giovedì 13 marzo 2008

l’Unità 13.3.08
Italiani brava gente? Guardate questo film
di Jolanda Bufalini

Il generale Benelli definì la strage «una salutare lezione»
Alla Rai il filmato non interessava

La guerra fredda fece affossare le azioni legali sui crimini italiani
Un magistrato ora ha riaperto il caso

IN TV Nel febbraio del ’43 i militari italiani fecero una rappresaglia nel villaggio greco di Dominikon uccidendo 150 civili. Racconta questa strage il documentario «La guerra sporca di Mussolini» in onda domani sera su History Channel su Sky e poi su Rete4

Domenikon, 16 febbraio 1943. Il piccolo villaggio rurale della Tessaglia, non lontano dal confine greco con la Macedonia, quel giorno vede un’azione partigiana contro gli occupanti dell’Asse. Dalle colline sparano sui convogli italiani, nove militari perdono la vita. La rappresaglia, durissima, si rivolge contro la popolazione civile. Le case vengono incendiate. I maschi, dai 14 anni in su, vengono strappati alle famiglie e fucilati. «Una salutare lezione» dirà il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo. Sono 150 i morti civili di questa Marzabotto greca e il massacro, questa volta, è perpetrato dalle forze dell’esercito italiano. Domenikon nel 1998 è stata proclamata in Grecia città martire ma, ancora oggi, è difficile ricostruire la storia di questa e di altre atrocità compiute dalle forze di occupazione italiane in Grecia nella Seconda guerra mondiale. Sarebbero 1500 i militari che si macchiarono, dal 1942, di crimini contro l’umanità: stupri, uccisioni di massa, incendi, saccheggi.
È questo il tema del film-documentario «La guerra sporca di Mussolini», prodotto da Gioia Avvantaggiato, diretto da Giovanni Donfrancesco, che sarà trasmesso domani alle 21 da History Channel su Sky e, in seguito, da Rete 4. La Rai, invece, non aveva manifestato interesse al progetto. Il documentario si avvale delle ricerche di Stathis Psomiadis, che nel massacro perse il nonno e che si è dedicato alla raccolta delle testimonianze di ciò che avvenne nel suo villaggio di origine. E di Lidia Santarelli, storica italiana, docente alla Columbia University a New York. Nel film i vecchi sopravvissuti rievocano: alcuni che capivano l’italiano, sentendo i militari dire «bruciamo tutto», avvertirono gli altri. «Qui ci ammazzano tutti». Ci fu chi riuscì a salvare un figlio buttandolo in un fosso.
Dice Lidia Santarelli, che ha dedicato molte ricerche alle testimonianze e alla memoria in Grecia negli anni dell’occupazione italiana, che c’è una strana discrasia fra i documenti che riportano le testimonianze immediate sulle atrocità italiane e le memorie degli anni successivi al 1950. «Subito dopo la Liberazione il governo greco sottopose alle Nazioni Unite centinaia di casi in cui i militari italiani erano ritenuti responsabili di crimini di guerra contro l’umanità» ed è documentato, sostiene la storica, che le truppe italiane furono impiegate massicciamente nelle operazioni volte a stroncare la lotta partigiana e a sradicare le organizzazioni della Resistenza nelle aree rurali della penisola. «Esiste la documentazione storica che testimonia che, a cominciare dalla fine del 1942, la politica repressiva degli italiani si trasformò in una guerra condotta contro i civili».
Insomma, anche quella italiana fu, come sono tutte le guerre e particolarmente quelle di occupazione che fronteggiano l’ostilità delle popolazoni civili, una «guerra sporca». In Grecia come nei Balcani, in Slovenia, in Etiopia. E però le denunce non ebbero corso. Per questo, e poiché i crimini di guerra sono sempre perseguibili, il sostituto procuratore militare di Padova, Sergio Dini (presente alla proiezione del film, ieri a Roma alla Casa del Cinema) ha presentato una denuncia formale alla procura militare di Roma, l'unica competente per tali reati commessi da italiani all'estero.
Eppure, le testimonianze successive cambiano, nella stessa Grecia, dove si tende a distinguere fra gli italiani bonari e i nazisti tedeschi. «Italiani brava gente - dice un altro storico intervistato nel film documentario, Lutz Klinkhammer - non è una invenzione ma è falso che questo fosse l'aspetto dominante nell'occupazione di quei territori». Klinkhammer cita le fucilazioni italiane in Slovenia che, nella provincia di Lubiana, ebbero le stesse dimensioni delle fucilazioni tedesche in Alta Italia dopo l'8 settembre. Oltre 100 mila slavi transitarono per i campi di concentramento italiani in Jugoslavia. Nell'isola di Rab, di cui il film mostra cadaveri scheletrici, morì il 20% dei prigionieri. Cosa avvenne? Perché quella discrasia che ancora oggi pesa sulle «macchie bianche» della storia italiana, sulla difficoltà nostra a fare i conti con la storia? Nel 1946 cambia tutto. C’è il roll back, c’è il mondo spaccato in due. La Grecia infiammata dalla guerra civile tra comunisti e monarchici è il primo banco di prova della confrontation nel mondo bipolare. La guerra fredda mette fine alle aspirazioni di giustizia.

l’Unità 13.3.08
Un libro-inchiesta di Mario La Ferla, grazie a inediti documenti dell’Fbi, getta una nuova luce sulla vita e sulla morte della celebre attrice
Marilyn Monroe? Bella, brava, bionda e comunista
di Rinaldo Gianola

Noi lo abbiamo sempre saputo. Ne eravamo convinti, anche se non ne avevamo le prove. Anche quando, stretta in un abitino trasparente, sussurrava melensa «Happy birthday, mister president» al Madison Square Garden di New York davanti a quel John Kennedy che voleva invadere la Cuba di Fidel, anche allora, adesso possiamo scriverlo, stava dalla nostra parte. Il cuore di Marilyn Monroe batteva a sinistra, non ci sono storie.
Tra miliardari e mafiosi, tra un marito drammaturgo e un altro leggenda del baseball, con decine di amanti tra cui un premio Nobel e i fratelli della dinastia apparentemente più progressista d’America, il mito degli anni Sessanta era «una comunista, una spia, una cospiratrice» per il tremendo capo dell’Fbi, Edgar Hoover. Lo scrive Mario La Ferla, valoroso giornalista che ha consumato molte suole su molti marciapiedi, nel suo libro-inchiesta Compagna Marilyn (pp. 312, euro 13,50, Stampa Alternativa), un titolo finalmente rassicurante che ci conforta di tante offese e frustrazioni del passato.
Il lavoro si basa su una documentazione finora inedita, secondo quanto scrive l’autore, custodita nella sede centrale dell’Fbi di Washington. La storia è complessa e tortuosa almeno quanto gli amori di Marilyn, potrebbe benissimo essere il canovaccio di uno di quei film ambientati a Los Angeles ispirati dai romanzi torbidi e disperati di Ellroy. La nostra Marilyn, con quei capelli e quel corpo trionfanti, era spiata e controllata, come molti personaggi di Hollywood, fin dai tempi del matrimonio con Arthur Miller, intellettuale e per questo sospettato di simpatie comuniste, e a maggior ragione quando divenne l’amante di Yves Montand, morettone francese iscritto al Pcf e marito di un’altra splendida attrice, Simone Signoret.
Ma i veri guai iniziarono quando l’Fbi si mise spiare i suoi misteriosi viaggi in Messico dove Marilyn incontrava il miliardario in dollari Frederick Vanderbilt Field, erede di una grande dinastia industriale che aveva abbandonato la sua reggia sulla Quinta Strada di New York per fondare il Partito comunista americano. Strano e bizzarro come possono essere i miliardari figli di miliardari che, forse pentiti della loro ricchezza e in cerca di riscatto etico, si dedicano alla causa proletaria, Vanderbilt fu costretto a riparare in Messico dopo aver teorizzato l’apertura verso l’Unione Sovietica e la Cina. Ospitato nella patria di Pancho Villa, il miliardario progressista raccolse nell’«American Communist Group in Mexico» scrittori, cantanti e artisti che sostenuti dalla letteratura, dalla tequila e da passioni di varia natura celebravano il loro dissenso dalla Washington imperialista, per non dire di peggio. Nel gruppo c’erano, tra gli altri: Norman Mailer, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Bob Dylan, Allen Ginsberg, Jack Keruoac. Insomma, tanta bella gente di quella stagione. In questo scenario Marilyn è una protagonista assoluta. Altro che splendida oca. Nelle sue frequentazioni irreferibili con il capo della Casa Bianca, John Kennedy, e poi con il fratello Robert, ministro della Giustizia, carpisce piani e segreti dell’amministrazione Usa. Nel fruscio delle lenzuola Marilyn apprende che gli americani vogliono invadere Cuba e assassinare Fidel Castro. Le informazioni vengono passate a Vanderbilt che si premura di trasmetterle a l’Avana. Il blitz americano alla Baia dei Porci si trasforma in un disastro. E Hoover, a quel punto, si convince che Marilyn è una spia, una collaboratrice dei comunisti, quindi una traditrice degli interessi vitali del Paese. La «bionda» era diventata un pericolo pubblico. Nella notte del 5 agosto 1962, due mesi dopo il fallito sbarco a Cuba, Marilyn Monroe viene uccisa nella sua villa di Los Angeles. Il suo delitto resta avvolto nel mistero. E qui, per noi, finisce la storia.
Anche se, però, bisognerebbe dare conto, come elenca La Ferla, delle miserie e delle cattiverie seguite alla scomparsa di Marilyn, per le solite storie di eredità, di soldi, di patrimoni, di mariti e amanti mascalzoni e figli sconosciuti apparsi all’improvviso. Bisognerebbe ricordare almeno l’«esemplare» storia della canzone Candle in the rain, composta nel 1973 da Bernie Taupin in memoria di Marilyn. La canzone viene reinterpretata nel 1990 da Elton John per ricordare un amico morto di Aids. Passano sette anni e lo stesso Elton John la ritira fuori dal cassetto, toglie il riferimento iniziale a Marilyn e la dedica alla principessa Diana, schiantatasi sotto un ponte a Parigi nell’agosto 1997. Il disco vende 34 milioni di copie e produce, ovviamente, diritti miliardari. Da un mito femminile all’altro, la canzone va sempre bene. Basta cambiare l’attacco.

l’Unità Firenze 13.3.08
Giordano: «Impossibile l’alleanza con il Pd»

Ma a livello locale il capolista della Sinistra in Toscana Franco Giordano riapre all’Unione

DISTANZA programmatica con il Pd su tutta la linea ma via libera all’esperienza dell’Unione sul territorio se ci sono le condizioni per un’intesa. Il segretario nazionale del Prc Franco Giordano, capolista de “La sinistra L’arcobaleno” in Toscana per la Camera, ieri a Firenze per la campagna elettorale, distingue in modo netto il piano nazionale da quello amministrativo. «Anche quando i socialisti erano al governo a livello locale i comunisti stringevano alleanze con loro». Il problema è che in molte realtà toscane le distanze tra Prc e Pd si sono acuite. «È vero, l’anomalia toscana anticipa le contraddizioni insite nella scelta nazionale del Pd di correre da solo», dice Giordano. Scende nel dettaglio il segretario regionale del Prc Niccolò Pecorini: «Il Pd in Toscana si è fatto prendere un po’troppo la mano da Veltroni. E ha scelto di correre da solo anche in realtà in cui fino ad ora abbiamo governato bene insieme, come a Impruneta. Ma una cosa è farlo, un’altra è vincere, credo che i dirigenti se ne dovranno rendere conto». Auotocritica, invece, per quanto riguarda la formazione delle liste, dove sono confermati molti nomi uscenti. «Scontiamo un deficit di innovazione - ammette Giordano - ma è un premio che dobbiamo pagare all’avvio del processo unitario, per la precipitazione con cui abbiamo dovuto fare le liste». E annuncia: «Ma sarà l’ultima volta. È necessario costruire un metodo democratico per le candidature, anche con le primarie. Dobbiamo radicarci nel territorio e soprattutto presentare il 50% secco di candidature femminili». Attualmente sono ferme al 40%, nel 2006 erano al 41%. Il momento autocritico finisce qui e ogni spiraglio per dialogare con il Pd rimane confinato a livello locale. Perché sul piano nazionale è esclusa ogni possibilità. Nemmeno in funzione strategica per battere la destra. «Le nostre identità politiche sono diverse - spiega Giordano - Noi siamo in grado di dire le stesse cose che erano nel programma dell’Unione: superamento della legge 30, abrogazione della 40. Non può dire altrettanto il Pd». Risultato, per Giordano la Sinistra arcobaleno è candidata a unico movimento di sinistra del paese. «Mi piacerebbe discutere con Zapatero - incalza - ma in Italia non c’è. Veltroni stesso si definisce riformista e non di sinistra». E tira dritto: «Ci sono candidature che parlano più di qualsiasi programma. Si può tenere Calearo e Colaninno e parlare della lotta alla precarietà?». Lo scenario probabile delineato da Giordano, è quello delle grandi intese, come scudo politico per arginare la crisi di Oltreoceano. «Sarebbe gravissimo perché significherebbe scaricarne i costi sul mondo del lavoro - continua Giordano - dove c’è una questione sicurezza da risolvere urgentemente». Il mondo del alvoro è stato al centro della giornata fiorentina di Giordano. In mattinata ha incontrato i rappresentanti Rsu di Telecom, Ginori e Manetti & Roberts. «È necessario riallineare il salario con l’inflazione programmata - conclude - e la lotta di classe è uno strumento importante». Nel pomeriggio l’incontro con i lavoratori dell’Electrolux. Per loro la prospettiva più allettante è la riconversione della produzione sul fotovoltaico. Anche alla luce del piano regionale energetico. Sonia Renzini

Repubblica 13.3.08
Sinistra Cgil contro il sindacalista-candidato

ROMA - Non è piaciuta a una parte del sindacato e alla Sinistra arcobaleno, la stretta di mano tra Paolo Nerozzi, dirigente della Cgil e Massimo Calearo, ex presidente di Federmeccanica, entrambi candidati del Partito democratico. «È un danno di immagine per la Cgil» ha detto Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, mentre il segretario generale, Gianni Rinaldini ha definito l´incontro tra i due candidati una «sceneggiata triste». Secondo Maurizio Zipponi della Sinistra arcobaleno, quella stretta di mano, simbolo del "patto tra produttori" promosso dal leader del Partito democratico Walter Veltroni «è una tassa che Nerozzi ha dovuto pagare per essere candidato nel Pd».

Repubblica 13.3.08
Interruzioni di gravidanza fai-da-te con i farmaci fenomeno in aumento, i medici lanciano l'allarme

ROMA - Allarme per gli aborti fai-da-te, quelli fatti acquistando pillole su internet o tramite canali illegali, farmaci che hanno come effetto collaterale l´espulsione del feto. «È un fenomeno in crescita e incontrollato al quale è necessario porre degli argini», denuncia il presidente della Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, la Fnomceo. E gli aborti di questo tipo sono estremamente pericolosi. «L´uso improprio di farmaci destinati ad altre funzioni può portare a conseguenze gravi», dice il farmacologo Silvio Garattini. I rischi maggiori, sottolinea, sono quelli di forti emorragie ed infezioni.

Corriere della Sera 13.3.08
Saviano: «Ho detto no ai partiti: dimenticano la mafia»
di Marco Imarisio

Saviano, autore del bestseller «Gomorra», racconta come i partiti, da An al Pd alla Sinistra Arcobaleno, l'abbiano cercato: «Ma non parlano più di mafia» .

Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan»
Saviano: dico no alla politica che non parla più di mafia
«Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»

Vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Almirante e che avevano ispirato Borsellino 17 Settembre 2007
L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dall'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità

ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra
ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato.
Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione. Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra,
blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ».
Chi è stato il più insistente?
«Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda».
Promessa mantenuta?
«Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra».
Altri pretendenti?
«Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia».
Avanti con l'elenco delle avances.
«Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse».
Destra, sinistra, centro.
«Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare».
A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo.
«Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni».
Il più grande?
«L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere».
Dove vuole arrivare?
«Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare».
E invece?
«Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan».
Si è chiesto il perché?
«È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso».
«Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe?
«A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto».
Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava?
«Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra
e i suoi lettori».
Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione?
«Acuisce la solitudine, questo sì.
Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge».
Se pensa al suo futuro, cosa immagina?
«Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno».
E la realtà?
«Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».

Corriere della Sera 13.3.08
Per il Campidoglio La vicepresidente di Scienza e Vita: sui valori fronte comune tra fedeli dei due poli
Cattolici in corsa a fianco di Rutelli
In 15 con la Scaraffia nella lista civica: «Anche Roma affronti i temi bioetici»
di Roberto Zuccolini

ROMA — «Fra tante voci che parlano c'è bisogno che venga ascoltata anche la nostra ». E così Lucetta Scaraffia decide di candidarsi nella lista civica di Francesco Rutelli alla riconquista del Comune di Roma, con il preciso compito di rappresentarne l'anima cattolica.
Docente di Storia contemporanea, pur avendo un curriculum molto diverso, milita come la senatrice teodem Paola Binetti in Scienza e Vita, associazione dove ricopre la carica di vicepresidente. E la battaglia promessa è simile: «Sarebbe importante affrontare anche a Roma i temi che riguardano la bioetica ». Ma questa tornata elettorale la vede invece contrapposta (anche se si tratta di un'altra campagna, quella delle politiche) a Eugenia Roccella: l'ex radicale approdata, anche lei, tra i cattolici vicini a Scienza e Vita e animatori degli ormai vari
Family Day, è infatti candidata nel Pdl di Silvio Berlusconi.
Scaraffia promette di svolgere una precisa «missione» nella lista collegata a Rutelli: «I cattolici della Capitale sono conosciuti soprattutto a livello sociale.
Ed è giusto che sia così. Ma io cercherò di portare avanti una battaglia soprattutto sul piano culturale. Penso alle discussioni pubbliche, quelle che si potrebbero tenere all'Auditorium, a temi che riguardano la difesa della vita. E non solo: anche ad altri eventi come il 150˚ anniversario dell'Unità d'Italia. Ovviamente in un contesto pluralista, discutendo sempre con autorevoli interlocutori laici, ma con la possibilità, per i cattolici, di essere visibili e di avere una loro dignità».
La lista civica «Roma per Rutelli » ospiterà quindi anche cattolici impegnati, come Consuelo Battistelli, non vedente, responsabile dell'accessibilità per l'Ibm, insieme a tanti altri, ad attori come Francesco Siciliano e jazzisti come Lino Patruno. Ma conferma, di fatto, anche la diaspora dei cattolici tra i vari partiti di destra, di centro e di centrosinistra, in questa tornata elettorale, sia a livello nazionale che a livello locale.
Per Lucetta Scaraffia non è comunque un problema, anzi una ricchezza: «È come a Scienza e Vita: so benissimo che fra di noi c'è chi simpatizza per schieramenti anche opposti tra loro. Ma sulla fedeltà ai valori irrinunciabili si continua a fare fronte comune. E sarà sempre così. Non può essere altrimenti ».

Corriere della Sera 13.3.08
Argentina. È la prima vittima dei golpisti a portare in tribunale la famiglia
Figlia di desaparecidos denuncia i genitori adottivi «Sono ladri di bambini»
«Voglio per loro 25 anni di carcere»
di Alessandra Coppola

Quelli che pensi siano i tuoi genitori, irascibili e violenti ma comunque la tua famiglia, un giorno scopri che sono dei «ladri», che t'hanno sottratto neonata a una donna rinchiusa in un centro clandestino di tortura «per soddisfare il desiderio egoista di avere un figlio»: «In nome di tutti i bambini nelle mie condizioni, nell'interesse dell'intera società» María Eugenia Sampallo Barragán vuole adesso — ed è il primo caso in Argentina — che quella coppia sia riconosciuta colpevole di sequestro e negazione di identità, e condannata al massimo della pena, 25 anni di galera. Gli stessi chiesti ieri dal pm. Più o meno il periodo che lei, ora trentenne, ha passato a casa dei due impostori, la signora Gómez e il signor Rivas, con la finta madre che non faceva che gridare e una volta — così ha testimoniato in aula una vicina — arrivò a dirle: «Se sei tanto ribelle devi essere figlia di una guerrigliera...». Comunque non sua.
Il 24 luglio del 2001 l'esame del Dna ha provato definitivamente che María Eugenia è nata da due militanti comunisti, Mirta Mabel Barragán e Leonardo Ruben Sampallo, operai attivi nel sindacato e per questo nel 1977 sequestrati e fatti sparire dalle squadre al servizio dei militari golpisti.
Rinchiusa nel centro di tortura Club Atlético e poi a El Banco, Mirta viene tenuta in vita fino al '78: è incinta, e la bimba che dà alla luce a febbraio di quell'anno può rientrare nel «traffico» di figli di dissidenti (almeno 500, calcolano le Nonne di Plaza de Mayo, 88 ritrovati finora) affidati a famiglie vicine al regime.
È la sorte di María Eugenia. Grazie all'intervento dell'ex capitano Berthier — coimputato dei finti genitori nel processo in corso a Buenos Aires — vecchio amico della Gómez, la coppia a maggio del '78, riceve la neonata e usando un falso certificato di nascita la registra come figlia propria.
«Un oggetto — accusa l'avvocato della ragazza —. Rivas e Gómez non sono mai stati una famiglia per lei. La trattarono come un oggetto, cancellarono la sua identità e la privarono del legame con la sua famiglia, che l'ha cercata per 24 anni». Certamente l'ha fatto la nonna Barragán. Ma anche un fratello maggiore, nato dalla precedente unione della madre, come nella trama del film Hijos (figli) dell'italoargentino Marco Bechis si è impegnato tanto per ritrovarla.
I primi dubbi a María Eugenia vengono già da bambina e sono gli stessi genitori a instillarglieli. Quando la piccola ha 7 anni, Rivas e Gómez le confessano che è stata adottata, inventando però via via delle storie sempre più perverse: che i suoi veri genitori sono morti in un incidente d'auto, che sua madre è una domestica che ha regalato loro la bambina, anzi no, che è un'hostess rimasta incinta in Europa in seguito a una relazione extraconiugale...
Una marea di bugie, unite a liti furibonde e maltrattamenti, che nel 2000 — María Eugenia già è andata via di casa da due anni — convincono la ragazza a bussare alla porta della Commissione nazionale per il diritto all'identità (Conadi), istituita presso il ministero della Giustizia argentino. A riceverla è Claudia Carlotto, coordinatrice della Conadi — nonché figlia della leader delle Nonne di Plaza di Mayo, Estela — che l'aiuta ad avviare le ricerche per l'identificazione dei veri genitori (è proprio lei a comunicarle il nome della madre), e a impostare il processo ora arrivato alla fase del dibattimento.
Un percorso faticoso e commovente per María Eugenia, raccontano, fatto anche di pressioni psicologiche, di telefonate mute e intimidazioni, soprattutto da parte di quel capitano Berthier, l'intermediario coimputato, il vecchio e ambiguo amico di famiglia.
«María Eugenia è una ragazza molto coraggiosa — dice al telefono Estela Carlotto —, la prima vittima in Argentina a portare in tribunale i "ladri" che l'hanno sequestrata. Ci auguriamo che la condanna sia esemplare».

Corriere della Sera 13.3.08
La responsabile esteri del Psoe risponde al primate di Spagna
«Nel mirino di Zapatero l'intesa tra cattolici integralisti e popolari»
di Elisabetta Rosaspina

MADRID — Zapatero sciupafamiglie? In un certo senso, sì. Elena Valenciano, segretaria alle relazioni internazionali del partito socialista spagnolo ed europarlamentare, legge le dichiarazioni del primate di Spagna, il cardinale di Toledo Antonio Cañizares, al Corriere della Sera, e riconosce che effettivamente un matrimonio c'è, nel mirino della riconfermata maggioranza di governo: «L'unione tra la cupola del partito popolare e la cupola integralista della chiesa spagnola. Quello sì, è un accordo che sarebbe bene si rompesse finalmente».
Nell'interesse della stessa opposizione, aggiunge: «Mariano Rajoy sa che deve rompere questo rapporto se vuole conquistare il voto di centro. È vero che ha una base importante di elettori, ma non potrà mai vincere senza i voti di quanti rifiutano l'intromissione della gerarchia ecclesiastica nella politica. Il Pp ha bisogno del voto laico. La Spagna è un Paese cattolico, ma libero. Non vive come la Chiesa predica, vietando i rapporti sessuali prematrimoniali o l'uso dei preservativi. Sono direttive insostenibili nel tempo».
Nonostante l'indifferenza ostentata in questi giorni da José Luis Rodríguez Zapatero, i socialisti seguono con interesse le manovre in casa avversaria e sono convinti che almeno due battaglie parallele siano in corso: una all'interno del partito conservatore e una nell' episcopato. «Vedremo come va a finire — non ha fretta Elena Valenciano —. Ma è chiaro che la radio della Conferenza episcopale, Cadena Cope, e i giornali vicini alla destra più determinata non sostengono più Rajoy e pretendono le sue dimissioni. Anche nella cupola ecclesiastica non c'è omogeneità. Il nuovo presidente della Cee, Antonio Maria Rouco Varela, eletto per un solo voto, sembra voler smorzare i toni della polemica con il governo, mentre Cañizares, con le sue dichiarazioni, va in un'altra direzione ». Modi diversi di manifestare la medesima opposizione alla politica sociale di Zapatero? «Soltanto in Spagna si vedono i vescovi manifestare per le strade. Non si è visto in Italia e nemmeno in Polonia — obietta Elena Valenciano —. La verità è che la legge sull'aborto è la stessa che era in vigore con il governo Aznar, quando la chiesa non protestava, e che l'eutanasia è rimasta illegale in Spagna anche nell'ultima legislatura ». Il cardinale Cañizares prevede però un ampliamento della legge sull'aborto, nella prossima: si sbaglia? «C'è l'intenzione di migliorare la legge, per aumentare le garanzie e la privacy delle donne. Gli aborti sono quasi impraticabili nella sanità pubblica per l'obiezione di coscienza dei medici, che però intervengono in quella privata».
Elena Valenciano non prevede cambiamenti nelle relazioni fra Stato e Chiesa: «Probabilmente sarà sempre Maria Teresa Fernández de la Vega a tenere i rapporti con la gerarchia ecclesiastica. E soltanto se i problemi con i vertici della Conferenza Episcopale dovessero peggiorare, chiederemo l'intervento diretto del Vaticano ».

Corriere della Sera 13.3.08
Così sarà il mio Baudelaire
Un poeta per difendere la nostra cultura, minacciata dall'esterno
di Roberto Calasso

Vorrei innanzitutto ringraziare Antoine Gallimard e Marc Fumaroli per le loro parole, quanto mai generose e per me tanto più significative, data l'antica ammirazione che provo per entrambi. Ma, oltre che a loro, vorrei dire la mia gratitudine a un testimone muto, che è il luogo dove ci troviamo in questo momento. Devo confessarvi che sono un devoto osservatore e cultore delle coincidenze, nelle quali intravedo le ultime tracce nel nostro mondo di quelli che i veggenti vedici chiamavano i bandhu, le «connessioni». Ora, si dà il caso che questo luogo ne racchiuda una che per me è trascinante.
Innanzitutto da qui sono usciti quei libri che, quando da ragazzino li vedevo schierati in drappelli compatti, nella loro elegante divisa bianca con filetti neri e rossi, sul primo banco a sinistra della libreria Seeber a Firenze, significavano la Francia stessa e la sua letteratura, traboccanti di malie e di misteri. Ma c'è anche qualcos'altro: esattamente qui, al 17 di rue de l'Université, abitò in un periodo cruciale della sua vita e della Francia, nel 1790, un personaggio che sarebbe poi diventato per me lo Hermes psicopompo nell'impresa che ho avviato con La rovina di Kasch:
Monsieur de Talleyrand. Perciò in certo modo è come se la quintessenza della mia doppia vita, di scrittore e di editore, si fosse cristallizzata fra queste mura.
Nulla potrebbe aiutarmi meglio a spiegare quella sorta di compulsione — o altrimenti attrazione magnetica — che ha condotto sempre di nuovo chi vi parla verso questi luoghi. Una compulsione che proverò brevemente a raccontarvi. Tutto comincia con tre volumi Gallimard, la prima edizione della Recherche di Proust nella Pléiade, che fu il più bel regalo di Natale che abbia mai ricevuto. Era il 1954 e avevo tredici anni. Ricordo che mi ero fatto male a un ginocchio e dovevo restare immobile a letto per qualche giorno. Fu allora che mio padre mi portò quei tre volumi, nei quali mi immersi con un senso di ebbrezza che forse non ho più incontrato.
Pochi mesi dopo, Parigi fu la prima città straniera dove mi trovai a vivere da solo. Abitavo da amici dei miei nonni a Montmorency e ogni mattina prendevo il treno per Parigi da Enghien. Poi, fino alla notte, vagavo ovunque. Non credo di aver mai camminato senza meta in un luogo per così tanti chilometri come a Parigi in quelle settimane. E non vi è città di cui abbia mai conosciuto così bene la rete del métro, con una sorta di partecipazione erotica ai nomi delle stazioni, un po' come accadeva a Marcel per le stazioni ferroviarie intorno a Balbec. E il métro anche mi nutriva, con i suoi automates pieni di sucreries che mi fornivano energia per camminare.
Da quei giorni un filo teso e ininterrotto mi collega al punto in cui, circa trent'anni fa, tracciai un primo disegno, piuttosto temerario, di un'opera composta da vari pannelli al tempo stesso autosufficienti e interconnessi. A oggi, di quell'opera sono apparsi cinque volumi, che formano un insieme di più di duemila pagine. Li si potrebbe definire il romanzo di una famiglia capillarmente ramificata, eccentrica e migratoria, i cui membri si possono incontrare nella Francia sia di Port-Royal sia del Palais-Royal come nella Grecia di Omero e di Nonno, nell'India dei veggenti vedici o nel paese senza nome di Franz Kafka o nella Venezia di Giambattista Tiepolo. Per introdurre le storie di questa turbolenta famiglia avevo bisogno di un maestro di cerimonie — e uno solo si impose di autorità: era M. de Talleyrand, il quale a pochi metri da qui una sera introdusse in società, nel corso di un ballo memorabile per Joséphine all'Hôtel Galliffet, colui che avrebbe istituito la Légion d'Honneur ed era allora il generale Bonaparte. E così come, nella Rovina di Kasch, Talleyrand guida il racconto attraverso una fuga di saloni, nella sesta parte di questo romanzo di famiglia, che dovrebbe essere pubblicata nell'ottobre di quest'anno, a fare da guida sarà ancora una volta qualcuno che è nato non lontano da qui, a un incrocio di boulevard Saint-Germain. Si tratta di Charles Baudelaire — e i primi passi della narrazione non saranno nei salons descritti dalla duchessa d'Abrantès ma nei Salons della pittura, dove Baudelaire cominciò a esercitare la sua prosa.
Tutto questo mi induce a pensare che, quando mi trovo a uno snodo decisivo in questo abnorme romanzo di famiglia, qualcosa mi spinge irresistibilmente verso l'aria e le storie dei luoghi dove ci troviamo in questo momento. E, se mi domando perché, penso subito a Cioran, il quale preferiva la sua mansarda della rue de l'Odéon a ogni altro domicilio, non solo perché gli permetteva di fare agevolmente lunghe passeggiate solitarie al Luxembourg, ma perché aveva la vaga impressione che la stessa rue de l'Odéon fosse una sorta di perno cosmico, in qualche modo congeniale alla sua ipocondria ed euforia balcaniche. Cioran era convinto che in questa lingua, in queste strade e nella loro storia si celasse qualcosa che coinvolge nella sua interezza quel «piccolo capo del continente asiatico » (come diceva Valéry) in cui ogni europeo ha avuto in sorte di nascere. È un punto su cui ho sempre concordato pienamente con Cioran — e oggi vorrei solo aggiungere, come preliminare a ogni altra considerazione, le parole che ha detto una volta in un'intervista del 1985 (si osservi la data), il glorioso decano degli scrittori francesi, Claude Lévi-Strauss: «Ho cominciato a riflettere in un'epoca in cui la nostra cultura aggrediva altre culture — e a quel tempo mi sono eretto a loro difensore e testimone. Oggi ho l'impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia finita sulla difensiva di fronte a minacce esterne, fra le quali figura probabilmente l'esplosione islamica. E di colpo mi sono ritrovato a essere un difensore etnologico e fermamente deciso della mia stessa cultura».

Corriere della Sera 13.3.08
Guido Paduano analizza il carattere degli eroi
Achille, Odisseo, Enea ovvero l'egoismo l'intelletto e l'altruismo
di Eva Cantarella

L'eroe, alla cui figura e tipologia è dedicato il bel libro di Guido Paduano ( La nascita dell'eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale) èun personaggio — superfluo dirlo — diverso dagli altri; ma le sue qualità variano nel tempo e nella pluralità delle culture. Le qualità di Achille, per limitarci a un esempio, sono molto diverse da quelle di Giovanna d'Arco, di Robin Hood o di Re Artù. E insieme al modello eroico, si dice, cambia anche l'atteggiamento della società nei confronti dell'eroismo. Nel mondo moderno, sostengono alcuni, l'ideale eroico, perso il fascino e la funzione di un tempo, è stato «decostruito». Sul che sembra lecito avere dei dubbi: a seguito di un radicale mutamento di valori, piuttosto, l'ideale eroico è stato dislocato.
Chi considererebbe un eroe, oggi, un personaggio come Achille? Uomo ferocissimo, tra l'altro diverso non solo dagli eroi odierni, ma anche da quelli greci classici: Leonida, ad esempio, il generale spartano che nel 480 a.C., con i suoi soldati, riuscì a bloccare per tre giorni al passo delle Termopili l'immane esercito persiano e, infine, accerchiato, rifiutò di arrendersi, sacrificando la vita sua e dei suoi celebri Trecento. Leonida muore per la patria, per il bene comune. Achille non si sarebbe mai sognato di fare una cosa simile: per lui, quel che contava era l'interesse suo, privato, non di rado brutalmente egoista. Che importava se, dopo che si era ritirato dalla battaglia perché Agamennone gli aveva sottratto la schiava-concubina Briseide, i greci morivano a migliaia? Agamennone gli aveva fatto un torto, aveva offeso il suo onore: che i greci morissero pure, a lui non interessava. Solo quando Ettore uccide l'amatissimo Patroclo, l'eroe riprende le armi. Per fare vendetta. Ma allora, quali sono le qualità che fanno di lui il personaggio che rappresenta il modello eroico nell'Iliade?
La figura eroica, scrive Paduano, è una singolarità che sollecita ad approfondire la condizione umana, guidando nell'esplorazione di territori sconosciuti. E poiché nulla è più sconosciuto della morte, l'eroe è, in primo luogo, quello le cui azioni non sono mosse dal-l'istinto di conservazione, comune agli altri «mortali» (brotoi). L'eroe afferma il primato dell'essere umano sulla morte. E nei grandi poemi classici, ci mostra Paduano, lo fa in forme diverse, che vengono a costituire tre modelli dello statuto della dimensione eroica distinti tra loro, ma in stretta relazione l'uno con l'altro, così come sono in relazione i tre poemi che li celebrano.
L'Odissea, superfluo dirlo, presuppone la guerra di Troia, raccontata dall'Iliade: senza di questa, non vi sarebbero i «nostoi», i racconti dei ritorni in patria degli eroi greci. E la tipologia eroica di Odisseo, protagonista di un ritorno, è diversa da quella di Achille. L'impossibilità di misurare l'indicibile superiorità di Achille sui commilitoni e sui nemici è tale da fare di lui la «singolarità assoluta». Nessun altro è comparabile a lui. La sua relazione con la morte è diversa da quella degli altri eroi. A differenza di questi, egli non spera nel ritorno; sa, senza possibilità di dubbio, che da quella guerra non tornerà, e domina questa certezza, prezzo della sua gloria eterna.
Diverso il caso di Odisseo, che nel ritorno investe tutte le sue capacità. Nel corso del viaggio, egli rifiuta il dono dell'immortalità: la ninfa Calipso, innamorata di lui, glielo offre a condizione che resti con lei, nella sua isola fiorita. Ma per Odisseo la dimostrazione del valore non sta nel superare la morte, offerta contro prezzo; sta nello sconfiggere chi tenta di usurpare il suo potere e rubargli la moglie, sta nel restaurare la vita civile a Itaca. Il ritorno gli consente di mettere alla prova le qualità di un nuovo eroe, possessore di astuzia e intelligenza, le qualità che gli fanno sconfiggere il Ciclope. Ulisse è l'eroe della ragione.
Quanto all'Eneide, la relazione con i poemi più antichi emerge dal continuo rimando a motivi omerici. Virgilio non può essere letto senza Omero. Ma, lo abbiamo visto, il confronto non significa solo dipendenza: Odisseo è diverso da Achille, e l'eroe di Virgilio è diverso da ambedue. Il destino di Enea, che avrebbe voluto morire con la sua città, è quello di vivere — pur sentendone il disagio — per realizzare un disegno divino, che peraltro egli condivide: la costruzione del mondo di Augusto. Si imparano queste e molte altre cose, leggendo il bel libro di Guido Paduano. Si leggono in chiave diversa storie e personaggi che si pensava di conoscere: ma che, si scopre, hanno molte altre cose da dirci.

Corriere della Sera 13.3.08
Com'era ingenuo il giovane Rilke
di Paola Capriolo

È noto che negli anni della maturità Rainer Maria Rilke prese le distanze dalle sue prime pubblicazioni, tanto dallo sconsigliarne all'editore la ristampa definendole «un punto di partenza sbagliato nella parabola ascendente dell'opera pura». Se questo giudizio si riferiva principalmente alla produzione poetica, possiamo supporre che l'autore non fosse più tenero nei riguardi dei suoi racconti giovanili, rimasti in gran parte inediti fino a quando, nel 2004, il Rilke-Archiv li raccolse in un volume curato da August Stahl e ora tradotto in italiano da Nicoletta Dacrema con il titolo Serpenti d'argento (Guanda, pp. 234, e 16,50). In effetti, queste prove non lasciano minimamente presagire il genio futuro dell'autore. Dimostrano, è vero, un certo istinto narrativo, che in parte andrà perduto nelle opere più mature; ma lo stile è quasi sempre di un'ingenuità disarmante e soprattutto di una sorprendente banalità, come se l'esordiente avesse fretta di ripercorrere tutti i cliché del naturalismo e del simbolismo prima di intraprendere la faticosa ricerca di una propria voce personale. Sotto gli occhi del lettore sfila un'impressionante galleria di creature infelici (bambini maltrattati, povere sartine, mogli incomprese), tutte crudelmente ferite dalla vita e deluse, in special modo, dalle relazioni amorose. Le più accorte o rassegnate, come la coppia di fidanzati del racconto Due sognatori, arrivano addirittura a giocare d'anticipo separandosi di comune accordo prima di incorrere nell'inevitabile disillusione; ma non vi è pagina in cui non si respiri un acuto terrore della realtà e del suo potere di distruggere le nostre speranze. Difficile immaginare cammino più lungo e impervio di quello che conduce da un pessimismo così ossessivo alla «lode infinita » celebrata nei Sonetti a Orfeo o all' «Essere qui è splendido» che, nella «Settima Elegia», squarcia come un lampo il cielo incupito di un'epoca; eppure proprio lui, il triste sognatore atterrito dalla durezza del mondo, sarebbe arrivato a rivendicare di fronte agli angeli la grandezza del destino terreno, e forse non avrebbe potuto farlo con tanta persuasività senza il lento, assiduo apprendistato della disperazione di cui questi racconti ci offrono una testimonianza.

Corriere della Sera 13.3.08
Il pensiero occidentale
La non-contraddizione: un «male» necessario
di Armando Torno

Il principio di non-contraddizione è presente in tutta la storia del pensiero occidentale, da Parmenide in poi. Su di esso hanno riflettuto i sommi, da Leibniz a Kant a Hegel. Oggi lo conosciamo attraverso l'espressione cara ai logici: è impossibile che una cosa insieme sia e non sia. Aristotele, nella Metafisica, ci offrì la formulazione classica: «Niente può insieme essere e non essere la stessa cosa»; Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae lo sciolse: «Non si può insieme affermare e negare la stessa cosa».
Ora Gianluigi Pasquale, discepolo di Rino Fisichella e professore di teologia dommàtica alla Lateranense, ci offre un prezioso saggio intitolato Il principio di non-contraddizione in Aristotele (è la traduzione dalla seconda edizione del 2006, scritta in inglese per la prestigiosa Academia Verlag). Ci ricorda che in «ogni attimo della nostra breve esistenza» utilizziamo codesto principio, indimostrabile e al tempo stesso inevitabile, che la logica classica ha sempre ritenuto base essenziale del ragionamento. Il saggio di Pasquale offre nuove prospettive di lettura, indicando la possibilità di giustificare il celebre assunto attraverso la conoscenza intuitiva, riconoscendone l'indimostrabilità ma anche il carattere non ipotetico. Pagine che ripercorrono il testo aristotelico con grande competenza, chiamando in causa pensiero e storiografia filosofica contemporanea da Severino a Berti, da Ayer a Tarski, da Reale a Ross.
G. PASQUALE Il principio di non-contraddizione in Aristotele BOLLATI BORINGHIERI PP. 102, e 13

Corriere della Sera 13.3.08
Presentata l'edizione critica. Salvatore Settis: escluso che sia dell'800. I dubbi filologici
«Artemidoro, il papiro non è un falso»
Gli esperti a Berlino: l'analisi chimica lo fa risalire al I secolo dopo Cristo
di Dino Messina

BERLINO — Il papiro di Artemidoro campeggia da ieri in una sala dell'Altes Museum di Berlino, circondato da altri antichi reperti ellenistici ed egizi. E con l'apertura della mostra viene esibita anche un'edizione critica senza eguali, considerata dai curatori, Claudio Gallazzi, antichista dell'università di Milano, Barbel Kramer, dell'università di Treviri, e Salvatore Settis, storico dell'arte antica e direttore della Normale di Pisa, la «prova del nove» che quella sottile e preziosa pergamena acquisita dalla Fondazione per l'arte della Compagnia di San Paolo per 2.750.000 euro sia autentica. O meglio, proprio di Artemidoro non è, ma è una copia che risale «almeno al primo secolo dopo Cristo».
In realtà di argomentazioni per contestare l'ipotesi del falso sostenuta da Luciano Canfora ne sono state portate parecchie. Lo ha fatto ieri sera Settis durante una lectio magistralis, continueranno oggi gli altri studiosi italiani e stranieri in un convegno interdisciplinare.
Innanzitutto per la prima volta verranno resi noti dal fisico Pier Andrea Mandò, del Labec, il Laboratorio per i beni culturali di Firenze, le conclusioni delle analisi chimico fisiche condotte sul papiro e sull'inchiostro. «Le analisi condotte con il carbonio 14, utilizzando la tecnica della spettroscopia di massa con acceleratore su tre campioni del papiro — ci ha detto Mandò — ci fa dire che al 95% il reperto può essere datato tra il 40 avanti Cristo e il 130 dopo Cristo: al 68% l'intervallo di probabilità è compreso tra il 15 e l'85 dopo Cristo». Anche sulla base di questi risultati, ha confessato Gallazzi, «abbiamo spostato, di circa un secolo la datazione del testo, rispetto a una prima ipotesi del 1998. Dal I secolo avanti Cristo al primo dopo Cristo». Non l'originale dunque del II libro della Geografia di Artemidoro, ma una sua copia fatta su un papiro che secondo la famosa teoria delle tre vite, ribadita ieri sera da Settis, fu abbandonato per un errore, quindi servì in un primo tempo come repertorio con disegni di animali reali o fantastici in una bottega artigiana, quindi fu usato per disegni anatomici. Le analisi chimiche hanno riguardato anche l'inchiostro. «Il papiro di Artemidoro — ha detto Mandò — è stato scritto con inchiostro vegetale, a base puramente organica, non con inchiostro metallo-gallico, basato cioè su sali metallici, come si usava nell'Ottocento». Una affermazione che escluderebbe totalmente l'ipotesi avanzata da Canfora secondo cui il papiro potrebbe essere opera di un falsario greco vissuto nell'Ottocento, Costantino Simonidis.
E la prova di polvere di grafite che un anno fa trapelò da un laboratorio di Brescia? «Si tratta di cristallizzazioni di sostanze vegetali avvenute successivamente ». Dall'analisi chimico fisica a quella dello stile, i curatori del volume non hanno trascurato nessun aspetto, tanto da chiedere il contributo del filologo della Sapienza di Roma, Albio Cesare Cassio, convinto assertore dell'autenticità ma anche del fatto che Artemidoro, soprattutto nelle prime due colonne del testo, una sorta di proemio che canta le lodi della geografia, «era scrittore a tratti involuto, diremmo oggi barocco, raro esempio di prosa "asiana". Ma di qui a sostenere, come fa Luciano Bossina, che si tratti di un linguaggio teologico risalente a epoche bizantine ce ne corre. L'errore che fanno i sostenitori dell'ipotesi che il papiro sia un falso è di non considerare quanto sia grande il patrimonio perso della cultura antica, sicché quasi ogni papiro scoperto ci propone una parola che non conoscevano o ci fa retrodatare di secoli l'uso di un altro termine».
Questo è l'argomento usato contro chi come Stefano Micunco ha sostenuto che alcune parole, quali
kenalopex, anatra con volpe, fossero state attinte dal falsario Simonidis addirittura da repertori del 1600. «Considero Canfora — ci confida Cassio — uno studioso di intelligenza e competenze superiori alla media, ma questa volta lui e i suoi allievi si sono innamorati di una ipotesi sbagliata».
Il problema, incalza Settis, «non è l'interpretazione di Canfora, ma i problemi aperti da questo papiro che nemmeno l'edizione critica riesce a risolvere appieno. Qual è per esempio la funzione di quella cartina in cui si vedono strade, fiumi e vignette ma senza precise indicazioni toponomastiche?». Forse si tratta di una parte della Spagna descritta nelle colonne quarta e quinta del testo, ma non ne siamo sicuri.
E l'obiezione di fondo secondo cui il papiro di Artemidoro conterrebbe una sintesi fatta da Marciano, poi ripresa da Stefano di Bisanzio, quindi nel decimo secolo da Costantino Porfirogenito, quindi edita e corretta nel 1800 da August Meinecke? Rivelerebbe insomma tutti questi passaggi e sarebbe perciò un falso.
Secondo Settis, «questa obiezione non sta in piedi. Canfora e i suoi allievi hanno in realtà rovesciato i termini del problema e hanno creduto così di ricostruire il falso». Quanto alle «congetture» apportate da Meinecke, «a mio avviso — aggiunge Cassio — ci restituiscono l'Artemidoro autentico».
Insomma in questi due giorni berlinesi si parla molto di filologia, chimica, fisica, papirologia. Al centro della discussione Artemidoro, ma anche Luciano Canfora, che non si sa perché non sia stato invitato. Avrebbe potuto rispondere alle obiezioni a lui mosse fra le pagine 56 e 60 dell'edizione critica pubblicata dalla Led. Compresa questa: «Se si guardano i disegni al microscopio, si vede agevolmente che essi furono tracciati su un supporto perfettamente integro, giacché non ci sono sbavature di inchiostro nei fori, né segni stesi su fibre scomposte, né tratti interrotti prima dei buchi, che sono indizi di contraffazione. Non è pensabile che un rotolo di 3 metri senza la minima lesione possa essere venuto nelle mani di un falsario, il quale lo avrebbe imbrattato di disegni, per poi farlo a pezzi e nasconderlo dentro un ammasso di papier maché da vendere per pochi soldi a Saiyd Khashaba Pasha».

Corriere della Sera 13.3.08
Il carbonio 14. E Canfora fa il corsaro con una mail in tedesco
di D.M.

BERLINO — Lo scomodo assente di questa due giorni artemidorea, Luciano Canfora, il filologo dell'università di Bari, che da due anni, con ricerche, saggi e conferenze, va sostenendo la tesi della falsità del papiro, ha trovato il modo di far sentire la sua voce. Alcuni studiosi invitati e partecipanti al convegno hanno ricevuto via email un testo in tedesco intitolato «Perché non può essere un papiro di Artemidoro». Il saggio, a firma dello stesso Canfora e del bizantinista Luciano Tossina, dell'università di Gotingen, contiene tuttavia una prefazione di tre pagine in italiano che introduce un nuovo elemento di polemica. Secondo i due filologi sarebbe proprio l'autenticità del papiro a dimostrarne la falsità. Spieghiamoci meglio, magari con una citazione testuale: «Ci viene rivelato che prove inoppugnabili (carbonio 14) portano al I a.C./I d.C. Per parte nostra l'abbiamo sempre pensato e, in certo senso paventato: giacché se così stanno le cose, la falsificazione è certa, purtroppo. Poiché infatti il testo presente nella colonna quarta è largamente ricavato da Marciano, come potrebbe uno scritto sorto comunque dopo il IV secolo d.C. trovarsi su di un supporto del I a.C.? Solo un taumaturgo — o più ragionevolmente un falsario! — potrebbe realizzare questo "miracolo". E quanto all'inchiostro è ben noto che falsari capaci di imitare gli inchiostri antichi (descritti, tra l'altro, in antiche ricette giunte sino a noi) ce ne sono e ce ne sono stati». Non invitato, Canfora fa sapere ai suoi colleghi che secondo lui più che la chimica conta la filologia. E insiste con la tesi del falsario greco vissuto nel XIX secolo Costantino Simonidis, vero autore secondo lo studioso, qui a Berlino in veste corsara, del frammento attribuito al secondo libro della geografia di Artemidoro.

Corriere della Sera Roma 13.3.08
Matematica. Knutson e Giorello all'Auditorium: «Così il mondo degli scienziati usa i numeri per studiare i giocolieri»
di Lauretta Colonnelli

C'è un indovinello che i matematici raccontano a proposito dei loro rapporti con la giocoleria. Un uomo deve attraversare un ponte che regge un peso di 81 chili. L'uomo pesa 80 chili ma deve portare con sé tre palle d'oro da mezzo chilo ciascuna. Soluzione: può attraversare il ponte solo giocolando per tutto il percorso, perché, quando si giocola, almeno una pallina sta sempre in aria, quindi non influisce sul peso del giocoliere. L'indovinello è riportato da Leonardo Angelini nel suo libro «L'attore giocoliere», (di prossima uscita presso le edizioni Un mondo a parte-Dipartimento di arti e scienze dello spettacolo dell'Università La Sapienza), che dedica un lungo capitolo al rapporto tra giocoleria e scienza. Il juggling è una pratica millenaria, ma è soltanto in questo secolo che ha affascinato e interessato scienziati e matematici. Uno di questi è Allen Knutson, che si esibirà per il pubblico del Festival della matematica sabato prossimo alle 21 all'Auditorium Parco della Musica, accompagnato dalle suggestioni del filosofo Giulio Giorello. Knutson, che è professore associato alla University of California di Berkeley, è stato anche il detentore del record del mondo della International Jugglers' Association dal 1990 al 1995 nella specialità dei giocolieri in coppia con la palla (il record era di 12 palle mentre oggi è di 13).
Che cosa succederà sabato sul palco dell'Auditorium? «Andremo senza copione, perché ritengo che l'elemento caratteristico della giocoleria sia proprio il gusto di sorprendere», annuncia Giorello. «Sarebbe bene far capire che il gioco è una cosa molto seria e che ha degli aspetti matematici affascinanti, molti dei quali si annidano nel tentativo di esprimere in una sequenza finita di simboli le varie posizioni del nostro corpo. Così si mettono in connessione due aspetti affascinanti della matematica: quello classico che ha a che fare con l'infinito e quelle matematiche "finite" o "combinatorie" che hanno a che fare con un numero limitato di oggetti».
Durante gli ultimi decenni sono stati sviluppati anche numerosi sistemi di notazione numerica per semplificare e spiegare tricks (lanci) ai giocolieri di tutto il mondo. Il sistema che ha riscosso maggior successo e diffusione è stato il siteswap, elaborato nel 1985, quasi contemporaneamente - e a conferma - dell'interesse scientifico diffuso per il juggling. «Per spiegare veramente uno schema di juggling - dice Knutson - l'ideale sarebbe quello di riuscire a descrivere la posizione di ogni muscolo del corpo del giocoliere in ciascuna frazione di secondo, compresa quella in cui pronuncia la sua battuta. L'idea che sta dietro il siteswap è quella di seguire la traccia dell'ordine in cui le palle vengono lanciate e prese. Poiché in qualsiasi tipo di juggling, quello che si fa è lanciare e prendere le palline in un certo ordine, ci sarà sempre un qualche siteswap che potrà descriverlo. Un altro obiettivo può essere quello di prendere una descrizione e cercare di giocolare in quel preciso modo. Poiché è impossibile tenere traccia di tutti i movimenti di uno schema, allo stesso modo è probabile che non esista un'unica maniera per mettere in pratica la suddetta descrizione. A quanto pare nel siteswap esiste uno standard. Ma esistono anche lanci talmente unici che definirli siteswap equivarrebbe a darne una descrizione riduttiva».
❜❜ Andremo senza copione, perché ritengo che l'elemento caratteristico della giocoleria sia proprio il gusto di sorprendere

Corriere della Sera Roma 13.3.08
Cibo, libri e sound con Don Pasta
di D. To.

Il team di L-Ektrica, conosciuto a Roma per le serate all'Akab, moltiplica le sue attività con L-Ektrica Deluxe. La musica, in questo caso, s'incastra perfettamente con cibo, lettura e arte, per dare vita al progetto Soul Food. L'evento di domani, che si terrà al Lanificio (via di Pietralata 159), sarà a cura di Don Pasta, protagonista di performance di cibo, suoni e immagini. Per investire tutti gli organi sensoriali del pubblico presente sono stati chiamati a raccolta i Gastronauts, gruppo di chef capaci di veri Food Set, che assicureranno l'esplosione del gusto, mentre Alif Tree (dj e produttore della Compost Record) penserà alla ricetta musicale costruita su l'omaggio a Miles Davis e al funk orchestrale di Isaac Hayes. Una ripresa in diretta del lavoro svolto in cucina, elaborata e filtrata da Francesco Quarto, darà vita ad una danza di immagini suggestive. Don Pasta, alias Daniele De Michele, dj economista con la passione per la gastronomia e già protagonista di performance musical- golose, sarà il direttore, come fa nelle serate organizzate in tutta Europa, di quest' inedito spettacolo dei sensi.
Questa sera torna l'appuntamento con la musica house, funky e disco anni '70 a London Calling al Rialtosantambrogio
(via di Sant'Ambrogio 4). Dj set di Gino Woody Bianchi. Venerdì al Goa (via Libetta 13) è di scena Misstress Barbara, dj performer, che da anni gira il mondo toccando paesi come le Filippine, la Germania, la Francia, con una presenza grintosa in club come il Twilo di New York ed il Florida 135 di Barcellona. Sulla consolle del Rashomon (via degli Argonauti 16) sabato sale Konrad Black, considerato uno degli artisti più interessanti nella scena dell'elettronica contemporanea.
Dj e vintage market potrebbe essere la formula ideale della domenica pomeriggio. E' l'appuntamento del Micca Club (via P.Micca 7a), dalle ore 18 banchetti di dischi, abbigliamento, accessori e il dj set di Marvin.

mercoledì 12 marzo 2008

Veltroni: «Non è più il tempo della lotta di classe, è il tempo dell'alleanza tra produttori»

Ida Dominianni «trasmettiamo cinismo alle giovani generazioni (...) come quando diciamo che Michel Foucault è un delinquente»
Liberazione 12.3.08

Le proposte di economisti, sociologi, urbanisti
Bertinotti: la possibilità della trasformazione è la nostra ragion d'essere «Una nuova alleanza tra politica e cultura»
La sinistra incontra i protagonisti del sapere
di Romina Velchi

Hanno un disperato bisogno l'una dell'altra. La cultura, nel senso più ampio del termine (cioè formazione, educazione, ricerca, analisi) per ritrovare il proprio ruolo, per tornare ad essere un «valore positivo»; la politica per uscire dalla crisi che la divora e, nello specifico, per dare una chance alla Sinistra arcobaleno. Sennò perché dedicare un intero pomeriggio, a Roma, ad un convegno dal titolo "La cultura di fronte alla crisi della politica"?
Non il "normale" incontro tra produttori di sapere (economisti, sociologi, intellettuali, giornalisti, urbanisti, architetti) per chiedere questo e quello alla politica (o meglio alla sinistra) alla vigilia di una "normale" tornata elettorale. Ma un momento di riflessione sulla necessità «cruciale» dello scambio. La cultura - dice per esempio Grazia Francescato - come «antidoto» alla crisi della politica; la politica come strumento per far fare un «salto di qualità alla coscienza collettiva».
Sì, perché di normale questa campagna elettorale ha davvero poco, se è vero che, come dice Fausto Bertinotti chiudendo l'incontro, «c'è il serio rischio che la sinistra esca dalla scena politica in Italia e in Europa». «Gianfranco Fini con intelligenza politica, dal suo punto di vista, dice che il 13 aprile sarà la liberazione dell'Italia dalla sinistra», cioè, spiega Bertinotti, allude al fatto che «sarà la fine della storia italiana così come iniziata nel dopoguerra, rovesciando la storia della liberazione che ha visto la sinistra contribuire in modo decisivo alla nascita della nazione». C'è una «convenzione ad escludere la sinistra - concorda Cesare Salvi - una vera e propria preclusione ideologica. Tentano l'emarginazione fino ad estinguere la sinistra».
Di qui la sfida della Sinistra arcobaleno, la cui ragion d'essere, o meglio il suo «punto distintivo» dalle altre forze politiche è quello di «mettere in discussione» l'attuale modello di società. Ma, avverte il presidente della Camera, «non si può fare una nuova sinistra senza la cultura». Se la politica, da mera «tecnica della governabilità, tecnica tra le tecniche», riprende «l'istanza del cambiamento», «la cultura diventa essenziale - sottolinea Bertinotti - diventa il disegno, il progetto della sinistra». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno lo sottolinea più volte: ci vuole «l'alleanza tra la politica e la cultura» se vogliamo «combattere le solitudini e le spinte centrifughe».
Ma, naturalmente, tertium non datur : «Se chiudiamo la campagna elettorale con un insuccesso» i «produttori di cultura resteranno isolati» e i politici non avranno la forza per andare avanti: «La possibilità di incidere sulla realtà sarà amputata drasticamente». Insomma, la cultura (una cultura che «contenga la teoria politica») diventa necessaria se si vuole rimettere all'ordine del giorno la possibilità della trasformazione; che è a sua volta «la ragione della nascita del nuovo soggetto politico». Non è uno scherzo.
Anche perché, come sottolinea Cesare Salvi, «il degrado della politica italiana si è accentuato, come dimostra il dibattito elettorale». Colpa di una «pessima legge elettorale», ma anche delle «labili fondamenta sulle quali è stata edificata la seconda Repubblica». Per Salvi l'obiettivo è ricostruire «su basi nuove il rapporto tra la politica e la cultura», tenendo presente che non siamo di fronte ad «una crisi di governabilità» (come ci viene ripetuto ad ogni istante) ma di «partecipazione». La difficoltà, ammette Bertinotti, sta nel «costruire un legame, di mettere in rapporto i diversi contributi» che la cultura può dare. Anche se Luciana Castellina esordisce spiegando che «non c'è un noi e un voi», perché «anche noi siamo chiamati a fare politica»: la «separazione» tra cultura e politica è la cosa più grave degli ultimi anni, visto che la politica si è ritirata nella sfera istituzionale, e ci «annichilisce tutti». Ma questo è, appunto, il «valore aggiunto del voto alla sinistra»: il superamento di questa separazione, che ha segnato «il declino inesorabile della nostra cultura».
Sul palco si alternano gli interventi. C'è il tema del precariato nella scuola e nell'università e l'invecchiamento della popolazione docente, che fa il paio, come sottolinea il sociologo Paolo De Nardis, con le giovani generazioni capaci solo di accettare lo statu quo e alle quali non appartiene più la dimensione del futuro e della trasformazione della realtà. E magari, la colpa è anche «nostra», dice Ida Dominianni, che «trasmettiamo cinismo alle giovani generazioni, come quando diciamo che Michel Foucault è un delinquente» (e ce l'ha con Liberazione ). «La cultura - dice ancora Dominianni - chiede alla politica un riconoscimento di autorità», oggi che il «principale effetto del berlusconismo è che la cultura è diventato un disvalore». Questo deve essere «l'impegno di base della sinistra». E la politica, cosa chiede alla cultura? «Nulla - risponde la giornalista, è questo il guaio, chiede solo volti noti».
C'è il tema della decrescita: ne parla Carla Ravaioli, ricordando che «è compito della sinistra» mettere al centro il conflitto capitale-natura e ricordare, anzi «gridarlo», che con «la crescita aumentano lo sfruttamento e le diseguaglianze» (qualcuno lo dica a Veltroni). Secondo Carla Ravaioli, dopo tutto, la crisi economica attuale, «che nessuno più nega», può essere «un'occasione», visto che lo stesso segretario dell'Onu «ha proposto di ridurre il Pil dell'1%» per fermare le emissioni inquinanti e «tentare di esorcizzare la catastrofe ecologica». C'è il tema della tecnologia che oggi sembra permeare tutta la cultura moderna (lo ricorda Marcello Cini, che si schermisce: «Non parlerò del papa, a costo di deludervi!»). C'è il tema dell'urbanistica e dei territori, i luoghi dove oggi «avvengono le trasformazioni delle figure sociali» (Massimo Ilardi).
E soprattutto, c'è l'economia. Riccardo Realfonzo (da sempre propugnatore della stabilizzazione del debito anziché della riduzione) non usa mezzi termini: «Sono inorridito» dal programma economico del Pd, tutto basato su riduzione del Pil, flessibilità, restrizione dell'intervento pubblico. Esiste una strategia alternativa per la sinistra? La proposta è bell'e pronta: rilancio dell'intervento pubblico, buona politica industriale e qualità del lavoro. «La legge marxiana della centralizzazione dei capitali è in atto. Occupiamoci di assetti dei capitali, di strategie economiche (i comunisti l'hanno saputo fare) - esorta Emiliano Brancaccio - se non vogliamo fallire». La Sinistra arcobaleno non vuole.

l’Unità 12.3.08
Matti, festa per la liberazione
di Daniela Volpi

IL MEETING 1978: grazie a Franco Basaglia, veniva introdotta una legge che ridava dignità ai sofferenti psichici. Via la contenzione, via l’elettrochoc, libertà per i «matti». A Trieste, Paoli e Cristicchi padrini di una stagione di spettacoli per ricordare

Si chiama «La fabbrica del cambiamento» ed è il cantiere multimediale articolato in spettacoli, arti e cultura, scienza e ricerca, avviato a Trieste dal Dipartimento di salute mentale, nel trentesimo anniversario della storica riforma Basaglia che, il 13 marzo '78, segnò la fine, in Italia, dell'esperienza di custodia manicomiale.
«Una festa, innanzitutto - sottolinea il direttore dei servizi Peppe Dell'Acqua - Perché a trent'anni dalla legge 180 è arrivato il momento di gioire di una riforma che ha restituito ai pazienti il diritto alla soggettività». «Sarà l'occasione per riportare a Trieste, dove la riforma ha avuto inizio, gli artisti che, nel tempo, si sono interrogati sulla questione», spiega Massimo Cirri, voce fra le più amate della radiofonia italiana con il suo Caterpillar su Radio2, autore e psichiatra, da alcuni mesi in forze all'azienda sanitaria di Trieste dov'è curatore del palinsesto degli spettacoli della «Fabbrica del cambiamento».
Ha inaugurato questa iniziativa, pochi giorni fa, un concerto in jazz di Gino Paoli, che insieme a Simone Cristicchi sarà nume tutelare del nuovo progetto dell'Orchestra «I Mati de Trieste», nato sul modello dell'Orchestra di Piazza Vittorio. E nei prossimi mesi arriveranno Marco Paolini con un nuovo progetto sul T4, il piano nazista di sterminio dei disabili, e Ascanio Celestini con La pecora nera, viaggio in quel che resta dei manicomi italiani. Lella Costa e Paolo Fresu duetteranno fra musica e letture, in una mise en espace dal libro di Peppe Dell'Acqua, Non ho l'arma che uccide il leone. Natalino Balasso renderà omaggio a Luigi Meneghello e al suo Libera nos a malo, l'Accademia della Follia porterà in scena W Basaglia, per la regia di Giuliano Scabia, storico collaboratore dello psichiatra veneziano.
Fra gli eventi più attesi è in programma una nuova tappa del progetto Stazioni lunari nato da un'idea del musicista Francesco Magnelli (già dei Csi) e che vedrà confrontarsi sul palcoscenico, il 16 maggio, fra musica e teatro, Simone Cristicchi, Teresa De Sio e Peppe Servillo, per il trait d'union di Ginevra Di Marco.

l’Unità 12.3.08
Luciano Canfora attacca: non è autentico. Ma Salvatore Settis a Berlino ribadisce la sua tesi
Ancora lite sul Papiro di Artemidoro: è falso oppure no?
di Marco Innocente Furina

È autentico o non è autentico? Quella sul papiro di Artemidoro, una delle più accese querelle culturali degli ultimi anni, promette di durare ancora a lungo, ma la grande mostra che apre oggi a Berlino, con la contemporanea presentazione dell’edizione critica, è destinata a segnare un momento fondamentale nella discussione intorno all’originalità del prezioso frammento.
La polemica va avanti da due anni, da quando nel 2006, il papiro di Artemidoro è stato il protagonista di una importante mostra a palazzo Bricherasio a Torino, dopo che la Fondazione per l’Arte della compagnia di San Paolo, su sollecitazione del Ministero per i beni culturali, per aggiudicarselo aveva sborsato, la ragguardevole cifra di 2.750.000 euro.
Fu proprio allora che, dopo aver visitato la grande l’esposizione, il grecista Luciano Canfora fu colto dai primi dubbi. Troppe cose, a partire dalla lingua usata nel testo, non tornavano. Ne nacque una polemica durissima, condotta anche dalle pagine dei più importanti quotidiani nazionali, fra lo stesso Canfora e Salvatore Settis, storico dell’arte e direttore della Normale di Pisa che aveva invece certificato l’originalità dei frammenti.
A due anni di distanza Canfora e Settis tornano a incrociare le spade. Lo storico dell’arte e i filologi Barbara Kramer e Claudio Gallazzi, annunciano - finalmente - la presentazione di un’edizione critica, mentre il docente dell’Università di Bari, dopo aver dato alle stampe un primo testo in inglese The true history of so-called Artemidorus papyrus (edizioni Pagina) con l’aiuto di un manipolo di studiosi (Luciano Tossina, Livia Capponi, Giuseppe Carlucci, Vanna Maraglino, Stefano Micunco, Rosa Otranto, Claudio Schiano), spiega perché, ne Il Papiro di Artemidoro, un corposo volume edito da Laterza, il rotolo in questione non possa essere originale.
La lingua, innanzitutto. Artemidoro di Efeso visse a cavallo tra il II e il I a. C. ma lo stile del papiro non ha nulla a che vedere con lingua classica in uso allora. I sostenitori dell’autenticità rispondono con la teoria delle «tre vite», ovvero i tre momenti in cui il documento sarebbe stato scritto e disegnato. Ribatte Canfora: le «tre vite», a dar retta a questa teoria, si sarebbero svolte entro la fine dell’età di Nerone, ovvero il I secolo d.C, mentre nel testo sono presenti colloquialismi di epoca basso-bizantina. Dunque parecchi secoli dopo il regno dell’impertore. Ma non basta. Perché nel reperto sono presenti interi brani di Marciano, un autore bizantino vissuto nel IV secolo d.C, per non parlare di usi e riferimenti più vicini alla prosa dei padri della Chiesa che al greco classico. Un’anomalia che per il filologo Albio Cassio, uno dei curatori dell’edizione critica, si spiegherebbe facilmente: ci troveremmo di fronte a una rarissima e quindi preziosissima attestazione del greco asiano, uno stile andato quasi del tutto perduto. Altro che greco d’Asia e greco d’Asia, nello scritto - incalza Canfora - ci sono troppe incongruenze. Prendiamo il termine «Oblevion», il nome di un fiume come era stato ribattezzato in epoca moderna, mentre la forma antica, attestata in Strabone è «Belion». E così via.
Come in ogni buon processo indiziario le parti hanno pure fatto ricorso alle perizie tecniche. Ma come spesso avviene in questi casi neanche le analisi chimiche hanno messo la parola fine alla discussione.
Ma a non convincere Canfora non è solo la sintassi. Il papiro infatti è unico nel suo genere perché è quasi un canovaccio d’artista. Sul verso sono disegnati una quarantina di raffigurazioni di animali reali e fantastici, mentre sul recto compaiono volti umani e una cartina della Spagna. Uno stile, suggestivo e irrituale che quasi anticipa il Rinascimento (c’è chi ha parlato di una mano che ricorda Raffaello). Troppo strano, così poco classico, così poco antico...
Già, ma allora se il papiro è un falso, chi è il falsario? Ed qui che entra in gioco un personaggio a suo modo grande, eclettico e versatile, il greco Costantino Simonidis, abilissimo falsario ottocentesco conosciuto e temuto in tutte le capitali europee. Allievo di Vidal, un pittore della scuola del francese David, Simonidis di falsi ne aveva già rifilati parecchi. «Nel 1855 - ricorda Canfora - aveva tratto in inganno l’intera Accademia delle scienze di Berlino. Scoperto, era stato poi espulso dalla capitale prussiana». Dove ora ritorna - se la ride il professore di Bari - con tutti gli onori.

Repubblica 12.3.08
Cattivi si diventa
Esce "L'effetto Lucifero" di Philip Zimbardo
Siamo tutti figli di Eichmann?
di Umberto Galimberti

L’autore del libro è titolare di un celebre esperimento realizzato a Stanford nel 1971
Alcuni studenti accettarono di fare la parte delle guardie e altri quella dei detenuti

Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv.
Per rendercene conto, e lo dobbiamo fare per conoscere davvero noi stessi, è sufficiente che leggiamo il libro di Philip Zimbardo, L´effetto Lucifero (Raffaello Cortina, pagg. 650, euro 35). Lucifero, prima di diventare Satana, il principe del male, era il portatore di luce, l´angelo prediletto da Dio. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione interna come crede la psicologia quando distingue il normale dal patologico, al pari della religione quando distingue il buono dal cattivo, ma per altri due fattori che sono il «sistema di appartenenza» e la «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Non erano dei criminali per natura Heinrich Himmler e Adolf Eichmann quando portarono a compimento con abnegazione lo sterminio degli ebrei, ma dei «burocrati» con uno spiccato senso del dovere al loro sistema di appartenenza che era l´ideologia nazista. Lo stesso si può dire di Franz Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblinka che aveva il compito di eliminare tremila deportati al giorno perché l´indomani ne giungevano altri tremila. «Il metodo l´aveva ideato Wirt. E siccome funzionava, mio compito era di eseguirlo alla perfezione», rispose a Gitta Sereny che in una serie di interviste (oggi pubblicate da Adelphi col titolo In quelle tenebre) gli chiedeva che cosa provava.
La stessa risposta la diede il pilota americano che sganciò la bomba atomica su Hiroshima a Günther Anders che gli poneva analoga domanda: «Che cosa provavo? Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)». Quando la responsabilità si restringe e, da responsabilità nei confronti degli effetti delle nostre azioni, si riduce a responsabilità nei soli confronti degli ordini ricevuti, queste risposte sono corrette, così come ci sentiamo tutti noi quando, negli apparati di appartenenza ci limitiamo a eseguire perfettamente il nostro mansionario, i programmi ministeriali nelle scuole a prescindere dalle condizioni culturali in cui si trovano i ragazzi che le frequentano, gli interessi dell´azienda a prescindere dalle condizioni in cui si effettua il lavoro (compresi i morti sul lavoro) e dai prodotti finali del lavoro (più o meno corrispondenti a quello che la pubblicità vorrebbe farci credere).
Quando la responsabilità non si estende agli effetti delle nostre azioni, ma si restringe alla semplice osservanza degli ordini che ci provengono dagli apparati di appartenenza, allora, come recita il titolo di un libro di Günther Anders, siamo tutti «figli di Eichmann» e come tali subiamo quello che Philip Zimbardo chiama: «L´effetto Lucifero», dove persone perbene, per effetto del «sistema di appartenenza» o per le «situazioni» in cui ci veniamo a trovare, diventiamo, indipendentemente dalla nostra indole, degli oggettivi criminali, capaci di compiere quelle azioni che, fuori dal sistema di appartenenza o dalla situazione concreta, ci farebbero inorridire.
Philip Zimbardo è uno psicologo sociale dell´Università di Stanford che nel 1971 tentò un curioso esperimento di «prigionia simulata». Con un annuncio sul giornale scelse, tra le centinaia che si erano presentate, ventiquattro persone che, per quindici dollari al giorno, accettassero di fare le guardie e i detenuti in una prigione simulata nell´edificio dell´Università.
I prescelti erano i più stabili psicologicamente, senza trascorsi di alcol e droga, senza pendenze penali, senza problemi medici o mentali. Insomma ragazzi normali, bravi ragazzi si direbbe se l´aggettivo non fosse denso di pregiudizi. A quelli incaricati di fare la guardia furono assegnati i compiti in uso per gli arresti veri, con la sola avvertenza che dovevano evitare abusi e violenze fisiche.
Dopo una settimana l´esperimento fu interrotto perché le guardie, che avevano preso molto sul serio il loro ruolo, in un´istituzione altrettanto seria come poteva essere l´università, per una prova seria quanto lo può essere un esperimento scientifico, non per la loro «indole», ma per effetto del loro «ruolo» e della «situazione» in cui si trovavano a operare, si abbandonarono alle più feroci aggressioni fisiche e psichiche non dissimili, scrive Zimbardo, dai modelli nazisti.
La constatazione ha consentito allo sperimentatore di concludere che la pratica del male o, come lui la chiama: «l´effetto Lucifero», non è una prerogativa di un´indole piuttosto che di un´altra (come ritiene la psicologia, che a sua insaputa ha ereditato lo schema religioso che distingue i buoni dai cattivi), ma è la prerogativa di tutti che, a partire da una «struttura di appartenenza» (una fede, un´ideologia, un apparato aziendale) e da una «situazione concreta» in cui ci si trova a operare (in un gioco vero o simulato di tutori dell´ordine e criminali, o in una guerra che vede contrapposti in nostri ai nemici) chiunque, anche il più buono fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi.
La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni e non di altri, ma, compresenti in ciascuno di noi si scatenano indifferentemente in tutti a partire dal «sistema di appartenenza» e dalla «situazione» in cui ci si viene a trovare.
Inorridito da quanto aveva constatato Philip Zimbardo non riuscì a scrivere il resoconto di quanto aveva visto negli anni immediatamente successivi all´esperimento, ma solo quando, nel 2004, fu chiamato in qualità di perito a dare una spiegazione del perché bravi ragazzi, ritenuti tali dopo accurate verifiche, inviati come militari in Iraq, avessero potuto compiere nel carcere di Abu Ghraib abusi così orrendi quali risultarono dalle registrazioni che Zimbardo ebbe modo di visionare dove si vedevano scene ben più aberranti di quelle che le televisioni di tutto il mondo hanno poi diffuso.
In gioco, scrive Zimbardo, non è tanto l´«indole» di questi militari, quanto l´appartenenza al «sistema esercito» inviato per una «giusta causa» (contro il terrorismo), in una «situazione» che nella fattispecie è di guerra. Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo «de-umanizzi», che lo riduca a «cosa», in modo che non appaia più come un suo simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita.
A ciò concorre il patriottismo, che spesso è solo una forma appena velata di autovenerazione collettiva, perché esalta la nostra bontà, i nostri ideali, la nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in bianco e nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico, e, così mitizzata, diventa una divinità che, come ci hanno insegnato gli antichi greci, per essere adorata esige sacrifici umani. Ma oltre all´autovenerazione per noi stessi, la guerra ci impone di svilire il nemico, per cui veneriamo e piangiamo i nostri morti e restiamo stranamente indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no.
Di fatto la guerra scatena la nostra latente necrofilia, non solo perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così come lo è per la formazione dei kamikaze. Essa getta in quello stato di frenesia in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie e soprattutto insignificanti.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, carica di un´energia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà autodistruttiva della guerra stessa. Perché in guerra gli esseri umani diventano cose, cose da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, si ha la sensazione che a disposizione rimane solo la morte o il fugace piacere carnale.
Dopo la guerra c´è l´immane fatica per guarire le ferite che non sono solo quelle fisiche. E c´è chi non ce la fa, e sono i più, perché tutto ciò che era familiare diventa assurdamente estraneo, e il mondo, a cui si sognava di tornare, appare alieno, insignificante al di là di ogni possibile comprensione. L´accumulo di distruttività, vista e seminata, diventa autodistruttività che non conosce limite.
A questo punto vale ancora la contrapposizione tra il bene e il male? E davvero noi possiamo dividerci in buoni e cattivi? O, come sostiene Zimbardo, la nostra ferocia non è tanto da attribuire alla nostra indole, quanto piuttosto al sistema di appartenenza e alla situazione concreta in cui ci si trova a operare? Se così è, vero eroe non è chi compie le azioni più rischiose o più feroci che i posteri magnificheranno, ma chi sa resistere al sistema di appartenenza o alla situazione concreta che gli chiedono quelle azioni. L´avvertimento di Zimbardo è ovviamente rivolto a tutti noi che, in un modo o nell´altro, sempre ci troviamo in un qualche sistema di appartenenza o in qualche situazione che ci chiede di scegliere se stare o non stare al gioco.

Repubblica 12.3.08
Madri. Dentro la loro passione
Psicoanalisi e neuroscienze
Luciana Sica intervista Massimo Ammaniti

"La donna sa come occuparsi del suo bambino: è una sapienza innata"
"È una relazione molto esclusiva: il padre deve stare dietro le quinte"
Intervista / Nel suo nuovo libro, Massimo Ammaniti spiega perché la maternità è come l´amore romantico
"Nelle mamme e negli innamorati s´attivano le stesse aree cerebrali"

ROMA. Quell´amore per il proprio bambino - che sta per nascere, che è appena nato - è in tutto e per tutto simile all´amore romantico, uno stato rarissimo della vita, una condizione abbagliante. È un innamoramento. E noi pensiamo: bella immagine, forse un filo stucchevole. Sbagliamo, per eccesso di disincanto, perché agli ingombranti sussulti delle emozioni preferiamo una più opaca ragionevolezza dei nostri pensieri, respingendo un ulteriore frammento di discorso amoroso. Ma è la ricerca neuroscientifica che lo ha provato: la maternità somiglia moltissimo alla passione, proprio quella che brucia, che non concede troppe distrazioni. In tutti e due i casi lo stato mentale è alterato, e non poco, con tutte quelle continue idee ossessive che non lasciano tregua. E - come in una malattia - in tutti e due i casi "l´amore è cieco".
Senza nessun cedimento a un certo chiacchiericcio, inutile per quanto colto, ma soggiogato dall´indubitabile fascino di un argomento comunque pieno di mistero, a scriverne è Massimo Ammaniti in Pensare per due, il suo nuovo libro che esce in questi giorni da Laterza (sottotitolo "Nella mente delle madri", pagg. 182, euro 15 - alle sei di questo pomeriggio il volume sarà presentato alla libreria Rinascita di Roma: oltre all´autore, ne parleranno Nadia Fusini, Concita De Gregorio e Paola Perucchini).
Professore di psicopatologia alla "Sapienza" di Roma, psicoanalista noto anche all´estero - e non solo in Europa (alcuni suoi saggi sono usciti negli Stati Uniti) -, non è la prima volta che Ammaniti si sofferma sul "luogo delle origini" e più precisamente sul tema dell´attaccamento, secondo la linea di ricerca segnata dal geniale John Bowlby. E più di un volume ha curato con Daniel Stern, autorevolissimo esponente della infant research in psicoanalisi, il grande studioso della "costellazione materna" che si divide tra Ginevra e la Cornell University di New York.
Il libro di Ammaniti si compone di due parti distinte tra loro: la prima è di natura teorica, scritta comunque con un intento divulgativo; la seconda raccoglie una serie d´interviste con tipologie di madri variamente definite: "integrate" e "non integrate", "ristrette" e "depresse". Ma è da una considerazione più generale sul tema del materno - sfondo di una letteratura sempre più ricca e ampia - che ha inizio questa intervista. Si direbbe infatti che viviamo in un´epoca di "maternalizzazione" della cultura - il che non vuol dire affatto che si sia femminilizzata, tutt´altro.
La psicoanalisi ci ha messo del suo: dalla Klein in poi si è concentrata sempre di più sulla fase pre-edipidica, sul rapporto madre-figlio nella fase epifanica e addirittura anche prima, in quei mesi spesso incantati dell´esperienza prenatale dov´è l´inconscio a fare da padrone di casa, ridimensionando inevitabilmente il triangolo familiare e quindi la centralità della figura paterna. Ormai alcuni autori - soprattutto donne: penso a Manuela Fraire, tra le italiane - lo dicono chiaramente, e senza temere gli ostracismi dell´establishment: il rilievo assegnato alla madre come primo oggetto d´amore da cui dipende (in buona parte) il benessere dei figli non è un lieve cambiamento di rotta del pensiero psicoanalitico. È un totale rivolgimento, una rivoluzione paragonabile alla "scoperta" dell´inconscio di Freud.
Professor Ammaniti, è un´espressione troppo forte per lei?
«Un po´ forte lo è, senz´altro... Ma è vero che Freud ha affrontato il tema della maternità come un uomo e un padre d´inizio Novecento, e certamente non è riuscito a cogliere completamente il senso complessivo di quell´esperienza e soprattutto l´importanza del corpo femminile, in particolare del suo "spazio interno", luogo di grande ambivalenza, al tempo stesso erotico e generativo. Saranno le analiste donne - e l´elenco sarebbe piuttosto lungo - a compiere un´inversione senz´altro profonda»
A imporla, diciamo pure... È vero che Freud parla di un´epoca "minoica" dello sviluppo psichico, alludendo all´importanza della primissima fase della vita e quindi del rapporto con la madre, ma nel suo modello è comunque il padre in carne ed ossa, nella sua funzione edipica di terzo incomodo assolutamente necessario, a consentire la differenziazione del bambino e la sua "normale" evoluzione... Lei non trova che oggi il partner "vivo" della madre è invece sempre più marginale e incline alla rivalsa?
«Che ci sia una competizione maschile nei confronti della donna generatrice è fuori discussione, e forse questo atteggiamento è stato dello stesso Freud. Oggi però assistiamo anche a un nuovo fenomeno: se una volta i padri non si occupavano dei figli molto piccoli, oggi in molti casi non è più così... È un fenomeno interessante, anche se questi "nuovi padri" tendono a ricalcare atteggiamenti materni, con il rischio di una sovrapposizione».
È già qualcosa se sono utili alle loro compagne stremate dalla stanchezza - mi scuserà l´osservazione brutale...
«Questo è un punto molto importante di cui ho sempre discusso col mio amico Daniel Stern. Ha a che fare con il ruolo paterno, con la sua capacità di declinare l´identità maschile in presenza di un neonato: nei primi giorni, nelle prime settimane, nei primi mesi il compito del padre dovrebbe essere un po´ quello di un regista dietro le quinte, dovrebbe creare insomma lo scenario, le condizioni per facilitare lo scambio tra la madre e il piccolo».
Uno scambio che ha tutte le caratteristiche dell´esclusività - come nell´innamoramento, lei scrive nel suo libro. Ma in che senso?
«In senso stretto, direi. Sono due condizioni molto simili, se ne ha ormai la riprova scientifica: nelle donne prese dall´intimità del rapporto col neonato come negli innamorati abitati dalla passione si attivano le stesse aree cerebrali connesse alla dopamina, e dunque al piacere e alla ricompensa. E in tutti e due i casi, si disattivano invece quelle zone del cervello che hanno a che fare con il giudizio sociale, con le emozioni negative che servono a indagare le motivazioni psicologiche della persona amata».
Il rischio è che la maternità venga presentata come una condizione eccessivamente idilliaca. E con una certa dose di ambiguità: da una parte si esalta l´onnipotenza materna, dall´altra le madri sono considerate - e dunque si considerano - le maggiori incompetenti in fatto di figli. Non è una stranezza?
«Si vede già durante la gravidanza: a volte c´è troppa sanitarizzazione, troppo affidamento ai medici. E in seguito, le eccessive psicologizzazioni sono negative: non bisognerebbe mai sostituirsi alle donne, ma solo - in alcuni casi - aiutarle a ritrovare la piena fiducia in loro stesse. Le capacità di parenting intuitivo fanno parte del nostro patrimonio: qualsiasi madre sa come prendersi cura del suo piccolo, è una sapienza innata».
Ci pensa la cronaca nera a smentire l´immagine tutta in rosa del rapporto madre-figli, anche se lì l´attenzione è morbosamente concentrata su madri depresse fino all´infanticidio - pur sempre un´infima minoranza. È invece una certa ambivalenza materna a essere più estesa e meno sotto i riflettori: le donne, che pure ne organizzano alla perfezione le giornate, sembrano spesso distaccate mentalmente dai loro figli... Lei che ne dice?
«Avere il figlio nella propria mente - keeping the baby in mind, secondo l´espressione coniata da Arietta Slade - è d´importanza centrale, non c´è dubbio. Un bambino sa accettare una madre lontana, ma può non tollerare una madre assente, incapace di assegnargli la sua priorità».
Come sono i figli delle madri eternamente "distratte" da qualcos´altro?
«In genere non hanno un rapporto facile con le emozioni: non le sanno riconoscere e tanto meno nominarle. Magari "funzionano", danno delle buone prestazioni di sé, ma sono piuttosto chiusi in sé stessi se non proprio anaffettivi».
Alla fine viene un dubbio, professore. Sarà forse una banalità, ma da sempre i bambini non crescono spesso in modo del tutto normale, a dispetto dei loro pessimi genitori?
«Certamente: noi li chiamiamo "bambini invulnerabili", sono quelli che possono contare sulle loro risorse e vanno comunque tranquilli e spediti nella vita. Purtroppo però c´è anche il rovescio della medaglia, e cioè bambini difficilissimi, problematici, figli di genitori esemplari».
C´è qualcosa che sfugge alla psicoanalisi ma non alla genetica.
«Con tutta probabilità».

Corriere della Sera 12.3.08
Non obiettore Mauro Buscaglia
«Cresce l'illegalità» Ogni giorno 55 casi

Il problema riguarda soprattutto le donne immigrate e clandestine: molte utilizzano un farmaco antiulcera

MILANO — In Italia ci sono ancora almeno 55 aborti illegali al giorno. L'ultima stima dell'Istituto superiore di sanità (relativa al 2006) mostra che la piaga delle interruzioni di gravidanza clandestine non è ancora stata eliminata. Anzi: «La percezione in corsia è che ci possa essere una recrudescenza del fenomeno per il clima da caccia alle streghe scatenatosi negli ultimi mesi — dice Mauro Buscaglia, 62 anni, primario dell'ospedale San Carlo —. Le difficoltà con cui le donne devono fare i conti per abortire e gli ostacoli che i medici non obiettori incontrano nella carriera possono favorire la ripresa delle interruzioni di gravidanza fuori dagli ospedali pubblici». Il ginecologo, non obiettore da una vita, aveva raccontato al Corriere di essere costretto a fare ancora aborti perché i neolaureati non ne vogliono sapere.
Il problema delle interruzioni di gravidanza illegali, per il momento, riguarda soprattutto le immigrate. In particolare quelle irregolari che cercano la strada spesso più veloce (e rischiosa). «In molte fanno ricorso al mesoprostolo, un farmaco antiulcera in grado di procurare un aborto — sottolinea Buscaglia —. Altre finiscono nelle mani di medici che operano di nascosto fuori dalle mura ospedaliere. Non bisogna abbassare la guardia: il ricorso agli aborti fuorilegge rischia di allargarsi ».
Le statistiche forniscono ancora numeri choc, anche se la situazione è decisamente migliorata rispetto a trent'anni fa. Nel 2006 le interruzioni di gravidanza clandestine sono state 20 mila (contro le 130 mila effettuate secondo la legge). Prima dell'entrata in vigore della 194 del '78 avevano toccato quota 350 mila. Per scendere alle 100 mila del 1983. «L'aborto illegale era arrivato a essere la terza causa di morte dopo le

Corriere della Sera 12.3.08
Bolzaneto. La requisitoria
I tre giorni dell'orrore nella caserma sulla collina
di Marco Imarisio

GENOVA — La caserma di Bolzaneto è una palazzina anonima e grigia che sta in collina. Vicina al casello dell'autostrada per Milano, lontana dal cuore della città. Nei tre giorni del G8 doveva essere il punto di smistamento dei manifestanti arrestati durante le manifestazioni. Prima del trasferimento nelle carceri di Milano, Pavia e Alessandria, dovevano passare da questo posto, ribattezzato per l'occasione «centro di detenzione temporaneo».
Anche i fatti che avvennero tra quelle mura sono sempre rimasti lontani, come appartati dal corpus del G8 e dei suoi cascami giudiziari, e stessa sorte ha avuto il processo, del quale si è parlato poco. Nella loro lunga requisitoria che si è conclusa ieri, i pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno suggerito in modo implicito i motivi di questa rimozione. Lo hanno fatto con una lista della spesa, un lungo elenco che ha occupato il tempo di due intere udienze, quelle del 25 e 26 febbraio.
«Per la giornata di venerdì, in particolare, citeremo il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana, il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati, lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, al quale sono stati divaricati anulare e medio fino a lacerare la carne; le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos Manuel Otero Balado, percosso tra l'altro sui genitali con un grosso salame ». «Per la giornata di sabato, in particolare: il malore di Katia Leone per lo spruzzo in cella di spray urticante.
Il malore di Panagiotis Sideriatis, cui verrà riscontrata la rottura della milza. Il pestaggio di Mohammed Tabbach, persona con arto artificiale. Gli insulti a Massimiliano Amodio, per la sua bassa statura. Gli insulti razzisti a Francisco Alberto Anerdi per il colore della sua pelle. Le vessazioni a David Morozzi e Carlo Cuccomarino, che vengono legati insieme e le cui teste vengono fatte sbattere l'una contro l'altra». «Per la domenica, in particolare: il malore di Stefan Brauer in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo. Il malore di Fabian Haldimann, che sviene in cella ove è costretto in posizione vessatoria.
L'etichettatura sulla guancia, come un marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz al momento del loro arrivo. La sofferenza di Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella non è neppure in grado di deglutire. Il disagio di Jens Herrmann, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non è consentito di lavarsi. La particolare foggia del copricapo imposto a Thorsten Meyer Hinrric, costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere, un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello».
Le parole possono fare male come bastonate. Lo ha ricordato il pm Petruzziello, elencando altri episodi, nel silenzio, interrompendosi spesso, per il disagio che le provocava quel che andava raccontando. Il ragazzo costretto a mettersi carponi per abbaiare come un cane e urlare a comando «viva la Polizia». L'agente che passa il manganello in mezzo alle gambe di un manifestante nudo, in piedi da ore contro un muro dell'infermeria: «Però, questo comunista non è male. Ha un bel corpo, adesso me lo faccio... sì, perché no? Allarga bene le gambe, compagno, perché ti faccio il c...». I pattuglioni che girano per le stanze ordinando di gridare «Che Guevara bastardo», «viva il duce». Le minacce più pesanti erano per le donne, ha sottolineato il magistrato. «Entro stasera vi scoperemo tutte», «Avrebbero dovuto stuprarvi come in Kosovo».
Bolzaneto è stato questo. «L'umiliazione, l'annientamento delle persone recluse» ha detto Ranieri Miniati. «Un luogo dove per tre interminabili giorni sono stati sospesi i diritti umani». Nelle 157 udienze di un processo durato due anni sono state ascoltate quasi quattrocento persone. L'attendibilità dei testimoni, e dei loro racconti, non è mai stata messa in discussione dai difensori dei 45 imputati, che anzi hanno — almeno indirettamente — confermato molti di quei resoconti. Guardie carcerarie, poliziotti, carabinieri, alcuni medici. Se i sette disegni di legge che dovrebbero adeguare il nostro ordinamento alle convenzioni internazionali fossero stati approvati in tempo, avrebbero rischiato fino a dieci anni di carcere. Invece, il reato di tortura non è ancora previsto dal nostro ordinamento. E la prescrizione cancellerà tutto tra un anno. Ma a qualcosa il processo è comunque servito. Il lungo elenco di abomini compiuti da uomini dello Stato ha reso evidenti i motivi della rimozione. Nel loro esplicito simbolismo, i fatti di Bolzaneto sono disturbanti, indigeribili. Meglio tenerli lontani allora, come la caserma sulla collina.

Corriere della Sera 12.3.08
Filosofia Un libro dedicato al pensatore cattolico Gustavo Bontadini riapre la discussione sulla riflessione del suo maggior allievo
Severino: la mia autodifesa
Nietzsche e i credenti uniscono Essere e Nulla. Io riparto da Parmenide
di Emanuele Severino

Emanuele Severino (Brescia 1929, nella foto), fu allievo di Bontadini. Nel 1962 diventa docente all'Università Cattolica e due anni dopo esce il suo «Ritornare a Parmenide», che provoca il suo allontanamento.
Ha poi insegnato a Venezia e al San Raffaele di Milano

Nietzsche crede che ad eccezione di Eraclito e di lui stesso tutti i filosofi si siano posti al seguito di Parmenide. Appunto per questo intende operare il «superamento dei filosofi ». E Karl Popper — filosofo della scienza e promotore del rinnovamento del neopositivismo logico — ritiene a sua volta che la maggior parte dei grandi fisici del nostro tempo (Boltzman, Minkowski, Weil, Schrödinger, Gödel, Einstein) si muovano sostanzialmente nell'ambito del pensiero parmenideo; sebbene a sua volta propenda per una interpretazione non parmenidea del mondo fisico, come quella di Heisenberg. Platone chiamava Parmenide «venerando e terribile», come un dio. E l'unico strappo di Aristotele al proprio sempre misurato linguaggio riguarda Parmenide: le sue dottrine, dice, sono «follie».
Ma le cose non stanno così. Tutti i filosofi, dopo Parmenide, hanno mirato a «superarlo»; la logica dei fisici non ha nulla a che vedere con il suo pensiero, la cui potenza è stata sempre, in ogni campo, misconosciuta. Sono più di cinquant'anni che vado mostrandolo. Molto pochi, se si tien conto della posta in gioco.
È uscito ora, pubblicato da Vita e Pensiero, Bontadini e la metafisica, il volume degli atti del Congresso tenutosi a Venezia per il centenario della nascita del mio indimenticabile maestro, tra i maggiori pensatori del nostro tempo e cattolico. Anche la maggior parte degli autori del volume (circa seicento pagine) sono cattolici; ma molti di essi si rammaricano che — quanto al tratto
filosofico essenziale — nell'ultima fase della sua vita il maestro dell'Università Cattolica sia venuto «dalla mia parte» (se vogliamo usare, per far presto, questa pessima e impropria espressione). Ho apprezzato il Cardinale Scola, allievo di Bontadini e anche mio, che invece nella tavola rotonda a cui partecipammo, pur dissentendo da quel tratto essenziale con competenza e modestia, ha evitato di rammaricarsi. Il gran tema è comunque, anche qui, la misconosciuta potenza del pensiero parmenideo.
Mi sembra quindi molto importante la posizione di Erwin Tegtmeier, già collaboratore di Habermas e di Albert. Dalla fine degli anni Novanta egli percepisce l'irripetibile potenza del pensiero di Parmenide. In Scenari dell'impossibile — un recente libro a più voci e di grande interesse, che per molti aspetti mi riguarda — Tegtmeier presenta un saggio intitolato Il problema del divenire in Parmenide e la sua soluzione.
Agli inizi degli anni Ottanta era uscita in Germania, presso Klett-Cotta, la traduzione del mio libro Essenza del nichilismo, alcui centro sta lo scritto intitolato Ritornare a Parmenide, del 1964, a partire dal quale è incominciata la pluridecennale discussione tra Bontadini e me. Tegtmeier si muove nell'ambito dell'ontologia analitica contemporanea di matrice anglosassone, ma anche per lui la negazione parmenidea del divenire è rimasta inconfutata ed è inconfutabile — quando invece è convinzione comune che già Platone e Aristotele avessero definitivamente chiuso i conti con Parmenide. Perché niente di meno di questo si tratta: Parmenide mostra che «ciò che è», l'«essente », non può provenire dal «non essente» e nel «non essente» non può dissolversi; e poiché il mondo è l'apparire dell'incominciare ad essere e del cessare di essere, da parte delle cose, le cose del mondo non possono essere degli «essenti» e il loro apparire è solo illusione.
Il pensiero essenziale — tanto più avvolto da nubi impenetrabili e tanto più lontano dalle nostre abitudini concettuali, quanto più esso è luminoso, semplice e vicino - è quello in cui appare l'impossibilità che l'«essente » esca dal niente e vi faccia ritorno: quello in cui appare il perché di questa impossibilità. Possiamo indicare così questa oscura semplicità: se l'«essente» provenisse da un passato in cui esso non è (ossia è niente) e andasse in un futuro in cui esso torna a
non essere, allora, in assoluto, l'«essente» sarebbe «non essente» cioè non sarebbe «essente». Stando al comune modo di pensare possiamo affermare che, in assoluto, la casa non è casa, la stella non è stella, l'albero non è albero? No — si risponde subito. Ma allora non si può nemmeno affermare che l'«essente» non sia «essente» — anche se in questo modo ci si avvia lungo un cammino che porta molto lontano dal comune modo di pensare, cioè al luogo i cui appare che l'«essente» è eterno.
Mi sembra però che Tegtmeier sostenga sì l'opposizione tra l'«essente» e il «non essente » (cioè sostenga che l'«essente» non è il «non essente»), ma poi la lasci di fatto valere come un semplice postulato, nel senso dei postulati da cui procedono ad esempio la logica, la matematica, la fisica e che ormai esse stesse (almeno nelle loro forme più evolute) non considerano più come verità innegabili. E invece quell'opposizione non è un semplice postulato, un dogma, una fede. La fretta con cui si risponde «no» alla domanda se la casa sia non casa, o la stella sia non stella, è soltanto la volontà che le cose stiano così. All'interno di quella fretta, il «principio di non contraddizione» (che appunto afferma in generale l'opposizione tra ogni cosa e ciò che è altro da essa) è soltanto la volontà che la realtà non sia contraddittoria. Se ci si ferma a questa volontà si capisce perché Nietzsche giunga ad affermare che i «supremi principi» della conoscenza umana (quale, appunto, il «principio di non contraddizione») sono soltanto degli «imperativi» che, certo, servono a vivere, ma che certamente non sono verità innegabili.
Intendo dire che l'opposizione tra l'«essente » e il «non essente» è come una stella che stia al centro del cielo, che però non ha il buio attorno a sé, ma brilla insieme alle altre stelle. Per restare in questa metafora (che dunque dice ben poco intorno a ciò a cui essa accenna), solo guardando il firmamento — cioè andando oltre Parmenide in modo essenzialmente diverso da come il pensiero dell'Occidente ha creduto di andare oltre di lui —, è possibile vedere che l'opposizione tra l'«essente» e il «non essente» non è semplicemente un postulato, un dogma, una fede, un «imperativo». Il firmamento corrisponde, al di fuori della metafora, a ciò che nei miei scritti è chiamato «struttura originaria del destino della verità». Questa struttura mostra (ma anche qui si tratterebbe di vederlo in concreto) che le cose del mondo non possono essere illusione, ma sono «essenti», e dunque sono eterne, tutte; sì che il loro variare non può essere inteso come il loro provvisorio sporgere dal nulla, ma come il comparire e lo scomparire degli eterni. Il «destino della verità» sta al di là di tutto ciò che si è pensato intorno alla verità e al destino, ma non è una «dottrina» inventata da qualcuno, sia pure egli un Dio, ma è il firmamento che da sempre appare nel più profondo di ognuno di noi.
In base alla fede nella creazione e annientamento delle cose Nietzsche ha argomentato l'impossibilità di ogni Dio. E rispetto agli amici di Dio, che condividono questa fede, la sua argomentazione è irrefutabile. (In base a questa stessa fede Nietzsche ha argomentato, anche qui in modo irrefutabile, la necessità dell'«anello del ritorno», l'«eterno ritorno» di tutte le cose). Amici e nemici di Dio hanno in comune quella fede che, essa sì, è l'autentica ed estrema follia. Ma anche nel più profondo del loro cuore brilla il firmamento del destino. Vicinissimo e insieme lontanissimo da esso, Parmenide lo chiama «il cuore, non tremante, della ben recintata verità».
Friedrich Nietzsche (sopra) e Karl Popper. In alto, un'incisione del 1518

Bibliografia. Allievi e seguaci del teorico italiano
Tra i numerosi libri e saggi, senza contare centinaia di siti in rete, che recentemente si sono riferiti al pensiero di Emanuele Severino ricordiamo, in relazione a questo suo articolo, la raccolta-omaggio di saggi Le parole dell'essere. Per Emanuele Severino, a cura di Petterlini, Brianese e Goggi (Bruno Mondadori, 2006, pp. 718, e 40.00). Né va dimenticato che lo storico tedesco Thomas Sören Hoffmann nel suo saggio Filosofia in Italia (Mariverlag, 2007, pp. 400, e 18) ha considerato Severino il solo pensatore degno di rilievo nel nostro Paese dopo Vico. Severino e la sua filosofia sono inoltre presenti in: Bontadini e la metafisica, a cura di Carmelo Vigna (Vita & Pensiero, 2008, pp. 584, e 35); Scenari dell'impossibile, La contraddizione nel pensiero contemporaneo, a cura di Francesco Altea e Francesco Berto (Il Poligrafo, 2007, pp. 308, e 25); Verità e prospettiva in Nietzsche, a cura di Francesco Totaro, (Carocci, 2007, pp. 230, e 20,50). Inoltre ha trattato l'argomento Salvatore Natoli, La mia filosofia (Edizioni ETS, 2007, pp. 136, e 12,00). Tra i volumi usciti recentemente o in via di pubblicazione, e connessi ai temi di Emanuele Severino, vanno infine ricordati: Ines Testoni, La frattura originaria.
Psicologia della mafia tra nichilismo e omnicrazia ( Liguori, 2008, pp. 356, e 25,50); Umberto Soncini, Il senso del fondamento in Hegel e Severino (è un saggio che vedrà la luce nel 2008).
r.c.

Corriere della Sera 12.3.08
Canaletto e Bellotto. Cartoline di famiglia
di Francesca Bonazzoli

Giovanni Antonio Canal, detto «il Canaletto», nacque a Venezia nel 1697. Iniziato dal padre alla scenografia, fu influenzato in seguito dalle opere di Van Wittel edi
Carlevarijs. È considerato l'artefice della grande fortuna del vedutismo veneto del Settecento. Morì nel 1768
Veneziano, classe 1721, Bernardo Bellotto era figlio di una sorella del Canaletto e dallo zio apprese l'arte di ritrarre vedute di città e di paesi. Si distinse dal maestro per una visione più attenta ai particolari, a tratti lievemente malinconica. Morì a Varsavia nel 1780

Quella di Antonio Canal, detto il Canaletto, e di suo nipote Bernardo Bellotto sembra una storia di oggi: tecnicamente bravissimi, originali nei temi, moderni nell'uso della camera ottica che si inseriva nelle novità della cultura illuministica, i due pittori furono però costretti a lavorare per i collezionisti stranieri e persino a emigrare per vivere.
La Venezia dei parrucconi, che aveva i suoi tromboni ben piazzati anche nell'Accademia di Pittura e di Scultura, continuava a professare la vecchia teoria che assegnava la superiorità alla pittura di figure e si teneva attaccata agli ultimi fasti del Barocco con i suoi trionfi di colori pastello, riccioli, volute e fiabe mitologiche che Tiepolo elargiva a piene mani senza più nemmeno crederci lui stesso. Per fortuna gli inglesi, più presi dalla razionalità di Newton che dalle teatrali messe in scena dei preti, intuirono nelle vedute ottiche di precisione del Canaletto la ricerca di una verità che si basava sullo stesso metodo della nuova scienza sperimentale , autonomo da ogni ipotesi filosofica o teologica.
Così Canaletto, vendendo soprattutto i suoi quadri ai facoltosi turisti del Grand Tour e tramite il console inglese a Venezia, Joseph Smith, che li smistava ai vari duca di Bedford, duca di Richmond, conte di Wicklow, conte di Carlisle, duca di Northumberland, poté vivere bene nonostante i rancorosi colleghi che lo ammisero all'Accademia solo nel 1763, a 66 anni, quando ormai non gliene mancavano che cinque alla morte.
A 49 anni partì per l'Inghilterra (dove rimase dieci anni), mentre il Bellotto, figlio di una sua sorella, a 26 anni emigrava a Dresda, dove, alla corte del re Augusto III di Sassonia, dipinse i suoi capolavori e spese quasi vent'anni della propria vita per andare poi a morire a Varsavia alla corte di Stanislao Augusto Poniatowski.
Ecco perché i quadri e i disegni più belli dei due vedutisti veneziani si trovano all'estero, in collezioni private e musei, da cui sono stati richiamati a Torino (in tutto un centinaio di lavori fra tele e carte) per la mostra di Palazzo Bricherasio che mette a confronto serrato zio e nipote nel tentativo di dissipare i dubbi attributivi che ancora restano su diverse opere risalenti al periodo in cui i due lavoravano fianco a fianco.
Non sono pochi i lavori ancora classificati sotto il nome di Canaletto che la curatrice Bozena Anna Kowalcyz propone di restituire al nipote e del resto lo stesso Bellotto (che era conosciuto in Germania come «il Canaletto ») non si era certo preoccupato di distinguersi dallo zio visto il successo di cui questi godeva: una delle due vedute di Torino dipinte per Carlo Emanuele III, per esempio, è firmata sia con il suo nome e cognome che con il soprannome «il Canaletto ». Certo, quando poi i due si separarono, nel 1743, la loro differenza si farà grande ed evidente, ma già negli esordi di Bellotto si possono scovare quegli indizi che diventeranno la sua cifra stilistica: in particolare quella sua predilezione per le ombre scure che lo faranno definire «l'ombra nera di Canaletto».
Se la Venezia del Canaletto, infatti, ha i toni luminosi di una festa galante, quella di Bellotto suscita emozioni più austere, come la musica di Bach in confronto a quella di Vivaldi. Nel giovane nipote non ci sono mai quel languore e quella febbre che in Canaletto svaporano nella dolcezza di un pomeriggio afoso o in un attimo frizzante di felicità. La luce del Bellotto è sempre fredda, come in un terso mattino in montagna dove i cieli sembrano orli di cristallo. L'intonazione, poi, dall'indefinibile qualità argentata, ha un che di malinconico, con quelle ombre profonde, bistrate, incise con la punta di legno del pennello per farne dei solchi neri dove la luce batte in modo irregolare e vibrante restituendo pesantezza, volume e spessore alle cose, quasi persino il loro odore.
Lontano dallo zio, la metamorfosi che Bellotto compie nella solitudine del Nord Europa, si fa poi totale, fino ad abbandonare la veduta da cartolina e come una farfalla che liberi le ali dalla sua crisalide, Bellotto allenta lo stile calligrafico e diligente per aprirsi a un fraseggio monumentale. Le grandi tele di Varsavia sono un corpo a corpo con la natura come lo ingaggeranno solo i francesi nell'Ottocento. Eppure, come già lo zio Canaletto fu assediato dal Barocco, così Bellotto lo sarà dal nuovo gusto neoclassico: lui che registrava solo ciò che vedeva verrà alla fine considerato inferiore rispetto ai pittori che davano priorità a fantasia e invenzione e finirà per trovarsi nella stessa situazione di Monet cent'anni dopo quando anche di lui Cézanne disse: «Non è che un occhio».
In un'Italia ancora in preda ai fremiti del barocco, la pittura scientifica di zio e nipote fece successo tra i viaggiatori del Nord. Ora un'esposizione mette a confronto il loro talento
Due visioni del Ponte di Rialto A sinistra il dipinto del Canaletto con i toni luminosi, a destra quello del nipote Bernardo Bellotto: la luce è più fredda e austera, frutto dei lunghi soggiorni nel Nord Europa

Corriere della Sera 12.3.08
L'altra mostra. I manoscritti del musicista che collaborò con il pittore veneziano
Vivaldi, gli ultimi fuochi del teatro
di Gianfranco Formichetti

Palazzo Bricherasio ospiterà dal 23 aprile all'8 giugno anche una mostra dedicata ad Antonio Vivaldi, nella quale verrà esposta una parte dei suoi manoscritti conservati nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (27 volumi con circa 450 composizioni). Gianfranco Formichetti, autore del libro «Venezia e il prete col violino, vita di Antonio Vivaldi» (Bompiani) spiega il legame tra il compositore e il Canaletto: due stelle complementari nello splendore della Serenissima del '700.

Giovan Antonio Canal, detto il Canaletto, lavorò dal 1717 al 1720 al Teatro Sant'Angelo insieme al padre Bernardo, nelle scenografie del palcoscenico gestito da Antonio Vivaldi. Non tutti sanno che il Prete Rosso, protagonista assoluto della musica veneziana del primo Settecento, fu un brillante manager teatrale, capace di mettere in atto ogni strategia pur di ottenere successo.
Nel 1637 a Venezia era nato il San Cassiano, primo teatro per musica destinato a un pubblico pagante. Una novità assoluta per il mondo dello spettacolo. Nei libretti si sottolineava la spettacolarità della rappresentazione, la grandiosità delle scene, la bellezza dei costumi, la magnificenza delle macchine. Che lo sforzo imprenditoriale raccogliesse risultati sorprendenti si capì subito: nel giro di un quinquennio i teatri divennero quattro. E la concorrenza si fece accanita. Ogni gestore si preoccupava di organizzare un calendario in grado di riscuotere il massimo successo. La conquista del pubblico faceva riferimento a vere e proprie stagioni, con la speranza di quante più repliche possibili.
Il Sant'Angelo fu il laboratorio operistico di Vivaldi, con più di cinquanta melodrammi al suo attivo; quello più strettamente musicale fu l'Ospedale della Pietà, che cominciò a frequentare giovanissimo, nel 1703, appena ordinato prete. Aveva quasi subito smesso di dir messa, attratto più dalla musica che dall'altare.
Le «putte rosse» della Pietà erano le sue allieve. Per formare la sua orchestra aveva potuto fare una selezione tra un migliaio di orfanelle che il governo cittadino e la benevolenza dei nobili facevano vivere più che dignitosamente in questo «Ospedale», dove l'assistenzialismo si coniugava con la formazione professionale. Orchestra e coro allietavano con i loro concerti domenicali e festivi il bel mondo veneziano e i numerosissimi turisti ammaliati dalla Serenissima. La musica era una presenza costante e viva nella quotidianità lagunare. Le formazioni musicali trovavano spazio per esibirsi nelle numerosissime ricorrenze festive e celebrative. Quando Vivaldi salì alla ribalta della Laguna, la cultura dello spettacolo annoverava, oltre ai dieci teatri ufficiali, numerose case private che si trasformavano in «luoghi di recita e di musica», a volte perfino clandestini. Al ponte di Rialto, nel mercato di frutta e verdura più importante della laguna, si potevano trovare banchi con ceste piene di spartiti musicali. Ben diciassette erano a Venezia le stamperie specializzate in questo settore.
Lo scenario europeo mostrava le avvisaglie del grande rivolgimento che avrebbe caratterizzato il Settecento. I Veneziani sembravano coscienti della fine di un'epoca che li aveva veduti protagonisti e al cambiamento che li stava emarginando si apprestavano a opporre quel fiorire della società dello spettacolo che tanto avrebbe colpito i visitatori. Capitale del bengodi intellettuale, in quegli anni Venezia divenne una sorta di grande ammaliatrice del bel vivere europeo. Capace di offrire un connubio di arte e musica come nessuna città al mondo.

Corriere della Sera 12.3.08
Da un dipinto del Canaletto a una foto odierna: lo sguardo di uno scrittore
Venezia, già Disneyland 300 anni fa
Nel '700 non contava più nulla e puntò sull'immagine. Il destino dell'Italia?
di Tiziano Scarpa

Mettete a confronto queste due immagini. Apparentemente le differenze sono molte. I capannelli di uomini in tabarro e parrucca nel dipinto di Canaletto potrebbero essere nobili che tessono alleanze politiche a due passi dal Palazzo Ducale, prima di una votazione del governo della Serenissima. Quelli nella foto sono turisti che ascoltano una guida e rimirano il panorama della Giudecca sulla linea dell'orizzonte. Le navi che affollano il bacino san Marco nel dipinto di Canalettto trasportano merci, mentre i vaporetti contemporanei trasportano turisti. Il fermento produttivo odierno sembra ridotto alla manutenzione dell'esistente; le impalcature sulla cupola della Basilica della Salute e le gru non stanno costruendo nulla di radicalmente nuovo: restaurano. Quella di Canaletto è una città viva; quella della foto scattata in questi giorni è una città fossile. Eppure, le due immagini sono molto più vicine nella sostanza di quanto possano far pensare i tre secoli che le separano. La Venezia di Canaletto fa il primo passo di quell'itinerario storico che sta percorrendo ancora oggi. In queste due vedute è ben riassunta la sorte di una città del tutto speciale, ma forse anche il destino di un'intera nazione, l'Italia. Diventare un posto che a poco a poco venderà soltanto gite, vacanze, pellegrinaggi culturali, senza produrre nient'altro che la propria immagine.
Mentre Canaletto dipinge, in giro per gli oceani i grandi stati europei razziano, impiantano colonie, commerciano, accumulano ricchezze enormi. Venezia ha perso da tempo l'egemonia persino sul suo piccolo mare. Nel Mediterraneo orientale, le navi mercantili inglesi e addirittura tedesche sono più numerose di quelle veneziane. È in quei decenni che Venezia diventa una specie di laboratorio postmoderno ante litteram, un'avanguardia dell'intrattenimento: qualcosa a metà fra Las Vegas, Hollywood, Disneyland, Broadway, Pompei e una savana abitata da indigeni pronti a fare la danza della pioggia a comando davanti alle macchine fotografiche dei turisti. Venezia commercia sempre meno, ma si inventa una merce nuova: sé stessa. Comincia a vendere spasso, case da gioco, prostituzione, spettacoli di alto livello culturale, concerti e opere liriche nei primi teatri al mondo aperti pubblicamente a spettatori paganti. Venezia inventa la società dello spettacolo.
È una strategia di sopravvivenza. Ma per non morire il prezzo da pagare è alto. Il drastico ridimensionamento delle ambizioni politiche è arcinoto; dopo la scoperte del Nuovo Mondo, che cosa è successo lo sanno anche i bambini delle elementari. In arte, la città diventa sempre più autoreferenziale. Finora abbiamo dato uno sguardo ai dettagli del dipinto di Canaletto. Ma domandiamoci innanzitutto perché esiste un'immagine simile, che cosa l'ha prodotta. Prima di Canaletto, Venezia aveva espresso artisti dal profondo contenuto filosofico, pittori teologi che avevano dato la loro interpretazione personale delle ideologie al potere: Carpaccio, Bellini, Giorgione, Tiziano, Veronese. Da Canaletto in poi invece Venezia sembra ripetere sempre la medesima parola: Venezia, Venezia, Venezia. I committenti forestieri richiedono all'arte e alla cultura di questa città di recitare sé stesse. Dalle architetture agli abitanti, tutti debbono mettersi in posa per il souvenir. Non è un caso che Canaletto utilizzi la camera ottica, un dispositivo per schizzare con maggiore fedeltà il panorama: è il capostipite delle migliaia di fotografi turisti, il fondatore del paesaggio come cartolina. All'artista non si richiede più la potenza di un'idea visionaria, ma una rappresentazione quanto più accuratamente dettagliata, in modo che il visitatore forestiero possa indugiare nelle decine di piccoli particolari, godendosi il colore locale della città, le sue idiosincrasie graziosamente complesse.
Chi è che sta guardando il dipinto di Canaletto? Qual è lo sguardo che, pagandola, ha generato questa immagine? Rispondere che si tratta dei prototuristi, i ricchi girovaghi del Gran Tour, non basta. È la nuova civiltà dell'Europa continentale che contempla Venezia, sentendosi ormai superiore a questa città decaduta economicamente e politicamente: può permettersi di chiederle di mettersi in posa, di impersonare tutte le sue peculiarità sociali così deliziosamente bizzarre, così innocuamente sorpassate. In una parola: la esotizza. Questo quadro è una vendetta dell'Europa su Venezia.
Un altro dettaglio accomuna il dipinto e la foto. È uno dei simboli massimi della venezianità, elegantissimo o sommamente lezioso, a seconda dei gusti: la gondola. Mezzo di trasporto funzionale, capolavoro di ingegneria nautica, all'epoca di Canaletto ha già cominciato a intridersi delle caratteristiche folcloristiche che finiranno per avere il sopravvento. Che meta offre, oggi, la gondola, se non sé stessa? I veneziani come me obietteranno giustamente che esistono ancora le gondole che per cinquanta centesimi di euro ti portano dall'altra parte del Canal Grande, in due minuti. Ma le gondole che tutto il mondo conosce sono quelle che offrono un'esperienza estetica quasi autistica: non servono a trasportare da un punto all'altro, ma a far provare l'emozione di andare in gondola, c'est tout. È il destino di Venezia, o dell'Italia intera?
❜❜ L'Europa si vendicò della Serenissima e la costrinse a mettersi in posa. Nacque così l'idea di una città postmoderna Ieri e oggi
Il bacino di San Marco visto dal Canaletto e fotografato due giorni fa (Andrea Pattaro/Vision)

Repubblica 11.3.2008
Bertinotti: "Sarebbe una catastrofe per tutti se la sinistra scomparisse nel nostro Paese"
"Il '68 scalata al cielo, riproviamoci"
Michele Placido gira un film: "Pasolini sbagliò a considerare vittime i poliziotti"

ROMA - «Caro Mario, qui ci tocca rifare il ‘68». Con qualche anno in più ma con la certezza che i tempi stanno cambiando. Altro che amarcord. Fausto Bertinotti, allora, ne aveva 28, e già stava al tavolo delle trattative dei metalmeccanici con i «padroni», i Carli, i Mortillaro. Mario Capanna, 23 anni, era il leader degli studenti della Statale di Milano, e qui a Valle Giulia dove tutto cominciò non scese mai. Ci mette piede adesso per la prima volta, 40 anni dopo, per presentare il suo «Il Sessantotto al futuro», e si emoziona. Ma che forza queste foto uscite dai cassetti sugli scontri con la polizia quel dì ad Architettura, mica solo quella con Giuliano Ferrara, «facciamone subito un catalogo, facciamole conoscere, questa è storia».
E che storia, racconta Michele Placido che su Valle Giulia e il ‘68 sta girando un film. Ma lui all´epoca non faceva il poliziotto, non stava dall´altra parte della barricata? «Sbagliato, io la divisa la portavo un anno prima, nel ‘68 già occupavo l´Accademia di arte drammatica guidato dal grande Gian Maria Volontè. E Pasolini sbagliava a considerare i poliziotti vittime». «A Valle Giulia hanno picchiato duro, è stato come a Genova. Fra un po´ verranno fuori i documenti. Gli studenti bloccati nei corridoi, sotto le manganellate. Non è stata una cosa da niente, quei ragazzi hanno avuto tanto coraggio. Quella fu la polizia più repressiva d´Europa, ad Avola sparò ad altezza d´uomo». A dimostrazione il regista del film, Silvano Agosti, si era portato tre mini-docu d´epoca, non l´operatore però, per cui i ventenni che gremiscono l´aula magna non possono rivedere i padri sulle barricate nella loro facoltà. Anche Agosti è convinto che un altro ‘68 sia alle porte, «il riflusso ormai è finito». Insomma, di quell´»ultima scalata al cielo», come la chiama il presidente della Camera, i fiori sarebbero pronti di nuovo a sbocciare. Bertinotti cita Franco Fortini, scrittore caro a quella generazione, «l´Internazionale fu vinta e vincerà, il ‘68 fu vinto e le sue istanze vinceranno». Ha seminato «progresso e modernità», pure se «noi volevamo la rivoluzione, il socialismo, mica solo il divorzio e l´aborto». Paradigma dell´epoca: l´operaio di Mirafiori che nella trattativa per le 150 ore manda sotto choc il padrone, «che ci voglio fare? Voglio studiare il clavicembalo». Erano tempi in cui «il capo della Federmeccanica non veniva candidato da un partito che non si dice di destra», ma Bertinotti è certo: dopo Seattle, Porto Alegre, Genova, il ‘68 è vivo. È un nuotatore, immagina Capanna: per anni sott´acqua ma prima o poi deve tornare su a riprendere fiato. «E ci siamo, lo fiuto nell´aria».
(u. r.)