europei di cui per decenni il sud ha beneficiato senza risultati significativi, caso unico in Europa.
Al di là di ogni valutazione sul sistema economico, sociale e politico americano, le condizioni in Europa e soprattutto in Italia sono talmente incomparabili che ogni tentativo di riproduzione pedissequa è destinato a creare squilibri e distorsioni ben più grandi di quelle che esistono in America, senza, per contro, beneficiare degli aspetti positivi che pure in quella società esistono.
La metafora potrebbe essere proprio quella delle tanto sbandierate primarie. Scimmiottare il modello americano ha voluto dire per il Pd proporre agli elettori elezioni primarie con un candidato già designato. Siamo ad anni luce dallo scontro vero e senza rete che in queste ore si sta consumando soprattutto nel campo democratico.
Tornando all'Italia, se la tendenza sembra essere quella verso il grande accordo, lo stesso discorso sul voto utile diviene privo di significato. È allora importante far sì che la sinistra non scompaia dalla politica italiana e, con essa, la speranza di rendere più giusto, più libero, più pulito il nostro Paese. Ciò oltre a far bene all'Italia serve al futuro politico dell'Europa.
parlamentari europei - Sinistra Arcobaleno

il Riformista 4.3.08
Laicità. Il rapporto tra fede e ragione
Nel secolo della rivoluzione biogenetica la scienza ha soppiantato la politica
Per la Chiesa si apre un'inedita «questione antopologica»
di Luigi Agostini


«La scienza non redime l'uomo. La scienza può anche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa». Non c'è nell'Enciclica Spe Salvi una frase che con più coincisione esprima l'idea di Papa Ratzinger circa il rapporto con la scienza. Con il richiamo alla eteronomia della scienza (se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa) Papa Ratzinger propone una visione dell'uomo in cui ragione ed etica sono sia irrimediabilmente separate, sia fortemente gerarchizzate: prima viene l'etica, poi la ragione.
Ma dopo Darwin (e Marx, e Freud) è difficile per tutti sottrarsi a una visione storico/evoluzionista dell'uomo: dell'uomo nella sua unitaria capacità sia di elaborare ragionamenti astratti, sia di elaborare giudizi etici. Entrambe le dimensioni coesistono e coevolvono, come ci indica Damasio (Alla ricerca di Spinoza ) e tanti altri neuroscienziati. La laicità incrocia entrambe le dimensioni, nel loro procedere, e, a sua volta, è un prodotto della storia.
La laicità è storicamente il prodotto dell'Umanesimo-Rinascimento, ha ovviamente molti precursori, svariati testimoni; il portale d'ingresso del mondo moderno è presidiato però da due opere classiche, anche se di argomento molto diverso: I Dialoghi intorno a due nuove scienze di Galileo Galilei ed Il Principe di Nicolò Machiavelli.
«Il mio talento - diceva Galilei - è di proporre una nuovissima scienza che tratta di un antichissimo argomento. Forse non è in natura cosa più antica del moto, intorno al quale i libri scritti dai filosofi non sono né pochi né piccoli: tuttavia ho discoperto, con l'esperimento, alcune proprietà di esso, degne di venir conosciute e che fin qui non sono state osservate, né dimostrate».
A proposito dei nuovi Principati, Machiavelli diceva che «gli è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa».
Galilei quindi, che sostituisce al detto di Isaia - se non crederete non capirete - e alla agostiniana «intelligenza illuminata dalla fede», la ragione che illumina se stessa, come poi avrebbe detto Spinoza; Machiavelli quindi, che sostituisce al detto di San Paolo - ogni potere viene da Dio (nulla potesta nisi a Deo) - la virtù del Principe e la sua fortuna.
Con Machiavelli, la laicità della politica trova per la prima volta la sua fondazione teorica. La laicità, a partire dal Rinascimento, scorre per tutto il Lungo Illuminismo sui due binari: da una parte religione/politica, dall'altro fede/scienza. Storicamente i due binari si sono sovrapposti o distinti o in dialettica fra di loro, pur avendo a riferimento una stesso principio, l'autonomia della ragione; sicuramente sulla affermazione concreta del processo di laicità l'evoluzione della relazione religione/politica ha pesato in termini più diretti e massicci della evoluzione della relazione scienza/fede.
Nel Lungo Illuminismo - rispetto alla laicità - il tratto dominante è stato impresso dal rapporto religione/politica piuttosto che dal rapporto fede/scienza: Machiavelli ha pesato molto di più di Galilei. La tesi che vorrei proporre è che il secolo che si apre - il secolo biotech, come chiamato da alcuni, la combinazione cioè tra rivoluzione informatica e rivoluzione biogenetica - cambia l'ordine dei fattori e quindi, l'ordine del discorso: il tema scienza/fede assume e assumerà sempre più un peso dominante rispetto al tema politica/fede, aspetto che, sul versante della Chiesa sembrava aver trovato una sua sistemazione, con il tentativo operato da Maritain e da altri di cristianizzare la modernità.
Ma il tema scienza/fede può aprire una nuova Questione Galileiana. Infatti, rispetto al passato, il peso della relazione scienza/fede sarà progressivamente dominante proprio per la pervasività che la rivoluzione scientifica ha di investire non solo tutti gli aspetti della vita quotidiana, ma la stessa vita e le sue scansioni. Il matrimonio tra rivoluzione informatica e rivoluzione genetica costituisce una valanga scientifica, tecnologica, produttiva, di potenza inedita: come alcuni sostengono, se il secolo ventesimo è stato il secolo della fisica e della chimica, il secolo che si apre sarà il secolo della biologia.
La rivoluzione genetica corre sulle ali della potenza di calcolo, messa a disposizione dalla rivoluzione informatica, che a sua volta procede a velocità esponenziale.
Il cambiamento, dalla scienza come fisica alla scienza come biologia, per usare tale metafora, avviene nell'ultima parte del secolo e niente illustra meglio questo cambiamento che la cancellazione da parte del Congresso Americano (come racconta Lewontin), negli anni 90, del costosissimo progetto del Supercollider destinato a scoprire gli ultimi mattoni costitutivi della materia, e la contemporanea approvazione del costosissimo Progetto Genoma Umano, progetto che nel 2000 porterà a individuare la sequenza completa del Dna.
È attraverso il progetto Genoma Umano, come sostengono Lewontin, Gould, Watson etc., che la scienza biologica ha preso il posto delle scienze fisiche classiche, sia per prestigio che per potenza economica, tanto nella comunità scientifica che presso l'opinione pubblica. Il progetto Genoma Umano rappresenta quindi uno spartiacque storico, non solo per la storia della scienza ma per la storia in generale; da qui si origina la vera uscita del Novecento, la grande e inedita questione che riproblematizza i termini storici della stessa laicità.
Anche simbolicamente è necessario partire da qui, per reimpostare il discorso della laicità, perché solo così saremo in grado di ricomprendere i termini della nuova complessità e affrontare l'effetto di spiazzamento che tale spartiacque ha determinato sulle varie forze sia religiose che laiche. Sinteticamente, pervasività e velocità costituiscono gli aspetti dominanti della Rivoluzione biogenetica: le nuove conoscenze scientifiche sono il motore evolutivo della società contemporanea, informano la cultura come l'economia e continuamente modificano la percezione che l'uomo ha di sé, del proprio ambiente, della propria vita quotidiana, fino a rendere impervio il processo di metabolizzazione sociale degli stessi esiti scientifici.
Siamo infatti la prima generazione che conosce i meccanismi in base ai quali l'umanità si è evoluta e che, forse, ha la possibilità di aprire una porta all'infinito sapere, piuttosto che quella di porre una barriera all'infinita ignoranza. Siamo entrati, come alcuni sostengono, nell'era della riproducibilità tecnica dell'uomo; la decifrazione del genoma rende possibile interventi che gettano una luce, impensabile fino ad oggi, sulla condizione umana; l'ingegneria genetica, mette a nostra disposizione la nostra stessa base biologica. Infine, la biogenetica, sostiene Boncinelli, si avvicina sempre più all'essenza dell'essere umano, alla sua mente.
L'attacco della Chiesa al relativismo, alla «cultura basata su una razionalità puramente funzionale» (la sensata experientia Galileiana), apre, a ben vedere, oltre a un conflitto politico più o meno contingente con il mondo laico, un conflitto culturale ancora più profondo con il mondo scientifico: conflitto di enorme portata e con implicazioni generali su tutti i piani e senza confini.
Karol Wojtyla aveva cercato di chiudere la ferita aperta di Galilei, riconoscendo l'autonomia della ricerca scientifica, ponendo però allo stesso tempo due limiti: le applicazioni della conoscenza scientifica (vedi ad esempio le politiche di controllo demografico) e soprattutto la ricerca intorno all'uomo.
In questi casi, sosteneva Wojtyla, la religione ha il dovere di intervenire per delimitare la sfera di competenza della scienza. «Con la ricerca del codice genetico - sosteneva già il Cardinale Ratzinger - la ragione si impossessa delle radici della vita», e impossessandosi di quelle radici tende sempre più a non vedere nell'uomo un dono del Creatore (o della Natura) e a trasformarlo in un prodotto. Così che, attraverso la genetica, l'uomo viene «fatto» e ciò che si può fare si può anche disfare; la natura e la dignità dell'uomo, concludeva Ratzinger, allora scompare.
Dall'avanzare di tale processo, per la Chiesa, emerge una inedita questione, la questione antropologica, con il suo seguito di sacralità della natura umana e di valori non negoziabili. Qui sta il nuovo nocciolo duro del nuovo conflitto tra religione e scienza, tra fede e ragione: torna la concezione agostiniana dell'intelligenza, che è tale solo se illuminata dalla fede; torna l'idea che la conoscenza dell'uomo, nei suoi aspetti più intimi, appartenga solo alla religione e sia - e debba essere - preclusa alla ragione e alla scienza; torna la concezione della Chiesa come «maestra e monopolista del discorso etico».
Il significato più profondo di tale posizione, anche se schematicamente, mi sembra così riassumibile: la posizione della Chiesa riconfigura un ritorno della «questione cattolica», nella sua essenza, sotto specie di «questione biotecnologica». Ma se la scienza che si occupa dell'uomo, è a sua volta una delle manifestazioni più grandi della scienza prodotta dall'uomo, ricostruire «una pace autentica tra ragione e fede» non sarà un compito semplice per Papa Ratzinger: sta infatti soprattutto qui - nel secolo biotech - il nodo da sciogliere e la stessa possibilità di traghettare la Chiesa nella società della conoscenza, Chiesa che ha metabolizzato Maritain ma non De Chardin.
Ma sta anche qui, per la Sinistra laica, la necessità di reimpostare il proprio compito, all'altezza della propria storia, senza addomesticare i termini del problema, in nome delle esigenze tattiche del momento: dopo la gramsciana «quistione» vaticana, dopo la novecentesca Questione Sociale, questioni che hanno trovato nella storia recente una loro qualche composizione, la nuova sfida che lo sviluppo della rivoluzione scientifica propone, ha al centro la così detta questione antropologica per un verso, o questione galileiana per un altro, con tutte le ricadute, a cascata, su eticità, laicità e politica. Dipanare tale groviglio di questioni - la nuova questione galileiana, per intenderci - sul versante della sinistra laica, non sarà facile, ma Galilei e Machiavelli stanno lì, toujours en vedette. In tale scenario la vicenda della Sapienza è solo un segno dei tempi.

il manifesto 4.3.08
Dario Vergassola: «Walterino basta, manca solo l'ufologo»
di Sara Menafra
[domani qui]

il manifesto 4.3.08
Approvata a maggioranza la libertà di alleanze per i lander. Ma la destra interna già prepara le barricate
Germania, Spd apre alla Linke per le regionali
di Rudi Ostler
Volente o nolente, la Spd segue la svolta a sinistra del suo presidente. Volker Beck, dopo aver per mesi assicurato che mai i socialdemocratici sarebbero venuti a patti nelle [domani qui]

l’Unità 4.3.08
Sinistra arcobaleno punta a 75 seggi
di Simone Collini


Settantacinque. È il numero di deputati e senatori che la Sinistra arcobaleno conta di portare in Parlamento col voto di aprile. Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica hanno messo a punto, separatamente, le liste di candidati. Lavoro non semplice, ma quello veramente complicato viene ora, quando i vertici dei quattro partiti dovranno, insieme, mettere nero su bianco entro sabato le liste della Sinistra arcobaleno. Lo schema su cui hanno trovato l’accordo prevede che il 45% dei posti sicuri sia riservato al Prc, il 19% ai Verdi e ai Comunisti italiani, il 17% alla Sinistra democratica. È saltata l’ipotesi di riservare una quota alle candidature esterne, anche perché stando ai sondaggi solo la metà degli attuali parlamentari verrà riconfermato, e su questo si sta lavorando, anche sacrificando l’apertura alla società civile.
Oltre al candidato premier Fausto Bertinotti, che dovrebbe correre come capolista nel Lazio, Rifondazione ha presentato un elenco di 46 nomi formato per metà da uomini e metà da donne. Tra queste ultime spuntano come new entry Rita Borsellino (dovrebbe correre come capolista per il Senato in Campania) e la giovane ricercatrice Cristina Tajani (circoscrizione Lombardia 1 per la Camera). Verranno riconfermati Wladimir Luxuria, Lidia Menapace e Francesco Caruso (nonostante Bertinotti abbia ammesso non molto tempo fa che «non è stata una mossa felice» portarlo in Parlamento), così come Titti De Simone, il ministro Paolo Ferrero, il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore e anche Alberto Burgio e Claudio Grassi, della minoranza “Essere comunisti” (non ci sarà invece nessuno delle minoranze trotzkiste). La deroga è stata confermata al segretario Franco Giordano (che dovrebbe essere capolista in Toscana), a Francesco Forgione e, tra le polemiche, all’indipendente Pietro Folena.
I Verdi candidano il magistrato esperto di reati ambientali Gianfranco Amendola. Paolo Cento ha ottenuto la deroga, Marco Boato no. Alfonso Pecoraro Scanio sarà capolista in Puglia, mentre in Campania dovrebbe correre in questa postazione Grazia Francescato. Si sta però anche valutando l’opportunità di presentare Oliviero Diliberto come capolista (insieme all’ipotesi Piemonte) in un collegio di questa regione, soprattutto pensando al fatto che il Pdci non è mai entrato in una giunta Bassolino. Quanto alle altre candidature dei Comunisti italiani, verranno ripresentati tutti gli uscenti, frutto di un rinnovamento la passata tornata elettorale, ma tra i quali la “quota rosa” è sotto il 20%.
Sinistra democratica conferma Fabio Mussi (probabile capolista in Liguria) e Cesare Salvi, Arturo Scotto (il più giovane deputato dell’attuale legislatura), Carlo Leoni, Titti Di Salvo e, come new entry dal mondo del sindacato, la segretaria dei pensionati Cgil Betty Leone.

l’Unità .3.08
Liberadonna, l’appello ha già raccolto 50.000 firme


MALGRADO le scarse notizie sulla stampa, la lettera aperta di Liberadonna a Veltroni, Bertinotti e agli altri dirigenti del centrosinistra (tra le prime firmatarie Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Dacia Maraini, Lidia Ravera, Rossana Rossanda) ha raggiunto le 50.000 firme e continua a raccogliere adesioni sul sito www.firmiamo.it/liberadonna). La lettera reagisce all’«offensiva clericale contro le donne - spesso vera e propria crociata bigotta - che ha raggiunto livelli intollerabili. Ma egualmente intollerabile appare la mancanza di reazione dello schieramento politico di centro-sinistra. Con l’oscena proposta di moratoria dell’aborto, che tratta le donne da assassine, e la recente ingiunzione a rianimare i feti ultraprematuri anche contro la volontà della madre, i corpi delle donne sono tornati ad essere “cose”, terreno di scontro per il fanatismo religioso, sui quali esercitare potere». La lettera esige «una presa di posizione chiara e inequivocabile, che condanni senza mezzi termini tutti i tentativi - da qualunque pulpito provengano - di mettere a rischio l’autodeterminazione delle donne». E «se di una revisione ha bisogno la 194 è quella di eliminare l’obiezione di coscienza».

Apcom 3.3.08
Anoressia. Sul web 300mila siti paragonano la malattia alla perfezione
Su internet la malattia è invocata, chiamata 'amica' e 'dea'


Roma, 3 mar. (Apcom) - Oltre 300.000 siti internet pro-anoressia, che descrivono la malattia e le aspirazioni ossessive al raggiungimento della magrezza come "uno stato di grazia", un tentativo di arrivare alla "perfezione assoluta". E' quanto ha rilevato nel 2006 una ricerca sui disordini alimentari e Internet condotta dall'Università di Torino, pubblicata all'epoca sulla rivista scientifica 'Eating and Weight Disorders'. La ricerca torinese, guidata dal professore Secondo Fassino, è giunta a risultati allarmanti: è sufficiente digitare sul motore di ricerca Google parole chiave come "anorexia nervosa (AN) and treatment", "AN and psychotherapy", "AN and pharmacotherapy", "pro-anorexia", "pro-ana sites", "thinspiration" e "anorexicnation" che davanti agli occhi dell'utente si squadernano circa 300.000 siti che inneggiano al raggiungimento della magrezza come modo per raggiungere la perfezione. Spesso l'anoressia viene definita 'ana' e la bulimia 'mia': e in molti casi sono definite come 'amica', 'dio', 'santità', 'dea' e in essi sono contenuti consigli pratici su come perdere peso in modo rapido, automotivandosi con immagini di modelle, ginnaste magrissime, ballerine tremendamente scarne.

Di questi siti, 257.000 siti contengono la parola chiave "pro-anorexia", 18.600 "pro-axa", 14.200 "thinspiration" (ispirazione alla magrezza, alla sottigliezza) e 577 "anorexicnation", ovvero "nazione anoressica". Tutte parole che mirano a creare una sorta di 'cultura dell'anoressia'. A fronte di questi siti che sublimano la malattia, nel web ci sono almeno 800.000 siti che trattano l'anoressia nervosa in chiave patologica e danno indicazioni sulle terapie adeguate, in particolare psichiatriche e farmacologiche.

Apcom 3.3.08
Anoressia. In Italia ne soffrono oltre 750mila ragazze
1,45 mln soffrono di bulimia, disturbi Dap in aumento tra maschi


Roma, 3 mar. (Apcom) - Sarebbero oltre 2,2 milioni le ragazze che, in Italia, soffrono di un disturbo alimentare psicogeno: 1,45 milioni sono le bulimiche, 750mila le anoressiche. Ma solo il 40% di esse, dopo 3 o 4 anni durante i quali nascondono la propria ossessione nei confronti del cibo, lottando contro la bilancia e del grasso spesso inesistente, ammette l'esistenza del problema, ammette di essere malata. Questi i dati forniti dal Cidap, il centro italiani disturbi alimentari psicogeni. I dati sono sconfortanti: su 2,2 milioni di ragazze che soffrono di disturbi alimentari solo 880mila lo ammettono e solo il 30% di esse, 265mila ragazze, dopo un anno di 'resistenza' di fronte a qualsiasi terapia, decide di affrontare seriamente il problema. E ancora, solo il 40-50% di questo gruppetto affronta effettivamente un percorso terapeutico e cioè circa 130.000 ragazze.

E quello che era un allarme tutto al femminile, si sta ormai da qualche anno spostando anche nell'altra metà del cielo: anche i maschi, infatti, iniziano a soffrire di disturbi alimentari. Negli ultimi 5 anni si è constatato, spiega il Cidap, uno spostamento dei rapporto Dap (disturbo alimentare psicogeno) maschili da 9:1 a 8:2, per cui in Italia il numero degli anoressici si aggira intorno ai 75.000 soggetti, mentre i bulimici sono tra i 120 e i 150mila. Il periodo critico per i maschi è compreso in una fascia di età fra i 16 e i 24 anni e nega di essere malato il 60% dei maschi: per questo si registra in Italia una casistica italiana di 'soli' 80.000 soggetti che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, di questi il 10% accetta di andare in terapia.

Secondo il ministero della Salute l'incidenza dell'anoressia nervosa negli ultimi anni risulta stabilizzata su valori di 4-8 nuovi casi annui per 100.000 abitanti, mentre quella della bulimia nervosa risulta in aumento, ed è valutata in 9-12 nuovi casi/anno. La maggior parte degli studi è stata effettuata in paesi anglosassoni e in Italia sono stati rilevati dati sovrapponibili.

Anche l'ultimo rapporto dell'Eurispes conferma i dati e parla di circa due milioni i giovani italiani tra i 12 e i 25 anni, che hanno disturbi del comportamento alimentare: nella maggior parte dei casi si tratta di donne, circa il 5% delle giovani tra i 13 e i 35 anni ne soffre, ma l'incidenza sta tornando a salire anche tra i quarantenni e tra gli uomini.


Corriere della Sera 4.3.08
Anna Karenina
Mascia Musy: «Nekrosius fa dell'eroina di Tolstoj una donna sensualissima»
di Emilia Costantini


Un affresco corale
«È un grande impegno per noi attori, che restiamo quattro ore e mezza sul palcoscenico: un vero affresco corale»
«Essere diretta da un grande regista come Eimuntas Nekrosius - dice Mascia Musy dà un senso alla mia vita professionale. E nel personaggio mi affascina la capacità d'amare fino all'estremo sacrificio»

Sul grande schermo è stata impersonata dalla mitica Greta Garbo, nel celebre film del 1935 con Friedrich March, e poi da Vivien Leigh nel 1948, fino alla recente interpretazione di Sophie Marceau nel 1997. Sul piccolo schermo, in Italia, è memorabile Lea Massari nello sceneggiato del 1974, con la regia di Sandro Bolchi. Ora è Mascia Musy a vestire i panni di Anna Karenina, l'eroina romantica di Tolstoj, nella versione teatrale del romanzo. Lo spettacolo, 4 ore e mezzo di rappresentazione, debutta all'Argentina stasera con la regia del lituano Eimuntas Nekrosius (in scena fino al 16 marzo). Ne è ovviamente entusiasta la protagonista: «Mi è accaduta la cosa più bella che poteva accadere a un'attrice. Anna Karenina è un'eroina mondiale, unica nel suo genere, speciale: non a caso, in un recentissimo sondaggio, il romanzo era al primo posto, come il più letto. Inoltre, essere diretta da un maestro come Nekrosius, dà un senso alla mia vita professionale».
Sentenzia la prima frase dell'opera di Tolstoj: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». La storia, ambientata alla fine dell'Ottocento, è quella di una donna che, trascurata dal marito, si innamora di un bell'ufficiale e fugge con lui, abbandonando anche il figlioletto. Costretta a rinunciare all'amante e non potendo tornare a casa, si uccide. Riprende la Musy: «Una storia estrema, soprattutto una storia d'amore. Ecco - riflette - è proprio la capacità di amare fino all'estremo sacrificio, ad affascinarmi nel personaggio ». Amore, ma anche sensualità e gioco della seduzione: «Certo - ribatte Mascia - Sensualità e seduzione fammo parte della natura più intima di Anna, stanno nel suo dna. Nekrosius fortifica questa realtà». Ma tra le attrici che l'hanno preceduta, qual è quella cui si sente più vicina? Risponde: «Per preparami allo spettacolo, ho visto tutti i materiali a disposizione, i film e naturalmente anche lo sceneggiato. La Garbo fu straordinaria, con una recitazione modernissima per l'epoca. Forse, però, la Massari è quella che mi è rimasta più impressa, anche se poi, quando sono diventata io Anna Karenina, ho necessariamente dimenticato tutti i precedenti».
Riletto alla luce dei «Diari» dell'autore russo, così come di altre sue opere affini, il romanzo è stato tradotto da Nekrosius in uno spettacolo di attori: «È un affresco corale dice la Musy - e un grande impegno non solo per noi attori, in scena per quattro ore e mezzo, ma anche per il pubblico: non è facile e non è consueto tenere la platea interessata ed entusiasta per tante ore di seguito. Eppure, ogni volta riusciamo nel miracolo: rendiamo felici gli spettatori ». Cosa ha insegnato, alla donna Mascia, la donna Anna: «Che l'amore è sempre una scelta radicale».

Liberazione 4.3.08
Bertinotti: solo noi a volere un cambio radicale
Dal candidato della Sinistra una svolta nella campagna elettorale
Duro col Pd che candida «falchi padronali» e autocritico su Prodi

di Anubi D'Avossa Lussurgiu


Sì, il clima della campagna elettorale è cambiato. E ad interpretare questo mutamento di senso e di intensità, intanto, è la novità che si è prodotta a sinistra, appunto la Sinistra Arcobaleno. Erano lo stesso tono, lo stesso stile oratorio, la stessa passione del suo candidato premier, Fausto Bertinotti, a segnalarlo nel discorso tenuto domenica nel teatro Ambra Jovinelli traboccante di partecipanti, davvero diversi fra loro. E ancora Bertinotti, di questo cambiamento della competizione politica, ha dato conto, analiticamente, ieri sera nel confronto con Pier Ferdinando Casini a Porta a Porta . Ha infatti risposto a Bruno Vespa che per quanto riguarda la sinistra «sì, è cambiato il nostro approccio nei confronti del Partito democratico e di Veltroni». Perché dopo che lui stesso, Bertinotti, aveva fatto appello per «bandire la logica dei "fratelli-coltelli"» e misurarsi con il programma piddino «sull'efficacia delle proposte di alternativa alle destre», dopo questo è arrivato altro: proprio per mano del Pd, "in concorso" con il Popolo delle libertà berlusconiano.
Anzitutto la «scelta», convergente, di agire «un sistematico martellamento» diretto a «ridurre l'immagine della competizione ad un duopolio». Ma poi, prima Berlusconi e poi Veltroni hanno deciso di brandire la «truffa», il «messaggio illiberale» del «voto utile». E dal Pd, con le dichiarazioni di Anna Finocchiaro «mai smentite da Veltroni», si è arrivati a «fare appello a votare solo uno dei due maggiori partiti, suggerendo che votare per il Pdl sarebbe al limite preferibile a dare il voto alla Sinistra e perciò spingendosi a sollecitare un tradimento del proprio stesso campo». Dunque, sì: la sinistra ha a sua volta cambiato tono. Per una ulteriore causa scatenante: ed è che il Pd ha esibito il fondamento profondo di questo accanimento, di questa pulsione escludente verso sinistra, che sta nella riproposizione d'un «pensiero unico» sulla società. E' emerso definitivamente con la conferma della candidatura del «falco padronale», il presidente di Federmeccanica, il rappresentante dei «discendenti di Valletta».
D'altra parte, è la realtà stessa a premere la campagna elettorale. Uno sfondo che si macchia di sangue a sprazzi, dietro il velame di messaggi di fuoriuscita da ogni concezione del conflitto sociale, da ogni denuncia del «sistema di dominazione» che così si propone di lasciar riprodurre «all'infinito», come Bertinotti ha gridato domenica all'Ambra Jovinelli. Lo gridava, là, facendosi soprendere con la voce strozzata in gola a ricordare il 39enne «operaio e compagno» Fabrizio Cannonero, morto a Genova «camallo tra i camalli» e soprattutto morto proprio come suo padre. E Bertinotti ha dovuto ripeterlo ieri sera, davanti alle telecamere Rai di Vespa, per commentare il fatto del giorno, piombato sull'inizio della trasmissione come uno squarcio di verità: la nuova strage del lavoro, di dimensioni paragonabili a quelle della Thyssen torinese, stavolta all'altro capo del Paese, in quella maledetta cisterna di zolfo a Molfetta. Un coro tragico che la Sininistra Arcobaleno cerca di raccogliere e, comunque, sola può farlo: come Bertinotti ancora domenica sottolineava, alzando la voce nella rivendicazione che è «la vera novità» è questo «soggetto unitario e plurale fondato sulla condivisione della critica radicale al modello economico e sociale».
Così è di nuovo solo con la sola sinistra, Bertinotti, a invocare dopo la strage di Molfetta la risposta più semplice e immediata, che dovrebbe essere atto dovuto d'una politica pubblica, del governo e dello Stato: la convocazione immediata, stamattina stessa, d'un consiglio dei ministri straordinario per «approvare in via definitiva i decreti attuativi della nuova normativa per la sicurezza sul lavoro». E, poi, solitudine anche nel pretendere ciò che ugualmente dovuto sarebbe da parte del servizio pubblico: di nuovo oggi stesso, stasera, la «trasmissione in prima serata d'un film, uno qualunque, sui morti sul lavoro» - e Bertinotti fa l'esempio di quello di Daniele Segre - per «dare uno choc al Paese, far vedere questa realtà inaccettabile».
Ma Bertinotti ricorda che «politiche» sono le «responsabilità» anche in questo «dramma»: che dalle «politiche del lavoro» deriva, anzi dalle «politiche economiche e sociali», ossia sul mercato del lavoro come sull'organizzazione produttiva, con le quali si è «trascinato il Paese in uno sforzo di competizione basato sull'abbattimento dei salari, sulla regressione dei diritti e sulla flessibilità». Dunque, per rispondere davvero a e di quei morti, è queste politiche che «bisogna cambiare».
E così il discrimine tra sinistra e «riformismo non di sinistra», come Veltroni ha detto a El Paìs , è rilevato nella sua maggiore profondità: o almeno lo è quello tra sinistra e «un centrosinistra che guarda al centro», che Bertinotti all'Ambra Jovinelli domenica ha concesso come la «più ottimista» definizione del Pd. Un «centrosinistra» la cui deriva verso destra nell'asse generale della politica e della concezione della società, pure, non è irreversibile, ma ad una sola condizione: che sia fatta forte e sia così fatta valere una sinistra, unico fattore di «possibile inversione» in futuro anche dell'orientamento piddino.
Non solo per il lavoro, non solo per «la classe», pur intesa nel senso più esteso e rinnovato che fornisce la chiave di lettura della «precarietà», scandagliata domenica da Bertinotti «fuori da un certo economicismo» della tradizione del movimento operaio, in una visione persino «antropologica» e «globale», che guarda al «deposito dei movimenti di Seattle e di Genova», alle nuove generazioni politiche invitate direttamente ad «occupare» il «nuovo edificio da costruire» a sinistra.
Nella più distesa circostanza della comunicazione con la platea dell'Ambra Jovinelli, dopo l'introduzione di Patrizia Sentinelli tornata nei combattivi panni di candidata romana da quelli di viceministra degli Esteri e dopo gli appassionati interventi a tutto campo, nel campo delle lotte, di quattro figure come uno studente medio, una dipendente precaria del Comune, un universitario e un'attivista ecologista sul territorio, il candidato premier della Sinistra Arcobaleno ha offerto questo «strumento» ad un ben più vasto spettro di «domande e soggetti di liberazione». Quelle che pure formavano la vasta «domanda di cambiamento» cui Bertinotti ammette, con nettezza, «non siamo stati capaci di rispondere» con l'esperienza dell'Unione e del governo Prodi.
Domande che restano e che hanno trovato nel frattempo i loro percorsi di «resistenza» e i modi di «esprimere ricchezza». Dalle «donne» e dalla loro «libertà necessaria», alle nuove «figure della cittadinanza» che sono i migranti come le «libere scelte di orientamento sessuale», gay, lesbico, transgender che sia. Dalla difesa dei territori alla ricerca culturale e artistica, all'azione critica dei e sui saperi.
Appunto, l'Arcobaleno di tutti i colori del prendere parte. E, intanto, almeno un'altra campagna elettorale è possibile.

Liberazione 4.3.08
Sul sito del partito democratico campeggia un articolo di Khaled Fouad Allam che riduce il pensatore francese a un teorico della governabilità in salsa veltroniana. E cancella l'analisi sulle tecniche di assoggettamento degli individui nel neoliberismo
Che pena, Foucault critico del potere arruolato pure lui nel Pd
di Anna Simone


Michel Foucault si starà rivoltando nella tomba. Una vita spesa a fare ricerche genealogiche sul potere per denudarlo, smontarlo, decostruirlo a partire dal ‘700 sino all'ultima tendenza neoliberale dei governi occidentali di destra e di sinistra; una vita trascorsa tra i carcerati, i folli, i movimenti anti-autoritari per mostrare come il potere "produca" gli stessi soggetti da normalizzare; una vita trascorsa ad insegnare, leggere, discutere tradita in un solo momento da un articolo mistificante, capzioso e del tutto irrispettoso nei confronti delle sue tesi.
Ci riferiamo all'articolo di Khaled Fouad Allam dal titolo "Michel Foucault e il Partito Democratico" che in questi giorni compare sul sito del partito medesimo. E' vero che i morti non possono rispondere e quindi in quanto tali possono essere strumentalizzati per fini al di là di ogni ragionevole immaginazione, ma è pur vero che chi ne riceve l'insegnamento traducendolo in pratica politica quotidiana può e deve rispondere. Non è la prima volta che grandi autori vengano ridotti a veline innamorate del potere.
Nella seconda metà degli anni '90, per mano e intelligenza di uno studioso di storia delle dottrine politiche barese, Gramsci divenne in men che non si dica liberale perché il Pds di allora doveva sostanziare la sua inarrestabile corsa verso il liberalismo e non aveva più "padri" di riferimento. Poi è arrivato Berlusconi, il quale per sostanziare la necessità di evitarsi e di far evitare il carcere ai suoi "compagni di merenda" citava ampi stralci di Sorvegliare e punire di Michel Foucault dinanzi a parlamentari e senatori. In questo caso, però, per quanto utilizzata per finalità inaccettabili (dal momento che il garantismo dovrebbe essere applicato a tutti e non solo ad una minoranza di privilegiati) la citazione era tale e quale, virgolettata nel testo. Neanche Berlusconi cioè ha saputo spingersi tanto quanto ha fatto il Pd attraverso Khaled Fouad Allam sul sito del neonato partito. Il sociologo, infatti, non cita ma fa una sintesi degli ultimi due corsi di Foucault tradotti in italiano, Nascita della biopolitica e Sicurezza, territorio, popolazione dicendo l'esatto contrario di quanto affermato da Foucault nell'arco di una vita. Vediamo perché. Allam "traduce" tutto il paziente lavoro foucaultiano di ricostruzione e al contempo di decostruzione del liberalismo in tutte le sue nefandezze (dalla nascita del concetto di capitale umano all'apologia della società civile intesa come forza che sostituisce il welfare e lo Stato-nazione nella "gestione" del sociale), nonché tutto il paziente lavoro di stabilire un nesso tra sicurezza-territorio-popolazione per mostrare come funzionano i nuovi terribili dispositivi di sicurezza, facendo diventare il filosofo francese un accanito sostenitore di tutto quel che lui stesso vedeva come inaccettabile. Così come la biopolitica foucaultiana non è l'apologia della vita della Binetti, le analisi sul neoliberalismo, sul capitale umano, sulla "governamentalità" intesa come un dispositivo nel quale si traducono i poteri del presente (e non sulla "governabilità" - come invece scrive Allam-) non sono nella maniera più assoluta riducibili all'apologia del liberalismo compassionevole e in salsa molle del Pd. Foucault, infatti, in quei due corsi ci mette in guardia su come si vanno trasformando i dispositivi di assoggettamento degli individui con la crisi della sovranità degli Stati-nazionali perché ha a cuore la costruzione di un nuovo ethos della libertà. Ora l'ethos della libertà non è per Foucault né il liberalismo veltroniano, né la bioetica cattolica, sadica più che buonista, nei confronti delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche e via discorrendo. Ma, semmai, è il "dire la verità" sul funzionamento del potere per resistergli, per aggirarlo, per metterlo in scacco. Capisco che il vuoto pneumatico del Pd dal punto di vista contenutistico possa portare a siffatte operazioni "disperate", ma far diventare l'autore della critica a tutte le forme di assoggettamento degli individui cosiddetti "anormali" l'alter ego del chierichetto che vuole prendere il potere è francamente inaccettabile. Come se non bastasse, Allam in chiusa del suo articolo cita gli scritti foucaultiani sulla rivoluzione iraniana facendoli diventare degli scritti sul riformismo politically correct del Pd. Da straniero o da ex-straniero il sociologo ha evidentemente a cuore una società multiculturale e fin qui è possibile fare uno sforzo di comprensione rispetto alla sua posizione, ma far diventare l'entusiasmo foucaultiano per la rivoluzione iraniana un entusiasmo per il riformismo è - lo diciamo ancora - francamente inaccettabile (su questi scritti consigliamo ad Allam la lettura di un bel saggio di Ottavio Marzocca pubblicato dalla manifesto libri dal titolo piuttosto esplicativo: Perché il governo ).
E' vero che l'opera foucaltiana ha conosciuto soprattutto in Francia una ricezione "strana" dal momento che alcuni suoi vecchi allievi sono entrati a pieno regime nella gestione del potere proponendo l'elaborazione di nuovi diritti, ma è altresì vero che loro hanno avuto il coraggio di dichiarare pubblicamente la loro presa di distanza dal maestro su questo. Ad Allam non chiediamo questo dal momento che lui non è mai stato neppure un suo allievo ma gli proponiamo di rivedersi una massima di Wittgenstein: "di tutto quel che non si sa è meglio tacere". Buona campagna elettorale.