martedì 11 marzo 2008

l’Unità 11.3.08
Il professor Roberto D’Alimonte: se Udc e Sinistra Arcobaleno superano la soglia dell’8% sarà una lotteria
«A Palazzo Madama non vincerà nessuno»
di Eduardo Di Blasi

Per spiegare i disastrosi esiti che la legge elettorale potrebbe avere nella composizione del Senato, mettendo a rischio, per la seconda tornata consecutiva, la presenza di una maggioranza politica, il professor Roberto D’Alimonte usa due metafore: la lotteria e il totocalcio. «Nella misura in cui la Sinistra Arcobaleno e l’Udc - riflette - superano la soglia dell’8% al Senato, la lotteria diventa più imprevedibile. Potrebbe anche finire senza vincitore».
Perché indica la cifra dell’8%?
«Perché l’8% è la soglia per cui al Senato, in ogni regione, scatta l’attribuzione del seggio».
Quindi un partito come l’Udc che negli ultimi sondaggi è dato vicino all’8% al livello nazionale...
«Prende seggi nelle regioni dove supera questa cifra. Come la Sa. Questo riduce il plafond di seggi dei due partiti maggiori. In particolare del partito atteso come vincitore, il Pdl con i suoi alleati».
Prende seggi sia al vincitore che al perdente...
«Sono due i meccanismi all’opera. Il primo avviene nelle regioni dove Berlusconi perde: i seggi destinati al perdente, invece di prenderseli tutti lui, come è successo due anni fa con la Cdl, deve dividerli con quei partiti che superano la soglia dell’8%. Questo riduce, ovviamente, il suo totale nazionale».
Nel caso di vittoria scatta il secondo meccanismo...
«Facciamo il caso del Veneto in cui Berlusconi dovrebbe vincere. Nel Veneto dovrebbe prendere, a mio avviso, 15 seggi. Il premio sono quattordici, più uno. Ma se l’Udc supera l’8% è molto probabile che il quindicesimo seggio non scatti, e lo prenda l’Udc».
Secondo il suo scenario Berlusconi per ottenere una maggioranza di 10 senatori dovrebbe lasciare al centrosinistra solo Emilia, Toscana, Umbria e Basilicata...
«...E prendere un seggio in più del premio in Veneto, Sicilia e Lombardia. Ma per fare un esempio, se Liguria e Marche, assieme alle regioni storicamente a sinistra come Emilia, Toscana, Umbria e Basilicata, andassero al Pd, Berlusconi avrebbe un solo seggio di vantaggio».
Lotteria sembra la parola più adatta per questa legge elettorale...
«Così come è congegnata, con 17 premi di maggioranza su 20 regioni, o c’è una tendenza molto forte a favore dell’uno e dell’altro, oppure entriamo in una giostra che può dare solo esiti precari. Avere 17 premi regionali significa che per ottenere il 55% dei seggi (a tanto ammonta la somma di tutti i premi), una coalizione dovrebbe vincere in tutte e 17 le regioni. Basta che perda in una regione e la soglia scende».
Pensando che i partiti conservano le proprie roccaforti si va verso maggioranze risicate...
«Non è molto difficile immaginare come andrà a finire anche questa volta. In definitiva è come il totocalcio».
In che senso?
«Ci sono delle fisse per gli uni e per gli altri. Berlusconi ha delle fisse su Veneto, Lombardia, Sicilia, Campania, Puglia. Poi ci sono delle fisse per il centrosinistra: Emilia, Toscana, Umbria, Basilicata. Il resto è fatto di scenari».
Il discorso è ulteriormente complicato dal fatto che non ci sono più due poli ma almeno quattro soggetti di media stazza...
«Esatto. Ci sono altri due contendenti per i seggi che vanno ai perdenti».
Difficile anche superare la soglia per i seggi premio, viste le forze in campo...
«Superare i seggi premio sarà possibile solo se gli altri competitor staranno sotto l’8%».
Un partito di centro potrebbe recuperare voti in Veneto...
«Se l’Udc va sopra l’8% in Veneto Berlusconi non avrà il seggio in più rispetto al premio. Se non prende il seggio in più in Veneto, e prende dei seggi in meno in Emilia e Toscana (a vantaggio della Sinistra Arcobaleno), alla fine si ritrova in una situazione precaria».
Sembra però che l’Udc sia in salita.
«Quando Berlusconi aveva messo l’Udc con le spalle al muro, credo avesse dei sondaggi che davano il partito di Casini basso».
I sondaggi lo danno intorno all’8%...
«Questo sicuramente mette Berlusconi in difficoltà. L’Udc all’8% diventa un fattore rilevante nella competizione elettorale».

l’Unità 11.3.08
Italia e Spagna
di Gian Enrico Rusconi

Zapatero ha saputo declinare in maniera convincente socialismo con il concetto di cittadinanza, tanto è vero che il plusvalore nella sua politica è stato l’aver puntato sui diritti civili, che noi leghiamo al tema, cruciale, della laicità. E lo ha fatto senza sentire per questo la necessità di mettere in naftalina il termine socialista; una "necessità" che non è sentita neanche un po’ anche in altre democrazie europee avanzate come quelle francese e tedesca. Solo da noi il termine socialista ha connotati vagamente sospetti. È una patologia politica grave del nostro Paese. Lo dico polemicamente perché non dovrebbe essere così. D’altro canto, non vedo proprio perché un tema classico del socialismo democratico, quello dell’eguaglianza sociale, debba essere messo in conflitto con una dimensione diversa, ma non per questo necessariamente contrapposta, che è quella delle libertà individuali. Nella sensibilità di oggi l’accento è più spostato sul tema dei diritti della persona, e Zapatero ha saputo coglierne la portata soprattutto tra le giovani generazioni, ma non per questo si deve chiudere gli occhi di fronte ad una questione cruciale come resta quella della lotta a vecchie e nuove povertà.
La grande lezione che emerge dall’esperienza politica e di governo di Zapatero, quella che mi auguro Walter Veltroni recepisca, è di avere coraggio e ancora coraggio nel portare avanti la battaglia della laicità. Coraggio nel non farsi intimidire da chi evoca il bavaglio imposto ai cattolici. Ma quale bavaglio o occupazione brutale della sfera pubblica: il sorridente, tranquillo Zapatero non ha nulla del mangiapreti. In Spagna nessuno ha tappato la bocca ai cattolici, ma neanche abdicato al diritto-dovere di difendere la laicità dello Stato. Di questa difesa della laicità l’Italia avrebbe un gran bisogno».

l’Unità 11.3.08
Mosè e King Kong discutono di Darwin
di Enrico Alleva e Daniela Santucci

Ipotizzare l’esistenza di un essere intangibile (...) non facilita la comprensione dell’ordine che troviamo nel mondo tangibile.
Albert Einstein, in «Pensieri di un uomo curioso»

VERSO IL BICENTENARIO Negli ultimi anni le teorie evoluzioniste hanno creato qualche imbarazzo tra gli esperti... Il saggio di Michele Luzzatto è un libro utile per chiarirsi le idee e per capire, ad esempio, come avviene la selezione sessuale

Che in Italia il darwinismo sia divenuto, segno dei tempi, materia di conflittualità non è un bel divenire. Anche Giovanni Paolo II, una volta riabilitato Galileo Galilei, si era limitato a una placida e post-sacrale ammirazione per la spiegazione darwiniana del mondo dei viventi: lasciando la spiritualità dell’uomo ai credi personali.
È appena uscito in libreria il bel saggio Preghiera darwiniana del pervicace darwinista piemontese Michele Luzzatto (Cortina editore), editor scientifico per la saggistica scientifica e le Grandi Opere presso la prestigiosa casa editrice Einaudi che già annovera molti testi di biologia evoluzionistica e di storia della scienza.
La preghiera luzzattiana è stata letta in pubblico al Museo di Storia Naturale di Milano, nella festosa cornice del Darwin day milanese, in questo febbraio 2008. Anno particolare proprio perché nel 2009 ricorrerà il secondo centenario della nascita di Carlo Darwin, ma anche (evento non meno importante) compirà 150 anni l’opera darwiniana maggiormente importante proprio perché più «scatologica»: fu infatti allora che venne pubblicata Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l’esistenza, libro che sconvolse il modo di vedere la natura da pare dell’uomo colto: anche se ebbe molti lettori «poco colti», dato che il «compare» di Carlo Darwin - Thomas Henry Huxley, detto il suo mastino - si piazzava in tempi ottocenteschi ritto a concionare agli operai su un carretto all’uscita delle fabbriche britanniche per portare al popolo e al «volgo» la «divulgazione» più diretta della prospettiva analitica darwinista (democrazie intellettuali di altri tempi).
Ormai da alcuni anni il compleanno di Darwin (12 febbraio) è un evento festeggiato in parecchie città italiane. Numerose ormai partecipano le scuole e alcuni recenti attacchi al darwinismo hanno invece sortito l’effetto «anticorpale» di coinvolgere i migliori studiosi italiani dell’evoluzionismo a tenere affollate conferenze proprio in quel giorno originale. Una celebrazione divenuta oramai consueta, e che è augurabile che si allarghi ad altre città e cittadine italiane.
Diamo notizia che il ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, arguto e diligente direttore, in anni passati, della rivista La Nuova Ecologia (dove il darwinismo evoluzionista veniva coniugato con temi più prettamente ambientalisti) ha comunicato l’emissione, per il 2009, di un francobollo commemorativo per la incipiente celebrazione darwiniana. Ringraziamone la competente Commissione filatelica.
Dicevamo di questa preghiera darwiniana di Luzzatto, che ha commosso il pubblico milanese nella calda e partecipata recitazione di Lella Costa. Un bell’evento, che resta nella storia recente dell’urbe meneghina.
A Milano è il Museo comunale di Storia Naturale la sede che si è prodigata in questi anni nella celebrazione del Darwin day: per ironia della sorte, e per nemesi, è Ilaria Vinassa de Regny, nipote di un celebre geologo ben poco darwinista, a fungere da prorompente madrina di queste attività celebrative.
Il libro di Luzzatto ha un tono precipuamente biblico. Ci leggiamo: «Dove è Dio? Dove è Dio!? Che disegno ha? Che scopo ha? Perché lo ha fatto?» (pag. 24). «A Londra, al ritorno dalla passeggiata allo zoo, Darwin ragiona nervosamente a tavolino. Allora: qui c’è Willy, laggiù i fuegini e ancor più in là Jenny l’orango» (pag. 32). Con uno stile da esperto scrittore teatrale, il biologo Luzzatto, allievo dell’accademico dei Lincei Aldo Fasolo, fa parlare rabbini e darwinisti, Cartesio e Richard Owen, Giacobbe e King Kong. C’è anche la moglie di Darwin, Emma, fideisticamente credente in un Sommo Artefice. Compare anche Mosè.
Nella bella Prefazione del filosofo Giulio Giorello, e che si intitola Il delitto di Charles Darwin, viene citato anche James Joyce: vi si parla dell’imbarazzo consapevole che il darwinismo ha creato nel mondo degli esperti, immediatamente dilagando in una miriade di lettori, fin da subito, l’Origine delle specie fu infatti, per i suoi tempi, un best-seller assoluto, rapidamente tradotto in innumerevoli lingue.
Va notato che questo saggio di Luzzatto esce in una curiosa e stimolante collana che annovera autori come James Hillman, Giorgio Celli, Humberto Maturana, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Gregory Bateson, Enzo Tiezzi. Jean Paul Sartre, Franco Basaglia, Edgar Morin. Un’insalata mista di autori e di pensieri davvero inusuale nel panorama ben più rigido dell’editoria italiana.
Questo di Luzzatto è un libro utile, da leggere tutto di un fiato, come una sorta di libro di preghiere. Va letto da chi ha fiducia nel darwinismo: ma anche (Crozza ci perdoni) da chi nutre qualche piccolo o grande dubbio sulla potenza analitica del mondo dei viventi che Darwin utilmente propone.
Parla di alcune delle caratteristiche più classiche del darwinismo, ma anche di alcuni difficili corollari: come il problema (pag. 44) della selezione sessuale. Perché mai un pavone dovrebbe infatti cercare di rubare l’appetitosa pavonessa a un altro pavone maschio? Non sono in effetti membri di una medesima specie: dunque esseri che lottano assieme,non in competizione, per la sopravvivenza di tutti i pavoni del pianeta terra? Luzzatto ne fa motivo di riflessione quasi biblica, ma ne fornisce una spiegazione fortemente convincente. E sottilmente darwiniana. La selezione seleziona il migliore pavone, anche fra i confratelli pavoni.
È augurabile che questo saggio, da recitare ad alta voce e tutto di un fiato, venga utilizzato per le incipienti celebrazioni del bicentenario darwiniano. O che possa essere letto nei tanti Darwin day che si terranno in giro per l’Italia nella data fatidica del compleanno darwiniano. Sarà utile complemento alle varie biografie, anche a firma di psicoanalisti e terapeuti che su Darwin hanno speculato negli ultimi due lustri. È anche corredato di una succinta, ma assai ben meditata, bibliografia. Per ulteriori, augurabili, approfondimenti.
Non che i volumi darwinisti editi in Italia degli ultimi anni siano stati scarsi, anzi. Utile complemento ne potrebbero essere due altri agili volumetti, particolarmente adatti per insegnanti e per studenti: L’evoluzione umana: ominidi e uomini prima di Homo sapiens del noto antropologo dell’Università di Roma «Sapienza» Giorgio Manzi (Il mulino serie «Farsi un’idea», 2007) e il più pugnace In difesa di Darwin: piccolo bestiario dell’antievoluzionismo all’italiana del filosofo della scienza dell’Università degli Studi di Milano Bicocca Telmo Pievani (Bompiani, Agone 2007).
Insomma, il 2008 è l’anno della preparazione al successivo, grande «Buon Compleanno, Darwin» che vedrà nel 2009 mostre tematiche e riflessioni filosofiche in giro per il mondo. Epicentro, come fu per il 1982 (ricorrenza della morte del Nostro), sarà la molto darwiniana Cambridge University. Dove i reperti raccolti a bordo del famoso brigantino Beagle sono gelosamente custoditi.
Là, nel luglio del prossimo anno, fastose e festose saranno le celebrazioni, previste con un colossale convegno che già da vari anni i conterranei britannici di Darwin vanno allestendo. Speriamo che l’Italia non sia da meno.

l’Unità Roma 11.3.08
Il ’68 e la contestazione raccontata al cinema
al Trevi per due settimane «Schermi in fiamme»
di Federico Pedroni


Due anni fa la Cineteca Nazionale organizzò una rassegna allo scopo di indagare, scandagliare, riportare alla memoria il cinema italiano degli anni della contestazione. Ora, da domani al 25 marzo alla Sala Trevi, si costruisce un seguito a quella ricognizione. "Schermi in fiamme" offre due settimane di proiezioni, incontri, dibattiti che cercheranno ancora una volta di analizzare come il clima di cambiamento di quegli anni (dal '66 al '75 con l'ovvio epicentro del '68) è stato raccontato al cinema. Accanto ai principali registi che canalizzarono il sentimento del tempo nelle loro opere - da Bellocchio a Bertolucci, dai fratelli Taviani a Liliana Cavani - agivano infatti moltissimi cineasti oggi purtroppo dimenticati che sentirono la necessità di testimoniare i cambiamenti in atto nella società. Il cinema italiano di quegli anni si dimostrò vitalissimo - nelle sue molteplici forme e contraddizioni, dall'avanguardia al film di genere - onnivoro e sfaccettato come era quel periodo. Si inizia domani sera con un film manifesto del regista che più di ogni altro incarnò la figura dell'intellettuale militante, non organico e pronto a cogliere con la sua sensibilità i cambiamenti radicali in corso nella nostra società: Pier Paolo Pasolini. "Teorema" racconta l'insinuarsi di uno strano studente in una famiglia borghese tradizionale, una presenza che affascina e destabilizza l'ordine costituito delle cose. Il film, che come osserva Paolo Mereghetti mescola suggestioni bibliche a influenze psicoanalitiche, è una sorta di manifesto poetico dell'epoca e resta un'opera tra le più originali dell'artista friulano nonostante l'eccessivo simbolismo ideologico.
Nei giorni successivi sarà possibile riscoprire film poco conosciuti di autori celebri - "I sovversivi" di Paolo e Vittorio Taviani, "I cannibali" di Liliana Cavani, "L'urlo" di Tinto Brass, il bellissimo "La circostanza" di Ermanno Olmi, "Lettera aperta a un giornale della sera" di Citto Maselli - e cogliere l'occasione di rivederli accanto alle opere invisibili dei cineasti sperimentali (Alberto Grifi, Paolo Brunatto, Mario Schifano e molti altri) a cui la retrospettiva dedica una sezione a parte. Senza dimenticare chi richiama il cinema di genere per parlare di attualità, come Stelvio Massi in "Giuda uccide il venerdì", o gli autori più strettamente legati alla mutazione culturale in atto in quegli anni, come Renato Ghione o Romano Scavolini.

Corriere della Sera 11.3.08
La psichiatra «Attenti a non definirla subito depressione»

MILANO — Adelia Lucattini, psichiatra e coordinatrice nazionale della European depression association, mette in guardia: «Attenzione a usare la parola depressione per spiegare ogni gesto estremo».
Parlare genericamente di depressione è sbagliato?
«Dalla fine dell'800 la letteratura ci dice che in questi casi ci troviamo davanti a episodi psicotici sostenuti da convinzioni deliranti. Riconducibili a sindromi schizofreniche o disturbi maggiori dell'umore (depressione maggiore e disturbo bipolare), in questo caso magari determinati dal suicidio della madre».
Che si manifestano in che modo?
«In pensieri deliranti di indegnità, rovina, morte imminente. In allucinazioni, voci che dicono: uccidili o sarai ucciso. In molti casi, però, chi uccide lo fa convinto di salvare la propria famiglia».
Ma come si fa a leggere i campanelli d'allarme?
«I sintomi sono gravi, non semplici da diagnosticare, anche perché insorgono lentamente e i familiari ci si abituano non percependo il pericolo. Ma attenzione ai cambi del comportamento, dell'umore».
Che ci sono però anche in caso di depressione generica, no?
«I depressi si uccidono, non ammazzano gli altri.
Quando c'è un'aggressione in famiglia alla base c'è sempre un delirio o un'allucinazione».
Aggressioni in famiglia in aumento?
«Le statistiche dicono di no. Stagionali, semmai. E soprattutto se ne parla di più».
Adelia Lucattini, coordinatrice nazionale della «European depression association» A.Ma.

Corriere della Sera 11.3.08
L'Olanda autorizza l'amore libero Sì al sesso nei parchi, ma di pomeriggio
di L. Off.

BRUXELLES — Dice il nuovo regolamento che gli agenti di polizia «non devono nel modo più assoluto interrompere le attività, a meno che queste non disturbino altre persone».
E le «attività» in questione sono le effusioni fra coppie o più persone, anche i rapporti sessuali completi: che da ottobre saranno permessi nei parchi pubblici delle principali città olandesi, come già accade in alcuni parchi di Amsterdam. Con un paio di raccomandazioni: le «attività » dovranno essere esercitate dalla metà del pomeriggio in poi, cioè fuori dalle ore in cui circolano bambini e scolaresche; e le improvvisate alcove, anche al crepuscolo, dovranno comunque essere lontane da sguardi infantili. Prevista anche una raccomandazione di tipo igienistico: consumato il rapporto e terminate le effusioni, sigarette, preservativi e ogni altro oggetto dovranno essere raccolti e buttati negli appositi cestini.
L'Olanda varca così una delle frontiere più resistenti ai cambiamenti della morale pubblica: quella che in Italia è ancora presidiata (anche se assai meno saldamente di un tempo) da un reato chiamato «atti osceni in luogo pubblico », o «aperto o esposto al pubblico». Il nuovo regolamento di polizia, che da Amsterdam è stato inviato «in visione» agli esperti dell'Aja, di Utrecht e di Rotterdam, con l'invito ad adeguare le proprie regole subito dopo l'estate, prevede una sola eccezione all'atteggiamento imperturbabile dei poliziotti: questi potranno ricorrere «ad azioni correttive» (ma non viene specificato di quali azioni si tratti) «soltanto in presenza di comportamenti offensivi visibili da pubblico passaggio». E sempre in tema di pulizia dei parchi, nel regolamento c'è anche una clausola che non riguarda gli amanti di ogni tendenza, ma solo chi va a passeggio con un compagno a quattro zampe: è previsto infatti un inasprimento delle sanzioni per i proprietari di cani incontinenti.
La decisione di estendere ad altre città l'esperimento di Amsterdam è stata presa dopo qualche polemica, soprattutto in quella stessa Amsterdam che ormai intende chiudere buona parte dei suoi locali «a luci rosse»: i critici temono che, dai locali sbarrati, certe «attività» si trasferiscano nei parchi più grandi.

Corriere della Sera 11.3.08
Scienza e identità Il ricercatore americano colloca l'origine della consapevolezza nella «regione talamocorticale». E si confronta con il darwinismo
Ecco dove si trova la coscienza
La tesi di Christof Koch: l'«idea del sé» è in un'area precisa del cervello
di Sandro Modeo

Siamo sulla terrazza panoramica di una casa o di un albergo di montagna, in una giornata di sole pieno. Chiudiamo gli occhi per un attimo, inspirando l'aria. In questo momento di sospensione, «là fuori» non c'è altro che una distesa sterminata di materia, organica e inorganica; un brulichio di atomi o molecole, senza particolari attributi. Poi riapriamo gli occhi, attivando un intricato processo dialettico tra la mente e il mondo: la nostra retina viene investita da dieci milioni di bit di informazione visiva al secondo, graduata in diverse lunghezze d'onda; i fotorecettori (50 tipi di cellule differenti, tra cui 100 milioni di bastoncelli, sensibili alla luce fioca, e 5 milioni di coni, sensibili alla luce intensa) ne scartano la maggior parte e ne trasmettono una quantità selezionata (trasformando segnale ottico in elettrico) a precise aree cerebrali, a partire dalla corteccia visiva primaria o V1, adibita alla «topografia» di un'immagine; e ogni area codifica una componente specifica della visione (l'orientamento dello spazio, il rapporto sfondo/primo piano, la forma degli oggetti, il colore, il movimento), coordinando e collegando la propria elaborazione con quella delle altre aree. Alla fine del processo — che avviene in un tempo rapidissimo, anche se non inferiore al quarto di secondo — vediamo aprirsi davanti a noi una «scena integrata » ad alta definizione: per esempio delle creste montuose su un cielo terso, una porzione di lago e una fuga di boschi e di case in lontananza.
Nella Ricerca della coscienza (appena uscito da Utet) il biologo Christof Koch elegge l'orchestrazione della consapevolezza visiva — di cui è non a caso uno dei maggiori studiosi sperimentali, insieme con il suo compianto maestro e mentore Francis Crick — come uno degli esempi più convincenti per capire come il cervello produca «significato» dalle sollecitazioni dell'ambiente. Da un lato, lo studio dei danni selettivi in certi pazienti evidenzia infatti l'alta specificità di certe aree: la paziente L.M. — con una lesione all'area collegata alla cognizione del movimento — non riesce a versare il tè o il caffè (che vede come «congelati» in un ghiacciaio) o ad attraversare la strada (una macchina a cento metri si materializza di colpo a pochi passi, come in due inquadrature fisse senza legame) e i pazienti affetti dalla sindrome di Balint — colpiti nelle aree responsabili dell'organizzazione dello spazio — vedono ogni oggetto isolato nel cono d'attenzione, senz'alcun contesto in cui collocarlo. Dall'altro lato, l'incidenza della plasticità cerebrale (il fatto che senza V1 sia impossibile vedere, ma che V1 da sola non basti) dimostra come ogni struttura fisiologica sia condizione necessaria ma non sufficiente per l'articolazione di una funzione psicologica complessa.
Proprio la plasticità diventa un fattore decisivo quando Koch espande la sua indagine dalla coscienza visiva alla coscienza
tout court, cioè a quella musica insieme inconfondibile ed elusiva estesa ben al di là dello stesso fatto visivo (come dimostra la coscienza nei ciechi nati) e così sfuggente da avere alimentato un estenuante dibattito tra filosofi, che ne hanno graduato il termine di volta in volta in «vigilanza», «consapevolezza» o «idea del sé». Una volta stabilito per convenzione che la coscienza è il prodursi di una percezione o di un insieme di percezioni «consapevoli» — e, in quanto tali, già capaci di disegnare l'identità del soggetto —, la prospettiva di Koch viene spesso contrapposta a quella di un altro eminente neuroscienziato, Gerald Edelman. La prima, infatti, privilegia il dettaglio: nella fattispecie, la ricerca dei minimi «correlati neurali della coscienza», cioè del più piccolo insieme di strutture cerebrali e di eventi biochimici utili a produrre uno stato cosciente, e lo identifica in una geografia composta da corteccia, talamo e gangli della base. La seconda, invece, è una teoria «globale» in cui la coscienza è il prodotto di un incessante dialogo tra molte aree cerebrali, e in cui il cervello opera secondo criteri di «selezione» in senso darwiniano.
Eppure — come osserva Silvio Ferraresi nella Nota introduttiva al libro di Koch — a uno sguardo attento le due prospettive possono convergere, così da mostrarci insieme «gli alberi e la foresta ». Quando Koch — in una pagina molto intensa — descrive la propria reazione emotiva davanti al figlio adolescente che gli parla e gli sorride, elenca le strutture specifiche coinvolte nella reazione (certe aree corticali per la decifrazione dei volti e della mimica facciale, la corteccia uditiva e le regioni linguistiche per la codifica della voce e del senso delle parole, e così via), ma poi riconduce l'unità della scena all'«integrazione delle regioni disseminate nel cervello»: non è un'apertura esemplare alla prospettiva «globale» di Edelman? A rovescio, Edelman collega il processo della coscienza, come detto, a una «diffusa sincronizzazione» tra diverse aree cerebrali, ma individua il «nucleo dinamico » di tale sincronizzazione nell'attività del sistema talamocorticale: non è una parziale reintroduzione delle proprietà specifiche di certe strutture? Oltretutto, il «nucleo dinamico» di Edelman coincide in sostanza proprio con la «geografia » minima individuata da Koch.
Comunque sia, l'insieme delle qualità con cui Koch delinea la coscienza nel corso della sua ricerca, potrebbe essere condiviso da tutti i neuroscienziati. Sfuggente se non ambigua sul piano psicologico (perché non necessariamente legata all'«attenzione» né, all'opposto, alle capacità della memoria inconscia, come la guida), in larga misura imperfetta (come dimostra la messa a fuoco di tante percezioni sensoriali, sottoposte a compensazioni e aggiustamenti), sottilmente asincrona, in quanto infittita di microsdruciture temporali (in una stessa scena, la percezione del mutamento di un colore può precedere quella del mutamento di un movimento di 75 millisecondi) e discontinua (perché scandita da impercettibili stacchi che la spezzettano in microistantanee, legate in un
continuum illusorio), la coscienza è insieme tenace e fragile, coesa e intimamente precaria. Per accorgersene non è necessario verificarlo nelle neuropatologie o nei disturbi degenerativi: è sufficiente osservarla attraverso libri come quello di Koch, cioè scontornandola da quelle silenziose proprietà rassicuranti che lei stessa ci fornisce.
(MIKE QUON / CORBIS)

Repubblica 11.3.08
Quando l’uomo ebbe coscienza di sé
Un enigma fra teologia e filosofia
Nel peccato originale la coscienza dell’uomo
di Eugenio Scalfari

Quale fu la ragione che scatenò la cacciata di Adamo ed Eva dai Giardini dell´Eden? Furono la consapevolezza della nostra umanità e il possesso del pensiero, che ci poneva fuori dall´animalità
Dio ci ha concesso il libero arbitrio ma la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e scegliere?
Gli animali e i bambini non peccano, sono forme pure che obbediscono a istinti, pulsioni e stimoli
È il marchio che ci distingue dal resto degli esseri viventi: noi siamo la sola specie che ha perso l´innocenza

Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell´albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell´Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza.
Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all´inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato – non cancellato – e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio.
Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest´affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l´assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell´al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta.
Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l´ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione?

Dov´è la bilancia della giustizia? Dov´è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all´Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. È la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato.
Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell´uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto.
Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch´io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l´innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto.
Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
* * *
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all´Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l´Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall´animalità.
Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari.
Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell´albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio.
La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l´atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all´accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo.
Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l´abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. È possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un´idea assai mediocre e bislacca della modernità.
Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto.
Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni.
Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l´erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
* * *
Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana.
Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell´uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l´Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l´Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello.
Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l´Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza.
La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. È oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. È colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l´assume.
Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un´innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto.
* * *
Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti?
Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l´altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento.
Dunque siamo liberi, almeno stando all´insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell´insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell´Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio?
Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l´uomo, ma è pur vero che anche l´uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell´inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell´«es» per distinguerla dall´io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all´interno dell´individuo.
L´io non è una figura psichica separata dall´«es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l´io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l´istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini.
Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l´intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi.
La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell´individuo e quella della specie, l´egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l´individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto.
Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell´egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate.
Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.

Repubblica 11.3.08
Bolzaneto, arriva la richiesta dei pm "A quegli agenti un secolo di carcere"
Oggi la fine della requisitoria Le parti civili chiedono cinque milioni di danni
di Massimo Calandri

GENOVA - Poco meno di ottanta anni di reclusione, questa la richiesta complessiva di pena. Dai tre mesi ai quattro anni di prigione per ciascuno dei quarantacinque imputati al processo G8. Ma l´ultima pagina della requisitoria, che sarà letta oggi in aula, è paradossalmente la meno importante. Non contano i giorni che qualcuno rischia di passare in galera, anche perché nessuno andrà mai dietro le sbarre: la prescrizione scatterà nel gennaio 2009. Quello che conta, nel processo per i soprusi e le violenze commesse nella caserma di Bolzaneto durante il G8, sono le testimonianze drammatiche delle 209 vittime. E le conferme ottenute in questi anni dagli inquirenti, comprese le confessioni di molti tra ufficiali, funzionari, medici, poliziotti, carabinieri. Furono, secondo i pm, «trattamenti inumani, crudeli, degradanti. In una parola: torture». Conta che nella sentenza di primo grado, attesa entro la fine di giugno, il tribunale dovrà rispondere anche alle istanze degli avvocati delle parti civili. Che per i loro clienti chiederanno il risarcimento per le paure e le umiliazioni subite. La provvisionale, e cioè l´acconto in attesa della liquidazione, potrebbe essere superiore ai cinque milioni di euro. Se condannati, gli imputati pagheranno con i ministeri della Giustizia, della Difesa, dell´Interno.
Abuso d´ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso, violazione dell´ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali. Questi i reati denunciati dai pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Rifacendosi ai parametri indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell´Uomo, i magistrati hanno spiegato che «i trattamenti provati come inflitti a Bolzaneto sono stati inumani e degradanti». Torture fisiche e psicologiche che «si sono potute realizzare per il grave comportamento anche omissivo di pubblici ufficiali, o comunque con il loro consenso tacito o espresso». Ricorda la procura: dita spezzate, pugni, calci, manganellate su persone inermi, bruciature con accendini e mozziconi di sigaretta, bastonate alle piante dei piedi; teste sbattute contro i muri, taglio dei capelli, i volti spinti nella tazza del water. Ma la procura ha ricordato anche gli insulti, le umiliazioni. «Sono stati adottati tutti quei meccanismi che vengono definiti di ‘dominio psicologico´ al fine di abbattere la resistenza dei detenuti e di ridurne la dignità. Tutto ciò è potuto avvenire grazie a quel meccanismo fatto di omissioni, per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti. La parola chiave è stata: impunità».

Repubblica 10.3.08
Il ‘68 della Cavani
"Noi italiani, on the road prima di Easy Rider"
di Paolo D’Agostini

La regista di "I cannibali" e "Il portiere di notte" ripercorre le tappe del nostro cinema giovane di quegli anni. E ora gira "Albert Einstein"
Gli americani erano interessati a "I cannibali", ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia. Rifiutai
Il cinema di Bertolucci, Bellocchio, Pasolini, e anche il mio, dimostrava che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo

ROMA. Liliana Cavani diventa un fiume in piena se la solleciti sul "come eravamo" nel Sessantotto, secondo il cinema giovane di quegli anni di cui la regista emiliana - come gli altri due campioni della stagione Bellocchio e Bertolucci ma dall´educazione «scombinata e aperta, non borghese, non clericale» - fu protagonista.
«L´I Care caro oggi a Veltroni veniva allora dall´America: da lì arrivavano i venti di libertà, non certo dall´est comunista. C´erano Luther King e Malcolm X, i Kennedy, Marcuse e Berkeley. Io ero incantata. Seguivo Basaglia, mi appassionavo al Living Theatre, leggevo Foucault che negava lo scandalo del nudo. Proprio niente del Sessantotto, a partire da quello parigino, traeva ispirazione dal bagaglio ideologico della sinistra marxista. Verso il quale ero fredda, così come era stato il mio nonno anarchico. Fredda verso gli apparati. Le cose più belle e stimolanti venivano da un´altra parte. E quando sono arrivata a Roma non ho sentito alcun bisogno di iscrivermi al Pci come invece tanti altri colleghi. Questa estraneità agli apparati mi ha sempre messa in difficoltà. Quando agli inizi degli anni 60 facevo le mie prime inchieste per la Rai monocolore Dc, come La casa in Italia, sono stata censurata. Con il centrosinistra sono stata etichettata come criptocomunista. E il mio primo Francesco d´Assisi, figura che da persona libera di mente - non clericale né anticlericale - ho affrontato con spirito di scoperta trovandovi una ribellione al padre e un conflitto generazionale, non è piaciuto alla Chiesa. Mi sentivo in armonia con i movimenti di liberazione americani. Tra i miei primi soggetti, sotto l´influenza del Black Power, ce n´era uno che s´intitolava "Black Jesus". Quante cose c´erano in movimento, quante cose di oggi vengono da lì. Quante cose stanno dietro alle candidature di Hillary e Obama».
Mentre sta completando il nuovo film per RaiFiction Albert Einstein (con il Vincenzo Amato di Nuovomondo) Cavani è oggetto di omaggio da parte della Cineteca Nazionale che dedica il programma di marzo della sua sala romana, il Trevi, dapprima a "Lou Castel, (l´anti) divo ribelle del cinema", icona degli anni 60, che fu il suo Francesco nel ´66 (ce ne sarebbe stato più tardi un secondo: Mickey Rourke) oltre che protagonista di Grazie zia e I pugni in tasca. E poi agli "Schermi in fiamme. Il cinema della contestazione" dove è rappresentata da I cannibali, 1969, con Pierre Clementi.
Dopo tanti documentari e servizi per la Rai da metà anni 60 lei si avvicina al cinema scegliendo figure che, da Francesco a Galileo a Milarepa, hanno in comune una lettura non convenzionale della fede e della spiritualità, dell´autorità della Chiesa.
«Anche Galileo ha avuto le sue belle peripezie di censura. Curiosamente deve la sua maggiore diffusione alla San Paolo Film che lo mandava nelle scuole. Dopo gli studi in lettere antiche e glottologia, la vera università l´ho fatta con i documentari. Sul nazismo, sul comunismo, sulle donne nella Resistenza. A ripensarci mi fa ridere che ancora oggi stiamo a combattere con le quote rosa. Quando nel ´65 intervistai una donna che a 18 anni aveva guidato una battaglia partigiana a Bologna, alla mia domanda "per che cosa hai combattuto" mi rispose: "per la palingenesi, perché noi donne dobbiamo contare, non solo per cacciare i tedeschi"».
Le sembrano ridicole le quote rosa?
«No, niente è ridicolo se è necessario. Evidentemente è ancora necessario».
Il suo Sessantotto è I cannibali. Dal mito di Antigone una metafora della ribellione giovanile di quel momento. Ma, come tutto il cinema suggerito direttamente dal clima della contestazione, non piacque molto.
«Partecipò alla Quinzaine di Cannes, appena nata, e fu visto da Susan Sontag che lo portò a New York. Un circuito parallelo della Paramount mi offrì 120 mila dollari ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia».
E lei?
«Dissi di no. E pensare che la sensibilità on the road espressa da I cannibali precedette Easy Rider che non era ancora uscito. Il mio film fu il segnale di una nuova sensibilità che si andava affermando: mal vista da destra e da sinistra, da tutti gli apparati burocratici».
Ma i film "del Sessantotto" non piacquero al pubblico.
«Voglio ugualmente difenderli. Sono convinta che quello di Bernardo (Bertolucci, ndr), di Marco Bellocchio, di Pier Paolo Pasolini, e anche il mio, sia stato il nostro nuovo cinema. La dimostrazione che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo. Un cinema critico che strideva con gli apparati, sia cattolico che comunista. Non poteva piacere a chi, nell´estate del ´68, non aveva espresso solidarietà a Praga invasa. La cultura d´apparato soprattutto di sinistra, una cappa che ci è pesata sulla testa, non sapeva come collocarlo. Avrebbe dovuto farci ponti d´oro perché eravamo una ventata di sprovincializzazione, eravamo il tempo presente».
Quando poi arriva Portiere di notte, ´74, diventa subito un manifesto della trasgressione.
«Non era ammissibile parlare dei nazisti come persone. Era tabù. Ricordo un dibattito sui Cahiers du cinéma tra Michel Foucault che difendeva il film e la redazione che aveva le bende sugli occhi e rappresentava una cultura blindata, ferma. Almeno in Francia si dibatteva d´ideologia, in Italia tutto si ridusse a stabilire - in censura - se fosse giusto che Charlotte Rampling facesse l´amore stando sopra. Credo davvero che il film aprì delle porte».
È vero che nel ´71 firmò il documento contro il commissario Calabresi sull´Espresso?
«Non ricordo di averlo mai fatto né di essere stata mai interpellata».
È sbagliata la sensazione che lei si sia spostata verso posizioni più moderate, a partire dalla scelta dei soggetti come la biografia di De Gasperi?
«De Gasperi dobbiamo solo ringraziarlo se allora ci è stato evitato il peggio».

Repubblica 7.3.08
Monsignor Ravasi annuncia un convegno sull'evoluzionismo
Charles Darwin arriva in Vaticano
di Marco Politi

Il progetto sembra avere lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, turbati dai ripetuti attacchi di Benedetto XVI alle teorie dello scienziato

Città del Vaticano. Riaprire il discorso tra fede ed evoluzionismo, partire dalle teorie di Darwin per guardare oltre e mettere a confronto scienziati, teologi e filosofi sulle domande di senso dell' uomo contemporaneo. L'ambizioso progetto, che gode del placet di Benedetto XVI, è di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la Cultura. Il programma è di convocare tra breve un convegno internazionale sull' evoluzionismo e le sue teorie, che si terrà all' università Gregoriana con la partecipazione di premi Nobel e dei migliori esponenti di teologia e filosofia. Vi saranno credenti e non credenti. Ravasi ha in mente un appuntamento in cui ciascuno degli «specialisti» potrà superare le frontiere del proprio campo. Si avrà lo «scienziato che si interroga e che ascolta anche l' interrogazione della teologia e il teologo e il filosofo che ascoltano e che vedono i percorsi della scienza». Ci sono persone, ha detto Ravasi alla Radio vaticana, che «considerano i cieli del tutto vuoti o al massimo popolati soltanto da satelliti». La sfida è di «far guardare verso l' oltre, verso l' alto» quanti sono solamente chini sul proprio orizzonte. Il progetto sembra anche avere lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, rimasti turbati dai ripetuti attacchi di Benedetto XVI alle teorie di Darwin. Sin dall' inizio del suo pontificato Ratzinger ha dato l' impressione di voler rimettere in discussione la questione, che Giovanni Paolo II aveva in un certo modo chiusa con la dichiarazione che la teoria di Darwin «è più che una mera ipotesi». Nel settembre del 2006, riunendo a Castelgandolfo il suo «circolo di allievi» (che ogni anno sceglie un tema di dibattito), il Papa aveva attaccato il lavoro di Darwin affermando che «la sua teoria sull' evoluzionismo non è completamente dimostrabile perché mutazioni di centinaia di migliaia di anni non possono essere riprodotte in laboratorio». La ricerca scientifica, aveva soggiunto, da sola non è in grado di spiegare l' origine della vita. In ultima analisi l' inizio e lo sviluppo del mondo va letto secondo un «disegno» da ricondursi direttamente a Dio. Nello stesso anno a Ratisbona, durante una messa nella città bavarese, aveva posto la secca alternativa: «O è la Ragione creatrice, lo Spirito, che opera tutto e suscita lo sviluppo oppure è l' Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l' uomo e la sua ragione». Ma se così fosse, allora uomo e cosmo sarebbero il «risultato casuale dell' evoluzione e quindi in ultima istanza una cosa irragionevole». Ma già nel 2005, pochi mesi dopo la sua elezione, il cardinale Schonborn (uno dei discepoli più brillanti di Ratzinger) aveva suscitato scalpore con un intervento sul New York Times in cui sosteneva le tesi di un «Disegnatore intelligente» nell' opera dell' universo. Al punto che tre scienziati americani - il fisico Lawrence Krauss e i biologi cattolici Francisco Ayala e Kenneth Miller - avevano scritto una lettera aperta a Benedetto XVI, chiedendo che «in questi tempi difficili e carichi di tensione la Chiesa cattolica non innalzi un nuovo muro, da tempo abbattuto, tra metodo scientifico e fede religiosa». Di fatto il Vaticano si è reso conto che mettere in questione l' evoluzionismo - ormai definitivamente verificato in campo biologico con gli studi sul Dna e su geni - condurrebbe la Chiesa cattolica in un vicolo cieco, anche se le teorie scientifiche, proprio perché la scienza è empirica, sono soggette a continue messe a punto. Ciò che allarma soprattutto papa Ratzinger è la prospettiva che la spiegazione scientifica dell' origine e dello sviluppo del mondo (e da questo punto di vista l' evoluzionismo è l' unica teoria credibile oggi sul tappeto) porti a stabilire che la creazione del mondo «non ha bisogno di Dio» e ubbidisce unicamente a leggi o mutamenti intrinsechi alla materia. Da questo punto di vista il cardinale Schonborn ha chiarito varie volte che non è tanto in questione il lavoro scientifico di Darwin e la sua teoria quanto il «darwinismo ideologico» che rifiuta una Razionalità nell' evoluzione del mondo o, come la definisce il porporato, un «Dio-designer». Ma è indubitabile che a sua volta il mondo scientifico non può accettare a priori, per dogma, che vi sia un Intelletto Trascendente che guida le sorti dell' universo.

il Riformista 11.3.08
Ethics lo sperma artificiale non esiste ma inquieta Brown
Quali topi, i Tory puntano sull'aborto e il Labour spera di non esplodere
Il detto «We don't do god» questa volta non basta

Londra. Nel giorno in cui un ex manager della City, David Pitt-Watson, diventa segretario generale del Labour, il partito di Gordon Brown si trova ad affrontare l'ennesimo guaio interno di questa sciagurata legislatura. E, cosa ancora più sgradita, la disputa riguarda quei temi etici che Alastair Campbell, ex spin-doctor di Tony Blair, liquidava con la sferzante formula del «We don't do God». Si tratta del cosiddetto «sperma artificiale», ovvero la scoperta effettuata dai ricercatori della Newcastle University che hanno reso noto di essere riusciti a ricavare sperma artificiale da cellule staminali, estratte dal midollo spinale, in topi di laboratorio. Gli studiosi hanno quindi completato l'esperimento, con la nascita di un certo numero di topi utilizzando lo sperma artificiale, anche se tutti gli animali sono morti nel giro di pochi mesi e molti soffrivano di varie anomalie e disturbi genetici. Gli esperti credono tuttavia che esperimenti per riprodurre la medesima tecnica sugli esseri umani potrebbero iniziare nel giro di cinque o dieci anni. Immediatamente l'annuncio ha diviso in due la platea della politica e dell'opinione pubblica inglese: da un lato i sostenitori che vedono in questa scoperta una nuova possibilità per le coppie che non possono avere figli e non vogliono ricorrere alla donazione di sperma da terzi, dall'altro chi parla apertamente di delirio di onnipotenz«a della scienza. Gordon Brown non solo si trova a dover affrontare le proteste vibrate dei gruppi religiosi del paese ma anche di tre ministri del suo cabinet , cattolici, pronti a dimettersi in caso la legge che sta per sbarcare al vaglio di Westminster venga approvata. Al di là della questione sollevata dai ricercatori di Newcastle, infatti, all'interno dello Human Fertilisation and Embryology Bill giace una mina che potrebbe veramente far esplodere il dibattito e anche il governo: ovvero, il tema dell'aborto. Nonostante sia liberal pur essendo il segretario del partito conservatore, David Cameron ha infatti spiazzato tutti intervenendo sul tema e dichiarandosi favorevole a un abbassamento del limite massimo per abortire legalmente nel Regno Unito: un ammiccamento nemmeno troppo velato verso il «cavallo di Troia» rappresentato dai tre ministri cattolici. Facendo appello al suo passato di uomo che ha vissuto un'interminabile odissea negli ospedali pubblici del Regno Unito per aiutare il figlio più piccolo portatore di handicap e soprattutto di politico che pone la famiglia al centro dell'azione sociale, David Cameron ha sfidato il tabù dell'eticità e messo nel mirino il suo bersaglio: la legge sull'interruzione di gravidanza e i suoi limiti temporali. Interpellato la scorsa settimana dal Daily Telegraph , il giovane leader conservatore ha infatti dichiarato senza tanti giri di parole che intende abbassare da 24 a 20 settimane il limite per poter abortire legalmente: «Se c'è anche una sola possibilità di intervento nello Human Fertilisation and Embryology Bill io voterò immediatamente a favore dell'abbassamento». Definendo l'intervento su questo tipo di materia «libero e di coscienza», David Cameron ha comunque mandato un segnale chiaro a pochi giorni dallo sbarco ai Common della discussione in materia: tutti e tre i partiti intendono mettere mano all'argomento e anche le gerarchie ecclesiastiche si sono pronunciate a favore di una revisione al ribasso sui tempi limite. E l'argomento, anche se sottotraccia, sta facendo capolino da giorni sulla stampa britannica. Prima attraverso la pubblicazione dei risultati di studi recentissimi compiuti grazie agli ultrasuoni che parlano di bimbi che «alla dodicesima settimana di fatto già camminano nel ventre materno», poi con l'imbarazzante ufficializzazione del dato in base al quale si evince che in Gran Bretagna una ragazza su dieci con meno di trent'anni ha già abortito almeno una volta. Insomma, più che il quasi fantascientifico sperma artificiale della Newcastle University è l'intero impianto della legge al vaglio del Parlamento a nascondere insidie: se infatti da un lato la carta etica può costare cara al governo Brown, anche a causa dell'ammiccamento Tory, dall'altro cedere ai ministri cattolici può significare l'addio ad investimenti miliardari nella ricerca sulle staminali, comparto che sotto il blairismo aveva trovato rifugio sicuro nel Regno Unito. «We don't do God» questa volta non pare risposta sufficiente a dribblare il problema. (ma.bo.)

Il Messaggero 11.3.08
Uno studio rivela: dietro l’aggressività dei depressi spesso una cura sbagliata
Lo psichiatra: «Sempre più frequenti i casi di impulsività distruttiva»
di Carla Massi


La fascia più colpita è quella tra i 45 e i 64 anni, ma anche i più giovani sono interessati, con il 8% degli adolescenti e il 3% circa dei bambini. Un adulto su tre con problematiche di sofferenza psichica ha iniziato a soffrirne durante l’infanzia. I sintomi più comuni: tristezza persistente, progressivo abbandono dei giochi, irritabilità, poca concentrazione, scarsa energia

ROMA - Li trovano inebetiti a fissare i cadaveri. Ripetono che non ricordano. Urlano che quella figlia l’amavano e mai e poi mai avevano pensato di farla volare dalla finestra. Tanti altri non possono dire, non possono raccontare il loro dolore perché, dopo aver ucciso, hanno scelto il suicidio. Storie familiari, storie così intime e così segrete che, nella depressione, trovano una lacerante giustificazione. Era divorato dalla malattia Antonio Bove, 37 anni, operaio della Ferrari nel Modenese: poco meno di due mesi fa ha stretto in mano un coltello, ha colpito la figlia di sette anni fino ad ucciderla e poi si è piantato la lama nella pancia. I cadaveri di padre e figlia erano vicini, accoccolati a loro modo in camera da letto. «Sono sceso in cantina per riempire di legna la caldaia, poi ho visto tutto bianco. Non ricordo altro». Nemmeno una parola di più per spiegare quello che aveva fatto. Angelo Raffaele Grassano falegname di 55 anni torinese, pochi giorni prima di Natale, ha preso un martello e ha sfondato le teste di moglie e figlia. Poi il nulla. Chi lo conosceva bene ripeteva che era vinto da una forte depressione. Luigi Iannarelli, 35 anni di Caserta, ha aspettato il sonno della moglie e dei figli. Poi li ha soffocati con un cuscino e si è suicidato con una coltellata. Non ce l’ha fatta a superare la foresta nera. E’ rimasto impigliato nei rami, e una notte della scorsa estate, si è portato via la giovane compagna e i due bambini di sette e quattro anni. Una storia, due storie, tre storie di delitti in famiglia. Di delitti ”figli“ del male di vivere. Come è stato ”diagnosticato“ da parenti, medici e inquirenti.
In Italia si contano un milione e mezzo di depressi, due terzi sono donne. Una popolazione che lotta, o prova a lottare, contro apatia, ridotta volontà, diminuzione della capacità di fare o prendere decisioni, difficoltà di concentrazione, mancanza di sonno, inappetenza (o eccesso di fame), dolore senza spiegazione fisica. Ma anche rabbia, tanta rabbia. Aggressività manifesta o tenuta a bada con sofferenza. Esplosione che si traduce in violenza. Che si fa ancora più violenza se il paziente è curato con una terapia sbagliata. Se, per esempio, gli vengono prescritti farmaci che vanno ad agire proprio sulla sua impulsività. Come testimoniano molti studi degli ultimi tempi. Uno, firmato dalla cattedra di Psichiatria dell’università “La Sapienza” di Roma, ha preso in esame 400 persone depresse tra i venti e i sessanta anni. Obiettivo del lavoro: quantificare e analizzare la “dose” di rabbia presente nei pazienti e mettere a punto il giusto equilibrio farmacologico. «Certo è che la depressione non significa solo apatia, tristezza e passività - spiega Massimo Biondi, docente di Psichiatria che ha coordinato il lavoro - ma anche aspetti di impulsività distruttiva. Un rischio per il malato e per gli altri. Una pericolosa combinazione che si presenta con diverse sfumature. Partiamo dall’irritabilità verso i bambini che fanno rumore o verso il partner che parla e arriviamo all’attacco vero e proprio. Proprio le diverse sfumature ci obbligano a rivedere le terapie tradizionali e adattarle».
Amici e parenti parlano di «lento cambiamento del carattere», mutazione di tono della voce, reazioni sproporzionate. «Segni così reattivi e vivaci, pur nella violenza, che nascondono i sintomi più conosciuti della depressione - aggiunge Biondi -. In realtà ci troviamo di fronte a persone in grado di autodistruggersi e distruggere con la stessa violenza. Ci troviamo a che fare con uomini e donne incapaci di controllare l’ostilità che li anima». Lo studio ha concluso che un paziente depresso su tre soffre anche di una forte componente aggressiva. Di qui, la presenza di tre anime che oggi abitano nella depressione: la tristezza con pianto e chiusura, l’ansia caricata di inquietudine e l’aggressività. «Ormai sappiamo che ai pazienti va fatta una domanda assai banale: ma lei sotto sotto è anche arrabbiato? E’ chiaro - dice ancora Biondi - che ogni caso è diverso ma pur vero che, in ogni persona, va capito qual è il peso di ogni componente. Per mirare la terapia. Che va cucita sul malato. Il depresso aggressivo o che disperatamente nasconde la sua aggressività, per esempio, ha bisogno di una cura diversa da quella che si prescrive al depresso solo profondamente malinconico. Anzi, può capitare che un’attivazione farmacologica può diventare controproducente, può andare a lavorare proprio sul lato più debole. Aumentando, per esempio, proprio l’aspetto reattivo. L’antidepressivo da solo, per esempio, può non bastare. Magari c’è necessità anche di uno stabilizzatore dell’umore e altri farmaci. Parliamo di una situazione affrontabile e curabile, per questo si deve imboccare la strada giusta. Stesso discorso per la psicoterapia. Attenzione, molta attenzione, a non continuare ad usare i farmaci senza approfondire questa peculiarità del paziente. Soltanto un lungo colloquio con lo specialista e la creazione di un vera relazione possono permettere di arrivare alla cura adatta. Altrimenti, è possibile rischiare anche effetti opposti. Eccitazione nei casi in cui il vero male sta proprio nella dolorosa incapacità di arginare l’aggressività». Anche verso chi ti ama, chi è sangue del tuo sangue come un figlio.

TERAPIE MIRATE CASO PER CASO
Devono essere “aggiustate” in base alle tre componenti della malattia
«Il ruolo educativo dei genitori messo in discussione da modelli distorti»

ROMA - «L'alto tasso di delitti in famiglia in Italia si spiega con la crisi che sta attraversando il ruolo del genitore. La società moderna, che io definisco postnevrotica, ha infatti sfidato il ruolo educativo di padri e madri mettendoli in competizione con i modelli, spesso distorti, proposti da media e tv. Se mandano in televisione uno spot che invita i bambini ad accompagnare i genitori all'Ippodromo e a vederli scommettere, vuol dire che non solo la famiglia è malata, ma tutta la società».
Così Francisco Mele, psicanalista, criminologo e docente in Sociologia della Famiglia presso l'Istituto Progetto Uomo, commenta l'efferato triplice omicidio di Taranto. «La depressione è la malattia del nostro secolo - continua Mele - generata dall'esasperata rivalità del mondo moderno e sintomo della difficoltà di “riuscire ad essere”. Ed il mancato riconoscimento del proprio ruolo anche all'interno della famiglia può scatenare in una persona depressa la violenza, prima diretta contro se stessi, e poi anche contro gli altri. Fino ad arrivare all'assurdo di un padre, figura protettiva e autoritaria, che uccide i propri figli».

Repubblica 8.3.08
Su Lancet uno studio francese realizzato su piccoli che hanno raggiunto i 5 anni: a soffrire soprattutto il cervello
"Bambini prematuri, troppi rischi Tre su quattro non sono sani"
Uno su cinque non cammina, il 25 per cento ha invece un handicap lieve
di Elena Dusi


ROMA - Vivi, ma a quale prezzo. Ai bambini nati prematuramente la medicina offre più chance di vita rispetto al passato. Ma non sempre garantisce anche la salute. Lontano dai dibattiti etici e basandosi su indagini mediche, lo studio francese "Epipage" è andato a controllare come stanno oggi i bambini che 5 anni fa nacquero prematuri. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Lancet.
Su 2901 bambini venuti alla luce nel 1997 in Francia con meno di 33 settimane di gestazione alle spalle, 2357 sono arrivati al quinto compleanno. Ma tutti avevano passato almeno 24 settimane nel pancione: nessuno dei neonati di 22 o 23 settimane è vivo oggi. Il 77% ha un problema di salute. A soffrire in modo particolare è il cervello, che impiega più tempo a maturare nel pancione. Non a caso i deficit ricorrenti nei prematuri sono proprio neurologici: difficoltà nel coordinare i movimenti, ritardi mentali, cattivo funzionamento degli organi di senso e deficit cognitivi proprio alla vigilia dell´ingresso a scuola. Il 5% dei piccoli studiati ha 5 anni ma non cammina, ha funzioni mentali ridotte al minimo e gravi problemi di vista o udito. Il 9% riesce almeno a camminare, se aiutato. Al 25% dei bambini è stato diagnosticato un handicap lieve: un punteggio tra 70 e 84 in un test di intelligenza che ha 100 come media e problemi lievi a occhi e orecchie.
A tre giorni dal parere del nostro Consiglio superiore di sanità che raccomanda di rianimare qualunque prematuro, Lancet aggiunge spunti di discussione. «Se il bambino presenta segni di vitalità il medico non ha scelta: deve rianimarlo. Non possiamo mai essere sicuri dell´età gestazionale» sostiene Claudio Fabris, presidente della Società italiana di neonatologia e professore all´università di Torino, uno degli esperti consultati dal Consiglio superiore di sanità. «I progressi medici, oltre a far aumentare la sopravvivenza, riducono anche i problemi della crescita». Béatrice Larroque che ha diretto Epipage solleva dei dubbi: «La riduzione della mortalità ci invita a riflettere sull´alta percentuale di bambini con seri problemi di sviluppo» scrive. Aggiungendo: «Bisogna prestare molte attenzioni alle cure e ai costi per i prematuri. I disturbi cognitivi richiedono attenzioni speciali lungo tutto il corso della vita». In Italia nel 2003-2004 è stato avviato lo studio Action, ma i bambini dovranno aver compiuto almeno 5-6 anni prima di consentire diagnosi eloquenti. «Il problema - spiega Maria Serenella Pignotti, neonatologa dell´ospedale pediatrico Meyer di Firenze - è la mancanza di assistenza alle famiglie. Non possiamo tenere il neonato in terapia intensiva, farlo sopravvivere e poi restituirlo ai genitori come fosse un pacchetto». La Pignotti nel 2006 curò la Carta di Firenze, il documento dei neonatologi che raccomandava "solo cure compassionevoli" al di sotto della 23esima settimana. «Dovremmo basarci più sulle evidenze scientifiche che non sulle questioni di principio. "Vita" e "morte" sono parole altisonanti e hanno un impatto sull´opinione pubblica. Ma non possiamo permetterci di infischiarci della vita che questi bambini faranno crescendo».

lunedì 10 marzo 2008

l’Unità 10.3.08
Sassoon: diritti civili e laicità le carte vincenti del Psoe
di Umberto De Giovannangeli


«Aver favorito la crescita economica e aver esteso i diritti civili: è stata questa la “ricetta” vincente di Zapatero». A sostenerlo è Donald Sassoon, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra, tra i più autorevoli studiosi della sinistra europea». «Il leader socialista - rimarca Sassoon - ha saputo far vivere una idea forte di laicità senza provocare lacerazioni nella società spagnola».
La Spagna ha rinnovato la sua fiducia al Psoe di Zapatero. Come leggere questo successo elettorale?
«Gli spagnoli hanno premiato un’azione di governo che aveva consolidato una svolta laica nel Paese; una svolta davvero impressionante se si pensa al peso che la Chiesa ha avuto per così tanti anni in Spagna. Quando parlo di svolta laica mi riferisco in modo particolare alle varie riforme nel campo dei diritti civili, tra le quali quella del matrimonio gay: se solo una decina di anni fa qualcuno avesse parlato di una cosa del genere lo avremmo tacciato di “pazzia” politica. E questa svolta, altro dato a merito di Zapatero, è avvenuta senza provocare lacerazioni insanabile nella società spagnola; cerjavascript:void(0)
Pubblica postto, la Chiesa ha protestato ma questa innovazione progressiva nel campo dei diritti civili è stata talmente metabolizzata dalla società spagnola che anche il campo conservatore aveva affermato che quelle leggi così avanzate non sarebbero state cancellate nel caso di una sua vittoria».
Quale è stato una altro terreno centrale nello scontro politico in Spagna?
«L’economia. L’andamento dell’economia spagnola, al pari di quella delle altre maggiori economie europee, era stato positivo fino ad un anno fa, e di fatti se Zapatero avesse anticipato le elezioni ad ottobre, avrebbe probabilmente riportato una vittoria ancor più netta di quella, comunque ampia, che ha ottenuto. E significa anche che è sempre più difficile per i governi europei fare fronte a una economia che è sempre più globalizzata, per cui la crisi dei mutui che sta segnando profondamente l’economia statunitense si è subito proiettata sulle economie europee. E poi c’è un terzo terreno su cui Zapatero ha fortemente caratterizzato la sua azione di governo..».
Qual è questo terzo terreno?
«Quello dell’immigrazione, uno dei temi che più ha caratterizzato la campagna elettorale spagnola, così come da molti anni ha una particolare rilevanza in Gran Bretagna e in Francia. I partiti di sinistra non sono ancora riusciti a convincere pienamente il loro elettorato che in realtà il fatto che ci sia immigrazione è un segno che l’economia e il sistema-Paese funzionano; tradizionalmente l’immigrazione è una cosa che rende: la riprova sono gli Stati Uniti, un Paese che ha avuto una fortissima immigrazione negli ultimi trenta-quarant’anni, quasi pari a quella della fine dell’Ottocento, e che in questo arco di tempo ha avuto un fortissimo incremento. Gli immigrati portano prosperità, ma questo è un messaggio che la sinistra non ha saputo diffondere, finendo così per restare subalterna ad alcune parole d’ordine della destra».
Un altro tema scottante, soprattutto nell’insanguinata vigilia del voto, è stato il terrorismo.
«Un terreno su cui Zapatero ha mostrato una grande capacità di leadership. Il leader socialista ha saputo fare una cosa che è sempre riuscita difficile ai partiti della sinistra: fare del Psoe un partito che nella lotta al terrorismo non ha cedimenti, non è arrendevole, ma che allo stesso tempo tiene duro sulle parti più importanti dei diritti civili. È una lezione importante visto che il terrorismo ha colpito molti dei nostri Paesi. Si può essere determinati, inflessibili senza per questo venir meno ai fondamenti di uno stato di diritto. C’è poi un altro campo dove Zapatero ha mostrato coerenza e determinazione...».
Qual è questo campo?
«Quello della politica estera. Soprattutto sull’Iraq ha mostrato una fermezza critica, cosa che non si può dire per i laburisti inglesi, ad esempio., che rischiano di pagare pesantemente l’interventismo di Blair».
A proposito dell’ex premier britannico: c’è chi vede in Zapatero l’«anti-Blair».
«A parte che Blair almeno in Inghilterra, ed è incredibile per qualcuno che è stato al potere per un decennio, è già quasi dimenticato, ciò di cui sono fermamente convinto è che la sinistra non può continuare ad aspettare, o invocare, un “messia”, sia esso Blair, Zapatero o Obama...L’epoca messianica è finita da tempo, e per fortuna aggiungerei, e l’unico modo per costruire una politica innovativa è di farlo insieme in Europa. È questa la sfida per il futuro per le sinistre e i progressisti europei. Una sfida di cui Zapatero sarà uno dei protagonisti».

l’Unità 10.3.08
La Spagna si fida, vince ancora Zapatero
Il premier sfiora la maggioranza assoluta: «Governeremo per tutti a cominciare da chi ha di meno»
di Toni Fontana

HA VINTO ZAPATERO, ha vinto la Spagna delle riforme e del cambiamento. Ha vinto la Spagna che non si piega al ricatto del terrore dell’Eta. La destra arroccata e aggressiva perde, ma non viene umiliata; la carriera di Mariano Rajoy, modesto e incolore suc-
cessore di Aznar appare tuttavia giunta al termine e già, nel Pp, è iniziata la resa dei conti. Zapatero, secondo i dati diffusi ieri sera dalla vicepresidente del governo Maria Teresa Fernandez de la Vega e dal ministro dell’Interno Rubalcaba aumenta considerevolmente la rappresentanza parlamentare conquistando il 43,7% dei voti, ossia 169 seggi, 5 in più rispetto ai 164 della passata legislatura. I popolari vengono sonoramente sconfitti, ma con il 40,1%, aumentano a loro volta il numero dei deputati (da 148 a 153, 5 in più). Dal voto escono a pezzi alcuni tra i piccoli partiti ed in particolare la sinistra radicale (da 5 a 2 deputati) di Gaspar Llmazares che è apparso nella sala stampa di Izquieda Unita ammettendo «il cattivo risultato del quale - ha detto - mi assumo tutta la responsabilità». Llamazares ha puntato il dito contro il «bipartitismo».
Festa grande, lacrime e bandiere al vento invece in calle Ferraz. Davanti alla sede del Psoe si sono riuniti migliaia di militanti festanti che, fino a tarda notte, hanno cantato e chiamato Zapatero alla finestra. Il leader, sorridente, è apparso poco prima delle 23: «Isaias dovrebbe essere qui» ha detto leggendo i nomi delle vittime dell’Eta degli ultimi quattro anni. «Grazie - ha poi aggiunto - ai cittadini che hanno dato una vittoria chiara al partito socialista. La Spagna ha deciso di aprire una nuova tappa che non sarà fondata sulla contrapposizione, in quanto noi correggeremo gli errori e governeremo con il consenso sociale e la collaborazione. Governeremo per tutti, pensando prima principalmente a coloro che hanno di meno, governeremo pensando ai diritti delle donne, interpretando le speranze dei giovani, governeremo per mantenere gli impegni con l’Europa e con la pace, difenderemo la convivenza, la tolleranza, cammineremo verso il futuro tutti assieme».
La vittoria è apparsa chiara fin dai primi minuti dopo la chiusura del seggi, tutti gli exit poll hanno anticipato la vittoria del partito di Zapatero con un ampio margine e, nella prima fase, ipotizzando la maggioranza assoluta. Poi in calle Ferraz è apparso Josè Blanco, segretario organizzativo del Psoe che ha dedicato «alla democrazia e alla memoria di Isaias Carrasco» la vittoria del socialisti, poi ufficialmente confermata dai ministri de la Vega e Rubalcalba. Il dirigente socialista non ha risparmiato accuse alla destra sconfitta ed ha annunciato, riferendosi alle recenti polemiche di Rajoy sul terrorismo, che la prossima legislatura non sarà caratterizzata dalla «contrapposizione e dalla slealtà».
Il Psoe si attesta sul 43,7% dei voti, rafforza la sua maggioranza e, come ha ricordato Blanco «è ora nelle migliori condizioni per governare», anche se non dispone della maggioranza assoluta e dovrà negoziare con gli altri gruppi. Una novità è invece rappresentata dal movimento «per il progresso e la democrazia» fondato dal filosofo-scrittore Fernando Savater che, con pochi mezzi e sostegni, ottiene un rappresentante in Parlamento. L’altro grande sconfitto delle elezioni è il radicalismo indipendentista catalano rappresentato da Esquerra repubblicana de Catalana, che aveva 8 seggi nel precedente Parlamento e ne otterrà invece 3. I moderati catalani confermano i 10 seggi ottenuti 4 anni fa.
I primi dati sulla partecipazione erano stati diffusi poco dopo le 14 di ieri e hanno inizialmente suscitato qualche preoccupazione nello stato maggiore del Psoe. In serata però si è appreso che il numero dei votanti del 2008 (affluenza definitiva: 75,3%) ha superato quello del 2004. Più marcata rispetto al resto del Paese, la diminuzione dei elettori nei Paesi Baschi dove il calo degli elettori è stato del 8%. Alle 19 poco più della metà degli avanti diritto (54%) si era recato alle urne. In questo caso hanno pesato non poco i ricatti dei terroristi. L’Eta ed il suo braccio politico fuorilegge, Batasuna, hanno più volte lanciato oscuri messaggi nel corso del periodo elettorale con l’obiettivo di aumentare gli astenuti. Non ha ceduto ai ricatti della violenza, la famiglia di Isaias Carrasco, militante socialista e sindacale, assassinato venerdì a Mondragon. La figlia dell’ucciso, Sandra e la moglie, Mari Angeles Romero Ortiz, hanno votato tra i primi in un seggio poco distante da dove è stato ucciso Isaias. Le due donne hanno invitato gli elettori a non cedere ai ricatti dell’Eta e ad andare a votare. In diverse località della regione basca e della vicina Navarra gruppi di estremisti indipendentisti hanno compiuto ieri azioni di disturbo e provocazioni. A Pamplona è stata lanciata una bottiglia molotov contro un’auto della polizia, nessun ferito. In alcune località basche, nel corso della notte, sono state sigillate con il silicone le saracinesche di alcuni seggi. Le indagini sull’assassinio di Isaias Carrasco con hanno per ora condotto ad alcun risultato.
L’arma usata per il delitto non era mai stata utilizzata in precedenza dai killer dell’Eta che, appare chiaro, stava da tempo preparando l’agguato e sapeva che, dal mese di settembre, l’ex consigliere comunale socialista, era senza scorta dopo aver rifiutato la protezione che era stata offerta dai dirigenti socialisti locali.

l’Unità 10.3.08
Rimonta socialista, la Francia punisce Sarkozy
Amministrative, la sinistra al 47,5%. Il partito del presidente cala al 40%. Ségolène: è un voto di speranza
di Gianni Marsilli

LO SCHIAFFO C’È STATO Per capire se si sia trattato di un vero manrovescio bisognerà aspettare il secondo turno, ma l’avvertimento a Nicolas Sarkozy è senza equivoci. Le prime stime globali (dell’istituto Csa) situavano ieri sera la sinistra al 47,5% e la
destra al 40%. Cifre che non cambiano i rapporti di forza nazionali, stabiliti per cinque anni dalle presidenziali e dalle politiche l’anno scorso, ma che testimoniano della sanzione che i francesi hanno voluto infliggere al presidente attraverso il rinnovamento di 36mila consigli comunali e l’elezione di altrettanti sindaci. La spinta a sinistra è stata netta e forte, e sono numerose le città cadute in mani socialiste fin dal primo turno. Ségolène Royal commenta: è un voto di speranza.
Stentorea è l’affermazione del sindaco di Parigi Bertrand Delanoe, che le prime stime davano oltre il 40%. La sua avversaria di destra, Françoise de Panafieu, arranca sotto il 30%. In terza posizione, con il 13%, Marielle de Sarnez, che è il numero 2 del MoDem, il partito centrista di François Bayrou. La capitale è dunque destinata a portare ancora i colori socialisti, e il futuro nazionale di Delanoe prende decisamente forma: al prossimo congresso del partito sarà quasi certamente candidato alla segreteria. È in ballottaggio il sindaco Ump di Strasburgo Fabienne Keller: domenica prossima la capitale alsaziana potrebbe tornare alla sinistra. Più difficile appare la sfida del socialista Jean Noel Guerini a Marsiglia: spodestare il sindaco Jean Claude Gaudin, peso massimo dell’Ump. Si andrà comunque al ballottaggio: le due liste ieri sera erano appaiate attorno al 40%, e il Fronte nazionale in terza posizione con il 10%. I lepenisti potrebbero giocare un brutto scherzo a Gaudin, mantenendosi al secondo turno e favorendo Guerini. In bilico anche Tolosa, da mezzo secolo saldamente in mano alla destra, dove il candidato socialista Pierre Cohen conduce la corsa in testa, seppur di poco. Ma gode di importanti riserve alla sua sinistra, che domenica prossima potrebbero risultare decisive.
François Hollande ha potuto esibire «con grande fierezza» il suo bottino di guerra personale: è stato rieletto sindaco di Tulle già ieri sera con il 72 per cento dei consensi. Ma soprattutto ha potuto vantare una conquista simbolica: per la prima volta da un quarto di secolo è tutto il dipartimento della Corrèze a passare a sinistra. È la piccola patria dei coniugi Chirac, dove anche Bernadette è eletta da decenni. Il segretario socialista attribuisce «alla questione del potere d’acquisto il monito ricevuto da Nicolas Sarkozy», ed invita alla mobilitazione per domenica prossima. Quanto alle alleanze, ha ribadito la posizione tenuta in questa campagna elettorale: «Siamo pronti ad unirci con tutti coloro che accettano i nostri programmi e che si oppongono chiaramente a Sarkozy e al suo governo. A loro diciamo: benvenuti nel paese della sinistra». Le prime letture incrociate del voto a sinistra del Ps sembravano testimoniare di una forte erosione di comunisti, verdi, trotzkisti, in linea con una tendenza continentale. Quanto ai centristi del MoDem, il loro leader François Bayrou, che mira al municipio di Pau nei Pirenei, è spalla a spalla (attorno al 33 per cento) con la candidata socialista.
La destra accusa il colpo, anche se tenta di relativizzarlo giudicandolo poco politico e molto territoriale. Il primo ministro François Fillon ritiene che il voto sia stato «più equilibrato di quanto ci avevano annunciato», ed ha escluso qualsiasi influenza del risultato sulla sua politica: «Manterremo il timone delle riforme». Certo, ma sarà meno facile. Da ieri si disegnano nuovi importanti bacini di consenso a sinistra. Soprattutto al nord, dove alle ultime elezioni, non solo comunali, la sinistra era apparsa in grande difficoltà. Per esempio a Rouen, passata a sinistra già ieri sera con il 55,5 per cento dei voti. Per non parlare di Lilla, dove il sindaco Martine Aubry consolida le sue posizioni: aveva ottenuto il 34 per cento alle elezioni del 2001, ha avuto il 46 per cento ieri. La sua rielezione a questo punto appare blindata. La destra puntava a impadronirsi della città di Tourcoing, grosso centro industriale non lontano da Lilla, al fine di far saltare tutto il sistema di potere della gauche nel nord del paese. Impresa fallita miseramente, Tourcoing resta a sinistra grazie ad un sonante 53 per cento dei voti.

l’Unità 10.3.08
Benvenuti nella casa di Augusto
di Stefano Miliani

APRE al pubbico la dimora al Palatino dove Ottaviano visse prima di diventare imperatore. Due stanze affrescate con decori raffinati e sfolgoranti che sarà possibile visitare da oggi. Ingresso limitato e scaglionato per non rovinarle...

Un bel rosso fuoco steso sulla parete accende lo sguardo. L’ocra richiama il colore della terra. Poi del cinabro. Una colonna dipinta sorregge una sorta di vaso dagli strani fiori. Scorci architettonici richiamano astuzie prospettiche che 1400 anni dopo riemergeranno in pittori del primo Rinascimento come, azzardando, Masaccio. Tra le fasce di colore si intrufolano irridenti grifoni - mostri alati - a dimensioni ridotte. Alcune figure di donna sembrano conversare su un fondo azzurrognolo mentre altre sono probabilmente cadute in pezzi da un’altra finestra pittorica.
In questa stanza tanto piccola quanto sfolgorante, in questo studiolo dalle pareti affrescate con evidente gusto per la vita, si raccoglieva in meditazione o per elaborare strategie politiche Caio Giulio Cesare Ottaviano, classe 63 a.C., che divenuto primo imperatore col titolo di Augusto nel 27 a. C. resse Roma e i suoi vasti territori siglando il passaggio definitivo dall’età repubblicana a imperiale fino alla sua morte nel 14. d.C. Questo studiolo sovrasta due locali al piano inferiore: un ingresso con soffitto a cassettoni dai variopinti motivi geometrici - dai rombi rossi oppure incastonato di quadrati con fiori al centro - in cui molto si è perso e una sorta di triclinium con altre pareti affrescate e qualche figura evanescente. Sopra e sotto, brani di quelle grottesche (motivi bizzarri o floreali) che rifiorianno in molte decorazioni del ’500.
Siamo in un luogo speciale: la Casa intitolata ad Augusto al Palatino a Roma. Quasi in prossimità dell’affaccio delle rovine sul Circo Massimo, tra muri sopravvissuti ai secoli e un percorso di rampe e saliscendi che a noi viziati dalle immagini del ’900 ricorderà certi percorsi di Escher, con un panorama di tetti ed edifici che conduce al di là del Tevere, la casa augustea non è più un luogo per restauratori o pochi studiosi: da oggi apre al pubblico, dopo la giornata inaugurale di ieri, giornata peraltro complicata e affollata perché, anche se a inviti, c’era tanta gente, si sono formate code e molti hanno levato le tende rammaricati o arrabbiati perché la meta richiedeva un’attesa di un’ora-un’ora e mezzo. C’è stato un ingorgo umano e per molti non è stato divertente.
Questo perché l’ingresso alla dimora augustea è scaglionato e limitato a cinque persone a volta accompagnate da personale che dopo pochi minuti invita a uscire e lasciare il posto a chi viene dopo: innanzi tutto per ragioni di sicurezza, poi ricordiamo che il nostro respiro può danneggiare le pitture parietali che non tollereranno più di tanto l’impatto umano.
La dimora viene datata dagli archeologi al 36 a. C., quando Ottaviano non era ancora imperatore (per diventarlo eliminanò in un modo o nell’altro tutti gli avversari e soprattutto i fedeli all’assassinato Giulio Cesare), e quindi non aveva ancora meritato l’appellativo di Augusto. Sempre gli archeologi attribuiscono le decorazioni sulle pareti a un pittore greco, e se oggi può stupire per la sua bellezza, questa dimora venne in realtà coperta e sepolta dallo stesso Augusto quando volle costruire poco lontano una Domus ben più vasta sempre nell’area del Palatino e quindi consona al titolo imperiale. E com’è accaduto a siti archeologici romani fuori mano - ad esempio Leptis Magna in Libia - l’essere sepolta ha salvato questa piccola casa a due piani da eventuali devastazioni. La scoprì infatti, tra gli anni ’60 e ’70, Gianfilippo Carettoni e naturalmente non versava in ottime condizioni: brandelli di rosso, ocra, azzurrino, giallo, verde pallido coprivano il terreno. A rimetterli insieme con pazienza, e arginando un possibile senso di disperazione, scavalcando i tempi morti e le attese per i finanziamenti, hanno provveduto i restauratori della soprintendenza archeologica statale. Per questi restauri i conti parlano di un milione 540 mila euro spesi cui vanno aggiunti altri 250 mila per la vicina Casa di Livia che dovrebbe riaprire al pubblico quest’anno, mentre nella sala delle maschere e dei pini, nell’ala nord della casa augustea, in restauro, dovrebbe riaprire all’inizio del 2009.
Visto che siamo arrivati all’argomento quattrini, bisogna dire che fino a ieri si poteva entrare gratis nella zona dei Fori imperiali. Da oggi scatta un biglietto di 11 euro che include l’intera area tra cui il Colosseo e il Palatino. La Casa augustea è accompagnata da un volume Electa e per un quadro più completo di questo genere pittorico sappiate che la mostra di affreschi da Pompei Rosso pompeiano a Palazzo Massimo è stata prorogata al 1° giugno.

l’Unità 10.3.08
E il Surrealismo inventò la donna
di Anna Tito

ANTOLOGIE Fu André Breton, tra i padri del movimento, a dichiarare morti «maschilismo e fallocrazia». Una raccolta indaga il ruolo contraddittorio che questa avanguardia attribuì al «genio femminile»

Sull’idea che l’amore e la donna avessero un ruolo preponderante nella ricerca della felicità i surrealisti, giovani artisti e poeti reduci dalla «carneficina della Grande guerra» e che negli anni ‘20 andavano interrogandosi sulla maniera in cui vivere la vita, erano tutti d’accordo. La figura femminile dominò in maniera ambigua e contraddittoria il loro immaginario e la loro poesia; così la rappresentarono di volta in volta come fiore o frutto, bambina o donna fatale, strega o incantatrice, ma anche come oggetto di desiderio e di possesso. Tuttavia i ribelli che indirizzarono la rivolta nel progetto di «cambiare la vita secondo Rimbaud e trasformare il mondo secondo Marx» esprimendo i propri obiettivi politico-sociali ed etici in manifesti, volantini, appelli e documenti collettivi, non sfuggirono alla tentazione di associare alla donna e all’amore un’ansia di possesso e di appropriazione tipicamente maschile.
Viene ora a dedicare una raccolta di testi scritti dagli autori surrealisti per le loro donne, la libertà dei sentimenti, la forza della passione la francesista già autrice fra gli altri di Surrealismo. 1919-1969. Ribellione e immaginazione (Editori Riuniti 2002) Paola Decìna Lombardi, proponendo un’ampia selezione di testi francesi e non, di versi, inchieste, prose poetiche e testi in gran parte inediti in Italia che, insieme al «ventaglio» di sentimenti amorosi, documentano il ruolo fondamentale e «rivoluzionario», attribuito dai surrealisti alla donna e all’amore. Corredano l’opera le biografie degli autori nonché tre appendici: «sulla sessualità» del 1928, «sull’amore» del 1929 e infine «sull’incontro fondamentale» che ha protagonisti, fra gli altri, nel 1933, il pittore Marc Chagall - «ho incontrato una donna. Mi ha trafitto il cuore e si è seduta sulle mie tele» - e lo scrittore, anni dopo «collaborazionista», Pierre Drieu La Rochelle.
La produzione francese, trainante per le esperienze che si svilupparono in altri paesi, «non poteva non risultare più ampia e articolata delle altre» spiega la curatrice, che ha scelto inoltre di inserire i poeti italiani Giuseppe Ungaretti - con Perfezione del nero e Scoperta della donna del 1919 - e Antonio Delfini: «il che può apparire in contraddizione con il criterio adottato, ma essi furono le poche voci italiane entrate in contatto con il movimento surrealista, in tempi e modi diversi».
All’inizio dell’avventura, nei primi anni Venti, quando nelle riunioni quotidiane al caffè si impostavano le riviste, quando il gruppo, affascinato dalle teorie freudiane che cominciavano a circolare sull’interpretazione dei sogni, si lasciava andare all’interpretazione dei sogni, le mogli e le compagne apparivano assenti, o tutt’al più presenze silenziose: nel 1934 la Scacchiera surrealista di Man Ray immortalava un gruppo rigorosamente al maschile.
Apre la rassegna Lo specchio segreto (1920) di uno dei padri fondatori del movimento, il poeta André Breton, e viene a concluderla il poema Per essere più precisi (2001) del suo allievo Alain Jouffroy. Sempre di Breton, il «surrealista per eccellenza» è L’amore reciproco del 1944, tratto dalla raccolta Arcane 17 - uno degli ultimi libri del poeta- che insorge contro «il maschilismo e la fallocrazia»: «Sarebbe ora di far valere le idee della donna invece di quell’uomo, il cui fallimento si consuma sempre più chiaramente al giorno d’oggi…». Per non parlare del suo capolavoro, universalmente riconosciuto, Nadja, un genio libero (1928), a cui vengono dedicate più pagine e che considerò sempre «un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia consentono di legare momentaneamente a sé ma che è impensabile sottomettere».

l’Unità 10.3.08
In versione integrale la sua celebre missiva
Il coraggio di Ingrid Betancourt

«Qui tutto ha due volti, la gioia si mescola al dolore, la felicità è triste, l’amore lenisce e insieme apre nuove ferite; ricordare vuol dire vivere e morire di nuovo»: così Ingrid Betancourt scrive alla madre, «mamita», e ai figli, nella missiva lunga dodici fogli che, sequestrata in occasione dell’arresto di alcuni guerriglieri a Bogotà, trasmessa alla famiglia dal governo colombiano, a dicembre 2007, insieme con le fotografie diventate celebri che la ritraggono nella foresta, a quasi sei anni dal sequestro ha dato prova della sua esistenza in vita. Garzanti pubblica l’intero testo, per la prima volta tradotto (la traduzione dal francese è di Oliviero Ponte di Pino), con una breve prefazione di Elie Wiesel e la risposta di Mélanie e Lorenzo, i figli di Ingrid. Stesa a mano e datata 24 ottobre 2007, questa lettera ci permette di conoscere «dal vivo» lo stremato ma indefesso coraggio con cui Ingrid Betancourt resiste nel pazzesco universo in cui è costretta: un universo concentrazionario e nomade, in cui viene privata ogni giorno di più di tutto (i jeans che indossava, ultimo legame con la vita normale, i ricordi, dalle foto dei figli allo scapolare estremo ricordo del padre) ma in cui è costretta di continuo, con gli altri prigionieri, a caricarsi il bagaglio concesso in spalla e marciare a ogni mutamento di covo. E tra quanto le è stato sottratto, scrive, c’era «un programma di governo in centonovanta punti»: perché Ingrid Betancourt, di cui abbiamo ancora fissata nella retina l’immagine cerea di condannata al supplizio nella foresta, è stata sequestrata dalle Farc quando, dopo una militanza politica di anni, da deputata e senatrice impegnata contro il narcotraffico, si era candidata in Colombia alla presidenza della Repubblica. Ora, le scrivono i figli, grazie a queste dodici pagine di cui tutto il mondo ha avuto notizia, è chiaro che «la vita, i sogni, le felicità di tutti gli ostaggi, tutto questo dipende solamente da alcune persone: i dirigenti delle Farc, il governo colombiano con il quale chiedono di dialogare. Un pugno di uominini, non di più». E «quegli uomini non hanno più scuse. Forse aspettano, per l’ennesima volta, il momento “buono”?».
m.s.p.

l’Unità 10.3.08
Eroine oppure analfabete. L’Ottocento e le donne
di Anna Tito

ANTOLOGIE Fu André Breton, tra i padri del movimento, a dichiarare morti «maschilismo e fallocrazia». Una raccolta indaga il ruolo contraddittorio che questa avanguardia attribuì al «genio femminile»

Agli uomini la penna per scrivere, alle donne il filo per cucire, e tutto funzionerà a dovere: appare davvero sorprendente che un illuminista ateo e convinto, anarchico ante litteram, nonché compagno di strada del precursore del comunismo Gracchus Babeuf quale fu il francese Sylvain Maréchal (1750-1803), abbia potuto soltanto concepire l’idea di un Progetto di legge per vietare alle donne a imparare a leggere (1801). Il tutto denunciando, all’indomani della Rivoluzione, l’avvento dei «nuovi tiranni» e propugnando un’assoluta e totale eguaglianza sociale. All’ateismo il versatile Maréchal aveva già dedicato il Dizionario degli atei antichi e moderni, proibito dalla censura proprio nel 1801 e non aveva mancato di dare il proprio contributo al genere erotico con La Bibliothèque des amants, odes érotiques (1786). Ammiratore di Rousseau, del quale condivideva i pregiudizi contro il sesso femminile e grande lettore dei padri dell’Illuminismo, andò maturando la concezione di una sorta di anarco-comunismo d’impronta agro-pastorale. Visse l’ebbrezza della Rivoluzione e l’avvento della dea Ragione in sostituzione del Dio cristiano: proprio per seguire i dettami della dea Ragione, a suo avviso, giunse alla conclusione che le donne non dovessero assolutamente imparare a leggere. Come poté un coraggioso assertore del principio secondo il quale «poiché tutti hanno eguali esigenze e uguali facoltà», vi sarà per tutti «una sola educazione», giungere a proporre una così pesante e reazionaria discriminazione come quella d’impedire, addirittura per legge, alle donne l’accesso alla cultura? La spiegazione sta nel fatto che non soltanto egli continuava a sognare una società popolata di agricoltori e di pastori, dove le donne filano la lana, ma le sue idee godevano di ampio credito fra i contemporanei: nonostante la Rivoluzione, e la tanto conclamata égalité, i tempi, per le donne, non erano affatto maturi. «Imparare a leggere per le donne è qualcosa di superfluo e nocivo al loro naturale ammaestramento: è un lusso, il cui pressoché costante risultato fu la corruzione e la rovina dei costumi» e il «grazioso cicaleccio femminile compenserà con gli interessi l’assenza della penna»: con tali argomentazioni l’autore stilò l’articolo 1 del suo Progetto, che recita: «La Ragione vuole che le donne, nubili, maritate o vedove, non ficchino mai il naso in un libro, né impugnino mai una penna». D’altronde «se Caterina de’ Medici non avesse saputo leggere, non ci sarebbe stata la notte di san Bartolomeo».
Di tutt’altro tenore e assai più propositivo appare il capolavoro tradotto da Gaia Panfili La guerra delle donne di Alexandre Dumas, fresco di stampa in Italia e inedito in Francia fino al 2003, un nuovo affresco sugli anni della Fronda, intorno al 1650, un periodo di «pennacchi», di cospirazioni e di alcove che a Dumas piaceva in particolar modo. Cosa accade nel mondo de I tre moschettieri coniugato al femminile? Come si articola, sotto l’abilissima penna di Dumas, quell’universo fatto di intrighi e di avventure, di coraggio e spavalderia, di sentimenti di onore e di passione intensi quando sono le donne a combattersi, e senza esclusione di colpi? L’elemento romantico della fedeltà alla loro stessa passione, della determinazione incrollabile nel perseguire i propri obiettivi, della continuità dei loro sentimenti, fanno delle donne di questo romanzo delle eroine, tanto da essere tentati di attribuire all’autore una sensibilità «di genere». La guerra delle donne apparve per la prima volta nel 1844, con sulla scena la regina Anna d’Austria appoggiata dal ministro Mazzarino, e impegnata a fronteggiare la ribellione della nobiltà che ha eletto a proprio simbolo la principessa di Condé; entrambe le madri lottano per conto dei figli legittimi, Luigi XIV per la prima, e il piccolo Condé per la seconda. Altre due donne - eroine dai tratti contrapposte - Nanon de Lartigues e Claire de Cambes, schierate sulle opposte sponde, tessono la trama dei loro fili diplomatici, ciascuna per far vincere la propria parte, pur condividendo, ma se ne accorgeranno solo alla fine, la passione per lo stesso uomo.
Se ai personaggi maschili della storia non resta che ribadire il cliché dell’onore e del coraggio, o al contrario della furbizia gretta e canagliesca, vengono le donne a presentarsi con un inedito spessore di abnegazione e di fedeltà alla causa ritenuta giusta.

Progetto di legge per vietare alle donne a imparare a leggere di Sylvain Maréchal a cura di E. Badellino pp 135, euro 9,50 Archinto

La guerra delle donne Alexandre Dumas trad. di G. Panfili pp. 530, euro 28 Donzelli

l’Unità 10.3.08
Le riviste scientifiche chiedono che tutti i dati dei trials siano pubblici. Solo così si può scoprire se un farmaco non funziona, come è avvenuto col Prozac
Sperimentazioni cliniche: la doppia faccia della trasparenza
di Pietro Greco

Più trasparenza, nella ricerca biomedica e, in particolare, nelle indagini cliniche (trials) che servono per sperimentare l’efficacia e la sicurezza dei farmaci. Lo hanno chiesto nei giorni scorsi le due più importanti riviste scientifiche del mondo, l’americana Science e l’inglese Nature. Ma lo ha chiesto di recente anche il Congresso degli Stati Uniti, con una legge - la FDA Amendments Act del 27 settembre 2007 - che impone la costituzione di un archivio pubblico e completo di tutti i risultati ottenuti da tutti i trials clinici.
Che il problema sia attuale, lo dimostra la recente pubblicazione su PlosMedicine di un’indagine - una metaanalisi, come si dice in gergo - sull’efficacia di alcuni farmaci antidepressivi. La notizia non consiste solo nel fatto, rilevante, che Irving Kirsch, dell’università di Hull, e il suo team, studiando i risultati di 35 diversi trials clinici hanno trovato che questi farmaci mostrano spesso un’efficacia non molto superiore a quella di un placebo. Ma anche nel fatto che per realizzare quest'indagine e accedere a tutte le informazioni in possesso della Food and Drug Administration degli Stati Uniti, Kirsch e i suoi colleghi hanno dovuto fare appello al Freedom of Information Act, che negli Usa impone, appunto, la trasparenza degli atti pubblici.
Grazie a questa legge Kirsch e i suoi colleghi hanno potuto studiare anche i risultati di trials clinici che avevano dimostrato l’inefficacia di alcuni antidepressivi e che, per questo, non erano mai stati pubblicati. Una prassi tutt’altro che rara. Secondo un recente studio - «Selective Publication of Antidepressant Trials and Its Influence on Apparent Efficacy» pubblicato il 17 gennaio scorso sul New England Journal of Medicine da un gruppo guidato dal Erick H. Turner della Orgenon University - il 30% degli studi clinici effettuati su 12 antidepressivi sono stati di fatto secretati e i risultati mai resi pubblici. Ciò è possibile anche perché molti trials effettuati non sono pubblicamente registrati.
Il problema non riguarda solo gli antidepressivi. È molto più generale. Se è vero che è bastata una semplice regola imposta a partire dal settembre 2005 dalle riviste scientifiche agli autori - puoi pubblicare solo se il trials da cui hai ricavato i dati è pubblicamente registrato - per far aumentare del 73% il numero di indagini cliniche registrate in tutto il mondo. In un solo mese nei soli Stati Uniti i trials clinici registrati sono passati da 13.153 a 22.714. E oggi in 153 diversi paesi del mondo ne sono registrati 53.000.
Molti - dall’Organizzazione Mondiale di sanità agli Nih degli Stati Uniti - stanno organizzando database completi sui trials clinici. Ma, naturalmente, non basta registrare che una sperimentazione è in corso e rendere pubblico il dato. Occorre che tutto il processo dei trials sia trasparente, in ogni e ciascuna sua fase, dal protocollo dell’indagine fino, appunto, ai risultati.
Non tutti sono d’accordo. A iniziare, naturalmente, dalle aziende farmaceutiche che nella trasparenza assoluta vedono minato il diritto alla proprietà intellettuale e alla loro capacità competitiva. Tuttavia, come rilevano Deborah A. Zarin and Tony Tse in un articolo su Science, in questo caso il legittimo interesse commerciale confligge con un interesse superiore, l’interesse alla salute. Sia la salute dei volontari che partecipano ai trials clinici, che mettono in gioco la propria salute e hanno, quindi, diritto a conoscere tutto intorno al rischio che corrono. Sia, più in generale, la salute di noi tutti, pazienti attuali o potenziali. Che può essere minacciata dalla mancata pubblicazione sull’efficacia e la sicurezza di un farmaco.
In conclusione: non c’è dubbio alcuno, occorre la massima trasparenza nella ricerca biomedica e, in particolare, nella sperimentazione dei farmaci.
Ma massima trasparenza significa trasparenza assoluta? Non affrettatevi a rispondere. Prendiamo in esame il caso, attuale, della Pfizer - la più grande azienda farmaceutica del mondo - che ha trascinato in tribunale proprio il New England Journal of Medicine perché, nell’ambito di una strategia a tutela di alcuni suoi prodotti, vuole conoscere il nome di tutti i peer reviewers (gli esperti volontari e anonimi che sottopongono un articolo scientifico ad analisi critica prima della sua pubblicazione), di tutte le procedure editoriali interne della rivista e tutti i manoscritti ricevuti relativi a due suoi farmaci, il Bextra e il Vioxx, piuttosto criticati ultimamente. A parte la situazione bizzarra - per cui in questo caso è un’azienda farmaceutica a chiedere la massima trasparenza - se il magistrato dovesse accogliere la richiesta, l’intero sistema della peer review - ovvero della comunicazione scientifica - verrebbe minato. Il che dimostra che la trasparenza deve essere un mezzo ma non il fine. Il fine, in medicina, è uno solo: la migliore tutela possibile della salute dei cittadini. Garantita, anche, dall’autonomia della scienza (autonomia dalla politica, dalla religione e dall’economia) e dalle sue prassi sociali.

Repubblica 10.3.08
Una modifica alla legge solleva la rivolta delle comunità religiose
Fecondazione svolta a Londra sperma artificiale per far nascere i bambini
Imminente il voto sul sì alla fecondazione assistita
di Enrico Franceschini

LONDRA - I sostenitori del progetto lo annunciano come una soluzione al problema delle coppie che non possono avere figli e non possono, o non vogliono, ricorrere a donatori di sperma. Gli oppositori lo descrivono come un tentativo di «giocare a prendere il posto di Dio». L´oggetto del contendere è la nuova legislazione che regolamenta i metodi per la fecondazione artificiale e la ricerca sugli embrioni in Gran Bretagna. Nei prossimi giorni la camera dei Comuni dovrà discutere il voto definitivo in materia, e secondo le previsioni della stampa londinese un crescente gruppo di deputati, appartenenti sia alle file del governo che all´opposizione, si preparano a far passare un emendamento che permetterebbe l´uso di «sperma artificiale» per il concepimento.
Una prospettiva che suscita forte opposizione per motivi di natura etica da parte di gruppi religiosi, e che rischia di mettere in difficoltà il governo laburista di Gordon Brown, di cui fanno parte tre ministri cattolici apertamente ostili alla nuova legge e pronti a dimettersi nel caso fosse approvata.
Qualche mese fa ricercatori della Newcastle University hanno reso noto di essere riusciti a ricavare sperma artificiale da cellule staminali, estratte dal midollo spinale, in topi di laboratorio. Gli studiosi hanno quindi completato l´esperimento, con la nascita di un certo numero di topi utilizzando lo sperma artificiale, anche se tutti gli animali sono morti nel giro di pochi mesi e molti soffrivano di varie anomalie e disturbi genetici. Gli esperti credono tuttavia che esperimenti per riprodurre la medesima tecnica sugli esseri umani potrebbero iniziare nel giro di cinque o dieci anni.
Associazioni per il diritto alla vita come Comment on Reproductive Issue denunciano tecniche di questo tipo come un´infrazione delle norme religiose ed etiche: in questo modo, affermano, sarebbe possibile in futuro concepire un figlio che abbia un unico genitore, una donna che ne è al tempo stesso padre e madre, rendendo addirittura inutile l´esistenza del maschio a fini riproduttivi. L´emendamento alla legge sulle staminali e sugli embrioni, presentato dal deputato liberal-democratico Evan Harris, in realtà prevede che lo sperma artificiale possa essere utilizzato soltanto quando ne fanno uso due persone, uomo e donna, e per casi in cui i genitori non possono avere figli, per esempio a causa di malattie. «E´ una soluzione che risolverebbe il problema del deficit di donatori di sperma», afferma il deputato Harris. Ma Josephine Quintavalle, del gruppo Comment on Reprodutive Issue, ribatte: «E´ assurdo legiferare su un meccanismo che non è ancora nemmeno scientificamente riuscito e su una materia le cui conseguenze fisiche, psicologiche e morali non sono prevedibili». E dall´Italia arriva l´invito a una «grande cautela». La prospettiva - commenta Carlo Flamigni, pioniere delle tecniche di fecondazione assistita - richiede un lavoro di ricerca «molto complesso», ogni progetto non può che essere «a lunghissima distanza».

Repubblica 10.3.08
Macchè decalogo: Ciarrapico: sempre fascista, vado con Silvio
di Antonello Caporale

Il decalogo sui carichi penali? Ma io ho tutti i diritti civili e politici, Bondi non perda tempo con il sottoscritto

Settantaquattro anni di fascismo molto ben portati. Giuseppe Ciarrapico imprenditore multicanale («ho amici a destra e a sinistra») impugnerà la fiaccola nel Senato della Repubblica. Così ha deciso Silvio Berlusconi. Sette giorni fa la comunicazione, oggi l´annuncio ufficiale.
«Fare il senatore di Roma a chi per una vita ha studiato e onorato la bandiera della Civiltà romana ha il senso del coronamento finale, del passo che conclude un cammino lungo».
La Civiltà romana saluta Benedetto XVI.
«Un grande striscione in piazza San Pietro. C´ero anch´io, nel giorno in cui molti politici accorsero. Alcuni s´inginocchiavano, noi ci inchiniamo davanti al Pontefice».
Viva il Duce!
«Il fascismo mi ha dato sofferenze e gioie. Mai rinnegato, mai confuso, mai intorpidita la mente da pensieri sconclusionati e antistorici».
Chissà Gianfranco Fini come sarà contento.
«Di Fini non conservo alcun interesse politico. La sua alleanzuccia non mi è mai piaciuta. Mi sono tenuto lontano e ho fatto bene. Ho visto che ha accettato di unirsi a Silvio Berlusconi».
Lei parla col Capo, non con i sottoposti.
«Con Berlusconi l´amicizia è di antica data. E il suo ingegno è davvero raro. Sabato al Palalido di Milano ho conosciuto la potenza di questo movimento».
Ha conosciuto anche Bondi? Secondo il decalogo da lui diramato coloro che hanno un aggravio giudiziario dovrebbero essere esentati dalla corsa.
«Ho tutti i diritti civili e politici integri. Bondi badi alle vicende altrui e non inganni il tempo con riflessioni sul sottoscritto».
Bondi nemmeno ha fiatato, per la verità. Le stavo riferendo il decalogo.
«Ah, capito».
Un Ciarrapico si sarebbe visto meglio in compagnia di Storace.
«E´ un caro amico. Al momento della fondazione del suo movimento io accompagnai Berlusconi. E la platea mi tributò un applauso inaspettato e gradito».
Con i lineamenti fascinosi della Santanchè la Destra trova anche il senso di una relazione intima con l´Italia del Duemila.
«La conosco bene. Ma ho detto a Starace...».
Storace, con la o.
«Sto lavorando a una biografia di Starace. Scusi la confusione».
A Storace ha detto...
«Non possiamo fare "io, mammeta e tu"».
In effetti le sue idee le ha tenute vive seguendo fedelmente Andreotti.
«Con il peso di tutto quello che sono».
A proposito di peso: perché appesantisce le pareti delle redazioni dei suoi giornali con le foto del Duce?
«Bellissimo».
Ad Isernia le colleghe sono costrette al lavoro sotto quell´occhio così vigile.
«Ovunque c´è».
Potrebbe alleggerire pur dentro il solco del nuovo corso. Un ritratto dei Village People, per esempio?
«L´ultima volta che sono stato a Predappio era, mi pare, ottobre. Sedicimila persone».
Tante.
«E quando prendo la mia barchetta in estate e vado a Gallipoli faccio sempre un salto al cimitero dov´è sepolto Storace».
Starace.
«Grande uomo».
Berlusconi vincerà.
«Intelligenza raffinatissima».
Costerà tanta fatica far rialzare l´Italia.
«Come si disse: governare gli italiani non è faticoso. E´ totalmente inutile».
Ritorna sempre il giovane balilla.
«Il mio sogno era fare il tamburino dei balilla».
Sua zia le comprò il tamburo.
«Ma io cambiai sogno: puntai a fare il mazziere».
Il capo in testa.
«Quello che sta avanti e che guida».

Repubblica 10.3.08
Galileo Galilei. L'"intervista impossibile" allo scienziato
di Piergiorgio Odifreddi


"Ho investigato la natura dell´Inferno: è come un cono, il cui vertice è al centro del mondo e la base verso la superficie della terra"
"Spero che lo scopritore della Teoria della Relatività non abbia dovuto subire gli stessi attacchi del potere costituito che toccarono a me"
Un viaggio nella sua concezione dell´universo, della filosofia e della letteratura. E i suoi punti in comune con Calvino, Primo Levi, Einstein

«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l´universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne´ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola».
Messer Galileo, ci scusi se l´interrompiamo per l´intervista che abbiamo concordato. Che cosa stava facendo?
«Stavo rileggendo una pagina del mio Saggiatore. Una delle poche rimaste attuali, visto che in quel libro sostenevo una teoria completamente errata: che le comete, cioè, fossero illusioni ottiche prodotte dalla luce solare sul materiale esalato dalla Terra verso la Luna e oltre, e non corpi reali».
Ma quella pagina vale da sola tutto il libro, e contribuì a far dichiarare a Italo Calvino che lei è stato «il più grande scrittore italiano di tutti i tempi».
«Addirittura? Più di Padre Dante e Messer Ariosto?»
Almeno fra i prosatori. Ma visto che ha citato i poeti, ci dica quale fu il suo rapporto con Dante e Ariosto.
«Su Dante ho tenuto nel 1588 Due lezioni all´Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell´Inferno, nelle quali notavo che, se è stata cosa difficile e mirabile l´aver potuto gli uomini, per lunghe osservazioni, con vigilie continue e per perigliose navigazioni, misurare e determinare gli intervalli dei cieli, le grandezze delle stelle e i siti della terra e dei mari, allora quanto più meravigliosa dobbiamo stimare l´investigazione del sito e della natura dell´Inferno, sepolto nelle viscere della terra, nascosto a tutti i sensi, e da nessuno per nessuna esperienza conosciuto!»
E quali furono i risultati di queste sue investigazioni?
«Che l´Inferno è a guisa di una concava superficie che chiamano conica, il cui vertice è nel centro del mondo e la base verso la superficie della terra. E quanto alla grandezza, è profondo l´Inferno quanto è il semidiametro della terra. E nella sua sboccatura, che è il cerchio attorno a Gerusalemme, è altrettanto per diametro».
Dell´Ariosto, invece, che ci dice?
«Il poema dell´Orlando Furioso era la mia delizia: in ogni discorso recitavo qualcuna delle sue ottave, e mi vestivo in un certo modo di quei concetti per esprimere i miei. Ho scritto una serie di Postille all´Ariosto e di Considerazioni al Tasso, le prime per il gusto di un´amorosa lettura e le seconde per partecipare a una polemica: avevo fatto interporre carte bianche a quelle stampate della mia copia della Gerusalemme Liberata, e nel corso di qualche anno avevo osservato che i motivi che mi facevano anteporre l´Ariosto al Tasso erano molti più in numero e assai più gagliardi».
Se le chiedessi di leggere una sua pagina come testimonianza della sua vena letteraria, su quale cadrebbe la sua scelta?
«Forse queste osservazioni sulla scrittura, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: "Quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e ‘ntrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun´altra alterazione che il declinar del tratto dirittissimo, talvolta un pochettino a destra e a sinistra, e il muoversi la punta della penna or più veloce ed or più tarda, ma con minima inegualità"».
Mi ricorda la fine del Barone rampante di Calvino, appunto: vuol provare a leggere pure questa?
«Certo, vediamo: "Questo filo d´inchiostro, come l´ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s´intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito"».
Mentre ci siamo, le farei leggere anche la fine del Sistema periodico di Primo Levi.
«Perché no, vediamo: "Questa cellula appartiene a un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l´atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. E´ quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa si che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su e in giù, fra due livelli d´energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo"».
Come vede, lei ha fatto scuola in letteratura, e Calvino aveva buoni motivi per considerarsi il punto d´arrivo di una linea che, partendo dall´Ariosto e passando attraverso lei e Leopardi, arrivava fino a lui. Ma, passando al suo vero lavoro, quale considererebbe il contributo più duraturo da lei dato alla scienza?
«Forse quello che oggi mi sembra voi chiamiate, non a caso, principio di relatività galileiana».
Come lo racconterebbe a un profano?
«Come già feci nella Seconda Giornata dei miei Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, proponendogli di rinserrarsi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coperta di un gran naviglio, e quivi far sì di avere mosche, farfalle e simili animaletti volanti. E anche un gran vaso d´acqua con dentro dei pescetti. E un secchiello sospeso in alto, che a goccia a goccia vada versando dell´acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto in basso. E stando ferma la nave, di osservare diligentemente come quegli animaletti volanti con pari velocità vadano verso tutte le parti della stanza, i pesci nuotino indifferentemente per tutti i versi, le gocce cadenti entrino tutte nel vaso sottoposto. E poi faccia muovere la nave con quanta voglia velocità e noti che, purché il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là, egli non riconoscerà una minima mutazione in tutti gli effetti nominati, né da alcuno di quelli potrà comprendere se la nave cammina o pure sta ferma».
Se prova a leggere questo brano della Relatività di Albert Einstein, si accorgerà di aver fatto scuola anche nella divulgazione scientifica.
«Vediamo: "Supponiamo che un treno molto lungo viaggi sulle rotaie con velocità costante: ogni evento che ha luogo sulla banchina ferroviaria, ha pure luogo in un determinato punto del treno. Domanda: due eventi, per esempio due colpi di fulmine A e B, che sono simultanei rispetto alla banchina ferroviaria, saranno tali anche rispetto al treno? Se il treno è fermo e un osservatore è seduto nel punto medio tra A e B, i raggi di luce emessi dai bagliori dei fulmini lo raggiungono simultaneamente. Tuttavia, se il treno si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A, l´osservatore vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quello emesso da A. Perveniamo così all´importante risultato che gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno, e che ogni corpo di riferimento ha il suo proprio tempo particolare».
Cosa ne pensa?
«Mi sembra di vedere, allo stesso tempo, una continuità e una discontinuità col mio lavoro: sembra che la luce non si comporti, rispetto alla mia nave, allo stesso modo degli animaletti volanti, dei pesci e delle gocce cadenti».
Effettivamente, la relatività einsteniana costituí una rivoluzione intellettuale tanto innovatrice, quanto lo fu la sua rispetto alla fisica aristotelica.
«Spero allora che Einstein non abbia dovuto subire gli stessi attacchi dal potere costituito, e non abbia dovuto sopportare le stesse tragiche conseguenze, che toccarono a me».
Ciò che a lei fecero i cattolici, a lui fecero i nazisti: costringendolo, in particolare, a un esilio dal quale non tornò più.
«Dovette pure lui abiurare?»
Non l´avrebbe mai fatto: in questo, era diverso da lei.
«Sono contento per lui: piegarsi a pronunciare certe parole è un´umiliazione dalla quale non si guarisce, e inginocchiarsi di fronte al potere religioso o politico è un tradimento della propria professione».

Corriere della Sera 10.3.08
Il Papa «La scienza non crei un mondo di vecchi»
«No alla pillola della vita infinita»
di Bruno Bartoloni

Il richiamo «Ci sono tentativi della scienza, ma non si può sperare nel prolungamento biologico dell'esistenza»
Il Papa: no a una pillola dell'immortalità
«Spaventoso un mondo di vecchi. Dignità dell'uomo se è embrione o in coma»
Monsignor Ravasi apre agli atei

Il presidente della Pontificia commissione della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, non esclude che anche atei partecipino alle assemblee plenarie del suo dicastero: «Avere come interlocutore una o più persone che vedono e interpretano il mondo dall'altro punto di vista diventa quasi, per certi versi, indispensabile».
Appello del Pontefice: «Se l'uomo vive solo biologicamente non sviluppa tutte le potenzialità del suo essere»

CITTA' DEL VATICANO — Benedetto XVI è tornato a condannare aborto ed eutanasia con immagini forti: anche se è in coma o anche se è un embrione, un uomo è sempre un uomo e la sua dignità va rispettata. E ha attaccato uno dei miti più antichi dell'umanità, ripreso attraverso i secoli: il mito della fonte dell'eterna giovinezza, o dell'allungamento della vita, ora ricercato attraverso la scienza moderna. Se si potesse bere a tale — ha commentato — pur essendo parte di questo grande biocosmo, lo trascende: l'uomo è sempre uomo con tutta la sua dignità, anche se in stato di coma, anche se embrione. Ma se vive solo biologicamente non sviluppa e non fonte o se la scienza potesse inventare una «pillola dell'immortalità » ci sarebbe un mondo di soli vecchi e non ci sarebbe più spazio per i giovani. La medicina è meritoria ma non può rispondere al bisogno d'eternità. Lo ha detto ai ragazzi del Centro Giovanile San Lorenzo, nella chiesa di San Lorenzo in Piscibus.
L'occasione per parlare di vita e morte gli è stata offerta dal Vangelo della risurrezione di Lazzaro, che viene letto la quinta domenica di Quaresima, l'ultimo grande segno compiuto da Gesù e che spinse i sacerdoti del Sinedrio a uccidere sia lui sia lo stesso Lazzaro, il quale morì così due volte in pochi giorni. «L'uomo
Le assemblee in Vaticano
realizza le potenzialità del suo essere che gli aprono nuove dimensioni ». «La prima dimensione — ha sottolineato Benedetto XVI — è quella della conoscenza, una conoscenza che nell'uomo, a differenza degli animali, s'identifica con una sete d'infinito. Tutti aspiriamo a bere dalla fonte stessa della vita e per farlo ci affidiamo alla seconda dimensione della natura umana che è l'amore: infatti l'uomo non è solo un essere che conosce, ma vive in relazione di amicizia e di amore. Oltre alla dimensione della conoscenza e della verità esiste, inseparabile da questa, la dimensione della relazione. Qui, ha osservato, si avvicina di più alla fonte della vita, dalla quale vuol bere per avere vita in abbondanza, la vita stessa». E qui il Papa ha voluto ridimensionare il ruolo della scienza e della medicina. Non bisogna farsi illusioni perché «rappresentano una grande lotta per la vita, ma non possono soddisfare il bisogno di eternità che è proprio dell'uomo. Neanche se venisse scoperta la pillola dell'immortalità. Cosa succederebbe con una vita biologica immortale dell'uomo?», si è chiesto. «Avremmo — ha detto ai ragazzi — un mondo invecchiato, un mondo di vecchi che non lascerebbe più spazio ai giovani, alla novità della vita. Non può essere quel tipo d'immortalità, il bere dalla fonte della vita, che noi tutti desideriamo. L'unico vero farmaco dell'immortalità, ha affermato, è l'eucarestia e la certezza di essere amati e aspettati da Dio, sempre».
Il pontefice ha parlato ancora di vita e morte ai pellegrini in piazza San Pietro. Ha ricordato che per Gesù il suo amico Lazzaro si era solo «addormentato » e che quindi andava a «svegliarlo». Esprimeva con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede come un sonno, da cui ci si può risvegliare. «In verità — ha assicurato il Papa — è così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento ».

Corriere della Sera 10.3.08
Allungare la vita è diventato possibile. Perché non provarci?
di Edoardo Boncinelli

Nei suoi attributi materiali, e in quanto essere vivente, l'uomo appartiene alla biosfera, ha detto ieri il Papa, e segue le sue leggi. Ma è anche vero che l'uomo trascende tutto questo; l'uomo rimane uomo e mantiene tutta la sua dignità anche se è un embrione o in stato di coma. Il Pontefice è poi passato a parlare di una possibile, ma non auspicabile, immortalità terrena. A me non resta che parlare di quello che sappiamo a proposito della biosfera e fare un paio di considerazioni. In primo luogo devo notare come si continui a parlare di embrione in modo generico, intendendo con questo termine tutto quello che avviene dal concepimento alla nascita, un periodo nel quale accade di tutto, compresa la comparsa di un vero e proprio embrione, solo alla fine della seconda settimana di gestazione.
Per le prime due settimane l'embrione umano non esiste proprio e dopo il secondo mese l'embrione prende il nome di feto. Forse non è importante, ma se parliamo di biosfera è meglio precisare. Sempre parlando di biosfera, vediamo la questione dell'immortalità terrena. Diciamo subito che la pillola dell'immortalità non esiste e forse non esisterà mai: l'immortalità non è di questo mondo. Possiamo parlare invece, eccome!, di allungamento della vita. Per la prima volta nella storia, la vita media si è allungata considerevolmente in questi ultimi decenni, e si sta continuando ad allungare, al ritmo di un trimestre guadagnato per ogni anno che passa.
Non è successo niente di miracoloso, nemmeno in senso scientifico. È stato un complesso di motivi, di natura nutrizionale, sanitaria e clinica, che hanno contribuito, lentamente ma inesorabilmente, ad allungarci la vita: si mangia di più e meglio, si disinfettano gli ambienti, si combattono le malattie infettive e si fa un po' di sana prevenzione. Questo processo, in atto in tutti i Paesi del mondo, ha visto due fasi distinte: in una prima fase la vita media si è allungata soltanto perché è molto diminuita la mortalità infantile — una voce che prima pesava enormemente nel bilancio della sopravvivenza umana; in una seconda fase, tipica dei Paesi più sviluppati, si è allungata anche la seconda parte della vita, grazie agli avanzamenti della medicina: preventiva, curativa e rigenerativa. Il nostro Paese si trova oggi ad aver nettamente superato la prima fase e a veleggiare nell'ambito della seconda. Che non mostra alcun rallentamento: la prevenzione e la cura delle malattie dell'età avanzata sta facendo mirabilie ed ha ancora in serbo molte sorprese. La nostra vita media è al momento di più di 83 anni per le donne e di circa 77 anni per gli uomini. Nessuno sa dove potrà condurre tutto ciò, anche se è ragionevole pensare che altri dieci anni di vita media li riusciremo a strappare nei prossimi quaranta anni. Se la vita media è cresciuta e se ce la passiamo abbastanza bene, però, non possiamo dire che il periodo della giovinezza si sia sensibilmente esteso. Per ottenere questo risultato, occorrerà intervenire direttamente sui nostri geni, dal momento che cominciamo a conoscere dove e come intervenire per estendere considerevolmente la nostra vita. E la nostra giovinezza. Negli ultimi venti-trenta anni abbiamo imparato infatti quanti e quali geni controllano il progredire dell'invecchiamento e la lunghezza della vita. Agendo su alcuni di quelli è stato possibile triplicare e quadruplicare la vita di animali come insetti o vermetti e i meccanismi biologici che operano in questi organismi sono gli stessi che operano in noi. Non so se e quando intraprenderemo questo ulteriore passo, ma possiamo anticipare che allora l'aumento della vita media non sarà necessariamente di modesta entità. Dal punto di vista biologico quindi la situazione è promettente e anche parecchio interessante. È dubbio che l'umanità resisterà a questa tentazione e non si vede nemmeno perché lo dovrebbe fare. Certo che tutto ciò creerà grandi problemi di natura economica e sociale. Saremo sempre di più e consumeremo sempre di più. Ci sarà una proporzione sempre maggiore di persone in età post-riproduttiva. Occorrerà anche riorganizzare il lavoro e il suo rapporto con il tempo libero, non fosse altro perché le motivazioni psicologiche dei sessanta anni non sono quelle dei venti, né quelle degli ottanta sono quelle dei cinquanta. Occorrerà — o forse occorre già oggi — ripensare la società nel suo insieme.
GUARDA il video dell'intervento del Papa sulla difesa della vita e la corsa all'immortalità sul sito www.corriere.it

Corriere della Sera 10.3.08
Marino: un errore forzare la biologia
di Margherita De Bac

«No, nessuno mette in discussione che una vita in coma non abbia dignità. Bisogna però essere liberi di indicare, sulla base della Costituzione, fino a dove si devono spingere le terapie. Se manca l'esplicita volontà del malato, già espressa in vita, nessuno ha diritto di interrompere le cure. Se questa volontà però esiste e non c'è ragionevole speranza di recupero dell'integrità intellettiva la stessa libertà dovrebbe essere riconosciuta per legge. Un concetto presente anche nel catechismo della Chiesa scritto da Ratzinger».
«Credo che l'indicazione importante e legittima del Santo Padre vada distinta dalle leggi di uno Stato laico. Su questo auspico si apra un dibattito serio».
«Evitiamo distinzioni biologiche. L'etica cattolica riconosce il principio di precauzione fin dal concepimento».
«Sì, al di là della visione religiosa io condivido. Non vorrei che la mia vita fosse prolungata oltre il possibile, specie se non ho autonomia fisica e intellettiva. È più utile che le risorse vengano usate per migliorare le condizioni di chi non ha la minima assistenza. Pensiamo a Aids, tubercolosi e malaria. Tutte insieme fanno 6 milioni di morti al mondo».
ROMA — «Cosa mi ha colpito di più del suo discorso? Che abbia pronunciato la parola coma. Ho pensato alla conflittualità creata dal caso Welby sul diritto all'autodeterminazione nella scelta delle terapia», commenta il senatore Ignazio Marino, del Pd.
La legge sul testamento biologico che lei avrebbe voluto non è in contrasto col pensiero del Papa? Che legge sarebbe stata la sua?
«Una legge che non sia un piano inclinato verso l'eutanasia. Anzi, io dico di più. Per me la dignità è tale anche oltre il coma, quando subentra lo stato vegetativo permanente, che esclude possibilità di risveglio. La vita di Eluana Englaro non è meno degna della mia».
L'uomo è uomo anche da embrione, dice il Papa. È d'accordo? L'affermazione di Ratzinger è un nuovo altolà alla scienza. Condivide?
«La scienza soccorre la fede. Oggi si può tutelare l'embrione sperimentando su cellule staminali adulte».
Per gli inglesi l'embrione è tale solo dopo il quattordicesimo giorno. È sbagliato cercare l'immortalità?

Corriere della Sera 10.3.08
La strategia dopo il programma pd strappato in pubblico
Silvio, pronti nuovi affondi Ma l'intesa con Walter resta
di Francesco Verderami

ROMA — Hanno iniziato a duellare e continueranno a farlo. In nome dell'intesa. Ognuno con il proprio stile, Berlusconi e Veltroni alzeranno fino al 13 aprile il livello dello scontro, per quel comune interesse politico che gli analisti hanno evidenziato con una serie di sondaggi riservati: la tendenza alla bipolarizzazione del sistema — secondo gli studi — «è già in atto», ma una sfida più serrata e diretta aiuterà i leader del Pdl e del Pd a «radicalizzare il processo», a «concentrare l'attenzione» (e il voto) sui rispettivi partiti. Lo sanno anche i loro avversari, che infatti temono le ultime settimane di campagna elettorale. Se i due realizzassero l'obiettivo del pieno nei consensi, chiuse le urne potrebbero gestire con più facilità il patto che hanno sottoscritto, e che si fonda sulla reciproca convenienza di modificare il sistema.
Insomma, l'intesa non traballa. Come spiega un autorevole dirigente democratico, «non saranno un paio di fogli strappati durante un comizio a mettere in discussione l'impianto dell'accordo », che parte dalla volontà di riformare le istituzioni. Erano altri i passaggi importanti, e si sono consumati. A partire dalla formazione delle liste, dove il Cavaliere e l'ex sindaco di Roma avevano stabilito di ridurre il più possibile la frammentazione nei rispettivi campi. Quanto sta accadendo in queste ore, e quanto accadrà di qui al voto, appartiene quindi alla «fisiologia della competizione».
Prova ne sia che l'affondo di Berlusconi non ha colto di sorpresa al loft, dove erano preparati da tempo, quasi che la mossa fosse stata preannunciata: ne erano talmente certi gli uomini di Veltroni, che avevano già discusso se e come fronteggiarla. Il leader del Pd ha deciso di «non cambiare impostazione », perché «visto che ci siamo presentati con una proposta nuova, dobbiamo ora dare l'immagine di chi vuole innovare il linguaggio». E se Berlusconi ha iniziato a mostrare i muscoli, è anche perché la sua task force comunicativa — guidata dal portavoce Bonaiuti — ha evidenziato la tecnica di Veltroni, che sfruttando il «profilo buonista» non ha risparmiato «colpi sotto la cintura», sull'età del Cavaliere — per esempio — e sulla sua inaffidabilità come capo di governo, dunque come «uomo del fare». Semmai a disturbare l'ex premier sono certe battute di D'Alema, «quello che mi dipingeva con lo scolapasta in testa, quello che mi dava per finito. Chi è finito?».
Il patto con Veltroni includeva comunque il duello. Raccontano che Berlusconi sia pronto a una nuova offensiva sul fronte gestito finora meglio dal capo dei democratici: «Se pensa di aver fatto dimenticare Prodi, si sbaglia. Ricorderò agli italiani anche quel che hanno fatto i ministri del governo Prodi, che sono tanti e sono tutti in lista». Lo dirà ai candidati del Pdl che riunirà in settimana a Roma, da dove partiranno anche i camper di centrodestra che attraverseranno l'Italia. Ma lo farà soprattutto, così è in programma, andando «sui luoghi dei disastri» insieme a Fini. Durante la tappa di Napoli, infatti, non si limiteranno a una manifestazione per denunciare l'emergenza rifiuti, andranno proprio in mezzo ai rifiuti. L'idea è sottolineare quanto detto dal leader di An: «Possono cambiare il direttore d'orchestra, però la musica è sempre quella». Il dialogo tuttavia reggerà, per quanto aspro potrà essere lo scontro: «Chi dice che si è rotta la tregua — ha spiegato ieri Fini ai suoi — in realtà vorrebbe che non facessimo campagna elettorale».
Hanno iniziato a duellare e continueranno a farlo, ma Berlusconi e Veltroni non intendono spezzare il filo del dialogo, e poco importa se negli ultimi giorni le comunicazioni tra i loro due plenipotenziari - Gianni Letta e Bettini - sono diminuite. Al Cavaliere serve il dialogo con il leader Pd anche per avere in mano la carta di riserva. È vero infatti che considera ormai acquisita la vittoria alla Camera, ma ci sarà un motivo se per il Senato continua a chiedere ai suoi: «Come va nelle regioni?». Qualora a palazzo Madama mancassero i numeri, l'accusa rivolta al Pd di aver «copiato» il programma del Pdl potrebbe trasformarsi in un'offerta di collaborazione, non più limitata ai temi istituzionali. «In fondo Veltroni si è preso anche i miei slogan», ha commentato giorni fa il Cavaliere: «Lui ha annunciato che, se vincesse, l'Italia tornerebbe al boom degli anni Sessanta. Ma è quello che dissi io nel '94, quando parlai del nuovo miracolo italiano».

Corriere della Sera 10.3.08
La tesi Secondo il filosofo della politica le manifestazioni di massa del Novecento furono «insorgenze»
Populismo in piazza all'italiana
Il Sessantotto come l'interventismo e il fascismo: la lettura di Matteucci
di Giovanni Belardelli

I saggi di Nicola Matteucci sulla rivolta studentesca di fine anni Sessanta (ora ripubblicati da Rubbettino con il titolo Sul Sessantotto, a cura di Roberto Pertici, presentazione di Gaetano Quagliariello, pagine 108, e
14) valgono, da soli, più di gran parte di ciò che si è finora scritto su quegli eventi. È vero che Matteucci scriveva a caldo, a ridosso dei fatti, ciò che spesso costituisce un ostacolo per la loro comprensione; ma è vero anche che riusciva ad andare oltre i punti di vista — l'uno simpatetico- nostalgico, l'altro banalmente critico — che da quarant'anni risultano prevalenti ogni volta che, almeno in Italia, si parla e si scrive di Sessantotto.
Per Matteucci la rivolta studentesca non fu, o meglio non fu soprattutto, un semplice episodio di una grande rivoluzione esplosa in tutto il mondo, da Berkeley a Parigi, da Berlino a Praga. Il Sessantotto italiano, che molti cercavano erroneamente di spiegare appiattendosi su ciò che proclamavano i protagonisti nei loro slogan, giornali, opuscoli, andava considerato una forma di «insorgenza populista» da ricollegare a dinamiche profonde del Paese. Con questa espressione — contenuta in un saggio pubblicato nel 1970 sulla rivista «Il Mulino » — Matteucci cercava di definire un insieme di manifestazioni politiche nutrite di idee semplici, di passioni elementari, che superavano la tradizionale distinzione tra conservatori e progressisti e si accompagnavano a una forte propensione attivistica (e potenzialmente violenta). Si trattava di un fenomeno non inedito nella storia del Paese: nel 1914-15 l'interventismo era stato appunto una forma di «insorgenza populista», che aveva coagulato forze di diversa provenienza, di destra e di sinistra, in una comune condanna dell'Italia liberale; qualche anno dopo lo era stato anche il fascismo di sinistra, con la sua esaltazione di una «nazione proletaria» in guerra contro le «demoplutocrazie». Rispetto a quegli antecedenti, il Sessantotto interpretato come «insorgenza populista» si caratterizzava anche per un elemento nuovo: un «cattolicesimo progressista» fortemente orientato a sinistra sulla base dell'incontro tra la «mistica dell'operaio» di matrice marxista-comunista e la «mistica del povero». Non a caso il movimento degli studenti teneva in grande considerazione la Lettera a una professoressa
di don Milani, che contrapponeva alla cultura dei «signori» la verità e la cultura dei «poveri».
Ma gli articoli e saggi di Matteucci ripubblicati in questo volume presentano un grande interesse anche per un altro motivo, meno direttamente collegato all'analisi del Sessantotto italiano: quei testi, grazie anche all'ottima introduzione di Pertici, danno conto della qualità intrinseca di posizioni liberali tra le più meditate e originali nell'intera storia repubblicana.
Proprio con riferimento all'esaltazione sessantottina della libertà come spontaneità, Matteucci notava che la libertà liberale si collocava in realtà agli antipodi della libertà come liberazione degli istinti, in particolare sessuali, teorizzata da Herbert Marcuse. Mentre nella civiltà liberale la libertà consiste nella «riscoperta della coscienza morale dell'uomo come sola forza creatrice», nella civiltà del benessere (e nei suoi critici sessantottini, che da questo punto di vista ne erano a tutti gli effetti i figli) la libertà è concepita «come soddisfazione individuale dei bisogni», in senso meramente edonistico.
Coerentemente con queste idee, Matteucci richiamava la necessità — già individuata da Tocqueville — che una democrazia possa giovarsi di «potenti fedi religiose o etiche», di «robuste passioni morali capaci di trascendere l'animalità dell'uomo». Da ciò, nota Pertici, quell'insistere sulla necessità del dialogo tra liberali e cattolici che rendeva la sua posizione abbastanza diversa da quella di altri esponenti della cultura liberaldemocratica italiana. Matteucci, ad esempio, scriveva di ritenere «assai pericoloso confondere il pensiero liberaldemocratico con il laicismo» poiché in tal modo si rendeva il primo «una concezione del mondo totalizzante, una religione».
Ma, nel libro, la peculiarità delle sue posizioni nel quadro della cultura liberale italiana emerge anche dal necrologio del «Mondo», pubblicato nel 1966 sul «Mulino» a commento della chiusura della rivista di Mario Pannunzio. Matteucci vi denunciava il progressivo slittamento verso sinistra di una parte della cultura liberale, quella di matrice gobettiana e azionista, portata a guardare al Partito comunista come proprio interlocutore privilegiato. Basta richiamare il credito che il «liberalismo azionista» ha avuto negli anni successivi, per rendersi conto di quanto le posizioni di Nicola Matteucci fossero destinate a rimanere isolate.