lunedì 10 marzo 2008

l’Unità 10.3.08
Sassoon: diritti civili e laicità le carte vincenti del Psoe
di Umberto De Giovannangeli


«Aver favorito la crescita economica e aver esteso i diritti civili: è stata questa la “ricetta” vincente di Zapatero». A sostenerlo è Donald Sassoon, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra, tra i più autorevoli studiosi della sinistra europea». «Il leader socialista - rimarca Sassoon - ha saputo far vivere una idea forte di laicità senza provocare lacerazioni nella società spagnola».
La Spagna ha rinnovato la sua fiducia al Psoe di Zapatero. Come leggere questo successo elettorale?
«Gli spagnoli hanno premiato un’azione di governo che aveva consolidato una svolta laica nel Paese; una svolta davvero impressionante se si pensa al peso che la Chiesa ha avuto per così tanti anni in Spagna. Quando parlo di svolta laica mi riferisco in modo particolare alle varie riforme nel campo dei diritti civili, tra le quali quella del matrimonio gay: se solo una decina di anni fa qualcuno avesse parlato di una cosa del genere lo avremmo tacciato di “pazzia” politica. E questa svolta, altro dato a merito di Zapatero, è avvenuta senza provocare lacerazioni insanabile nella società spagnola; cerjavascript:void(0)
Pubblica postto, la Chiesa ha protestato ma questa innovazione progressiva nel campo dei diritti civili è stata talmente metabolizzata dalla società spagnola che anche il campo conservatore aveva affermato che quelle leggi così avanzate non sarebbero state cancellate nel caso di una sua vittoria».
Quale è stato una altro terreno centrale nello scontro politico in Spagna?
«L’economia. L’andamento dell’economia spagnola, al pari di quella delle altre maggiori economie europee, era stato positivo fino ad un anno fa, e di fatti se Zapatero avesse anticipato le elezioni ad ottobre, avrebbe probabilmente riportato una vittoria ancor più netta di quella, comunque ampia, che ha ottenuto. E significa anche che è sempre più difficile per i governi europei fare fronte a una economia che è sempre più globalizzata, per cui la crisi dei mutui che sta segnando profondamente l’economia statunitense si è subito proiettata sulle economie europee. E poi c’è un terzo terreno su cui Zapatero ha fortemente caratterizzato la sua azione di governo..».
Qual è questo terzo terreno?
«Quello dell’immigrazione, uno dei temi che più ha caratterizzato la campagna elettorale spagnola, così come da molti anni ha una particolare rilevanza in Gran Bretagna e in Francia. I partiti di sinistra non sono ancora riusciti a convincere pienamente il loro elettorato che in realtà il fatto che ci sia immigrazione è un segno che l’economia e il sistema-Paese funzionano; tradizionalmente l’immigrazione è una cosa che rende: la riprova sono gli Stati Uniti, un Paese che ha avuto una fortissima immigrazione negli ultimi trenta-quarant’anni, quasi pari a quella della fine dell’Ottocento, e che in questo arco di tempo ha avuto un fortissimo incremento. Gli immigrati portano prosperità, ma questo è un messaggio che la sinistra non ha saputo diffondere, finendo così per restare subalterna ad alcune parole d’ordine della destra».
Un altro tema scottante, soprattutto nell’insanguinata vigilia del voto, è stato il terrorismo.
«Un terreno su cui Zapatero ha mostrato una grande capacità di leadership. Il leader socialista ha saputo fare una cosa che è sempre riuscita difficile ai partiti della sinistra: fare del Psoe un partito che nella lotta al terrorismo non ha cedimenti, non è arrendevole, ma che allo stesso tempo tiene duro sulle parti più importanti dei diritti civili. È una lezione importante visto che il terrorismo ha colpito molti dei nostri Paesi. Si può essere determinati, inflessibili senza per questo venir meno ai fondamenti di uno stato di diritto. C’è poi un altro campo dove Zapatero ha mostrato coerenza e determinazione...».
Qual è questo campo?
«Quello della politica estera. Soprattutto sull’Iraq ha mostrato una fermezza critica, cosa che non si può dire per i laburisti inglesi, ad esempio., che rischiano di pagare pesantemente l’interventismo di Blair».
A proposito dell’ex premier britannico: c’è chi vede in Zapatero l’«anti-Blair».
«A parte che Blair almeno in Inghilterra, ed è incredibile per qualcuno che è stato al potere per un decennio, è già quasi dimenticato, ciò di cui sono fermamente convinto è che la sinistra non può continuare ad aspettare, o invocare, un “messia”, sia esso Blair, Zapatero o Obama...L’epoca messianica è finita da tempo, e per fortuna aggiungerei, e l’unico modo per costruire una politica innovativa è di farlo insieme in Europa. È questa la sfida per il futuro per le sinistre e i progressisti europei. Una sfida di cui Zapatero sarà uno dei protagonisti».

l’Unità 10.3.08
La Spagna si fida, vince ancora Zapatero
Il premier sfiora la maggioranza assoluta: «Governeremo per tutti a cominciare da chi ha di meno»
di Toni Fontana

HA VINTO ZAPATERO, ha vinto la Spagna delle riforme e del cambiamento. Ha vinto la Spagna che non si piega al ricatto del terrore dell’Eta. La destra arroccata e aggressiva perde, ma non viene umiliata; la carriera di Mariano Rajoy, modesto e incolore suc-
cessore di Aznar appare tuttavia giunta al termine e già, nel Pp, è iniziata la resa dei conti. Zapatero, secondo i dati diffusi ieri sera dalla vicepresidente del governo Maria Teresa Fernandez de la Vega e dal ministro dell’Interno Rubalcaba aumenta considerevolmente la rappresentanza parlamentare conquistando il 43,7% dei voti, ossia 169 seggi, 5 in più rispetto ai 164 della passata legislatura. I popolari vengono sonoramente sconfitti, ma con il 40,1%, aumentano a loro volta il numero dei deputati (da 148 a 153, 5 in più). Dal voto escono a pezzi alcuni tra i piccoli partiti ed in particolare la sinistra radicale (da 5 a 2 deputati) di Gaspar Llmazares che è apparso nella sala stampa di Izquieda Unita ammettendo «il cattivo risultato del quale - ha detto - mi assumo tutta la responsabilità». Llamazares ha puntato il dito contro il «bipartitismo».
Festa grande, lacrime e bandiere al vento invece in calle Ferraz. Davanti alla sede del Psoe si sono riuniti migliaia di militanti festanti che, fino a tarda notte, hanno cantato e chiamato Zapatero alla finestra. Il leader, sorridente, è apparso poco prima delle 23: «Isaias dovrebbe essere qui» ha detto leggendo i nomi delle vittime dell’Eta degli ultimi quattro anni. «Grazie - ha poi aggiunto - ai cittadini che hanno dato una vittoria chiara al partito socialista. La Spagna ha deciso di aprire una nuova tappa che non sarà fondata sulla contrapposizione, in quanto noi correggeremo gli errori e governeremo con il consenso sociale e la collaborazione. Governeremo per tutti, pensando prima principalmente a coloro che hanno di meno, governeremo pensando ai diritti delle donne, interpretando le speranze dei giovani, governeremo per mantenere gli impegni con l’Europa e con la pace, difenderemo la convivenza, la tolleranza, cammineremo verso il futuro tutti assieme».
La vittoria è apparsa chiara fin dai primi minuti dopo la chiusura del seggi, tutti gli exit poll hanno anticipato la vittoria del partito di Zapatero con un ampio margine e, nella prima fase, ipotizzando la maggioranza assoluta. Poi in calle Ferraz è apparso Josè Blanco, segretario organizzativo del Psoe che ha dedicato «alla democrazia e alla memoria di Isaias Carrasco» la vittoria del socialisti, poi ufficialmente confermata dai ministri de la Vega e Rubalcalba. Il dirigente socialista non ha risparmiato accuse alla destra sconfitta ed ha annunciato, riferendosi alle recenti polemiche di Rajoy sul terrorismo, che la prossima legislatura non sarà caratterizzata dalla «contrapposizione e dalla slealtà».
Il Psoe si attesta sul 43,7% dei voti, rafforza la sua maggioranza e, come ha ricordato Blanco «è ora nelle migliori condizioni per governare», anche se non dispone della maggioranza assoluta e dovrà negoziare con gli altri gruppi. Una novità è invece rappresentata dal movimento «per il progresso e la democrazia» fondato dal filosofo-scrittore Fernando Savater che, con pochi mezzi e sostegni, ottiene un rappresentante in Parlamento. L’altro grande sconfitto delle elezioni è il radicalismo indipendentista catalano rappresentato da Esquerra repubblicana de Catalana, che aveva 8 seggi nel precedente Parlamento e ne otterrà invece 3. I moderati catalani confermano i 10 seggi ottenuti 4 anni fa.
I primi dati sulla partecipazione erano stati diffusi poco dopo le 14 di ieri e hanno inizialmente suscitato qualche preoccupazione nello stato maggiore del Psoe. In serata però si è appreso che il numero dei votanti del 2008 (affluenza definitiva: 75,3%) ha superato quello del 2004. Più marcata rispetto al resto del Paese, la diminuzione dei elettori nei Paesi Baschi dove il calo degli elettori è stato del 8%. Alle 19 poco più della metà degli avanti diritto (54%) si era recato alle urne. In questo caso hanno pesato non poco i ricatti dei terroristi. L’Eta ed il suo braccio politico fuorilegge, Batasuna, hanno più volte lanciato oscuri messaggi nel corso del periodo elettorale con l’obiettivo di aumentare gli astenuti. Non ha ceduto ai ricatti della violenza, la famiglia di Isaias Carrasco, militante socialista e sindacale, assassinato venerdì a Mondragon. La figlia dell’ucciso, Sandra e la moglie, Mari Angeles Romero Ortiz, hanno votato tra i primi in un seggio poco distante da dove è stato ucciso Isaias. Le due donne hanno invitato gli elettori a non cedere ai ricatti dell’Eta e ad andare a votare. In diverse località della regione basca e della vicina Navarra gruppi di estremisti indipendentisti hanno compiuto ieri azioni di disturbo e provocazioni. A Pamplona è stata lanciata una bottiglia molotov contro un’auto della polizia, nessun ferito. In alcune località basche, nel corso della notte, sono state sigillate con il silicone le saracinesche di alcuni seggi. Le indagini sull’assassinio di Isaias Carrasco con hanno per ora condotto ad alcun risultato.
L’arma usata per il delitto non era mai stata utilizzata in precedenza dai killer dell’Eta che, appare chiaro, stava da tempo preparando l’agguato e sapeva che, dal mese di settembre, l’ex consigliere comunale socialista, era senza scorta dopo aver rifiutato la protezione che era stata offerta dai dirigenti socialisti locali.

l’Unità 10.3.08
Rimonta socialista, la Francia punisce Sarkozy
Amministrative, la sinistra al 47,5%. Il partito del presidente cala al 40%. Ségolène: è un voto di speranza
di Gianni Marsilli

LO SCHIAFFO C’È STATO Per capire se si sia trattato di un vero manrovescio bisognerà aspettare il secondo turno, ma l’avvertimento a Nicolas Sarkozy è senza equivoci. Le prime stime globali (dell’istituto Csa) situavano ieri sera la sinistra al 47,5% e la
destra al 40%. Cifre che non cambiano i rapporti di forza nazionali, stabiliti per cinque anni dalle presidenziali e dalle politiche l’anno scorso, ma che testimoniano della sanzione che i francesi hanno voluto infliggere al presidente attraverso il rinnovamento di 36mila consigli comunali e l’elezione di altrettanti sindaci. La spinta a sinistra è stata netta e forte, e sono numerose le città cadute in mani socialiste fin dal primo turno. Ségolène Royal commenta: è un voto di speranza.
Stentorea è l’affermazione del sindaco di Parigi Bertrand Delanoe, che le prime stime davano oltre il 40%. La sua avversaria di destra, Françoise de Panafieu, arranca sotto il 30%. In terza posizione, con il 13%, Marielle de Sarnez, che è il numero 2 del MoDem, il partito centrista di François Bayrou. La capitale è dunque destinata a portare ancora i colori socialisti, e il futuro nazionale di Delanoe prende decisamente forma: al prossimo congresso del partito sarà quasi certamente candidato alla segreteria. È in ballottaggio il sindaco Ump di Strasburgo Fabienne Keller: domenica prossima la capitale alsaziana potrebbe tornare alla sinistra. Più difficile appare la sfida del socialista Jean Noel Guerini a Marsiglia: spodestare il sindaco Jean Claude Gaudin, peso massimo dell’Ump. Si andrà comunque al ballottaggio: le due liste ieri sera erano appaiate attorno al 40%, e il Fronte nazionale in terza posizione con il 10%. I lepenisti potrebbero giocare un brutto scherzo a Gaudin, mantenendosi al secondo turno e favorendo Guerini. In bilico anche Tolosa, da mezzo secolo saldamente in mano alla destra, dove il candidato socialista Pierre Cohen conduce la corsa in testa, seppur di poco. Ma gode di importanti riserve alla sua sinistra, che domenica prossima potrebbero risultare decisive.
François Hollande ha potuto esibire «con grande fierezza» il suo bottino di guerra personale: è stato rieletto sindaco di Tulle già ieri sera con il 72 per cento dei consensi. Ma soprattutto ha potuto vantare una conquista simbolica: per la prima volta da un quarto di secolo è tutto il dipartimento della Corrèze a passare a sinistra. È la piccola patria dei coniugi Chirac, dove anche Bernadette è eletta da decenni. Il segretario socialista attribuisce «alla questione del potere d’acquisto il monito ricevuto da Nicolas Sarkozy», ed invita alla mobilitazione per domenica prossima. Quanto alle alleanze, ha ribadito la posizione tenuta in questa campagna elettorale: «Siamo pronti ad unirci con tutti coloro che accettano i nostri programmi e che si oppongono chiaramente a Sarkozy e al suo governo. A loro diciamo: benvenuti nel paese della sinistra». Le prime letture incrociate del voto a sinistra del Ps sembravano testimoniare di una forte erosione di comunisti, verdi, trotzkisti, in linea con una tendenza continentale. Quanto ai centristi del MoDem, il loro leader François Bayrou, che mira al municipio di Pau nei Pirenei, è spalla a spalla (attorno al 33 per cento) con la candidata socialista.
La destra accusa il colpo, anche se tenta di relativizzarlo giudicandolo poco politico e molto territoriale. Il primo ministro François Fillon ritiene che il voto sia stato «più equilibrato di quanto ci avevano annunciato», ed ha escluso qualsiasi influenza del risultato sulla sua politica: «Manterremo il timone delle riforme». Certo, ma sarà meno facile. Da ieri si disegnano nuovi importanti bacini di consenso a sinistra. Soprattutto al nord, dove alle ultime elezioni, non solo comunali, la sinistra era apparsa in grande difficoltà. Per esempio a Rouen, passata a sinistra già ieri sera con il 55,5 per cento dei voti. Per non parlare di Lilla, dove il sindaco Martine Aubry consolida le sue posizioni: aveva ottenuto il 34 per cento alle elezioni del 2001, ha avuto il 46 per cento ieri. La sua rielezione a questo punto appare blindata. La destra puntava a impadronirsi della città di Tourcoing, grosso centro industriale non lontano da Lilla, al fine di far saltare tutto il sistema di potere della gauche nel nord del paese. Impresa fallita miseramente, Tourcoing resta a sinistra grazie ad un sonante 53 per cento dei voti.

l’Unità 10.3.08
Benvenuti nella casa di Augusto
di Stefano Miliani

APRE al pubbico la dimora al Palatino dove Ottaviano visse prima di diventare imperatore. Due stanze affrescate con decori raffinati e sfolgoranti che sarà possibile visitare da oggi. Ingresso limitato e scaglionato per non rovinarle...

Un bel rosso fuoco steso sulla parete accende lo sguardo. L’ocra richiama il colore della terra. Poi del cinabro. Una colonna dipinta sorregge una sorta di vaso dagli strani fiori. Scorci architettonici richiamano astuzie prospettiche che 1400 anni dopo riemergeranno in pittori del primo Rinascimento come, azzardando, Masaccio. Tra le fasce di colore si intrufolano irridenti grifoni - mostri alati - a dimensioni ridotte. Alcune figure di donna sembrano conversare su un fondo azzurrognolo mentre altre sono probabilmente cadute in pezzi da un’altra finestra pittorica.
In questa stanza tanto piccola quanto sfolgorante, in questo studiolo dalle pareti affrescate con evidente gusto per la vita, si raccoglieva in meditazione o per elaborare strategie politiche Caio Giulio Cesare Ottaviano, classe 63 a.C., che divenuto primo imperatore col titolo di Augusto nel 27 a. C. resse Roma e i suoi vasti territori siglando il passaggio definitivo dall’età repubblicana a imperiale fino alla sua morte nel 14. d.C. Questo studiolo sovrasta due locali al piano inferiore: un ingresso con soffitto a cassettoni dai variopinti motivi geometrici - dai rombi rossi oppure incastonato di quadrati con fiori al centro - in cui molto si è perso e una sorta di triclinium con altre pareti affrescate e qualche figura evanescente. Sopra e sotto, brani di quelle grottesche (motivi bizzarri o floreali) che rifiorianno in molte decorazioni del ’500.
Siamo in un luogo speciale: la Casa intitolata ad Augusto al Palatino a Roma. Quasi in prossimità dell’affaccio delle rovine sul Circo Massimo, tra muri sopravvissuti ai secoli e un percorso di rampe e saliscendi che a noi viziati dalle immagini del ’900 ricorderà certi percorsi di Escher, con un panorama di tetti ed edifici che conduce al di là del Tevere, la casa augustea non è più un luogo per restauratori o pochi studiosi: da oggi apre al pubblico, dopo la giornata inaugurale di ieri, giornata peraltro complicata e affollata perché, anche se a inviti, c’era tanta gente, si sono formate code e molti hanno levato le tende rammaricati o arrabbiati perché la meta richiedeva un’attesa di un’ora-un’ora e mezzo. C’è stato un ingorgo umano e per molti non è stato divertente.
Questo perché l’ingresso alla dimora augustea è scaglionato e limitato a cinque persone a volta accompagnate da personale che dopo pochi minuti invita a uscire e lasciare il posto a chi viene dopo: innanzi tutto per ragioni di sicurezza, poi ricordiamo che il nostro respiro può danneggiare le pitture parietali che non tollereranno più di tanto l’impatto umano.
La dimora viene datata dagli archeologi al 36 a. C., quando Ottaviano non era ancora imperatore (per diventarlo eliminanò in un modo o nell’altro tutti gli avversari e soprattutto i fedeli all’assassinato Giulio Cesare), e quindi non aveva ancora meritato l’appellativo di Augusto. Sempre gli archeologi attribuiscono le decorazioni sulle pareti a un pittore greco, e se oggi può stupire per la sua bellezza, questa dimora venne in realtà coperta e sepolta dallo stesso Augusto quando volle costruire poco lontano una Domus ben più vasta sempre nell’area del Palatino e quindi consona al titolo imperiale. E com’è accaduto a siti archeologici romani fuori mano - ad esempio Leptis Magna in Libia - l’essere sepolta ha salvato questa piccola casa a due piani da eventuali devastazioni. La scoprì infatti, tra gli anni ’60 e ’70, Gianfilippo Carettoni e naturalmente non versava in ottime condizioni: brandelli di rosso, ocra, azzurrino, giallo, verde pallido coprivano il terreno. A rimetterli insieme con pazienza, e arginando un possibile senso di disperazione, scavalcando i tempi morti e le attese per i finanziamenti, hanno provveduto i restauratori della soprintendenza archeologica statale. Per questi restauri i conti parlano di un milione 540 mila euro spesi cui vanno aggiunti altri 250 mila per la vicina Casa di Livia che dovrebbe riaprire al pubblico quest’anno, mentre nella sala delle maschere e dei pini, nell’ala nord della casa augustea, in restauro, dovrebbe riaprire all’inizio del 2009.
Visto che siamo arrivati all’argomento quattrini, bisogna dire che fino a ieri si poteva entrare gratis nella zona dei Fori imperiali. Da oggi scatta un biglietto di 11 euro che include l’intera area tra cui il Colosseo e il Palatino. La Casa augustea è accompagnata da un volume Electa e per un quadro più completo di questo genere pittorico sappiate che la mostra di affreschi da Pompei Rosso pompeiano a Palazzo Massimo è stata prorogata al 1° giugno.

l’Unità 10.3.08
E il Surrealismo inventò la donna
di Anna Tito

ANTOLOGIE Fu André Breton, tra i padri del movimento, a dichiarare morti «maschilismo e fallocrazia». Una raccolta indaga il ruolo contraddittorio che questa avanguardia attribuì al «genio femminile»

Sull’idea che l’amore e la donna avessero un ruolo preponderante nella ricerca della felicità i surrealisti, giovani artisti e poeti reduci dalla «carneficina della Grande guerra» e che negli anni ‘20 andavano interrogandosi sulla maniera in cui vivere la vita, erano tutti d’accordo. La figura femminile dominò in maniera ambigua e contraddittoria il loro immaginario e la loro poesia; così la rappresentarono di volta in volta come fiore o frutto, bambina o donna fatale, strega o incantatrice, ma anche come oggetto di desiderio e di possesso. Tuttavia i ribelli che indirizzarono la rivolta nel progetto di «cambiare la vita secondo Rimbaud e trasformare il mondo secondo Marx» esprimendo i propri obiettivi politico-sociali ed etici in manifesti, volantini, appelli e documenti collettivi, non sfuggirono alla tentazione di associare alla donna e all’amore un’ansia di possesso e di appropriazione tipicamente maschile.
Viene ora a dedicare una raccolta di testi scritti dagli autori surrealisti per le loro donne, la libertà dei sentimenti, la forza della passione la francesista già autrice fra gli altri di Surrealismo. 1919-1969. Ribellione e immaginazione (Editori Riuniti 2002) Paola Decìna Lombardi, proponendo un’ampia selezione di testi francesi e non, di versi, inchieste, prose poetiche e testi in gran parte inediti in Italia che, insieme al «ventaglio» di sentimenti amorosi, documentano il ruolo fondamentale e «rivoluzionario», attribuito dai surrealisti alla donna e all’amore. Corredano l’opera le biografie degli autori nonché tre appendici: «sulla sessualità» del 1928, «sull’amore» del 1929 e infine «sull’incontro fondamentale» che ha protagonisti, fra gli altri, nel 1933, il pittore Marc Chagall - «ho incontrato una donna. Mi ha trafitto il cuore e si è seduta sulle mie tele» - e lo scrittore, anni dopo «collaborazionista», Pierre Drieu La Rochelle.
La produzione francese, trainante per le esperienze che si svilupparono in altri paesi, «non poteva non risultare più ampia e articolata delle altre» spiega la curatrice, che ha scelto inoltre di inserire i poeti italiani Giuseppe Ungaretti - con Perfezione del nero e Scoperta della donna del 1919 - e Antonio Delfini: «il che può apparire in contraddizione con il criterio adottato, ma essi furono le poche voci italiane entrate in contatto con il movimento surrealista, in tempi e modi diversi».
All’inizio dell’avventura, nei primi anni Venti, quando nelle riunioni quotidiane al caffè si impostavano le riviste, quando il gruppo, affascinato dalle teorie freudiane che cominciavano a circolare sull’interpretazione dei sogni, si lasciava andare all’interpretazione dei sogni, le mogli e le compagne apparivano assenti, o tutt’al più presenze silenziose: nel 1934 la Scacchiera surrealista di Man Ray immortalava un gruppo rigorosamente al maschile.
Apre la rassegna Lo specchio segreto (1920) di uno dei padri fondatori del movimento, il poeta André Breton, e viene a concluderla il poema Per essere più precisi (2001) del suo allievo Alain Jouffroy. Sempre di Breton, il «surrealista per eccellenza» è L’amore reciproco del 1944, tratto dalla raccolta Arcane 17 - uno degli ultimi libri del poeta- che insorge contro «il maschilismo e la fallocrazia»: «Sarebbe ora di far valere le idee della donna invece di quell’uomo, il cui fallimento si consuma sempre più chiaramente al giorno d’oggi…». Per non parlare del suo capolavoro, universalmente riconosciuto, Nadja, un genio libero (1928), a cui vengono dedicate più pagine e che considerò sempre «un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia consentono di legare momentaneamente a sé ma che è impensabile sottomettere».

l’Unità 10.3.08
In versione integrale la sua celebre missiva
Il coraggio di Ingrid Betancourt

«Qui tutto ha due volti, la gioia si mescola al dolore, la felicità è triste, l’amore lenisce e insieme apre nuove ferite; ricordare vuol dire vivere e morire di nuovo»: così Ingrid Betancourt scrive alla madre, «mamita», e ai figli, nella missiva lunga dodici fogli che, sequestrata in occasione dell’arresto di alcuni guerriglieri a Bogotà, trasmessa alla famiglia dal governo colombiano, a dicembre 2007, insieme con le fotografie diventate celebri che la ritraggono nella foresta, a quasi sei anni dal sequestro ha dato prova della sua esistenza in vita. Garzanti pubblica l’intero testo, per la prima volta tradotto (la traduzione dal francese è di Oliviero Ponte di Pino), con una breve prefazione di Elie Wiesel e la risposta di Mélanie e Lorenzo, i figli di Ingrid. Stesa a mano e datata 24 ottobre 2007, questa lettera ci permette di conoscere «dal vivo» lo stremato ma indefesso coraggio con cui Ingrid Betancourt resiste nel pazzesco universo in cui è costretta: un universo concentrazionario e nomade, in cui viene privata ogni giorno di più di tutto (i jeans che indossava, ultimo legame con la vita normale, i ricordi, dalle foto dei figli allo scapolare estremo ricordo del padre) ma in cui è costretta di continuo, con gli altri prigionieri, a caricarsi il bagaglio concesso in spalla e marciare a ogni mutamento di covo. E tra quanto le è stato sottratto, scrive, c’era «un programma di governo in centonovanta punti»: perché Ingrid Betancourt, di cui abbiamo ancora fissata nella retina l’immagine cerea di condannata al supplizio nella foresta, è stata sequestrata dalle Farc quando, dopo una militanza politica di anni, da deputata e senatrice impegnata contro il narcotraffico, si era candidata in Colombia alla presidenza della Repubblica. Ora, le scrivono i figli, grazie a queste dodici pagine di cui tutto il mondo ha avuto notizia, è chiaro che «la vita, i sogni, le felicità di tutti gli ostaggi, tutto questo dipende solamente da alcune persone: i dirigenti delle Farc, il governo colombiano con il quale chiedono di dialogare. Un pugno di uominini, non di più». E «quegli uomini non hanno più scuse. Forse aspettano, per l’ennesima volta, il momento “buono”?».
m.s.p.

l’Unità 10.3.08
Eroine oppure analfabete. L’Ottocento e le donne
di Anna Tito

ANTOLOGIE Fu André Breton, tra i padri del movimento, a dichiarare morti «maschilismo e fallocrazia». Una raccolta indaga il ruolo contraddittorio che questa avanguardia attribuì al «genio femminile»

Agli uomini la penna per scrivere, alle donne il filo per cucire, e tutto funzionerà a dovere: appare davvero sorprendente che un illuminista ateo e convinto, anarchico ante litteram, nonché compagno di strada del precursore del comunismo Gracchus Babeuf quale fu il francese Sylvain Maréchal (1750-1803), abbia potuto soltanto concepire l’idea di un Progetto di legge per vietare alle donne a imparare a leggere (1801). Il tutto denunciando, all’indomani della Rivoluzione, l’avvento dei «nuovi tiranni» e propugnando un’assoluta e totale eguaglianza sociale. All’ateismo il versatile Maréchal aveva già dedicato il Dizionario degli atei antichi e moderni, proibito dalla censura proprio nel 1801 e non aveva mancato di dare il proprio contributo al genere erotico con La Bibliothèque des amants, odes érotiques (1786). Ammiratore di Rousseau, del quale condivideva i pregiudizi contro il sesso femminile e grande lettore dei padri dell’Illuminismo, andò maturando la concezione di una sorta di anarco-comunismo d’impronta agro-pastorale. Visse l’ebbrezza della Rivoluzione e l’avvento della dea Ragione in sostituzione del Dio cristiano: proprio per seguire i dettami della dea Ragione, a suo avviso, giunse alla conclusione che le donne non dovessero assolutamente imparare a leggere. Come poté un coraggioso assertore del principio secondo il quale «poiché tutti hanno eguali esigenze e uguali facoltà», vi sarà per tutti «una sola educazione», giungere a proporre una così pesante e reazionaria discriminazione come quella d’impedire, addirittura per legge, alle donne l’accesso alla cultura? La spiegazione sta nel fatto che non soltanto egli continuava a sognare una società popolata di agricoltori e di pastori, dove le donne filano la lana, ma le sue idee godevano di ampio credito fra i contemporanei: nonostante la Rivoluzione, e la tanto conclamata égalité, i tempi, per le donne, non erano affatto maturi. «Imparare a leggere per le donne è qualcosa di superfluo e nocivo al loro naturale ammaestramento: è un lusso, il cui pressoché costante risultato fu la corruzione e la rovina dei costumi» e il «grazioso cicaleccio femminile compenserà con gli interessi l’assenza della penna»: con tali argomentazioni l’autore stilò l’articolo 1 del suo Progetto, che recita: «La Ragione vuole che le donne, nubili, maritate o vedove, non ficchino mai il naso in un libro, né impugnino mai una penna». D’altronde «se Caterina de’ Medici non avesse saputo leggere, non ci sarebbe stata la notte di san Bartolomeo».
Di tutt’altro tenore e assai più propositivo appare il capolavoro tradotto da Gaia Panfili La guerra delle donne di Alexandre Dumas, fresco di stampa in Italia e inedito in Francia fino al 2003, un nuovo affresco sugli anni della Fronda, intorno al 1650, un periodo di «pennacchi», di cospirazioni e di alcove che a Dumas piaceva in particolar modo. Cosa accade nel mondo de I tre moschettieri coniugato al femminile? Come si articola, sotto l’abilissima penna di Dumas, quell’universo fatto di intrighi e di avventure, di coraggio e spavalderia, di sentimenti di onore e di passione intensi quando sono le donne a combattersi, e senza esclusione di colpi? L’elemento romantico della fedeltà alla loro stessa passione, della determinazione incrollabile nel perseguire i propri obiettivi, della continuità dei loro sentimenti, fanno delle donne di questo romanzo delle eroine, tanto da essere tentati di attribuire all’autore una sensibilità «di genere». La guerra delle donne apparve per la prima volta nel 1844, con sulla scena la regina Anna d’Austria appoggiata dal ministro Mazzarino, e impegnata a fronteggiare la ribellione della nobiltà che ha eletto a proprio simbolo la principessa di Condé; entrambe le madri lottano per conto dei figli legittimi, Luigi XIV per la prima, e il piccolo Condé per la seconda. Altre due donne - eroine dai tratti contrapposte - Nanon de Lartigues e Claire de Cambes, schierate sulle opposte sponde, tessono la trama dei loro fili diplomatici, ciascuna per far vincere la propria parte, pur condividendo, ma se ne accorgeranno solo alla fine, la passione per lo stesso uomo.
Se ai personaggi maschili della storia non resta che ribadire il cliché dell’onore e del coraggio, o al contrario della furbizia gretta e canagliesca, vengono le donne a presentarsi con un inedito spessore di abnegazione e di fedeltà alla causa ritenuta giusta.

Progetto di legge per vietare alle donne a imparare a leggere di Sylvain Maréchal a cura di E. Badellino pp 135, euro 9,50 Archinto

La guerra delle donne Alexandre Dumas trad. di G. Panfili pp. 530, euro 28 Donzelli

l’Unità 10.3.08
Le riviste scientifiche chiedono che tutti i dati dei trials siano pubblici. Solo così si può scoprire se un farmaco non funziona, come è avvenuto col Prozac
Sperimentazioni cliniche: la doppia faccia della trasparenza
di Pietro Greco

Più trasparenza, nella ricerca biomedica e, in particolare, nelle indagini cliniche (trials) che servono per sperimentare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci. Lo hanno chiesto nei giorni scorsi le due più importanti riviste scientifiche del mondo, l’americana Science e l’inglese Nature. Ma lo ha chiesto di recente anche il Congresso degli Stati Uniti, con una legge - la FDA Amendments Act del 27 settembre 2007 - che impone la costituzione di un archivio pubblico e completo di tutti i risultati ottenuti da tutti i trials clinici.
Che il problema sia attuale, lo dimostra la recente pubblicazione su PlosMedicine di un’indagine - una metaanalisi, come si dice in gergo - sull’efficacia di alcuni farmaci antidepressivi. La notizia non consiste solo nel fatto, rilevante, che Irving Kirsch, dell’università di Hull, e il suo team, studiando i risultati di 35 diversi trials clinici hanno trovato che questi farmaci mostrano spesso un’efficacia non molto superiore a quella di un placebo. Ma anche nel fatto che per realizzare quest'indagine e accedere a tutte le informazioni in possesso della Food and Drug Administration degli Stati Uniti, Kirsch e i suoi colleghi hanno dovuto fare appello al Freedom of Information Act, che negli Usa impone, appunto, la trasparenza degli atti pubblici.
Grazie a questa legge Kirsch e i suoi colleghi hanno potuto studiare anche i risultati di trials clinici che avevano dimostrato l’inefficacia di alcuni antidepressivi e che, per questo, non erano mai stati pubblicati. Una prassi tutt’altro che rara. Secondo un recente studio - «Selective Publication of Antidepressant Trials and Its Influence on Apparent Efficacy» pubblicato il 17 gennaio scorso sul New England Journal of Medicine da un gruppo guidato dal Erick H. Turner della Orgenon University - il 30% degli studi clinici effettuati su 12 antidepressivi sono stati di fatto secretati e i risultati mai resi pubblici. Ciò è possibile anche perché molti trials effettuati non sono pubblicamente registrati.
Il problema non riguarda solo gli antidepressivi. È molto più generale. Se è vero che è bastata una semplice regola imposta a partire dal settembre 2005 dalle riviste scientifiche agli autori - puoi pubblicare solo se il trials da cui hai ricavato i dati è pubblicamente registrato - per far aumentare del 73% il numero di indagini cliniche registrate in tutto il mondo. In un solo mese nei soli Stati Uniti i trials clinici registrati sono passati da 13.153 a 22.714. E oggi in 153 diversi paesi del mondo ne sono registrati 53.000.
Molti - dall’Organizzazione Mondiale di sanità agli Nih degli Stati Uniti - stanno organizzando database completi sui trials clinici. Ma, naturalmente, non basta registrare che una sperimentazione è in corso e rendere pubblico il dato. Occorre che tutto il processo dei trials sia trasparente, in ogni e ciascuna sua fase, dal protocollo dell’indagine fino, appunto, ai risultati.
Non tutti sono d’accordo. A iniziare, naturalmente, dalle aziende farmaceutiche che nella trasparenza assoluta vedono minato il diritto alla proprietà intellettuale e alla loro capacità competitiva. Tuttavia, come rilevano Deborah A. Zarin and Tony Tse in un articolo su Science, in questo caso il legittimo interesse commerciale confligge con un interesse superiore, l’interesse alla salute. Sia la salute dei volontari che partecipano ai trials clinici, che mettono in gioco la propria salute e hanno, quindi, diritto a conoscere tutto intorno al rischio che corrono. Sia, più in generale, la salute di noi tutti, pazienti attuali o potenziali. Che può essere minacciata dalla mancata pubblicazione sull’efficacia e la sicurezza di un farmaco.
In conclusione: non c’è dubbio alcuno, occorre la massima trasparenza nella ricerca biomedica e, in particolare, nella sperimentazione dei farmaci.
Ma massima trasparenza significa trasparenza assoluta? Non affrettatevi a rispondere. Prendiamo in esame il caso, attuale, della Pfizer - la più grande azienda farmaceutica del mondo - che ha trascinato in tribunale proprio il New England Journal of Medicine perché, nell’ambito di una strategia a tutela di alcuni suoi prodotti, vuole conoscere il nome di tutti i peer reviewers (gli esperti volontari e anonimi che sottopongono un articolo scientifico ad analisi critica prima della sua pubblicazione), di tutte le procedure editoriali interne della rivista e tutti i manoscritti ricevuti relativi a due suoi farmaci, il Bextra e il Vioxx, piuttosto criticati ultimamente. A parte la situazione bizzarra - per cui in questo caso è un’azienda farmaceutica a chiedere la massima trasparenza - se il magistrato dovesse accogliere la richiesta, l’intero sistema della peer review - ovvero della comunicazione scientifica - verrebbe minato. Il che dimostra che la trasparenza deve essere un mezzo ma non il fine. Il fine, in medicina, è uno solo: la migliore tutela possibile della salute dei cittadini. Garantita, anche, dall’autonomia della scienza (autonomia dalla politica, dalla religione e dall’economia) e dalle sue prassi sociali.

Repubblica 10.3.08
Una modifica alla legge solleva la rivolta delle comunità religiose
Fecondazione svolta a Londra sperma artificiale per far nascere i bambini
Imminente il voto sul sì alla fecondazione assistita
di Enrico Franceschini

LONDRA - I sostenitori del progetto lo annunciano come una soluzione al problema delle coppie che non possono avere figli e non possono, o non vogliono, ricorrere a donatori di sperma. Gli oppositori lo descrivono come un tentativo di «giocare a prendere il posto di Dio». L´oggetto del contendere è la nuova legislazione che regolamenta i metodi per la fecondazione artificiale e la ricerca sugli embrioni in Gran Bretagna. Nei prossimi giorni la camera dei Comuni dovrà discutere il voto definitivo in materia, e secondo le previsioni della stampa londinese un crescente gruppo di deputati, appartenenti sia alle file del governo che all´opposizione, si preparano a far passare un emendamento che permetterebbe l´uso di «sperma artificiale» per il concepimento.
Una prospettiva che suscita forte opposizione per motivi di natura etica da parte di gruppi religiosi, e che rischia di mettere in difficoltà il governo laburista di Gordon Brown, di cui fanno parte tre ministri cattolici apertamente ostili alla nuova legge e pronti a dimettersi nel caso fosse approvata.
Qualche mese fa ricercatori della Newcastle University hanno reso noto di essere riusciti a ricavare sperma artificiale da cellule staminali, estratte dal midollo spinale, in topi di laboratorio. Gli studiosi hanno quindi completato l´esperimento, con la nascita di un certo numero di topi utilizzando lo sperma artificiale, anche se tutti gli animali sono morti nel giro di pochi mesi e molti soffrivano di varie anomalie e disturbi genetici. Gli esperti credono tuttavia che esperimenti per riprodurre la medesima tecnica sugli esseri umani potrebbero iniziare nel giro di cinque o dieci anni.
Associazioni per il diritto alla vita come Comment on Reproductive Issue denunciano tecniche di questo tipo come un´infrazione delle norme religiose ed etiche: in questo modo, affermano, sarebbe possibile in futuro concepire un figlio che abbia un unico genitore, una donna che ne è al tempo stesso padre e madre, rendendo addirittura inutile l´esistenza del maschio a fini riproduttivi. L´emendamento alla legge sulle staminali e sugli embrioni, presentato dal deputato liberal-democratico Evan Harris, in realtà prevede che lo sperma artificiale possa essere utilizzato soltanto quando ne fanno uso due persone, uomo e donna, e per casi in cui i genitori non possono avere figli, per esempio a causa di malattie. «E´ una soluzione che risolverebbe il problema del deficit di donatori di sperma», afferma il deputato Harris. Ma Josephine Quintavalle, del gruppo Comment on Reprodutive Issue, ribatte: «E´ assurdo legiferare su un meccanismo che non è ancora nemmeno scientificamente riuscito e su una materia le cui conseguenze fisiche, psicologiche e morali non sono prevedibili». E dall´Italia arriva l´invito a una «grande cautela». La prospettiva - commenta Carlo Flamigni, pioniere delle tecniche di fecondazione assistita - richiede un lavoro di ricerca «molto complesso», ogni progetto non può che essere «a lunghissima distanza».

Repubblica 10.3.08
Macchè decalogo: Ciarrapico: sempre fascista, vado con Silvio
di Antonello Caporale

Il decalogo sui carichi penali? Ma io ho tutti i diritti civili e politici, Bondi non perda tempo con il sottoscritto

Settantaquattro anni di fascismo molto ben portati. Giuseppe Ciarrapico imprenditore multicanale («ho amici a destra e a sinistra») impugnerà la fiaccola nel Senato della Repubblica. Così ha deciso Silvio Berlusconi. Sette giorni fa la comunicazione, oggi l´annuncio ufficiale.
«Fare il senatore di Roma a chi per una vita ha studiato e onorato la bandiera della Civiltà romana ha il senso del coronamento finale, del passo che conclude un cammino lungo».
La Civiltà romana saluta Benedetto XVI.
«Un grande striscione in piazza San Pietro. C´ero anch´io, nel giorno in cui molti politici accorsero. Alcuni s´inginocchiavano, noi ci inchiniamo davanti al Pontefice».
Viva il Duce!
«Il fascismo mi ha dato sofferenze e gioie. Mai rinnegato, mai confuso, mai intorpidita la mente da pensieri sconclusionati e antistorici».
Chissà Gianfranco Fini come sarà contento.
«Di Fini non conservo alcun interesse politico. La sua alleanzuccia non mi è mai piaciuta. Mi sono tenuto lontano e ho fatto bene. Ho visto che ha accettato di unirsi a Silvio Berlusconi».
Lei parla col Capo, non con i sottoposti.
«Con Berlusconi l´amicizia è di antica data. E il suo ingegno è davvero raro. Sabato al Palalido di Milano ho conosciuto la potenza di questo movimento».
Ha conosciuto anche Bondi? Secondo il decalogo da lui diramato coloro che hanno un aggravio giudiziario dovrebbero essere esentati dalla corsa.
«Ho tutti i diritti civili e politici integri. Bondi badi alle vicende altrui e non inganni il tempo con riflessioni sul sottoscritto».
Bondi nemmeno ha fiatato, per la verità. Le stavo riferendo il decalogo.
«Ah, capito».
Un Ciarrapico si sarebbe visto meglio in compagnia di Storace.
«E´ un caro amico. Al momento della fondazione del suo movimento io accompagnai Berlusconi. E la platea mi tributò un applauso inaspettato e gradito».
Con i lineamenti fascinosi della Santanchè la Destra trova anche il senso di una relazione intima con l´Italia del Duemila.
«La conosco bene. Ma ho detto a Starace...».
Storace, con la o.
«Sto lavorando a una biografia di Starace. Scusi la confusione».
A Storace ha detto...
«Non possiamo fare "io, mammeta e tu"».
In effetti le sue idee le ha tenute vive seguendo fedelmente Andreotti.
«Con il peso di tutto quello che sono».
A proposito di peso: perché appesantisce le pareti delle redazioni dei suoi giornali con le foto del Duce?
«Bellissimo».
Ad Isernia le colleghe sono costrette al lavoro sotto quell´occhio così vigile.
«Ovunque c´è».
Potrebbe alleggerire pur dentro il solco del nuovo corso. Un ritratto dei Village People, per esempio?
«L´ultima volta che sono stato a Predappio era, mi pare, ottobre. Sedicimila persone».
Tante.
«E quando prendo la mia barchetta in estate e vado a Gallipoli faccio sempre un salto al cimitero dov´è sepolto Storace».
Starace.
«Grande uomo».
Berlusconi vincerà.
«Intelligenza raffinatissima».
Costerà tanta fatica far rialzare l´Italia.
«Come si disse: governare gli italiani non è faticoso. E´ totalmente inutile».
Ritorna sempre il giovane balilla.
«Il mio sogno era fare il tamburino dei balilla».
Sua zia le comprò il tamburo.
«Ma io cambiai sogno: puntai a fare il mazziere».
Il capo in testa.
«Quello che sta avanti e che guida».

Repubblica 10.3.08
Galileo Galilei. L'"intervista impossibile" allo scienziato
di Piergiorgio Odifreddi


"Ho investigato la natura dell´Inferno: è come un cono, il cui vertice è al centro del mondo e la base verso la superficie della terra"
"Spero che lo scopritore della Teoria della Relatività non abbia dovuto subire gli stessi attacchi del potere costituito che toccarono a me"
Un viaggio nella sua concezione dell´universo, della filosofia e della letteratura. E i suoi punti in comune con Calvino, Primo Levi, Einstein

«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l´universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne´ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola».
Messer Galileo, ci scusi se l´interrompiamo per l´intervista che abbiamo concordato. Che cosa stava facendo?
«Stavo rileggendo una pagina del mio Saggiatore. Una delle poche rimaste attuali, visto che in quel libro sostenevo una teoria completamente errata: che le comete, cioè, fossero illusioni ottiche prodotte dalla luce solare sul materiale esalato dalla Terra verso la Luna e oltre, e non corpi reali».
Ma quella pagina vale da sola tutto il libro, e contribuì a far dichiarare a Italo Calvino che lei è stato «il più grande scrittore italiano di tutti i tempi».
«Addirittura? Più di Padre Dante e Messer Ariosto?»
Almeno fra i prosatori. Ma visto che ha citato i poeti, ci dica quale fu il suo rapporto con Dante e Ariosto.
«Su Dante ho tenuto nel 1588 Due lezioni all´Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell´Inferno, nelle quali notavo che, se è stata cosa difficile e mirabile l´aver potuto gli uomini, per lunghe osservazioni, con vigilie continue e per perigliose navigazioni, misurare e determinare gli intervalli dei cieli, le grandezze delle stelle e i siti della terra e dei mari, allora quanto più meravigliosa dobbiamo stimare l´investigazione del sito e della natura dell´Inferno, sepolto nelle viscere della terra, nascosto a tutti i sensi, e da nessuno per nessuna esperienza conosciuto!»
E quali furono i risultati di queste sue investigazioni?
«Che l´Inferno è a guisa di una concava superficie che chiamano conica, il cui vertice è nel centro del mondo e la base verso la superficie della terra. E quanto alla grandezza, è profondo l´Inferno quanto è il semidiametro della terra. E nella sua sboccatura, che è il cerchio attorno a Gerusalemme, è altrettanto per diametro».
Dell´Ariosto, invece, che ci dice?
«Il poema dell´Orlando Furioso era la mia delizia: in ogni discorso recitavo qualcuna delle sue ottave, e mi vestivo in un certo modo di quei concetti per esprimere i miei. Ho scritto una serie di Postille all´Ariosto e di Considerazioni al Tasso, le prime per il gusto di un´amorosa lettura e le seconde per partecipare a una polemica: avevo fatto interporre carte bianche a quelle stampate della mia copia della Gerusalemme Liberata, e nel corso di qualche anno avevo osservato che i motivi che mi facevano anteporre l´Ariosto al Tasso erano molti più in numero e assai più gagliardi».
Se le chiedessi di leggere una sua pagina come testimonianza della sua vena letteraria, su quale cadrebbe la sua scelta?
«Forse queste osservazioni sulla scrittura, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: "Quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e ‘ntrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun´altra alterazione che il declinar del tratto dirittissimo, talvolta un pochettino a destra e a sinistra, e il muoversi la punta della penna or più veloce ed or più tarda, ma con minima inegualità"».
Mi ricorda la fine del Barone rampante di Calvino, appunto: vuol provare a leggere pure questa?
«Certo, vediamo: "Questo filo d´inchiostro, come l´ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s´intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito"».
Mentre ci siamo, le farei leggere anche la fine del Sistema periodico di Primo Levi.
«Perché no, vediamo: "Questa cellula appartiene a un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l´atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. E´ quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa si che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su e in giù, fra due livelli d´energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo"».
Come vede, lei ha fatto scuola in letteratura, e Calvino aveva buoni motivi per considerarsi il punto d´arrivo di una linea che, partendo dall´Ariosto e passando attraverso lei e Leopardi, arrivava fino a lui. Ma, passando al suo vero lavoro, quale considererebbe il contributo più duraturo da lei dato alla scienza?
«Forse quello che oggi mi sembra voi chiamiate, non a caso, principio di relatività galileiana».
Come lo racconterebbe a un profano?
«Come già feci nella Seconda Giornata dei miei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, proponendogli di rinserrarsi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coperta di un gran naviglio, e quivi far sì di avere mosche, farfalle e simili animaletti volanti. E anche un gran vaso d´acqua con dentro dei pescetti. E un secchiello sospeso in alto, che a goccia a goccia vada versando dell´acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso. E stando ferma la nave, di osservare diligentemente come quegli animaletti volanti con pari velocità vadano verso tutte le parti della stanza, i pesci nuotino indifferentemente per tutti i versi, le gocce cadenti entrino tutte nel vaso sottoposto. E poi faccia muovere la nave con quanta voglia velocità e noti che, purché il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là, egli non riconoscerà una minima mutazione in tutti gli effetti nominati, né da alcuno di quelli potrà comprendere se la nave cammina o pure sta ferma».
Se prova a leggere questo brano della Relatività di Albert Einstein, si accorgerà di aver fatto scuola anche nella divulgazione scientifica.
«Vediamo: "Supponiamo che un treno molto lungo viaggi sulle rotaie con velocità costante: ogni evento che ha luogo sulla banchina ferroviaria, ha pure luogo in un determinato punto del treno. Domanda: due eventi, per esempio due colpi di fulmine A e B, che sono simultanei rispetto alla banchina ferroviaria, saranno tali anche rispetto al treno? Se il treno è fermo e un osservatore è seduto nel punto medio tra A e B, i raggi di luce emessi dai bagliori dei fulmini lo raggiungono simultaneamente. Tuttavia, se il treno si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A, l´osservatore vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quello emesso da A. Perveniamo così all´importante risultato che gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno, e che ogni corpo di riferimento ha il suo proprio tempo particolare».
Cosa ne pensa?
«Mi sembra di vedere, allo stesso tempo, una continuità e una discontinuità col mio lavoro: sembra che la luce non si comporti, rispetto alla mia nave, allo stesso modo degli animaletti volanti, dei pesci e delle gocce cadenti».
Effettivamente, la relatività einsteniana costituí una rivoluzione intellettuale tanto innovatrice, quanto lo fu la sua rispetto alla fisica aristotelica.
«Spero allora che Einstein non abbia dovuto subire gli stessi attacchi dal potere costituito, e non abbia dovuto sopportare le stesse tragiche conseguenze, che toccarono a me».
Ciò che a lei fecero i cattolici, a lui fecero i nazisti: costringendolo, in particolare, a un esilio dal quale non tornò più.
«Dovette pure lui abiurare?»
Non l´avrebbe mai fatto: in questo, era diverso da lei.
«Sono contento per lui: piegarsi a pronunciare certe parole è un´umiliazione dalla quale non si guarisce, e inginocchiarsi di fronte al potere religioso o politico è un tradimento della propria professione».

Corriere della Sera 10.3.08
Il Papa «La scienza non crei un mondo di vecchi»
«No alla pillola della vita infinita»
di Bruno Bartoloni

Il richiamo «Ci sono tentativi della scienza, ma non si può sperare nel prolungamento biologico dell'esistenza»
Il Papa: no a una pillola dell'immortalità
«Spaventoso un mondo di vecchi. Dignità dell'uomo se è embrione o in coma»
Monsignor Ravasi apre agli atei

Il presidente della Pontificia commissione della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, non esclude che anche atei partecipino alle assemblee plenarie del suo dicastero: «Avere come interlocutore una o più persone che vedono e interpretano il mondo dall'altro punto di vista diventa quasi, per certi versi, indispensabile».
Appello del Pontefice: «Se l'uomo vive solo biologicamente non sviluppa tutte le potenzialità del suo essere»

CITTA' DEL VATICANO — Benedetto XVI è tornato a condannare aborto ed eutanasia con immagini forti: anche se è in coma o anche se è un embrione, un uomo è sempre un uomo e la sua dignità va rispettata. E ha attaccato uno dei miti più antichi dell'umanità, ripreso attraverso i secoli: il mito della fonte dell'eterna giovinezza, o dell'allungamento della vita, ora ricercato attraverso la scienza moderna. Se si potesse bere a tale — ha commentato — pur essendo parte di questo grande biocosmo, lo trascende: l'uomo è sempre uomo con tutta la sua dignità, anche se in stato di coma, anche se embrione. Ma se vive solo biologicamente non sviluppa e non fonte o se la scienza potesse inventare una «pillola dell'immortalità » ci sarebbe un mondo di soli vecchi e non ci sarebbe più spazio per i giovani. La medicina è meritoria ma non può rispondere al bisogno d'eternità. Lo ha detto ai ragazzi del Centro Giovanile San Lorenzo, nella chiesa di San Lorenzo in Piscibus.
L'occasione per parlare di vita e morte gli è stata offerta dal Vangelo della risurrezione di Lazzaro, che viene letto la quinta domenica di Quaresima, l'ultimo grande segno compiuto da Gesù e che spinse i sacerdoti del Sinedrio a uccidere sia lui sia lo stesso Lazzaro, il quale morì così due volte in pochi giorni. «L'uomo
Le assemblee in Vaticano
realizza le potenzialità del suo essere che gli aprono nuove dimensioni ». «La prima dimensione — ha sottolineato Benedetto XVI — è quella della conoscenza, una conoscenza che nell'uomo, a differenza degli animali, s'identifica con una sete d'infinito. Tutti aspiriamo a bere dalla fonte stessa della vita e per farlo ci affidiamo alla seconda dimensione della natura umana che è l'amore: infatti l'uomo non è solo un essere che conosce, ma vive in relazione di amicizia e di amore. Oltre alla dimensione della conoscenza e della verità esiste, inseparabile da questa, la dimensione della relazione. Qui, ha osservato, si avvicina di più alla fonte della vita, dalla quale vuol bere per avere vita in abbondanza, la vita stessa». E qui il Papa ha voluto ridimensionare il ruolo della scienza e della medicina. Non bisogna farsi illusioni perché «rappresentano una grande lotta per la vita, ma non possono soddisfare il bisogno di eternità che è proprio dell'uomo. Neanche se venisse scoperta la pillola dell'immortalità. Cosa succederebbe con una vita biologica immortale dell'uomo?», si è chiesto. «Avremmo — ha detto ai ragazzi — un mondo invecchiato, un mondo di vecchi che non lascerebbe più spazio ai giovani, alla novità della vita. Non può essere quel tipo d'immortalità, il bere dalla fonte della vita, che noi tutti desideriamo. L'unico vero farmaco dell'immortalità, ha affermato, è l'eucarestia e la certezza di essere amati e aspettati da Dio, sempre».
Il pontefice ha parlato ancora di vita e morte ai pellegrini in piazza San Pietro. Ha ricordato che per Gesù il suo amico Lazzaro si era solo «addormentato » e che quindi andava a «svegliarlo». Esprimeva con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede come un sonno, da cui ci si può risvegliare. «In verità — ha assicurato il Papa — è così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento ».

Corriere della Sera 10.3.08
Allungare la vita è diventato possibile. Perché non provarci?
di Edoardo Boncinelli

Nei suoi attributi materiali, e in quanto essere vivente, l'uomo appartiene alla biosfera, ha detto ieri il Papa, e segue le sue leggi. Ma è anche vero che l'uomo trascende tutto questo; l'uomo rimane uomo e mantiene tutta la sua dignità anche se è un embrione o in stato di coma. Il Pontefice è poi passato a parlare di una possibile, ma non auspicabile, immortalità terrena. A me non resta che parlare di quello che sappiamo a proposito della biosfera e fare un paio di considerazioni. In primo luogo devo notare come si continui a parlare di embrione in modo generico, intendendo con questo termine tutto quello che avviene dal concepimento alla nascita, un periodo nel quale accade di tutto, compresa la comparsa di un vero e proprio embrione, solo alla fine della seconda settimana di gestazione.
Per le prime due settimane l'embrione umano non esiste proprio e dopo il secondo mese l'embrione prende il nome di feto. Forse non è importante, ma se parliamo di biosfera è meglio precisare. Sempre parlando di biosfera, vediamo la questione dell'immortalità terrena. Diciamo subito che la pillola dell'immortalità non esiste e forse non esisterà mai: l'immortalità non è di questo mondo. Possiamo parlare invece, eccome!, di allungamento della vita. Per la prima volta nella storia, la vita media si è allungata considerevolmente in questi ultimi decenni, e si sta continuando ad allungare, al ritmo di un trimestre guadagnato per ogni anno che passa.
Non è successo niente di miracoloso, nemmeno in senso scientifico. È stato un complesso di motivi, di natura nutrizionale, sanitaria e clinica, che hanno contribuito, lentamente ma inesorabilmente, ad allungarci la vita: si mangia di più e meglio, si disinfettano gli ambienti, si combattono le malattie infettive e si fa un po' di sana prevenzione. Questo processo, in atto in tutti i Paesi del mondo, ha visto due fasi distinte: in una prima fase la vita media si è allungata soltanto perché è molto diminuita la mortalità infantile — una voce che prima pesava enormemente nel bilancio della sopravvivenza umana; in una seconda fase, tipica dei Paesi più sviluppati, si è allungata anche la seconda parte della vita, grazie agli avanzamenti della medicina: preventiva, curativa e rigenerativa. Il nostro Paese si trova oggi ad aver nettamente superato la prima fase e a veleggiare nell'ambito della seconda. Che non mostra alcun rallentamento: la prevenzione e la cura delle malattie dell'età avanzata sta facendo mirabilie ed ha ancora in serbo molte sorprese. La nostra vita media è al momento di più di 83 anni per le donne e di circa 77 anni per gli uomini. Nessuno sa dove potrà condurre tutto ciò, anche se è ragionevole pensare che altri dieci anni di vita media li riusciremo a strappare nei prossimi quaranta anni. Se la vita media è cresciuta e se ce la passiamo abbastanza bene, però, non possiamo dire che il periodo della giovinezza si sia sensibilmente esteso. Per ottenere questo risultato, occorrerà intervenire direttamente sui nostri geni, dal momento che cominciamo a conoscere dove e come intervenire per estendere considerevolmente la nostra vita. E la nostra giovinezza. Negli ultimi venti-trenta anni abbiamo imparato infatti quanti e quali geni controllano il progredire dell'invecchiamento e la lunghezza della vita. Agendo su alcuni di quelli è stato possibile triplicare e quadruplicare la vita di animali come insetti o vermetti e i meccanismi biologici che operano in questi organismi sono gli stessi che operano in noi. Non so se e quando intraprenderemo questo ulteriore passo, ma possiamo anticipare che allora l'aumento della vita media non sarà necessariamente di modesta entità. Dal punto di vista biologico quindi la situazione è promettente e anche parecchio interessante. È dubbio che l'umanità resisterà a questa tentazione e non si vede nemmeno perché lo dovrebbe fare. Certo che tutto ciò creerà grandi problemi di natura economica e sociale. Saremo sempre di più e consumeremo sempre di più. Ci sarà una proporzione sempre maggiore di persone in età post-riproduttiva. Occorrerà anche riorganizzare il lavoro e il suo rapporto con il tempo libero, non fosse altro perché le motivazioni psicologiche dei sessanta anni non sono quelle dei venti, né quelle degli ottanta sono quelle dei cinquanta. Occorrerà — o forse occorre già oggi — ripensare la società nel suo insieme.
GUARDA il video dell'intervento del Papa sulla difesa della vita e la corsa all'immortalità sul sito www.corriere.it

Corriere della Sera 10.3.08
Marino: un errore forzare la biologia
di Margherita De Bac

«No, nessuno mette in discussione che una vita in coma non abbia dignità. Bisogna però essere liberi di indicare, sulla base della Costituzione, fino a dove si devono spingere le terapie. Se manca l'esplicita volontà del malato, già espressa in vita, nessuno ha diritto di interrompere le cure. Se questa volontà però esiste e non c'è ragionevole speranza di recupero dell'integrità intellettiva la stessa libertà dovrebbe essere riconosciuta per legge. Un concetto presente anche nel catechismo della Chiesa scritto da Ratzinger».
«Credo che l'indicazione importante e legittima del Santo Padre vada distinta dalle leggi di uno Stato laico. Su questo auspico si apra un dibattito serio».
«Evitiamo distinzioni biologiche. L'etica cattolica riconosce il principio di precauzione fin dal concepimento».
«Sì, al di là della visione religiosa io condivido. Non vorrei che la mia vita fosse prolungata oltre il possibile, specie se non ho autonomia fisica e intellettiva. È più utile che le risorse vengano usate per migliorare le condizioni di chi non ha la minima assistenza. Pensiamo a Aids, tubercolosi e malaria. Tutte insieme fanno 6 milioni di morti al mondo».
ROMA — «Cosa mi ha colpito di più del suo discorso? Che abbia pronunciato la parola coma. Ho pensato alla conflittualità creata dal caso Welby sul diritto all'autodeterminazione nella scelta delle terapia», commenta il senatore Ignazio Marino, del Pd.
La legge sul testamento biologico che lei avrebbe voluto non è in contrasto col pensiero del Papa? Che legge sarebbe stata la sua?
«Una legge che non sia un piano inclinato verso l'eutanasia. Anzi, io dico di più. Per me la dignità è tale anche oltre il coma, quando subentra lo stato vegetativo permanente, che esclude possibilità di risveglio. La vita di Eluana Englaro non è meno degna della mia».
L'uomo è uomo anche da embrione, dice il Papa. È d'accordo? L'affermazione di Ratzinger è un nuovo altolà alla scienza. Condivide?
«La scienza soccorre la fede. Oggi si può tutelare l'embrione sperimentando su cellule staminali adulte».
Per gli inglesi l'embrione è tale solo dopo il quattordicesimo giorno. È sbagliato cercare l'immortalità?

Corriere della Sera 10.3.08
La strategia dopo il programma pd strappato in pubblico
Silvio, pronti nuovi affondi Ma l'intesa con Walter resta
di Francesco Verderami

ROMA — Hanno iniziato a duellare e continueranno a farlo. In nome dell'intesa. Ognuno con il proprio stile, Berlusconi e Veltroni alzeranno fino al 13 aprile il livello dello scontro, per quel comune interesse politico che gli analisti hanno evidenziato con una serie di sondaggi riservati: la tendenza alla bipolarizzazione del sistema — secondo gli studi — «è già in atto», ma una sfida più serrata e diretta aiuterà i leader del Pdl e del Pd a «radicalizzare il processo», a «concentrare l'attenzione» (e il voto) sui rispettivi partiti. Lo sanno anche i loro avversari, che infatti temono le ultime settimane di campagna elettorale. Se i due realizzassero l'obiettivo del pieno nei consensi, chiuse le urne potrebbero gestire con più facilità il patto che hanno sottoscritto, e che si fonda sulla reciproca convenienza di modificare il sistema.
Insomma, l'intesa non traballa. Come spiega un autorevole dirigente democratico, «non saranno un paio di fogli strappati durante un comizio a mettere in discussione l'impianto dell'accordo », che parte dalla volontà di riformare le istituzioni. Erano altri i passaggi importanti, e si sono consumati. A partire dalla formazione delle liste, dove il Cavaliere e l'ex sindaco di Roma avevano stabilito di ridurre il più possibile la frammentazione nei rispettivi campi. Quanto sta accadendo in queste ore, e quanto accadrà di qui al voto, appartiene quindi alla «fisiologia della competizione».
Prova ne sia che l'affondo di Berlusconi non ha colto di sorpresa al loft, dove erano preparati da tempo, quasi che la mossa fosse stata preannunciata: ne erano talmente certi gli uomini di Veltroni, che avevano già discusso se e come fronteggiarla. Il leader del Pd ha deciso di «non cambiare impostazione », perché «visto che ci siamo presentati con una proposta nuova, dobbiamo ora dare l'immagine di chi vuole innovare il linguaggio». E se Berlusconi ha iniziato a mostrare i muscoli, è anche perché la sua task force comunicativa — guidata dal portavoce Bonaiuti — ha evidenziato la tecnica di Veltroni, che sfruttando il «profilo buonista» non ha risparmiato «colpi sotto la cintura», sull'età del Cavaliere — per esempio — e sulla sua inaffidabilità come capo di governo, dunque come «uomo del fare». Semmai a disturbare l'ex premier sono certe battute di D'Alema, «quello che mi dipingeva con lo scolapasta in testa, quello che mi dava per finito. Chi è finito?».
Il patto con Veltroni includeva comunque il duello. Raccontano che Berlusconi sia pronto a una nuova offensiva sul fronte gestito finora meglio dal capo dei democratici: «Se pensa di aver fatto dimenticare Prodi, si sbaglia. Ricorderò agli italiani anche quel che hanno fatto i ministri del governo Prodi, che sono tanti e sono tutti in lista». Lo dirà ai candidati del Pdl che riunirà in settimana a Roma, da dove partiranno anche i camper di centrodestra che attraverseranno l'Italia. Ma lo farà soprattutto, così è in programma, andando «sui luoghi dei disastri» insieme a Fini. Durante la tappa di Napoli, infatti, non si limiteranno a una manifestazione per denunciare l'emergenza rifiuti, andranno proprio in mezzo ai rifiuti. L'idea è sottolineare quanto detto dal leader di An: «Possono cambiare il direttore d'orchestra, però la musica è sempre quella». Il dialogo tuttavia reggerà, per quanto aspro potrà essere lo scontro: «Chi dice che si è rotta la tregua — ha spiegato ieri Fini ai suoi — in realtà vorrebbe che non facessimo campagna elettorale».
Hanno iniziato a duellare e continueranno a farlo, ma Berlusconi e Veltroni non intendono spezzare il filo del dialogo, e poco importa se negli ultimi giorni le comunicazioni tra i loro due plenipotenziari - Gianni Letta e Bettini - sono diminuite. Al Cavaliere serve il dialogo con il leader Pd anche per avere in mano la carta di riserva. È vero infatti che considera ormai acquisita la vittoria alla Camera, ma ci sarà un motivo se per il Senato continua a chiedere ai suoi: «Come va nelle regioni?». Qualora a palazzo Madama mancassero i numeri, l'accusa rivolta al Pd di aver «copiato» il programma del Pdl potrebbe trasformarsi in un'offerta di collaborazione, non più limitata ai temi istituzionali. «In fondo Veltroni si è preso anche i miei slogan», ha commentato giorni fa il Cavaliere: «Lui ha annunciato che, se vincesse, l'Italia tornerebbe al boom degli anni Sessanta. Ma è quello che dissi io nel '94, quando parlai del nuovo miracolo italiano».

Corriere della Sera 10.3.08
La tesi Secondo il filosofo della politica le manifestazioni di massa del Novecento furono «insorgenze»
Populismo in piazza all'italiana
Il Sessantotto come l'interventismo e il fascismo: la lettura di Matteucci
di Giovanni Belardelli

I saggi di Nicola Matteucci sulla rivolta studentesca di fine anni Sessanta (ora ripubblicati da Rubbettino con il titolo Sul Sessantotto, a cura di Roberto Pertici, presentazione di Gaetano Quagliariello, pagine 108, e
14) valgono, da soli, più di gran parte di ciò che si è finora scritto su quegli eventi. È vero che Matteucci scriveva a caldo, a ridosso dei fatti, ciò che spesso costituisce un ostacolo per la loro comprensione; ma è vero anche che riusciva ad andare oltre i punti di vista — l'uno simpatetico- nostalgico, l'altro banalmente critico — che da quarant'anni risultano prevalenti ogni volta che, almeno in Italia, si parla e si scrive di Sessantotto.
Per Matteucci la rivolta studentesca non fu, o meglio non fu soprattutto, un semplice episodio di una grande rivoluzione esplosa in tutto il mondo, da Berkeley a Parigi, da Berlino a Praga. Il Sessantotto italiano, che molti cercavano erroneamente di spiegare appiattendosi su ciò che proclamavano i protagonisti nei loro slogan, giornali, opuscoli, andava considerato una forma di «insorgenza populista» da ricollegare a dinamiche profonde del Paese. Con questa espressione — contenuta in un saggio pubblicato nel 1970 sulla rivista «Il Mulino » — Matteucci cercava di definire un insieme di manifestazioni politiche nutrite di idee semplici, di passioni elementari, che superavano la tradizionale distinzione tra conservatori e progressisti e si accompagnavano a una forte propensione attivistica (e potenzialmente violenta). Si trattava di un fenomeno non inedito nella storia del Paese: nel 1914-15 l'interventismo era stato appunto una forma di «insorgenza populista», che aveva coagulato forze di diversa provenienza, di destra e di sinistra, in una comune condanna dell'Italia liberale; qualche anno dopo lo era stato anche il fascismo di sinistra, con la sua esaltazione di una «nazione proletaria» in guerra contro le «demoplutocrazie». Rispetto a quegli antecedenti, il Sessantotto interpretato come «insorgenza populista» si caratterizzava anche per un elemento nuovo: un «cattolicesimo progressista» fortemente orientato a sinistra sulla base dell'incontro tra la «mistica dell'operaio» di matrice marxista-comunista e la «mistica del povero». Non a caso il movimento degli studenti teneva in grande considerazione la Lettera a una professoressa
di don Milani, che contrapponeva alla cultura dei «signori» la verità e la cultura dei «poveri».
Ma gli articoli e saggi di Matteucci ripubblicati in questo volume presentano un grande interesse anche per un altro motivo, meno direttamente collegato all'analisi del Sessantotto italiano: quei testi, grazie anche all'ottima introduzione di Pertici, danno conto della qualità intrinseca di posizioni liberali tra le più meditate e originali nell'intera storia repubblicana.
Proprio con riferimento all'esaltazione sessantottina della libertà come spontaneità, Matteucci notava che la libertà liberale si collocava in realtà agli antipodi della libertà come liberazione degli istinti, in particolare sessuali, teorizzata da Herbert Marcuse. Mentre nella civiltà liberale la libertà consiste nella «riscoperta della coscienza morale dell'uomo come sola forza creatrice», nella civiltà del benessere (e nei suoi critici sessantottini, che da questo punto di vista ne erano a tutti gli effetti i figli) la libertà è concepita «come soddisfazione individuale dei bisogni», in senso meramente edonistico.
Coerentemente con queste idee, Matteucci richiamava la necessità — già individuata da Tocqueville — che una democrazia possa giovarsi di «potenti fedi religiose o etiche», di «robuste passioni morali capaci di trascendere l'animalità dell'uomo». Da ciò, nota Pertici, quell'insistere sulla necessità del dialogo tra liberali e cattolici che rendeva la sua posizione abbastanza diversa da quella di altri esponenti della cultura liberaldemocratica italiana. Matteucci, ad esempio, scriveva di ritenere «assai pericoloso confondere il pensiero liberaldemocratico con il laicismo» poiché in tal modo si rendeva il primo «una concezione del mondo totalizzante, una religione».
Ma, nel libro, la peculiarità delle sue posizioni nel quadro della cultura liberale italiana emerge anche dal necrologio del «Mondo», pubblicato nel 1966 sul «Mulino» a commento della chiusura della rivista di Mario Pannunzio. Matteucci vi denunciava il progressivo slittamento verso sinistra di una parte della cultura liberale, quella di matrice gobettiana e azionista, portata a guardare al Partito comunista come proprio interlocutore privilegiato. Basta richiamare il credito che il «liberalismo azionista» ha avuto negli anni successivi, per rendersi conto di quanto le posizioni di Nicola Matteucci fossero destinate a rimanere isolate.

domenica 9 marzo 2008

l’Unità 9.3.08
Quel che noi donne abbiamo insegnato al sindacato...
di Adele Cambria

Dentro al corteo le lotte delle casalinghe, delle single, delle madri, delle immigrate e non solo: oggi camminiamo insieme dietro le stesse bandiere

Il campanile romanico di Santa Maria in Cosmedin, il verde tondeggiante e luminoso dei pini dell’Aventino e i colori delle bandiere, tante, del corteo delle donne (e degli uomini) dei sindacati. Da Epifani ad Angeletti a Bonanni, molti gli interventi dal palco di Piazza Navona, dove il lungo serpentone svettante di bandiere è approdato nel tardo pomeriggio di ieri, attraversando una città che si affollava per vederlo.
Come fosse uno spettacolo di cui si aveva voglia: l’aspettavano al passaggio, riempiendo la rampa del Campidoglio e l’ardua scalinata dell’Ara Coeli, affacciandosi dalle balaustre del Vittoriano. Un bel corteo (ma non era eccessivo lo schieramento delle forze dell’ordine e dei blindati?): e man mano che avanza, le voci femminili che rumoreggiavano da lontano prendono corpo. Camminando accanto ad un furgoncino, una ragazza scandisce al microfono le quattro parole scelte come simbolo e sintesi della manifestazione: «Sviluppo-Lavoro-Qualità della vita-Libertà di scelta». Sono quelle che giganteggiano sullo striscione giallo che apre il corteo, sotto le tre sigle sindacali, Cgil, Cisl, Uil. E, una dopo l’altra, avvicendandosi, le donne danno ragione delle loro rivendicazioni: dalla «condivisione del lavoro di cura con il partner» alla richiesta che «tutto il lavoro delle donne entri a far parte del Pil, anche quello domestico non ancora riconosciuto». In verità, non fu mai riconosciuto, neanche nei testi sacri del marxismo - Carlo Marx parlava di «lavoro spontaneo delle donne e dei fanciulli all’interno della famiglia». Fu il neofemminismo degli Anni 70, dall’Inghilterra all’Italia, dai testi teorici di Selma James a quelli di Maria Rosa Dalla Costa, fino alle pratiche dei Gruppi per il salario domestico - i sindacati non erano d’accordo - a svelare, se non altro, un consapevole «patto tra uomini» allo scopo di negare valore economico al lavoro domestico: che oggi si preferisce definire «lavoro di cura». Ed un cartello, nel corteo, rivendicava: «Riconoscimento contributivo per il lavoro di cura».
Dalla rappresentanza, foltissima, della Lombardia emergeva un’altra richiesta: «Reddito adeguato per le donne sole e a rischio». Le tematiche dello sviluppo sono state poi svolte, in forma di appassionate testimonianze femminili, dal palco di Piazza Navona, prima degli interventi ufficiali. Letizia, giovane rappresentante della Filtea: «In discoteca ci si può andare anche domani. Oggi dobbiamo combattere. Ve lo dice una che è stata anni nel torpore, nel dormiveglia indotto dalla Tv, da quelli che vogliono farci continuare a dormire o a sognare sogni non tanto impossibili quanto patetici... A un certo punto mi sono svegliata, mi sono ricordata il motto del fondatore degli scout, dove ho imparato qualcosa da ragazzina, e vi dico "Estote parati"... Siate pronte, ragazze, datevi da fare ma non ciascuna per sé, come ci fanno credere che è bello!». Parla, Letizia, delle lotte della Filtea per vietare ai datori di lavoro di far firmare alle donne, prima di assumerle, le dimissioni in bianco: così, se restano incinte, vanno subito a casa. «Questo sistema lo usano anche con gli immigrati, ovviamente non se restano incinti, ma se non servono più». Bellissima la testimonianza di Eva Blasic, laureata in filosofia in un paese dell’Est, ora collabora con la Cisl per l’immigrazione nel Lazio. «Un giorno, come tante donne simili a me, ho messo in valigia il mio entusiasmo, e sono arrivata in Italia. Nel Lazio gli immigrati sono mezzo milione, e la maggioranza ha un volto di donna. Sono le immigrate, che con i loro bambini, riempiono i banchi vuoti delle scuole italiane... Quasi tutte hanno un buon livello di istruzione, ma non possono utilizzarlo. Eppure potrebbero diventare una risorsa per l’Italia, che soffre di bassa fecondità e di uno scarso tasso di occupazione femminile. Non vi dice nulla quel 7% di Pil prodotto dagli immigrati?».

l’Unità 9.3.08
Bush mette il veto sul bando alla tortura
di Roberto Rezzo

Il presidente contro il Congresso: legali interrogatori con annegamento simulato

Elogio della tortura. Nel tradizionale discorso radiofonico del sabato, George W. Bush ha spiegato il veto alla legge che bandisce tecniche d’interrogatorio in violazione dei diritti umani. Come il «waterboarding», la simulazione d’annegamento utilizzata dalla Cia. «Il provvedimento che mi ha presentato il Congresso ci avrebbe privati di uno degli strumenti più efficaci nella lotta al terrorismo, per questo motivo ho posto il veto - sono state le parole del presidente - Non è il momento di abbandonare pratiche la cui efficacia nel mantenere l’America sicura è stata comprovata».
Il disegno di legge era stato approvato dalla Camera lo scorso dicembre e aveva passato l’esame del Senato in febbraio. Fornisce le linee guida per le attività d’intelligence, con particolare riferimento alle tecniche d’interrogatorio. Esplicitamente proibisce ogni «tattica» che esuli dalle diciannove già codificate dai regolamenti delle carceri militari, tra cui: «Incappucciare i prigionieri o chiudere loro gli occhi con nastro adesivo; denudarli; costringerli a mimare o compiere atti sessuali; picchiarli, ustionarli, o provocare loro lesioni; esporli a temperature estreme». L’obiettivo non era di impedire ai servizi d’intelligence di acquisire informazioni cruciali, ma di migliorare l’immagine degli Stati Uniti di fronte alla comunità internazionale.
Dall’apertura del lager di Guantanamo alla scoperta delle carceri segrete della Cia all’estero, Washington è finita da un pezzo nella lista nera di Amnesty International. Il «waterboarding» è stato definito senza incertezze dalle Nazioni Unite come «una forma di tortura».
«Queste pratiche sono una macchia per il Paese. Non ci fermeremo finché il divieto di torturare i prigionieri non sarà legge», ha dichiarato la senatrice democratica Dianne Feinstein. Il collega Edward Kennedy incalza: «Il veto di Bush è uno degli atti più vergognosi della sua presidenza. Salvo che il Congresso non riesca ad aggirarlo, passerà alla storia come uno dei più grandi insulti alla legalità e sarà una macchia indelebile sul nome dell’America agli occhi del mondo». Per annullare il veto della Casa Bianca e forzare la conversione in legge occorre una maggioranza qualificata dei due terzi al Congresso. La presidente della Camera, Nancy Pelosi, si è impegnata a far rivotare l’aula entro la fine della prossima settimana: «In ultima analisi la nostra capacità di guidare il mondo non dipende solo dalla nostra potenza militare, ma dalla nostra autorità morale». John McCain, il candidato repubblicano alla presidenza, un veterano di guerra fatto prigioniero e torturato in Vietnam, in passato ha condannato l’amministrazione Bush per le tecniche estreme d’interrogatorio, definendole «incivili, disumane e inutili». Ora ha bisogno che la famiglia Bush gli finanzi la campagna elettorale. E naturalmente ha cambiato idea.

l’Unità 9.3.08
Il libro del leader di «Autonomia» sull’anno fatidico: l’affresco istruttivo e gli errori
Piperno, la «cattiveria» del 68 finita male
di Bruno Gravagnuolo

Il ’68 come sovversione integrale, distruzione del futuro a beneficio di un presente come istante dilatato, che rifiuta di differire passioni e desideri. Una sorta di «vogliamo tutto» di balestriniana memoria. E naturalmente su scala di esperienza convissuta e collettiva. A volerlo riassumere in poche battute, è questo lo spirito dell’anno mirabile che riecheggia nel rendiconto che Franco Piperno, leader storico dell’Autonomia operaia affida al suo ’68. L’anno che ritorna (Rizzoli, pp 180, euro 16,50). Scritto con Pino Casamassima che fa da intervistatore nella prima parte «storiografica». E con un saggio finale sul ruolo dell’Università oggi, tra licealizzazione e clientelismo all’italiana e aziendalismo all’americana. Il tutto visto da un ricercatore di Fisica come Piperno, che negli intervalli dei suoi guai giudiziari da «sovversivo», ha insegnato in Francia, Canada e oggi insegna all’Università della Calabria.
La prima cosa che si può dire di questo rendiconto con andamento da zibaldone, è che costituisce un’eccellente fonte «orale», su una porzione rilevante del 1968. Così come fu vissuto in Italia da una quota di giovani intellettuali in formazione. Quell’area che poi si identificò nel sogno operaista, fino alle proiezioni metropolitane dell’Autonomia, conclusesi con la tragedia del delitto Moro.
Nondimeno in tal senso, benché parziale, la testimonianza di Piperno rivela una certa capacità di farci rivivere aspetti non secondari dell’immaginario diffuso del 68: aspetti universali. La spinta alla riappropriazione della vita, oltre le gerarchie e contro di esse. Contro la divisione del lavoro e il mito della carriera. Contro l’etica del lavoro e le promesse del futuro. Contro le partizioni disciplinari del sapere e persino contro la scienza, naturaliter oppressiva nella sua «metafisica» sovranità, secondo il fisico Piperno. Altro pregio del rendiconto è la capacità di restituire appieno una certa atmosfera «fusionale» del movimento allo stato nascente. Fusionalità quasi orgiastica ed erotica, nella reverie di Piperno, che a tratti si colora di sfumature dandystiche e «decadenti»: la «cattiveria sognante» dei giovani sovversivi. E non senza movenze terragne, plebee e meridionali, insurrezionali nel quotidiano. Un mix complesso, generazionale e rivoltoso. Radicato anche nei flussi migratori della penisola segnata dal «baby boom» che si riconosce nel 1968, tra nuovo proletariato di fabbrica e centri universitari urbani, irrorati dalla scolarità di massa incipiente. E del pari frammento di quel più ampio rivolgimento geopolitico che a fine anni 60 incrina la compattezza dei blocchi e fonde all’unisono, nello specchio dei media, gestualità ed emozioni dei giovani nati subito dopo la seconda guerra. Ovviamente interessante, proprio perché reso in chiave fluida e impressionistica, è il catalogo degli influssi culturali che convergono, ad infiammare la rivolta generazionale. Dal cinema, alla musica, alle nuove scienze umane. Alla scuola di Francoforte, alla critica della scienza, al rifiuto dell’etica del lavoro, che nasce dalla percezione di mondi altri e possibili. Dove produzione e riproduzione della vita obbediscono a un simbolico tutt’affatto diverso dalla logica della merce e della tecno-scienza, con le aspettative di ruolo connesse.
E tuttavia, reso merito al «regesto» emotivo di Franco Piperno, che quantomeno non s’è pentito e non gioca a fare il trasformista brillante, reso merito alla sua coerenza, resta il fatto che la sua era, e resta, una visione primitiva. Ingenua e offuscante. Offuscata da una passione dell’«immediato» che lo spinse, e lo spinge, a inseguire la liberazione umana in una sorta di godimento polimorfo della «riappropriazione». Al quale peraltro la politica come pratica viene piegata. In Piperno insomma vince una specie di mistica romantica, che sta «al di qua del principio di piacere», tutta dentro il piacere. Qua e là commista con la ribellione e con l’esodo molecolare delle «moltitudini», contro il lavoro (alla Toni Negri). E che finisce col celebrare il primato della «passione» - compatta e risolta verso lo scopo - contro il «desiderio», giudicato ingannevole e per lo più indotto dal mondo delle merci. Errore capitale e appunto primitivo. Poiché il desiderio, che come tale è sempre incompiuto, non è istinto materiale. Bensì proiezione simbolica, progetto, idealizzazione. Costruzione affettiva di relazioni umane dentro il rapporto storico tra natura e cultura. Nella vita individuale e di gruppo. E fu in virtù di questo primitivismo, divenuta pratica gregaria della violenza diffusa, che una parte del 68 finì senza volerlo nel vicolo cieco del terrorismo e nella spirale delle provocazioni avversarie.

l’Unità 9.3.08
Eclettico e visionario, l’800 ritrovato
di Renato Barilli

LA MOSTRA Alle scuderie del Quirinale le molte anime del nostro XIX secolo. Un’epoca spesso trascurata ma artisticamente ricchissima. Da Canova a De Nittis, da Segantini a Pellizza da Volpedo

La giusta rivalutazione dell’arte del nostro Ottocento, già in atto da qualche decennio, raggiunge ora il Colle più alto, cioè il Quirinale, nella fattispecie dell’edificio antistante che era riservato alle Scuderie del Palazzo, ma che è merito dell’amministrazione capitolina aver riattato ad eccellente sede museale, ove in genere si ammirano rassegne ben condotte. Com’è appunto questa dedicata al nostro Ottocento, snella ma sicura, affidata a due valenti specialisti quali Fernando Mazzocca e Carlo Sisi. Naturalmente, se a svolgerla fossero stati chiamati altri specialisti, si sarebbero registrate delle inevitabili varianti, qualche nome sarebbe stato detratto dalla presente raccolta, qualche altro invece, qui assente, rimesso in gara. Ma sono questioni di dettaglio che non turbano un giudizio globalmente positivo da darsi alla presente iniziativa. Che comincia subito bene, dal grande Canova, pur offrendone una assai parca documentazione, visto che in questo momento ci sono tante sue opere in giro per i musei. Qui si ammirano i due pugili, Creugante e Damosseno, convocati dai vicini Musei vaticani, ed è una valida esemplificazione del perfetto formalismo del loro autore, con quelle due figure che si rispondono simmetricamente, quasi chiamate a ricompattarsi in blocco unico. Segue una ristretta ma corretta silloge del nostro miglior Neoclassicismo, esplorato soprattutto nei ritratti dell’Appiani e del Bossi, quest’ultimo presente con quel mirabile condensato di ben quattro ritratti virili, che è la Cameretta portiana. Poi viene giocata, forse in eccesso, la carta dello Hayez, di colui che ebbe il compito storico di uscir fuori dalle secche del neoclassicismo per andare a coltivare gli avamposti del nascente realismo, seppure truccati nei panni retorici del romanzo storico. In proposito registriamo una di quelle assenze che si devono imputare al duo curatoriale, nella persona dell’allora infelice rivale che lo Hayez ebbe, Giovanni De Min, convinto che si dovesse continuare a recitare la favola inattuale del classicismo, ma in modi addirittura anticipatori della futura stagione simbolista. E non si capisce neppure perché, nella stessa chiave, non si sia trovato un posticino a Tommaso Minardi, campione del nostro Purismo in cui a sua volta è da vedere uno dei punti di resistenza al pur avanzante realismo-naturalismo. Ma certo, lo Hayez pesò a fondo, nei decenni centrali del secolo, anche se col torto di avvolgere i suoi nitidi referti realistici come in fogli di plastica, perfino troppo lucidi e immacolati. Cosicché si aprì lo spazio per una staffetta gestita dal napoletano Morelli, che capì come era ormai venuto il momento di liberare i brani di cronaca da quella sorta di membrana traslucida. Bisognava che le scene di storia e di costume si lasciassero intaccare dai fluidi atmosferici, secondo una pittura che era già impressionista, anche se non ancora del tutto convinta che si dovessero andare a cogliere le «impressioni» sul filo di una palpitante verità dell’oggi. A questo provvidero i Macchiaioli toscani, che infatti sono qui presenti in squadra compatta, inizialmente eredi del quadro di costume ricevuto dal collega Morelli, ma via via convinti ad aprire le porte ai sentori della più stringente attualità, pur senza abbandonare la protezione di un solido quadro di misure antiche, nel che stava la differenza rispetto ai rivali frattanto sorti sulle rive della Senna. Ma oggi abbiamo capito che i lieviti antinaturalisti, già presenti in De Min e in Minardi, e destinati a confluire nel Simbolismo, facevano la differenza, tra i nostri Fattori, Lega, Cabianca, e la squadra che sarebbe stata capitanata da Monet, e non dimentichiamo che gli altrettanto grandi Manet e Degas consuonavano più coi nostri che con l’autore dei dissoluti covoni di grano. Semmai, a sfidare degnamente Monet, si ersero i Signorini e Abbati e Sernesi.
Forse un po’ sommaria è l’attenzione riservata ad altre situazioni regionali di un nostro impressionismo autoctono, un corretto interesse va al Carcano, e a Tranquillo Cremona per la casella della Scapigliatura lombarda, ma con l’incomprensibile assenza di Ranzoni. E anche il Piemonte, oltre che con l’inevitabile Fontanesi, poteva essere rappresentato dal Pittara, e un posticino era da riservare anche al veneziano Ciardi. Un po’ denutrita anche la delegazione napoletana, in cui risulta incomprensibile l’assenza dei fratelli Palazzi, bene invece l’omaggio a Toma, e naturalmente a De Nittis, nella sua produzione multipla approdata anch’essa sulla Senna, con Boldini e Zandomeneghi. Ma perché escludere Michetti, anche se è stato opportuno segnalare gli in genere dimenticati Netti, Leto, Lojacono?
Ci si avvia ormai alla conclusione della silloge, che termina con due capolavori assoluti, La maternità di Previati, mirabile sinfonia di figure umane equiparate a molli salici piangenti. E il Quarto stato di Pellizza, in cui l’artista coniuga alla perfezione i valori stilistici e il più alto messaggio di redenzione sociale. E a fare corona ci sono pure Segantini e Morbelli, peccato che manchi Grubicy, e nel settore scultura, parcamente illustrato con presenze di Bartolini, Vela, Cecioni, Gemito, ancora una volta si dia la precedenza al caso di Medardo Rosso a scapito del Bistolfi, escluso da una rassegna, che pure, come già detto, salda i conti all’attivo.

l’Unità 9.3.08
Vita intima di Burri

Di un uomo oltre che di un artista tratta il libro di Piero Palombo appena pubblicato dalla Quadriennale di Roma, introducendo un elemento nuovo nella fortuna bibliografica di Alberto Burri. Il quale da decenni è oggetto di una larga varietà di disamine di carattere critico e stilistico (caso esemplare la monografia dedicatagli da Cesare Brandi nel 1963 tutt’ora un punto di riferimento imprescindibile nei suoi studi) ma, incredibilmente, non è mai stato al centro di un’analisi di tipo strettamente biografico e l’ampio apparato letterario cresciuto attorno al suo nome risulta ancora privo di un esame che ne ponga in luce alcuni aspetti del suo percorso più intimo e individuale. Il volume, di contro, si concentra soprattutto su questi ultimi colmando una lacuna evidente da tempo e contribuendo così anche ad una maggior comprensione della sua storia creativa. Partendo dalle sue origini in terra umbra, Palombo ripercorre per intero la vita di Burri riflettendo su alcuni momenti particolarmente significativi del suo tracciato, dai tempi della prigionia in Texas agli esordi romani fino ai anni del successo internazionale; contemporaneamente si sofferma su alcuni particolari episodi come, ad esempio, l’incontro che egli ebbe con Rauchenberg nel 1953 o lo scandalo suscitato dalla presentazione di alcune sue opere alla VII Quadriennale nel 1955-56 o alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1959 (quando l’esposizione di un Sacco scatenò addirittura un’interrogazione parlamentare). Un ricordo di Giovanni Carandente ed uno di Lorenza Trucchi, tra i più sensibili ed acuti sostenitori di Burri, completano la pubblicazione.

Repubblica 9.3.08
La politica e i buoni maestri
di Giulia Boringhieri

Caro direttore, il dibattito sulle pagine di questo giornale fra il filosofo Massimo Cacciari, spettatore di un´inevitabilità in un certo senso "epocale" della mancanza oggi in Italia di una vera differenza fra destra e sinistra, e lo storico Massimo Salvadori, a difesa dell´importanza di tenere ferma tale differenza, e ribadirla soprattutto nei riguardi delle tematiche economiche, ricorda le discussioni che avvenivano in tempi di ben più vivace dibattito culturale e politico sulle pagine dei giornali e delle riviste e proprio per questo offre lo spunto per qualche riflessione ulteriore. Seguendo anche le idee di mio padre, l´editoreBoringhieri: lui pensava che per poter parlare e discutere di qualcosabisognasse prima conoscerla, e su questo fondava il suo mestiere.Far conoscere.
Sia Salvadori sia Cacciari, prima che intellettuali impegnati, sono studiosi seri, competenti, abituati all´esercizio quotidiano della ricerca e della conoscenza, dell´approfondimento; anche quando ciò non è esplicito, sappiamo che quel che dicono proviene da riflessioni maturate in anni e anni di serio lavoro; il loro intervento in un dibattito pubblico su un giornale è chiarificatore perché si basa su una visione storicamente più ampia e più profonda di passato e presente, avvenimenti e persone, idee ed economie. L´interpretazione dell´oggi è il frutto di una prospettiva fondata su molti fatti e molte ragioni.
Queste caratteristiche appartenevano alla maggioranza degli intellettuali di sinistra del dopoguerra, comunisti e socialisti. Si pensava che per poter indicare la strada del rinnovamento dell´Italia dopo la guerra bisognasse ben capire le radici storiche della situazione italiana, scrivere, tradurre e leggere gli autori più significativi: conoscere il passato, interpretare il presente e poi indicare il futuro. Anche chi, almeno fino al ´56, pensava di avere in tasca la chiave per affrontare tutti i problemi, li aveva studiati, studiati e studiati mille volte: l´esempio più eclatante è Emilio Sereni, intellettuale di sterminate letture che Togliatti stesso dovette allontanare dalla guida della sezione cultura del Partito per eccesso di zdanovismo. L´oppio degli intellettuali, quando c´era, aveva sedato professori universitari di ineccepibile preparazione accademica – che poi, lasciate le aule, non rifuggivano dal confronto pubblico in articoli, saggi, conferenze.
L´epoca delle fedi è finita e oggi una figura come Emilio Sereni è difficile perfino da immaginare, ma bisogna chiedersi se sia finita anche l´epoca degli intellettuali seri, se sia finito il loro ruolo, che cosa sia oggi e che cosa vorremmo che fosse.
Oggi abbiamo molti "valori" ma tutti o quasi privi di paternità – o con paternità di comodo, prese a prestito da culture estranee e che non significano niente ai più – e soprattutto sparpagliati, slegati da visioni organiche. Il mondo concettuale legato alla parola "ideologia" (comunista) ha trascinato nella sua caduta anche concetti di cui l´ideologia si era impadronita a forza, e relativi modi di indicarli: fra questi i concetti di "indirizzo", "direzione" o "egemonia culturale". Giusto. Sono parole odiose ai nostri orecchi di oggi. Ma la parola "dirigere", se la togliamo da un contesto di "fede" e di "ideologia", sia di sinistra che di destra, significa proporre con maggiore chiarezza un certo numero di riferimenti culturali. E´ impopolare dire che la sinistra per essere efficace politicamente deve esserlo culturalmente? E dire che occorrono di nuovo cose come lo studio, l´analisi e la scrittura a fornirle i presupposti e le parole chiave del suo linguaggio? E se insistiamo che i generici "valori" li lasciamo ai comizi, ma che nei luoghi del dibattito cerchiamo ragionamenti intorno ai passaggi storici, ai modelli interpretativi, alle figure dimenticate? Che pensiamo che solo così si costruiscano le "identità" della sinistra in Italia oggi?
Forse oggi la sinistra, per sapere chi è, dovrebbe chiedersi come costruirsi nuovamente un linguaggio, una "cassetta degli attrezzi" per dirla con Wittgenstein, pieno di storia e di significato; chiedersi come dare abbastanza spazio alle persone più adatte a costruirlo e come non trasformare i concetti migliori in merce spendibile prima di averli elaborati - come fa per esempio nel suo ultimo libro, Per la verità (Laterza 2007), il filosofo Diego Marconi intorno a due concetti, verità e relativismo, frequenti nel dibattito politico e giornalistico corrente. Non vogliamo nuovi "miti" e nuovi "ideologie", ma proprio per questo non abbiamo paura di affermare che oggi più che mai servono buoni maestri, per fare strada.

Corriere della Sera 9.3.08
«Riabilitare Lutero», duello tra Financial Times e Vaticano
Il quotidiano economico: «Dal Papa solo un'operazione cosmetica». La Santa Sede: «Nessun fondamento»

CITTA' DEL VATICANO — Ha tagliato corto, ieri sera, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, rispondendo all'ironia di un editoriale del Financial Times che criticava la Santa Sede per una supposta riabilitazione di Martin Lutero immaginando paradossalmente perfino un «recupero nel gregge» di Enrico VIII. «L'editoriale del Financial Times non ha alcun fondamento, in quanto non è prevista nessuna riabilitazione di Lutero», ha dichiarato senza aggiungere commenti alla sferzante ironia del quotidiano inglese.
Tutto sembra nascere dall'indiscrezione non confermata della Stampa che annunciava alcuni giorni fa un seminario estivo a Castelgandolfo del pontefice dedicato al grande riformatore con possibili ripensamenti sul suo pensiero. L'indiscrezione è diventata un fatto sul Times di Londra, che l'ha registrata, ed è divenuta motivo d'ironia per il prestigioso quotidiano economico che fa rientrare l'ipotetica riabilitazione di Martin Lutero fra i «cambiamenti cosmetici » di papa Ratzinger che non ne «intaccano» il dogmatismo. E a conferma di simili operazioni «cosmetiche » il giornale cita la «curiosa decisione» di erigere una statua a Galileo Galilei nei giardini Vaticani, di fronte alla Casina di Pio IV, sede della Pontificia Accademia delle Scienze. Per il Financial Times, entrambe le operazioni «mirano a presentare un aspetto più liberale di Benedetto XVI» e «non sono convincenti».
Da parte sua il Papa prosegue per la sua strada. Ieri ha lanciato un preoccupatissimo allarme: «La vita ecclesiale è seriamente minacciata: perfino i vescovi sembrano scivolare verso la superficialità e l'egocentrismo sotto la spinta della mentalità edonistica e consumistica predominante». Non avevano mai raggiunto finora la gerarchia episcopale gli allarmi che Benedetto XVI va lanciando con insistenza da tempo contro la «secolarizzazione che invade ogni aspetto della vita quotidiana». Benedetto XVI ha fatto riferimento per la prima volta anche ai «pastori» rivolgendosi ai partecipanti al Pontificio Consiglio della Cultura, riuniti in Vaticano per difendere la Chiesa dalla «sfida della secolarizzazione », tema scelto dal neopresidente, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi.
Insomma, la secolarizzazione non è più e soltanto «una minaccia per i credenti, ma si manifesta già da tempo in seno alla Chiesa stessa. Snatura dall'interno e in profondità la fede cristiana e, di conseguenza, lo stile di vita e il comportamento quotidiano dei credenti».
Ad elencare i «peccati» più vistosi di una società sempre più segnata dall'edonismo ci ha pensato poi uno dei collaboratori del pontefice al quale è affidata la responsabilità di pronunciarsi per suo conto sui temi del «foro interno», il reggente del Tribunale della Penitenzieria apostolica, monsignor Gianfranco Girotti. Ha indicato in un articolo sull'Osservatore Romano le «aree» dove si registrano «atteggiamenti peccaminosi » e, come il Papa, ha guardato anche all'interno della Chiesa, citando i casi di pedofilia che hanno coinvolto sacerdoti.

Corriere della Sera 9.3.08
Derrida. Bioetica, giustizia, politica: che fare?
«Il futuro è una chance, non ingabbiatelo»
di Jacques Derrida

Kant e Lenin un testamento per il domani
di Pierluigi Panza
Nel luglio del 2001, alcuni studiosi riuniti nel castello de Castries in Linguadoca per un convegno, decisero di raccogliere alcune riflessioni in un libro da pubblicare in occasione del 65mo compleanno di Jacques Derrida, il 15 luglio 2005. Ma la malattia si portò via il filosofo un anno prima.
Queste riflessioni, curate da René Major, escono comunque ora dall'editore Stock in Francia (AA.VV., Derrida, pour les temps à venir, Stock, pp. 530, e 30) con un contributo inedito del padre del Decostruzionismo offerto per la pubblicazione da Marguerite Derrida.
Questo contributo s'intitola Pensier ce qui vient e qui ne presentiamo un estratto tradotto.
Derrida, che si muove nell'ambito hegeliano dell'analisi della tradizione operando sulla scomposizione del linguaggio, invita in questo saggio a decostruire il presente per pensare a un futuro di «apertura» per il cittadino cosmopolita.
L'invito rivolto a politica, scienza e media è quello di interrogarsi nuovamente sulla domanda di Kant e di Lenin «che fare?» e in vista di «quale uomo».
Derrida, come da suo approccio, non fornisce una risposta definitoria, ma invita a non pensare agli esiti di scienza, giustizia e politica come un fine («telos») determinato a priori. In tutti i campi si deve sempre supporre una «inadeguatezza incalcolabile», una «disgiunzione infinita» che non è negativa, ma una chance per l'avvenire.

La domanda kantiana risponde (infatti una domanda già risponde) a quello che Kant chiama l'interesse della mia ragione. Un interesse che è al tempo stesso speculativo e pratico e lega fra di loro tre domande: «Cosa posso sapere?» (Was kann ich wissen?), domanda speculativa; «Cosa devo fare? » (Was soll ich tun?), domanda morale che, in quanto tale, non appartiene precisamente alla critica della ragion pura; e «Cosa mi è consentito sperare?» (Was darf ich hoffen?), che è al tempo stesso pratica e speculativa. (...) Ma se la domanda della speranza si lega a ciò che viene come «ciò che deve accadere», se essa non solo è sempre presupposta, implicata dalla domanda speculativa del sapere e dalla domanda pratica del «cosa fare?», ma unisce queste ultime fra loro, sappiamo anche che altrove Kant sottopone queste tre domande ad una quarta. Quale? Quella dell'uomo («Cos'è l'uomo?») e dell'uomo come essere cosmopolitico, come cittadino del mondo. (...) È utile sottolineare che oggi l'orizzonte regolatore, che si è come de-costruito da sé, è più indeterminato che mai, così come lo è la risposta, fosse pure per anticipazione e supposizione, alla domanda «cos'è l'uomo?»; per non parlare di quella che riguarda il mondo, l'uomo come cittadino, come qualcosa che può legare o meno la democrazia allo Stato e alla nazione. Quella dell'essenza dell'uomo non è una domanda di speculazione metafisica astratta per filosofi di professione: è una domanda che oggi si pone, nell'urgenza concreta e quotidiana, al legislatore, allo studioso, al cittadino in generale (che si tratti dei problemi inerenti al genoma detto umano, al capitale, alla capitalizzazione e all'appropriazione, statale o no, del sapere, del sapere tecnologico racchiuso nelle banche dati). È l'enorme problema della capitalizzazione e del diritto di appropriazione che resta ancora intatto davanti a noi, con la questione della proprietà in generale e la proprietà del «corpo proprio»: questione biotecnologia del trapianto, della protesiologia (prothéticité) in generale, dell'inseminazione artificiale, della madre prestatrice d'utero, della differenza sessuale e del diritto che ha la donna di disporre del proprio corpo, dell'intelligenza artificiale, della storia dei concetti che definiscono i diritti dell'uomo, il soggetto, il cittadino, i rapporti fra uomo e terra, uomo e animale, l'immenso dibattito chiamato ecologico, etc. Si potrebbe precisare tutto questo all'infinito. (...) Ecco perché (oggi ndr) non solo bisogna pensare — pensare è più urgente che mai e non si riduce all'esercizio del sapere né a quello del potere, anzi presuppone una vigilanza supplementare al riguardo —, ma bisogna pensare che le sfide del pensiero (...) devono imporsi ad ogni istante, quotidianamente, immediatamente, ad ogni passo, ad ogni frase, come non è ancora mai accaduto, a chiunque, ma in particolare a coloro che pretendono di esercitare incarichi di responsabilità politica, presso magisteri e ministeri (uomini politici di ogni genere, legislatori o no, uomini e donne di scienza, insegnanti, professionisti dei mass media, consiglieri e ideologi di ogni campo, in particolare della politica, dell'etica o del diritto).
Tutte queste persone sarebbero radicalmente incompetenti non perché, paradossalmente, sanno in anticipo, come credono quasi sempre, cos'è l'uomo, cos'è la vita, cosa vuol dire «presente», cosa vuol dire «giusto», cosa vuol dire «venire», cioè colui che arriva, l'altro, l'ospitalità, il dono, ma sarebbero incompetenti, come ritengo siano spesso, perché credono di sapere, perché sono in condizione di sapere e sono incapaci di articolare queste domande e di imparare a formarle. Non sanno né dove né come si siano formate, e dove e come imparare a ri-formarle.
Avrei voluto proporre un argomento analogo a quello del Che fare? di Lenin, scritto nel 1901-1902, ma il tempo manca. Ricordiamo ciò che in quel testo, come nel testo di Kant, oggi non risulta invecchiato: la condanna dell' «abbassamento del livello teorico» nell'azione politica, l'idea che qualsiasi «concessione» teorica, secondo il termine di Marx, sia nefasta per la politica; la condanna dell'opportunismo (bisogna anche pensare e agire controcorrente), la condanna dello spontaneismo, dell'economicismo e dello sciovinismo nazionale (il che non sospende i doveri nazionali), la condanna della «mancanza di spirito d'iniziativa dei dirigenti» politici, cioè rivoluzionari, che dovrebbero saper rischiare e rompere con le facilità del consenso e delle idee preconcette (è quanto propone Alain Minc in un libro in fondo molto leninista). E ancor meno invecchiata è l'analisi di ciò che lega l'internazionalizzazione, la mondializzazione del mercato, come della politica, alla scienza e alla tecnica. Tutto questo si lega nel Che fare? di Lenin. (...) Poiché non è mia intenzione fare l'apologia di Marx o di Lenin, e ancor meno del marxismo-leninismo in blocco, desidero soltanto situare in breve il punto in cui Lenin sutura a sua volta e la domanda del «che fare?» e la possibilità radicale di disgiunzione, senza la quale non esistono né la domanda «che fare?», né sogno, né giustizia, né rapporto verso ciò che viene come rapporto verso l'altro. Questa sutura, o saturazione, condanna alla fatalità totalizzante e totalitaria dei rivoluzionarismi di sinistra e di destra. Il fatto è che Lenin giudica la sfasatura con il metro della «realizzazione», dell'adempimento adeguato di ciò che egli chiama il contatto fra sogno e vita. Il telos di questo adeguamento suturante — che, come ho cercato di dimostrare, chiudeva anche la filosofia o l'ontologia di Marx — chiude l'avvenire di ciò che viene. Impedisce di pensare quello che, nella giustizia, suppone sempre inadeguatezza incalcolabile, disgiunzione, interruzione, trascendenza infinita. Tale disgiunzione non è negativa, è l'apertura stessa e la chance dell'avvenire, cioè del rapporto con l'altro come ciò che viene e viene ancora e sempre.
© Éditions Stock Traduzione di Daniela Maggioni