mercoledì 12 marzo 2008

Veltroni: «Non è più il tempo della lotta di classe, è il tempo dell'alleanza tra produttori»

Ida Dominianni «trasmettiamo cinismo alle giovani generazioni (...) come quando diciamo che Michel Foucault è un delinquente»
Liberazione 12.3.08

Le proposte di economisti, sociologi, urbanisti
Bertinotti: la possibilità della trasformazione è la nostra ragion d'essere «Una nuova alleanza tra politica e cultura»
La sinistra incontra i protagonisti del sapere
di Romina Velchi

Hanno un disperato bisogno l'una dell'altra. La cultura, nel senso più ampio del termine (cioè formazione, educazione, ricerca, analisi) per ritrovare il proprio ruolo, per tornare ad essere un «valore positivo»; la politica per uscire dalla crisi che la divora e, nello specifico, per dare una chance alla Sinistra arcobaleno. Sennò perché dedicare un intero pomeriggio, a Roma, ad un convegno dal titolo "La cultura di fronte alla crisi della politica"?
Non il "normale" incontro tra produttori di sapere (economisti, sociologi, intellettuali, giornalisti, urbanisti, architetti) per chiedere questo e quello alla politica (o meglio alla sinistra) alla vigilia di una "normale" tornata elettorale. Ma un momento di riflessione sulla necessità «cruciale» dello scambio. La cultura - dice per esempio Grazia Francescato - come «antidoto» alla crisi della politica; la politica come strumento per far fare un «salto di qualità alla coscienza collettiva».
Sì, perché di normale questa campagna elettorale ha davvero poco, se è vero che, come dice Fausto Bertinotti chiudendo l'incontro, «c'è il serio rischio che la sinistra esca dalla scena politica in Italia e in Europa». «Gianfranco Fini con intelligenza politica, dal suo punto di vista, dice che il 13 aprile sarà la liberazione dell'Italia dalla sinistra», cioè, spiega Bertinotti, allude al fatto che «sarà la fine della storia italiana così come iniziata nel dopoguerra, rovesciando la storia della liberazione che ha visto la sinistra contribuire in modo decisivo alla nascita della nazione». C'è una «convenzione ad escludere la sinistra - concorda Cesare Salvi - una vera e propria preclusione ideologica. Tentano l'emarginazione fino ad estinguere la sinistra».
Di qui la sfida della Sinistra arcobaleno, la cui ragion d'essere, o meglio il suo «punto distintivo» dalle altre forze politiche è quello di «mettere in discussione» l'attuale modello di società. Ma, avverte il presidente della Camera, «non si può fare una nuova sinistra senza la cultura». Se la politica, da mera «tecnica della governabilità, tecnica tra le tecniche», riprende «l'istanza del cambiamento», «la cultura diventa essenziale - sottolinea Bertinotti - diventa il disegno, il progetto della sinistra». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno lo sottolinea più volte: ci vuole «l'alleanza tra la politica e la cultura» se vogliamo «combattere le solitudini e le spinte centrifughe».
Ma, naturalmente, tertium non datur : «Se chiudiamo la campagna elettorale con un insuccesso» i «produttori di cultura resteranno isolati» e i politici non avranno la forza per andare avanti: «La possibilità di incidere sulla realtà sarà amputata drasticamente». Insomma, la cultura (una cultura che «contenga la teoria politica») diventa necessaria se si vuole rimettere all'ordine del giorno la possibilità della trasformazione; che è a sua volta «la ragione della nascita del nuovo soggetto politico». Non è uno scherzo.
Anche perché, come sottolinea Cesare Salvi, «il degrado della politica italiana si è accentuato, come dimostra il dibattito elettorale». Colpa di una «pessima legge elettorale», ma anche delle «labili fondamenta sulle quali è stata edificata la seconda Repubblica». Per Salvi l'obiettivo è ricostruire «su basi nuove il rapporto tra la politica e la cultura», tenendo presente che non siamo di fronte ad «una crisi di governabilità» (come ci viene ripetuto ad ogni istante) ma di «partecipazione». La difficoltà, ammette Bertinotti, sta nel «costruire un legame, di mettere in rapporto i diversi contributi» che la cultura può dare. Anche se Luciana Castellina esordisce spiegando che «non c'è un noi e un voi», perché «anche noi siamo chiamati a fare politica»: la «separazione» tra cultura e politica è la cosa più grave degli ultimi anni, visto che la politica si è ritirata nella sfera istituzionale, e ci «annichilisce tutti». Ma questo è, appunto, il «valore aggiunto del voto alla sinistra»: il superamento di questa separazione, che ha segnato «il declino inesorabile della nostra cultura».
Sul palco si alternano gli interventi. C'è il tema del precariato nella scuola e nell'università e l'invecchiamento della popolazione docente, che fa il paio, come sottolinea il sociologo Paolo De Nardis, con le giovani generazioni capaci solo di accettare lo statu quo e alle quali non appartiene più la dimensione del futuro e della trasformazione della realtà. E magari, la colpa è anche «nostra», dice Ida Dominianni, che «trasmettiamo cinismo alle giovani generazioni, come quando diciamo che Michel Foucault è un delinquente» (e ce l'ha con Liberazione ). «La cultura - dice ancora Dominianni - chiede alla politica un riconoscimento di autorità», oggi che il «principale effetto del berlusconismo è che la cultura è diventato un disvalore». Questo deve essere «l'impegno di base della sinistra». E la politica, cosa chiede alla cultura? «Nulla - risponde la giornalista, è questo il guaio, chiede solo volti noti».
C'è il tema della decrescita: ne parla Carla Ravaioli, ricordando che «è compito della sinistra» mettere al centro il conflitto capitale-natura e ricordare, anzi «gridarlo», che con «la crescita aumentano lo sfruttamento e le diseguaglianze» (qualcuno lo dica a Veltroni). Secondo Carla Ravaioli, dopo tutto, la crisi economica attuale, «che nessuno più nega», può essere «un'occasione», visto che lo stesso segretario dell'Onu «ha proposto di ridurre il Pil dell'1%» per fermare le emissioni inquinanti e «tentare di esorcizzare la catastrofe ecologica». C'è il tema della tecnologia che oggi sembra permeare tutta la cultura moderna (lo ricorda Marcello Cini, che si schermisce: «Non parlerò del papa, a costo di deludervi!»). C'è il tema dell'urbanistica e dei territori, i luoghi dove oggi «avvengono le trasformazioni delle figure sociali» (Massimo Ilardi).
E soprattutto, c'è l'economia. Riccardo Realfonzo (da sempre propugnatore della stabilizzazione del debito anziché della riduzione) non usa mezzi termini: «Sono inorridito» dal programma economico del Pd, tutto basato su riduzione del Pil, flessibilità, restrizione dell'intervento pubblico. Esiste una strategia alternativa per la sinistra? La proposta è bell'e pronta: rilancio dell'intervento pubblico, buona politica industriale e qualità del lavoro. «La legge marxiana della centralizzazione dei capitali è in atto. Occupiamoci di assetti dei capitali, di strategie economiche (i comunisti l'hanno saputo fare) - esorta Emiliano Brancaccio - se non vogliamo fallire». La Sinistra arcobaleno non vuole.

l’Unità 12.3.08
Matti, festa per la liberazione
di Daniela Volpi

IL MEETING 1978: grazie a Franco Basaglia, veniva introdotta una legge che ridava dignità ai sofferenti psichici. Via la contenzione, via l’elettrochoc, libertà per i «matti». A Trieste, Paoli e Cristicchi padrini di una stagione di spettacoli per ricordare

Si chiama «La fabbrica del cambiamento» ed è il cantiere multimediale articolato in spettacoli, arti e cultura, scienza e ricerca, avviato a Trieste dal Dipartimento di salute mentale, nel trentesimo anniversario della storica riforma Basaglia che, il 13 marzo '78, segnò la fine, in Italia, dell'esperienza di custodia manicomiale.
«Una festa, innanzitutto - sottolinea il direttore dei servizi Peppe Dell'Acqua - Perché a trent'anni dalla legge 180 è arrivato il momento di gioire di una riforma che ha restituito ai pazienti il diritto alla soggettività». «Sarà l'occasione per riportare a Trieste, dove la riforma ha avuto inizio, gli artisti che, nel tempo, si sono interrogati sulla questione», spiega Massimo Cirri, voce fra le più amate della radiofonia italiana con il suo Caterpillar su Radio2, autore e psichiatra, da alcuni mesi in forze all'azienda sanitaria di Trieste dov'è curatore del palinsesto degli spettacoli della «Fabbrica del cambiamento».
Ha inaugurato questa iniziativa, pochi giorni fa, un concerto in jazz di Gino Paoli, che insieme a Simone Cristicchi sarà nume tutelare del nuovo progetto dell'Orchestra «I Mati de Trieste», nato sul modello dell'Orchestra di Piazza Vittorio. E nei prossimi mesi arriveranno Marco Paolini con un nuovo progetto sul T4, il piano nazista di sterminio dei disabili, e Ascanio Celestini con La pecora nera, viaggio in quel che resta dei manicomi italiani. Lella Costa e Paolo Fresu duetteranno fra musica e letture, in una mise en espace dal libro di Peppe Dell'Acqua, Non ho l'arma che uccide il leone. Natalino Balasso renderà omaggio a Luigi Meneghello e al suo Libera nos a malo, l'Accademia della Follia porterà in scena W Basaglia, per la regia di Giuliano Scabia, storico collaboratore dello psichiatra veneziano.
Fra gli eventi più attesi è in programma una nuova tappa del progetto Stazioni lunari nato da un'idea del musicista Francesco Magnelli (già dei Csi) e che vedrà confrontarsi sul palcoscenico, il 16 maggio, fra musica e teatro, Simone Cristicchi, Teresa De Sio e Peppe Servillo, per il trait d'union di Ginevra Di Marco.

l’Unità 12.3.08
Luciano Canfora attacca: non è autentico. Ma Salvatore Settis a Berlino ribadisce la sua tesi
Ancora lite sul Papiro di Artemidoro: è falso oppure no?
di Marco Innocente Furina

È autentico o non è autentico? Quella sul papiro di Artemidoro, una delle più accese querelle culturali degli ultimi anni, promette di durare ancora a lungo, ma la grande mostra che apre oggi a Berlino, con la contemporanea presentazione dell’edizione critica, è destinata a segnare un momento fondamentale nella discussione intorno all’originalità del prezioso frammento.
La polemica va avanti da due anni, da quando nel 2006, il papiro di Artemidoro è stato il protagonista di una importante mostra a palazzo Bricherasio a Torino, dopo che la Fondazione per l’Arte della compagnia di San Paolo, su sollecitazione del Ministero per i beni culturali, per aggiudicarselo aveva sborsato, la ragguardevole cifra di 2.750.000 euro.
Fu proprio allora che, dopo aver visitato la grande l’esposizione, il grecista Luciano Canfora fu colto dai primi dubbi. Troppe cose, a partire dalla lingua usata nel testo, non tornavano. Ne nacque una polemica durissima, condotta anche dalle pagine dei più importanti quotidiani nazionali, fra lo stesso Canfora e Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa che aveva invece certificato l’originalità dei frammenti.
A due anni di distanza Canfora e Settis tornano a incrociare le spade. Lo storico dell’arte e i filologi Barbara Kramer e Claudio Gallazzi, annunciano - finalmente - la presentazione di un’edizione critica, mentre il docente dell’Università di Bari, dopo aver dato alle stampe un primo testo in inglese The true history of so-called Artemidorus papyrus (edizioni Pagina) con l’aiuto di un manipolo di studiosi (Luciano Tossina, Livia Capponi, Giuseppe Carlucci, Vanna Maraglino, Stefano Micunco, Rosa Otranto, Claudio Schiano), spiega perché, ne Il Papiro di Artemidoro, un corposo volume edito da Laterza, il rotolo in questione non possa essere originale.
La lingua, innanzitutto. Artemidoro di Efeso visse a cavallo tra il II e il I a. C. ma lo stile del papiro non ha nulla a che vedere con lingua classica in uso allora. I sostenitori dell’autenticità rispondono con la teoria delle «tre vite», ovvero i tre momenti in cui il documento sarebbe stato scritto e disegnato. Ribatte Canfora: le «tre vite», a dar retta a questa teoria, si sarebbero svolte entro la fine dell’età di Nerone, ovvero il I secolo d.C, mentre nel testo sono presenti colloquialismi di epoca basso-bizantina. Dunque parecchi secoli dopo il regno dell’impertore. Ma non basta. Perché nel reperto sono presenti interi brani di Marciano, un autore bizantino vissuto nel IV secolo d.C, per non parlare di usi e riferimenti più vicini alla prosa dei padri della Chiesa che al greco classico. Un’anomalia che per il filologo Albio Cassio, uno dei curatori dell’edizione critica, si spiegherebbe facilmente: ci troveremmo di fronte a una rarissima e quindi preziosissima attestazione del greco asiano, uno stile andato quasi del tutto perduto. Altro che greco d’Asia e greco d’Asia, nello scritto - incalza Canfora - ci sono troppe incongruenze. Prendiamo il termine «Oblevion», il nome di un fiume come era stato ribattezzato in epoca moderna, mentre la forma antica, attestata in Strabone è «Belion». E così via.
Come in ogni buon processo indiziario le parti hanno pure fatto ricorso alle perizie tecniche. Ma come spesso avviene in questi casi neanche le analisi chimiche hanno messo la parola fine alla discussione.
Ma a non convincere Canfora non è solo la sintassi. Il papiro infatti è unico nel suo genere perché è quasi un canovaccio d’artista. Sul verso sono disegnati una quarantina di raffigurazioni di animali reali e fantastici, mentre sul recto compaiono volti umani e una cartina della Spagna. Uno stile, suggestivo e irrituale che quasi anticipa il Rinascimento (c’è chi ha parlato di una mano che ricorda Raffaello). Troppo strano, così poco classico, così poco antico...
Già, ma allora se il papiro è un falso, chi è il falsario? Ed qui che entra in gioco un personaggio a suo modo grande, eclettico e versatile, il greco Costantino Simonidis, abilissimo falsario ottocentesco conosciuto e temuto in tutte le capitali europee. Allievo di Vidal, un pittore della scuola del francese David, Simonidis di falsi ne aveva già rifilati parecchi. «Nel 1855 - ricorda Canfora - aveva tratto in inganno l’intera Accademia delle scienze di Berlino. Scoperto, era stato poi espulso dalla capitale prussiana». Dove ora ritorna - se la ride il professore di Bari - con tutti gli onori.

Repubblica 12.3.08
Cattivi si diventa
Esce "L'effetto Lucifero" di Philip Zimbardo
Siamo tutti figli di Eichmann?
di Umberto Galimberti

L’autore del libro è titolare di un celebre esperimento realizzato a Stanford nel 1971
Alcuni studenti accettarono di fare la parte delle guardie e altri quella dei detenuti

Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv.
Per rendercene conto, e lo dobbiamo fare per conoscere davvero noi stessi, è sufficiente che leggiamo il libro di Philip Zimbardo, L´effetto Lucifero (Raffaello Cortina, pagg. 650, euro 35). Lucifero, prima di diventare Satana, il principe del male, era il portatore di luce, l´angelo prediletto da Dio. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione interna come crede la psicologia quando distingue il normale dal patologico, al pari della religione quando distingue il buono dal cattivo, ma per altri due fattori che sono il «sistema di appartenenza» e la «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Non erano dei criminali per natura Heinrich Himmler e Adolf Eichmann quando portarono a compimento con abnegazione lo sterminio degli ebrei, ma dei «burocrati» con uno spiccato senso del dovere al loro sistema di appartenenza che era l´ideologia nazista. Lo stesso si può dire di Franz Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblinka che aveva il compito di eliminare tremila deportati al giorno perché l´indomani ne giungevano altri tremila. «Il metodo l´aveva ideato Wirt. E siccome funzionava, mio compito era di eseguirlo alla perfezione», rispose a Gitta Sereny che in una serie di interviste (oggi pubblicate da Adelphi col titolo In quelle tenebre) gli chiedeva che cosa provava.
La stessa risposta la diede il pilota americano che sganciò la bomba atomica su Hiroshima a Günther Anders che gli poneva analoga domanda: «Che cosa provavo? Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)». Quando la responsabilità si restringe e, da responsabilità nei confronti degli effetti delle nostre azioni, si riduce a responsabilità nei soli confronti degli ordini ricevuti, queste risposte sono corrette, così come ci sentiamo tutti noi quando, negli apparati di appartenenza ci limitiamo a eseguire perfettamente il nostro mansionario, i programmi ministeriali nelle scuole a prescindere dalle condizioni culturali in cui si trovano i ragazzi che le frequentano, gli interessi dell´azienda a prescindere dalle condizioni in cui si effettua il lavoro (compresi i morti sul lavoro) e dai prodotti finali del lavoro (più o meno corrispondenti a quello che la pubblicità vorrebbe farci credere).
Quando la responsabilità non si estende agli effetti delle nostre azioni, ma si restringe alla semplice osservanza degli ordini che ci provengono dagli apparati di appartenenza, allora, come recita il titolo di un libro di Günther Anders, siamo tutti «figli di Eichmann» e come tali subiamo quello che Philip Zimbardo chiama: «L´effetto Lucifero», dove persone perbene, per effetto del «sistema di appartenenza» o per le «situazioni» in cui ci veniamo a trovare, diventiamo, indipendentemente dalla nostra indole, degli oggettivi criminali, capaci di compiere quelle azioni che, fuori dal sistema di appartenenza o dalla situazione concreta, ci farebbero inorridire.
Philip Zimbardo è uno psicologo sociale dell´Università di Stanford che nel 1971 tentò un curioso esperimento di «prigionia simulata». Con un annuncio sul giornale scelse, tra le centinaia che si erano presentate, ventiquattro persone che, per quindici dollari al giorno, accettassero di fare le guardie e i detenuti in una prigione simulata nell´edificio dell´Università.
I prescelti erano i più stabili psicologicamente, senza trascorsi di alcol e droga, senza pendenze penali, senza problemi medici o mentali. Insomma ragazzi normali, bravi ragazzi si direbbe se l´aggettivo non fosse denso di pregiudizi. A quelli incaricati di fare la guardia furono assegnati i compiti in uso per gli arresti veri, con la sola avvertenza che dovevano evitare abusi e violenze fisiche.
Dopo una settimana l´esperimento fu interrotto perché le guardie, che avevano preso molto sul serio il loro ruolo, in un´istituzione altrettanto seria come poteva essere l´università, per una prova seria quanto lo può essere un esperimento scientifico, non per la loro «indole», ma per effetto del loro «ruolo» e della «situazione» in cui si trovavano a operare, si abbandonarono alle più feroci aggressioni fisiche e psichiche non dissimili, scrive Zimbardo, dai modelli nazisti.
La constatazione ha consentito allo sperimentatore di concludere che la pratica del male o, come lui la chiama: «l´effetto Lucifero», non è una prerogativa di un´indole piuttosto che di un´altra (come ritiene la psicologia, che a sua insaputa ha ereditato lo schema religioso che distingue i buoni dai cattivi), ma è la prerogativa di tutti che, a partire da una «struttura di appartenenza» (una fede, un´ideologia, un apparato aziendale) e da una «situazione concreta» in cui ci si trova a operare (in un gioco vero o simulato di tutori dell´ordine e criminali, o in una guerra che vede contrapposti in nostri ai nemici) chiunque, anche il più buono fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi.
La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni e non di altri, ma, compresenti in ciascuno di noi si scatenano indifferentemente in tutti a partire dal «sistema di appartenenza» e dalla «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Inorridito da quanto aveva constatato Philip Zimbardo non riuscì a scrivere il resoconto di quanto aveva visto negli anni immediatamente successivi all´esperimento, ma solo quando, nel 2004, fu chiamato in qualità di perito a dare una spiegazione del perché bravi ragazzi, ritenuti tali dopo accurate verifiche, inviati come militari in Iraq, avessero potuto compiere nel carcere di Abu Ghraib abusi così orrendi quali risultarono dalle registrazioni che Zimbardo ebbe modo di visionare dove si vedevano scene ben più aberranti di quelle che le televisioni di tutto il mondo hanno poi diffuso.
In gioco, scrive Zimbardo, non è tanto l´«indole» di questi militari, quanto l´appartenenza al «sistema esercito» inviato per una «giusta causa» (contro il terrorismo), in una «situazione» che nella fattispecie è di guerra. Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo «de-umanizzi», che lo riduca a «cosa», in modo che non appaia più come un suo simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita.
A ciò concorre il patriottismo, che spesso è solo una forma appena velata di autovenerazione collettiva, perché esalta la nostra bontà, i nostri ideali, la nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in bianco e nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico, e, così mitizzata, diventa una divinità che, come ci hanno insegnato gli antichi greci, per essere adorata esige sacrifici umani. Ma oltre all´autovenerazione per noi stessi, la guerra ci impone di svilire il nemico, per cui veneriamo e piangiamo i nostri morti e restiamo stranamente indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no.
Di fatto la guerra scatena la nostra latente necrofilia, non solo perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così come lo è per la formazione dei kamikaze. Essa getta in quello stato di frenesia in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie e soprattutto insignificanti.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, carica di un´energia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà autodistruttiva della guerra stessa. Perché in guerra gli esseri umani diventano cose, cose da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, si ha la sensazione che a disposizione rimane solo la morte o il fugace piacere carnale.
Dopo la guerra c´è l´immane fatica per guarire le ferite che non sono solo quelle fisiche. E c´è chi non ce la fa, e sono i più, perché tutto ciò che era familiare diventa assurdamente estraneo, e il mondo, a cui si sognava di tornare, appare alieno, insignificante al di là di ogni possibile comprensione. L´accumulo di distruttività, vista e seminata, diventa autodistruttività che non conosce limite.
A questo punto vale ancora la contrapposizione tra il bene e il male? E davvero noi possiamo dividerci in buoni e cattivi? O, come sostiene Zimbardo, la nostra ferocia non è tanto da attribuire alla nostra indole, quanto piuttosto al sistema di appartenenza e alla situazione concreta in cui ci si trova a operare? Se così è, vero eroe non è chi compie le azioni più rischiose o più feroci che i posteri magnificheranno, ma chi sa resistere al sistema di appartenenza o alla situazione concreta che gli chiedono quelle azioni. L´avvertimento di Zimbardo è ovviamente rivolto a tutti noi che, in un modo o nell´altro, sempre ci troviamo in un qualche sistema di appartenenza o in qualche situazione che ci chiede di scegliere se stare o non stare al gioco.

Repubblica 12.3.08
Madri. Dentro la loro passione
Psicoanalisi e neuroscienze
Luciana Sica intervista Massimo Ammaniti

"La donna sa come occuparsi del suo bambino: è una sapienza innata"
"È una relazione molto esclusiva: il padre deve stare dietro le quinte"
Intervista / Nel suo nuovo libro, Massimo Ammaniti spiega perché la maternità è come l´amore romantico
"Nelle mamme e negli innamorati s´attivano le stesse aree cerebrali"

ROMA. Quell´amore per il proprio bambino - che sta per nascere, che è appena nato - è in tutto e per tutto simile all´amore romantico, uno stato rarissimo della vita, una condizione abbagliante. È un innamoramento. E noi pensiamo: bella immagine, forse un filo stucchevole. Sbagliamo, per eccesso di disincanto, perché agli ingombranti sussulti delle emozioni preferiamo una più opaca ragionevolezza dei nostri pensieri, respingendo un ulteriore frammento di discorso amoroso. Ma è la ricerca neuroscientifica che lo ha provato: la maternità somiglia moltissimo alla passione, proprio quella che brucia, che non concede troppe distrazioni. In tutti e due i casi lo stato mentale è alterato, e non poco, con tutte quelle continue idee ossessive che non lasciano tregua. E - come in una malattia - in tutti e due i casi "l´amore è cieco".
Senza nessun cedimento a un certo chiacchiericcio, inutile per quanto colto, ma soggiogato dall´indubitabile fascino di un argomento comunque pieno di mistero, a scriverne è Massimo Ammaniti in Pensare per due, il suo nuovo libro che esce in questi giorni da Laterza (sottotitolo "Nella mente delle madri", pagg. 182, euro 15 - alle sei di questo pomeriggio il volume sarà presentato alla libreria Rinascita di Roma: oltre all´autore, ne parleranno Nadia Fusini, Concita De Gregorio e Paola Perucchini).
Professore di psicopatologia alla "Sapienza" di Roma, psicoanalista noto anche all´estero - e non solo in Europa (alcuni suoi saggi sono usciti negli Stati Uniti) -, non è la prima volta che Ammaniti si sofferma sul "luogo delle origini" e più precisamente sul tema dell´attaccamento, secondo la linea di ricerca segnata dal geniale John Bowlby. E più di un volume ha curato con Daniel Stern, autorevolissimo esponente della infant research in psicoanalisi, il grande studioso della "costellazione materna" che si divide tra Ginevra e la Cornell University di New York.
Il libro di Ammaniti si compone di due parti distinte tra loro: la prima è di natura teorica, scritta comunque con un intento divulgativo; la seconda raccoglie una serie d´interviste con tipologie di madri variamente definite: "integrate" e "non integrate", "ristrette" e "depresse". Ma è da una considerazione più generale sul tema del materno - sfondo di una letteratura sempre più ricca e ampia - che ha inizio questa intervista. Si direbbe infatti che viviamo in un´epoca di "maternalizzazione" della cultura - il che non vuol dire affatto che si sia femminilizzata, tutt´altro.
La psicoanalisi ci ha messo del suo: dalla Klein in poi si è concentrata sempre di più sulla fase pre-edipidica, sul rapporto madre-figlio nella fase epifanica e addirittura anche prima, in quei mesi spesso incantati dell´esperienza prenatale dov´è l´inconscio a fare da padrone di casa, ridimensionando inevitabilmente il triangolo familiare e quindi la centralità della figura paterna. Ormai alcuni autori - soprattutto donne: penso a Manuela Fraire, tra le italiane - lo dicono chiaramente, e senza temere gli ostracismi dell´establishment: il rilievo assegnato alla madre come primo oggetto d´amore da cui dipende (in buona parte) il benessere dei figli non è un lieve cambiamento di rotta del pensiero psicoanalitico. È un totale rivolgimento, una rivoluzione paragonabile alla "scoperta" dell´inconscio di Freud.
Professor Ammaniti, è un´espressione troppo forte per lei?
«Un po´ forte lo è, senz´altro... Ma è vero che Freud ha affrontato il tema della maternità come un uomo e un padre d´inizio Novecento, e certamente non è riuscito a cogliere completamente il senso complessivo di quell´esperienza e soprattutto l´importanza del corpo femminile, in particolare del suo "spazio interno", luogo di grande ambivalenza, al tempo stesso erotico e generativo. Saranno le analiste donne - e l´elenco sarebbe piuttosto lungo - a compiere un´inversione senz´altro profonda»
A imporla, diciamo pure... È vero che Freud parla di un´epoca "minoica" dello sviluppo psichico, alludendo all´importanza della primissima fase della vita e quindi del rapporto con la madre, ma nel suo modello è comunque il padre in carne ed ossa, nella sua funzione edipica di terzo incomodo assolutamente necessario, a consentire la differenziazione del bambino e la sua "normale" evoluzione... Lei non trova che oggi il partner "vivo" della madre è invece sempre più marginale e incline alla rivalsa?
«Che ci sia una competizione maschile nei confronti della donna generatrice è fuori discussione, e forse questo atteggiamento è stato dello stesso Freud. Oggi però assistiamo anche a un nuovo fenomeno: se una volta i padri non si occupavano dei figli molto piccoli, oggi in molti casi non è più così... È un fenomeno interessante, anche se questi "nuovi padri" tendono a ricalcare atteggiamenti materni, con il rischio di una sovrapposizione».
È già qualcosa se sono utili alle loro compagne stremate dalla stanchezza - mi scuserà l´osservazione brutale...
«Questo è un punto molto importante di cui ho sempre discusso col mio amico Daniel Stern. Ha a che fare con il ruolo paterno, con la sua capacità di declinare l´identità maschile in presenza di un neonato: nei primi giorni, nelle prime settimane, nei primi mesi il compito del padre dovrebbe essere un po´ quello di un regista dietro le quinte, dovrebbe creare insomma lo scenario, le condizioni per facilitare lo scambio tra la madre e il piccolo».
Uno scambio che ha tutte le caratteristiche dell´esclusività - come nell´innamoramento, lei scrive nel suo libro. Ma in che senso?
«In senso stretto, direi. Sono due condizioni molto simili, se ne ha ormai la riprova scientifica: nelle donne prese dall´intimità del rapporto col neonato come negli innamorati abitati dalla passione si attivano le stesse aree cerebrali connesse alla dopamina, e dunque al piacere e alla ricompensa. E in tutti e due i casi, si disattivano invece quelle zone del cervello che hanno a che fare con il giudizio sociale, con le emozioni negative che servono a indagare le motivazioni psicologiche della persona amata».
Il rischio è che la maternità venga presentata come una condizione eccessivamente idilliaca. E con una certa dose di ambiguità: da una parte si esalta l´onnipotenza materna, dall´altra le madri sono considerate - e dunque si considerano - le maggiori incompetenti in fatto di figli. Non è una stranezza?
«Si vede già durante la gravidanza: a volte c´è troppa sanitarizzazione, troppo affidamento ai medici. E in seguito, le eccessive psicologizzazioni sono negative: non bisognerebbe mai sostituirsi alle donne, ma solo - in alcuni casi - aiutarle a ritrovare la piena fiducia in loro stesse. Le capacità di parenting intuitivo fanno parte del nostro patrimonio: qualsiasi madre sa come prendersi cura del suo piccolo, è una sapienza innata».
Ci pensa la cronaca nera a smentire l´immagine tutta in rosa del rapporto madre-figli, anche se lì l´attenzione è morbosamente concentrata su madri depresse fino all´infanticidio - pur sempre un´infima minoranza. È invece una certa ambivalenza materna a essere più estesa e meno sotto i riflettori: le donne, che pure ne organizzano alla perfezione le giornate, sembrano spesso distaccate mentalmente dai loro figli... Lei che ne dice?
«Avere il figlio nella propria mente - keeping the baby in mind, secondo l´espressione coniata da Arietta Slade - è d´importanza centrale, non c´è dubbio. Un bambino sa accettare una madre lontana, ma può non tollerare una madre assente, incapace di assegnargli la sua priorità».
Come sono i figli delle madri eternamente "distratte" da qualcos´altro?
«In genere non hanno un rapporto facile con le emozioni: non le sanno riconoscere e tanto meno nominarle. Magari "funzionano", danno delle buone prestazioni di sé, ma sono piuttosto chiusi in sé stessi se non proprio anaffettivi».
Alla fine viene un dubbio, professore. Sarà forse una banalità, ma da sempre i bambini non crescono spesso in modo del tutto normale, a dispetto dei loro pessimi genitori?
«Certamente: noi li chiamiamo "bambini invulnerabili", sono quelli che possono contare sulle loro risorse e vanno comunque tranquilli e spediti nella vita. Purtroppo però c´è anche il rovescio della medaglia, e cioè bambini difficilissimi, problematici, figli di genitori esemplari».
C´è qualcosa che sfugge alla psicoanalisi ma non alla genetica.
«Con tutta probabilità».

Corriere della Sera 12.3.08
Non obiettore Mauro Buscaglia
«Cresce l'illegalità» Ogni giorno 55 casi

Il problema riguarda soprattutto le donne immigrate e clandestine: molte utilizzano un farmaco antiulcera

MILANO — In Italia ci sono ancora almeno 55 aborti illegali al giorno. L'ultima stima dell'Istituto superiore di sanità (relativa al 2006) mostra che la piaga delle interruzioni di gravidanza clandestine non è ancora stata eliminata. Anzi: «La percezione in corsia è che ci possa essere una recrudescenza del fenomeno per il clima da caccia alle streghe scatenatosi negli ultimi mesi — dice Mauro Buscaglia, 62 anni, primario dell'ospedale San Carlo —. Le difficoltà con cui le donne devono fare i conti per abortire e gli ostacoli che i medici non obiettori incontrano nella carriera possono favorire la ripresa delle interruzioni di gravidanza fuori dagli ospedali pubblici». Il ginecologo, non obiettore da una vita, aveva raccontato al Corriere di essere costretto a fare ancora aborti perché i neolaureati non ne vogliono sapere.
Il problema delle interruzioni di gravidanza illegali, per il momento, riguarda soprattutto le immigrate. In particolare quelle irregolari che cercano la strada spesso più veloce (e rischiosa). «In molte fanno ricorso al mesoprostolo, un farmaco antiulcera in grado di procurare un aborto — sottolinea Buscaglia —. Altre finiscono nelle mani di medici che operano di nascosto fuori dalle mura ospedaliere. Non bisogna abbassare la guardia: il ricorso agli aborti fuorilegge rischia di allargarsi ».
Le statistiche forniscono ancora numeri choc, anche se la situazione è decisamente migliorata rispetto a trent'anni fa. Nel 2006 le interruzioni di gravidanza clandestine sono state 20 mila (contro le 130 mila effettuate secondo la legge). Prima dell'entrata in vigore della 194 del '78 avevano toccato quota 350 mila. Per scendere alle 100 mila del 1983. «L'aborto illegale era arrivato a essere la terza causa di morte dopo le

Corriere della Sera 12.3.08
Bolzaneto. La requisitoria
I tre giorni dell'orrore nella caserma sulla collina
di Marco Imarisio

GENOVA — La caserma di Bolzaneto è una palazzina anonima e grigia che sta in collina. Vicina al casello dell'autostrada per Milano, lontana dal cuore della città. Nei tre giorni del G8 doveva essere il punto di smistamento dei manifestanti arrestati durante le manifestazioni. Prima del trasferimento nelle carceri di Milano, Pavia e Alessandria, dovevano passare da questo posto, ribattezzato per l'occasione «centro di detenzione temporaneo».
Anche i fatti che avvennero tra quelle mura sono sempre rimasti lontani, come appartati dal corpus del G8 e dei suoi cascami giudiziari, e stessa sorte ha avuto il processo, del quale si è parlato poco. Nella loro lunga requisitoria che si è conclusa ieri, i pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno suggerito in modo implicito i motivi di questa rimozione. Lo hanno fatto con una lista della spesa, un lungo elenco che ha occupato il tempo di due intere udienze, quelle del 25 e 26 febbraio.
«Per la giornata di venerdì, in particolare, citeremo il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana, il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati, lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, al quale sono stati divaricati anulare e medio fino a lacerare la carne; le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos Manuel Otero Balado, percosso tra l'altro sui genitali con un grosso salame ». «Per la giornata di sabato, in particolare: il malore di Katia Leone per lo spruzzo in cella di spray urticante.
Il malore di Panagiotis Sideriatis, cui verrà riscontrata la rottura della milza. Il pestaggio di Mohammed Tabbach, persona con arto artificiale. Gli insulti a Massimiliano Amodio, per la sua bassa statura. Gli insulti razzisti a Francisco Alberto Anerdi per il colore della sua pelle. Le vessazioni a David Morozzi e Carlo Cuccomarino, che vengono legati insieme e le cui teste vengono fatte sbattere l'una contro l'altra». «Per la domenica, in particolare: il malore di Stefan Brauer in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo. Il malore di Fabian Haldimann, che sviene in cella ove è costretto in posizione vessatoria.
L'etichettatura sulla guancia, come un marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz al momento del loro arrivo. La sofferenza di Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella non è neppure in grado di deglutire. Il disagio di Jens Herrmann, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non è consentito di lavarsi. La particolare foggia del copricapo imposto a Thorsten Meyer Hinrric, costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere, un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello».
Le parole possono fare male come bastonate. Lo ha ricordato il pm Petruzziello, elencando altri episodi, nel silenzio, interrompendosi spesso, per il disagio che le provocava quel che andava raccontando. Il ragazzo costretto a mettersi carponi per abbaiare come un cane e urlare a comando «viva la Polizia». L'agente che passa il manganello in mezzo alle gambe di un manifestante nudo, in piedi da ore contro un muro dell'infermeria: «Però, questo comunista non è male. Ha un bel corpo, adesso me lo faccio... sì, perché no? Allarga bene le gambe, compagno, perché ti faccio il c...». I pattuglioni che girano per le stanze ordinando di gridare «Che Guevara bastardo», «viva il duce». Le minacce più pesanti erano per le donne, ha sottolineato il magistrato. «Entro stasera vi scoperemo tutte», «Avrebbero dovuto stuprarvi come in Kosovo».
Bolzaneto è stato questo. «L'umiliazione, l'annientamento delle persone recluse» ha detto Ranieri Miniati. «Un luogo dove per tre interminabili giorni sono stati sospesi i diritti umani». Nelle 157 udienze di un processo durato due anni sono state ascoltate quasi quattrocento persone. L'attendibilità dei testimoni, e dei loro racconti, non è mai stata messa in discussione dai difensori dei 45 imputati, che anzi hanno — almeno indirettamente — confermato molti di quei resoconti. Guardie carcerarie, poliziotti, carabinieri, alcuni medici. Se i sette disegni di legge che dovrebbero adeguare il nostro ordinamento alle convenzioni internazionali fossero stati approvati in tempo, avrebbero rischiato fino a dieci anni di carcere. Invece, il reato di tortura non è ancora previsto dal nostro ordinamento. E la prescrizione cancellerà tutto tra un anno. Ma a qualcosa il processo è comunque servito. Il lungo elenco di abomini compiuti da uomini dello Stato ha reso evidenti i motivi della rimozione. Nel loro esplicito simbolismo, i fatti di Bolzaneto sono disturbanti, indigeribili. Meglio tenerli lontani allora, come la caserma sulla collina.

Corriere della Sera 12.3.08
Filosofia Un libro dedicato al pensatore cattolico Gustavo Bontadini riapre la discussione sulla riflessione del suo maggior allievo
Severino: la mia autodifesa
Nietzsche e i credenti uniscono Essere e Nulla. Io riparto da Parmenide
di Emanuele Severino

Emanuele Severino (Brescia 1929, nella foto), fu allievo di Bontadini. Nel 1962 diventa docente all'Università Cattolica e due anni dopo esce il suo «Ritornare a Parmenide», che provoca il suo allontanamento.
Ha poi insegnato a Venezia e al San Raffaele di Milano

Nietzsche crede che ad eccezione di Eraclito e di lui stesso tutti i filosofi si siano posti al seguito di Parmenide. Appunto per questo intende operare il «superamento dei filosofi ». E Karl Popper — filosofo della scienza e promotore del rinnovamento del neopositivismo logico — ritiene a sua volta che la maggior parte dei grandi fisici del nostro tempo (Boltzman, Minkowski, Weil, Schrödinger, Gödel, Einstein) si muovano sostanzialmente nell'ambito del pensiero parmenideo; sebbene a sua volta propenda per una interpretazione non parmenidea del mondo fisico, come quella di Heisenberg. Platone chiamava Parmenide «venerando e terribile», come un dio. E l'unico strappo di Aristotele al proprio sempre misurato linguaggio riguarda Parmenide: le sue dottrine, dice, sono «follie».
Ma le cose non stanno così. Tutti i filosofi, dopo Parmenide, hanno mirato a «superarlo»; la logica dei fisici non ha nulla a che vedere con il suo pensiero, la cui potenza è stata sempre, in ogni campo, misconosciuta. Sono più di cinquant'anni che vado mostrandolo. Molto pochi, se si tien conto della posta in gioco.
È uscito ora, pubblicato da Vita e Pensiero, Bontadini e la metafisica, il volume degli atti del Congresso tenutosi a Venezia per il centenario della nascita del mio indimenticabile maestro, tra i maggiori pensatori del nostro tempo e cattolico. Anche la maggior parte degli autori del volume (circa seicento pagine) sono cattolici; ma molti di essi si rammaricano che — quanto al tratto
filosofico essenziale — nell'ultima fase della sua vita il maestro dell'Università Cattolica sia venuto «dalla mia parte» (se vogliamo usare, per far presto, questa pessima e impropria espressione). Ho apprezzato il Cardinale Scola, allievo di Bontadini e anche mio, che invece nella tavola rotonda a cui partecipammo, pur dissentendo da quel tratto essenziale con competenza e modestia, ha evitato di rammaricarsi. Il gran tema è comunque, anche qui, la misconosciuta potenza del pensiero parmenideo.
Mi sembra quindi molto importante la posizione di Erwin Tegtmeier, già collaboratore di Habermas e di Albert. Dalla fine degli anni Novanta egli percepisce l'irripetibile potenza del pensiero di Parmenide. In Scenari dell'impossibile — un recente libro a più voci e di grande interesse, che per molti aspetti mi riguarda — Tegtmeier presenta un saggio intitolato Il problema del divenire in Parmenide e la sua soluzione.
Agli inizi degli anni Ottanta era uscita in Germania, presso Klett-Cotta, la traduzione del mio libro Essenza del nichilismo, alcui centro sta lo scritto intitolato Ritornare a Parmenide, del 1964, a partire dal quale è incominciata la pluridecennale discussione tra Bontadini e me. Tegtmeier si muove nell'ambito dell'ontologia analitica contemporanea di matrice anglosassone, ma anche per lui la negazione parmenidea del divenire è rimasta inconfutata ed è inconfutabile — quando invece è convinzione comune che già Platone e Aristotele avessero definitivamente chiuso i conti con Parmenide. Perché niente di meno di questo si tratta: Parmenide mostra che «ciò che è», l'«essente », non può provenire dal «non essente» e nel «non essente» non può dissolversi; e poiché il mondo è l'apparire dell'incominciare ad essere e del cessare di essere, da parte delle cose, le cose del mondo non possono essere degli «essenti» e il loro apparire è solo illusione.
Il pensiero essenziale — tanto più avvolto da nubi impenetrabili e tanto più lontano dalle nostre abitudini concettuali, quanto più esso è luminoso, semplice e vicino - è quello in cui appare l'impossibilità che l'«essente » esca dal niente e vi faccia ritorno: quello in cui appare il perché di questa impossibilità. Possiamo indicare così questa oscura semplicità: se l'«essente» provenisse da un passato in cui esso non è (ossia è niente) e andasse in un futuro in cui esso torna a
non essere, allora, in assoluto, l'«essente» sarebbe «non essente» cioè non sarebbe «essente». Stando al comune modo di pensare possiamo affermare che, in assoluto, la casa non è casa, la stella non è stella, l'albero non è albero? No — si risponde subito. Ma allora non si può nemmeno affermare che l'«essente» non sia «essente» — anche se in questo modo ci si avvia lungo un cammino che porta molto lontano dal comune modo di pensare, cioè al luogo i cui appare che l'«essente» è eterno.
Mi sembra però che Tegtmeier sostenga sì l'opposizione tra l'«essente» e il «non essente » (cioè sostenga che l'«essente» non è il «non essente»), ma poi la lasci di fatto valere come un semplice postulato, nel senso dei postulati da cui procedono ad esempio la logica, la matematica, la fisica e che ormai esse stesse (almeno nelle loro forme più evolute) non considerano più come verità innegabili. E invece quell'opposizione non è un semplice postulato, un dogma, una fede. La fretta con cui si risponde «no» alla domanda se la casa sia non casa, o la stella sia non stella, è soltanto la volontà che le cose stiano così. All'interno di quella fretta, il «principio di non contraddizione» (che appunto afferma in generale l'opposizione tra ogni cosa e ciò che è altro da essa) è soltanto la volontà che la realtà non sia contraddittoria. Se ci si ferma a questa volontà si capisce perché Nietzsche giunga ad affermare che i «supremi principi» della conoscenza umana (quale, appunto, il «principio di non contraddizione») sono soltanto degli «imperativi» che, certo, servono a vivere, ma che certamente non sono verità innegabili.
Intendo dire che l'opposizione tra l'«essente » e il «non essente» è come una stella che stia al centro del cielo, che però non ha il buio attorno a sé, ma brilla insieme alle altre stelle. Per restare in questa metafora (che dunque dice ben poco intorno a ciò a cui essa accenna), solo guardando il firmamento — cioè andando oltre Parmenide in modo essenzialmente diverso da come il pensiero dell'Occidente ha creduto di andare oltre di lui —, è possibile vedere che l'opposizione tra l'«essente» e il «non essente» non è semplicemente un postulato, un dogma, una fede, un «imperativo». Il firmamento corrisponde, al di fuori della metafora, a ciò che nei miei scritti è chiamato «struttura originaria del destino della verità». Questa struttura mostra (ma anche qui si tratterebbe di vederlo in concreto) che le cose del mondo non possono essere illusione, ma sono «essenti», e dunque sono eterne, tutte; sì che il loro variare non può essere inteso come il loro provvisorio sporgere dal nulla, ma come il comparire e lo scomparire degli eterni. Il «destino della verità» sta al di là di tutto ciò che si è pensato intorno alla verità e al destino, ma non è una «dottrina» inventata da qualcuno, sia pure egli un Dio, ma è il firmamento che da sempre appare nel più profondo di ognuno di noi.
In base alla fede nella creazione e annientamento delle cose Nietzsche ha argomentato l'impossibilità di ogni Dio. E rispetto agli amici di Dio, che condividono questa fede, la sua argomentazione è irrefutabile. (In base a questa stessa fede Nietzsche ha argomentato, anche qui in modo irrefutabile, la necessità dell'«anello del ritorno», l'«eterno ritorno» di tutte le cose). Amici e nemici di Dio hanno in comune quella fede che, essa sì, è l'autentica ed estrema follia. Ma anche nel più profondo del loro cuore brilla il firmamento del destino. Vicinissimo e insieme lontanissimo da esso, Parmenide lo chiama «il cuore, non tremante, della ben recintata verità».
Friedrich Nietzsche (sopra) e Karl Popper. In alto, un'incisione del 1518

Bibliografia. Allievi e seguaci del teorico italiano
Tra i numerosi libri e saggi, senza contare centinaia di siti in rete, che recentemente si sono riferiti al pensiero di Emanuele Severino ricordiamo, in relazione a questo suo articolo, la raccolta-omaggio di saggi Le parole dell'essere. Per Emanuele Severino, a cura di Petterlini, Brianese e Goggi (Bruno Mondadori, 2006, pp. 718, e 40.00). Né va dimenticato che lo storico tedesco Thomas Sören Hoffmann nel suo saggio Filosofia in Italia (Mariverlag, 2007, pp. 400, e 18) ha considerato Severino il solo pensatore degno di rilievo nel nostro Paese dopo Vico. Severino e la sua filosofia sono inoltre presenti in: Bontadini e la metafisica, a cura di Carmelo Vigna (Vita & Pensiero, 2008, pp. 584, e 35); Scenari dell'impossibile, La contraddizione nel pensiero contemporaneo, a cura di Francesco Altea e Francesco Berto (Il Poligrafo, 2007, pp. 308, e 25); Verità e prospettiva in Nietzsche, a cura di Francesco Totaro, (Carocci, 2007, pp. 230, e 20,50). Inoltre ha trattato l'argomento Salvatore Natoli, La mia filosofia (Edizioni ETS, 2007, pp. 136, e 12,00). Tra i volumi usciti recentemente o in via di pubblicazione, e connessi ai temi di Emanuele Severino, vanno infine ricordati: Ines Testoni, La frattura originaria.
Psicologia della mafia tra nichilismo e omnicrazia ( Liguori, 2008, pp. 356, e 25,50); Umberto Soncini, Il senso del fondamento in Hegel e Severino (è un saggio che vedrà la luce nel 2008).
r.c.

Corriere della Sera 12.3.08
Canaletto e Bellotto. Cartoline di famiglia
di Francesca Bonazzoli

Giovanni Antonio Canal, detto «il Canaletto», nacque a Venezia nel 1697. Iniziato dal padre alla scenografia, fu influenzato in seguito dalle opere di Van Wittel edi
Carlevarijs. È considerato l'artefice della grande fortuna del vedutismo veneto del Settecento. Morì nel 1768
Veneziano, classe 1721, Bernardo Bellotto era figlio di una sorella del Canaletto e dallo zio apprese l'arte di ritrarre vedute di città e di paesi. Si distinse dal maestro per una visione più attenta ai particolari, a tratti lievemente malinconica. Morì a Varsavia nel 1780

Quella di Antonio Canal, detto il Canaletto, e di suo nipote Bernardo Bellotto sembra una storia di oggi: tecnicamente bravissimi, originali nei temi, moderni nell'uso della camera ottica che si inseriva nelle novità della cultura illuministica, i due pittori furono però costretti a lavorare per i collezionisti stranieri e persino a emigrare per vivere.
La Venezia dei parrucconi, che aveva i suoi tromboni ben piazzati anche nell'Accademia di Pittura e di Scultura, continuava a professare la vecchia teoria che assegnava la superiorità alla pittura di figure e si teneva attaccata agli ultimi fasti del Barocco con i suoi trionfi di colori pastello, riccioli, volute e fiabe mitologiche che Tiepolo elargiva a piene mani senza più nemmeno crederci lui stesso. Per fortuna gli inglesi, più presi dalla razionalità di Newton che dalle teatrali messe in scena dei preti, intuirono nelle vedute ottiche di precisione del Canaletto la ricerca di una verità che si basava sullo stesso metodo della nuova scienza sperimentale , autonomo da ogni ipotesi filosofica o teologica.
Così Canaletto, vendendo soprattutto i suoi quadri ai facoltosi turisti del Grand Tour e tramite il console inglese a Venezia, Joseph Smith, che li smistava ai vari duca di Bedford, duca di Richmond, conte di Wicklow, conte di Carlisle, duca di Northumberland, poté vivere bene nonostante i rancorosi colleghi che lo ammisero all'Accademia solo nel 1763, a 66 anni, quando ormai non gliene mancavano che cinque alla morte.
A 49 anni partì per l'Inghilterra (dove rimase dieci anni), mentre il Bellotto, figlio di una sua sorella, a 26 anni emigrava a Dresda, dove, alla corte del re Augusto III di Sassonia, dipinse i suoi capolavori e spese quasi vent'anni della propria vita per andare poi a morire a Varsavia alla corte di Stanislao Augusto Poniatowski.
Ecco perché i quadri e i disegni più belli dei due vedutisti veneziani si trovano all'estero, in collezioni private e musei, da cui sono stati richiamati a Torino (in tutto un centinaio di lavori fra tele e carte) per la mostra di Palazzo Bricherasio che mette a confronto serrato zio e nipote nel tentativo di dissipare i dubbi attributivi che ancora restano su diverse opere risalenti al periodo in cui i due lavoravano fianco a fianco.
Non sono pochi i lavori ancora classificati sotto il nome di Canaletto che la curatrice Bozena Anna Kowalcyz propone di restituire al nipote e del resto lo stesso Bellotto (che era conosciuto in Germania come «il Canaletto ») non si era certo preoccupato di distinguersi dallo zio visto il successo di cui questi godeva: una delle due vedute di Torino dipinte per Carlo Emanuele III, per esempio, è firmata sia con il suo nome e cognome che con il soprannome «il Canaletto ». Certo, quando poi i due si separarono, nel 1743, la loro differenza si farà grande ed evidente, ma già negli esordi di Bellotto si possono scovare quegli indizi che diventeranno la sua cifra stilistica: in particolare quella sua predilezione per le ombre scure che lo faranno definire «l'ombra nera di Canaletto».
Se la Venezia del Canaletto, infatti, ha i toni luminosi di una festa galante, quella di Bellotto suscita emozioni più austere, come la musica di Bach in confronto a quella di Vivaldi. Nel giovane nipote non ci sono mai quel languore e quella febbre che in Canaletto svaporano nella dolcezza di un pomeriggio afoso o in un attimo frizzante di felicità. La luce del Bellotto è sempre fredda, come in un terso mattino in montagna dove i cieli sembrano orli di cristallo. L'intonazione, poi, dall'indefinibile qualità argentata, ha un che di malinconico, con quelle ombre profonde, bistrate, incise con la punta di legno del pennello per farne dei solchi neri dove la luce batte in modo irregolare e vibrante restituendo pesantezza, volume e spessore alle cose, quasi persino il loro odore.
Lontano dallo zio, la metamorfosi che Bellotto compie nella solitudine del Nord Europa, si fa poi totale, fino ad abbandonare la veduta da cartolina e come una farfalla che liberi le ali dalla sua crisalide, Bellotto allenta lo stile calligrafico e diligente per aprirsi a un fraseggio monumentale. Le grandi tele di Varsavia sono un corpo a corpo con la natura come lo ingaggeranno solo i francesi nell'Ottocento. Eppure, come già lo zio Canaletto fu assediato dal Barocco, così Bellotto lo sarà dal nuovo gusto neoclassico: lui che registrava solo ciò che vedeva verrà alla fine considerato inferiore rispetto ai pittori che davano priorità a fantasia e invenzione e finirà per trovarsi nella stessa situazione di Monet cent'anni dopo quando anche di lui Cézanne disse: «Non è che un occhio».
In un'Italia ancora in preda ai fremiti del barocco, la pittura scientifica di zio e nipote fece successo tra i viaggiatori del Nord. Ora un'esposizione mette a confronto il loro talento
Due visioni del Ponte di Rialto A sinistra il dipinto del Canaletto con i toni luminosi, a destra quello del nipote Bernardo Bellotto: la luce è più fredda e austera, frutto dei lunghi soggiorni nel Nord Europa

Corriere della Sera 12.3.08
L'altra mostra. I manoscritti del musicista che collaborò con il pittore veneziano
Vivaldi, gli ultimi fuochi del teatro
di Gianfranco Formichetti

Palazzo Bricherasio ospiterà dal 23 aprile all'8 giugno anche una mostra dedicata ad Antonio Vivaldi, nella quale verrà esposta una parte dei suoi manoscritti conservati nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (27 volumi con circa 450 composizioni). Gianfranco Formichetti, autore del libro «Venezia e il prete col violino, vita di Antonio Vivaldi» (Bompiani) spiega il legame tra il compositore e il Canaletto: due stelle complementari nello splendore della Serenissima del '700.

Giovan Antonio Canal, detto il Canaletto, lavorò dal 1717 al 1720 al Teatro Sant'Angelo insieme al padre Bernardo, nelle scenografie del palcoscenico gestito da Antonio Vivaldi. Non tutti sanno che il Prete Rosso, protagonista assoluto della musica veneziana del primo Settecento, fu un brillante manager teatrale, capace di mettere in atto ogni strategia pur di ottenere successo.
Nel 1637 a Venezia era nato il San Cassiano, primo teatro per musica destinato a un pubblico pagante. Una novità assoluta per il mondo dello spettacolo. Nei libretti si sottolineava la spettacolarità della rappresentazione, la grandiosità delle scene, la bellezza dei costumi, la magnificenza delle macchine. Che lo sforzo imprenditoriale raccogliesse risultati sorprendenti si capì subito: nel giro di un quinquennio i teatri divennero quattro. E la concorrenza si fece accanita. Ogni gestore si preoccupava di organizzare un calendario in grado di riscuotere il massimo successo. La conquista del pubblico faceva riferimento a vere e proprie stagioni, con la speranza di quante più repliche possibili.
Il Sant'Angelo fu il laboratorio operistico di Vivaldi, con più di cinquanta melodrammi al suo attivo; quello più strettamente musicale fu l'Ospedale della Pietà, che cominciò a frequentare giovanissimo, nel 1703, appena ordinato prete. Aveva quasi subito smesso di dir messa, attratto più dalla musica che dall'altare.
Le «putte rosse» della Pietà erano le sue allieve. Per formare la sua orchestra aveva potuto fare una selezione tra un migliaio di orfanelle che il governo cittadino e la benevolenza dei nobili facevano vivere più che dignitosamente in questo «Ospedale», dove l'assistenzialismo si coniugava con la formazione professionale. Orchestra e coro allietavano con i loro concerti domenicali e festivi il bel mondo veneziano e i numerosissimi turisti ammaliati dalla Serenissima. La musica era una presenza costante e viva nella quotidianità lagunare. Le formazioni musicali trovavano spazio per esibirsi nelle numerosissime ricorrenze festive e celebrative. Quando Vivaldi salì alla ribalta della Laguna, la cultura dello spettacolo annoverava, oltre ai dieci teatri ufficiali, numerose case private che si trasformavano in «luoghi di recita e di musica», a volte perfino clandestini. Al ponte di Rialto, nel mercato di frutta e verdura più importante della laguna, si potevano trovare banchi con ceste piene di spartiti musicali. Ben diciassette erano a Venezia le stamperie specializzate in questo settore.
Lo scenario europeo mostrava le avvisaglie del grande rivolgimento che avrebbe caratterizzato il Settecento. I Veneziani sembravano coscienti della fine di un'epoca che li aveva veduti protagonisti e al cambiamento che li stava emarginando si apprestavano a opporre quel fiorire della società dello spettacolo che tanto avrebbe colpito i visitatori. Capitale del bengodi intellettuale, in quegli anni Venezia divenne una sorta di grande ammaliatrice del bel vivere europeo. Capace di offrire un connubio di arte e musica come nessuna città al mondo.

Corriere della Sera 12.3.08
Da un dipinto del Canaletto a una foto odierna: lo sguardo di uno scrittore
Venezia, già Disneyland 300 anni fa
Nel '700 non contava più nulla e puntò sull'immagine. Il destino dell'Italia?
di Tiziano Scarpa

Mettete a confronto queste due immagini. Apparentemente le differenze sono molte. I capannelli di uomini in tabarro e parrucca nel dipinto di Canaletto potrebbero essere nobili che tessono alleanze politiche a due passi dal Palazzo Ducale, prima di una votazione del governo della Serenissima. Quelli nella foto sono turisti che ascoltano una guida e rimirano il panorama della Giudecca sulla linea dell'orizzonte. Le navi che affollano il bacino san Marco nel dipinto di Canalettto trasportano merci, mentre i vaporetti contemporanei trasportano turisti. Il fermento produttivo odierno sembra ridotto alla manutenzione dell'esistente; le impalcature sulla cupola della Basilica della Salute e le gru non stanno costruendo nulla di radicalmente nuovo: restaurano. Quella di Canaletto è una città viva; quella della foto scattata in questi giorni è una città fossile. Eppure, le due immagini sono molto più vicine nella sostanza di quanto possano far pensare i tre secoli che le separano. La Venezia di Canaletto fa il primo passo di quell'itinerario storico che sta percorrendo ancora oggi. In queste due vedute è ben riassunta la sorte di una città del tutto speciale, ma forse anche il destino di un'intera nazione, l'Italia. Diventare un posto che a poco a poco venderà soltanto gite, vacanze, pellegrinaggi culturali, senza produrre nient'altro che la propria immagine.
Mentre Canaletto dipinge, in giro per gli oceani i grandi stati europei razziano, impiantano colonie, commerciano, accumulano ricchezze enormi. Venezia ha perso da tempo l'egemonia persino sul suo piccolo mare. Nel Mediterraneo orientale, le navi mercantili inglesi e addirittura tedesche sono più numerose di quelle veneziane. È in quei decenni che Venezia diventa una specie di laboratorio postmoderno ante litteram, un'avanguardia dell'intrattenimento: qualcosa a metà fra Las Vegas, Hollywood, Disneyland, Broadway, Pompei e una savana abitata da indigeni pronti a fare la danza della pioggia a comando davanti alle macchine fotografiche dei turisti. Venezia commercia sempre meno, ma si inventa una merce nuova: sé stessa. Comincia a vendere spasso, case da gioco, prostituzione, spettacoli di alto livello culturale, concerti e opere liriche nei primi teatri al mondo aperti pubblicamente a spettatori paganti. Venezia inventa la società dello spettacolo.
È una strategia di sopravvivenza. Ma per non morire il prezzo da pagare è alto. Il drastico ridimensionamento delle ambizioni politiche è arcinoto; dopo la scoperte del Nuovo Mondo, che cosa è successo lo sanno anche i bambini delle elementari. In arte, la città diventa sempre più autoreferenziale. Finora abbiamo dato uno sguardo ai dettagli del dipinto di Canaletto. Ma domandiamoci innanzitutto perché esiste un'immagine simile, che cosa l'ha prodotta. Prima di Canaletto, Venezia aveva espresso artisti dal profondo contenuto filosofico, pittori teologi che avevano dato la loro interpretazione personale delle ideologie al potere: Carpaccio, Bellini, Giorgione, Tiziano, Veronese. Da Canaletto in poi invece Venezia sembra ripetere sempre la medesima parola: Venezia, Venezia, Venezia. I committenti forestieri richiedono all'arte e alla cultura di questa città di recitare sé stesse. Dalle architetture agli abitanti, tutti debbono mettersi in posa per il souvenir. Non è un caso che Canaletto utilizzi la camera ottica, un dispositivo per schizzare con maggiore fedeltà il panorama: è il capostipite delle migliaia di fotografi turisti, il fondatore del paesaggio come cartolina. All'artista non si richiede più la potenza di un'idea visionaria, ma una rappresentazione quanto più accuratamente dettagliata, in modo che il visitatore forestiero possa indugiare nelle decine di piccoli particolari, godendosi il colore locale della città, le sue idiosincrasie graziosamente complesse.
Chi è che sta guardando il dipinto di Canaletto? Qual è lo sguardo che, pagandola, ha generato questa immagine? Rispondere che si tratta dei prototuristi, i ricchi girovaghi del Gran Tour, non basta. È la nuova civiltà dell'Europa continentale che contempla Venezia, sentendosi ormai superiore a questa città decaduta economicamente e politicamente: può permettersi di chiederle di mettersi in posa, di impersonare tutte le sue peculiarità sociali così deliziosamente bizzarre, così innocuamente sorpassate. In una parola: la esotizza. Questo quadro è una vendetta dell'Europa su Venezia.
Un altro dettaglio accomuna il dipinto e la foto. È uno dei simboli massimi della venezianità, elegantissimo o sommamente lezioso, a seconda dei gusti: la gondola. Mezzo di trasporto funzionale, capolavoro di ingegneria nautica, all'epoca di Canaletto ha già cominciato a intridersi delle caratteristiche folcloristiche che finiranno per avere il sopravvento. Che meta offre, oggi, la gondola, se non sé stessa? I veneziani come me obietteranno giustamente che esistono ancora le gondole che per cinquanta centesimi di euro ti portano dall'altra parte del Canal Grande, in due minuti. Ma le gondole che tutto il mondo conosce sono quelle che offrono un'esperienza estetica quasi autistica: non servono a trasportare da un punto all'altro, ma a far provare l'emozione di andare in gondola, c'est tout. È il destino di Venezia, o dell'Italia intera?
❜❜ L'Europa si vendicò della Serenissima e la costrinse a mettersi in posa. Nacque così l'idea di una città postmoderna Ieri e oggi
Il bacino di San Marco visto dal Canaletto e fotografato due giorni fa (Andrea Pattaro/Vision)

Repubblica 11.3.2008
Bertinotti: "Sarebbe una catastrofe per tutti se la sinistra scomparisse nel nostro Paese"
"Il '68 scalata al cielo, riproviamoci"
Michele Placido gira un film: "Pasolini sbagliò a considerare vittime i poliziotti"

ROMA - «Caro Mario, qui ci tocca rifare il ‘68». Con qualche anno in più ma con la certezza che i tempi stanno cambiando. Altro che amarcord. Fausto Bertinotti, allora, ne aveva 28, e già stava al tavolo delle trattative dei metalmeccanici con i «padroni», i Carli, i Mortillaro. Mario Capanna, 23 anni, era il leader degli studenti della Statale di Milano, e qui a Valle Giulia dove tutto cominciò non scese mai. Ci mette piede adesso per la prima volta, 40 anni dopo, per presentare il suo «Il Sessantotto al futuro», e si emoziona. Ma che forza queste foto uscite dai cassetti sugli scontri con la polizia quel dì ad Architettura, mica solo quella con Giuliano Ferrara, «facciamone subito un catalogo, facciamole conoscere, questa è storia».
E che storia, racconta Michele Placido che su Valle Giulia e il ‘68 sta girando un film. Ma lui all´epoca non faceva il poliziotto, non stava dall´altra parte della barricata? «Sbagliato, io la divisa la portavo un anno prima, nel ‘68 già occupavo l´Accademia di arte drammatica guidato dal grande Gian Maria Volontè. E Pasolini sbagliava a considerare i poliziotti vittime». «A Valle Giulia hanno picchiato duro, è stato come a Genova. Fra un po´ verranno fuori i documenti. Gli studenti bloccati nei corridoi, sotto le manganellate. Non è stata una cosa da niente, quei ragazzi hanno avuto tanto coraggio. Quella fu la polizia più repressiva d´Europa, ad Avola sparò ad altezza d´uomo». A dimostrazione il regista del film, Silvano Agosti, si era portato tre mini-docu d´epoca, non l´operatore però, per cui i ventenni che gremiscono l´aula magna non possono rivedere i padri sulle barricate nella loro facoltà. Anche Agosti è convinto che un altro ‘68 sia alle porte, «il riflusso ormai è finito». Insomma, di quell´»ultima scalata al cielo», come la chiama il presidente della Camera, i fiori sarebbero pronti di nuovo a sbocciare. Bertinotti cita Franco Fortini, scrittore caro a quella generazione, «l´Internazionale fu vinta e vincerà, il ‘68 fu vinto e le sue istanze vinceranno». Ha seminato «progresso e modernità», pure se «noi volevamo la rivoluzione, il socialismo, mica solo il divorzio e l´aborto». Paradigma dell´epoca: l´operaio di Mirafiori che nella trattativa per le 150 ore manda sotto choc il padrone, «che ci voglio fare? Voglio studiare il clavicembalo». Erano tempi in cui «il capo della Federmeccanica non veniva candidato da un partito che non si dice di destra», ma Bertinotti è certo: dopo Seattle, Porto Alegre, Genova, il ‘68 è vivo. È un nuotatore, immagina Capanna: per anni sott´acqua ma prima o poi deve tornare su a riprendere fiato. «E ci siamo, lo fiuto nell´aria».
(u. r.)

martedì 11 marzo 2008

l’Unità 11.3.08
Il professor Roberto D’Alimonte: se Udc e Sinistra Arcobaleno superano la soglia dell’8% sarà una lotteria
«A Palazzo Madama non vincerà nessuno»
di Eduardo Di Blasi

Per spiegare i disastrosi esiti che la legge elettorale potrebbe avere nella composizione del Senato, mettendo a rischio, per la seconda tornata consecutiva, la presenza di una maggioranza politica, il professor Roberto D’Alimonte usa due metafore: la lotteria e il totocalcio. «Nella misura in cui la Sinistra Arcobaleno e l’Udc - riflette - superano la soglia dell’8% al Senato, la lotteria diventa più imprevedibile. Potrebbe anche finire senza vincitore».
Perché indica la cifra dell’8%?
«Perché l’8% è la soglia per cui al Senato, in ogni regione, scatta l’attribuzione del seggio».
Quindi un partito come l’Udc che negli ultimi sondaggi è dato vicino all’8% al livello nazionale...
«Prende seggi nelle regioni dove supera questa cifra. Come la Sa. Questo riduce il plafond di seggi dei due partiti maggiori. In particolare del partito atteso come vincitore, il Pdl con i suoi alleati».
Prende seggi sia al vincitore che al perdente...
«Sono due i meccanismi all’opera. Il primo avviene nelle regioni dove Berlusconi perde: i seggi destinati al perdente, invece di prenderseli tutti lui, come è successo due anni fa con la Cdl, deve dividerli con quei partiti che superano la soglia dell’8%. Questo riduce, ovviamente, il suo totale nazionale».
Nel caso di vittoria scatta il secondo meccanismo...
«Facciamo il caso del Veneto in cui Berlusconi dovrebbe vincere. Nel Veneto dovrebbe prendere, a mio avviso, 15 seggi. Il premio sono quattordici, più uno. Ma se l’Udc supera l’8% è molto probabile che il quindicesimo seggio non scatti, e lo prenda l’Udc».
Secondo il suo scenario Berlusconi per ottenere una maggioranza di 10 senatori dovrebbe lasciare al centrosinistra solo Emilia, Toscana, Umbria e Basilicata...
«...E prendere un seggio in più del premio in Veneto, Sicilia e Lombardia. Ma per fare un esempio, se Liguria e Marche, assieme alle regioni storicamente a sinistra come Emilia, Toscana, Umbria e Basilicata, andassero al Pd, Berlusconi avrebbe un solo seggio di vantaggio».
Lotteria sembra la parola più adatta per questa legge elettorale...
«Così come è congegnata, con 17 premi di maggioranza su 20 regioni, o c’è una tendenza molto forte a favore dell’uno e dell’altro, oppure entriamo in una giostra che può dare solo esiti precari. Avere 17 premi regionali significa che per ottenere il 55% dei seggi (a tanto ammonta la somma di tutti i premi), una coalizione dovrebbe vincere in tutte e 17 le regioni. Basta che perda in una regione e la soglia scende».
Pensando che i partiti conservano le proprie roccaforti si va verso maggioranze risicate...
«Non è molto difficile immaginare come andrà a finire anche questa volta. In definitiva è come il totocalcio».
In che senso?
«Ci sono delle fisse per gli uni e per gli altri. Berlusconi ha delle fisse su Veneto, Lombardia, Sicilia, Campania, Puglia. Poi ci sono delle fisse per il centrosinistra: Emilia, Toscana, Umbria, Basilicata. Il resto è fatto di scenari».
Il discorso è ulteriormente complicato dal fatto che non ci sono più due poli ma almeno quattro soggetti di media stazza...
«Esatto. Ci sono altri due contendenti per i seggi che vanno ai perdenti».
Difficile anche superare la soglia per i seggi premio, viste le forze in campo...
«Superare i seggi premio sarà possibile solo se gli altri competitor staranno sotto l’8%».
Un partito di centro potrebbe recuperare voti in Veneto...
«Se l’Udc va sopra l’8% in Veneto Berlusconi non avrà il seggio in più rispetto al premio. Se non prende il seggio in più in Veneto, e prende dei seggi in meno in Emilia e Toscana (a vantaggio della Sinistra Arcobaleno), alla fine si ritrova in una situazione precaria».
Sembra però che l’Udc sia in salita.
«Quando Berlusconi aveva messo l’Udc con le spalle al muro, credo avesse dei sondaggi che davano il partito di Casini basso».
I sondaggi lo danno intorno all’8%...
«Questo sicuramente mette Berlusconi in difficoltà. L’Udc all’8% diventa un fattore rilevante nella competizione elettorale».

l’Unità 11.3.08
Italia e Spagna
di Gian Enrico Rusconi

Zapatero ha saputo declinare in maniera convincente socialismo con il concetto di cittadinanza, tanto è vero che il plusvalore nella sua politica è stato l’aver puntato sui diritti civili, che noi leghiamo al tema, cruciale, della laicità. E lo ha fatto senza sentire per questo la necessità di mettere in naftalina il termine socialista; una "necessità" che non è sentita neanche un po’ anche in altre democrazie europee avanzate come quelle francese e tedesca. Solo da noi il termine socialista ha connotati vagamente sospetti. È una patologia politica grave del nostro Paese. Lo dico polemicamente perché non dovrebbe essere così. D’altro canto, non vedo proprio perché un tema classico del socialismo democratico, quello dell’eguaglianza sociale, debba essere messo in conflitto con una dimensione diversa, ma non per questo necessariamente contrapposta, che è quella delle libertà individuali. Nella sensibilità di oggi l’accento è più spostato sul tema dei diritti della persona, e Zapatero ha saputo coglierne la portata soprattutto tra le giovani generazioni, ma non per questo si deve chiudere gli occhi di fronte ad una questione cruciale come resta quella della lotta a vecchie e nuove povertà.
La grande lezione che emerge dall’esperienza politica e di governo di Zapatero, quella che mi auguro Walter Veltroni recepisca, è di avere coraggio e ancora coraggio nel portare avanti la battaglia della laicità. Coraggio nel non farsi intimidire da chi evoca il bavaglio imposto ai cattolici. Ma quale bavaglio o occupazione brutale della sfera pubblica: il sorridente, tranquillo Zapatero non ha nulla del mangiapreti. In Spagna nessuno ha tappato la bocca ai cattolici, ma neanche abdicato al diritto-dovere di difendere la laicità dello Stato. Di questa difesa della laicità l’Italia avrebbe un gran bisogno».

l’Unità 11.3.08
Mosè e King Kong discutono di Darwin
di Enrico Alleva e Daniela Santucci

Ipotizzare l’esistenza di un essere intangibile (...) non facilita la comprensione dell’ordine che troviamo nel mondo tangibile.
Albert Einstein, in «Pensieri di un uomo curioso»

VERSO IL BICENTENARIO Negli ultimi anni le teorie evoluzioniste hanno creato qualche imbarazzo tra gli esperti... Il saggio di Michele Luzzatto è un libro utile per chiarirsi le idee e per capire, ad esempio, come avviene la selezione sessuale

Che in Italia il darwinismo sia divenuto, segno dei tempi, materia di conflittualità non è un bel divenire. Anche Giovanni Paolo II, una volta riabilitato Galileo Galilei, si era limitato a una placida e post-sacrale ammirazione per la spiegazione darwiniana del mondo dei viventi: lasciando la spiritualità dell’uomo ai credi personali.
È appena uscito in libreria il bel saggio Preghiera darwiniana del pervicace darwinista piemontese Michele Luzzatto (Cortina editore), editor scientifico per la saggistica scientifica e le Grandi Opere presso la prestigiosa casa editrice Einaudi che già annovera molti testi di biologia evoluzionistica e di storia della scienza.
La preghiera luzzattiana è stata letta in pubblico al Museo di Storia Naturale di Milano, nella festosa cornice del Darwin day milanese, in questo febbraio 2008. Anno particolare proprio perché nel 2009 ricorrerà il secondo centenario della nascita di Carlo Darwin, ma anche (evento non meno importante) compirà 150 anni l’opera darwiniana maggiormente importante proprio perché più «scatologica»: fu infatti allora che venne pubblicata Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l’esistenza, libro che sconvolse il modo di vedere la natura da pare dell’uomo colto: anche se ebbe molti lettori «poco colti», dato che il «compare» di Carlo Darwin - Thomas Henry Huxley, detto il suo mastino - si piazzava in tempi ottocenteschi ritto a concionare agli operai su un carretto all’uscita delle fabbriche britanniche per portare al popolo e al «volgo» la «divulgazione» più diretta della prospettiva analitica darwinista (democrazie intellettuali di altri tempi).
Ormai da alcuni anni il compleanno di Darwin (12 febbraio) è un evento festeggiato in parecchie città italiane. Numerose ormai partecipano le scuole e alcuni recenti attacchi al darwinismo hanno invece sortito l’effetto «anticorpale» di coinvolgere i migliori studiosi italiani dell’evoluzionismo a tenere affollate conferenze proprio in quel giorno originale. Una celebrazione divenuta oramai consueta, e che è augurabile che si allarghi ad altre città e cittadine italiane.
Diamo notizia che il ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, arguto e diligente direttore, in anni passati, della rivista La Nuova Ecologia (dove il darwinismo evoluzionista veniva coniugato con temi più prettamente ambientalisti) ha comunicato l’emissione, per il 2009, di un francobollo commemorativo per la incipiente celebrazione darwiniana. Ringraziamone la competente Commissione filatelica.
Dicevamo di questa preghiera darwiniana di Luzzatto, che ha commosso il pubblico milanese nella calda e partecipata recitazione di Lella Costa. Un bell’evento, che resta nella storia recente dell’urbe meneghina.
A Milano è il Museo comunale di Storia Naturale la sede che si è prodigata in questi anni nella celebrazione del Darwin day: per ironia della sorte, e per nemesi, è Ilaria Vinassa de Regny, nipote di un celebre geologo ben poco darwinista, a fungere da prorompente madrina di queste attività celebrative.
Il libro di Luzzatto ha un tono precipuamente biblico. Ci leggiamo: «Dove è Dio? Dove è Dio!? Che disegno ha? Che scopo ha? Perché lo ha fatto?» (pag. 24). «A Londra, al ritorno dalla passeggiata allo zoo, Darwin ragiona nervosamente a tavolino. Allora: qui c’è Willy, laggiù i fuegini e ancor più in là Jenny l’orango» (pag. 32). Con uno stile da esperto scrittore teatrale, il biologo Luzzatto, allievo dell’accademico dei Lincei Aldo Fasolo, fa parlare rabbini e darwinisti, Cartesio e Richard Owen, Giacobbe e King Kong. C’è anche la moglie di Darwin, Emma, fideisticamente credente in un Sommo Artefice. Compare anche Mosè.
Nella bella Prefazione del filosofo Giulio Giorello, e che si intitola Il delitto di Charles Darwin, viene citato anche James Joyce: vi si parla dell’imbarazzo consapevole che il darwinismo ha creato nel mondo degli esperti, immediatamente dilagando in una miriade di lettori, fin da subito, l’Origine delle specie fu infatti, per i suoi tempi, un best-seller assoluto, rapidamente tradotto in innumerevoli lingue.
Va notato che questo saggio di Luzzatto esce in una curiosa e stimolante collana che annovera autori come James Hillman, Giorgio Celli, Humberto Maturana, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Gregory Bateson, Enzo Tiezzi. Jean Paul Sartre, Franco Basaglia, Edgar Morin. Un’insalata mista di autori e di pensieri davvero inusuale nel panorama ben più rigido dell’editoria italiana.
Questo di Luzzatto è un libro utile, da leggere tutto di un fiato, come una sorta di libro di preghiere. Va letto da chi ha fiducia nel darwinismo: ma anche (Crozza ci perdoni) da chi nutre qualche piccolo o grande dubbio sulla potenza analitica del mondo dei viventi che Darwin utilmente propone.
Parla di alcune delle caratteristiche più classiche del darwinismo, ma anche di alcuni difficili corollari: come il problema (pag. 44) della selezione sessuale. Perché mai un pavone dovrebbe infatti cercare di rubare l’appetitosa pavonessa a un altro pavone maschio? Non sono in effetti membri di una medesima specie: dunque esseri che lottano assieme,non in competizione, per la sopravvivenza di tutti i pavoni del pianeta terra? Luzzatto ne fa motivo di riflessione quasi biblica, ma ne fornisce una spiegazione fortemente convincente. E sottilmente darwiniana. La selezione seleziona il migliore pavone, anche fra i confratelli pavoni.
È augurabile che questo saggio, da recitare ad alta voce e tutto di un fiato, venga utilizzato per le incipienti celebrazioni del bicentenario darwiniano. O che possa essere letto nei tanti Darwin day che si terranno in giro per l’Italia nella data fatidica del compleanno darwiniano. Sarà utile complemento alle varie biografie, anche a firma di psicoanalisti e terapeuti che su Darwin hanno speculato negli ultimi due lustri. È anche corredato di una succinta, ma assai ben meditata, bibliografia. Per ulteriori, augurabili, approfondimenti.
Non che i volumi darwinisti editi in Italia degli ultimi anni siano stati scarsi, anzi. Utile complemento ne potrebbero essere due altri agili volumetti, particolarmente adatti per insegnanti e per studenti: L’evoluzione umana: ominidi e uomini prima di Homo sapiens del noto antropologo dell’Università di Roma «Sapienza» Giorgio Manzi (Il mulino serie «Farsi un’idea», 2007) e il più pugnace In difesa di Darwin: piccolo bestiario dell’antievoluzionismo all’italiana del filosofo della scienza dell’Università degli Studi di Milano Bicocca Telmo Pievani (Bompiani, Agone 2007).
Insomma, il 2008 è l’anno della preparazione al successivo, grande «Buon Compleanno, Darwin» che vedrà nel 2009 mostre tematiche e riflessioni filosofiche in giro per il mondo. Epicentro, come fu per il 1982 (ricorrenza della morte del Nostro), sarà la molto darwiniana Cambridge University. Dove i reperti raccolti a bordo del famoso brigantino Beagle sono gelosamente custoditi.
Là, nel luglio del prossimo anno, fastose e festose saranno le celebrazioni, previste con un colossale convegno che già da vari anni i conterranei britannici di Darwin vanno allestendo. Speriamo che l’Italia non sia da meno.

l’Unità Roma 11.3.08
Il ’68 e la contestazione raccontata al cinema
al Trevi per due settimane «Schermi in fiamme»
di Federico Pedroni


Due anni fa la Cineteca Nazionale organizzò una rassegna allo scopo di indagare, scandagliare, riportare alla memoria il cinema italiano degli anni della contestazione. Ora, da domani al 25 marzo alla Sala Trevi, si costruisce un seguito a quella ricognizione. "Schermi in fiamme" offre due settimane di proiezioni, incontri, dibattiti che cercheranno ancora una volta di analizzare come il clima di cambiamento di quegli anni (dal '66 al '75 con l'ovvio epicentro del '68) è stato raccontato al cinema. Accanto ai principali registi che canalizzarono il sentimento del tempo nelle loro opere - da Bellocchio a Bertolucci, dai fratelli Taviani a Liliana Cavani - agivano infatti moltissimi cineasti oggi purtroppo dimenticati che sentirono la necessità di testimoniare i cambiamenti in atto nella società. Il cinema italiano di quegli anni si dimostrò vitalissimo - nelle sue molteplici forme e contraddizioni, dall'avanguardia al film di genere - onnivoro e sfaccettato come era quel periodo. Si inizia domani sera con un film manifesto del regista che più di ogni altro incarnò la figura dell'intellettuale militante, non organico e pronto a cogliere con la sua sensibilità i cambiamenti radicali in corso nella nostra società: Pier Paolo Pasolini. "Teorema" racconta l'insinuarsi di uno strano studente in una famiglia borghese tradizionale, una presenza che affascina e destabilizza l'ordine costituito delle cose. Il film, che come osserva Paolo Mereghetti mescola suggestioni bibliche a influenze psicoanalitiche, è una sorta di manifesto poetico dell'epoca e resta un'opera tra le più originali dell'artista friulano nonostante l'eccessivo simbolismo ideologico.
Nei giorni successivi sarà possibile riscoprire film poco conosciuti di autori celebri - "I sovversivi" di Paolo e Vittorio Taviani, "I cannibali" di Liliana Cavani, "L'urlo" di Tinto Brass, il bellissimo "La circostanza" di Ermanno Olmi, "Lettera aperta a un giornale della sera" di Citto Maselli - e cogliere l'occasione di rivederli accanto alle opere invisibili dei cineasti sperimentali (Alberto Grifi, Paolo Brunatto, Mario Schifano e molti altri) a cui la retrospettiva dedica una sezione a parte. Senza dimenticare chi richiama il cinema di genere per parlare di attualità, come Stelvio Massi in "Giuda uccide il venerdì", o gli autori più strettamente legati alla mutazione culturale in atto in quegli anni, come Renato Ghione o Romano Scavolini.

Corriere della Sera 11.3.08
La psichiatra «Attenti a non definirla subito depressione»

MILANO — Adelia Lucattini, psichiatra e coordinatrice nazionale della European depression association, mette in guardia: «Attenzione a usare la parola depressione per spiegare ogni gesto estremo».
Parlare genericamente di depressione è sbagliato?
«Dalla fine dell'800 la letteratura ci dice che in questi casi ci troviamo davanti a episodi psicotici sostenuti da convinzioni deliranti. Riconducibili a sindromi schizofreniche o disturbi maggiori dell'umore (depressione maggiore e disturbo bipolare), in questo caso magari determinati dal suicidio della madre».
Che si manifestano in che modo?
«In pensieri deliranti di indegnità, rovina, morte imminente. In allucinazioni, voci che dicono: uccidili o sarai ucciso. In molti casi, però, chi uccide lo fa convinto di salvare la propria famiglia».
Ma come si fa a leggere i campanelli d'allarme?
«I sintomi sono gravi, non semplici da diagnosticare, anche perché insorgono lentamente e i familiari ci si abituano non percependo il pericolo. Ma attenzione ai cambi del comportamento, dell'umore».
Che ci sono però anche in caso di depressione generica, no?
«I depressi si uccidono, non ammazzano gli altri.
Quando c'è un'aggressione in famiglia alla base c'è sempre un delirio o un'allucinazione».
Aggressioni in famiglia in aumento?
«Le statistiche dicono di no. Stagionali, semmai. E soprattutto se ne parla di più».
Adelia Lucattini, coordinatrice nazionale della «European depression association» A.Ma.

Corriere della Sera 11.3.08
L'Olanda autorizza l'amore libero Sì al sesso nei parchi, ma di pomeriggio
di L. Off.

BRUXELLES — Dice il nuovo regolamento che gli agenti di polizia «non devono nel modo più assoluto interrompere le attività, a meno che queste non disturbino altre persone».
E le «attività» in questione sono le effusioni fra coppie o più persone, anche i rapporti sessuali completi: che da ottobre saranno permessi nei parchi pubblici delle principali città olandesi, come già accade in alcuni parchi di Amsterdam. Con un paio di raccomandazioni: le «attività » dovranno essere esercitate dalla metà del pomeriggio in poi, cioè fuori dalle ore in cui circolano bambini e scolaresche; e le improvvisate alcove, anche al crepuscolo, dovranno comunque essere lontane da sguardi infantili. Prevista anche una raccomandazione di tipo igienistico: consumato il rapporto e terminate le effusioni, sigarette, preservativi e ogni altro oggetto dovranno essere raccolti e buttati negli appositi cestini.
L'Olanda varca così una delle frontiere più resistenti ai cambiamenti della morale pubblica: quella che in Italia è ancora presidiata (anche se assai meno saldamente di un tempo) da un reato chiamato «atti osceni in luogo pubblico », o «aperto o esposto al pubblico». Il nuovo regolamento di polizia, che da Amsterdam è stato inviato «in visione» agli esperti dell'Aja, di Utrecht e di Rotterdam, con l'invito ad adeguare le proprie regole subito dopo l'estate, prevede una sola eccezione all'atteggiamento imperturbabile dei poliziotti: questi potranno ricorrere «ad azioni correttive» (ma non viene specificato di quali azioni si tratti) «soltanto in presenza di comportamenti offensivi visibili da pubblico passaggio». E sempre in tema di pulizia dei parchi, nel regolamento c'è anche una clausola che non riguarda gli amanti di ogni tendenza, ma solo chi va a passeggio con un compagno a quattro zampe: è previsto infatti un inasprimento delle sanzioni per i proprietari di cani incontinenti.
La decisione di estendere ad altre città l'esperimento di Amsterdam è stata presa dopo qualche polemica, soprattutto in quella stessa Amsterdam che ormai intende chiudere buona parte dei suoi locali «a luci rosse»: i critici temono che, dai locali sbarrati, certe «attività» si trasferiscano nei parchi più grandi.

Corriere della Sera 11.3.08
Scienza e identità Il ricercatore americano colloca l'origine della consapevolezza nella «regione talamocorticale». E si confronta con il darwinismo
Ecco dove si trova la coscienza
La tesi di Christof Koch: l'«idea del sé» è in un'area precisa del cervello
di Sandro Modeo

Siamo sulla terrazza panoramica di una casa o di un albergo di montagna, in una giornata di sole pieno. Chiudiamo gli occhi per un attimo, inspirando l'aria. In questo momento di sospensione, «là fuori» non c'è altro che una distesa sterminata di materia, organica e inorganica; un brulichio di atomi o molecole, senza particolari attributi. Poi riapriamo gli occhi, attivando un intricato processo dialettico tra la mente e il mondo: la nostra retina viene investita da dieci milioni di bit di informazione visiva al secondo, graduata in diverse lunghezze d'onda; i fotorecettori (50 tipi di cellule differenti, tra cui 100 milioni di bastoncelli, sensibili alla luce fioca, e 5 milioni di coni, sensibili alla luce intensa) ne scartano la maggior parte e ne trasmettono una quantità selezionata (trasformando segnale ottico in elettrico) a precise aree cerebrali, a partire dalla corteccia visiva primaria o V1, adibita alla «topografia» di un'immagine; e ogni area codifica una componente specifica della visione (l'orientamento dello spazio, il rapporto sfondo/primo piano, la forma degli oggetti, il colore, il movimento), coordinando e collegando la propria elaborazione con quella delle altre aree. Alla fine del processo — che avviene in un tempo rapidissimo, anche se non inferiore al quarto di secondo — vediamo aprirsi davanti a noi una «scena integrata » ad alta definizione: per esempio delle creste montuose su un cielo terso, una porzione di lago e una fuga di boschi e di case in lontananza.
Nella Ricerca della coscienza (appena uscito da Utet) il biologo Christof Koch elegge l'orchestrazione della consapevolezza visiva — di cui è non a caso uno dei maggiori studiosi sperimentali, insieme con il suo compianto maestro e mentore Francis Crick — come uno degli esempi più convincenti per capire come il cervello produca «significato» dalle sollecitazioni dell'ambiente. Da un lato, lo studio dei danni selettivi in certi pazienti evidenzia infatti l'alta specificità di certe aree: la paziente L.M. — con una lesione all'area collegata alla cognizione del movimento — non riesce a versare il tè o il caffè (che vede come «congelati» in un ghiacciaio) o ad attraversare la strada (una macchina a cento metri si materializza di colpo a pochi passi, come in due inquadrature fisse senza legame) e i pazienti affetti dalla sindrome di Balint — colpiti nelle aree responsabili dell'organizzazione dello spazio — vedono ogni oggetto isolato nel cono d'attenzione, senz'alcun contesto in cui collocarlo. Dall'altro lato, l'incidenza della plasticità cerebrale (il fatto che senza V1 sia impossibile vedere, ma che V1 da sola non basti) dimostra come ogni struttura fisiologica sia condizione necessaria ma non sufficiente per l'articolazione di una funzione psicologica complessa.
Proprio la plasticità diventa un fattore decisivo quando Koch espande la sua indagine dalla coscienza visiva alla coscienza
tout court, cioè a quella musica insieme inconfondibile ed elusiva estesa ben al di là dello stesso fatto visivo (come dimostra la coscienza nei ciechi nati) e così sfuggente da avere alimentato un estenuante dibattito tra filosofi, che ne hanno graduato il termine di volta in volta in «vigilanza», «consapevolezza» o «idea del sé». Una volta stabilito per convenzione che la coscienza è il prodursi di una percezione o di un insieme di percezioni «consapevoli» — e, in quanto tali, già capaci di disegnare l'identità del soggetto —, la prospettiva di Koch viene spesso contrapposta a quella di un altro eminente neuroscienziato, Gerald Edelman. La prima, infatti, privilegia il dettaglio: nella fattispecie, la ricerca dei minimi «correlati neurali della coscienza», cioè del più piccolo insieme di strutture cerebrali e di eventi biochimici utili a produrre uno stato cosciente, e lo identifica in una geografia composta da corteccia, talamo e gangli della base. La seconda, invece, è una teoria «globale» in cui la coscienza è il prodotto di un incessante dialogo tra molte aree cerebrali, e in cui il cervello opera secondo criteri di «selezione» in senso darwiniano.
Eppure — come osserva Silvio Ferraresi nella Nota introduttiva al libro di Koch — a uno sguardo attento le due prospettive possono convergere, così da mostrarci insieme «gli alberi e la foresta ». Quando Koch — in una pagina molto intensa — descrive la propria reazione emotiva davanti al figlio adolescente che gli parla e gli sorride, elenca le strutture specifiche coinvolte nella reazione (certe aree corticali per la decifrazione dei volti e della mimica facciale, la corteccia uditiva e le regioni linguistiche per la codifica della voce e del senso delle parole, e così via), ma poi riconduce l'unità della scena all'«integrazione delle regioni disseminate nel cervello»: non è un'apertura esemplare alla prospettiva «globale» di Edelman? A rovescio, Edelman collega il processo della coscienza, come detto, a una «diffusa sincronizzazione» tra diverse aree cerebrali, ma individua il «nucleo dinamico » di tale sincronizzazione nell'attività del sistema talamocorticale: non è una parziale reintroduzione delle proprietà specifiche di certe strutture? Oltretutto, il «nucleo dinamico» di Edelman coincide in sostanza proprio con la «geografia » minima individuata da Koch.
Comunque sia, l'insieme delle qualità con cui Koch delinea la coscienza nel corso della sua ricerca, potrebbe essere condiviso da tutti i neuroscienziati. Sfuggente se non ambigua sul piano psicologico (perché non necessariamente legata all'«attenzione» né, all'opposto, alle capacità della memoria inconscia, come la guida), in larga misura imperfetta (come dimostra la messa a fuoco di tante percezioni sensoriali, sottoposte a compensazioni e aggiustamenti), sottilmente asincrona, in quanto infittita di microsdruciture temporali (in una stessa scena, la percezione del mutamento di un colore può precedere quella del mutamento di un movimento di 75 millisecondi) e discontinua (perché scandita da impercettibili stacchi che la spezzettano in microistantanee, legate in un
continuum illusorio), la coscienza è insieme tenace e fragile, coesa e intimamente precaria. Per accorgersene non è necessario verificarlo nelle neuropatologie o nei disturbi degenerativi: è sufficiente osservarla attraverso libri come quello di Koch, cioè scontornandola da quelle silenziose proprietà rassicuranti che lei stessa ci fornisce.
(MIKE QUON / CORBIS)

Repubblica 11.3.08
Quando l’uomo ebbe coscienza di sé
Un enigma fra teologia e filosofia
Nel peccato originale la coscienza dell’uomo
di Eugenio Scalfari

Quale fu la ragione che scatenò la cacciata di Adamo ed Eva dai Giardini dell´Eden? Furono la consapevolezza della nostra umanità e il possesso del pensiero, che ci poneva fuori dall´animalità
Dio ci ha concesso il libero arbitrio ma la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e scegliere?
Gli animali e i bambini non peccano, sono forme pure che obbediscono a istinti, pulsioni e stimoli
È il marchio che ci distingue dal resto degli esseri viventi: noi siamo la sola specie che ha perso l´innocenza

Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell´albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell´Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza.
Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all´inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato – non cancellato – e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio.
Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest´affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l´assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell´al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta.
Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l´ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione?

Dov´è la bilancia della giustizia? Dov´è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all´Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. È la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato.
Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell´uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto.
Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch´io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l´innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto.
Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.
* * *
Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all´Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l´Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall´animalità.
Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari.
Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell´albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio.
La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l´atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all´accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo.
Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l´abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. È possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un´idea assai mediocre e bislacca della modernità.
Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto.
Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni.
Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l´erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.
* * *
Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana.
Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell´uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l´Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l´Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello.
Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l´Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza.
La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. È oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. È colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l´assume.
Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un´innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto.
* * *
Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti?
Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l´altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento.
Dunque siamo liberi, almeno stando all´insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell´insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell´Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio?
Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l´uomo, ma è pur vero che anche l´uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell´inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell´«es» per distinguerla dall´io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all´interno dell´individuo.
L´io non è una figura psichica separata dall´«es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l´io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l´istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini.
Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l´intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi.
La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell´individuo e quella della specie, l´egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l´individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto.
Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell´egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate.
Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.

Repubblica 11.3.08
Bolzaneto, arriva la richiesta dei pm "A quegli agenti un secolo di carcere"
Oggi la fine della requisitoria Le parti civili chiedono cinque milioni di danni
di Massimo Calandri

GENOVA - Poco meno di ottanta anni di reclusione, questa la richiesta complessiva di pena. Dai tre mesi ai quattro anni di prigione per ciascuno dei quarantacinque imputati al processo G8. Ma l´ultima pagina della requisitoria, che sarà letta oggi in aula, è paradossalmente la meno importante. Non contano i giorni che qualcuno rischia di passare in galera, anche perché nessuno andrà mai dietro le sbarre: la prescrizione scatterà nel gennaio 2009. Quello che conta, nel processo per i soprusi e le violenze commesse nella caserma di Bolzaneto durante il G8, sono le testimonianze drammatiche delle 209 vittime. E le conferme ottenute in questi anni dagli inquirenti, comprese le confessioni di molti tra ufficiali, funzionari, medici, poliziotti, carabinieri. Furono, secondo i pm, «trattamenti inumani, crudeli, degradanti. In una parola: torture». Conta che nella sentenza di primo grado, attesa entro la fine di giugno, il tribunale dovrà rispondere anche alle istanze degli avvocati delle parti civili. Che per i loro clienti chiederanno il risarcimento per le paure e le umiliazioni subite. La provvisionale, e cioè l´acconto in attesa della liquidazione, potrebbe essere superiore ai cinque milioni di euro. Se condannati, gli imputati pagheranno con i ministeri della Giustizia, della Difesa, dell´Interno.
Abuso d´ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, falso, violazione dell´ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali. Questi i reati denunciati dai pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Rifacendosi ai parametri indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell´Uomo, i magistrati hanno spiegato che «i trattamenti provati come inflitti a Bolzaneto sono stati inumani e degradanti». Torture fisiche e psicologiche che «si sono potute realizzare per il grave comportamento anche omissivo di pubblici ufficiali, o comunque con il loro consenso tacito o espresso». Ricorda la procura: dita spezzate, pugni, calci, manganellate su persone inermi, bruciature con accendini e mozziconi di sigaretta, bastonate alle piante dei piedi; teste sbattute contro i muri, taglio dei capelli, i volti spinti nella tazza del water. Ma la procura ha ricordato anche gli insulti, le umiliazioni. «Sono stati adottati tutti quei meccanismi che vengono definiti di ‘dominio psicologico´ al fine di abbattere la resistenza dei detenuti e di ridurne la dignità. Tutto ciò è potuto avvenire grazie a quel meccanismo fatto di omissioni, per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti. La parola chiave è stata: impunità».

Repubblica 10.3.08
Il ‘68 della Cavani
"Noi italiani, on the road prima di Easy Rider"
di Paolo D’Agostini

La regista di "I cannibali" e "Il portiere di notte" ripercorre le tappe del nostro cinema giovane di quegli anni. E ora gira "Albert Einstein"
Gli americani erano interessati a "I cannibali", ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia. Rifiutai
Il cinema di Bertolucci, Bellocchio, Pasolini, e anche il mio, dimostrava che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo

ROMA. Liliana Cavani diventa un fiume in piena se la solleciti sul "come eravamo" nel Sessantotto, secondo il cinema giovane di quegli anni di cui la regista emiliana - come gli altri due campioni della stagione Bellocchio e Bertolucci ma dall´educazione «scombinata e aperta, non borghese, non clericale» - fu protagonista.
«L´I Care caro oggi a Veltroni veniva allora dall´America: da lì arrivavano i venti di libertà, non certo dall´est comunista. C´erano Luther King e Malcolm X, i Kennedy, Marcuse e Berkeley. Io ero incantata. Seguivo Basaglia, mi appassionavo al Living Theatre, leggevo Foucault che negava lo scandalo del nudo. Proprio niente del Sessantotto, a partire da quello parigino, traeva ispirazione dal bagaglio ideologico della sinistra marxista. Verso il quale ero fredda, così come era stato il mio nonno anarchico. Fredda verso gli apparati. Le cose più belle e stimolanti venivano da un´altra parte. E quando sono arrivata a Roma non ho sentito alcun bisogno di iscrivermi al Pci come invece tanti altri colleghi. Questa estraneità agli apparati mi ha sempre messa in difficoltà. Quando agli inizi degli anni 60 facevo le mie prime inchieste per la Rai monocolore Dc, come La casa in Italia, sono stata censurata. Con il centrosinistra sono stata etichettata come criptocomunista. E il mio primo Francesco d´Assisi, figura che da persona libera di mente - non clericale né anticlericale - ho affrontato con spirito di scoperta trovandovi una ribellione al padre e un conflitto generazionale, non è piaciuto alla Chiesa. Mi sentivo in armonia con i movimenti di liberazione americani. Tra i miei primi soggetti, sotto l´influenza del Black Power, ce n´era uno che s´intitolava "Black Jesus". Quante cose c´erano in movimento, quante cose di oggi vengono da lì. Quante cose stanno dietro alle candidature di Hillary e Obama».
Mentre sta completando il nuovo film per RaiFiction Albert Einstein (con il Vincenzo Amato di Nuovomondo) Cavani è oggetto di omaggio da parte della Cineteca Nazionale che dedica il programma di marzo della sua sala romana, il Trevi, dapprima a "Lou Castel, (l´anti) divo ribelle del cinema", icona degli anni 60, che fu il suo Francesco nel ´66 (ce ne sarebbe stato più tardi un secondo: Mickey Rourke) oltre che protagonista di Grazie zia e I pugni in tasca. E poi agli "Schermi in fiamme. Il cinema della contestazione" dove è rappresentata da I cannibali, 1969, con Pierre Clementi.
Dopo tanti documentari e servizi per la Rai da metà anni 60 lei si avvicina al cinema scegliendo figure che, da Francesco a Galileo a Milarepa, hanno in comune una lettura non convenzionale della fede e della spiritualità, dell´autorità della Chiesa.
«Anche Galileo ha avuto le sue belle peripezie di censura. Curiosamente deve la sua maggiore diffusione alla San Paolo Film che lo mandava nelle scuole. Dopo gli studi in lettere antiche e glottologia, la vera università l´ho fatta con i documentari. Sul nazismo, sul comunismo, sulle donne nella Resistenza. A ripensarci mi fa ridere che ancora oggi stiamo a combattere con le quote rosa. Quando nel ´65 intervistai una donna che a 18 anni aveva guidato una battaglia partigiana a Bologna, alla mia domanda "per che cosa hai combattuto" mi rispose: "per la palingenesi, perché noi donne dobbiamo contare, non solo per cacciare i tedeschi"».
Le sembrano ridicole le quote rosa?
«No, niente è ridicolo se è necessario. Evidentemente è ancora necessario».
Il suo Sessantotto è I cannibali. Dal mito di Antigone una metafora della ribellione giovanile di quel momento. Ma, come tutto il cinema suggerito direttamente dal clima della contestazione, non piacque molto.
«Partecipò alla Quinzaine di Cannes, appena nata, e fu visto da Susan Sontag che lo portò a New York. Un circuito parallelo della Paramount mi offrì 120 mila dollari ma dovevo cambiare il finale dove gli oppositori vengono ammazzati dalla polizia».
E lei?
«Dissi di no. E pensare che la sensibilità on the road espressa da I cannibali precedette Easy Rider che non era ancora uscito. Il mio film fu il segnale di una nuova sensibilità che si andava affermando: mal vista da destra e da sinistra, da tutti gli apparati burocratici».
Ma i film "del Sessantotto" non piacquero al pubblico.
«Voglio ugualmente difenderli. Sono convinta che quello di Bernardo (Bertolucci, ndr), di Marco Bellocchio, di Pier Paolo Pasolini, e anche il mio, sia stato il nostro nuovo cinema. La dimostrazione che la nostra capacità di innovare non era finita con il Neorealismo. Un cinema critico che strideva con gli apparati, sia cattolico che comunista. Non poteva piacere a chi, nell´estate del ´68, non aveva espresso solidarietà a Praga invasa. La cultura d´apparato soprattutto di sinistra, una cappa che ci è pesata sulla testa, non sapeva come collocarlo. Avrebbe dovuto farci ponti d´oro perché eravamo una ventata di sprovincializzazione, eravamo il tempo presente».
Quando poi arriva Portiere di notte, ´74, diventa subito un manifesto della trasgressione.
«Non era ammissibile parlare dei nazisti come persone. Era tabù. Ricordo un dibattito sui Cahiers du cinéma tra Michel Foucault che difendeva il film e la redazione che aveva le bende sugli occhi e rappresentava una cultura blindata, ferma. Almeno in Francia si dibatteva d´ideologia, in Italia tutto si ridusse a stabilire - in censura - se fosse giusto che Charlotte Rampling facesse l´amore stando sopra. Credo davvero che il film aprì delle porte».
È vero che nel ´71 firmò il documento contro il commissario Calabresi sull´Espresso?
«Non ricordo di averlo mai fatto né di essere stata mai interpellata».
È sbagliata la sensazione che lei si sia spostata verso posizioni più moderate, a partire dalla scelta dei soggetti come la biografia di De Gasperi?
«De Gasperi dobbiamo solo ringraziarlo se allora ci è stato evitato il peggio».

Repubblica 7.3.08
Monsignor Ravasi annuncia un convegno sull'evoluzionismo
Charles Darwin arriva in Vaticano
di Marco Politi

Il progetto sembra avere lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, turbati dai ripetuti attacchi di Benedetto XVI alle teorie dello scienziato

Città del Vaticano. Riaprire il discorso tra fede ed evoluzionismo, partire dalle teorie di Darwin per guardare oltre e mettere a confronto scienziati, teologi e filosofi sulle domande di senso dell' uomo contemporaneo. L'ambizioso progetto, che gode del placet di Benedetto XVI, è di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la Cultura. Il programma è di convocare tra breve un convegno internazionale sull' evoluzionismo e le sue teorie, che si terrà all' università Gregoriana con la partecipazione di premi Nobel e dei migliori esponenti di teologia e filosofia. Vi saranno credenti e non credenti. Ravasi ha in mente un appuntamento in cui ciascuno degli «specialisti» potrà superare le frontiere del proprio campo. Si avrà lo «scienziato che si interroga e che ascolta anche l' interrogazione della teologia e il teologo e il filosofo che ascoltano e che vedono i percorsi della scienza». Ci sono persone, ha detto Ravasi alla Radio vaticana, che «considerano i cieli del tutto vuoti o al massimo popolati soltanto da satelliti». La sfida è di «far guardare verso l' oltre, verso l' alto» quanti sono solamente chini sul proprio orizzonte. Il progetto sembra anche avere lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, rimasti turbati dai ripetuti attacchi di Benedetto XVI alle teorie di Darwin. Sin dall' inizio del suo pontificato Ratzinger ha dato l' impressione di voler rimettere in discussione la questione, che Giovanni Paolo II aveva in un certo modo chiusa con la dichiarazione che la teoria di Darwin «è più che una mera ipotesi». Nel settembre del 2006, riunendo a Castelgandolfo il suo «circolo di allievi» (che ogni anno sceglie un tema di dibattito), il Papa aveva attaccato il lavoro di Darwin affermando che «la sua teoria sull' evoluzionismo non è completamente dimostrabile perché mutazioni di centinaia di migliaia di anni non possono essere riprodotte in laboratorio». La ricerca scientifica, aveva soggiunto, da sola non è in grado di spiegare l' origine della vita. In ultima analisi l' inizio e lo sviluppo del mondo va letto secondo un «disegno» da ricondursi direttamente a Dio. Nello stesso anno a Ratisbona, durante una messa nella città bavarese, aveva posto la secca alternativa: «O è la Ragione creatrice, lo Spirito, che opera tutto e suscita lo sviluppo oppure è l' Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l' uomo e la sua ragione». Ma se così fosse, allora uomo e cosmo sarebbero il «risultato casuale dell' evoluzione e quindi in ultima istanza una cosa irragionevole». Ma già nel 2005, pochi mesi dopo la sua elezione, il cardinale Schonborn (uno dei discepoli più brillanti di Ratzinger) aveva suscitato scalpore con un intervento sul New York Times in cui sosteneva le tesi di un «Disegnatore intelligente» nell' opera dell' universo. Al punto che tre scienziati americani - il fisico Lawrence Krauss e i biologi cattolici Francisco Ayala e Kenneth Miller - avevano scritto una lettera aperta a Benedetto XVI, chiedendo che «in questi tempi difficili e carichi di tensione la Chiesa cattolica non innalzi un nuovo muro, da tempo abbattuto, tra metodo scientifico e fede religiosa». Di fatto il Vaticano si è reso conto che mettere in questione l' evoluzionismo - ormai definitivamente verificato in campo biologico con gli studi sul Dna e su geni - condurrebbe la Chiesa cattolica in un vicolo cieco, anche se le teorie scientifiche, proprio perché la scienza è empirica, sono soggette a continue messe a punto. Ciò che allarma soprattutto papa Ratzinger è la prospettiva che la spiegazione scientifica dell' origine e dello sviluppo del mondo (e da questo punto di vista l' evoluzionismo è l' unica teoria credibile oggi sul tappeto) porti a stabilire che la creazione del mondo «non ha bisogno di Dio» e ubbidisce unicamente a leggi o mutamenti intrinsechi alla materia. Da questo punto di vista il cardinale Schonborn ha chiarito varie volte che non è tanto in questione il lavoro scientifico di Darwin e la sua teoria quanto il «darwinismo ideologico» che rifiuta una Razionalità nell' evoluzione del mondo o, come la definisce il porporato, un «Dio-designer». Ma è indubitabile che a sua volta il mondo scientifico non può accettare a priori, per dogma, che vi sia un Intelletto Trascendente che guida le sorti dell' universo.

il Riformista 11.3.08
Ethics lo sperma artificiale non esiste ma inquieta Brown
Quali topi, i Tory puntano sull'aborto e il Labour spera di non esplodere
Il detto «We don't do god» questa volta non basta

Londra. Nel giorno in cui un ex manager della City, David Pitt-Watson, diventa segretario generale del Labour, il partito di Gordon Brown si trova ad affrontare l'ennesimo guaio interno di questa sciagurata legislatura. E, cosa ancora più sgradita, la disputa riguarda quei temi etici che Alastair Campbell, ex spin-doctor di Tony Blair, liquidava con la sferzante formula del «We don't do God». Si tratta del cosiddetto «sperma artificiale», ovvero la scoperta effettuata dai ricercatori della Newcastle University che hanno reso noto di essere riusciti a ricavare sperma artificiale da cellule staminali, estratte dal midollo spinale, in topi di laboratorio. Gli studiosi hanno quindi completato l'esperimento, con la nascita di un certo numero di topi utilizzando lo sperma artificiale, anche se tutti gli animali sono morti nel giro di pochi mesi e molti soffrivano di varie anomalie e disturbi genetici. Gli esperti credono tuttavia che esperimenti per riprodurre la medesima tecnica sugli esseri umani potrebbero iniziare nel giro di cinque o dieci anni. Immediatamente l'annuncio ha diviso in due la platea della politica e dell'opinione pubblica inglese: da un lato i sostenitori che vedono in questa scoperta una nuova possibilità per le coppie che non possono avere figli e non vogliono ricorrere alla donazione di sperma da terzi, dall'altro chi parla apertamente di delirio di onnipotenz«a della scienza. Gordon Brown non solo si trova a dover affrontare le proteste vibrate dei gruppi religiosi del paese ma anche di tre ministri del suo cabinet , cattolici, pronti a dimettersi in caso la legge che sta per sbarcare al vaglio di Westminster venga approvata. Al di là della questione sollevata dai ricercatori di Newcastle, infatti, all'interno dello Human Fertilisation and Embryology Bill giace una mina che potrebbe veramente far esplodere il dibattito e anche il governo: ovvero, il tema dell'aborto. Nonostante sia liberal pur essendo il segretario del partito conservatore, David Cameron ha infatti spiazzato tutti intervenendo sul tema e dichiarandosi favorevole a un abbassamento del limite massimo per abortire legalmente nel Regno Unito: un ammiccamento nemmeno troppo velato verso il «cavallo di Troia» rappresentato dai tre ministri cattolici. Facendo appello al suo passato di uomo che ha vissuto un'interminabile odissea negli ospedali pubblici del Regno Unito per aiutare il figlio più piccolo portatore di handicap e soprattutto di politico che pone la famiglia al centro dell'azione sociale, David Cameron ha sfidato il tabù dell'eticità e messo nel mirino il suo bersaglio: la legge sull'interruzione di gravidanza e i suoi limiti temporali. Interpellato la scorsa settimana dal Daily Telegraph , il giovane leader conservatore ha infatti dichiarato senza tanti giri di parole che intende abbassare da 24 a 20 settimane il limite per poter abortire legalmente: «Se c'è anche una sola possibilità di intervento nello Human Fertilisation and Embryology Bill io voterò immediatamente a favore dell'abbassamento». Definendo l'intervento su questo tipo di materia «libero e di coscienza», David Cameron ha comunque mandato un segnale chiaro a pochi giorni dallo sbarco ai Common della discussione in materia: tutti e tre i partiti intendono mettere mano all'argomento e anche le gerarchie ecclesiastiche si sono pronunciate a favore di una revisione al ribasso sui tempi limite. E l'argomento, anche se sottotraccia, sta facendo capolino da giorni sulla stampa britannica. Prima attraverso la pubblicazione dei risultati di studi recentissimi compiuti grazie agli ultrasuoni che parlano di bimbi che «alla dodicesima settimana di fatto già camminano nel ventre materno», poi con l'imbarazzante ufficializzazione del dato in base al quale si evince che in Gran Bretagna una ragazza su dieci con meno di trent'anni ha già abortito almeno una volta. Insomma, più che il quasi fantascientifico sperma artificiale della Newcastle University è l'intero impianto della legge al vaglio del Parlamento a nascondere insidie: se infatti da un lato la carta etica può costare cara al governo Brown, anche a causa dell'ammiccamento Tory, dall'altro cedere ai ministri cattolici può significare l'addio ad investimenti miliardari nella ricerca sulle staminali, comparto che sotto il blairismo aveva trovato rifugio sicuro nel Regno Unito. «We don't do God» questa volta non pare risposta sufficiente a dribblare il problema. (ma.bo.)

Il Messaggero 11.3.08
Uno studio rivela: dietro l’aggressività dei depressi spesso una cura sbagliata
Lo psichiatra: «Sempre più frequenti i casi di impulsività distruttiva»
di Carla Massi


La fascia più colpita è quella tra i 45 e i 64 anni, ma anche i più giovani sono interessati, con il 8% degli adolescenti e il 3% circa dei bambini. Un adulto su tre con problematiche di sofferenza psichica ha iniziato a soffrirne durante l’infanzia. I sintomi più comuni: tristezza persistente, progressivo abbandono dei giochi, irritabilità, poca concentrazione, scarsa energia

ROMA - Li trovano inebetiti a fissare i cadaveri. Ripetono che non ricordano. Urlano che quella figlia l’amavano e mai e poi mai avevano pensato di farla volare dalla finestra. Tanti altri non possono dire, non possono raccontare il loro dolore perché, dopo aver ucciso, hanno scelto il suicidio. Storie familiari, storie così intime e così segrete che, nella depressione, trovano una lacerante giustificazione. Era divorato dalla malattia Antonio Bove, 37 anni, operaio della Ferrari nel Modenese: poco meno di due mesi fa ha stretto in mano un coltello, ha colpito la figlia di sette anni fino ad ucciderla e poi si è piantato la lama nella pancia. I cadaveri di padre e figlia erano vicini, accoccolati a loro modo in camera da letto. «Sono sceso in cantina per riempire di legna la caldaia, poi ho visto tutto bianco. Non ricordo altro». Nemmeno una parola di più per spiegare quello che aveva fatto. Angelo Raffaele Grassano falegname di 55 anni torinese, pochi giorni prima di Natale, ha preso un martello e ha sfondato le teste di moglie e figlia. Poi il nulla. Chi lo conosceva bene ripeteva che era vinto da una forte depressione. Luigi Iannarelli, 35 anni di Caserta, ha aspettato il sonno della moglie e dei figli. Poi li ha soffocati con un cuscino e si è suicidato con una coltellata. Non ce l’ha fatta a superare la foresta nera. E’ rimasto impigliato nei rami, e una notte della scorsa estate, si è portato via la giovane compagna e i due bambini di sette e quattro anni. Una storia, due storie, tre storie di delitti in famiglia. Di delitti ”figli“ del male di vivere. Come è stato ”diagnosticato“ da parenti, medici e inquirenti.
In Italia si contano un milione e mezzo di depressi, due terzi sono donne. Una popolazione che lotta, o prova a lottare, contro apatia, ridotta volontà, diminuzione della capacità di fare o prendere decisioni, difficoltà di concentrazione, mancanza di sonno, inappetenza (o eccesso di fame), dolore senza spiegazione fisica. Ma anche rabbia, tanta rabbia. Aggressività manifesta o tenuta a bada con sofferenza. Esplosione che si traduce in violenza. Che si fa ancora più violenza se il paziente è curato con una terapia sbagliata. Se, per esempio, gli vengono prescritti farmaci che vanno ad agire proprio sulla sua impulsività. Come testimoniano molti studi degli ultimi tempi. Uno, firmato dalla cattedra di Psichiatria dell’università “La Sapienza” di Roma, ha preso in esame 400 persone depresse tra i venti e i sessanta anni. Obiettivo del lavoro: quantificare e analizzare la “dose” di rabbia presente nei pazienti e mettere a punto il giusto equilibrio farmacologico. «Certo è che la depressione non significa solo apatia, tristezza e passività - spiega Massimo Biondi, docente di Psichiatria che ha coordinato il lavoro - ma anche aspetti di impulsività distruttiva. Un rischio per il malato e per gli altri. Una pericolosa combinazione che si presenta con diverse sfumature. Partiamo dall’irritabilità verso i bambini che fanno rumore o verso il partner che parla e arriviamo all’attacco vero e proprio. Proprio le diverse sfumature ci obbligano a rivedere le terapie tradizionali e adattarle».
Amici e parenti parlano di «lento cambiamento del carattere», mutazione di tono della voce, reazioni sproporzionate. «Segni così reattivi e vivaci, pur nella violenza, che nascondono i sintomi più conosciuti della depressione - aggiunge Biondi -. In realtà ci troviamo di fronte a persone in grado di autodistruggersi e distruggere con la stessa violenza. Ci troviamo a che fare con uomini e donne incapaci di controllare l’ostilità che li anima». Lo studio ha concluso che un paziente depresso su tre soffre anche di una forte componente aggressiva. Di qui, la presenza di tre anime che oggi abitano nella depressione: la tristezza con pianto e chiusura, l’ansia caricata di inquietudine e l’aggressività. «Ormai sappiamo che ai pazienti va fatta una domanda assai banale: ma lei sotto sotto è anche arrabbiato? E’ chiaro - dice ancora Biondi - che ogni caso è diverso ma pur vero che, in ogni persona, va capito qual è il peso di ogni componente. Per mirare la terapia. Che va cucita sul malato. Il depresso aggressivo o che disperatamente nasconde la sua aggressività, per esempio, ha bisogno di una cura diversa da quella che si prescrive al depresso solo profondamente malinconico. Anzi, può capitare che un’attivazione farmacologica può diventare controproducente, può andare a lavorare proprio sul lato più debole. Aumentando, per esempio, proprio l’aspetto reattivo. L’antidepressivo da solo, per esempio, può non bastare. Magari c’è necessità anche di uno stabilizzatore dell’umore e altri farmaci. Parliamo di una situazione affrontabile e curabile, per questo si deve imboccare la strada giusta. Stesso discorso per la psicoterapia. Attenzione, molta attenzione, a non continuare ad usare i farmaci senza approfondire questa peculiarità del paziente. Soltanto un lungo colloquio con lo specialista e la creazione di un vera relazione possono permettere di arrivare alla cura adatta. Altrimenti, è possibile rischiare anche effetti opposti. Eccitazione nei casi in cui il vero male sta proprio nella dolorosa incapacità di arginare l’aggressività». Anche verso chi ti ama, chi è sangue del tuo sangue come un figlio.

TERAPIE MIRATE CASO PER CASO
Devono essere “aggiustate” in base alle tre componenti della malattia
«Il ruolo educativo dei genitori messo in discussione da modelli distorti»

ROMA - «L'alto tasso di delitti in famiglia in Italia si spiega con la crisi che sta attraversando il ruolo del genitore. La società moderna, che io definisco postnevrotica, ha infatti sfidato il ruolo educativo di padri e madri mettendoli in competizione con i modelli, spesso distorti, proposti da media e tv. Se mandano in televisione uno spot che invita i bambini ad accompagnare i genitori all'Ippodromo e a vederli scommettere, vuol dire che non solo la famiglia è malata, ma tutta la società».
Così Francisco Mele, psicanalista, criminologo e docente in Sociologia della Famiglia presso l'Istituto Progetto Uomo, commenta l'efferato triplice omicidio di Taranto. «La depressione è la malattia del nostro secolo - continua Mele - generata dall'esasperata rivalità del mondo moderno e sintomo della difficoltà di “riuscire ad essere”. Ed il mancato riconoscimento del proprio ruolo anche all'interno della famiglia può scatenare in una persona depressa la violenza, prima diretta contro se stessi, e poi anche contro gli altri. Fino ad arrivare all'assurdo di un padre, figura protettiva e autoritaria, che uccide i propri figli».

Repubblica 8.3.08
Su Lancet uno studio francese realizzato su piccoli che hanno raggiunto i 5 anni: a soffrire soprattutto il cervello
"Bambini prematuri, troppi rischi Tre su quattro non sono sani"
Uno su cinque non cammina, il 25 per cento ha invece un handicap lieve
di Elena Dusi


ROMA - Vivi, ma a quale prezzo. Ai bambini nati prematuramente la medicina offre più chance di vita rispetto al passato. Ma non sempre garantisce anche la salute. Lontano dai dibattiti etici e basandosi su indagini mediche, lo studio francese "Epipage" è andato a controllare come stanno oggi i bambini che 5 anni fa nacquero prematuri. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Lancet.
Su 2901 bambini venuti alla luce nel 1997 in Francia con meno di 33 settimane di gestazione alle spalle, 2357 sono arrivati al quinto compleanno. Ma tutti avevano passato almeno 24 settimane nel pancione: nessuno dei neonati di 22 o 23 settimane è vivo oggi. Il 77% ha un problema di salute. A soffrire in modo particolare è il cervello, che impiega più tempo a maturare nel pancione. Non a caso i deficit ricorrenti nei prematuri sono proprio neurologici: difficoltà nel coordinare i movimenti, ritardi mentali, cattivo funzionamento degli organi di senso e deficit cognitivi proprio alla vigilia dell´ingresso a scuola. Il 5% dei piccoli studiati ha 5 anni ma non cammina, ha funzioni mentali ridotte al minimo e gravi problemi di vista o udito. Il 9% riesce almeno a camminare, se aiutato. Al 25% dei bambini è stato diagnosticato un handicap lieve: un punteggio tra 70 e 84 in un test di intelligenza che ha 100 come media e problemi lievi a occhi e orecchie.
A tre giorni dal parere del nostro Consiglio superiore di sanità che raccomanda di rianimare qualunque prematuro, Lancet aggiunge spunti di discussione. «Se il bambino presenta segni di vitalità il medico non ha scelta: deve rianimarlo. Non possiamo mai essere sicuri dell´età gestazionale» sostiene Claudio Fabris, presidente della Società italiana di neonatologia e professore all´università di Torino, uno degli esperti consultati dal Consiglio superiore di sanità. «I progressi medici, oltre a far aumentare la sopravvivenza, riducono anche i problemi della crescita». Béatrice Larroque che ha diretto Epipage solleva dei dubbi: «La riduzione della mortalità ci invita a riflettere sull´alta percentuale di bambini con seri problemi di sviluppo» scrive. Aggiungendo: «Bisogna prestare molte attenzioni alle cure e ai costi per i prematuri. I disturbi cognitivi richiedono attenzioni speciali lungo tutto il corso della vita». In Italia nel 2003-2004 è stato avviato lo studio Action, ma i bambini dovranno aver compiuto almeno 5-6 anni prima di consentire diagnosi eloquenti. «Il problema - spiega Maria Serenella Pignotti, neonatologa dell´ospedale pediatrico Meyer di Firenze - è la mancanza di assistenza alle famiglie. Non possiamo tenere il neonato in terapia intensiva, farlo sopravvivere e poi restituirlo ai genitori come fosse un pacchetto». La Pignotti nel 2006 curò la Carta di Firenze, il documento dei neonatologi che raccomandava "solo cure compassionevoli" al di sotto della 23esima settimana. «Dovremmo basarci più sulle evidenze scientifiche che non sulle questioni di principio. "Vita" e "morte" sono parole altisonanti e hanno un impatto sull´opinione pubblica. Ma non possiamo permetterci di infischiarci della vita che questi bambini faranno crescendo».