domenica 9 marzo 2008

l’Unità 9.3.08
Quel che noi donne abbiamo insegnato al sindacato...
di Adele Cambria

Dentro al corteo le lotte delle casalinghe, delle single, delle madri, delle immigrate e non solo: oggi camminiamo insieme dietro le stesse bandiere

Il campanile romanico di Santa Maria in Cosmedin, il verde tondeggiante e luminoso dei pini dell’Aventino e i colori delle bandiere, tante, del corteo delle donne (e degli uomini) dei sindacati. Da Epifani ad Angeletti a Bonanni, molti gli interventi dal palco di Piazza Navona, dove il lungo serpentone svettante di bandiere è approdato nel tardo pomeriggio di ieri, attraversando una città che si affollava per vederlo.
Come fosse uno spettacolo di cui si aveva voglia: l’aspettavano al passaggio, riempiendo la rampa del Campidoglio e l’ardua scalinata dell’Ara Coeli, affacciandosi dalle balaustre del Vittoriano. Un bel corteo (ma non era eccessivo lo schieramento delle forze dell’ordine e dei blindati?): e man mano che avanza, le voci femminili che rumoreggiavano da lontano prendono corpo. Camminando accanto ad un furgoncino, una ragazza scandisce al microfono le quattro parole scelte come simbolo e sintesi della manifestazione: «Sviluppo-Lavoro-Qualità della vita-Libertà di scelta». Sono quelle che giganteggiano sullo striscione giallo che apre il corteo, sotto le tre sigle sindacali, Cgil, Cisl, Uil. E, una dopo l’altra, avvicendandosi, le donne danno ragione delle loro rivendicazioni: dalla «condivisione del lavoro di cura con il partner» alla richiesta che «tutto il lavoro delle donne entri a far parte del Pil, anche quello domestico non ancora riconosciuto». In verità, non fu mai riconosciuto, neanche nei testi sacri del marxismo - Carlo Marx parlava di «lavoro spontaneo delle donne e dei fanciulli all’interno della famiglia». Fu il neofemminismo degli Anni 70, dall’Inghilterra all’Italia, dai testi teorici di Selma James a quelli di Maria Rosa Dalla Costa, fino alle pratiche dei Gruppi per il salario domestico - i sindacati non erano d’accordo - a svelare, se non altro, un consapevole «patto tra uomini» allo scopo di negare valore economico al lavoro domestico: che oggi si preferisce definire «lavoro di cura». Ed un cartello, nel corteo, rivendicava: «Riconoscimento contributivo per il lavoro di cura».
Dalla rappresentanza, foltissima, della Lombardia emergeva un’altra richiesta: «Reddito adeguato per le donne sole e a rischio». Le tematiche dello sviluppo sono state poi svolte, in forma di appassionate testimonianze femminili, dal palco di Piazza Navona, prima degli interventi ufficiali. Letizia, giovane rappresentante della Filtea: «In discoteca ci si può andare anche domani. Oggi dobbiamo combattere. Ve lo dice una che è stata anni nel torpore, nel dormiveglia indotto dalla Tv, da quelli che vogliono farci continuare a dormire o a sognare sogni non tanto impossibili quanto patetici... A un certo punto mi sono svegliata, mi sono ricordata il motto del fondatore degli scout, dove ho imparato qualcosa da ragazzina, e vi dico "Estote parati"... Siate pronte, ragazze, datevi da fare ma non ciascuna per sé, come ci fanno credere che è bello!». Parla, Letizia, delle lotte della Filtea per vietare ai datori di lavoro di far firmare alle donne, prima di assumerle, le dimissioni in bianco: così, se restano incinte, vanno subito a casa. «Questo sistema lo usano anche con gli immigrati, ovviamente non se restano incinti, ma se non servono più». Bellissima la testimonianza di Eva Blasic, laureata in filosofia in un paese dell’Est, ora collabora con la Cisl per l’immigrazione nel Lazio. «Un giorno, come tante donne simili a me, ho messo in valigia il mio entusiasmo, e sono arrivata in Italia. Nel Lazio gli immigrati sono mezzo milione, e la maggioranza ha un volto di donna. Sono le immigrate, che con i loro bambini, riempiono i banchi vuoti delle scuole italiane... Quasi tutte hanno un buon livello di istruzione, ma non possono utilizzarlo. Eppure potrebbero diventare una risorsa per l’Italia, che soffre di bassa fecondità e di uno scarso tasso di occupazione femminile. Non vi dice nulla quel 7% di Pil prodotto dagli immigrati?».

l’Unità 9.3.08
Bush mette il veto sul bando alla tortura
di Roberto Rezzo

Il presidente contro il Congresso: legali interrogatori con annegamento simulato

Elogio della tortura. Nel tradizionale discorso radiofonico del sabato, George W. Bush ha spiegato il veto alla legge che bandisce tecniche d’interrogatorio in violazione dei diritti umani. Come il «waterboarding», la simulazione d’annegamento utilizzata dalla Cia. «Il provvedimento che mi ha presentato il Congresso ci avrebbe privati di uno degli strumenti più efficaci nella lotta al terrorismo, per questo motivo ho posto il veto - sono state le parole del presidente - Non è il momento di abbandonare pratiche la cui efficacia nel mantenere l’America sicura è stata comprovata».
Il disegno di legge era stato approvato dalla Camera lo scorso dicembre e aveva passato l’esame del Senato in febbraio. Fornisce le linee guida per le attività d’intelligence, con particolare riferimento alle tecniche d’interrogatorio. Esplicitamente proibisce ogni «tattica» che esuli dalle diciannove già codificate dai regolamenti delle carceri militari, tra cui: «Incappucciare i prigionieri o chiudere loro gli occhi con nastro adesivo; denudarli; costringerli a mimare o compiere atti sessuali; picchiarli, ustionarli, o provocare loro lesioni; esporli a temperature estreme». L’obiettivo non era di impedire ai servizi d’intelligence di acquisire informazioni cruciali, ma di migliorare l’immagine degli Stati Uniti di fronte alla comunità internazionale.
Dall’apertura del lager di Guantanamo alla scoperta delle carceri segrete della Cia all’estero, Washington è finita da un pezzo nella lista nera di Amnesty International. Il «waterboarding» è stato definito senza incertezze dalle Nazioni Unite come «una forma di tortura».
«Queste pratiche sono una macchia per il Paese. Non ci fermeremo finché il divieto di torturare i prigionieri non sarà legge», ha dichiarato la senatrice democratica Dianne Feinstein. Il collega Edward Kennedy incalza: «Il veto di Bush è uno degli atti più vergognosi della sua presidenza. Salvo che il Congresso non riesca ad aggirarlo, passerà alla storia come uno dei più grandi insulti alla legalità e sarà una macchia indelebile sul nome dell’America agli occhi del mondo». Per annullare il veto della Casa Bianca e forzare la conversione in legge occorre una maggioranza qualificata dei due terzi al Congresso. La presidente della Camera, Nancy Pelosi, si è impegnata a far rivotare l’aula entro la fine della prossima settimana: «In ultima analisi la nostra capacità di guidare il mondo non dipende solo dalla nostra potenza militare, ma dalla nostra autorità morale». John McCain, il candidato repubblicano alla presidenza, un veterano di guerra fatto prigioniero e torturato in Vietnam, in passato ha condannato l’amministrazione Bush per le tecniche estreme d’interrogatorio, definendole «incivili, disumane e inutili». Ora ha bisogno che la famiglia Bush gli finanzi la campagna elettorale. E naturalmente ha cambiato idea.

l’Unità 9.3.08
Il libro del leader di «Autonomia» sull’anno fatidico: l’affresco istruttivo e gli errori
Piperno, la «cattiveria» del 68 finita male
di Bruno Gravagnuolo

Il ’68 come sovversione integrale, distruzione del futuro a beneficio di un presente come istante dilatato, che rifiuta di differire passioni e desideri. Una sorta di «vogliamo tutto» di balestriniana memoria. E naturalmente su scala di esperienza convissuta e collettiva. A volerlo riassumere in poche battute, è questo lo spirito dell’anno mirabile che riecheggia nel rendiconto che Franco Piperno, leader storico dell’Autonomia operaia affida al suo ’68. L’anno che ritorna (Rizzoli, pp 180, euro 16,50). Scritto con Pino Casamassima che fa da intervistatore nella prima parte «storiografica». E con un saggio finale sul ruolo dell’Università oggi, tra licealizzazione e clientelismo all’italiana e aziendalismo all’americana. Il tutto visto da un ricercatore di Fisica come Piperno, che negli intervalli dei suoi guai giudiziari da «sovversivo», ha insegnato in Francia, Canada e oggi insegna all’Università della Calabria.
La prima cosa che si può dire di questo rendiconto con andamento da zibaldone, è che costituisce un’eccellente fonte «orale», su una porzione rilevante del 1968. Così come fu vissuto in Italia da una quota di giovani intellettuali in formazione. Quell’area che poi si identificò nel sogno operaista, fino alle proiezioni metropolitane dell’Autonomia, conclusesi con la tragedia del delitto Moro.
Nondimeno in tal senso, benché parziale, la testimonianza di Piperno rivela una certa capacità di farci rivivere aspetti non secondari dell’immaginario diffuso del 68: aspetti universali. La spinta alla riappropriazione della vita, oltre le gerarchie e contro di esse. Contro la divisione del lavoro e il mito della carriera. Contro l’etica del lavoro e le promesse del futuro. Contro le partizioni disciplinari del sapere e persino contro la scienza, naturaliter oppressiva nella sua «metafisica» sovranità, secondo il fisico Piperno. Altro pregio del rendiconto è la capacità di restituire appieno una certa atmosfera «fusionale» del movimento allo stato nascente. Fusionalità quasi orgiastica ed erotica, nella reverie di Piperno, che a tratti si colora di sfumature dandystiche e «decadenti»: la «cattiveria sognante» dei giovani sovversivi. E non senza movenze terragne, plebee e meridionali, insurrezionali nel quotidiano. Un mix complesso, generazionale e rivoltoso. Radicato anche nei flussi migratori della penisola segnata dal «baby boom» che si riconosce nel 1968, tra nuovo proletariato di fabbrica e centri universitari urbani, irrorati dalla scolarità di massa incipiente. E del pari frammento di quel più ampio rivolgimento geopolitico che a fine anni 60 incrina la compattezza dei blocchi e fonde all’unisono, nello specchio dei media, gestualità ed emozioni dei giovani nati subito dopo la seconda guerra. Ovviamente interessante, proprio perché reso in chiave fluida e impressionistica, è il catalogo degli influssi culturali che convergono, ad infiammare la rivolta generazionale. Dal cinema, alla musica, alle nuove scienze umane. Alla scuola di Francoforte, alla critica della scienza, al rifiuto dell’etica del lavoro, che nasce dalla percezione di mondi altri e possibili. Dove produzione e riproduzione della vita obbediscono a un simbolico tutt’affatto diverso dalla logica della merce e della tecno-scienza, con le aspettative di ruolo connesse.
E tuttavia, reso merito al «regesto» emotivo di Franco Piperno, che quantomeno non s’è pentito e non gioca a fare il trasformista brillante, reso merito alla sua coerenza, resta il fatto che la sua era, e resta, una visione primitiva. Ingenua e offuscante. Offuscata da una passione dell’«immediato» che lo spinse, e lo spinge, a inseguire la liberazione umana in una sorta di godimento polimorfo della «riappropriazione». Al quale peraltro la politica come pratica viene piegata. In Piperno insomma vince una specie di mistica romantica, che sta «al di qua del principio di piacere», tutta dentro il piacere. Qua e là commista con la ribellione e con l’esodo molecolare delle «moltitudini», contro il lavoro (alla Toni Negri). E che finisce col celebrare il primato della «passione» - compatta e risolta verso lo scopo - contro il «desiderio», giudicato ingannevole e per lo più indotto dal mondo delle merci. Errore capitale e appunto primitivo. Poiché il desiderio, che come tale è sempre incompiuto, non è istinto materiale. Bensì proiezione simbolica, progetto, idealizzazione. Costruzione affettiva di relazioni umane dentro il rapporto storico tra natura e cultura. Nella vita individuale e di gruppo. E fu in virtù di questo primitivismo, divenuta pratica gregaria della violenza diffusa, che una parte del 68 finì senza volerlo nel vicolo cieco del terrorismo e nella spirale delle provocazioni avversarie.

l’Unità 9.3.08
Eclettico e visionario, l’800 ritrovato
di Renato Barilli

LA MOSTRA Alle scuderie del Quirinale le molte anime del nostro XIX secolo. Un’epoca spesso trascurata ma artisticamente ricchissima. Da Canova a De Nittis, da Segantini a Pellizza da Volpedo

La giusta rivalutazione dell’arte del nostro Ottocento, già in atto da qualche decennio, raggiunge ora il Colle più alto, cioè il Quirinale, nella fattispecie dell’edificio antistante che era riservato alle Scuderie del Palazzo, ma che è merito dell’amministrazione capitolina aver riattato ad eccellente sede museale, ove in genere si ammirano rassegne ben condotte. Com’è appunto questa dedicata al nostro Ottocento, snella ma sicura, affidata a due valenti specialisti quali Fernando Mazzocca e Carlo Sisi. Naturalmente, se a svolgerla fossero stati chiamati altri specialisti, si sarebbero registrate delle inevitabili varianti, qualche nome sarebbe stato detratto dalla presente raccolta, qualche altro invece, qui assente, rimesso in gara. Ma sono questioni di dettaglio che non turbano un giudizio globalmente positivo da darsi alla presente iniziativa. Che comincia subito bene, dal grande Canova, pur offrendone una assai parca documentazione, visto che in questo momento ci sono tante sue opere in giro per i musei. Qui si ammirano i due pugili, Creugante e Damosseno, convocati dai vicini Musei vaticani, ed è una valida esemplificazione del perfetto formalismo del loro autore, con quelle due figure che si rispondono simmetricamente, quasi chiamate a ricompattarsi in blocco unico. Segue una ristretta ma corretta silloge del nostro miglior Neoclassicismo, esplorato soprattutto nei ritratti dell’Appiani e del Bossi, quest’ultimo presente con quel mirabile condensato di ben quattro ritratti virili, che è la Cameretta portiana. Poi viene giocata, forse in eccesso, la carta dello Hayez, di colui che ebbe il compito storico di uscir fuori dalle secche del neoclassicismo per andare a coltivare gli avamposti del nascente realismo, seppure truccati nei panni retorici del romanzo storico. In proposito registriamo una di quelle assenze che si devono imputare al duo curatoriale, nella persona dell’allora infelice rivale che lo Hayez ebbe, Giovanni De Min, convinto che si dovesse continuare a recitare la favola inattuale del classicismo, ma in modi addirittura anticipatori della futura stagione simbolista. E non si capisce neppure perché, nella stessa chiave, non si sia trovato un posticino a Tommaso Minardi, campione del nostro Purismo in cui a sua volta è da vedere uno dei punti di resistenza al pur avanzante realismo-naturalismo. Ma certo, lo Hayez pesò a fondo, nei decenni centrali del secolo, anche se col torto di avvolgere i suoi nitidi referti realistici come in fogli di plastica, perfino troppo lucidi e immacolati. Cosicché si aprì lo spazio per una staffetta gestita dal napoletano Morelli, che capì come era ormai venuto il momento di liberare i brani di cronaca da quella sorta di membrana traslucida. Bisognava che le scene di storia e di costume si lasciassero intaccare dai fluidi atmosferici, secondo una pittura che era già impressionista, anche se non ancora del tutto convinta che si dovessero andare a cogliere le «impressioni» sul filo di una palpitante verità dell’oggi. A questo provvidero i Macchiaioli toscani, che infatti sono qui presenti in squadra compatta, inizialmente eredi del quadro di costume ricevuto dal collega Morelli, ma via via convinti ad aprire le porte ai sentori della più stringente attualità, pur senza abbandonare la protezione di un solido quadro di misure antiche, nel che stava la differenza rispetto ai rivali frattanto sorti sulle rive della Senna. Ma oggi abbiamo capito che i lieviti antinaturalisti, già presenti in De Min e in Minardi, e destinati a confluire nel Simbolismo, facevano la differenza, tra i nostri Fattori, Lega, Cabianca, e la squadra che sarebbe stata capitanata da Monet, e non dimentichiamo che gli altrettanto grandi Manet e Degas consuonavano più coi nostri che con l’autore dei dissoluti covoni di grano. Semmai, a sfidare degnamente Monet, si ersero i Signorini e Abbati e Sernesi.
Forse un po’ sommaria è l’attenzione riservata ad altre situazioni regionali di un nostro impressionismo autoctono, un corretto interesse va al Carcano, e a Tranquillo Cremona per la casella della Scapigliatura lombarda, ma con l’incomprensibile assenza di Ranzoni. E anche il Piemonte, oltre che con l’inevitabile Fontanesi, poteva essere rappresentato dal Pittara, e un posticino era da riservare anche al veneziano Ciardi. Un po’ denutrita anche la delegazione napoletana, in cui risulta incomprensibile l’assenza dei fratelli Palazzi, bene invece l’omaggio a Toma, e naturalmente a De Nittis, nella sua produzione multipla approdata anch’essa sulla Senna, con Boldini e Zandomeneghi. Ma perché escludere Michetti, anche se è stato opportuno segnalare gli in genere dimenticati Netti, Leto, Lojacono?
Ci si avvia ormai alla conclusione della silloge, che termina con due capolavori assoluti, La maternità di Previati, mirabile sinfonia di figure umane equiparate a molli salici piangenti. E il Quarto stato di Pellizza, in cui l’artista coniuga alla perfezione i valori stilistici e il più alto messaggio di redenzione sociale. E a fare corona ci sono pure Segantini e Morbelli, peccato che manchi Grubicy, e nel settore scultura, parcamente illustrato con presenze di Bartolini, Vela, Cecioni, Gemito, ancora una volta si dia la precedenza al caso di Medardo Rosso a scapito del Bistolfi, escluso da una rassegna, che pure, come già detto, salda i conti all’attivo.

l’Unità 9.3.08
Vita intima di Burri

Di un uomo oltre che di un artista tratta il libro di Piero Palombo appena pubblicato dalla Quadriennale di Roma, introducendo un elemento nuovo nella fortuna bibliografica di Alberto Burri. Il quale da decenni è oggetto di una larga varietà di disamine di carattere critico e stilistico (caso esemplare la monografia dedicatagli da Cesare Brandi nel 1963 tutt’ora un punto di riferimento imprescindibile nei suoi studi) ma, incredibilmente, non è mai stato al centro di un’analisi di tipo strettamente biografico e l’ampio apparato letterario cresciuto attorno al suo nome risulta ancora privo di un esame che ne ponga in luce alcuni aspetti del suo percorso più intimo e individuale. Il volume, di contro, si concentra soprattutto su questi ultimi colmando una lacuna evidente da tempo e contribuendo così anche ad una maggior comprensione della sua storia creativa. Partendo dalle sue origini in terra umbra, Palombo ripercorre per intero la vita di Burri riflettendo su alcuni momenti particolarmente significativi del suo tracciato, dai tempi della prigionia in Texas agli esordi romani fino ai anni del successo internazionale; contemporaneamente si sofferma su alcuni particolari episodi come, ad esempio, l’incontro che egli ebbe con Rauchenberg nel 1953 o lo scandalo suscitato dalla presentazione di alcune sue opere alla VII Quadriennale nel 1955-56 o alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1959 (quando l’esposizione di un Sacco scatenò addirittura un’interrogazione parlamentare). Un ricordo di Giovanni Carandente ed uno di Lorenza Trucchi, tra i più sensibili ed acuti sostenitori di Burri, completano la pubblicazione.

Repubblica 9.3.08
La politica e i buoni maestri
di Giulia Boringhieri

Caro direttore, il dibattito sulle pagine di questo giornale fra il filosofo Massimo Cacciari, spettatore di un´inevitabilità in un certo senso "epocale" della mancanza oggi in Italia di una vera differenza fra destra e sinistra, e lo storico Massimo Salvadori, a difesa dell´importanza di tenere ferma tale differenza, e ribadirla soprattutto nei riguardi delle tematiche economiche, ricorda le discussioni che avvenivano in tempi di ben più vivace dibattito culturale e politico sulle pagine dei giornali e delle riviste e proprio per questo offre lo spunto per qualche riflessione ulteriore. Seguendo anche le idee di mio padre, l´editoreBoringhieri: lui pensava che per poter parlare e discutere di qualcosabisognasse prima conoscerla, e su questo fondava il suo mestiere.Far conoscere.
Sia Salvadori sia Cacciari, prima che intellettuali impegnati, sono studiosi seri, competenti, abituati all´esercizio quotidiano della ricerca e della conoscenza, dell´approfondimento; anche quando ciò non è esplicito, sappiamo che quel che dicono proviene da riflessioni maturate in anni e anni di serio lavoro; il loro intervento in un dibattito pubblico su un giornale è chiarificatore perché si basa su una visione storicamente più ampia e più profonda di passato e presente, avvenimenti e persone, idee ed economie. L´interpretazione dell´oggi è il frutto di una prospettiva fondata su molti fatti e molte ragioni.
Queste caratteristiche appartenevano alla maggioranza degli intellettuali di sinistra del dopoguerra, comunisti e socialisti. Si pensava che per poter indicare la strada del rinnovamento dell´Italia dopo la guerra bisognasse ben capire le radici storiche della situazione italiana, scrivere, tradurre e leggere gli autori più significativi: conoscere il passato, interpretare il presente e poi indicare il futuro. Anche chi, almeno fino al ´56, pensava di avere in tasca la chiave per affrontare tutti i problemi, li aveva studiati, studiati e studiati mille volte: l´esempio più eclatante è Emilio Sereni, intellettuale di sterminate letture che Togliatti stesso dovette allontanare dalla guida della sezione cultura del Partito per eccesso di zdanovismo. L´oppio degli intellettuali, quando c´era, aveva sedato professori universitari di ineccepibile preparazione accademica – che poi, lasciate le aule, non rifuggivano dal confronto pubblico in articoli, saggi, conferenze.
L´epoca delle fedi è finita e oggi una figura come Emilio Sereni è difficile perfino da immaginare, ma bisogna chiedersi se sia finita anche l´epoca degli intellettuali seri, se sia finito il loro ruolo, che cosa sia oggi e che cosa vorremmo che fosse.
Oggi abbiamo molti "valori" ma tutti o quasi privi di paternità – o con paternità di comodo, prese a prestito da culture estranee e che non significano niente ai più – e soprattutto sparpagliati, slegati da visioni organiche. Il mondo concettuale legato alla parola "ideologia" (comunista) ha trascinato nella sua caduta anche concetti di cui l´ideologia si era impadronita a forza, e relativi modi di indicarli: fra questi i concetti di "indirizzo", "direzione" o "egemonia culturale". Giusto. Sono parole odiose ai nostri orecchi di oggi. Ma la parola "dirigere", se la togliamo da un contesto di "fede" e di "ideologia", sia di sinistra che di destra, significa proporre con maggiore chiarezza un certo numero di riferimenti culturali. E´ impopolare dire che la sinistra per essere efficace politicamente deve esserlo culturalmente? E dire che occorrono di nuovo cose come lo studio, l´analisi e la scrittura a fornirle i presupposti e le parole chiave del suo linguaggio? E se insistiamo che i generici "valori" li lasciamo ai comizi, ma che nei luoghi del dibattito cerchiamo ragionamenti intorno ai passaggi storici, ai modelli interpretativi, alle figure dimenticate? Che pensiamo che solo così si costruiscano le "identità" della sinistra in Italia oggi?
Forse oggi la sinistra, per sapere chi è, dovrebbe chiedersi come costruirsi nuovamente un linguaggio, una "cassetta degli attrezzi" per dirla con Wittgenstein, pieno di storia e di significato; chiedersi come dare abbastanza spazio alle persone più adatte a costruirlo e come non trasformare i concetti migliori in merce spendibile prima di averli elaborati - come fa per esempio nel suo ultimo libro, Per la verità (Laterza 2007), il filosofo Diego Marconi intorno a due concetti, verità e relativismo, frequenti nel dibattito politico e giornalistico corrente. Non vogliamo nuovi "miti" e nuovi "ideologie", ma proprio per questo non abbiamo paura di affermare che oggi più che mai servono buoni maestri, per fare strada.

Corriere della Sera 9.3.08
«Riabilitare Lutero», duello tra Financial Times e Vaticano
Il quotidiano economico: «Dal Papa solo un'operazione cosmetica». La Santa Sede: «Nessun fondamento»

CITTA' DEL VATICANO — Ha tagliato corto, ieri sera, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, rispondendo all'ironia di un editoriale del Financial Times che criticava la Santa Sede per una supposta riabilitazione di Martin Lutero immaginando paradossalmente perfino un «recupero nel gregge» di Enrico VIII. «L'editoriale del Financial Times non ha alcun fondamento, in quanto non è prevista nessuna riabilitazione di Lutero», ha dichiarato senza aggiungere commenti alla sferzante ironia del quotidiano inglese.
Tutto sembra nascere dall'indiscrezione non confermata della Stampa che annunciava alcuni giorni fa un seminario estivo a Castelgandolfo del pontefice dedicato al grande riformatore con possibili ripensamenti sul suo pensiero. L'indiscrezione è diventata un fatto sul Times di Londra, che l'ha registrata, ed è divenuta motivo d'ironia per il prestigioso quotidiano economico che fa rientrare l'ipotetica riabilitazione di Martin Lutero fra i «cambiamenti cosmetici » di papa Ratzinger che non ne «intaccano» il dogmatismo. E a conferma di simili operazioni «cosmetiche » il giornale cita la «curiosa decisione» di erigere una statua a Galileo Galilei nei giardini Vaticani, di fronte alla Casina di Pio IV, sede della Pontificia Accademia delle Scienze. Per il Financial Times, entrambe le operazioni «mirano a presentare un aspetto più liberale di Benedetto XVI» e «non sono convincenti».
Da parte sua il Papa prosegue per la sua strada. Ieri ha lanciato un preoccupatissimo allarme: «La vita ecclesiale è seriamente minacciata: perfino i vescovi sembrano scivolare verso la superficialità e l'egocentrismo sotto la spinta della mentalità edonistica e consumistica predominante». Non avevano mai raggiunto finora la gerarchia episcopale gli allarmi che Benedetto XVI va lanciando con insistenza da tempo contro la «secolarizzazione che invade ogni aspetto della vita quotidiana». Benedetto XVI ha fatto riferimento per la prima volta anche ai «pastori» rivolgendosi ai partecipanti al Pontificio Consiglio della Cultura, riuniti in Vaticano per difendere la Chiesa dalla «sfida della secolarizzazione », tema scelto dal neopresidente, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi.
Insomma, la secolarizzazione non è più e soltanto «una minaccia per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall'interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti».
Ad elencare i «peccati» più vistosi di una società sempre più segnata dall'edonismo ci ha pensato poi uno dei collaboratori del pontefice al quale è affidata la responsabilità di pronunciarsi per suo conto sui temi del «foro interno», il reggente del Tribunale della Penitenzieria apostolica, monsignor Gianfranco Girotti. Ha indicato in un articolo sull'Osservatore Romano le «aree» dove si registrano «atteggiamenti peccaminosi » e, come il Papa, ha guardato anche all'interno della Chiesa, citando i casi di pedofilia che hanno coinvolto sacerdoti.

Corriere della Sera 9.3.08
Derrida. Bioetica, giustizia, politica: che fare?
«Il futuro è una chance, non ingabbiatelo»
di Jacques Derrida

Kant e Lenin un testamento per il domani
di Pierluigi Panza
Nel luglio del 2001, alcuni studiosi riuniti nel castello de Castries in Linguadoca per un convegno, decisero di raccogliere alcune riflessioni in un libro da pubblicare in occasione del 65mo compleanno di Jacques Derrida, il 15 luglio 2005. Ma la malattia si portò via il filosofo un anno prima.
Queste riflessioni, curate da René Major, escono comunque ora dall'editore Stock in Francia (AA.VV., Derrida, pour les temps à venir, Stock, pp. 530, e 30) con un contributo inedito del padre del Decostruzionismo offerto per la pubblicazione da Marguerite Derrida.
Questo contributo s'intitola Pensier ce qui vient e qui ne presentiamo un estratto tradotto.
Derrida, che si muove nell'ambito hegeliano dell'analisi della tradizione operando sulla scomposizione del linguaggio, invita in questo saggio a decostruire il presente per pensare a un futuro di «apertura» per il cittadino cosmopolita.
L'invito rivolto a politica, scienza e media è quello di interrogarsi nuovamente sulla domanda di Kant e di Lenin «che fare?» e in vista di «quale uomo».
Derrida, come da suo approccio, non fornisce una risposta definitoria, ma invita a non pensare agli esiti di scienza, giustizia e politica come un fine («telos») determinato a priori. In tutti i campi si deve sempre supporre una «inadeguatezza incalcolabile», una «disgiunzione infinita» che non è negativa, ma una chance per l'avvenire.

La domanda kantiana risponde (infatti una domanda già risponde) a quello che Kant chiama l'interesse della mia ragione. Un interesse che è al tempo stesso speculativo e pratico e lega fra di loro tre domande: «Cosa posso sapere?» (Was kann ich wissen?), domanda speculativa; «Cosa devo fare? » (Was soll ich tun?), domanda morale che, in quanto tale, non appartiene precisamente alla critica della ragion pura; e «Cosa mi è consentito sperare?» (Was darf ich hoffen?), che è al tempo stesso pratica e speculativa. (...) Ma se la domanda della speranza si lega a ciò che viene come «ciò che deve accadere», se essa non solo è sempre presupposta, implicata dalla domanda speculativa del sapere e dalla domanda pratica del «cosa fare?», ma unisce queste ultime fra loro, sappiamo anche che altrove Kant sottopone queste tre domande ad una quarta. Quale? Quella dell'uomo («Cos'è l'uomo?») e dell'uomo come essere cosmopolitico, come cittadino del mondo. (...) È utile sottolineare che oggi l'orizzonte regolatore, che si è come de-costruito da sé, è più indeterminato che mai, così come lo è la risposta, fosse pure per anticipazione e supposizione, alla domanda «cos'è l'uomo?»; per non parlare di quella che riguarda il mondo, l'uomo come cittadino, come qualcosa che può legare o meno la democrazia allo Stato e alla nazione. Quella dell'essenza dell'uomo non è una domanda di speculazione metafisica astratta per filosofi di professione: è una domanda che oggi si pone, nell'urgenza concreta e quotidiana, al legislatore, allo studioso, al cittadino in generale (che si tratti dei problemi inerenti al genoma detto umano, al capitale, alla capitalizzazione e all'appropriazione, statale o no, del sapere, del sapere tecnologico racchiuso nelle banche dati). È l'enorme problema della capitalizzazione e del diritto di appropriazione che resta ancora intatto davanti a noi, con la questione della proprietà in generale e la proprietà del «corpo proprio»: questione biotecnologia del trapianto, della protesiologia (prothéticité) in generale, dell'inseminazione artificiale, della madre prestatrice d'utero, della differenza sessuale e del diritto che ha la donna di disporre del proprio corpo, dell'intelligenza artificiale, della storia dei concetti che definiscono i diritti dell'uomo, il soggetto, il cittadino, i rapporti fra uomo e terra, uomo e animale, l'immenso dibattito chiamato ecologico, etc. Si potrebbe precisare tutto questo all'infinito. (...) Ecco perché (oggi ndr) non solo bisogna pensare — pensare è più urgente che mai e non si riduce all'esercizio del sapere né a quello del potere, anzi presuppone una vigilanza supplementare al riguardo —, ma bisogna pensare che le sfide del pensiero (...) devono imporsi ad ogni istante, quotidianamente, immediatamente, ad ogni passo, ad ogni frase, come non è ancora mai accaduto, a chiunque, ma in particolare a coloro che pretendono di esercitare incarichi di responsabilità politica, presso magisteri e ministeri (uomini politici di ogni genere, legislatori o no, uomini e donne di scienza, insegnanti, professionisti dei mass media, consiglieri e ideologi di ogni campo, in particolare della politica, dell'etica o del diritto).
Tutte queste persone sarebbero radicalmente incompetenti non perché, paradossalmente, sanno in anticipo, come credono quasi sempre, cos'è l'uomo, cos'è la vita, cosa vuol dire «presente», cosa vuol dire «giusto», cosa vuol dire «venire», cioè colui che arriva, l'altro, l'ospitalità, il dono, ma sarebbero incompetenti, come ritengo siano spesso, perché credono di sapere, perché sono in condizione di sapere e sono incapaci di articolare queste domande e di imparare a formarle. Non sanno né dove né come si siano formate, e dove e come imparare a ri-formarle.
Avrei voluto proporre un argomento analogo a quello del Che fare? di Lenin, scritto nel 1901-1902, ma il tempo manca. Ricordiamo ciò che in quel testo, come nel testo di Kant, oggi non risulta invecchiato: la condanna dell' «abbassamento del livello teorico» nell'azione politica, l'idea che qualsiasi «concessione» teorica, secondo il termine di Marx, sia nefasta per la politica; la condanna dell'opportunismo (bisogna anche pensare e agire controcorrente), la condanna dello spontaneismo, dell'economicismo e dello sciovinismo nazionale (il che non sospende i doveri nazionali), la condanna della «mancanza di spirito d'iniziativa dei dirigenti» politici, cioè rivoluzionari, che dovrebbero saper rischiare e rompere con le facilità del consenso e delle idee preconcette (è quanto propone Alain Minc in un libro in fondo molto leninista). E ancor meno invecchiata è l'analisi di ciò che lega l'internazionalizzazione, la mondializzazione del mercato, come della politica, alla scienza e alla tecnica. Tutto questo si lega nel Che fare? di Lenin. (...) Poiché non è mia intenzione fare l'apologia di Marx o di Lenin, e ancor meno del marxismo-leninismo in blocco, desidero soltanto situare in breve il punto in cui Lenin sutura a sua volta e la domanda del «che fare?» e la possibilità radicale di disgiunzione, senza la quale non esistono né la domanda «che fare?», né sogno, né giustizia, né rapporto verso ciò che viene come rapporto verso l'altro. Questa sutura, o saturazione, condanna alla fatalità totalizzante e totalitaria dei rivoluzionarismi di sinistra e di destra. Il fatto è che Lenin giudica la sfasatura con il metro della «realizzazione», dell'adempimento adeguato di ciò che egli chiama il contatto fra sogno e vita. Il telos di questo adeguamento suturante — che, come ho cercato di dimostrare, chiudeva anche la filosofia o l'ontologia di Marx — chiude l'avvenire di ciò che viene. Impedisce di pensare quello che, nella giustizia, suppone sempre inadeguatezza incalcolabile, disgiunzione, interruzione, trascendenza infinita. Tale disgiunzione non è negativa, è l'apertura stessa e la chance dell'avvenire, cioè del rapporto con l'altro come ciò che viene e viene ancora e sempre.
© Éditions Stock Traduzione di Daniela Maggioni

sabato 8 marzo 2008

l'Unità 8.3.08
IL RILANCIO DEL QUOTIDIANO: 24 PAGINE E FULL COLOR
Look da tabloid per «Liberazione»
Sansonetti: cambia come la sinistra

Oggi è in edicola con una nuova veste grafica e tra un paio di settimane sarà distribuita l’edizione serale, come free-press a Roma e Milano, nelle stazioni delle metropolitane e nelle università. Novità in vista per “Liberazione”, il quotidiano di Rifondazione comunista. Ad illustrare la nuova veste grafica, formato tabloid e 24 pagine full color, è Piero Sansonetti con al fianco Franco Giordano e Sandro Curzi. «Sarà un giornale politico, forte - annuncia il direttore - sarà il giornale dell’opposizione, con molta cronaca e approfondimenti ma anche intrattenimenti». Più spazio agli spettacoli e tornano le pagine sportive. «Sarà un giornale completo - dice Sansonetti - vogliamo essere un primo giornale, che dà forza, nerbo, idee, capacità di discutere alla Sinistra, cioè all’unica opposizione che ci sarà dopo le elezioni». Scherza a tal proposito Sansonetti, sorridendo in direzione di Giordano: «Magari il segretario del Prc non sarà d’accordo, ritenendo sicura la vittoria alle elezioni e Fausto Bertinotti che sarà chiamato a guidare il governo. Ma noi ci prepariamo a un altro scenario...». Sansonetti delinea «una fase politica nuova» in cui la SA starà all’opposizione. «Saremo molto orientati politicamente ma al tempo stesso molto critici, come del resto lo siamo stati finora con il governo Prodi e talvolta anche con la stessa Rifondazione. La nostra sarà un’opposizione non gridata ma ragionata, per spostare l’attenzione della politica dal teatro dei partiti alle grandi questioni tematiche». Con il formato e il nuovo progetto grafico, firmato da Federico Mininni, cambia anche il colore della testata, bianca su fascione rosso con la “a” centrale che da rossa diventa nera. Il primo numero è uscito dalle rotative alle 22,30 di ieri sera, mentre al Circolo degli Artisti cominciava la festa di buon augurio.


l'Unità 8.3.08
CAMBIO DI GUARDIA. Via Franchi e Macaluso, Polito ritorna direttore. Mentre l’escluso dalle liste Pd tira fuori i sassolini...
E al Riformista arriva il «mambo» di Caldarola
di Maria Zegarelli

Paolo Franchi si commiata dal Riformista, saluto amaro per un’avventura iniziata lasciando una «corazzata», il Corriere, per dirigere il timone «di questo piccolo naviglio» che è il Riformista di oggi ma che nelle intenzioni dell’editore Angelucci e del nuovo direttore Antonio Polito, dovrà diventare quantomeno un «vascello». Se ne va Franchi e se ne va «em.ma» (la rubrica di Emanuele Macaluso) per fare spazio a «mambo», la penna graffiante di un Peppino Caldarola che escluso dalle liste Pd tira fuori sassolini e macigni.
Scrive Franchi di aver fatto in venti mesi «un giornale non tanto di nicchia, quanto di tendenza, e quindi un gioranle programmaticamente scomodo». Per partiti e leader innanzitutto. Malacuso se ne va perché è chiaro che la sua «presenza in questo giornale non ha più senso». Polito torna e - da ieri- ricomincia al Riformista, «da dove e per andare dove?». In quella direzione, dice, che intraprese all’inizio, prima di avventurarsi «nella deludente» esperienza al Senato. Le riforme; il partito delle riforme; il clima per le riforme: da qui ricomincia e cosa farà sarà dunque «chiaro. Come lo faremo è un’altra storia. Che comincia oggi. L’editore mi ha infatti dato l’incarico di rifondare questo piccolo giornale per farne qualcosa che assomigli sempre di più a un giornale e sempre meno a un foglio di opinioni». Mambo inizia dall’inserimento off limits di Giovanni Lumia nelle liste del Pd e dice che se restava fuori, correva rischi, «lo sapevano anche i bambini, se ne è accorto in tempo il segretario del pd». Che però ha lasciato fuori Khaled Fouad Allam, «intellettuale arabo musulmano liberale, scomparso dalla liste Pd per far posto ai portaborse e alle segretarie». Sassolini e macigni. «Chi ha fatto le liste? Si dice che abbiano alacremente lavorato Migliavacca, Franceschini, Fioroni e Latorre. Lavorato più per includere famiglie che per migliorare la compagine parlamentare». E poi, la comunicazione. Dove è finita al Loft? «Nelle formazioni plebiscitarie i problemi di comunicazione si manifestano fra il leader e una parte del notabilato. Quando si manifestano nella stanza accanto è quasi una tragedia», conclude Caldarola.
Intanto Polito lavora al suo nuovo giornale, dalla grafica, al colore, al numero delle pagine (30) e dei redattori (da 15 al doppio).

l'Unità 8.3.08
Ru486, i vantaggi superano gli svantaggi
di Silvio Viale

Nel ’99 fu registrata in 12 dei 15 Paesi della Comunità Europea, oggi la Ru486 è registrata in una quarantina di Paesi ed è sempre più utilizzata nella ricerca clinica in molti campi della medicina

Eugenia Roccella e Assuntina Morresi sono impegnate da tempo in una campagna di stampa contro la RU486. Sulla base del più classico pietismo antiscientifico sono giunte a contare 16 morti e a denunciare un clima di omertà internazionale che vedrebbe complici l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), la Fda (Food and Drug Administration, «Agenzia per gli alimenti e i medicinali»), l’Emea (European Medicines Agency, «Agenzia europea per i medicinali») e le agenzie farmacologiche di mezzo mondo. Non badando troppo alla insistente ripetitività dei loro articoli, ho preferito continuare a documentarmi sulle riviste scientifiche, relegando al campo del furore ideologico le interpretazioni del duo militante anti-ru486.
Il tempo mi ha dato ragione. Nel 2005 l’OMS ha inserito la RU486 nell’elenco dei farmaci essenziali. Nel giugno 2007 la Commissione europea ha approvato le nuove indicazioni per l’Europa dopo una revisione iniziata nel dicembre 2005. Sulla base di queste indicazioni nel novembre 2007 è stata avviata dalla Francia una procedura di mutuo per l’Italia, come quella che nel 1999 portò a registrare la RU486 in 12 dei 15 Paesi della CE. Oggi la RU486 è registrata in una quarantina di Paesi ed è sempre più utilizzata nella ricerca clinica in molti campi della medicina. Grazie anche alle polemiche, che hanno scoraggiato la ricerca di nuove molecole, è l’unico farmaco della sua categoria utilizzato nell’uomo da venti anni. Un elenco parziale di queste ricerche riguarda varie indicazioni ostetriche, i tumori di ovaio, utero, prostata e mammella, l’endometriosi, i miomi, il meningioma, la depressione bipolare, i disordini psicotici affettivi, l’Alzheimer, la sclerosi multipla, la sindrome di Cushing e lo stress postraumatico.
Si tratta quindi di un farmaco, peraltro già autorizzato in Italia dal 1999 per la Sindrome di Cushing, ed il fatto che gli oppositori si ostinino a definirlo un «chimico» rende bene l’idea del pregiudizio; nessuno definirebbe un chimico qualunque altro farmaco. Ugualmente, termini come kill-pill, pesticida umano o diserbante possono essere efficaci nella polemica giornalistica, ma minano la credibilità scientifica di chi li adopera. L’ovvia intenzione è quella di terrorizzare le donne e insinuare il dubbio in un mondo politico scientificamente pigro, disattento ed opportunista. Ripetere insistentemente lo «scandalo» delle morti si presta bene a creare incertezza, facendo leva sull’emotività.
Per esemplificare, pensate un po’ cosa accadrebbe se due giornaliste donne raccontassero le storie delle almeno trenta donne che ogni anno muoiono in Italia per gravidanza e accusassero di omertà il sistema sanitario, le associazioni professionali e la stampa. A conferma dello scandalo, nessuno sa quante siano le donne che muoiono in gravidanza in Italia, al di là del tasso ufficiale di 6-7 per 100.000 gravidanze. Sarebbe facile sostenere che nessuno se ne cura, a parte qualche articolo a sensazione, con la rituale dichiarazione strampalata di qualche politico di turno del tipo che «non è possibile morire in gravidanza nel 2000 in Italia». Eppure di gravidanza si muore ancora, come sporadicamente si muore anche per aborto.
La storia delle morti per RU486 è una grande mistificazione statistica e mette assieme cose diverse.
L’unica cosa importante è la segnalazione di sei morti in Nord America per shock settico attribuite cinque al Clostridium sordellii e una al Clostridium perfrigens.
Su queste morti l’Emea esclude «un nesso potenziale con il mifepristone» e negli Stati Uniti si è avviato un monitoraggio. Approfondendo il tema a ritroso, si è scoperto come tali infezioni, sebbene rare, siano state segnalate in neonatologia, in ortopedia, tra i tossicodipendenti e in altre condizioni mediche. In una review del 2006 sono elencati 45 casi, da 17 giorni di età a 95 anni, con una mortalità complessiva del 70%, che diventa 100% per i 15 casi di ostetricia: otto casi dopo il parto, due per aborto spontaneo e cinque per aborto medico. Il Clostridium è stato isolato anche i sei neonati dei quali cinque morirono. Come scrive l’Aifa nel numero di ottobre della propria rivista si tratta di «un numero limitato di eventi rari senza un chiaro legame fisiopatologico con il metodo utilizzato». Importante è che il medico lo sappia e che la donna sia informata. Nello studio clinico dell’Ospedale S.Anna di Torino si informava di un rischio di mortalità di 1 per 100.000, che ovviamente non ha scoraggiato alcuna donna dal parteciparvi.
Come già accennato, nel loro elenco Roccella e Morresi mescolano cose diverse, con differenti livelli di evidenza.
Per quanto riguarda le morti inglesi, non ufficialmente confermate, si deve ritenere che le indagini delle autorità sanitarie abbiano escluso ogni nesso causale. Il caso svedese riguarda una complicazione emorragica in una paziente che non si è recata in ospedale, come avrebbe dovuto fare. Quello francese del 1991 è legato all’uso endovena della prostaglandina che si utilizzava all’epoca per gli aborti terapeutici e che da tempo non si utilizza più. In Italia abbiamo continuato ad utilizzarla fino a pochi anni fa. Il caso cubano che riguarda un aborto del secondo trimestre eseguito con le sole prostaglandine, senza RU486 (cioè nello stesso modo come lo facciamo in Italia) che è stato segnalato al congresso della FIAPAC (associazione europea operatori aborto e contraccezione) da un medico spagnolo che passa molto tempo a Cuba. Non è stato nascosto, come continuano sostenere Roccella e Morresi, ma comunicato a centinaia di persone, a riprova di come le infezioni da Clostridium siano sempre da tenere presente in ostetricia. Quello cubano è un caso in cui la RU486 non c’entra nulla.
Per quanto riguarda la morte per gravidanza extrauterina, la RU486 non è la responsabile, non essendo la RU486 che provoca la gravidanza. Al massimo vi è un errore di conduzione clinica in un caso misconosciuto di gravidanza extrauterina. Sebbene le gravidanze extrauterine siano temute, la mortalità è di 60 per 100.000, il trattamento medico è ormai in uso consolidato con un farmaco «off label», cioè senza autorizzazione, che da anni è somministrato negli ospedali italiani. Dopo la somministrazione le donne sono dimesse in attesa che la gravidanza si spenga e tornano in ospedale solo per dei controlli. Nessun ginecologo inserirebbe mai una morte per gravidanza extrauterina tra le morti per RU486.
Il punto forse è proprio questo. Leggendo gli articoli di Roccella e Morresi si deduce che il duo anti-RU486 non conosca le dinamiche dell’aborto e sia mal consigliato da medici che non fanno aborti. Solo così si spiegano la sottovalutazione dei sintomi e delle complicazioni dell’aborto chirurgico, da un lato, e le esagerazioni dei sintomi dell’aborto medico. Solo così si spiega come venga sottolineato negativamente che un terzo delle donne abbia bisogno di un antidolorifico per l’aborto medico, dimenticandosi che in quello chirurgico l’anestesia è somministrata al 100%. Solo così si spiega l’uso sproporzionato della parola emorragia. Solo così si può raccontare la favola dell’aborto che dura giorni, quando i sintomi sono legati alla prostaglandina (il farmaco del terzo giorno), mentre non ve ne sono dopo la Ru486 (il farmaco del primo giorno). I sintomi di fatto si limitano al periodo espulsivo, riducendosi subito dopo. Ovviamente, sempre, con le dovute eccezioni. Comunque, non è vero che l’aborto dura tre giorni o più.
D’altro canto, nell’aborto chirurgico le complicazioni tardive sono superiori a quelle che vengono rilevate nella scheda istat compilata al momento delle dimissioni. Il rischio di un secondo intervento è di almeno l’1%. Tornando all’elenco di morti, comunque venga allungato, esso implica un rischio minimo vicino a zero, che occorre non sottovalutare, ma che non può essere preso a pretesto per campagne antiabortiste contro la RU486. Nel Nord America il rischio di mortalità stimato per l’aborto medico è di 0,8-1 per 100.000, analogo a quello per aborto spontaneo. Quello per aborto chirurgico nelle prime settimane di gravidanza è di 0,1 per 100.000, mentre nelle settimane successive è analogo. Il tasso di mortalità aumenta peraltro con l’avanzare della gravidanza. Per confronto negli Stati Uniti il rischio di mortalità in gravidanza è di 10 per 100.000. In nessun settore delle attività umane un rischio di 1 per 100.000 costituisce una limitazione.
Dire che l’aborto medico ha un rischio di mortalità di dieci volte superiore a quello medico significa dire una cosa apparentemente vera in astratto, ma in pratica è come moltiplicare zero per dieci. Esattamente come se si dicesse che proseguire una gravidanza ha un rischio di mortalità di 10 e 100 volte superiore all’aborto, con il conseguente implicito paradossale suggerimento che sarebbe meglio abortire. Non sono argomenti di questo tipo che possono imporre una scelta al medico e alla donna, o che possano suggerire di vietare la RU486.
Appena sarà registrata, la «pillola abortiva» potrà essere utilizzata negli aborti terapeutici, riducendo i rischi connessi all’uso della sola prostaglandina, e negli aborti nelle prime settimane di gravidanza come alternativa all’aborto chirurgico.
La suggestione è alimentata dal fatto che è difficile avere un’esatta dimensione di un rischio, poiché molti fattori entrano in gioco nella sua percezione. Se, per esempio, si leggesse un ipotetico «bugiardino» dell’automobile con gli stessi criteri con i quali leggiamo quello dei farmaci, probabilmente non dovremmo più salirci sopra, ma il bisogno di spostarsi in auto ci fa sorvolare sui rischi dell’automobile. Se il rischio di mortalità del mifepristone è 1 per 100.000, quello del Viagra, è di 5 per 100.000 ricette, cioè maggiore, ma Roccella e Morresi non chiedono di proibire il Viagra. Come maggiori sono i rischi di morire in automobile e nella gravidanza a termine.
Il rischio per una donna di morire per la RU486 è uguale a quello di essere assassinata, cioè circa 1 su 100.000, ed è inferiore di solo 100 volte a quello di essere colpita da un fulmine, che è di 1 su 10.000.000. A Eugenia Roccella, ad Assuntina Morresi e ai loro emuli voglio dire che le storie delle donne morte per aborto sono sempre tragiche, come lo sono sempre quelle, purtroppo più numerose, delle donne che muoiono in gravidanza. Aggrapparsi a loro per vietare la Ru486 è disonesto ed ha il sapore di una mossa disperata, poiché allo stato attuale la RU486 non è un farmaco pericoloso e i vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi.
* ginecologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino

Repubblica 8.3.08
Su Lancet uno studio francese realizzato su piccoli che hanno raggiunto i 5 anni: a soffrire soprattutto il cervello
"Bambini prematuri, troppi rischi Tre su quattro non sono sani"
Uno su cinque non cammina, il 25 per cento ha invece un handicap lieve
di Elena Dusi

ROMA - Vivi, ma a quale prezzo. Ai bambini nati prematuramente la medicina offre più chance di vita rispetto al passato. Ma non sempre garantisce anche la salute. Lontano dai dibattiti etici e basandosi su indagini mediche, lo studio francese "Epipage" è andato a controllare come stanno oggi i bambini che 5 anni fa nacquero prematuri. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Lancet.
Su 2901 bambini venuti alla luce nel 1997 in Francia con meno di 33 settimane di gestazione alle spalle, 2357 sono arrivati al quinto compleanno. Ma tutti avevano passato almeno 24 settimane nel pancione: nessuno dei neonati di 22 o 23 settimane è vivo oggi. Il 77% ha un problema di salute. A soffrire in modo particolare è il cervello, che impiega più tempo a maturare nel pancione. Non a caso i deficit ricorrenti nei prematuri sono proprio neurologici: difficoltà nel coordinare i movimenti, ritardi mentali, cattivo funzionamento degli organi di senso e deficit cognitivi proprio alla vigilia dell´ingresso a scuola. Il 5% dei piccoli studiati ha 5 anni ma non cammina, ha funzioni mentali ridotte al minimo e gravi problemi di vista o udito. Il 9% riesce almeno a camminare, se aiutato. Al 25% dei bambini è stato diagnosticato un handicap lieve: un punteggio tra 70 e 84 in un test di intelligenza che ha 100 come media e problemi lievi a occhi e orecchie.
A tre giorni dal parere del nostro Consiglio superiore di sanità che raccomanda di rianimare qualunque prematuro, Lancet aggiunge spunti di discussione. «Se il bambino presenta segni di vitalità il medico non ha scelta: deve rianimarlo. Non possiamo mai essere sicuri dell´età gestazionale» sostiene Claudio Fabris, presidente della Società italiana di neonatologia e professore all´università di Torino, uno degli esperti consultati dal Consiglio superiore di sanità. «I progressi medici, oltre a far aumentare la sopravvivenza, riducono anche i problemi della crescita». Béatrice Larroque che ha diretto Epipage solleva dei dubbi: «La riduzione della mortalità ci invita a riflettere sull´alta percentuale di bambini con seri problemi di sviluppo» scrive. Aggiungendo: «Bisogna prestare molte attenzioni alle cure e ai costi per i prematuri. I disturbi cognitivi richiedono attenzioni speciali lungo tutto il corso della vita». In Italia nel 2003-2004 è stato avviato lo studio Action, ma i bambini dovranno aver compiuto almeno 5-6 anni prima di consentire diagnosi eloquenti. «Il problema - spiega Maria Serenella Pignotti, neonatologa dell´ospedale pediatrico Meyer di Firenze - è la mancanza di assistenza alle famiglie. Non possiamo tenere il neonato in terapia intensiva, farlo sopravvivere e poi restituirlo ai genitori come fosse un pacchetto». La Pignotti nel 2006 curò la Carta di Firenze, il documento dei neonatologi che raccomandava "solo cure compassionevoli" al di sotto della 23esima settimana. «Dovremmo basarci più sulle evidenze scientifiche che non sulle questioni di principio. "Vita" e "morte" sono parole altisonanti e hanno un impatto sull´opinione pubblica. Ma non possiamo permetterci di infischiarci della vita che questi bambini faranno crescendo».

Repubblica 8.3.08
Diliberto lascia per l'operaio Thyssen
di Paolo Griseri

Polemica col Pd, poi l´annuncio del leader comunista: rinuncio al seggio
Il delegato Fiom, Argentino, prima escluso, correrà come capolista in Piemonte

ROMA - Alle quattro del pomeriggio il delegato di fabbrica Ciro Argentino, rappresentante della Fiom alla Thyssen di Torino, reparto cinque, diventa, nei fatti, parlamentare della Repubblica. Lo nomina, rinunciando al suo posto di capolista, Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Pdci, con una breve dichiarazione: «I comunisti sono diversi da tutti gli altri. Per questo lascio il Parlamento e al mio posto ci sarà Ciro Argentino». Gesto subito apprezzato da compagni di partito e avversari. Gesto arrivato dopo una mattinata di passione con il Pd che ironizza sul partito operaio che esclude dalle liste gli operai.
Fin dalla lettura dei giornali l´esclusione di Argentino dalle liste della Sinistra Arcobaleno fa discutere. Due erano infatti gli operai della Thyssen che avevano dato la disponibilità a presentarsi alle elezioni: Angelo Boccuzzi, delegato Uilm, sopravvissuto al fuoco della linea 5 e candidato nelle liste del Pd. E Ciro Argentino, da sempre iscritto al partito di Diliberto. Ma a Torino le liste della Sinistra Arcobaleno vengono presentate in conferenza stampa alle 11,30 e, come previsto, Ciro non c´è. Nel complicato puzzle che deve mettere insieme Pdci, Verdi, Sd e Prc, i posti sicuri finiscono ai dirigenti: alla Camera, per Torino e provincia vengono candidati Diliberto, Grazia Francescato e Daniela Alfonzi, parlamentare uscente di Rifondazione. Il fatto è che Argentino non è un esterno, un operaio della società civile. Da anni è un militante organico dei Comunisti italiani e come tale viene trattato. Per il Pdci c´è un solo posto sicuro e quello finisce a Diliberto.
L´ironia del Pd si spreca. Brucia la critica di Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil, una lunga storia che parte dallo Psiup e che arriva alla candidatura al Senato nel partito di Veltroni: «Che fine hanno fatto - chiede Nerozzi - tutti quelli della Sinistra arcobaleno che rimproveravano operai e sindacalisti di stare in lista nel Pd vicino agli imprenditori? Perché nessuno oggi alza un dito contro l´esclusione di Argentino?». Chi di Calearo ferisce di Argentino perisce. «Tra Diliberto e Argentino uno dei due era di troppo, l´operaio», dice un altro sindacalista Cgil candidato da Veltroni, Achille Passoni, facendo il verso a Bertinotti.
A metà mattinata la situazione è già imbarazzante. Parte verso mezzogiorno la controffensiva di Manuela Palermi, capogruppo del Pdci in Senato: «Il Pd è ridotto male se ricorre a queste volgarità. Ciro sta partecipando alla campagna elettorale di Diliberto ed è felice di poter sostenere il segretario». Ma è fin troppo facile per il collega di fabbrica di Argentino, Boccuzzi affondare il colpo: «Mi sarebbe piaciuto essere in Parlamento assieme a Ciro. Leggo sui giornali che non sarà così perché le logiche della vecchia politica hanno fatto saltare la sua candidatura».
Così, alle 16,09, Oliviero Diliberto annuncia il colpo di teatro: «Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni». La mossa spiazza tutti. Fausto Bertinotti appare imbarazzato: «Diliberto rinuncia? No comment». Ma il leader del Prc, Franco Giordano, si complimenta: «Scelta meritoria». È evidente che la scelta del segretario del Pdci toglie parecchie castagne dal fuoco al partito sul piano dell´immagine. Si capisce dalla reazione immediata di chi in mattinata difendeva l´esclusione di Argentino e ora loda il passo indietro di Diliberto. Manuela Palermi si dice «orgogliosa della scelta del segretario del mio partito che rinuncia alla candidatura a favore dell´operaio comunista della Thyssen».

Repubblica 8.3.08
La sinistra in crisi che si inventa una tradizione
di Marc Lazar

La questione peraltro è meno nuova di quanto appaia: ha fatto scorrere fiumi di inchiostro nel corso della lunga traiettoria del movimento operaio; ma di fatto si impone con più forza dalla fine degli anni ´80, con la profonda crisi che scuote la socialdemocrazia. Una crisi che si articola in quattro dimensioni principali.
Innanzitutto il suo progetto. In seguito alle prodigiose mutazioni delle società occidentali, e in particolare al progredire dell´individualismo e al crollo del comunismo, che non l´ha lasciata indifferente, la socialdemocrazia ha rinunciato all´utopia di una società perfetta, fondata sugli interessi generali della classe operaia. In secondo luogo, la crisi del suo modello di welfare, le cui capacità redistributive non reggono a fronte della globalizzazione dell´economia, delle forti critiche di segno liberale e di un crescendo delle più diverse rivendicazioni – dalla protesta contro l´alto livello impositivo alla richiesta di misure specifiche in favore delle donne o dell´ecologia. C´è poi una crisi strategica, contrassegnata dagli interrogativi sulla scelta delle alleanze politiche e sociali: è il caso di privilegiare i rapporti con le forze alla sua sinistra, con quelle di centro o con i Verdi? Come rivolgersi ai ceti medi senza perdere il contatto con le fasce popolari, sempre più inquiete per gli sviluppi in atto nella società e nel mondo? Infine, la socialdemocrazia è in crisi anche rispetto alle sue forme organizzative. Il partito di massa, o "acchiappatutto", non può più avere la sua passata funzione di struttura di identità e di cultura collettiva, anche perché i legami storici con le confederazioni sindacali, che costituivano il segno distintivo della socialdemocrazia, si sono ormai allentati.
La socialdemocrazia non è rimasta inerte di fronte a queste sfide. Ciascun partito reagisce in funzione della propria storia, del rispettivo sistema politico, delle caratteristiche della società in cui opera; tuttavia le convergenze prevalgono sulle differenze. In teoria tutto è semplice. Come dimostra Norberto Bobbio nel suo libro Destra e Sinistra, che è già un classico, la differenza essenziale tra i due schieramenti è rappresentata dal concetto di uguaglianza. Da qui discendono i principi che Anthony Giddens ha ricordato nel suo articolo pubblicato su Repubblica del 6 marzo: la sinistra si impegna nell´attuazione di politiche sociali, e intende regolare l´economia di mercato per evitare la catastrofe pronosticata da Karl Polanyi nel suo memorabile libro La grande trasformazione.
In pratica però la faccenda è più complessa. Sia nelle sue proposte che nelle politiche portate avanti quando è al potere, la sinistra socialdemocratica esplora quattro grandi piste contraddittorie. Vuole assicurare la giustizia sociale e lottare contro le disuguaglianze d´ogni natura, senza però cadere nella trappola dell´egualitarismo. Al tempo stesso ha assimilato il programma liberale, accettando le privatizzazioni, la competitività delle imprese e la modernizzazione dello stato sociale. Recepisce con entusiasmo – tranne che in Italia – le esigenze post-industriali di tipo libertario, riservando ampi spazi all´individualismo, al femminismo, all´ambiente, alla libertà dei costumi, alla difesa delle minoranze, all´accettazione delle differenze (che non sempre si concilia col principio dell´uguaglianza). Ha fatto proprie anche le tematiche della legalità, dell´ordine e della sicurezza, sulla spinta populista manifestata dall´elettorato dei ceti meno abbienti. Infine si sforza di parlare agli esclusi, ai precari, ai giovani, a chi è "out" e non solo a chi è "in". Vuol dire che la linea di confine rispetto alla destra è assai meno netta? Indubbiamente; ma al termine di un duplice processo, che riflette bene l´evoluzione delle nostre società. Difatti, se la sinistra presenta evidentemente qualche punto in comune con la destra, quest´ultima assume a sua volta varie connotazioni della sinistra, nella misura in cui ammette la necessità di politiche sociali, e non osa mettere in discussione le conquiste sul piano della liberalizzazione dei costumi.
Quest´importante mutazione dell´antagonismo tra destra e sinistra ha molte conseguenze. Innanzitutto tra gli elettori, che non di rado si trasformano in strateghi, strumentalizzando la destra o la sinistra a seconda dei momenti e in funzione dei propri interessi. Votano per la prima sperando in un rafforzamento della crescita, nel taglio delle tasse o in una più energica repressione della delinquenza. E si rivolgono a sinistra quando avvertono il bisogno di protezione, di redistribuzione sociale o di misure di emancipazione. Altri, soprattutto a sinistra, esprimono incomprensione o scontento per i mutati atteggiamenti dei loro rappresentanti: sono quelli che vorrebbero sempre "farla pagare ai ricchi", e sognano cambiamenti drastici. Ci vuole tempo per modificare le culture e le mentalità politiche.

Oltre tutto, i dispositivi adottati dalla destra e dalla sinistra sono diversi. La destra è più unificata intorno ai suoi leader e ad alcuni valori essenziali in cui la tradizione si mescola alla modernità. E fa riferimento a un solido blocco sociale, composto da due principali pilastri: da un lato, liberi professionisti, commercianti, artigiani, titolari di imprese; dall´altro un elettorato popolare a basso livello di istruzione, spesso avanti con gli anni, impoverito dalla modernizzazione. Quanto alla sinistra, è più che mai divisa in tre grandi componenti. La sinistra tradizionale comprende un filone radicale, generalmente di estrazione comunista, e le correnti di sinistra dei partiti socialisti; anticapitalista e antiamericana, preconizza l´estensione dello stato sociale, criticando le "capitolazioni" del riformismo. E´ minoritaria, ed esercita un´influenza culturale e politica non trascurabile in Paesi quali ad esempio l´Italia, la Francia e la Germania, dove l´ex socialdemocratico Oskar Lafontaine ha formato con gli ex comunisti il partito Die Linke. Il secondo filone è quello della sinistra che si adatta, rimanendo però fedele alla sua storia; in questo senso è emblematico il Ps francese, che si dichiara riformista ma si adopera per non avere nemici a sinistra.
Resta l´ultima componente – ben rappresentata dal Labour, dall´Spd e oggi dal Pd - che vuol andare al di là delle frontiere abituali della sinistra aggregando tutte le sensibilità del riformismo. E si propone di avviare un cambiamento ragionato, reale e sistematico della società attraverso un´azione pragmatica e durevole. La posta in gioco è di vasta portata, il disegno ancora vago, i metodi incerti, l´operazione rischiosa. Ma quest´invenzione di una tradizione tratteggia forse una risposta politica alle mutazioni delle società.

Traduzione di Elisabetta Horvat


Repubblica 8.3.08
Come è hard il sesso nell'Antico Testamento
di Enrico Franceschini

In Gran Bretagna esce un libro sull´erotismo, spesso perverso e violento, raccontato nella Bibbia Stupri, bigamia, infedeltà, incesti: l´autore è un professore ebreo, che ha interpellato esperti e rabbini

Il saggio Salomone aveva un harem di 700 mogli e più di 300 concubine

Negli anni Settanta, all´epoca della liberazione sessuale, in America uscì un manuale intitolato «The joy of sex», che descriveva minuziosamente tutti i modi per ricavare il massimo della gioia da questa fondamentale attività umana. Diventò un best-seller mondiale. Adesso arriva nelle librerie del Regno Unito un volume che riecheggia quel titolo, con una provocatoria aggiunta: si propone infatti di narrare la gioia del sesso «nell´Antico Testamento». Di gioia, per la verità, nel libro sacro di ebrei e cristiani, non ce n´è tanta, perlomeno collegata al sesso; ma di quest´ultimo, in effetti, se ne può trovare in abbondanza. Sebbene sia improbabile che un parroco vi dedichi ampio spazio durante le lezioni di catechismo, la Bibbia, o meglio l´Antico Testamento, narra di incesti, bigamia, stupri, mutilazioni corporee, infedeltà e amore - inteso come «fare l´amore» - in tutte le salse.
Prendendo lo spunto da questa circostanza, generalmente trascurata dai credenti, un docente della Bangor University del Galles, il professor Nathan Abrams, di origine ebraica ma laico, ha scritto per l´appunto un libro sull´argomento, «Sex and the Jews» (Il sesso e gli ebrei - per quanto avrebbe potuto includere nel titolo anche i cristiani). O per essere precisi, è stato il curatore del libro, affidando la stesura dei vari capitoli a colleghi, esperti e rabbini. Uno di questi, un accademico americano, Jay Michaelson, scrive per esempio un saggio su se stesso, cercando di spiegare come è possibile essere contemporaneamente gay ed ebrei ortodossi, nonostante il noto passo dell´Antico Testamento in cui si afferma che gli uomini che vanno a letto con altri uomini dovrebbero venire uccisi. Un altro, Geoffrey Dennis, rabbino del Texas, esamina minuziosamente i passaggi di «teologia erotica», ovvero dei numerosi punti dell´Antico Testamento che affrontano il tema del sesso.
C´è la celebre storia di Onan, fulminato da Dio per avere «sparso il proprio seme» anziché averlo usato per dare un figlio alla moglie di suo fratello, precedentemente ucciso per avere peccato: un episodio diventato nell´educazione religiosa e nel linguaggio comune sinonimo della condanna della masturbazione, anche se dal racconto biblico sembra in verità di dedurre, scrive il rabbino, che Onan si fosse limitato a un «coitus interruptus» piuttosto che al cosiddetto «vizio solitario».
C´è Tamara, che finge di essere una prostituta per sedurre Giuda. C´è Amnon, figlio di re Davide, che stupra Tamara quando lei rifiuta di giacere con lui. C´è Dina, figlia di Lea e di Giacobbe, violentata da Shechem. C´è Lot, che dopo essersela spassata nella peccaminosa città di Sodoma, viene ubriacato e sedotto dalle proprie figlie. C´è Davide, che va a letto con Betesda, e poi ne fa uccidere il marito in battaglia per poterla sposare. C´è il saggio Salomone, che accumula un harem di 700 mogli e principesse, più 300 concubine. E così via. «Non sono un teologo e non parlo a nome di nessuno», dice il curatore del volume Nathan Abrams al quotidiano Independent di Londra, che ieri ha pubblicato un´anticipazione del suo libro. «Vorrei solo aprire una franca discussione su questioni che finora non sono state discusse in dettaglio», cioè sull´atteggiamento scioccante e repressivo, spiega, del Dio dell´Antico Testamento in materia di sesso. L´Independent ricorda in proposito che quando lo scrittore Evelyn Waugh si ritrovò intrappolato in Europa durante la seconda guerra mondiale insieme a Randolph Churchill, figlio del premier Winston, gli diede da leggere la Bibbia per «passare il tempo» e Churchill junior «ne fu visibilmente eccitato». Per tacere del protagonista del romanzo di Anthony Burgess (e del film ricavatone da Kubrick) Arancia meccanica, che rinchiuso in carcere per curarsi dalle sue devianze sessuali si procura una copia della Bibbia e sogna scene di sesso a occhi aperti, mentre i suoi guardiani credono che stia finalmente diventando un bravo cristiano.

Repubblica 8.3.08
Il passato dell'uomo in una cellula
La grande scoperta di un gruppo di genetisti

All´Università di Stanford sono stati studiati quasi mille individui di ogni parte del pianeta. Ed è confermata la tesi che l´evoluzione dell´uomo moderno è partita dall´Africa orientale
L´attuale ricerca ripercorre quella condotta, con minori mezzi, nel 1963
Un genoma è fatto di 3,2 miliardi di posizioni elementari dette nuecleotidi
Craig Venter ha completato l´analisi del proprio Dna e quello dei genitori

STANFORD. Fra le novità più straordinarie portate dalla biologia contemporanea c´è la possibilità di ricostruire il passato dell´Uomo guardando all´interno delle nostre cellule. Questo può sembrare stupefacente al profano, e senz´altro lo è. Come succede?
Ciò che più distingue gli organismi viventi dalla materia inanimata è la capacità di riprodurre se stessi, cioè di formare una copia molto precisa di sé, che in genere continua a vivere anche dopo che è scomparso l´individuo che l´ha generata. Ma nulla è perfetto a questo mondo. Nemmeno una patata è sempre del tutto identica al suo genitore. Di generazione in generazione si verificano piccoli errori di copia del materiale ereditario, il Dna (le mutazioni), che sono poi trasmessi alle generazioni successive e tendono ad accumularsi nel corso del tempo. Alcune mutazioni hanno fortuna, e si diffondono a tutti gli individui di una popolazione, magari perché portano un piccolo vantaggio, o semplicemente sotto la spinta del caso. Leggendo il Dna di moltissimi individui di ogni continente è possibile ricostruire la storia di queste mutazioni, e capire come si sono mossi per il mondo i loro portatori nell´arco di decine di migliaia di anni.
E ciò che ha fatto una recentissima ricerca compiuta nel Dipartimento di Genetica dell´Università di Stanford, diretta da Rick Myers, Luca Cavalli-Sforza e Marc Feldman, appena pubblicata sulla rivista Science. Sono stati studiati 938 individui provenienti da ogni angolo del pianeta, ricostruendo la diffusione della nostra specie negli oltre 100.000 anni trascorsi da quando Homo sapiens sapiens è apparso sulla Terra. Per capire cosa è stato fatto e cosa aggiunge alle nostre conoscenze, è bene fare un passo indietro ed entrare un po´ più nel dettaglio.
La prima analisi del genoma umano è stata conclusa nel 2002. Sono stati pubblicati due diversi genomi completi, a poca distanza uno dall´altro. Uno era, quasi per intero, quello di Craig Venter, che aveva diretto una sua iniziativa privata di ricerca. L´altro, realizzato dal Centro del Genoma Umano del governo americano, era composto di molti pezzi provenienti da individui diversi.
Il genoma di ciascuno di noi non è quello di un solo individuo, perché ognuno riceve un genoma dal padre e uno dalla madre. Molto di recente, Craig Venter ha completato l´analisi del proprio Dna descrivendo i genomi che ha ricevuto da entrambi i genitori e valutandone esattamente le differenze. Sempre di recente, è stato sequenziato il genoma di Jim Watson, co-scopritore del Dna e fra i promotori dello studio governativo. Ora è stato sequenziato anche il genoma di un africano non identificato. Altri verranno nei prossimi anni: il governo americano si propone di sequenziarne 1000 da tutto il mondo.
Sappiamo che un genoma è fatto di 3,2 miliardi di posizioni elementari, che chiamiamo nucleotidi, di cui esistono 4 forme possibili (A, C, G e T). Il genoma viene spesso descritto come un grande libro, scritto con un alfabeto di 4 lettere, che si compone di 23 volumi (i cromosomi), di cui ciascuno di noi ha due copie (un volume ereditato dal padre e l´altro dalla madre). La situazione è un poco più complessa di così, perché ciascun filamento di Dna è doppio (due copie complementari di ogni volume dal padre, e due dalla madre), ma per i nostri fini è sufficiente semplificare dicendo che in ogni posizione del genoma paterno, come di quello materno, si trova un solo nucleotide.
Nel genoma di Craig Venter si riscontra che il contributo materno e paterno differiscono solo per 1 nucleotide su 200, quindi per 15 milioni di nucleotidi. Venter è figlio di genitori anglosassoni, ma se i suoi genitori fossero venuti da popolazioni diverse e lontane la differenza fra i contributi rispettivi non sarebbe stata molto superiore, perché sappiamo che la percentuale del genoma che varia fra diverse popolazioni è sempre la stessa, vicina all´11% della variazione complessiva tra individui.
Sarebbe importante poter confrontare molti genomi individuali, ma il sequenziamento è ancora troppo costoso, e occorrerà un tempo non indifferente per conoscere i risultati dei mille che saranno sequenziati dal governo USA. A quel punto sarà possibile capire meglio l´influenza genetica sulle malattie. Si lavora anche per arrivare a sequenziare un intero genoma con una spesa di 1000 dollari, così da poter offrire un nuovo servizio importantissimo alla medicina. Fra qualche anno questo sarà possibile, ma quando è difficile dire.
Da un paio d´anni esiste però un´alternativa poco dispendiosa, resa possibile da una tecnologia messa a punto da varie industrie americane, che permette di studiare abbastanza rapidamente una frazione importante dei nucleotidi per cui il contributo paterno e materno è diverso in un individuo. Lavorando su questa strada, il Dipartimento di Genetica di Stanford ha studiato 650.000 nucleotidi (grosso modo 1/20 dei geni variabili noti) in quasi 1000 individui, provenienti da 51 popolazioni di tutto il mondo: 7 in Africa, 8 in Europa, 3 in Medio Oriente, 9 in Asia centrale, 17 in Asia orientale, 2 in Oceania e 5 nelle Americhe. Si tratta solo di indigeni, cioè di popolazioni che erano stanziate nel luogo dove ancora vivono prima dell´arrivo di Colombo, e quindi prima del grande rimescolamento di popoli portato dalla navigazione transoceanica.
Tutti gli individui esaminati vengono da una collezione di globuli bianchi del sangue, che possono fornire quantità indeterminate di Dna, stabilita su iniziativa di Luca Cavalli-Sforza. Sono stati necessari 11 anni e il contributo di una ventina di ricercatori di tutto il mondo, che hanno donato le colture cellulari al laboratorio parigino della Fondazione Jean Dausset, premio Nobel per la scoperta dei geni Hla, responsabili dell´identità immunologica degli individui. Il sangue è stato liberamente donato dagli oltre mille soggetti da cui proviene, e la collezione (Hgdp) è stata fin da principio disponibile a qualsiasi laboratorio di ricerca non commerciale (inizialmente a titolo gratuito, poi, cresciute le richieste fin quasi a cento, a prezzo di costo). Si evita così l´applicazione di brevetti al Dna, perché i laboratori sono tenuti a pubblicare in dettaglio tutti i loro risultati, e questo esclude la brevettabilità.
Si tratta dell´indagine più completa condotta finora. È comparsa su Science a un giorno di distanza da una ricerca analoga pubblicata su un´altra rivista scientifica, Nature, condotta su metà degli individui della stessa collezione HGDP e con metà degli stessi nucleotidi. Le due ricerche hanno dato risultati molto simili.
L´analisi segue i metodi, molto arricchiti da allora, introdotti per la prima volta in un articolo del 1963 dal più anziano degli autori di questo articolo e applicati ai pochi geni noti a quel tempo. Si trattava allora di soli 15 geni di gruppi sanguigni: il numero e la qualità dei geni studiati è andata sempre aumentando, ma i risultati più generali sono cambiati poco (come era del resto da aspettarsi).
Cos´è un gene? Lo scopritore dell´eredità, il monaco Mendel, aveva studiato sette caratteri trasmissibili nei piselli, e chiamò «elementi» i fattori della trasmissione ereditaria. Il più semplice di essi è un solo nucleotide del Dna. Quelli che oggi si chiamano «geni» sono segmenti di Dna piuttosto lunghi, che producono una o talora più proteine speciali. Le proteine sono gli esecutori dello sviluppo biologico (spesso paragonate ai mattoni di cui è costruito un organismo): ce ne sono almeno 30.000 tipi diversi tra loro. I geni invece trasmettono l´informazione che permette di costruire le singole proteine e assicurano la somiglianza fisica e chimica tra genitori e figli.
Fino agli anni ´80 è stato possibile studiare l´evoluzione solo su proteine, poi è diventato possibile analizzare direttamente il Dna. Nel 2005 si è riusciti ad esaminare per la prima volta un numero di geni abbastanza elevato (circa un migliaio). Tutti gli studi hanno portato alle stesse conclusioni statistiche.
Non è sorprendente che i risultati del 2008 confermino quelli del 1963, perché la storia dell´umanità è stata una sola. Ma il livello di precisione oggi è aumentato di oltre 1000 volte rispetto a pochi anni fa, e di 400.000 volte rispetto al 1963. La conclusione principale riconferma risultati più antichi: in particolare che l´evoluzione dell´uomo moderno è avvenuta, per una buona metà della sua storia, in un piccolo gruppo che viveva in Africa orientale, non distante dalla parte est dell´Etiopia. Da questo discendono tutti gli uomini oggi viventi. L´occupazione del mondo è avvenuta attraverso una lenta espansione, durata 60.000 anni, a partire da questo minuscolo gruppo, che è cresciuto di numero e ha mandato piccole colonie di pionieri nelle più o meno immediate vicinanze. Queste colonie si sono moltiplicate a loro volta e hanno mandato altri pionieri, e questo processo si è ripetuto centinaia o forse migliaia di volte.
Ogni volta che da un piccolo gruppo partono pionieri che vanno verso l´esterno e fondano un gruppo nuovo si ha un effetto genetico speciale, che si chiama «effetto fondatori», perché in un piccolo sottogruppo di individui non possono comparire tutte le varianti genetiche presenti nella popolazione di partenza. In realtà, lo stesso fenomeno si verifica non solo alla formazione di una nuova colonia, ma ad ogni nuova generazione. Quando un piccolo numero di individui fonda una popolazione nuova si ha però un momento più critico, perché i fondatori sono poco numerosi. Nei gruppi che così si formano compaiono col tempo varianti originali, ma diverse e distinguibili rispetto all´insieme di quelle della popolazione di partenza.
Poiché l´espansione è stata graduale, ci si attende che dall´inizio alla fine ci sia stata una piccola perdita progressiva di variazione genetica, che di fatto si può osservare ancor oggi in tutta la popolazione indigena del mondo. Si parla di «effetto fondatori seriale» (o «sequenziale»). Si riscontra con qualunque gene, ed è visibile in modo estremamente regolare: partendo dall´Africa orientale si ha una diminuzione progressiva della varietà genetica, fino ad arrivare alle popolazioni più lontane, nell´estremo sud dell´America meridionale e in alcune isolette più distanti dalla costa. L´effetto è modesto ad ogni nuovo passo e la sua osservazione richiede un grande numero di individui e di geni.
Per spiegare a fondo l´importanza di queste osservazioni bisognerà studiare i 6 miliardi di nucleotidi del genoma materno e paterno. In passato, la differenza tra popolazioni era stata stimata fra il 5 e il 15 per cento al paragone di quella tra individui di una stessa popolazione. Questi lavori recentissimi trovano una stima esatta dell´11 per cento, quasi esattamente la stessa percentuale per tutti i cromosomi, con una differenza importante: nel cromosoma X la differenza è del 15 per cento, per ragioni largamente casuali, che semplici teorie matematiche spiegano e prevedono.
La conclusione più elegante di questo lavoro è che aumentando il grado di dettaglio della ricerca aumenta corrispondentemente la precisione dei risultati. Lo studio del genoma fa della genetica una scienza esatta, mentre una volta la biologia era una scienza più qualitativa che quantitativa. Oggi la biologia ha raggiunto un livello di precisione paragonabile a quello della fisica: è possibile fare previsioni teoriche sull´evoluzione, in termini numerici, che risultano esatte, con i criteri più sofisticati del calcolo delle probabilità.

Corriere della Sera 8.3.08
Il caso Sputi e insulti contro Lanna al dibattito di Azione universitaria sulle donne
Sapienza, blitz delle femministe Aggredito il direttore del «Secolo»
I collettivi: ha fatto il saluto fascista. La replica: li prendevo in giro
Ritanna Armeni, invitata al confronto: la violenza è da condannare. La Polverini: persa un'occasione di dialogo
di Fabio Caccia

ROMA - Megafoni, fischietti e cori anni 70. Stavolta, all'università La Sapienza, «l'assedio sonoro» c'è stato. Non come a gennaio, quando invece saltò per la rinuncia in extremis del Papa, l'atteso bersaglio. Ieri mattina, un gruppo dei collettivi di sinistra, in tutto una quarantina di persone, per la maggior parte giovani femministe, alcune con in testa la finta tiara del popolo «No Vat», hanno contestato la tavola rotonda (intitolata «Otto marzo: pensiamo donna») organizzata a Giurisprudenza da Azione Universitaria, il braccio studentesco di An. C'erano le femministe fuori e i convegnisti dentro. Sono dovuti intervenire gli agenti del locale commissariato, diretti da una donna, Ornella De Santis, per evitare il peggio. Le ragazze con in testa la tiara «No Vat» lanciavano in aria preservativi, gridavano slogan e distribuivano volantini sull'aborto «libero e gratuito». All'uscita, però, sarebbero volati anche sputi e spintoni ai danni di due giornalisti del quotidiano di destra «Il Secolo d'Italia», il direttore Luciano Lanna e la collega Annalisa Terranova. Annalisa Bertè, di Azione Universitaria, è amareggiata: «Avevamo invitato donne di tutte le parti politiche, anche la giornalista Ritanna Armeni che certo di destra non è...». «Oltretutto - aggiunge Annalisa Terranova, la cronista aggredita - le donne contestatrici erano state invitate a parlare. Ma si sono rifiutate ». «Io quando sono arrivata - racconta Ritanna Armeni, che ogni sera conduce Otto e mezzo su La7 - ho subito capito che non era aria di convegno, sono entrata nell'aula, era vuota e così sono andata via. Non ho visto gli sputi e gli spintoni, ma la violenza è sempre sbagliata, anzi trovo umiliante per le donne ripetere certi modelli maschili. Però è indubbio che ci sia in atto, in Italia, un attacco al corpo femminile. Così mi ha fatto piacere leggere sui volantini distribuiti da quelle ragazze parole chiare sull'autodeterminazione delle donne ». C'era anche Renata Polverini, ieri mattina, segretario generale del sindacato Ugl: «Poteva essere una bella occasione di confronto, invece niente. Ma attenzione, perché quando le donne non parlano tra loro, si arretra pian piano anche sul terreno dei diritti».
Replicano i collettivi della Sapienza: «È stata una legittima e pacifica contestazione contro un'iniziativa sessista e fortemente strumentale». E non c'è stata alcuna «aggressione», secondo loro: «Il direttore del Secolo ha volutamente provocato gli studenti salutandoli con il braccio destro alzato, cioè con il saluto romano fascista. Gli studenti non hanno risposto in alcun modo, se non verbale». Lanna, però, si difende e spiega: «Loro ci gridavano fascisti e allora io, sì, ho alzato il braccio, ma solo per prenderli in giro ». Ai due giornalisti è giunta in serata la solidarietà dell'Associazione stampa romana e della Federazione nazionale della stampa: «È veramente triste che in un luogo deputato al sapere, alla formazione delle coscienze e delle idee - afferma la Fnsi in una nota - si ripetano ciclicamente episodi di violenta intolleranza».

Corriere della Sera 8.3.08
Sì dei ginecologi all'idea dell'organismo ministeriale. «Accesso facilitato al farmaco del giorno dopo»
La pillola gratis che divide i medici
Proposta della Commissione Salute. I dottori cattolici: superficiale
Ora vengono rimborsate dal servizio sanitario solo le pillole di dosaggio medio, più datate e meno usate

ROMA — Il Paese meno aperto alla pillola (la prendono appena il 25% delle italiane in età fertile) apre alla pillola. Proprio così. Per la giornata dell'8 marzo fra le proposte della Commissione salute della donna, ministero della Sanità, vicepresidente Maura Cossutta, c'è la gratuità degli anticoncezionali a basso dosaggio. Quelli di ultima generazione con una quantità di estrogeni inferiore ai 20 microgrammi. Tra i punti salienti del Rapporto Osservatorio Donna un accesso agevolato alla pillola del giorno dopo, da prendere entro le 48 ore dal rapporto sessuale potenzialmente a rischio. Chi la richiede al pronto soccorso potrebbe ricevere il cosiddetto codice verde, cioè una priorità nel ricevere l'assistenza dei medici. Idea definita «delirante » da Luca Volontè, Udc.
Dunque contraccezione orale per tutte. Ora vengono rimborsate solo le pillole di dosaggio medio, più datate. Michele Grandolfo, epidemiologo dell'Istituto superiore di sanità, precisa e polemizza: «La pillola gratuita è già prevista dalla legge 405 istitutiva dei consultori. Se ancora non è così, è perché in Italia c'è qualche problema ».
Comunque sia, la proposta della Commissione di Livia Turco va considerata una sorpresa se non altro per le reazioni. Perplessi i medici cattolici, presieduti da Vincenzo Saraceni che temono che un simile allargamento conduca ad un «uso superficiale. Sono contrario ad ogni pratica che porti all'aborto diretto o indiretto ». E Isabella Bertolini, FI: «Facilitare un uso scriteriato impedisce la maturazione sessuale». Per Vittoria Franco, Pd, invece «è giusto puntare sulla contraccezione per prevenire l'aborto». Favorevoli anche i ginecologi dell'Associazione Aogoi, che riunisce gli ospedalieri. Erminia Emprim, Sinistra arcobaleno: «Per prevenire l'aborto serve educazione sessuale nelle scuole».
Il ministero propone inoltre che vengano messi in commercio confezioni da 6 blister in un'unica scatola, anziché singole, e che siano gratuite per le donne meno abbienti la spirale - al rame o il tipo medicato con estrogeni - e il diaframma, in realtà caduto in disuso perché scomodo e legato all'applicazione di crema spermicida. Attualmente sono una decina le pillole al di sotto dei 20 microgrammi in fascia C, a pagamento, oltre a cerotto e anello anticoncezionale (15 mg). Organon Shering Plough, una delle aziende all'avanguardia nella ricerca di contraccettivi sicuri, si sta muovendo nella direzione di estrogeni naturali che rendano la pillola ancora più tollerata.
Il Rapporto insiste, poi, sulla presenza di ginecologi non obiettori della legge 194 sull'aborto nei distretti territoriali, corrispondenti più o meno a una Asl. Dovrebbero essere presenti almeno quattro volte la settimana. Infine attenzione al percorso nascita. Dovrebbero essere chiusi i centri maternità con meno di 550 parti l'anno, selezione che garantirebbe maggiore sicurezza per mamma e bambino.
Margherita De Bac

Corriere della Sera 8.3.08
Biografie. Spielrein, pioniera trascurata e fraintesa
Sabina, Jung e l'eros: così la paziente amata divenne una psichiatra
di Marco Garzonio

La storia d'amore tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein è ormai nell'immaginario collettivo. Sulla vicenda Roberto Faenza ha realizzato una pellicola di successo, Prendimi l'anima. Come appare in maniera amplificata nel film, il «caso» contiene gli ingredienti dello «scandalo », della curiosità, di un certo voyeurismo. V'è lui, Jung, trentenne psichiatra di sicuro successo, che fa saltare le regole della «giusta distanza» (l'espressione al proposito è di Mario Trevi, il grande vecchio dello junghismo italiano, nel recente Invasioni controllate, scritto col figlio Emanuele). V'è lei, Sabina, dieci anni di meno, la paziente, ebrea russa, conquistata da chi l'ha tratta fuori da una brutta isteria, per la quale fu ricoverata dal 17 agosto 1905 al 1˚ giugno 1906 al Burghoelzli, l'ospedale psichiatrico di Zurigo. Su di lei Jung, medico senior, applicherà per la prima volta il «metodo freudiano». V'è Freud, il padre della psicoanalisi.
Quando il giovane collega gli confessa il pasticcio (grazie alla Spielrein cominceranno i rapporti tra i due; sino ad allora Jung aveva solo letto i libri di Freud) collude con lui, un po' per cultura maschilista diranno i critici, un po' per indulgenza verso il collega di cui vede il valore e grazie al quale punta a nuove alleanze oltre i circoli ebraici, un po' per tutelare la «sua» nuova scienza.
Tanto materiale scabroso negli anni ha finito per tenere nell'ombra l'«altra verità». Soprattutto quella di lei, di Sabina Spielrein, che diventerà anch'ella psichiatra, sarà accolta nella cerchia di Vienna, opererà a Ginevra (Piaget farà analisi con lei), anticiperà di almeno 15 anni i lavori della Klein, di Winnicot, la infant obsevation e, tornata in Russia col marito e le due figlie, vi introdurrà la psicoanalisi, cavandosela rispetto alle difficoltà poste dal regime sovietico, sino all'arrivo dei nazisti nella sua Rostov sul Don, nel '42, e alla scomparsa in una forra con altri ebrei.
Un libro ora restituisce alla Spielrein l'immagine forse più dolente e autentica di fiera, autorevole, feconda «pioniera dimenticata della psicoanalisi». L'eros c'è. Ci sono attrazione e passione, ma non v'è conferma del sesso fissato nei corpi nudi avvinghiati di Emilia Fox (Sabina) e Iain Glen (Jung), locandina della lettura di Faenza. È messa in discussione la teoria delle «vittime» (lei dell'«abuso» di lui, il potere terapeutico, lui della «seduzione » di lei, l'isterica) a favore, invece, di un complicato intreccio intellettuale e umano «alla pari» tra due spiriti liberi, assetati di vita, proiettati nell'avventura delle scoperte sorprendenti dell'inconscio. Scriverà la Spielrein alla madre (il libro contiene pagine inedite del diario di lei, lettere di Jung, le cartelle cliniche, materiale per la prima volta tradotto in italiano): «Siamo entrambi colpevoli o non colpevoli allo stesso modo».
Soprattutto viene fatta giustizia dell'influenza che Sabina ha avuto sui suoi illustri interlocutori, che finirono per schiacciarla. Le scriverà Jung da «amico» e collega ormai nel 1912: «Forse sono io ad avere attinto da lei». E «nonno Freud»

La lettera/ 1
La mia mente ha raggiunto il fondo.
Io, che ho dovuto rappresentare una salda torre per molte persone deboli, sono il più debole di tutti. Lei mi perdonerà se sono come sono? Mi perdonerà se La offendo nell'essere così e nel dimenticare i miei doveri di medico nei Suoi confronti? (...) Sono alla ricerca di qualcuno che capisca come amare, senza penalizzare l'altro, renderlo prigioniero o dissanguarlo completamente; cerco questa persona non ancora realizzata che renda possibile un amore indipendente da vantaggi o svantaggi sociali. Per mia sfortuna io non posso vivere senza che nella mia vita vi sia la gioia dell'amore, dell'amore impetuoso e sempre in trasformazione. (...) Quando in me nasce l'amore per una donna, la prima cosa che provo è il rincrescimento, la pietà per la povera donna che sogna la fedeltà eterna e altre cose impossibili, ed è destinata a un doloroso risveglio. (...) Vorrei avere delle certezze precise, di modo che io possa tranquillizzarmi circa le Sue intenzioni.

Lettera di Jung a Sabina Spielrein, 4 dicembre 1908
(secondo il termine ironico che sempre Jung userà in una lettera a Sabina) inventò il nome di «controtransfert » per esorcizzare i demoni delle complicazioni erotiche della terapia dopo quanto successo al giovane e impetuoso collega zurighese. Come, peraltro, alla Spielrein Jung deve la scoperta dell'Anima, componente femminile della psiche dell'uomo. Le scrive il 4 dicembre 1908: «Comprenderà che io sono uno dei più deboli e dei più instabili degli esseri umani? Ora mi restituisca qualcosa dell'amore, della pazienza e dell'altruismo che io riuscii a darle nel momento della sua malattia. Ora sono io il malato». E Freud, a sua volta, le è debitore del concetto di «pulsione di morte». Il padre della psicoanalisi riconoscerà in

Al di là del principio del piacere (1920) l'influenza di quanto dalla Spielrein aveva sentito dire poco meno di una decina d'anni prima, quando aveva letto a lui, Federn, Rank, Sachs, Stekel, Tausk uno scritto dal titolo La distruzione come causa della nascita.
«È una donna molto intelligente; tutto quanto dice ha un significato », aveva scritto Freud a Jung. Ma ad accorgersene e a rendere il dovuto merito a Sabina il mondo ci ha messo tanti, troppi anni. Un po' anche a causa dei due ingombranti colleghi, che l'hanno schiacciata, vaso di coccio tra vasi di ferro. Inconsciamente? Per gelosia e competizione? Per pregiudizi verso una collega creativa e libera? Fu lei a scrivere nel saggio

Le origini delle parole infantili papà e mamma, che la figlia Renata dice papà «quando è scontenta e quando vuole qualcosa esclama mamma». Già, è difficile ammettere di aver bisogno.

Corriere della Sera 8.3.08
A casa dell'Imperatore
Nell'abitazione di Ottaviano restituita al suo splendore il mito dei Trionfi Romani e il fascino del Rosso Pompeiano
di Paolo Conti

Il pendio del Palatino accompagna lo sguardo fino alla cupola di San Pietro, che nella prospettiva del panorama viene preceduta dalla doppia vela del Tempio maggiore israelitico, lì a un passo sul lungotevere. L'erba profuma d'amaro, è il carattere rude dell'antico agro romano. Lì sotto c'è lo stretto varco del Lupercale. Qui una porta a vetri si apre sullo scrigno delle meraviglie: la Casa di Augusto, costruita quando il trono era lontano e si trattava dell'abitazione di Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Giulio Cesare. Si comincia dalla rampa e bisogna liberare le scarpe dal fango prima di affrontare la visita.
Il timbro cromatico più forte è il Rosso Pompeiano, vivissimo e ignaro dei secoli passati. E poi uccellini, vasi, festoni vegetali, un tripudio di aeree colonnette. Sulla volta, stucchi candidi e pitture dove compare l'azzurro cobalto, il viola. Roma assorbe e rielabora tutto: sono già le «grottesche» care al Rinascimento. Le radici sono qui, nella terra del Palatino. E il tempo non ha alterato il loro splendore.
Poi ecco lo Studiolo, un miracolo di gusto egizio-alessandrino. Accanto ancora, la Stanza delle Maschere (la spettacolare vivacità di una scena teatrale ellenistica), il Locale delle Prospettive (indimenticabili i vasi di vetro pieni di frutta), la Stanza dei Festoni di Pino (con i leggerissimi finti porticati).
Una meraviglia che torna a disposizione dei visitatori, anche se la Casa di Augusto non tollererà più di cinque persone a turno (niente visite guidate, occorrerà mettersi pazientemente in fila e civilmente attendere). La restituzione della Casa di Augusto alle visite è il pezzo più pregiato della riorganizzazione dell'Area archeologica centrale di Roma che ruota su due perni. Cioè il mito del Trionfo Romano. E il carattere opulento del Rosso Pompeiano, che ha segnato il gusto pittorico di un'intera civiltà affascinando per secoli i posteri e diventando un inevitabile riferimento.
I Trionfi Romani è il titolo della mostra organizzata al Colosseo dal 5 marzo al 14 settembre dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici romani: i simboli e l'inconfondibile identità di un rito fondamentale per Roma.
Rosso Pompeiano è la fortunata rassegna allestita nella sede di palazzo Massimo del Museo nazionale romano, prorogata all'1 giugno, un completo panorama della decorazione pittorica nelle collezioni archeologiche di Napoli e di Pompei. Quello stesso Rosso che caratterizza la straordinaria Casa di Augusto.
Il Trionfo Romano ci riconduce alla Via Sacra, al tratto compreso tra l'Arco di Costantino e quelli successivi, di Tito e di Settimio Severo. Qui approdiamo all'operazione legata all'Area archeologica centrale di Roma. Dal 10 marzo l'ingresso ai Fori romani non sarà più gratuito. Nasce il biglietto unico per Colosseo-Palatino-Foro Romano. La Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma da tempo segnalava problemi di conservazione e di vigilanza. Spiega il soprintendente Angelo Bottini: «Con l'apertura gratuita la Via Sacra si era trasformata in uno spazio pubblico dov'era impossibile controllare ingressi ed uscite. Per ovvi motivi di sicurezza, siamo stati costretti a chiudere tutte le aree a destra e a sinistra della Via Sacra e di Piazza del Foro. Per non dire dei segnali di usura e degrado. Diciamo che la gratuità ha provocato una drastica riduzione della visibilità del complesso». Fino alla decisione di tornare al pagamento, affidando all'Electa la biglietteria, distribuendo con diversi criteri il personale. Così si potrà ammirare di nuovo, nei prossimi tempi, il Tempio di Romolo, l'Oratorio dei Quaranta Martiri, la Casa delle Vestali, Santa Maria Antiqua. L'area verrà presto spiegata da esaurienti didascalie, che adesso mancano.
Ancora Bottini: «Potremmo aprire ancora e di più ma purtroppo ci mancano i numeri, abbiamo grossi problemi di personale: parliamo di tesori che vanno vigilati a vista. Ma qui il problema diventa più politico che tecnico».
Intanto una mano arriva da Maratonarte, la raccolta di fondi per i restauri organizzata dalla Rai col ministero per i beni e le attività culturali che ha assicurato 400 mila euro per sostenere i lavori di ripristino e consolidamento della Casa di Augusto. Il solo World Monuments Fund ne ha stanziati 300 mila. Un incentivo all'ottimismo per il nostro retaggio culturale, così ricco di beni e tanto povero di risorse.

Corriere della Sera 8.3.08
Alleanze, tattiche e strategie culturali per conquistare l'eredità politica e il potere
E così Augusto «arruolò» gli intellettuali
di Luciano Canfora

Nel «partito» di Cesare, nei luogotenenti che con Cesare avevano combattuto in Gallia e poi nella guerra civile contro Pompeo e il Senato, Ottaviano ha avuto i suoi avversari più tenaci. Li ha giocati gli uni contro gli altri, con alleanze tattiche durevoli fintanto che giovavano al suo unico fondamentale disegno: impadronirsi completamente dell'eredità politica e della successione di Cesare. In Antonio, fidato collaboratore e compagno d'arme di Cesare, ha avuto l'avversario più tenace e non ha avuto pace finché non l'ha annichilito completamente. «Dopo l'ultima sconfitta — narra Svetonio nella Vita di Augusto — Antonio fece un ultimo tentativo di pace, ma Augusto lo costrinse ad uccidersi e ne rimirò poi il cadavere». Solo con la scomparsa, anche fisica, di Antonio (31 a.C.), Augusto poté considerare di avere saldamente in mano l'intera eredità di Cesare e l'intero potere carismatico sull'esercito e sulla compagine statale. Erano passati tredici anni dalla morte di Cesare (44 a.C.): tredici lunghi anni di inesorabile, programmata, sapiente conquista del potere.
Diversamente da Cesare, che affrontava la polemica aperta anche con gli avversari sconfitti, Ottaviano, ormai divenuto Augusto, preferì irreggimentare, conquistandone ad uno ad uno i protagonisti, la vita intellettuale. Creò un'arte volta a glorificare la sua azione politica, le sue parole d'ordine. E soprattutto prevenne e zittì ogni voce che intendesse eventualmente esprimersi in modo dissonante. Gli scrittori cominciarono ad autocensurarsi: Virgilio, il maggiore, cancellò un intero pezzo delle Georgiche e lo sostituì con un'insulsa tirata sulle api. Poeti d'amore, come l'elegiaco Properzio, si misero a scrivere odi «romane», in cui si parlava del «principe», nei modi graditi alla sua propaganda; giovani promettenti e di bassa estrazione sociale come Orazio furono catturati e portati a scrivere odi di esaltazione del vincitore di Azio.
Naturalmente c'era anche chi riteneva di potersi non piegare. Un vecchio amico di Antonio, il generale Asinio Pollione, ritiratosi a vita privata già prima di Azio, decise di scrivere un'opera di storia che prendeva le mosse dal «primo triumvirato», cioè dagli esordi, trent'anni prima, di Caio Giulio Cesare: ma Orazio scrisse apposta un'ode per spiegargli che si trattava di un'iniziativa pericolosa. E ci fu anche chi decise di non scrivere più nulla, pur di non accodarsi al coro. Proprio perché promotore e artefice di un così forte controllo sulla cultura — per la prima volta nella storia di Roma — Augusto sapeva anche concedersi la civetteria della liberalità: come quando scoprì un nipote che leggeva di nascosto un libro di Cicerone, gli tolse dalla manica della tunica il libro, non rimproverò il fanciullo, ma disse pensosamente che l'autore in questione — della cui morte era stato a suo tempo correPoeti Foto in alto Virgilio; sotto Quinto Orazio Flacco

Corriere della Sera 8.3.08
Ricordi Da Goethe a Clinton: tutti ammaliati dal Foro
Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari

Questo è Trilussa, nel sonetto La Terza Roma: «Infatti, sur più bello d'un lavoro,/ te ritrovi l'Impero giù in cantina/ con una strada che va dritta ar Foro». Per dire che, a Roma, la relazione con i millenni precedenti è di carattere assai confidenziale. Fu così che il mito dei Fori, delle rovine romane, venne creato soprattutto da europei che non avevano in casa pietre tanto antiche. Shakespeare ambienta naturalmente al Foro l'orazione funebre di Antonio per Giulio Cesare, con tutta probabilità senza esserci mai stato. Qualcosa vide invece, quasi due secoli più tardi, Johann Wolfgang Goethe, erede dei viaggiatori che fin dal '600 scendevano in Italia da Francia, Inghilterra e Germania. Subito Goethe coglie che a Roma «si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione » ( Viaggio in Italia, 1786).
Una sera passeggia sul Palatino, «tra le rovine del palazzo dei Cesari» e scrive: «Nulla di tutto ciò si può rendere a parole! In verità, lassù non si sa cosa sia piccolezza». Quando Goethe lascia Roma, a modo di saluto sale sul Campidoglio, quindi scende sull'altro versante, «e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della Via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito e affrettai il ritorno. Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile nello stesso tempo». Esaltato l'animo di Goethe, più malinconico e riflessivo quello di Byron, qualche decennio più avanti, che nel Manfred racconta il «circo del Colosseo, mirabile reliquia del romano poter» e nota come «dei Cesari, la vile edera usurpa il seggio dell'allòr ».
Nel pieno dell'Ottocento archi e colonne diventano calamita per gli artisti sull'altra sponda dell'Atlantico. Ecco la poesia Il Colosseo: «Noi non siamo impotenti, noi pallide pietre: non ogni potere è spento, non ogni nostra gloria, non tutta la magia dell'alta rinomanza, non tutta la meraviglia che ne circonda, non tutti i misteri che giacciono in noi...». Firmata Edgar Allan Poe, maestro di misteri.
Altri americani verranno poi. Bill Clinton sui Fori con Hillary. Lei: cappello nero con nastro rosa, ma tacchi alti che la fanno sbandare sui basoli (1994). George W. Bush, in camicia, mano nella mano di Laura. Commenta: «Questo posto incute soggezione» (2001). Ma c'è anche, tenero, Russell Crowe, a Roma per promuovere A beautiful mind, che fa tardi, anzi tardissimo, a una conferenza stampa: è fuggito per scoprire in solitudine il Foro, lui, che tutto il mondo ormai chiama "il gladiatore". C'erano stati il turista americano Locuzzo, al quale Totò, sedicente guida, aveva venduto un finto sesterzio romano ( Guardie e ladri, 1951). E Gregory Peck aveva raccolto su una panchina con vista sull'arco di Settimio Severo la principessina Anna, deliziosamente Audrey Hepburn (Vacanze romane, 1953).
Ennio Flaiano, nel 1972 su L'Espresso, immagina il diario di un turista americano: «Abbiamo visitato The Roman Forum, dove fu ucciso Julius Caesar. L'erba tra i ruderi era molto alta e a un certo momento ho visto un piccolo serpente che mi guardava. Ho chiesto a un guardiano perché non tagliano l'erba e non catturano i serpenti, ma lui ha risposto che la Sovrintendenza(?) non era interessata un katzo all'erba e ai serpenti e che del resto le "Belle arti erano in agitazione"».

il Riformista 8.3.08
L'etica della vita secondo Boncinelli

Quei quattordici giorni pre-embrionali
di Orlando Franceschelli

Una salutare lezione di scienza e laicità. È questa la convinzione suscitata dal recente libro di Edoardo Boncinelli L'etica della vita. Siamo uomini o embrioni? (Rizzoli). Un racconto chiaro e piacevole sulle «sottigliezze della natura», descritte con l'autorevolezza di un protagonista della ricerca biologica. In grado come pochi di illuminare con costruttiva sobrietà anche questioni eticamente delicate come quelle dell'inizio e della fine della vita. Senza indulgere ad alcuna preconcetta e sterile logica di schieramento amico-nemico. Anzi: stimolando ognuno di noi a simulare nella propria mente quella «sorta di dialogo con un Socrate immaginario» che invita a revocare in dubbio le proprie convinzioni. Scienza e laicità, appunto. Due risorse imprescindibili per chiunque si senta impegnato a costruire una sfera pubblica e istituzioni democratiche capaci di favorire la ricerca e di prendere decisioni informate e sagge sulle applicazioni dei suoi risultati.
Arricchito da un utile glossarietto, il libro fa il punto su tutto ciò che stiamo imparando su «l'alfabeto elementare» della vita. Dai primissimi istanti dell'incontro tra la cellula-uovo e lo spermatozoo, fino alla nascita e al successivo formarsi di una personalità e infine di una coscienza. È la storia biologica e socio-culturale di ognuno di noi. Scandita dalla capacità della natura di plasmare e cesellare le forme che dalle prime cellule del preembrione (blastocisti) porteranno al feto e poi a completare la nostra prima nascita biologica mediante la formazione della nostra seconda natura culturale e sociale. Ossia a maturare esperienze, ricordi, competenze e conoscenze grazie alle quali «impariamo ogni giorno» ad essere uomini e donne tra altri uomini e altre donne, «ma anche e soprattutto individui singoli, unici, e irripetibili».
E tuttavia, proprio mentre ci ricorda come non si finisca mai di stupirsi «nel considerare quali e quante sottigliezze la natura usi per raggiungere i propri scopi», Boncinelli invita a concedersi anche una pausa di riflessione critica, di cui sarebbe difficile esagerare la portata e l'opportunità. È vero che in ognuno di noi c'è come una tendenza spontanea a descrivere l'opera della natura con un linguaggio figurato che suggerisce di vedere «un progetto e quasi una volontà dietro le diverse operazioni naturali». E tanto più dietro quelle particolarmente accurate e ben riuscite.
Eppure, per quanto difficile, si tratta di una tentazione a cui bisogna imparare a resistere. Dietro ai processi biologici non c'è alcun «instancabile regista». Anzi: essi sono naturali appunto perché, più che da una Causa Prima che progetta e vuole, sono diretti e coordinati dalle istruzioni contenute nel patrimonio genetico. Più precisamente: nei geni esecutori e in quelli che li attivano mediante la produzione di proteine che svolgono la funzione di veri e propi interruttori molecolari: i geni architetti, come a suo tempo li definì il loro scopritore, ossia lo stesso Boncinelli. Senza temperare in questo modo il nostro antropocentrismo, compromettiamo la nostra capacità di «raccontare in maniera plausibile il maggior numero possibile di eventi». Nonché quella di rispondere con laicità alle questioni bioetiche sull'effettiva origine della vita di un essere umano e sulla «liceità di interrompere una vita in caso di necessità».
Boncinelli ci ricorda quanto sia inevitabile e giusto che ognuno di noi abbia il proprio sistema di opinioni. Incluse quelle religiosamente ispirate: ognuno deve appunto poter «trovare la propria risposta personale», sulla base delle proprie conoscenze, convinzioni ed esperienze. È la laicità che sorregge anche il pluralismo tipico delle nostre società.
Ma non meno auspicabile sarebbe che ognuno si preoccupasse anche della logicità e della coerenza delle proprie opinioni. Evitando così l'arroganza dogmatica che pretende di aver trovato una risposta valida per tutti. E che debba essere imposta a tutti per legge. Insomma: dobbiamo imparare a coltivare veramente il dialogo con il «Socrate immaginario», prima richiamato. E che difficilmente induce a non riconoscere la competenza scientifica, la rettitudine intellettuale e la sensibilità umana della «posizione personale» sostenuta dallo stesso Boncinelli: le cellule prodotte dalle prime suddivisioni dello zigote fino al quattordicesimo giorno non sono né un embrione, né sono «irreversibilmente avviate ad esserlo». Perciò sono cellule staminali totipotenti.
Certo la strada del futuro potrebbe essere quella di ridare una seconda giovinezza staminale alle cellule adulte. Ma intanto, conclude opportunamente l'autore, un equivoco - anzi: un'offesa - andrebbe rimosso: ritenere che chi è impegnato a migliorare la nostra vita anche mediante la ricerca scientifica stia sfidando con tracotanza la divinità e attentando alla natura e alla dignità dell'uomo. Un'offesa che veramente vorremmo non sentire mai più anche nel nostro Paese.