Il professor Roberto D’Alimonte: se Udc e Sinistra Arcobaleno superano la soglia dell’8% sarà una lotteria
«A Palazzo Madama non vincerà nessuno»
di Eduardo Di Blasi
Per spiegare i disastrosi esiti che la legge elettorale potrebbe avere nella composizione del Senato, mettendo a rischio, per la seconda tornata consecutiva, la presenza di una maggioranza politica, il professor Roberto D’Alimonte usa due metafore: la lotteria e il totocalcio. «Nella misura in cui la Sinistra Arcobaleno e l’Udc - riflette - superano la soglia dell’8% al Senato, la lotteria diventa più imprevedibile. Potrebbe anche finire senza vincitore».
Perché indica la cifra dell’8%?
«Perché l’8% è la soglia per cui al Senato, in ogni regione, scatta l’attribuzione del seggio».
Quindi un partito come l’Udc che negli ultimi sondaggi è dato vicino all’8% al livello nazionale...
«Prende seggi nelle regioni dove supera questa cifra. Come la Sa. Questo riduce il plafond di seggi dei due partiti maggiori. In particolare del partito atteso come vincitore, il Pdl con i suoi alleati».
Prende seggi sia al vincitore che al perdente...
«Sono due i meccanismi all’opera. Il primo avviene nelle regioni dove Berlusconi perde: i seggi destinati al perdente, invece di prenderseli tutti lui, come è successo due anni fa con la Cdl, deve dividerli con quei partiti che superano la soglia dell’8%. Questo riduce, ovviamente, il suo totale nazionale».
Nel caso di vittoria scatta il secondo meccanismo...
«Facciamo il caso del Veneto in cui Berlusconi dovrebbe vincere. Nel Veneto dovrebbe prendere, a mio avviso, 15 seggi. Il premio sono quattordici, più uno. Ma se l’Udc supera l’8% è molto probabile che il quindicesimo seggio non scatti, e lo prenda l’Udc».
Secondo il suo scenario Berlusconi per ottenere una maggioranza di 10 senatori dovrebbe lasciare al centrosinistra solo Emilia, Toscana, Umbria e Basilicata...
«...E prendere un seggio in più del premio in Veneto, Sicilia e Lombardia. Ma per fare un esempio, se Liguria e Marche, assieme alle regioni storicamente a sinistra come Emilia, Toscana, Umbria e Basilicata, andassero al Pd, Berlusconi avrebbe un solo seggio di vantaggio».
Lotteria sembra la parola più adatta per questa legge elettorale...
«Così come è congegnata, con 17 premi di maggioranza su 20 regioni, o c’è una tendenza molto forte a favore dell’uno e dell’altro, oppure entriamo in una giostra che può dare solo esiti precari. Avere 17 premi regionali significa che per ottenere il 55% dei seggi (a tanto ammonta la somma di tutti i premi), una coalizione dovrebbe vincere in tutte e 17 le regioni. Basta che perda in una regione e la soglia scende».
Pensando che i partiti conservano le proprie roccaforti si va verso maggioranze risicate...
«Non è molto difficile immaginare come andrà a finire anche questa volta. In definitiva è come il totocalcio».
In che senso?
«Ci sono delle fisse per gli uni e per gli altri. Berlusconi ha delle fisse su Veneto, Lombardia, Sicilia, Campania, Puglia. Poi ci sono delle fisse per il centrosinistra: Emilia, Toscana, Umbria, Basilicata. Il resto è fatto di scenari».
Il discorso è ulteriormente complicato dal fatto che non ci sono più due poli ma almeno quattro soggetti di media stazza...
«Esatto. Ci sono altri due contendenti per i seggi che vanno ai perdenti».
Difficile anche superare la soglia per i seggi premio, viste le forze in campo...
«Superare i seggi premio sarà possibile solo se gli altri competitor staranno sotto l’8%».
Un partito di centro potrebbe recuperare voti in Veneto...
«Se l’Udc va sopra l’8% in Veneto Berlusconi non avrà il seggio in più rispetto al premio. Se non prende il seggio in più in Veneto, e prende dei seggi in meno in Emilia e Toscana (a vantaggio della Sinistra Arcobaleno), alla fine si ritrova in una situazione precaria».
Sembra però che l’Udc sia in salita.
«Quando Berlusconi aveva messo l’Udc con le spalle al muro, credo avesse dei sondaggi che davano il partito di Casini basso».
I sondaggi lo danno intorno all’8%...
«Questo sicuramente mette Berlusconi in difficoltà. L’Udc all’8% diventa un fattore rilevante nella competizione elettorale».
l’Unità 11.3.08
Italia e Spagna
di Gian Enrico Rusconi
Zapatero ha saputo declinare in maniera convincente socialismo con il concetto di cittadinanza, tanto è vero che il plusvalore nella sua politica è stato l’aver puntato sui diritti civili, che noi leghiamo al tema, cruciale, della laicità. E lo ha fatto senza sentire per questo la necessità di mettere in naftalina il termine socialista; una "necessità" che non è sentita neanche un po’ anche in altre democrazie europee avanzate come quelle francese e tedesca. Solo da noi il termine socialista ha connotati vagamente sospetti. È una patologia politica grave del nostro Paese. Lo dico polemicamente perché non dovrebbe essere così. D’altro canto, non vedo proprio perché un tema classico del socialismo democratico, quello dell’eguaglianza sociale, debba essere messo in conflitto con una dimensione diversa, ma non per questo necessariamente contrapposta, che è quella delle libertà individuali. Nella sensibilità di oggi l’accento è più spostato sul tema dei diritti della persona, e Zapatero ha saputo coglierne la portata soprattutto tra le giovani generazioni, ma non per questo si deve chiudere gli occhi di fronte ad una questione cruciale come resta quella della lotta a vecchie e nuove povertà.
La grande lezione che emerge dall’esperienza politica e di governo di Zapatero, quella che mi auguro Walter Veltroni recepisca, è di avere coraggio e ancora coraggio nel portare avanti la battaglia della laicità. Coraggio nel non farsi intimidire da chi evoca il bavaglio imposto ai cattolici. Ma quale bavaglio o occupazione brutale della sfera pubblica: il sorridente, tranquillo Zapatero non ha nulla del mangiapreti. In Spagna nessuno ha tappato la bocca ai cattolici, ma neanche abdicato al diritto-dovere di difendere la laicità dello Stato. Di questa difesa della laicità l’Italia avrebbe un gran bisogno».
l’Unità 11.3.08
Mosè e King Kong discutono di Darwin
di Enrico Alleva e Daniela Santucci
Ipotizzare l’esistenza di un essere intangibile (...) non facilita la comprensione dell’ordine che troviamo nel mondo tangibile.
Albert Einstein, in «Pensieri di un uomo curioso»
VERSO IL BICENTENARIO Negli ultimi anni le teorie evoluzioniste hanno creato qualche imbarazzo tra gli esperti... Il saggio di Michele Luzzatto è un libro utile per chiarirsi le idee e per capire, ad esempio, come avviene la selezione sessuale
Che in Italia il darwinismo sia divenuto, segno dei tempi, materia di conflittualità non è un bel divenire. Anche Giovanni Paolo II, una volta riabilitato Galileo Galilei, si era limitato a una placida e post-sacrale ammirazione per la spiegazione darwiniana del mondo dei viventi: lasciando la spiritualità dell’uomo ai credi personali.
È appena uscito in libreria il bel saggio Preghiera darwiniana del pervicace darwinista piemontese Michele Luzzatto (Cortina editore), editor scientifico per la saggistica scientifica e le Grandi Opere presso la prestigiosa casa editrice Einaudi che già annovera molti testi di biologia evoluzionistica e di storia della scienza.
La preghiera luzzattiana è stata letta in pubblico al Museo di Storia Naturale di Milano, nella festosa cornice del Darwin day milanese, in questo febbraio 2008. Anno particolare proprio perché nel 2009 ricorrerà il secondo centenario della nascita di Carlo Darwin, ma anche (evento non meno importante) compirà 150 anni l’opera darwiniana maggiormente importante proprio perché più «scatologica»: fu infatti allora che venne pubblicata Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l’esistenza, libro che sconvolse il modo di vedere la natura da pare dell’uomo colto: anche se ebbe molti lettori «poco colti», dato che il «compare» di Carlo Darwin - Thomas Henry Huxley, detto il suo mastino - si piazzava in tempi ottocenteschi ritto a concionare agli operai su un carretto all’uscita delle fabbriche britanniche per portare al popolo e al «volgo» la «divulgazione» più diretta della prospettiva analitica darwinista (democrazie intellettuali di altri tempi).
Ormai da alcuni anni il compleanno di Darwin (12 febbraio) è un evento festeggiato in parecchie città italiane. Numerose ormai partecipano le scuole e alcuni recenti attacchi al darwinismo hanno invece sortito l’effetto «anticorpale» di coinvolgere i migliori studiosi italiani dell’evoluzionismo a tenere affollate conferenze proprio in quel giorno originale. Una celebrazione divenuta oramai consueta, e che è augurabile che si allarghi ad altre città e cittadine italiane.
Diamo notizia che il ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, arguto e diligente direttore, in anni passati, della rivista La Nuova Ecologia (dove il darwinismo evoluzionista veniva coniugato con temi più prettamente ambientalisti) ha comunicato l’emissione, per il 2009, di un francobollo commemorativo per la incipiente celebrazione darwiniana. Ringraziamone la competente Commissione filatelica.
Dicevamo di questa preghiera darwiniana di Luzzatto, che ha commosso il pubblico milanese nella calda e partecipata recitazione di Lella Costa. Un bell’evento, che resta nella storia recente dell’urbe meneghina.
A Milano è il Museo comunale di Storia Naturale la sede che si è prodigata in questi anni nella celebrazione del Darwin day: per ironia della sorte, e per nemesi, è Ilaria Vinassa de Regny, nipote di un celebre geologo ben poco darwinista, a fungere da prorompente madrina di queste attività celebrative.
Il libro di Luzzatto ha un tono precipuamente biblico. Ci leggiamo: «Dove è Dio? Dove è Dio!? Che disegno ha? Che scopo ha? Perché lo ha fatto?» (pag. 24). «A Londra, al ritorno dalla passeggiata allo zoo, Darwin ragiona nervosamente a tavolino. Allora: qui c’è Willy, laggiù i fuegini e ancor più in là Jenny l’orango» (pag. 32). Con uno stile da esperto scrittore teatrale, il biologo Luzzatto, allievo dell’accademico dei Lincei Aldo Fasolo, fa parlare rabbini e darwinisti, Cartesio e Richard Owen, Giacobbe e King Kong. C’è anche la moglie di Darwin, Emma, fideisticamente credente in un Sommo Artefice. Compare anche Mosè.
Nella bella Prefazione del filosofo Giulio Giorello, e che si intitola Il delitto di Charles Darwin, viene citato anche James Joyce: vi si parla dell’imbarazzo consapevole che il darwinismo ha creato nel mondo degli esperti, immediatamente dilagando in una miriade di lettori, fin da subito, l’Origine delle specie fu infatti, per i suoi tempi, un best-seller assoluto, rapidamente tradotto in innumerevoli lingue.
Va notato che questo saggio di Luzzatto esce in una curiosa e stimolante collana che annovera autori come James Hillman, Giorgio Celli, Humberto Maturana, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Gregory Bateson, Enzo Tiezzi. Jean Paul Sartre, Franco Basaglia, Edgar Morin. Un’insalata mista di autori e di pensieri davvero inusuale nel panorama ben più rigido dell’editoria italiana.
Questo di Luzzatto è un libro utile, da leggere tutto di un fiato, come una sorta di libro di preghiere. Va letto da chi ha fiducia nel darwinismo: ma anche (Crozza ci perdoni) da chi nutre qualche piccolo o grande dubbio sulla potenza analitica del mondo dei viventi che Darwin utilmente propone.
Parla di alcune delle caratteristiche più classiche del darwinismo, ma anche di alcuni difficili corollari: come il problema (pag. 44) della selezione sessuale. Perché mai un pavone dovrebbe infatti cercare di rubare l’appetitosa pavonessa a un altro pavone maschio? Non sono in effetti membri di una medesima specie: dunque esseri che lottano assieme,non in competizione, per la sopravvivenza di tutti i pavoni del pianeta terra? Luzzatto ne fa motivo di riflessione quasi biblica, ma ne fornisce una spiegazione fortemente convincente. E sottilmente darwiniana. La selezione seleziona il migliore pavone, anche fra i confratelli pavoni.
È augurabile che questo saggio, da recitare ad alta voce e tutto di un fiato, venga utilizzato per le incipienti celebrazioni del bicentenario darwiniano. O che possa essere letto nei tanti Darwin day che si terranno in giro per l’Italia nella data fatidica del compleanno darwiniano. Sarà utile complemento alle varie biografie, anche a firma di psicoanalisti e terapeuti che su Darwin hanno speculato negli ultimi due lustri. È anche corredato di una succinta, ma assai ben meditata, bibliografia. Per ulteriori, augurabili, approfondimenti.
Non che i volumi darwinisti editi in Italia degli ultimi anni siano stati scarsi, anzi. Utile complemento ne potrebbero essere due altri agili volumetti, particolarmente adatti per insegnanti e per studenti: L’evoluzione umana: ominidi e uomini prima di Homo sapiens del noto antropologo dell’Università di Roma «Sapienza» Giorgio Manzi (Il mulino serie «Farsi un’idea», 2007) e il più pugnace In difesa di Darwin: piccolo bestiario dell’antievoluzionismo all’italiana del filosofo della scienza dell’Università degli Studi di Milano Bicocca Telmo Pievani (Bompiani, Agone 2007).
Insomma, il 2008 è l’anno della preparazione al successivo, grande «Buon Compleanno, Darwin» che vedrà nel 2009 mostre tematiche e riflessioni filosofiche in giro per il mondo. Epicentro, come fu per il 1982 (ricorrenza della morte del Nostro), sarà la molto darwiniana Cambridge University. Dove i reperti raccolti a bordo del famoso brigantino Beagle sono gelosamente custoditi.
Là, nel luglio del prossimo anno, fastose e festose saranno le celebrazioni, previste con un colossale convegno che già da vari anni i conterranei britannici di Darwin vanno allestendo. Speriamo che l’Italia non sia da meno.
l’Unità Roma 11.3.08
Il ’68 e la contestazione raccontata al cinema
al Trevi per due settimane «Schermi in fiamme»
di Federico Pedroni
Due anni fa la Cineteca Nazionale organizzò una rassegna allo scopo di indagare, scandagliare, riportare alla memoria il cinema italiano degli anni della contestazione. Ora, da domani al 25 marzo alla Sala Trevi, si costruisce un seguito a quella ricognizione. "Schermi in fiamme" offre due settimane di proiezioni, incontri, dibattiti che cercheranno ancora una volta di analizzare come il clima di cambiamento di quegli anni (dal '66 al '75 con l'ovvio epicentro del '68) è stato raccontato al cinema. Accanto ai principali registi che canalizzarono il sentimento del tempo nelle loro opere - da Bellocchio a Bertolucci, dai fratelli Taviani a Liliana Cavani - agivano infatti moltissimi cineasti oggi purtroppo dimenticati che sentirono la necessità di testimoniare i cambiamenti in atto nella società. Il cinema italiano di quegli anni si dimostrò vitalissimo - nelle sue molteplici forme e contraddizioni, dall'avanguardia al film di genere - onnivoro e sfaccettato come era quel periodo. Si inizia domani sera con un film manifesto del regista che più di ogni altro incarnò la figura dell'intellettuale militante, non organico e pronto a cogliere con la sua sensibilità i cambiamenti radicali in corso nella nostra società: Pier Paolo Pasolini. "Teorema" racconta l'insinuarsi di uno strano studente in una famiglia borghese tradizionale, una presenza che affascina e destabilizza l'ordine costituito delle cose. Il film, che come osserva Paolo Mereghetti mescola suggestioni bibliche a influenze psicoanalitiche, è una sorta di manifesto poetico dell'epoca e resta un'opera tra le più originali dell'artista friulano nonostante l'eccessivo simbolismo ideologico.
Nei giorni successivi sarà possibile riscoprire film poco conosciuti di autori celebri - "I sovversivi" di Paolo e Vittorio Taviani, "I cannibali" di Liliana Cavani, "L'urlo" di Tinto Brass, il bellissimo "La circostanza" di Ermanno Olmi, "Lettera aperta a un giornale della sera" di Citto Maselli - e cogliere l'occasione di rivederli accanto alle opere invisibili dei cineasti sperimentali (Alberto Grifi, Paolo Brunatto, Mario Schifano e molti altri) a cui la retrospettiva dedica una sezione a parte. Senza dimenticare chi richiama il cinema di genere per parlare di attualità, come Stelvio Massi in "Giuda uccide il venerdì", o gli autori più strettamente legati alla mutazione culturale in atto in quegli anni, come Renato Ghione o Romano Scavolini.
Corriere della Sera 11.3.08
La psichiatra «Attenti a non definirla subito depressione»
MILANO — Adelia Lucattini, psichiatra e coordinatrice nazionale della European depression association, mette in guardia: «Attenzione a usare la parola depressione per spiegare ogni gesto estremo».
Parlare genericamente di depressione è sbagliato?
«Dalla fine dell'800 la letteratura ci dice che in questi casi ci troviamo davanti a episodi psicotici sostenuti da convinzioni deliranti. Riconducibili a sindromi schizofreniche o disturbi maggiori dell'umore (depressione maggiore e disturbo bipolare), in questo caso magari determinati dal suicidio della madre».
Che si manifestano in che modo?
«In pensieri deliranti di indegnità, rovina, morte imminente. In allucinazioni, voci che dicono: uccidili o sarai ucciso. In molti casi, però, chi uccide lo fa convinto di salvare la propria famiglia».
Ma come si fa a leggere i campanelli d'allarme?
«I sintomi sono gravi, non semplici da diagnosticare, anche perché insorgono lentamente e i familiari ci si abituano non percependo il pericolo. Ma attenzione ai cambi del comportamento, dell'umore».
Che ci sono però anche in caso di depressione generica, no?
«I depressi si uccidono, non ammazzano gli altri.
Quando c'è un'aggressione in famiglia alla base c'è sempre un delirio o un'allucinazione».
Aggressioni in famiglia in aumento?
«Le statistiche dicono di no. Stagionali, semmai. E soprattutto se ne parla di più».
Adelia Lucattini, coordinatrice nazionale della «European depression association» A.Ma.
Corriere della Sera 11.3.08
L'Olanda autorizza l'amore libero Sì al sesso nei parchi, ma di pomeriggio
di L. Off.
BRUXELLES — Dice il nuovo regolamento che gli agenti di polizia «non devono nel modo più assoluto interrompere le attività, a meno che queste non disturbino altre persone».
E le «attività» in questione sono le effusioni fra coppie o più persone, anche i rapporti sessuali completi: che da ottobre saranno permessi nei parchi pubblici delle principali città olandesi, come già accade in alcuni parchi di Amsterdam. Con un paio di raccomandazioni: le «attività » dovranno essere esercitate dalla metà del pomeriggio in poi, cioè fuori dalle ore in cui circolano bambini e scolaresche; e le improvvisate alcove, anche al crepuscolo, dovranno comunque essere lontane da sguardi infantili. Prevista anche una raccomandazione di tipo igienistico: consumato il rapporto e terminate le effusioni, sigarette, preservativi e ogni altro oggetto dovranno essere raccolti e buttati negli appositi cestini.
L'Olanda varca così una delle frontiere più resistenti ai cambiamenti della morale pubblica: quella che in Italia è ancora presidiata (anche se assai meno saldamente di un tempo) da un reato chiamato «atti osceni in luogo pubblico », o «aperto o esposto al pubblico». Il nuovo regolamento di polizia, che da Amsterdam è stato inviato «in visione» agli esperti dell'Aja, di Utrecht e di Rotterdam, con l'invito ad adeguare le proprie regole subito dopo l'estate, prevede una sola eccezione all'atteggiamento imperturbabile dei poliziotti: questi potranno ricorrere «ad azioni correttive» (ma non viene specificato di quali azioni si tratti) «soltanto in presenza di comportamenti offensivi visibili da pubblico passaggio». E sempre in tema di pulizia dei parchi, nel regolamento c'è anche una clausola che non riguarda gli amanti di ogni tendenza, ma solo chi va a passeggio con un compagno a quattro zampe: è previsto infatti un inasprimento delle sanzioni per i proprietari di cani incontinenti.
La decisione di estendere ad altre città l'esperimento di Amsterdam è stata presa dopo qualche polemica, soprattutto in quella stessa Amsterdam che ormai intende chiudere buona parte dei suoi locali «a luci rosse»: i critici temono che, dai locali sbarrati, certe «attività» si trasferiscano nei parchi più grandi.
Corriere della Sera 11.3.08
Scienza e identità Il ricercatore americano colloca l'origine della consapevolezza nella «regione talamocorticale». E si confronta con il darwinismo
Ecco dove si trova la coscienza
La tesi di Christof Koch: l'«idea del sé» è in un'area precisa del cervello
di Sandro Modeo
Siamo sulla terrazza panoramica di una casa o di un albergo di montagna, in una giornata di sole pieno. Chiudiamo gli occhi per un attimo, inspirando l'aria. In questo momento di sospensione, «là fuori» non c'è altro che una distesa sterminata di materia, organica e inorganica; un brulichio di atomi o molecole, senza particolari attributi. Poi riapriamo gli occhi, attivando un intricato processo dialettico tra la mente e il mondo: la nostra retina viene investita da dieci milioni di bit di informazione visiva al secondo, graduata in diverse lunghezze d'onda; i fotorecettori (50 tipi di cellule differenti, tra cui 100 milioni di bastoncelli, sensibili alla luce fioca, e 5 milioni di coni, sensibili alla luce intensa) ne scartano la maggior parte e ne trasmettono una quantità selezionata (trasformando segnale ottico in elettrico) a precise aree cerebrali, a partire dalla corteccia visiva primaria o V1, adibita alla «topografia» di un'immagine; e ogni area codifica una componente specifica della visione (l'orientamento dello spazio, il rapporto sfondo/primo piano, la forma degli oggetti, il colore, il movimento), coordinando e collegando la propria elaborazione con quella delle altre aree. Alla fine del processo — che avviene in un tempo rapidissimo, anche se non inferiore al quarto di secondo — vediamo aprirsi davanti a noi una «scena integrata » ad alta definizione: per esempio delle creste montuose su un cielo terso, una porzione di lago e una fuga di boschi e di case in lontananza.
Nella Ricerca della coscienza (appena uscito da Utet) il biologo Christof Koch elegge l'orchestrazione della consapevolezza visiva — di cui è non a caso uno dei maggiori studiosi sperimentali, insieme con il suo compianto maestro e mentore Francis Crick — come uno degli esempi più convincenti per capire come il cervello produca «significato» dalle sollecitazioni dell'ambiente. Da un lato, lo studio dei danni selettivi in certi pazienti evidenzia infatti l'alta specificità di certe aree: la paziente L.M. — con una lesione all'area collegata alla cognizione del movimento — non riesce a versare il tè o il caffè (che vede come «congelati» in un ghiacciaio) o ad attraversare la strada (una macchina a cento metri si materializza di colpo a pochi passi, come in due inquadrature fisse senza legame) e i pazienti affetti dalla sindrome di Balint — colpiti nelle aree responsabili dell'organizzazione dello spazio — vedono ogni oggetto isolato nel cono d'attenzione, senz'alcun contesto in cui collocarlo. Dall'altro lato, l'incidenza della plasticità cerebrale (il fatto che senza V1 sia impossibile vedere, ma che V1 da sola non basti) dimostra come ogni struttura fisiologica sia condizione necessaria ma non sufficiente per l'articolazione di una funzione psicologica complessa.
Proprio la plasticità diventa un fattore decisivo quando Koch espande la sua indagine dalla coscienza visiva alla coscienza
tout court, cioè a quella musica insieme inconfondibile ed elusiva estesa ben al di là dello stesso fatto visivo (come dimostra la coscienza nei ciechi nati) e così sfuggente da avere alimentato un estenuante dibattito tra filosofi, che ne hanno graduato il termine di volta in volta in «vigilanza», «consapevolezza» o «idea del sé». Una volta stabilito per convenzione che la coscienza è il prodursi di una percezione o di un insieme di percezioni «consapevoli» — e, in quanto tali, già capaci di disegnare l'identità del soggetto —, la prospettiva di Koch viene spesso contrapposta a quella di un altro eminente neuroscienziato, Gerald Edelman. La prima, infatti, privilegia il dettaglio: nella fattispecie, la ricerca dei minimi «correlati neurali della coscienza», cioè del più piccolo insieme di strutture cerebrali e di eventi biochimici utili a produrre uno stato cosciente, e lo identifica in una geografia composta da corteccia, talamo e gangli della base. La seconda, invece, è una teoria «globale» in cui la coscienza è il prodotto di un incessante dialogo tra molte aree cerebrali, e in cui il cervello opera secondo criteri di «selezione» in senso darwiniano.
Eppure — come osserva Silvio Ferraresi nella Nota introduttiva al libro di Koch — a uno sguardo attento le due prospettive possono convergere, così da mostrarci insieme «gli alberi e la foresta ». Quando Koch — in una pagina molto intensa — descrive la propria reazione emotiva davanti al figlio adolescente che gli parla e gli sorride, elenca le strutture specifiche coinvolte nella reazione (certe aree corticali per la decifrazione dei volti e della mimica facciale, la corteccia uditiva e le regioni linguistiche per la codifica della voce e del senso delle parole, e così via), ma poi riconduce l'unità della scena all'«integrazione delle regioni disseminate nel cervello»: non è un'apertura esemplare alla prospettiva «globale» di Edelman? A rovescio, Edelman collega il processo della coscienza, come detto, a una «diffusa sincronizzazione» tra diverse aree cerebrali, ma individua il «nucleo dinamico » di tale sincronizzazione nell'attività del sistema talamocorticale: non è una parziale reintroduzione delle proprietà specifiche di certe strutture? Oltretutto, il «nucleo dinamico» di Edelman coincide in sostanza proprio con la «geografia » minima individuata da Koch.
Comunque sia, l'insieme delle qualità con cui Koch delinea la coscienza nel corso della sua ricerca, potrebbe essere condiviso da tutti i neuroscienziati. Sfuggente se non ambigua sul piano psicologico (perché non necessariamente legata all'«attenzione» né, all'opposto, alle capacità della memoria inconscia, come la guida), in larga misura imperfetta (come dimostra la messa a fuoco di tante percezioni sensoriali, sottoposte a compensazioni e aggiustamenti), sottilmente asincrona, in quanto infittita di microsdruciture temporali (in una stessa scena, la percezione del mutamento di un colore può precedere quella del mutamento di un movimento di 75 millisecondi) e discontinua (perché scandita da impercettibili stacchi che la spezzettano in microistantanee, legate in un
continuum illusorio), la coscienza è insieme tenace e fragile, coesa e intimamente precaria. Per accorgersene non è necessario verificarlo nelle neuropatologie o nei disturbi degenerativi: è sufficiente osservarla attraverso libri come quello di Koch, cioè scontornandola da quelle silenziose proprietà rassicuranti che lei stessa ci fornisce.
(MIKE QUON / CORBIS)
Repubblica 11.3.08
Quando l’uomo ebbe coscienza di sé
Un enigma fra teologia e filosofia
Nel peccato originale la coscienza dell’uomo
di Eugenio Scalfari
Quale fu la ragione che scatenò la cacciata di Adamo ed Eva dai Giardini dell´Eden? Furono la consapevolezza della nostra umanità e il possesso del pensiero, che ci poneva fuori dall´animalità
Dio ci ha concesso il libero arbitrio ma la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e scegliere?
Gli animali e i bambini non peccano, sono forme pure che obbediscono a istinti, pulsioni e stimoli
È il marchio che ci distingue dal resto degli esseri viventi: noi siamo la sola specie che ha perso l´innocenza
Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell´albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell´Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza.
Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all´inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato – non cancellato – e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio.
Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest´affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l´assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell´al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta.
Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l´ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione?
Dov´è la bilancia della giustizia? Dov´è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all´Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. È la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato.
Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell´uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto.
Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch´io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l´innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto.
Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
* * *
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all´Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l´Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall´animalità.Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari.
Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell´albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio.
La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l´atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all´accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo.
Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l´abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. È possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un´idea assai mediocre e bislacca della modernità.
Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto.
Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni.
Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l´erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
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Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana.Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell´uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l´Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l´Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello.
Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l´Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza.
La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. È oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. È colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l´assume.
Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un´innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto.
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Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti?Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l´altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento.
Dunque siamo liberi, almeno stando all´insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell´insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell´Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio?
Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l´uomo, ma è pur vero che anche l´uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell´inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell´«es» per distinguerla dall´io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all´interno dell´individuo.
L´io non è una figura psichica separata dall´«es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l´io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l´istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini.
Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l´intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi.
La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell´individuo e quella della specie, l´egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l´individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto.
Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell´egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate.
Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.
Repubblica 11.3.08
Bolzaneto, arriva la richiesta dei pm "A quegli agenti un secolo di carcere"
Oggi la fine della requisitoria Le parti civili chiedono cinque milioni di danni
di Massimo Calandri
GENOVA - Poco meno di ottanta anni di reclusione, questa la richiesta complessiva di pena. Dai tre mesi ai quattro anni di prigione per ciascuno dei quarantacinque imputati al processo G8. Ma l´ultima pagina della requisitoria, che sarà letta oggi in aula, è paradossalmente la meno importante. Non contano i giorni che qualcuno rischia di passare in galera, anche perché nessuno andrà mai dietro le sbarre: la prescrizione scatterà nel gennaio 2009. Quello che conta, nel processo per i soprusi e le violenze commesse nella caserma di Bolzaneto durante il G8, sono le testimonianze drammatiche delle 209 vittime. E le conferme ottenute in questi anni dagli inquirenti, comprese le confessioni di molti tra ufficiali, funzionari, medici, poliziotti, carabinieri. Furono, secondo i pm, «trattamenti inumani, crudeli, degradanti. In una parola: torture». Conta che nella sentenza di primo grado, attesa entro la fine di giugno, il tribunale dovrà rispondere anche alle istanze degli avvocati delle parti civili. Che per i loro clienti chiederanno il risarcimento per le paure e le umiliazioni subite. La provvisionale, e cioè l´acconto in attesa della liquidazione, potrebbe essere superiore ai cinque milioni di euro. Se condannati, gli imputati pagheranno con i ministeri della Giustizia, della Difesa, dell´Interno.
Abuso d´ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso, violazione dell´ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali. Questi i reati denunciati dai pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Rifacendosi ai parametri indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell´Uomo, i magistrati hanno spiegato che «i trattamenti provati come inflitti a Bolzaneto sono stati inumani e degradanti». Torture fisiche e psicologiche che «si sono potute realizzare per il grave comportamento anche omissivo di pubblici ufficiali, o comunque con il loro consenso tacito o espresso». Ricorda la procura: dita spezzate, pugni, calci, manganellate su persone inermi, bruciature con accendini e mozziconi di sigaretta, bastonate alle piante dei piedi; teste sbattute contro i muri, taglio dei capelli, i volti spinti nella tazza del water. Ma la procura ha ricordato anche gli insulti, le umiliazioni. «Sono stati adottati tutti quei meccanismi che vengono definiti di ‘dominio psicologico´ al fine di abbattere la resistenza dei detenuti e di ridurne la dignità. Tutto ciò è potuto avvenire grazie a quel meccanismo fatto di omissioni, per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti. La parola chiave è stata: impunità».
Repubblica 10.3.08
Il ‘68 della Cavani
"Noi italiani, on the road prima di Easy Rider"
di Paolo D’Agostini
La regista di "I cannibali" e "Il portiere di notte" ripercorre le tappe del nostro cinema giovane di quegli anni. E ora gira "Albert Einstein"
Gli americani erano interessati a "I cannibali", ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia. Rifiutai
Il cinema di Bertolucci, Bellocchio, Pasolini, e anche il mio, dimostrava che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo
ROMA. Liliana Cavani diventa un fiume in piena se la solleciti sul "come eravamo" nel Sessantotto, secondo il cinema giovane di quegli anni di cui la regista emiliana - come gli altri due campioni della stagione Bellocchio e Bertolucci ma dall´educazione «scombinata e aperta, non borghese, non clericale» - fu protagonista.
«L´I Care caro oggi a Veltroni veniva allora dall´America: da lì arrivavano i venti di libertà, non certo dall´est comunista. C´erano Luther King e Malcolm X, i Kennedy, Marcuse e Berkeley. Io ero incantata. Seguivo Basaglia, mi appassionavo al Living Theatre, leggevo Foucault che negava lo scandalo del nudo. Proprio niente del Sessantotto, a partire da quello parigino, traeva ispirazione dal bagaglio ideologico della sinistra marxista. Verso il quale ero fredda, così come era stato il mio nonno anarchico. Fredda verso gli apparati. Le cose più belle e stimolanti venivano da un´altra parte. E quando sono arrivata a Roma non ho sentito alcun bisogno di iscrivermi al Pci come invece tanti altri colleghi. Questa estraneità agli apparati mi ha sempre messa in difficoltà. Quando agli inizi degli anni 60 facevo le mie prime inchieste per la Rai monocolore Dc, come La casa in Italia, sono stata censurata. Con il centrosinistra sono stata etichettata come criptocomunista. E il mio primo Francesco d´Assisi, figura che da persona libera di mente - non clericale né anticlericale - ho affrontato con spirito di scoperta trovandovi una ribellione al padre e un conflitto generazionale, non è piaciuto alla Chiesa. Mi sentivo in armonia con i movimenti di liberazione americani. Tra i miei primi soggetti, sotto l´influenza del Black Power, ce n´era uno che s´intitolava "Black Jesus". Quante cose c´erano in movimento, quante cose di oggi vengono da lì. Quante cose stanno dietro alle candidature di Hillary e Obama».
Mentre sta completando il nuovo film per RaiFiction Albert Einstein (con il Vincenzo Amato di Nuovomondo) Cavani è oggetto di omaggio da parte della Cineteca Nazionale che dedica il programma di marzo della sua sala romana, il Trevi, dapprima a "Lou Castel, (l´anti) divo ribelle del cinema", icona degli anni 60, che fu il suo Francesco nel ´66 (ce ne sarebbe stato più tardi un secondo: Mickey Rourke) oltre che protagonista di Grazie zia e I pugni in tasca. E poi agli "Schermi in fiamme. Il cinema della contestazione" dove è rappresentata da I cannibali, 1969, con Pierre Clementi.
Dopo tanti documentari e servizi per la Rai da metà anni 60 lei si avvicina al cinema scegliendo figure che, da Francesco a Galileo a Milarepa, hanno in comune una lettura non convenzionale della fede e della spiritualità, dell´autorità della Chiesa.
«Anche Galileo ha avuto le sue belle peripezie di censura. Curiosamente deve la sua maggiore diffusione alla San Paolo Film che lo mandava nelle scuole. Dopo gli studi in lettere antiche e glottologia, la vera università l´ho fatta con i documentari. Sul nazismo, sul comunismo, sulle donne nella Resistenza. A ripensarci mi fa ridere che ancora oggi stiamo a combattere con le quote rosa. Quando nel ´65 intervistai una donna che a 18 anni aveva guidato una battaglia partigiana a Bologna, alla mia domanda "per che cosa hai combattuto" mi rispose: "per la palingenesi, perché noi donne dobbiamo contare, non solo per cacciare i tedeschi"».
Le sembrano ridicole le quote rosa?
«No, niente è ridicolo se è necessario. Evidentemente è ancora necessario».
Il suo Sessantotto è I cannibali. Dal mito di Antigone una metafora della ribellione giovanile di quel momento. Ma, come tutto il cinema suggerito direttamente dal clima della contestazione, non piacque molto.
«Partecipò alla Quinzaine di Cannes, appena nata, e fu visto da Susan Sontag che lo portò a New York. Un circuito parallelo della Paramount mi offrì 120 mila dollari ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia».
E lei?
«Dissi di no. E pensare che la sensibilità on the road espressa da I cannibali precedette Easy Rider che non era ancora uscito. Il mio film fu il segnale di una nuova sensibilità che si andava affermando: mal vista da destra e da sinistra, da tutti gli apparati burocratici».
Ma i film "del Sessantotto" non piacquero al pubblico.
«Voglio ugualmente difenderli. Sono convinta che quello di Bernardo (Bertolucci, ndr), di Marco Bellocchio, di Pier Paolo Pasolini, e anche il mio, sia stato il nostro nuovo cinema. La dimostrazione che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo. Un cinema critico che strideva con gli apparati, sia cattolico che comunista. Non poteva piacere a chi, nell´estate del ´68, non aveva espresso solidarietà a Praga invasa. La cultura d´apparato soprattutto di sinistra, una cappa che ci è pesata sulla testa, non sapeva come collocarlo. Avrebbe dovuto farci ponti d´oro perché eravamo una ventata di sprovincializzazione, eravamo il tempo presente».
Quando poi arriva Portiere di notte, ´74, diventa subito un manifesto della trasgressione.
«Non era ammissibile parlare dei nazisti come persone. Era tabù. Ricordo un dibattito sui Cahiers du cinéma tra Michel Foucault che difendeva il film e la redazione che aveva le bende sugli occhi e rappresentava una cultura blindata, ferma. Almeno in Francia si dibatteva d´ideologia, in Italia tutto si ridusse a stabilire - in censura - se fosse giusto che Charlotte Rampling facesse l´amore stando sopra. Credo davvero che il film aprì delle porte».
È vero che nel ´71 firmò il documento contro il commissario Calabresi sull´Espresso?
«Non ricordo di averlo mai fatto né di essere stata mai interpellata».
È sbagliata la sensazione che lei si sia spostata verso posizioni più moderate, a partire dalla scelta dei soggetti come la biografia di De Gasperi?
«De Gasperi dobbiamo solo ringraziarlo se allora ci è stato evitato il peggio».
Repubblica 7.3.08
Monsignor Ravasi annuncia un convegno sull'evoluzionismo
Charles Darwin arriva in Vaticano
di Marco Politi
Il progetto sembra avere lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, turbati dai ripetuti attacchi di Benedetto XVI alle teorie dello scienziato
Città del Vaticano. Riaprire il discorso tra fede ed evoluzionismo, partire dalle teorie di Darwin per guardare oltre e mettere a confronto scienziati, teologi e filosofi sulle domande di senso dell' uomo contemporaneo. L'ambizioso progetto, che gode del placet di Benedetto XVI, è di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la Cultura. Il programma è di convocare tra breve un convegno internazionale sull' evoluzionismo e le sue teorie, che si terrà all' università Gregoriana con la partecipazione di premi Nobel e dei migliori esponenti di teologia e filosofia. Vi saranno credenti e non credenti. Ravasi ha in mente un appuntamento in cui ciascuno degli «specialisti» potrà superare le frontiere del proprio campo. Si avrà lo «scienziato che si interroga e che ascolta anche l' interrogazione della teologia e il teologo e il filosofo che ascoltano e che vedono i percorsi della scienza». Ci sono persone, ha detto Ravasi alla Radio vaticana, che «considerano i cieli del tutto vuoti o al massimo popolati soltanto da satelliti». La sfida è di «far guardare verso l' oltre, verso l' alto» quanti sono solamente chini sul proprio orizzonte. Il progetto sembra anche avere lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, rimasti turbati dai ripetuti attacchi di Benedetto XVI alle teorie di Darwin. Sin dall' inizio del suo pontificato Ratzinger ha dato l' impressione di voler rimettere in discussione la questione, che Giovanni Paolo II aveva in un certo modo chiusa con la dichiarazione che la teoria di Darwin «è più che una mera ipotesi». Nel settembre del 2006, riunendo a Castelgandolfo il suo «circolo di allievi» (che ogni anno sceglie un tema di dibattito), il Papa aveva attaccato il lavoro di Darwin affermando che «la sua teoria sull' evoluzionismo non è completamente dimostrabile perché mutazioni di centinaia di migliaia di anni non possono essere riprodotte in laboratorio». La ricerca scientifica, aveva soggiunto, da sola non è in grado di spiegare l' origine della vita. In ultima analisi l' inizio e lo sviluppo del mondo va letto secondo un «disegno» da ricondursi direttamente a Dio. Nello stesso anno a Ratisbona, durante una messa nella città bavarese, aveva posto la secca alternativa: «O è la Ragione creatrice, lo Spirito, che opera tutto e suscita lo sviluppo oppure è l' Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l' uomo e la sua ragione». Ma se così fosse, allora uomo e cosmo sarebbero il «risultato casuale dell' evoluzione e quindi in ultima istanza una cosa irragionevole». Ma già nel 2005, pochi mesi dopo la sua elezione, il cardinale Schonborn (uno dei discepoli più brillanti di Ratzinger) aveva suscitato scalpore con un intervento sul New York Times in cui sosteneva le tesi di un «Disegnatore intelligente» nell' opera dell' universo. Al punto che tre scienziati americani - il fisico Lawrence Krauss e i biologi cattolici Francisco Ayala e Kenneth Miller - avevano scritto una lettera aperta a Benedetto XVI, chiedendo che «in questi tempi difficili e carichi di tensione la Chiesa cattolica non innalzi un nuovo muro, da tempo abbattuto, tra metodo scientifico e fede religiosa». Di fatto il Vaticano si è reso conto che mettere in questione l' evoluzionismo - ormai definitivamente verificato in campo biologico con gli studi sul Dna e su geni - condurrebbe la Chiesa cattolica in un vicolo cieco, anche se le teorie scientifiche, proprio perché la scienza è empirica, sono soggette a continue messe a punto. Ciò che allarma soprattutto papa Ratzinger è la prospettiva che la spiegazione scientifica dell' origine e dello sviluppo del mondo (e da questo punto di vista l' evoluzionismo è l' unica teoria credibile oggi sul tappeto) porti a stabilire che la creazione del mondo «non ha bisogno di Dio» e ubbidisce unicamente a leggi o mutamenti intrinsechi alla materia. Da questo punto di vista il cardinale Schonborn ha chiarito varie volte che non è tanto in questione il lavoro scientifico di Darwin e la sua teoria quanto il «darwinismo ideologico» che rifiuta una Razionalità nell' evoluzione del mondo o, come la definisce il porporato, un «Dio-designer». Ma è indubitabile che a sua volta il mondo scientifico non può accettare a priori, per dogma, che vi sia un Intelletto Trascendente che guida le sorti dell' universo.
il Riformista 11.3.08
Ethics lo sperma artificiale non esiste ma inquieta Brown
Quali topi, i Tory puntano sull'aborto e il Labour spera di non esplodere
Il detto «We don't do god» questa volta non basta
Londra. Nel giorno in cui un ex manager della City, David Pitt-Watson, diventa segretario generale del Labour, il partito di Gordon Brown si trova ad affrontare l'ennesimo guaio interno di questa sciagurata legislatura. E, cosa ancora più sgradita, la disputa riguarda quei temi etici che Alastair Campbell, ex spin-doctor di Tony Blair, liquidava con la sferzante formula del «We don't do God». Si tratta del cosiddetto «sperma artificiale», ovvero la scoperta effettuata dai ricercatori della Newcastle University che hanno reso noto di essere riusciti a ricavare sperma artificiale da cellule staminali, estratte dal midollo spinale, in topi di laboratorio. Gli studiosi hanno quindi completato l'esperimento, con la nascita di un certo numero di topi utilizzando lo sperma artificiale, anche se tutti gli animali sono morti nel giro di pochi mesi e molti soffrivano di varie anomalie e disturbi genetici. Gli esperti credono tuttavia che esperimenti per riprodurre la medesima tecnica sugli esseri umani potrebbero iniziare nel giro di cinque o dieci anni. Immediatamente l'annuncio ha diviso in due la platea della politica e dell'opinione pubblica inglese: da un lato i sostenitori che vedono in questa scoperta una nuova possibilità per le coppie che non possono avere figli e non vogliono ricorrere alla donazione di sperma da terzi, dall'altro chi parla apertamente di delirio di onnipotenz«a della scienza. Gordon Brown non solo si trova a dover affrontare le proteste vibrate dei gruppi religiosi del paese ma anche di tre ministri del suo cabinet , cattolici, pronti a dimettersi in caso la legge che sta per sbarcare al vaglio di Westminster venga approvata. Al di là della questione sollevata dai ricercatori di Newcastle, infatti, all'interno dello Human Fertilisation and Embryology Bill giace una mina che potrebbe veramente far esplodere il dibattito e anche il governo: ovvero, il tema dell'aborto. Nonostante sia liberal pur essendo il segretario del partito conservatore, David Cameron ha infatti spiazzato tutti intervenendo sul tema e dichiarandosi favorevole a un abbassamento del limite massimo per abortire legalmente nel Regno Unito: un ammiccamento nemmeno troppo velato verso il «cavallo di Troia» rappresentato dai tre ministri cattolici. Facendo appello al suo passato di uomo che ha vissuto un'interminabile odissea negli ospedali pubblici del Regno Unito per aiutare il figlio più piccolo portatore di handicap e soprattutto di politico che pone la famiglia al centro dell'azione sociale, David Cameron ha sfidato il tabù dell'eticità e messo nel mirino il suo bersaglio: la legge sull'interruzione di gravidanza e i suoi limiti temporali. Interpellato la scorsa settimana dal Daily Telegraph , il giovane leader conservatore ha infatti dichiarato senza tanti giri di parole che intende abbassare da 24 a 20 settimane il limite per poter abortire legalmente: «Se c'è anche una sola possibilità di intervento nello Human Fertilisation and Embryology Bill io voterò immediatamente a favore dell'abbassamento». Definendo l'intervento su questo tipo di materia «libero e di coscienza», David Cameron ha comunque mandato un segnale chiaro a pochi giorni dallo sbarco ai Common della discussione in materia: tutti e tre i partiti intendono mettere mano all'argomento e anche le gerarchie ecclesiastiche si sono pronunciate a favore di una revisione al ribasso sui tempi limite. E l'argomento, anche se sottotraccia, sta facendo capolino da giorni sulla stampa britannica. Prima attraverso la pubblicazione dei risultati di studi recentissimi compiuti grazie agli ultrasuoni che parlano di bimbi che «alla dodicesima settimana di fatto già camminano nel ventre materno», poi con l'imbarazzante ufficializzazione del dato in base al quale si evince che in Gran Bretagna una ragazza su dieci con meno di trent'anni ha già abortito almeno una volta. Insomma, più che il quasi fantascientifico sperma artificiale della Newcastle University è l'intero impianto della legge al vaglio del Parlamento a nascondere insidie: se infatti da un lato la carta etica può costare cara al governo Brown, anche a causa dell'ammiccamento Tory, dall'altro cedere ai ministri cattolici può significare l'addio ad investimenti miliardari nella ricerca sulle staminali, comparto che sotto il blairismo aveva trovato rifugio sicuro nel Regno Unito. «We don't do God» questa volta non pare risposta sufficiente a dribblare il problema. (ma.bo.)
Il Messaggero 11.3.08
Uno studio rivela: dietro l’aggressività dei depressi spesso una cura sbagliata
Lo psichiatra: «Sempre più frequenti i casi di impulsività distruttiva»
di Carla Massi
La fascia più colpita è quella tra i 45 e i 64 anni, ma anche i più giovani sono interessati, con il 8% degli adolescenti e il 3% circa dei bambini. Un adulto su tre con problematiche di sofferenza psichica ha iniziato a soffrirne durante l’infanzia. I sintomi più comuni: tristezza persistente, progressivo abbandono dei giochi, irritabilità, poca concentrazione, scarsa energia
ROMA - Li trovano inebetiti a fissare i cadaveri. Ripetono che non ricordano. Urlano che quella figlia l’amavano e mai e poi mai avevano pensato di farla volare dalla finestra. Tanti altri non possono dire, non possono raccontare il loro dolore perché, dopo aver ucciso, hanno scelto il suicidio. Storie familiari, storie così intime e così segrete che, nella depressione, trovano una lacerante giustificazione. Era divorato dalla malattia Antonio Bove, 37 anni, operaio della Ferrari nel Modenese: poco meno di due mesi fa ha stretto in mano un coltello, ha colpito la figlia di sette anni fino ad ucciderla e poi si è piantato la lama nella pancia. I cadaveri di padre e figlia erano vicini, accoccolati a loro modo in camera da letto. «Sono sceso in cantina per riempire di legna la caldaia, poi ho visto tutto bianco. Non ricordo altro». Nemmeno una parola di più per spiegare quello che aveva fatto. Angelo Raffaele Grassano falegname di 55 anni torinese, pochi giorni prima di Natale, ha preso un martello e ha sfondato le teste di moglie e figlia. Poi il nulla. Chi lo conosceva bene ripeteva che era vinto da una forte depressione. Luigi Iannarelli, 35 anni di Caserta, ha aspettato il sonno della moglie e dei figli. Poi li ha soffocati con un cuscino e si è suicidato con una coltellata. Non ce l’ha fatta a superare la foresta nera. E’ rimasto impigliato nei rami, e una notte della scorsa estate, si è portato via la giovane compagna e i due bambini di sette e quattro anni. Una storia, due storie, tre storie di delitti in famiglia. Di delitti ”figli“ del male di vivere. Come è stato ”diagnosticato“ da parenti, medici e inquirenti.
In Italia si contano un milione e mezzo di depressi, due terzi sono donne. Una popolazione che lotta, o prova a lottare, contro apatia, ridotta volontà, diminuzione della capacità di fare o prendere decisioni, difficoltà di concentrazione, mancanza di sonno, inappetenza (o eccesso di fame), dolore senza spiegazione fisica. Ma anche rabbia, tanta rabbia. Aggressività manifesta o tenuta a bada con sofferenza. Esplosione che si traduce in violenza. Che si fa ancora più violenza se il paziente è curato con una terapia sbagliata. Se, per esempio, gli vengono prescritti farmaci che vanno ad agire proprio sulla sua impulsività. Come testimoniano molti studi degli ultimi tempi. Uno, firmato dalla cattedra di Psichiatria dell’università “La Sapienza” di Roma, ha preso in esame 400 persone depresse tra i venti e i sessanta anni. Obiettivo del lavoro: quantificare e analizzare la “dose” di rabbia presente nei pazienti e mettere a punto il giusto equilibrio farmacologico. «Certo è che la depressione non significa solo apatia, tristezza e passività - spiega Massimo Biondi, docente di Psichiatria che ha coordinato il lavoro - ma anche aspetti di impulsività distruttiva. Un rischio per il malato e per gli altri. Una pericolosa combinazione che si presenta con diverse sfumature. Partiamo dall’irritabilità verso i bambini che fanno rumore o verso il partner che parla e arriviamo all’attacco vero e proprio. Proprio le diverse sfumature ci obbligano a rivedere le terapie tradizionali e adattarle».
Amici e parenti parlano di «lento cambiamento del carattere», mutazione di tono della voce, reazioni sproporzionate. «Segni così reattivi e vivaci, pur nella violenza, che nascondono i sintomi più conosciuti della depressione - aggiunge Biondi -. In realtà ci troviamo di fronte a persone in grado di autodistruggersi e distruggere con la stessa violenza. Ci troviamo a che fare con uomini e donne incapaci di controllare l’ostilità che li anima». Lo studio ha concluso che un paziente depresso su tre soffre anche di una forte componente aggressiva. Di qui, la presenza di tre anime che oggi abitano nella depressione: la tristezza con pianto e chiusura, l’ansia caricata di inquietudine e l’aggressività. «Ormai sappiamo che ai pazienti va fatta una domanda assai banale: ma lei sotto sotto è anche arrabbiato? E’ chiaro - dice ancora Biondi - che ogni caso è diverso ma pur vero che, in ogni persona, va capito qual è il peso di ogni componente. Per mirare la terapia. Che va cucita sul malato. Il depresso aggressivo o che disperatamente nasconde la sua aggressività, per esempio, ha bisogno di una cura diversa da quella che si prescrive al depresso solo profondamente malinconico. Anzi, può capitare che un’attivazione farmacologica può diventare controproducente, può andare a lavorare proprio sul lato più debole. Aumentando, per esempio, proprio l’aspetto reattivo. L’antidepressivo da solo, per esempio, può non bastare. Magari c’è necessità anche di uno stabilizzatore dell’umore e altri farmaci. Parliamo di una situazione affrontabile e curabile, per questo si deve imboccare la strada giusta. Stesso discorso per la psicoterapia. Attenzione, molta attenzione, a non continuare ad usare i farmaci senza approfondire questa peculiarità del paziente. Soltanto un lungo colloquio con lo specialista e la creazione di un vera relazione possono permettere di arrivare alla cura adatta. Altrimenti, è possibile rischiare anche effetti opposti. Eccitazione nei casi in cui il vero male sta proprio nella dolorosa incapacità di arginare l’aggressività». Anche verso chi ti ama, chi è sangue del tuo sangue come un figlio.
TERAPIE MIRATE CASO PER CASO
Devono essere “aggiustate” in base alle tre componenti della malattia
«Il ruolo educativo dei genitori messo in discussione da modelli distorti»
ROMA - «L'alto tasso di delitti in famiglia in Italia si spiega con la crisi che sta attraversando il ruolo del genitore. La società moderna, che io definisco postnevrotica, ha infatti sfidato il ruolo educativo di padri e madri mettendoli in competizione con i modelli, spesso distorti, proposti da media e tv. Se mandano in televisione uno spot che invita i bambini ad accompagnare i genitori all'Ippodromo e a vederli scommettere, vuol dire che non solo la famiglia è malata, ma tutta la società».
Così Francisco Mele, psicanalista, criminologo e docente in Sociologia della Famiglia presso l'Istituto Progetto Uomo, commenta l'efferato triplice omicidio di Taranto. «La depressione è la malattia del nostro secolo - continua Mele - generata dall'esasperata rivalità del mondo moderno e sintomo della difficoltà di “riuscire ad essere”. Ed il mancato riconoscimento del proprio ruolo anche all'interno della famiglia può scatenare in una persona depressa la violenza, prima diretta contro se stessi, e poi anche contro gli altri. Fino ad arrivare all'assurdo di un padre, figura protettiva e autoritaria, che uccide i propri figli».
Repubblica 8.3.08
Su Lancet uno studio francese realizzato su piccoli che hanno raggiunto i 5 anni: a soffrire soprattutto il cervello
"Bambini prematuri, troppi rischi Tre su quattro non sono sani"
Uno su cinque non cammina, il 25 per cento ha invece un handicap lieve
di Elena Dusi
ROMA - Vivi, ma a quale prezzo. Ai bambini nati prematuramente la medicina offre più chance di vita rispetto al passato. Ma non sempre garantisce anche la salute. Lontano dai dibattiti etici e basandosi su indagini mediche, lo studio francese "Epipage" è andato a controllare come stanno oggi i bambini che 5 anni fa nacquero prematuri. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Lancet.
Su 2901 bambini venuti alla luce nel 1997 in Francia con meno di 33 settimane di gestazione alle spalle, 2357 sono arrivati al quinto compleanno. Ma tutti avevano passato almeno 24 settimane nel pancione: nessuno dei neonati di 22 o 23 settimane è vivo oggi. Il 77% ha un problema di salute. A soffrire in modo particolare è il cervello, che impiega più tempo a maturare nel pancione. Non a caso i deficit ricorrenti nei prematuri sono proprio neurologici: difficoltà nel coordinare i movimenti, ritardi mentali, cattivo funzionamento degli organi di senso e deficit cognitivi proprio alla vigilia dell´ingresso a scuola. Il 5% dei piccoli studiati ha 5 anni ma non cammina, ha funzioni mentali ridotte al minimo e gravi problemi di vista o udito. Il 9% riesce almeno a camminare, se aiutato. Al 25% dei bambini è stato diagnosticato un handicap lieve: un punteggio tra 70 e 84 in un test di intelligenza che ha 100 come media e problemi lievi a occhi e orecchie.
A tre giorni dal parere del nostro Consiglio superiore di sanità che raccomanda di rianimare qualunque prematuro, Lancet aggiunge spunti di discussione. «Se il bambino presenta segni di vitalità il medico non ha scelta: deve rianimarlo. Non possiamo mai essere sicuri dell´età gestazionale» sostiene Claudio Fabris, presidente della Società italiana di neonatologia e professore all´università di Torino, uno degli esperti consultati dal Consiglio superiore di sanità. «I progressi medici, oltre a far aumentare la sopravvivenza, riducono anche i problemi della crescita». Béatrice Larroque che ha diretto Epipage solleva dei dubbi: «La riduzione della mortalità ci invita a riflettere sull´alta percentuale di bambini con seri problemi di sviluppo» scrive. Aggiungendo: «Bisogna prestare molte attenzioni alle cure e ai costi per i prematuri. I disturbi cognitivi richiedono attenzioni speciali lungo tutto il corso della vita». In Italia nel 2003-2004 è stato avviato lo studio Action, ma i bambini dovranno aver compiuto almeno 5-6 anni prima di consentire diagnosi eloquenti. «Il problema - spiega Maria Serenella Pignotti, neonatologa dell´ospedale pediatrico Meyer di Firenze - è la mancanza di assistenza alle famiglie. Non possiamo tenere il neonato in terapia intensiva, farlo sopravvivere e poi restituirlo ai genitori come fosse un pacchetto». La Pignotti nel 2006 curò la Carta di Firenze, il documento dei neonatologi che raccomandava "solo cure compassionevoli" al di sotto della 23esima settimana. «Dovremmo basarci più sulle evidenze scientifiche che non sulle questioni di principio. "Vita" e "morte" sono parole altisonanti e hanno un impatto sull´opinione pubblica. Ma non possiamo permetterci di infischiarci della vita che questi bambini faranno crescendo».