domenica 16 marzo 2008

la locandina del 17 marzo all'Eliseo
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(ricevuta da Carlotta Mazzetta)



l'Unità 16.3.08
Bertinotti: sulla pace internazionale

Fausto Bertinotti vede luci e ombre nell’esperienza di governo della sinistra radicale con Prodi. E polemizza col Pd su conflitto sociale e finanziamento ai partiti. Sul governo uscente, dice Bertinotti: «Abbiamo fatto con lealtà quel tentativo, con l’idea che andava realizzato un progetto di rinascita. Alcune cose si sono realizzate, come un indirizzo di pace nella politica internazionale». Sul terreno economico e sociale, invece, «il cambiamento non è avvenuto, dunque è stato un insuccesso». Quanto al presente, Bertinotti dice: «Non siamo la risposta al Partito democratico. L’Arcobaleno nasce come risposta a chi non ha voce e non si sente rappresentato dalla politica». Non mancano attacchi al Pd: «Financo la destra, anche se su posizioni sbagliate, è convinta che siamo di fronte ad una crisi di civiltà - dice Bertinotti -. Nel Pd, invece, sembrano vivere in un mondo di dolce civilizzazione e sembrano così disporsi ad accettare l’attuale modello economico e sociale, al massimo proponendosi di mitigarlo. Come se fosse davvero possibile». Ma Bertinotti sfida Veltroni a dimostrare che possano stare insieme «questo modo di funzionamento dell'economia ed il superamento del precariato. Provi a dimostrar come si conciliano la Confindustria e gli aumenti di salari e pensioni. Non ci riuscirà. Il Pd vuole cancellare dalla politica il conflitto sociale, ma i fatti hanno la testa dura. Possono cancellarlo dalla loro politica, ma non dalla realtà». Secondo Bertinotti, i salari italiani, che erano tra i più alti d’Europa negli anni Novanta, oggi sono tra i più bassi «perché hanno vinto i padroni con la complicità dei governi». Quanto ai finanziamenti ai partiti, per Bertinotti la proposta del Pd «è un’idea di privatizzazione della politica»: il finanziamento pubblico va difeso perché garantisce il «riconoscimento ai partiti della loro funzione di protagonisti della democrazia».

UN INSERTO DI SETTE PAGINE SULL'UNITÀ
l'Unità 16.3.08
Moro. 16 MARZO 1978
L’uomo politico e il suo tentativo di «allargare la democrazia» e quei maledetti 55 giorni al centro della puntata straordinaria in onda stasera su Rai1 con David Sassoli
Prima della tempesta che spaccò la Repubblica: uno speciale Tg1 per «liberare Moro dal caso Moro»
di Roberto Brunelli

Aldo Moro è stato dimenticato. Non quello del rapimento che ha spaccato in due la storia dell’Italia repubblicana. Quello è stato raccontato, i misteri sono stati sviscerati e se ne sono aperti di nuovi, le testimonianze si sono accavallate. Quell’altro, quello che cercava di «allargare la democrazia», quello che voleva dialogo con il Pci, quello della solidarietà nazionale. Per raccontare quell’Aldo Moro lì, attraverso la lente di quei 55 giorni e oltre quei 55 giorni che sconvolsero la Repubblica, ci vuole uno schermo spezzato in tre. Su un lato c’è lui, lo statista, che parla, lentamente, con quella sua lingua sinuosa, elegante, che a noi oggi suona antica. In mezzo scorrono le immagini di via Fani, il sangue, il respiro affannoso di Paolo Frajese, le dichiarazioni di Zaccignini, di Cossiga, le edizioni straordinarie del Tg, il materiale d’archivio. A destra, le testimonianze, i commenti, le storie.
«Liberare Moro dal caso Moro», dice David Sassoli, vicedirettore del Tg1, presentando lo speciale che andrà in onda stasera alle 23.45, e realizzato insieme allo storico Alberto Melloni e a Barbara Modesti. Raccontare l’uomo, la sua vicenda politica ed umana, rimasta ingabbiata, in questi trent’anni che ci separano dal 16 marzo 1978, dal rapimento ad opera delle Brigate Rosse. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo si chiama lo speciale, titolo tratto dall’ultima, drammatica lettera, spedita dalla prigionia, indirizzata alla moglie. Uno speciale di rara qualità, considerato lo standard della televisione italiana: perché ci spiega, con le immagini oltreché con le parole, quella spaccatura netta che separa il prima e il dopo 16 marzo 1978. Una data emblematica, rileva Sassoli, che si pone esattamente al centro tra di noi e il sessantesimo della Costituzione.
In mezzo allo studio, sui lati di una gabbia di garza - identica a quella in cui Moro fu presumibilmente tenuto prigioniero, di due metri e mezzo di profondità e un metro e venti di larghezza - sono proiettati i frammenti di racconto, le schegge di verità, i pezzi di storia pubblica e privata, una specie di prisma visivo che finisce per creare un fiume narrativo volto a restituirci la complessità della vicenda Moro. La doppia vicenda: quella dei 55 giorni e quella dello statista Moro, dell’uomo che aveva lavorato intensamente per superare le barriere della vita democratica, che aveva cercato il dialogo con la sinistra: «Antifascisti e anticomunisti democratici», questo avrebbero dovuto essere i democristiani di Aldo Moro, quelli stessi da cui si sentì tradito durante la prigionia.
Soprattutto, Se ci fosse luce sarebbe bellissimo è una sorta di affresco televisivo, che riesce a raccontare, con gli strumenti della televisione, il prima e il durante di una delle più devastanti tempeste della storia d’Italia. Su quello schermo diviso in tre scorrono, come in un incastro, come a dialogare con il pensiero di Aldo Moro (per certi versi rivoluzionario, visto con gli occhi di oggi), i vari pezzi di paese fotografati al culmine del proprio stato di choc: le immagini del consiglio di fabbrica dell’Alfa Romeo, le invocazioni di papa Paolo VI, gli appelli dell’allora ministro degli interni Francesco Cossiga, le dichiarazioni di Almirante che quel ministro voleva sostituire con un militare, i lavori della camera presieduti da Pietro Ingrao, i comizi di Luciano Lama, le trattative tra Berlinguer e Craxi, e per quel che riguarda il Moro «pre-rapimento», le tribune politiche, il discorso di Benevento, gli interventi dell’«instancabile mediatore». Accanto a questo, le valutazioni e i ricordi di uomini come Giorgio Napolitano, Giovanni Bachelet, Tina Anselmi, un giovanissimo Massimo D’Alema che parla del rapporto della sinistra con il mondo cattolico, quasi a dialogare con un D’Alema dei nostri giorni, che spiega esattamente cos’è che cominciò a finire, quel 16 marzo 1978: la grande stagione dei partiti, stagione di cui gli anni ‘80 furono solo una immensa agonia.
Ma ci sono anche altri protagonisti, nello speciale del Tg1: e sono le vittime. I figli, i fratelli, le sorelle di chi fu ucciso dalla «peggio gioventù». A nome loro in studio c’è la vedova di Domenico Ricci, uno degli uomini della scorta. «Il paese ci ha lasciati soli, in questi trent’anni». Insieme a lei, per la prima volta, una delle figlie di Moro, Agnese. Un incontro non banale: per tre decadi si è discettato sul fatto che Moro non avesse mai parlato, nelle sue lettere, degli uomini che furono trucidati lì, in via Fani, ed ecco che Sassoli cita un’altra missiva, rinvenuta - chissà perché - solo nel ‘90, in cui il capo della Dc parlava della sua «disperazione» per il destino a cui quegli uomini erano andati incontro. Vittime, come tante altre, nei cosiddetti anni di piombo. Vittime, anche loro, dimenticate.

Repubblica 16.3.08
"Così ho abbattuto l'aereo di Saint-Exupéry"
Dopo 64 anni il pilota della Luftwaffe racconta il duello nei cieli con il Piccolo principe
"Lo ammiravo, lo avevo letto, avessi saputo che era lui non avrei mai sparato"
di Giampiero Martinotti

PARIGI - «Sono stato io ad abbattere l´aereo di Saint-Exupéry». Sessantatré anni dopo, il mistero che aleggia sulla fine dello scrittore francese è forse svelato: Horst Rippert, 88 anni, pilota della Luftwaffe durante la guerra, assicura di aver colpito, il 31 luglio 1944, l´aereo pilotato dall´autore del "Piccolo pincipe". Un riconoscimento tardivo, che getta un po´ di luce in una vicenda ancora piena di interrogativi. Sembra tuttavia certo, ormai, che l´aereo dello scrittore, partito dalla Corsica, sia stato abbattuto dai tedeschi.
A ritrovare Rippert sono stati il sommozzatore Luc Vanrel e uno specialista della Luftwaffe, Lino von Gartzen. Vanrel è l´uomo che qualche anno fa ha ritrovato sui fondali dell´isola di Riou, a sud di Marsiglia, i resti dell´aereo di Antoine de Saint-Exupéry, ma anche i rottami di un motore in dotazione ai Messerschmitt utilizzati dalla aeronautica tedesca. Il sommozzatore e von Gartzen, con pazienza da certosini, sono riusciti a ritrovare i piloti che quel giorno volavano nella zona. Fra loro Rippert, che assicura di aver messo fine alla vita dello scrittore, ovviamente senza saperlo. Il suo racconto è contenuto in un libro scritto in collaborazione con il giornalista Jacques Pradel, di cui sono stati pubblicate ieri alcune anticipazioni.
È il 31 luglio 1944, gli alleati sono già sbarcati in Normandia e si apprestano ad investire la costa provenzale. Rippert è in servizio all´aerodromo delle Milles, nei pressi di Aix-en-Provence. Gli viene ordinato di decollare: i radar hanno identificato un aereo sconosciuto sopra Annecy, in Savoia. Rippert decolla, perlustra i cieli della costa, non vede niente e decide di rientrare. È a questo punto che vede, tremila metri più in basso, un Lightning che sta volando verso Marsiglia. Lo segue a distanza, lo vede virare verso il largo, poi verso la costa. Rippert racconta: «Dopo averlo seguito mi sono detto: ragazzo, o te ne vai via o ti sparo. Mi sono fiondato nella sua direzione e ho sparato, non sulla fusoliera ma sulle ali. L´ho colpito. L´aereo è precipitato dritto in mare. Nessuno è saltato dall´abitacolo. Il pilota non l´ho visto. Ho appreso qualche giorno dopo che era Saint-Exupéry. Ho sperato e spero ancora che non fosse lui. In gioventù abbiamo letto tutti i suoi libri, li adoravamo. Sapeva descrivere in modo ammirevole il cielo, i pensieri e le impressioni dei piloti. Il personaggio mi piaceva. Lo avessi saputo, non avrei sparato. Non su di lui. Non ho mirato contro un uomo che conoscevo. Ho sparato su un aereo nemico che è caduto».
Resta da capire come mai Rippert ha taciuto per più di 63 anni. Giornalista alla televisione tedesca, dice di non aver parlato per proteggere la propria carriera: «Immaginate cosa sarebbe diventata, se si fosse saputo cosa avevo fatto durante la guerra». Ma anche durante gli anni della pensione Rippert non ha detto nulla. È diventato molto loquace solo quando von Gartzen gli ha telefonato: «Smetta di cercare, sono io che ho abbattuto Saint- Exupéry».

Corriere della Sera 16.3.08
Walter, caccia ai moderati La salvezza è a «quota 35»
Via al «corteggiamento» degli elettori di area udc
Se il leader raggiungerà quella soglia nessuno nel Pd potrà chiedergli conto dell'insuccesso elettorale
di Maria Teresa Meli

ROMA — Quota 35 per cento: è il traguardo che — al di là dei proclami di una vittoria prossima futura — Veltroni e i suoi uomini si sono posti. Se il "Walter-partito" (come lo chiamano scherzosamente nel loft e dintorni) otterrà questa cifra, anche in caso di sconfitta — che al momento, persino nei sondaggi del Pd, viene data come probabile — l'ex sindaco di Roma non avrà problemi. Nessuno gli potrà chiedere conto dell'insuccesso, vista la base da cui si partiva. Anzi, quel 35 per cento verrà vissuto come un risultato più che mai lusinghiero. Sotto quella soglia, invece, tutto è possibile, e Veltroni sa che dentro il Pd c'è già chi affila le armi.
Ma come raggiungere quella quota, quando, in tutti i sondaggi, il Partito democratico nel migliore dei casi ottiene il 34 per cento? È su questo interrogativo che si stanno esercitando al Pd. Dalla sinistra, bene o male, il nuovo soggetto politico nato dalle ceneri dell'Ulivo, ha preso quanto poteva prendere, tant'è vero che a Rifondazione comunista, come nella Sinistra Democratica di Fabio Mussi, si fasciano la testa ancor prima del voto. Più della metà del potenziale elettorato del movimento del ministro dell'Università confluirà nel Pd. Lo stesso dicasi per i verdi. E anche il Pdci e il Prc potranno contare solo sul loro zoccolo duro.
Il problema, quindi, è un altro: riuscire a portare a casa una parte di quei voti cosiddetti moderati in libera uscita dal Pdl. Operazione non facile, perché a intercettarli c'è l'Udc di Casini e, al momento almeno, il Pd non sembra mostrare una grande "appeal" presso quell'elettorato. Per questa ragione Veltroni è costretto a continuare nella politica del "ma anche". E allora il Partito democratico, guardando a sinistra, ha pronta la sua proposta sulla scaletta mobile per le pensioni (ma guai a pronunciare quella definizione, perché la scala mobile ha il sapore del vecchio, oltre che della sconfitta). Ma nel contempo l'ex sindaco di Roma getta le sue reti nel mare dei commercianti, dei piccoli e dei medi imprenditori, di quel mondo, insomma, dove ancora non riesce ad aprirsi un vero varco. Eppure è quello l' obiettivo da centrare se si vuole veramente raggiungere quota 35.
Una quota che è diventata quasi un incubo, perché manca ancora un mese alle elezioni e in questo periodo potrebbe accadere quel che Veltroni teme sopra ogni cosa. Sì, c'è un rischio che i dirigenti del Pd hanno ben presente. Infatti, se in quest'ultimo scorcio di campagna elettorale, gli italiani si convinceranno che nonostante le fanfare della rimonta, alla fine della festa, la vittoria andrà a Berlusconi, la logica del voto utile non avrà più senso. «Allora — si ragiona ai piani alti del Pd — tanti elettori che oggi pensano di votare per noi, con l'idea di battere la destra, torneranno a votare per la Cosa rossa, perchè penseranno così di condizionare l'opposizione futura, spostandola a sinistra ». E in questo caso, altro che "quota 35". Perciò, avanti con il "ma anche" e con gli annunci di una vittoria a portata di mano. A portata di qualche punto in percentuale, nella speranza che i moderati antiberlusconiani snobbino Casini e abbraccino Veltroni.

Corriere della Sera 16.3.08
Il ginecologo suicida Gli interventi dopo esami e diagnosi alterate
Genova, gli aborti segreti con cartelle cliniche false
di Erika Dellacasa

Per i ricoveri a Villa Serena, gestita dalle suore, si faceva figurare che le donne avevano subìto un aborto spontaneo e avevano bisogno di un raschiamento. La telefonata intercettata tra ginecologo e paziente: «Venga, la faccio abortire in studio».
GENOVA — Cartelle cliniche «aggiustate» e esami di laboratorio alterati per far figurare che le donne ricoverate a Villa Serena, clinica privata gestita dalle suore Immacolatine di Genova, avevano necessità di una «pulizia della cavità uterina» dopo un aborto naturale. Non avrebbero potuto abortire volontariamente nella clinica delle religiose, dove nel cda siede Paolo Moraglia, fratello di un monsignore, ma un «raschiamento » quello sì era concesso. Adesso i Nas cercano nelle cartelle cliniche la prova di possibili esami fasulli che attesterebbero la cessazione del battito del feto, emorragie in atto o ecografie con malformazioni inesistenti. Tutti sistemi per sostenere che la donna aveva avuto un aborto naturale e eludere gli obblighi della legge 194 che prescrive l'utilizzo di strutture sanitarie pubbliche. Potrebbe così coinvolgere altre persone l'inchiesta che ha visto indagato per aborti clandestini il ginecologo Ermanno Rossi, suicida dopo la perquisizione dei carabinieri nei suoi studi privati. Le due cartelle cliniche sequestrate dai Nas contengono il nome dell'anestesista di Rossi e la posizione del medico è all'esame del magistrato. Il ginecologo non avrebbe invece fatto uso di farmaci che inducono l'aborto, nella perquisizione dei suoi studi non ne sono stati trovati. A Rapallo, sul marciapiede dove si è schiantato Rossi, dopo essersi gettato dalla finestra del suo studio, si moltiplicano i fiori e i bigliettini di ringraziamento lasciati dalle sue pazienti.
Lunedì il magistrato terminerà gli interrogatori delle otto donne indagate per violazione della 194. Le donne accompagnate dai loro legali (qualcuna anche dal marito) hanno ascoltato le conversazioni intercettate durante le quali fissavano l'appuntamento con il ginecologo in modo inequivocabile. «Dottore, ormai ho deciso per l'interruzione, ma sono preoccupata, è sicuro che poi...». «Stia tranquilla signora, si può fare in studio», seguono accordi. Ma c'è anche chi dice chiaro e tondo: «Dottore, sa, per l'aborto, non voglio aspettare... », e il medico consulta l'agenda in cerca del «primo giorno disponibile per la clinica ». È proprio questa intercettazione che ha fatto crollare in lacrime una delle donne ricoverate a Villa Serena: impossibile continuare a sostenere di aver avuto un aborto naturale. I responsabili di Villa Serena prima hanno negato l'eventualità di aborti illegali («Non può essere »), poi hanno espresso «amarezza per l'inganno subito ». «Villa Serena — dicono — è un'ulteriore vittima, dopo la vita nascente, del raggiro».
Alcune donne si sono difese dicendo di non sapere di commettere un reato: «Ero al di sotto dei tre mesi di gravidanza— ha detto la madre di due figli — mi sono rivolta al mio medico di fiducia e il dottor Rossi mi ha detto che potevo farlo con lui. Perché andare da un estraneo? Era già brutto così».
I Nas intanto stanno verificando una decina di posizioni «sospette» e discretamente controllano anche la documentazione relativa alle pazienti minorenni del ginecologo. L'ipotesi di un'interruzione di gravidanza praticata su una minorenne è agli atti.

Corriere della Sera 16.3.08
L'intervista Claudio Crescini, il segretario dei ginecologi lombardi
«Una pillola, poi l'emorragia Così si aggira la legge 194»
di Simona Ravizza

MILANO — «Pillole a base di misoprostolo al posto degli uncinetti degli anni Settanta. Così oggi si possono provocare emorragie che causano aborti illegali mascherati da interruzioni di gravidanza spontanee». Per 30 anni agli Ospedali Riuniti di Bergamo, Claudio Crescini, classe 1952, è il segretario per la Lombardia dell'Associazione italiana ostetrici e ginecologi ospedalieri (Aogoi), rappresentativa di 800 medici. Il suo timore è che oggi gli interventi fuori dalla legge 194 li facciano ginecologi insospettabili a donne dell'upper class che vogliono accorciare i tempi e restare il più possibile nell'anonimato. Le immigrate, invece, spesso ricorrono al fai-da-te.
Il rischio che corre il medico è la reclusione fino a tre anni (quattro se si tratta di un aborto terapeutico, oltre i 90 giorni). Ma il sistema per scatenare interruzioni di gravidanza che appaiano naturali è relativamente semplice. «Alla donna può essere fatto prendere anche a casa un farmaco antiulcera a base di misoprostolo che somministrato in determinate quantità provoca le contrazioni con conseguente espulsione del feto — dice Crescini —. Quando avviene il ricovero l'emorragia è già in atto. Dimostrare, poi, che il tutto non è avvenuto spontaneamente è davvero difficile».
Tra i ginecologi l'argomento è tabù: «Nessuno ammette di conoscere il fenomeno, anche se i sospetti non mancano — sottolinea Crescini —. Le donne economicamente agiate, d'altronde, non vogliono affrontare il percorso a ostacoli con cui devono fare i conti quelle che abortiscono negli ospedali pubblici, uniche strutture abilitate a praticare le interruzioni di gravidanza. Chi può va all'estero o magari finisce in qualche studio privato».
È come fare un salto indietro nel tempo. Agli anni che hanno preceduto l'approvazione della legge 194 del '78. «Nel primo intervento chirurgico che ho fatto da giovane ginecologo agli Ospedali Riuniti nell'estate del 1978 ho trovato un uncinetto nell'utero di una donna. Era stato messo tempo prima per provocare un'emorragia. Con ogni probabilità, l'aborto era stato fatto passare come spontaneo — racconta Crescini —. Lo stesso può essere fatto ora con il misoprostolo ».
Per il segretario lombardo dell'Aogoi per contrastare una recrudescenza del fenomeno bisogna puntare soprattutto sulla prevenzione. «È l'unico modo per difendere davvero la vita — dice —. Ostacolare l'applicazione della 194 non serve a nulla. Se non a favorire il ritorno gli aborti illegali».

Corriere della Sera 16.3.08
Fecondazione Pronta una legge per tutelare i diritti dei piccoli e delle madri che noleggiano se stesse
Alt dell'India al turismo dell'«utero in affitto»
Crescono i centri per le gravidanze surrogate: centinaia i bimbi nati ogni anno
di Margherita De Bac

ROMA — Ne arrivano a decine, ormai. Destinazioni preferite Calcutta, Bombay, Gujarat, New Delhi. Qui in India negli ultimi due anni sono fiorite cliniche specializzate in gravidanze surrogate. Offrono alle donne occidentali, soprattutto inglesi e americane, servizi difficili da trovare in altre parti del mondo. Mettono a disposizione ragazze, la maggior parte orfane o madri di famiglia, che per poche migliaia di dollari danno in affitto l'utero e accolgono in grembo gli embrioni dei genitori titolari. Un pacchetto turistico a basso costo, la metà o un terzo almeno rispetto al tariffario di Londra, dove la surrogacy viene ammessa solo tra residenti. Le clienti sono mamme poco agiate o che magari hanno già speso tutto per tentare di avere il bambino in patria.
Mercato fiorente, in grande espansione. Il governo indiano ha finalmente deciso di mettere sotto controllo. E' in discussione una legge per tutelare i diritti dei bambini nati con questa pratica e delle madri che noleggiano se stesse. Verranno affrontati anche temi di ordine etico. Se autorizzare o no gravidanze surrogate per conto di coppie omosessuali o di single. Se porre un limite di età dei clienti. Infine la questione della nazionalità. Oggi un neonato partorito da una mamma indiana riceve automaticamente passaporto britannico, statunitense e delle altre nazionalità dei «genitori», senza nessun passaggio intermedio e questo rende più difficile la sorveglianza del fenomeno.
In India ogni anno nascono centinaia di bambini da madri surrogate. Calcoli molto approssimativi, perché nella realtà è impossibile registrare i casi, specie se sono implicate strutture sanitarie del terzo mondo. Non c'è da stupirsi che l'affitto dell'utero sia un prodotto così diffuso in un Paese che vende di tutto, il primo a mettere in vendita il rene. I costi sono ridicoli. Circa 15 mila dollari mentre arrivano fino a 150 mila negli Stati Uniti. Trovare una mamma surrogata è semplice. Basta scorrere gli annunci sui giornali, pubblicati gratuitamente da agenzie che si sono specializzate nel settore. Non bisogna temere raggiri, spiegano gli inserzionisti. Si versa una piccola caparra, segue un anticipo ma solo quando la gravidanza è avviata. Il resto della somma, solo a parto avvenuto o, come si dice in gergo a «bambino in braccio».
In Italia la surrogacy è vietata dalla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita e ancor prima dal codice deontologico dei medici. Non è da escludere che qualche donna sia volata in India per realizzare il sogno della maternità, sia pure indiretta. Se esistono, i precedenti si contano sulla punta delle dita, gli italiani preferiscono mete più sicure come Stati Uniti e Canada. «Noi non lo scopriremo mai, sono solo ipotesi. Le nostre pazienti non svelerebbero mai un tale proposito anche se di solito al ginecologo confidano tutto», racconta Nino Guglielmino, del centro Hera di Catania, uno dei più qualificati in Italia. La limitatezza di un eventuale mercato alimentato dalle italiane è dovuta d'altra parte anche alla rarità delle diagnosi che spingerebbero verso una soluzione tanto estrema e penosa. La strada dell'affitto diventerebbe obbligata solo per le donne che hanno subito l'asportazione dell'utero in età giovanile o che l'hanno perso per errori ostetrici.

Corriere della Sera 16.3.08
Università L'obiettivo: rafforzare la reputazione internazionale e promuovere la ricerca
Nasce il club dei 19 atenei d'élite: «Noi i migliori, dateci più fondi»
Il debutto di Aquis a Bologna: «Ma non è una secessione»
Giulio Ballio (Politecnico di Milano): avremo un effetto trainante per tutto il sistema
di Gabriela Jacomella

BOLOGNA — Non è un addio, giurano. Nessuna secessione dalla Crui, rassicurano. Certo è che l'aria che si respirava ieri mattina, nell'aula absidale dell'Alma Mater bolognese, tutto aveva fuorché il sapore di una marcia indietro.
A una settimana dall'invio del documento ai candidati premier, con la (ri)apertura del dibattito su criteri di merito e assegnazione dei fondi, i rettori degli 11 atenei firmatari — Politecnica delle Marche, Bologna, Calabria, Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, Modena e Reggio Emilia, Padova, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Trento e Verona —, con l'aggiunta di Ferrara, si sono seduti intorno a un tavolo e hanno rilanciato. La proposta: un'associazione che raccolga le università «più produttive e virtuose» del Paese. Il nome: Aquis, cioè Associazione per la qualità delle università italiane statali. L'obiettivo: «migliorare la reputazione internazionale» degli atenei pubblici, «promuovere la qualità di formazione, ricerca scientifica e organizzazione », «proporre strategie per la definizione di obiettivi e programmi comuni con Parlamento e Governo».
Chi vorrà unirsi al nuovo «gruppo di lavoro» dovrà garantire una produttività superiore alla media definita dal Ministero. Poi, almeno due crocette sulle caselle relative a contenimento delle spese per il personale (meno del 90% del Fondo di finanziamento ordinario), «reputazione internazionale » (presenza nella classifica del Times o dell'università Jiao Tong di Shangai), dimensioni (almeno 15 mila studenti). Ne deriva, secondo i «fondatori», un elenco di 19 idonei: oltre ai famosi 12, gli atenei di Chieti, Lecce, Milano, Perugia, Roma Tre, Salerno e Torino. Tutti insieme, fanno il 40% della popolazione studentesca, per un terzo degli atenei statali.
In attesa del via libera degli organi accademici, gli sforzi si concentrano nel ribadire che no, non c'è nessuna frattura con la Conferenza dei rettori, anzi «lavoreremo al suo fianco per migliorare l'intero sistema — spiega il rettore di Bologna, Pier Ugo Calzolari —. Ci preme però appoggiare gli atenei più competitivi sulla scena internazionale. Al nuovo governo proponiamo più risorse in cambio di gestioni rigorose dei bilanci».
La parola d'ordine, tra richieste di trasparenza e nuove strategie di governance, è ripartire dal «patto per l'università» stretto tra Mussi e Padoa- Schioppa e poi arenatosi in Parlamento. Tocca a Giulio Ballio (Politecnico di Milano) presentare progetto e criteri di selezione, «Aquis è aperta a chi ha i requisiti oggettivi, deducibili da dati nazionali e internazionali ». Ballio parla di «effetto trainante», per Patrizio Bianchi (Ferrara) l'associazione «non surroga la Crui, ma stimola il dibattito interno»; per Vincenzo Milanesi (Padova) «non c'è volontà di divisione ma assunzione di responsabilità». Francesco Profumo (Politecnico di Torino) auspica: «Vorrei ritrovarmi qui tra 3 anni con 25 atenei, e poi 30... ».
«Siamo pronti a immaginare compiti aggiuntivi — chiosa Calzolari —, ma facciamo in fretta, si stanno esaurendo i tempi». Gianfelice Rocca, vicepresidente per l'education di Confindustria e unico relatore «esterno», concorda: «La Crui è stata un luogo di immobilismo, abbiamo bisogno di locomotive che trainino». Al nuovo governo chiede un «segnale»: 3-400 milioni, da attribuire «secondo i criteri buoni». Il mondo industriale «farà il suo mestiere: ricercare, innovare, andare nel mondo. Così saremo buoni partner per gli atenei». I «migliori», s'intende.

Corriere della Sera 16.3.08
L'autore di «La morte e la fanciulla» racconta il suo ritorno in Cile, il Paese dal quale era fuggito alla caduta di Allende
Il dolore dei carnefici
Dorfman: «Ho ritrovato l'eroina che mi ha salvato la vita ma mi sono commosso per la donna che piangeva Pinochet»
di Ariel Dorfman

La città era Santiago del Cile, fine settembre 1973, e io scappavo a perdifiato per mettermi in salvo, alla vigilia di un esilio dal quale non ero sicuro di tornare...

La città era Santiago del Cile, fine settembre 1973, e io scappavo a perdifiato per mettermi in salvo, alla vigilia di un esilio dal quale non ero sicuro di poter mai tornare.
Fu in quel frangente che conobbi la donna che mi avrebbe salvato la vita: un colpo di stato aveva proprio allora rovesciato il governo di Salvador Allende. Non l'avevo mai vista prima e non conoscevo il suo nome. Ma sapevo solo che se ci avessero preso, ci avrebbero ammazzati entrambi. Nell'attraversare la città pullulante di soldati, ricordo un pensiero bizzarro: «Ehi, si potrebbe girare un film eccezionale», seguito da una voce più prudente dentro di me che sussurrava: «Sì, se ne esci vivo per poter raccontare la tua storia».
Ne sono uscito vivo, ho raccontato la mia storia e oggi, quasi trentacinque anni dopo, è stato girato un film per narrare gli avvenimenti di quei giorni, che da allora mi hanno spinto a vagabondare senza una meta precisa.
Sul finire del 2006, il regista canadese Peter Raymont ( Shake hands with the Devil)
mi ha seguito in Cile per rivivere gli entusiasmi della rivoluzione di Allende e le conseguenze sanguinose del golpe militare. È stato un tuffo nel passato, che mi ha dato la gioia di rintracciare finalmente quella donna anonima per ringraziarla.
Ho pensato spesso a lei durante gli anni dell'esilio, e quando nel 1990 si è ristabilita in Cile una fragile democrazia, sempre in bilico sul baratro, le ho reso omaggio con il personaggio di Paulina, la protagonista di La morte e la fanciulla, una donna che salva le vittime, pur sperando, a differenza di Paulina, che la mia salvatrice anonima fosse riuscita a evitare l'arresto, la tortura o l'esilio.
Ebbene sì, era viva e vegeta, nel corpo e nello spirito, eppure né lei né il suo nome compaiono nel documentario.
E' vero, le strade di Santiago, oggi democratica, non sono più pattugliate dai soldati, ma l'antico terrore permane nell'aria, contamina ancora troppe vite umane. La mia «Paulina» non ha voluto essere filmata, ha detto, perché alcuni familiari, sostenitori della dittatura, non hanno mai avuto sentore del suo eroismo segreto, e preferisce che tutto rimanga così.
Non era in simili circostanze che avevo pregustato la nostra festosa riunione. Un po' ingenuamente, mi ero immaginato che, proprio come lei mi aveva salvato la vita, oggi la troupe cinematografica che mi seguiva in giro per il Cile l'avrebbe riscattata da un ingiusto oblio.
Ma se la telecamera le ha impedito di fare il suo ingresso nel nostro film, quella stessa telecamera ha reso possibile, in altre occasioni, tutta una serie di incontri e di impegni rimasti in sospeso, e continuamente rimandati.
L'ultima volta che l'avevo visto vivo, Salvador Allende era al balcone del palazzo presidenziale, affacciato a salutare la folla festante di un milione di sostenitori. Oggi, il film mi ha consentito di sostare su quello stesso balcone, a fissare una piazza deserta, a riflettere sulla fine di Allende, una manciata di ceneri fredde, e su tutti quegli uomini e quelle donne che non erano più laggiù, a sfidare l'ingiustizia.
Ma non era quella l'unica morte che mi aspettava in Cile.
Una mattina a Santiago, proprio nel bel mezzo delle riprese, la radio ha trasmesso la notizia che l'odiato nemico, il generale Augusto Pinochet, era stato colpito da ictus; sarebbe morto nel giro di una settimana.
Siamo corsi in ospedale.
L'esilio è sconsolante, eppure ti risparmia almeno la sgradevole vicinanza dei servi e dei sicari del tiranno. Ecco lì, davanti ai cancelli della clinica, un gruppetto di donne in lacrime per il loro idolo moribondo, guidato da una signora piccola e rotondetta, la bocca carica di rossetto, che stringeva tra le mani il ritratto del suo eroe, mentre le lacrime le sgorgavano da dietro un paio di improbabili occhiali scuri. Eccola là, a dare uno spettacolo patetico agli occhi del mondo intero, a difendere un dittatore condannato dai tribunali cileni ed esteri come torturatore, assassino, bugiardo e ladro. Ecco che cos'era diventato il Cile: un Paese dove questa donna, che aveva inneggiato alla morte della democrazia, che aveva festeggiato mentre mi davano la caccia e trucidavano i miei amici, quella stessa donna veniva filmata e adulata da trenta telecamere e cento microfoni, mentre la mia Paulina restava invisibile, nell'ombra, a soffrire ancora per il terrore inflitto da quel generale, che continuava a essere circondato dall'ammirazione e dall'affetto dei suoi fedelissimi.
Eppure, per un inspiegabile paradosso, mi sono sentito irrefrenabilmente commosso dal suo dolore. Per impulso, mi sono avvicinato alla donna e le ho detto che io avevo pianto la morte di Allende e la capivo, ora che toccava a lei piangere il suo leader. Ma volevo anche che si rendesse conto di quanta sofferenza ci fosse dalla nostra parte.
Avrò fatto bene ad agire così?
Nei miei romanzi e nelle mie opere teatrali, ho meditato profondamente sui muri che ci separano da quanti ci hanno fatto del male e ho suggerito che il pentimento è essenziale a ogni dialogo. Ma nella vita reale, non potevo aspettare quel pentimento in eterno. In questo interludio di compassione ho riversato il senso profondo e toccante del film.
La narrativa aspira a raggiungere un momento come questo, ma solo il documentario riesce a catturarlo nella sua pienezza.
Dedico questo momento alla mia Paulina. Con la speranza che anche lei, un giorno, possa emergere dall'ombra.
© Ariel Dorfman, 2008 (Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 16.3.08
Mussolini in Grecia: la «guerra sporca»
di Aldo Grasso

In certe parti della Grecia non abbiamo lasciato un buon ricordo. Era il 16 febbraio 1943 quando l'esercito italiano di stanza in Grecia massacra 150 uomini innocenti di Domenikon, un villaggio della Tessaglia. L'eccidio di Domenikon non è un caso isolato, ma un anello di una catena di brutalità nei confronti della popolazione civile. Non fa piacere vedere «La guerra sporca di Mussolini» di Giovanni Donfrancesco, ma almeno fa piacere che la verità non rimanga sepolta sotto un velo di ipocrisia, di reticenza, di insabbiamento (History Channel, venerdì, ore 21). Basato sugli studi di Lidia Santarelli della New York University e sulla testimonianza diretta dei parenti delle vittime, il documentario ricostruisce alcuni infausti episodi che sono il risultato diretto di una precisa strategia militare voluta dai vertici del fascismo. Una volta conquistata la Grecia, grazie al decisivo intervento dell'alleato tedesco, le truppe italiane d'occupazione si sono abbandonate, in alcune circostanze, a ripetute violenze nei confronti dei civili.
D'altronde già negli anni '50, per aver scritto un soggetto cinematografico che si chiamava «L'armata s'agapò» («s' agapò» in greco significa «ti amo»), dedicato alle vicende dell'occupazione militare italiana della Grecia, il grande critico Renzo Renzi fu arrestato, degradato (era un ufficiale dell' esercito) e condannato dal tribunale militare con l'accusa di «vilipendio delle Forze Armate e dell'arma di cavalleria». Il processo produsse un vasto movimento di opinione a favore degli imputati: non solo due civili (c'era anche il direttore Guido Aristarco) venivano processati da un tribunale mi-litare, ma pareva scandaloso non si potesse rievocare episodi per noi negativi accaduti durante l'occupazione. La «guerra sporca» è una macchia ancora da lavare; De Gasperi aprì un'inchiesta senza mai giungere a una conclusione.

Corriere della Sera Salute 16.3.08
La Cina copia anche il modello italiano di cure psichiatriche
Una «riforma Basaglia» a Pechino
I nostri psichiatri aiuteranno i colleghi cinesi nel tentativo di superare in tempi brevi manicomi e pregiudizi
di Giada Messetti

Lo psichiatra Renzo De Stefani e Roberto Cuni, della associazione La Panchina, seguiranno il progetto cinese

PECHINO - La legge Basaglia fa scuola in Cina. Tutto è cominciato quando, il 23 agosto scorso, a Pechino è arrivato, da Venezia, il "Treno dei matti": in 208, tra malati mentali, familiari e operatori di tutta Italia (organizzati dal movimento "Parole Ritrovate" e dall'associazione Anpis), avevano affrontato il viaggio allo scopo di contrastare i pregiudizi nei confronti della malattia mentale e di testimoniare la pratica del "fareassieme", strumento di prevenzione e cura che valorizza la responsabilità personale. Il messaggio era forte e il gigante asiatico ha deciso di coglierlo.
In Cina ci sono 18 milioni di malati mentali gravi e 63 milioni di individui con disagi psichici; molti non ricevono alcun tipo di trattamento: il 50% degli schizofrenici e il 20% dei depressi non sono curati per mancanza di assistenza sanitaria diffusa. Lo stigma nei confronti del disturbo psichico è radicato. Negli ultimi anni, però, le istituzioni hanno espresso la volontà di rinnovare il sistema riabilitativo, ancorato a meccanismi di custodia e assistenza ospedaliera.
Ora, su invito del National Center for Mental Health of China, il direttore del Dipartimento di Salute mentale di Trento, Renzo De Stefani e il responsabile dell'associazione "La Panchina", Roberto Cuni, hanno siglato con i massimi dirigenti della psichiatria cinese un accordo di cooperazione che punterà al raggiungimento del modello territoriale italiano di prevenzione e cura della malattia mentale. Come primo passo, nel distretto pechinese di Haidian, si svilupperà un progetto pilota di psichiatria di comunità. Per l'Italia, l'iniziativa sarà sostenuta dalla Cooperazione internazionale della Provincia di Trento e realizzata dalla Ong "Solidarietà & Servizio" di Viterbo, rappresentata a Pechino dal dottor Pierluigi Cecchi. Oltre al superamento dell'ospedale psichiatrico, il progetto prevede la creazione di figure simili agli "utenti e familiari esperti" che da anni a Trento affiancano medici e paramedici e forme di partecipazione della comunità per giungere all'accettazione della malattia mentale.
«La psichiatria cinese - spiega De Stefani - oggi è centrata quasi esclusivamente sul strutture ospedaliere che funzionano secondo il modello assicurativo.
Abbiamo visto ospedali nuovi o comunque con offerte riabilitative interessanti (dai gruppi sulle abilità sociali, al problem solving; dalla danzaterapia, ai gruppi karaoke), ma anche strutture obsolete in cui la funzione di contenimento era più evidente. Abbiamo incontrato un'umanità dolente, come era inevitabile, in cui si sente forte la potenziale ricchezza delle emozioni e dei sentimenti. Un' ottima base per costruire percorsi di cura fuori dall'ospedale ». Ovviamente sarà necessario declinare il modello italiano secondo la complessa realtà cinese, ma forse arriverà il momento di un nuovo "Treno dei matti", questa volta in partenza da Pechino verso l'Italia.

Corriere della Sera Salute 16.3.08
Cina. Sanità in crisi
Qui, dove tutto si paga, la salute è un diritto negato

PECHINO - Gli ospedali? Come le imprese: o hanno le risorse per autofinanziarsi e offrire il servizio, o chiudono. I medici? Come i manager: attenti alle cure e (forse di più) alle entrate e ai bilanci dell'azienda. I pazienti? O pagano in contanti o niente esami, niente medicine, niente ricoveri.
Addio welfare. La Cina ha adottato il suo modello: una giungla di leggi e di circolari controverse, una deregulation selvaggia che è durata tutti gli anni Ottanta e Novanta. Lo Stato ha ridimensionato i trasferimenti di fondi e ha smesso di dispensare servizi gratuiti, si limita a garantire una copertura minima con molte differenze da categoria a categoria (con una protezione maggiore del dipendente pubblico), più di facciata che di sostanza, l'equivalente di pochi euro diluiti lungo l'arco di 12 mesi. Il peso delle spese è lasciato a carico del cittadino. Chi ha bisogno di una visita (mai a domicilio) va all'ospedale e versa in contanti. Chi ha bisogno di un farmaco si rivolge alle rivendite autorizzate all'interno degli ospedali e se non si tratta di prodotti per i quali è prevista la distribuzione obbligatoria (pochissimi) apre il portafoglio. Chi deve sottoporsi a una radiografia passa prima dalla cassa. Una rivoluzione, ma sarebbe più corretto parlare di una contro-riforma, il cui risultato è drammatico. Non per il ceto medio urbano benestante, sempre più aggrappato alle assicurazioni private, ma per 800 milioni di contadini che con un reddito di poco più di 350 euro all'anno non hanno neppure il diritto di ammalarsi. Lo ammettono i responsabili della politica sanitaria: la popolazione rurale non è nelle condizioni di curarsi perché non ha i soldi per un'aspirina o solo per un cerotto. Una tragedia. La Cina, ormai terza potenza economica, è stabilmente agli ultimi posti della classifica mondiale nella distribuzione delle risorse nella sanità. Sprechi. Abusi.
Discriminazioni. Il solco fra ricchezza e povertà che si allarga. Una vergogna nazionale alla quale il governo sta ora provando a porre rimedio con un nuovo programma di finanziamenti. La Cina si è resa conto che la sua è Malasanità istituzionalizzata. Un Paese che aspira al progresso non può permettersela.

Corriere della Sera Salute 16.3.08
Nuove dipendenze Potrebbe sembrare piacevole soffrirne, eppure dicono che la «sex addiction» va curata
Drogati di sesso, chiamate il dottore
di Daniela Natali

Promossa da un gruppo di terapeuti una campagna di disintossicazione
Non solo Michael Douglas e altri vip: la sesso dipendenza è diffusa anche tra i comuni mortali. E si cura così.

Sono molti, soprattutto molti più di quanto si pensi: circa il 6% degli uomini e il 3% delle donne. Hanno tra i 20 e i 40 anni. Sono talmente tanti i "drogati del sesso" che la «Rete nazionale per le nuove dipendenze», coordinamento che raccoglie psicologi, medici e sociologi in tutta Italia, ha deciso di dedicare il mese di marzo alla prevenzione delle "dipendenze sessuali" e dei disturbi d'ansia, organizzando incontri e fornendo diagnosi gratuita (www.retenuovedipendenze.
it). Certo la dipendenza dal sesso sembrerebbe una malattia della quale non è poi male soffrire, ma gli esperti affermano che non è affatto così. Spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta, direttore scientifico della Rete: «Quando il sesso diventa il perno intorno al quale ruota tutta la vita, un valore assoluto cui si sacrificano amicizie, lavoro, studio, hobby e "veri" amori, posso assicurarvi che non si sta affatto bene. Si è vittima di impulsi sui quali si perde ogni controllo e che vanno soddisfatti subito. Chi soffre di sex addiction è in realtà una persona terrorizzata dalla vera sessualità che è rapporto con l'altro, scambio profondo: elementi completamente persi e negati da una rincorsa frettolosa a prestazioni multiple e continue. O nella fuga in direzione della masturbazione compulsiva, della pornografia e del sesso virtuale. Il sesso diventa così un pensiero ossessivo, un rituale con il quale ci si difende da qualcosa che fa paura: ma il sollievo dura poco: il tempo di un rapporto. Un rapporto del quale spesso ci si vergogna e questo spinge a trovare consolazione nell'unica maniera che si conosce. Come fa il drogato o l'alcolista, si insiste a cercare la soluzione in quello che è, invece, il problema».
La sesso dipendenza è dunque una malattia, ma perché definirla "nuova"? C'è sempre stato chi giocava troppo a "ninfe e fauni"... «Quello che c'è di nuovo — ribatte Mininno — è il fatto che oggi viviamo nella società edonista del "tutto e subito", in cui l'approccio sessuale è molto più facile che in passato. Una facilità solo apparente perché in realtà si è molto soli e lontani dal conoscere la sessualità. Tutto è concesso, ma non è chiaro cosa si debba cercare».
E come ci si cura? In America si ricorre perfino al ricovero, si prescrive l'astinenza per mesi, si usano psicofarmaci... «Gli psicofarmaci contro sintomi acuti di ansia e depressione possono contenere temporaneamente il malessere — dice l'esperta —, ma la terapia fondamentale è psicologica. Anche i gruppi di auto-aiuto possono servire, meglio però se sono guidati. Poiché l'obiettivo da raggiungere è alto: far nuovamente diventare un piacere quel che è diventato un'ossessione, non basta una seduta. E una volta raggiunti i primi risultati bisogna verificare, nel tempo, che l'amore non torni ad essere una droga».
«Attenzione, però, — puntualizza Carla Anna Durazzi, socio fondatore dell'Associazione psicoanalitica per la prevenzione e la cura del disagio psichico — l'origine del disagio va rintracciata in una sofferenza profonda che si fa "sentire" a livello sessuale e questo perché la sessualità esprime le nostre parti più segrete, è il terreno in cui ci si "spoglia" di più, e non solo dei vestiti. È ovvio, quindi, che il desiderato incontro con l'altro possa anche essere temuto e molti dei nostri comportamenti siano dettati dal bisogno di proteggerci dal rischio di essere abbandonati, sopraffatti o di sentirci inadeguati. L'erotismo senza affetti fa sentire "potenti", sicuri; per di più l'innovazione tecnologica ha portato nuovi tipi di dipendenze come lo scaricamento compulsivo di materiale pornografico».
«Compito del terapeuta — conclude Durazzi — è aiutare il paziente a vedere nel "sintomo" un segnale di conflitti profondi non risolti. Chi si rivolge al nostro Centro di aiuto psicologico intraprende un percorso di riscoperta della propria personalità spostando, gradualmente, l'impiego delle sue energie vitali, da dipendenze che risucchiano, verso il lavoro di analisi e il ritrovamento delle capacità di vivere pienamente la vita».

Corriere della Sera Salute 16.3.08
Castità. Niente rapporti, ma non è detto che ci voglia sempre il medico
In coppia, ma sempre in «bianco»
di Cesare Capone

Nella nostra società erotizzata sono in aumento le persone che smettono di fare sesso o che non l'hanno mai fatto. E si prepara a sbarcare anche da noi l'associazione americana «Silver Ring Thing» che predica la castità, o meglio, l'erotismo solo all'interno del matrimonio, per ragioni estremamente pratiche: scongiurare ma-lattie e gravidanze indesiderate.
Intanto, Jean-Philippe de Tonnac, intitola addirittura «La rivoluzione asessuale » (Castelvecchi, ora in libreria) la sua inchiesta antropologica sulla vita senza sesso. Dice de Tonnac: «I media vogliono farci credere che la vita erotica sia ricca e bella, ma non è quella che la gente sperimenta davvero sotto le coperte». Ed è recente l'uscita del trattato «Sessuologia medica» (Cortina) dove Emmanuele Iannini e collaboratori hanno dedicato due densi capitoli al «desiderio sessuale ipoattivo» che considerano una vera patologia «solo» quando crea sofferenza. «Il fenomeno non è quantificabile — spiega Iannini, coordinatore del corso di laurea in sessuologia all'Università dell'Aquila — perché di solito le persone provano imbarazzo e fanno credere, anche nelle inchieste giornalistiche e scientifiche, di avere una vita sessuale soddisfacente». Ma oltre la metà di chi cerca aiuto per risolvere problemi sessuali lamenta di non avere rapporti intimi a causa di impotenza, vaginismo, scarsità o assenza di desiderio.
«Il declino della libido riguarda sia le donne, sia gli uomini che sono penalizzati anche da un aumento dell'impotenza precoce; mentre fra le donne la dispareunia e il vaginismo sono in diminuzione» avverte Giacomo Dacquino, psichiatra e psicoanalista di Torino, autore per Mondadori di una dozzina di libri basati sulla sua lunga esperienza di terapeuta.
E, non da oggi, nella maggior parte delle coppie stabili i rapporti intimi si riducono gradualmente, con l'avanzare del-l'età, oppure si deteriorano. «Quando un uomo dirada l'attività sessuale — riprende Iannini — la secrezione del testosterone cala a livelli infantili e quindi non si avverte quasi più il desiderio. Un meccanismo simile è ipotizzabile nelle donne, perché anche il desiderio femminile dipende dal testosterone prodotto dalla ovaie e dalle surrenali». Il fatto che l'involuzione della vita intima coniugale avvenga precocemente e frequentemente preoccupa medici, psicologi e sociologi. Ma non tutti gli interessati. Osserva Iannini: «Se calo o assenza di desiderio non sono causa di sofferenza per lui o per lei, il ricorso all'andrologo, al ginecologo o allo psicologo non è giustificato. Occorre però intervenire su eventuali fattori (stress, depressione, alcol, fumo e droga) comunque dannosi alla salute, che portino anche allo scadimento della sfera erotica».
«Almeno il 6% dei matrimoni non viene addirittura mai consumato e in molti casi la convivenza non ne soffre. Dico "almeno" perché tale condizione si sottrae a una statistica precisa, data la riservatezza delle coppie» afferma Dacquino. Riservatezza che vien meno di fronte al medico, quando si desidera un figlio — aggiunge Giorgio Rifelli, responsabile del Servizio di sessuologia del Dipartimento di psicologia, Università di Bologna —. Nel 70% dei casi le coppie riescono ad averlo per via "normale", salvo riprendere poi la vita coniugale come fratello e sorella». Vi sono persone sessualmente inappetenti per costituzione e non è detto che sia patologico; altre per motivi morali, religiosi o perché fortemente inibite: «Uomini che provano angoscia all'idea di penetrare incontrano donne angosciate all'idea di essere penetrate» — osserva Dacquino —. Nel "matrimonio bianco" le coppie sono spesso serene. Sono uomini e donne che si proteggono a vicenda».

sabato 15 marzo 2008

l’Unità 15.3.08
Il ritorno di Mussi: ci metto tutta l’anima
Bertinotti attacca il Pd: è una forza di centro vuole recuperare il ruolo che fu della Dc
di Marco Tedeschi


RITORNO Dopo giorni e giorni di campagna elettorale, la sinistra Arcobaleno apre ufficialmente a Milano la sua campagna elettorale. Giornata particolare per Fausto Bertinotti, che ha cominciato il suo percorso milanese partecipando alla commemorazione di Fausto Tinelli e Lorenzo Jannucci, Fausto e Iaio, i due giovani del centro sociale Leoncavallo uccisi il 18 marzo di trent’anni fa (senza che mai un colpevole sia stato condannato), e lo ha proseguito tra via Solferino (sede del Corriere), via Ollearo (sede di Radio Popolare), il Pio Albergo Trivulzio e, infine, il Teatro Smeraldo.
Giornata ancora più particolare anche per Fabio Mussi, che riprendeva la scena ancora in convalescenza a un mese da un doppio trapianto di reni. Tutto bene, ha rassicurato Mussi: «L'anima è pronta, il corpo con qualche prudenza, ma c'è tutta la voglia di darsi da fare perchè credo fortemente nel progetto della sinistra arcobaleno...». «Perchè - ha sottolineato Fabio Mussi - ritengo impensabile che in un grande paese europeo come l'Italia non possa esistere più una forza rilevante che si chiami orgogliosamente sinistra». «Non auspicavo 35-40 partiti, ma non auspico neppure il bipartitismo coatto di due grandi aggregati che la fanno da padrone», ha continuato Mussi. «Anche perché - ha concluso - rischiano di restare due forze tra le quali si determina una attrazione fatale».
Secondo il candidato premier per la Sinistra l'Arcobaleno, Fausto Bertinotti, c'è «nelle corde» di Walter Veltroni l'ipotesi di «un'alleanza con il centro, anche per la sua tendenza a configurare il Pd programmaticamente come formazione di centro». Il Pd, ha voluto argomentare Bertinotti, nel corso di una videochat sul sito del Corriere della Sera, «ha la vocazione a recuperare il ruolo che fu della Dc, formazione sostanzialmente a-classista, interclassista, in grado di avere all’interno la sinistra di Donat Cattin e la destra di Andreotti e anche oltre, l'idea di contenere laici e clericali».
Per il presidente della Camera non bisogna però cadere nell'errore «di identificazione con la Dc che è stata altra storia in altro tempo: basti pensare ad esempio alla forza e al peso dell'intervento pubblico nell'economia che ha caratterizzato l’amministrazione democristiana».
Dalla politica ai simboli,presenti e passati. «Teniamoci la falce e martello, come tutte le cose importanti, non si cancellano per un simbolo elettorale, ma portiamoli anche a costruire la storia» ha risposto Bertinotti, all'appello «ridateci la falce e martello, vi prego», rivoltogli durante il forum online organizzato dal Corriere. «Invitiamo chi ha la falce e martello nel cuore a considerare l'arcobaleno come la prefigurazione di un futuro, in cui questo rosso di molti di noi si mescola con gli altri colori - ha aggiunto - E che sia un futuro di allegria colorata, in modo da ricostruire una nuova prospettiva di sinistra».
Parlando poi al teatro Smeraldo, Bertinotti ha espresso solidarietà allo scrittore Roberto Saviano e alla cronista del Mattino di Napoliminacciati dai boss della camorra e ha poi affrontato le questioni di politica estera a partire dalle provocazioni dell’ex ministro Martino. «Le destre vorrebbero andarsene dal Libano, dove l'unica cosa che hanno in comune tutti è l'apprezzamento per la missione italiana, preferendo l'Iraq dove tutti ormai riconoscono il fallimento della politica americana» ha replicato all’ex ministro di Berlusconi.

Corriere della Sera 15.3.08
Candidato premier Il leader della Sinistra Arcobaleno: Pd come la Dc, ma non paga tenere insieme tutto
Bertinotti: con l'Inno di Mameli si suoni anche l'Internazionale


MILANO — Un'alleanza postelettorale tra Casini e Veltroni? «Tenderei ad escluderlo anche se è nelle corde di Walter il posizionamento al centro». L'eliminazione di quelle differenze tra centro e sinistra che hanno creato problemi di stabilità a Prodi? «Il Pd sta facendo proprio il contrario, candidando l'operaio che chiede più soldi in busta paga e il "falco" di Federmeccanica che non glieli voleva dare». Il superamento di simboli e ideologie? «E perché mai? Tra i giovani c'è una riscoperta della Resistenza. E la falce e il martello sono dentro di noi anche in una nuova prospettiva di sinistra».
Fausto Bertinotti guarda al futuro senza dimenticare il passato.
E nel botta e risposta con i lettori di Corriere.it, nella videochat moderata dal vicedirettore Pierluigi Battista, lo ribadisce in più occasioni: «Nel Paese c'è ancora bisogno di sinistra ». La «lotta di classe» non è tramontata e resta la necessità di un diverso modo di fare «l'opposizione alla destra». Perché è vero che Berlusconi non ha ancora vinto, ma la scelta di una corsa solitaria «potrebbe costare la vittoria al Pd». Bertinotti ne è convinto: candidare tutto e il contrario di tutto, come succedeva con la vecchia Dc che «metteva insieme la sinistra di Donat-Cattin e la destra di Andreotti», è una scelta che oggi non paga. Perché «se anche il Pd vincesse si ritroverebbe con le diversità interne che già si registravano nell'Unione, ma amplificate».
Il candidato della Sinistra Arcobaleno parla poi delle liste, «frutto di un faticosissimo compromesso», e mette le mani avanti ammettendo forse «non saranno così convincenti ». Le domande inviate dai lettori — quasi 1.300 — affrontano i programmi. Due le priorità: aumento dei salari, da realizzare con una forma di indicizzazione all'inflazione almeno una volta all'anno, e lotta al precariato, «malattia sociale del nostro tempo». La battuta di Berlusconi alla precaria? «La gravità non è nella battuta, ma nel messaggio: non c'è niente da fare per la tua condizione, tenta la strada della fortuna, la lotteria, fai la velina...». Il presidente della Camera rivaluta anche il concetto di patria («stravolto dal fascismo») e l'inno di Mameli, scelto da Veltroni per aprire le proprie convention: «Quell'inno è di tutti. Quello che non va bene è che sia utilizzato al posto dell'Internazionale. Andrebbero invece intonati entrambi».
Alessandro Sala

l’Unità 15.3.08
Comunicato del Cdr
Preoccupazione per le notizie di stampa su imminenti cambiamenti ai vertici della società editrice del quotidiano


È con grande preoccupazione che la redazione de l'Unità accoglie notizie di stampa su eventuali imminenti cambiamenti ai vertici della società editrice del quotidiano. Ipotesi che, a giudicare da quel che viene scritto, appaiono se non altro opache sotto il profilo sia delle motivazioni editoriali sia di quelle tecnicamente imprenditoriali. Ancora una volta chiediamo garanzie chiare circa un passaggio cruciale nella vita del giornale. L'esperienza dovrebbe insegnare a evitare metodi di trattativa sbrigativi e superficiali nella scelta degli interlocutori, a maggior ragione in considerazione della identità politica del giornale e del suo peculiare rapporto con i lettori. Come già negli ultimi travagliati mesi, il Cdr chiede che l'attuale compagine azionaria non segua strade che non diano sufficienti garanzie di solidità né certezze circa la capacità di investimento necessarie allo sviluppo del giornale. Ed è per questo, per avere chiarezza sul futuro e per ottenere tempestiva informazione sugli ulteriori sviluppi nelle trattative con eventuali acquirenti, che il Cdr chiede un incontro immediato con la presidente della società editrice, Marialina Marcucci, convocando, inoltre, l'assemblea dei redattori per lunedì 17 alle ore 15. Ancora una volta siamo a ribadire che per il bene del giornale si debba evitare di perseguire strade che alla fine possano rivelarsi senza sbocco, implicando peraltro - se le notizie di stampa venissero confermate - quella che si configurerebbe come una sorta di svendita. E, ancora una volta, chiediamo che vengano verificate fino in fondo tutte le disponibilità, chiare ed esplicite, che si sono manifestate a tutt'oggi, prima fra tutte quella dell'editore di Europa 7, Francesco Di Stefano. A lui chiediamo però di andare oltre le parole e di esprimere in tempi rapidi atti espliciti che dimostrino nei fatti la volontà di diventare editore del giornale fondato da Antonio Gramsci. L'Unità merita una soluzione che sia all'altezza della sua storia. Il cdr de l'Unità

l’Unità 15.3.08
Se il mondo va a sinistra
di Giuseppe Tamburrano


I socialisti hanno vinto in Spagna Francia e Germania. Le cause sono quelle classiche: impoverimento dei ceti più deboli, arricchimento assoluto dei più ricchi, difficoltà nel sistema capitalistico globalizzato

Una spinta a sinistra si avverte nel mondo occidentale. Le cause sono quelle classiche: impoverimento dei ceti più deboli, arricchimento assoluto dei più ricchi, difficoltà crescenti nel sistema capitalistico globalizzato. Ah! Immortale Carlo Marx!
In dettaglio. I socialisti hanno vinto in Spagna nonostante la situazione economica dia segni di crisi. I socialisti non hanno cambiato nè nome nè simbolo. E i giornali raccontano che la grande folla che ha accolto il vincitore Zapatero ha gridato: «Olè, a sinistra».
In Francia i socialisti che sembravano senza speranze, sono invece ancora sul terreno e con i loro colori risorgono e crescono nelle elezioni amministrative. Colui che sarà molto probabilmente il nuovo leader dopo le baruffe “chiozzotte” della famiglia Royal-Hollande, il sindaco di Parigi Delanoë, è favorevole ad una alleanza di tipo neomitterandiano con la sinistra (residua!)
In Germania la sinistra (Linke) cresce alle elezioni dei Länder, e mentre si indebolisce la Grande coalizione tra democristiani e socialisti, questi ultimi cominciano a prendere in considerazione la prospettiva di un dialogo con Lafontaine.
In Inghilterra il tramonto di Blair è anche crisi della sua linea liberista: non sappiamo cosa pensano i suoi guru, Giddens in testa. Non credo che ripristineranno la clausola IV dello Statuto che prevedeva la collettivizzazione dei beni di produzione e di scambio, ma sicuramente dirà “qualcosa di sinistra” questo Labour che è diventato new ma è rimasto Labour.
Un vento di sinistra spira anche oltreoceano dove i programmi sia di Hillary Clinton che di Barack Obama sono sempre più ispirati ad un “preoccupante populismo”, come lo definisce il campione del liberismo ortodosso, l’Economist, visibilmente contrariato dalla cosa (1 marzo 2008) e promettono riforme sociali, specie quella sanitaria, e interventi governativi. È in America che più forti si avvertono i segnali di crisi economica, che non è solo congiunturale (recessione), ma investe il dollaro, investe il capitalismo liberista e globalizzato le cui magnifiche sorti e progressive degli ultimi anni sono fortemente appannate.
E veniamo a casa nostra. L’Italia è sempre un caso a sè, un’anomalia. Qui da noi il cosiddetto “populismo” riemerge non a sinistra, ma a destra. Ha scritto Dario De Vico sul Corriere della Sera (11 marzo 2008): «Sembrava che le ricette dei due principali partiti avessero un po’ lo stesso spirito, che le tendenze centripete all’interno dei due schieramenti stavano finalmente prendendo il sopravvento ... poi è arrivato il pamphlet di Tremonti» e con esso si è rotta la pace centripeta e «mercatista» per usare una parola dell’autore di La paura e la speranza. Un libro “populista” che chiede dazi, controlli, interventi pubblici nei confronti di un liberismo “degenerato” e della globalizzazione. Avremo una politica economica interventista di destra e una liberista di sinistra?
Ovviamente non si può chiedere a Veltroni di accogliere nelle sue vele il vento che viene da Spagna, Francia, Germania e Stati Uniti e cambiare il programma nel corso della campagna elettorale. Ma il problema si porrà dopo le elezioni. Sia se vince, sia soprattutto se perde, il Pd non potrà isolarsi dal socialismo europeo in forte ripresa. Mi rendo conto che la tendenza “centripeta” impressa da Veltroni al Pd ha avuto forti ragioni: scrollarsi di dosso gli ultimi pezzi di intonaco del crollo del muro di Berlino e accreditarsi al centro verso il ceto medio che lavora e l’imprenditoria privata che produce. Ma lavorano, producono (e muoiono in fabbrica) anche gli operai: ci sono le famiglie a reddito basso e medio basso, i pensionati, i ceti più deboli: insomma il nostro mondo, il mondo della sinistra che si impoverisce, ed è vittima di grave disagio. E ci sono i nostri valori, il laicismo cavallo di battaglia vincente di Zapatero, in una Spagna più cattolica dell’Italia; c’è il nostro cuore antico. E se ci distraiamo ascoltando le sirene della concorrenza, l’Ocse ci ricorda che i salari italiani sono agli ultimi posti in Europa.
E in proposito mi ha fatto una forte impressione la posizione della Conferenza dei vescovi la quale ha invitato gli elettori a “discernere” con riferimento non solo ai valori cattolici della vita e della famiglia - e ciò era scontato - ma anche ai temi più scottanti (puntualmente elencati) della crisi sociale ed economica italiana allo scopo di migliorare le «condizioni di vita della parte più consistente della popolazione». La Cei chiede “larghe intese” su questi problemi di prezzi e salari: e ciò appartiene all’ecumenismo della Chiesa, ma ciò che colpisce è il contenuto, è il contributo fortemente sociale dell'intervento. Evviva per una volta ai preti? Finalmente si può votare secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica che qualche volta si ricorda che Cristo fu il “primo socialista”. Anche se non lo si può mettere accanto al Cardinale Bagnasco, è sintomatico che Mario Monti sostenga che «la globalizzazione ... richiede di essere molto più governata dai pubblici poteri».
Nello scenario politico non vi può, non vi deve essere un populismo demagogico della destra al quale si contrappone un liberismo innaturale, duro e puro del Pd. Bisogna che la sinistra ritrovi le sue radici e i suoi legami con i partiti europei di ceppo comune.
Caro Walter, il socialismo non è morto. Rianimiamolo.

l’Unità Roma 15.3.08
Lazio in testa alle denunce per razzismo
Donne e immigrati dalla pelle scura insultati in strada o sui mezzi pubblici oppure
respinti da un luogo di lavoro per il colore della pelle. Su 11mila casi accolti il 27% a Roma
di Massimiliano Di Dio


Nella capitale c’è un maggior numero di presenze straniere e c’è l’associazionismo che aiuta a veicolare il messaggio», spiega l’esperto dell’Unar

C'è la ragazza etiope, addetta di un'impresa di pulizia, allontanata dal palazzo di un ente pubblico nel centro di Roma perché «lei è di colore, la gente non la vuole». E ancora la signora marocchina aggredita e insultata perché uscita dal lato sbagliato della metro o l'autista di un bus capitolino accusato anche da un testimone italiano di aver chiuso le porte alla vista di un senegalese. Il tutto accompagnato da insulti vari come i classici «Marocchino di m.. tornatene nel tuo paese. Qui comandiamo noi» o i nuovi «Non siamo razzisti, abbiamo dipendenti stranieri ma neri proprio no». È il piccolo catalogo delle denunce pervenute al contact center dell'Unar(ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) che a maggio presenterà il rapporto nazionale ma a L'Unità anticipa i dati relativi al Lazio e Roma. Su circa 300 casi attendibili di molestie o discriminazioni estrapolate dalle 11mila chiamate pervenute da tutta Italia, 76 hanno avuto luogo sul territorio laziale. Roma si colloca al primo posto e con il 27,3 per cento delle denunce valutate positivamente o oggetto di un ricorso giudiziario. A seguire Milano (11,2 per cento) e Torino (5 per cento). Ma il primato della capitale ha diverse ragioni, come spiega Pietro Vulpiani, esperto dell'Unar. «C'è una forte presenza di stranieri. E Roma si fanno grandi campagne informative e le associazioni territoriali aiutano».
Nel Lazio le principali vittime sono donne: 63,2 contro 36,8 per cento degli uomini. La maggior parte delle segnalazioni, il 22 per cento dei casi, ruota attorno al lavoro. «Il progetto lavorativo è al centro della vita migratoria - spiega Vulpiani - Quando viene messo in discussione è avvertito con maggior fastidio. Quel che non viene ancora denunciata è la disparità di retribuzione. «Il ricatto è ancora molto forte e poi molti credono che sia normale essere pagati la metà di un italiano». Tra gli ambiti della discriminazione subito c'è la casa (17,1 per cento). Qui prevale la rassegnazione su annunci che dicono "no affitto a stranieri e romeni" e turbano i conflitti condominiali. «Aumentano gli attriti tra italiani e stranieri per i problemi più vari, come odori, rumori o sovraffollamenti. Cerchiamo di intervenire subito di fronte a queste piccole situazioni di tensione che possono trasformarsi in violenza dettata da odio razziale». Insulti e molestie non mancano anche nel trasporto pubblico (14,5 per cento) o nelle strade (10,5). Mass media e forze dell'ordine si attestano intorno al 5 per cento. «Spesso si ha la sensazione di non potere far nulla - commenta sempre Vulpiani - Molti stranieri hanno paura e non denunciano. Si arriva quasi a una condivisione della discriminazione subita». Tra le nazionalità presenti nel Lazio che più si rivolgono al contact center dell'Unar c'è quella romena con il 15,5 per cento dei casi. «Hanno maggiore consapevolezza dei loro diritti» precisa l'esperto prima di affrontare il delicato momento dell'omicidio Reggiani. «È stato un periodo nefasto ma non abbiamo avuto picchi di denunce. Questo non vuol dire che non vi siano state maggiori discriminazioni. Probabilmente la comunità romena da quel momento ha cercato di evitare ogni visibilità, per il timore di risposte xenofobe».

Repubblica 15.3.08
Aborti nella clinica delle suore
di Giuseppe Filetto


GENOVA - Le suore di Villa Serena, la clinica gestita dalle religiose, dove il ginecologo Ermanno Rossi avrebbe praticato l´aborto clandestino, ripetono che "nella casa di cura si sono effettuati semplici raschiamenti". Ma a contraddirle sarebbe un´intercettazione telefonica: «Dottor Rossi, ho deciso di interrompere la gravidanza», dice la donna al telefono. «Va bene, ci vediamo al più presto - risponde il medico, indagato e suicida lunedì scorso - prendo l´agenda e le cerco un appuntamento».
La telefonata è di una delle due pazienti che si sono sottoposte all´aborto clandestino a "Villa Serena", clinica elegante nel quartiere residenziale di Albaro. A Genova, nella città del cardinale Angelo Bagnasco, il presidente della Cei, che guida anche l´ospedale Galliera, dove anche la procreazione assistita è un "imbarazzo".
Altre simili intercettazioni, raccolte dai Nas, sarebbero contestate alle 8 donne indagate, ieri interrogate dal pm Sabrina Monteverde. Gli atti dell´inchiesta sono secretati, ma da Palazzo di Giustizia trapela che potrebbero esserci nuovi avvisi di garanzia. Infatti, la donna sotto interrogatorio avrebbe ammesso al pm l´aborto e non il raschiamento. Giura, però, che era all´oscuro di violare la legge 194 ed avrebbe raccontato che in sala operatoria, oltre al ginecologo, erano presenti un anestesista e un´infermiera ferrista. E forse anche un altro ginecologo. Così nell´inchiesta oltre alle otto donne indagate potrebbero essere coinvolti anche anestesisti e ferristi che avrebbero aiutato il medico. Stando a quanto dicono i ginecologi, sarebbe impossibile che uno specialista possa praticare l´aborto senza il sostegno di altro personale qualificato. Non solo nella clinica Villa Serena, ma anche negli studi di Genova e di Rapallo.
Ieri, seconda giornata di interrogatori, è stata anche un´assistente del ginecologo, una quarantenne con due figli, che saputo di essere incinta per la terza volta, ha chiesto di abortire. Nello stesso studio medico in cui lavorava. Una funzionaria di 35 anni avrebbe interrotto la gravidanza a Villa Serena, con la prognosi ufficiale di "raschiamento". Le indagini avrebbero accertato che si trattava di un aborto. «Non ci risulta dalla documentazione clinica», ripete Pierpaolo Bottino, legale della casa di cura. Comunque, nei giorni scorsi i carabinieri hanno sequestrato alcune cartelle cliniche e ieri il consiglio di amministrazione di Villa Serena ha comunicato che "non sono mai state praticate interruzioni volontarie di gravidanza in quanto casa di cura retta, fin dalla sua fondazione, da personale religioso ovviamente contrario sia dal punto di vista del diritto naturale sia per morale cristiana all´aborto volontario".
In ogni modo, la scelta della clinica privata sarebbe stata motivata dalla riservatezza e dai tempi rapidi, cose che stando alle dichiarazioni delle donne indagate, "non sarebbero garantite dalle strutture pubbliche". In proposito l´assessore regionale alla Sanità, Claudio Montaldo, assicura che la Regione anticiperà le linee guida redatte dal ministro Livia Turco sull´applicazione della "194".

Repubblica 15.3.08
La telepolitica sotto il duopolio
di Giovanni Valentini


Con l´autorevole avallo del presidente della Repubblica e del presidente del Senato, le due più alte cariche dello Stato, l´applicazione della "par condicio" adottata dall´Autorità sulle comunicazioni in questa campagna elettorale che si svolge all´insegna del duopolio politico è stata definitivamente sancita e legittimata in funzione del duopolio televisivo. Bersagliata inopportunamente dalle critiche del senatore Di Pietro, in realtà l´Authority presieduta da Corrado Calabrò non ha fatto altro che convalidare l´impostazione della Commissione parlamentare di Vigilanza, estendendo la stessa disciplina dal servizio pubblico alla televisione privata. E non potendo evidentemente intervenire a priori, proprio per evitare qualsiasi forma di censura preventiva, s´è predisposta a monitorare la competizione televisiva in modo da garantire che sia il più equilibrata possibile con i poteri e gli strumenti che la legge le conferisce.
La verità è che le polemiche sulla "par condicio", giuste o sbagliate che siano, mettono a nudo l´incongruenza della legge elettorale in vigore e l´instabilità politica che ne deriva. Dal bipolarismo imperfetto siamo passati a un bipartitismo imperfetto o si potrebbe anche dire artificiale, coatto, imposto dalla logica verticistica dei due partiti maggiori che si confrontano in questa pantomima. È naturale, dunque, che oggi il regime della "par condicio" risulti ancora più controverso, in rapporto all´articolazione di uno schieramento politico simile a una costellazione stellare che invece di un sole, ne annovera due, con alcuni pianeti satelliti che ruotano intorno a essi.
A chi voglia chiarirsi le idee, si può consigliare il libro appena pubblicato da Anna Chimenti, docente di Diritto costituzionale e di Diritto pubblico dell´informazione, intitolato L´ordinamento televisivo italiano (Giappichelli editore, Torino): è un compendio molto puntuale e istruttivo sulle vicende della tv italiana, dall´epoca del monopolio fino al disegno di legge Gentiloni. E in particolare suggeriamo di leggere il capitolo che ricostruisce passo per passo la storia della "par condicio", avanzando anche un´ipotesi critica: «Se tutte le cose che la par condicio richiede non si possono fare nelle forme prescritte e ammesse dalla Costituzione, questo non significa forse che è proprio la par condicio che non si può fare?».
Risalendo al 1994, cioè alla fatidica discesa in campo di Berlusconi, a proposito del conflitto di interessi la stessa autrice scrive che «il problema era difficile da risolvere perché non esistevano disposizioni costituzionali in materia e (…) non vi era neppure una legislazione chiara». Ma è anche vero che vigeva e vige tuttora una legge del ´57 che stabilisce l´ineleggibilità del concessionario pubblico, già aggirata a suo tempo con un artificio burocratico, per cui il proprietario di Mediaset può essere eletto in Parlamento e invece colui che risulta formalmente titolare della concessione non può. Il solo fatto che ormai questo impedimento sia stato come rimosso nella memoria e nella coscienza collettiva, o per così dire cancellato dall´ordalia elettorale, dimostra qual è il livello di vigilanza della politica e dell´opinione pubblica su un´anomalia tanto macroscopica.
E non diciamo, per carità, che ormai il duopolio televisivo non esiste più perché in campo c´è anche Sky. Il settore della pay-tv differisce strutturalmente da quello della tv in chiaro, cosiddetta generalista: tant´è che a tutt´oggi La7 non è riuscita a conquistare una quota sufficiente di mercato ed Europa 7 non ha neppure ottenuto le frequenze per utilizzare la concessione nazionale che s´era aggiudicata nel ´99. I canali di Murdoch, inoltre, trasmettono prevalentemente film ed eventi sportivi e l´unico canale dedicato alle news non ha certamente il peso o l´influenza delle reti Rai e Mediaset: sarebbe il caso, piuttosto, di preoccuparsi che all´ombra delle parabole non si consolidi un nuovo monopolio satellitare. Non vorremmo che questo falso argomento del duopolio-che-non-c´è-più diventasse, magari in modo inconsapevole, un alibi per rallentare o rinviare la transizione al sistema digitale terrestre come inopinatamente ha fatto in extremis il governo uscente.
Il fatto è che anche in questo caso si rischia di confondere l´effetto con la causa: cioè la questione della "par condicio" con quella ben più grave di una legge elettorale immonda che, oltre a generare un bipartitismo imperfetto, attraverso il meccanismo delle liste bloccate consente ancora le candidature multiple e soprattutto l´investitura dei candidati dall´alto. Così i parlamentari vengono nominati dalle segreterie dei partiti, piuttosto che essere eletti dal popolo: e sono quindi da considerarsi alla stregua di funzionari di partito. Tanto da compromettere fin d´ora la rappresentatività del futuro Parlamento, com´era già accaduto del resto per quello appena sciolto.
Hanno ragione perciò Mario Segni e Giovanni Guzzetta quando rivendicano al referendum elettorale l´unica "chance" di restituire funzionalità e credibilità alla nostra democrazia. Senza una grande spinta popolare, come loro sostengono, è assai improbabile che il sistema riesca ad autoriformarsi. In mancanza dunque di una nuova legge elettorale, capace di riformare sostanzialmente quella in vigore, a giugno dell´anno prossimo i cittadini italiani saranno chiamati a pronunciarsi direttamente e allora sarà il responso delle urne a fare giustizia di tutti gli equivoci e di tutte le ambiguità a cui stiamo assistendo in questa incresciosa vigilia.
(sabatorepubblica.it)
La normativa sulla par condicio voluta dal centrosinistra e votata dal Parlamento non è una legge giusta in assoluto, nel senso di valida sotto qualsiasi latitudine. Più semplicemente è una legge necessaria per l´Italia di oggi.
(da Par condicio? di Gianni Cuperlo Donzelli, 2004 – pag. 135)

Repubblica 15.3.08
Mozart. Svelato il mistero lungo due secoli spunta in un dipinto il vero volto
L’immagine romantica mostra un ragazzo molto più bello
di Enrico Franceschini


Un gran nasone, labbra carnose, fronte spaziosa, accenno di doppio mento e una parrucca di capelli grigi: Wolfgang Amadeus Mozart era fatto così. Niente a che vedere con l´immagine che conosciamo tutti, riprodotta su piatti di porcellana, magliette, scatole di cioccolatini. Il vero volto del grande compositore austriaco viene alla luce soltanto ora, duecento e passa anni dopo la sua morte, grazie a due ritratti finora sconosciuti, per i quali Mozart posò durante diverse epoche della sua vita e che adesso un esperto ha autenticato per la prima volta. Il professor Cliff Elsen, docente di storia della musica al King´s College di Londra, ha trovato prove documentate, scritte personalmente dal musicista e da suo padre, che identificano i due quadri a olio.
Come per Shakespeare, di cui esistono mezza dozzina di ritratti considerati genuini ma fonte di infuocate discussioni, come per tanti altri personaggi della storia che non hanno lasciato un ritratto o una statua «ufficiali», da Cleopatra a Gesù all´imperatore Gin della Cina, anche sulle reali sembianze di Mozart imperversava il dibattito. L´eccitazione del mondo della musica per la scoperta dei quadri che lo ritraggono, preannunciata ieri dal Times, è perciò incontenibile. Le due tele saranno esibite questo fine settimana durante una conferenza a Londra.
Resta da vedere se seppelliranno l´immagine romanticizzata del «Mozart dei cioccolatini»: decisamente più bello, impossibile negarlo, di quello che si vede in questi ritratti.
Il primo fu dipinto nel 1783, durante gli anni che il compositore trascorse a Vienna, quando era di ottimo umore subito dopo il matrimonio con Costanza. Quando posò per Joseph Hickel, pittore alla corte dell´imperatore, Mozart aveva 27 anni: nel quadro, bisogna dire, ne dimostra parecchi di più, ma lo spirito dell´epoca era diverso dal nostro nel considerare, e disegnare, i giovani. Il secondo risale al 1764, quando Mozart, a 8 anni, dimostrava il suo talento di straordinario «ragazzo prodigio»: nel quadro appare con la sorella Nanneri. Il valore dei due dipinti, ora che il soggetto è stato identificato come Mozart, è salito alle stelle: il primo è stato assicurato per 3 milioni di euro.
Appartengono entrambi a un anonimo collezionista americano, che li ha acquistati da discendenti di Johann Lorenz Hagenauer, banchiere, proprietario della casa dei Mozart e amico di Leopold, il padre di Wolgang. «Considerati i loro rapporti personali, è naturale che oggetti in passato appartenuti ai Mozart siano finiti in mano ad Hagenauer», osserva il professor Eisen.
La certezza che l´uomo del quadro del 1783 è Mozart viene da una lettera autografa del compositore alla baronessa Martha Elisabeth von Waldstatten, in cui descrive minuziosamente la giacca rossa «coi bottoni di madreperla» che indossa. «Questo è probabilmente il più importante ritratto di Mozart tra i quattro che sono arrivati sino a noi», afferma l´autore dell´identificazione. Nell´altro ritratto, quello del compositore bambino, lui e la sorella indossano eleganti abiti di taglio inglese che il loro padre Leopold aveva comprato a Londra e che descrive in altre lettere. Sicché, grazie a due vestiti, possiamo finalmente dare un volto alla celestiale musica di Mozart.

Repubblica 15.3.08
Scriveva: "Tutto è freddo"
Quelle piroette per mascherare l'eterna ansia
Il volto segreto e l'anima di Mozart
di Pietro Citati


Non so dirvi se il ritratto, pubblicato su Times, sia il vero ritratto di Mozart. Posso dirvi soltanto come appariva alla moglie e agli amici nei suoi ultimi anni di vita.
I suoi slanci d´amore verso la moglie ci ricordano sovente le tenerezze di Papageno piuttosto che i sublimi ardori di Tamino: «Cara donnina del mio cuore», così chiamava la moglie, con le stesse parole usate dal suo uccellatore; «Acchiappa - acchiappa! bs-bs-bs-bs-bs - bacini volano nell´aria verso di te - bs - ecco ne trotterella ancora un altro». «O stru! stri! - ti bacio e ti stringo 1095060437082 volte (così potrai esercitarti nella pronuncia) e sono il tuo eternamente fedele marito ed amico...». Poi, con il suo gusto per i giochi di parole senza senso, aggiungeva: «Sii eternamente la mia stanzi Marini, come io sarò eternamente il tuo Stru! - Knaller - paller-schnip-schnap-schnur-Schnepeperl». Faceva l´Arlecchino, il Pulcinella, il buffone salisburghese.
Mescolava la volgarità, che aveva appreso mangiando per tanti anni tra valletti e cocchieri, con le capriole delle maschere veneziane, e i giochi immateriali dell´elfo romantico.
Queste piroette gioiose ed infantili non riescono ad illuderci. Dietro di esse, si agitava un´ansia nevrotica, un amore che consumava e si consumava, una tensione spirituale che poteva distruggerlo. Le lettere alla moglie sono scritte sempre più velocemente, come se volessero sopravanzare il battito dei minuti. I nervi guizzano di continuo sulla carta: i temi vengono mutati ad ogni rigo, l´umore si innalza e si abbassa, si rallegra e si incupisce.
Qualche volta si confessava alla moglie: «Se la gente potesse vedere nel mio cuore, dovrei quasi vergognarmi. Tutto è freddo per me - freddo come il ghiaccio». «Non ti posso dire quello che provo, è un certo vuoto - che mi fa male - una certa nostalgia, che non viene mai appagata, che non cessa mai - continua sempre, anzi cresce di giorno in giorno... Vado al piano e canto qualcosa delle mie opere, ma debbo smettere subito - fa troppo impressione. Basta!». Questo gelo, questo vuoto, questa nostalgia, questa angoscia, nessuna parola, mai, avrebbe potuto colmarla.
Spesso la mattina alle cinque, dopo aver dormito pochissimo, lasciava il numero 970 della Rauhensteingasse, come se qualche demone lo trascinasse fuori casa. Qualcuno lo prendeva per un garzone di sartoria che si avviava al lavoro. Passeggiava a lungo per le strade, dove il sole cominciava a dorare gli alberi e le case di Vienna. Durante il giorno, l´inquietudine lo faceva correre attraverso la città, inseguito da torture reali ed immaginarie. Faceva visite, dava lezioni, andava a trovare gli amici, cercando danaro in prestito, con cui avrebbe pagato debiti, che aveva contratto pagando altri debiti. Ora dormiva nella propria casa: ora in quella di Leitgeb o di Schikaneder.
Mangiava al ristorante, perché aveva paura di restare solo: o da qualche amico, che preparava in onor suo un piccolo banchetto, dove Mozart beveva champagne e dei grandi bicchieri di punch. La sera giocava a biliardo: talvolta a casa, da solo, «assieme al signor von Mozart collaboratore di Schikaneder», più spesso in un caffè presso casa, dove trovava quel calore umano di cui aveva così perdutamente bisogno.
Qualche volta, gli amici guardavano con ansia quell´uomo piccolo e magro, dal viso un po´ gonfio, dagli occhi azzurri sbiaditi, con i bei capelli biondi, fini e ondulati che gli scendevano sulle spalle. Era sempre di buon umore. Ma anche quando si abbandonava alla più estrema allegria, sembrava che pensasse a qualche altra cosa, che lo assorbiva del tutto. Quale essa fosse, nessuno poteva dire. Poi, all´improvviso, diventava molto sereno e grave.
Andava alla finestra, suonando con le dita sul davanzale, e dava risposte sempre più vaghe ed indifferenti, finché non udiva più nulla, quasi fosse senza coscienza. Non restava mai fermo. La mattina, mentre si lavava il viso, andava e veniva per la stanza, battendo un tallone contro l´altro. A tavola prendeva un angolo del tovagliolo, lo torceva e se lo passava e ripassava sotto il naso, e intanto faceva una strana smorfia con la bocca. Muoveva di continuo le piccole, mobilissime mani: le strisciava sopra i polsini, sopra una gamba o un braccio: giocava con il cappello, con la catena dell´orologio, con lo schienale di una seggiola, con la tastiera del piano; e infilava e sfilava le mani dalle tasche, come se soltanto così potesse mitigare la sua inquietudine.

Repubblica 15.3.08
Pavese. Quel segreto amore di gioventù
di Massimo Novelli


Anche lei era di Santo Stefano Belbo. Aveva nove anni più di lui
Rimangono tracce nelle lettere e in un appunto del "Mestiere di vivere"
Prima di incontrare la "donna con la voce rauca" lo scrittore ebbe una storia con una giovane insegnante, Elena Scagliola

Cesare Pavese ebbe grandi e tormentati amori, come rivelano la sua corrispondenza, il diario, le biografie a lui dedicate: da Tina Pizzardo a Fernanda Pivano, da Bianca Garufi a Costance Dowling. Ma nella sua vita ci fu un´altra donna, la cui identità è rimasta sconosciuta fino a oggi per varie ragioni: innanzitutto la precoce morte di lei, avvenuta appena tre anni dopo il suicidio dello scrittore, e quindi la decisione, da parte di una sorella, di bruciare le lettere inviatele da Pavese dagli inizi degli anni Trenta, probabilmente a partire dal 1932, al 1942. Il tempo cancella, tuttavia a volte restituisce qualche frammento, magari per una semplice casualità: un pronipote, Paolo Scagliola, ha scoperto in casa, ad Alba, le copie di alcune poesie che Pavese aveva dato a lei. Ne ha parlato con Ugo Roello, a lungo responsabile della Biblioteca «Luigi Einaudi» di Dogliani e appassionato cultore pavesiano. I due sono andati a trovare l´avvocato Igino Scagliola, l´anziano fratello della donna, nonché nonno di Paolo.
Così la figura di Elena Scagliola è riemersa dall´oblio. È la storia di una giovane donna (era nata nel 1899) bruna e minuta, libera (amava fumare il toscanello), vivace e piuttosto colta rispetto alla maggioranza delle coetanee dell´epoca, che non aveva esitato ad andare a vivere da sola per qualche mese in Francia per potere perfezionare il suo francese, che avrebbe insegnato. Era nata e cresciuta in una agiata famiglia di commercianti di vino di Santo Stefano Belbo, lo stesso paese natio di Pavese, più giovane di nove anni. I ricordi dell´avvocato Scagliola sono stati fondamentali. Il Centro studi «Gozzano-Pavese» dell´Università di Torino, diretto dalla professoressa Mariarosa Masoero, ha consentito poi di consultare le lettere (nove), le cartoline (quattro), un telegramma e un biglietto postale che Elena spedì a Cesare fino al 1942.
Fu un vero amore? Per un certo periodo, sicuramente. Non soltanto perché lei, il 18 gennaio del 1937, da Fano, dove si era trasferita per lavoro, gli domandava in un biglietto: «Perché non scrivi? Sono in pensiero. Fatti vivo anche con un semplice saluto». E il primo gennaio del 1938, ricevendo una copia di Lavorare stanca con la dedica «a Elena», gli scriveva con nostalgia «... tu già vivi tra i miei ricordi più cari». Oppure perché ancora nel marzo del ´38 gli faceva sapere: «Carissimo Pavese, sei il ricordo più bello della mia vita». C´è dell´altro. Soprattutto tre lettere dell´autore de La luna e i falò, conservate tra le sue carte e successivamente pubblicate nel volume einaudiano delle Lettere 1924-1944, che testimoniano l´intensità della relazione. Risalenti al settembre-ottobre del 1932 e indirizzate a una certa E., che nelle note dei curatori dell´epistolario viene definita «collega di Pavese nell´insegnamento», contengono frasi eloquenti: «Sono stato male tutto il giorno a non vederti sulla strada di Crevacuore»; «Fa, E., che tutto non finisca qui: dammi una probabilità di amarti meglio, di esserti più fedele nei miei pensieri, più degno di te!»; «... io non dimenticherò mai una sola cosa: che ti ho insegnato - ti ho costretta - a baciarmi sulla bocca. Ho sentito contro le mie braccia, svegliarsi in te una vita nuova».
Si amarono. L´apice della relazione coincise con i giorni trascorsi a Bra, dove entrambi avevano ottenuto una supplenza. In seguito la passione si stemperò in una amicizia affettuosa, anche perché, nel frattempo, Pavese si era invaghito di Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca». Fu la guerra, con ogni probabilità, a separarli per sempre. C´è un appunto di Pavese, ne Il mestiere di vivere, risalente al 26 gennaio del 1938, che parrebbe indicare l´incrinarsi del loro rapporto: «Oseresti tu causare tanto male? Ricorda come hai congedato Elena. Ma tutto è ambivalente. L´hai congedata per virtù o per vigliaccheria?». Sembra scontato che il riferimento sia alla E. delle lettere d´amore del ´32. L´avvocato Scagliola, che ha novantasei anni e una memoria straordinaria, non sa quando tramontò la passione fra sua sorella e lo scrittore. Rammenta benissimo invece la prima volta che lo vide in casa sua, a Santo Stefano Belbo, vicino alla ferrovia.
Era il periodo in cui Pavese veniva a trascorrere qualche giorno nel suo paese, affittando una stanza alla trattoria della stazione, nei pressi dell´abitazione di Elena. Racconta l´avvocato: «Doveva essere settembre, si era all´imbrunire. Rientravo dopo avere fatto la mia partita di biliardo. In salotto trovai tutto buio. In un angolo mia mamma sonnecchiava su una poltrona. Pavese e mia sorella erano seduti sul divano, lui stava con le braccia dietro la testa, appoggiato allo schienale, e guardava verso il soffitto. Nessuno parlava. Ho acceso la luce, ci siamo salutati. Dopo, quando Pavese se ne è andato, ho chiesto a mia madre che cosa avesse detto ad Elena. E lei, con il suo accento genovese: "In due ore non ha detto una parola". Ma è probabile che non parlassero perché non erano soli, come avrebbero preferito». Prosegue l´avvocato Scagliola: «Volete sapere che tipo di rapporto ci fu fra Elena e Pavese?». Sorride, risponde: «Qualcosa di più di un´amicizia, un po´ di più. Anche se tra loro c´era pure un´attrazione sul piano intellettuale. Elena, del resto, era la più istruita e la più libera della famiglia».
Elena morì nel 1953, dopo essersi sposata con un cugino nel 1947. «Quando mia sorella Gisella riordinò le sue carte, si imbatté nelle lettere di Pavese. E volle bruciarle», ricorda. «Perché lo fece? Per rispetto verso Elena». Del loro amore, allora, scomparve ogni traccia. Conclude Igino Scagliola: «Mi chiederete perché questa storia non era venuta alla luce. Ve lo spiego subito: nessuno mi aveva mai chiesto di raccontarla». Ora, grazie anche a lui, l´amore fra Elena e Cesare ritrova la tenerezza e le illusioni di una bella estate.

Repubblica 15.3.08
Da oggi lo speciale in onda su RaiSat Extra, con tg dell’epoca e testimonianze
Aldo Moro, trent'anni dopo


Oltre 60 ore di programmazione su Raisat Extra per il trentennale della morte di Aldo Moro. Il canale satellitare diretto da Marco Giudici propone uno speciale stasera, dalle 21 fino all´alba, dedicato ai discorsi di Moro, conservati nelle teche Rai, restaurati ma mai andati in onda. Domani, invece, a cura di Antonio Maria Mira, giornalista dell´Avvenire, parte un ciclo di 55 puntate, (fino al 9 maggio), ogni giorno alle 13.30, col montaggio dei telegiornali Rai andati in onda nei 55 giorni di prigionia. Aldo Moro. Il volto, la voce, le parole. 1968-1978-2008 è il titolo della non stop di oggi, in cui per la prima volta vengono proposti in tv i discorsi di Moro: spiccano quello al Consiglio nazionale della Dc del 21 novembre 1968 e l´ultimo, ai gruppi parlamentari Dc, del 28 febbraio 1978. L´introduzione è di Stefano Folli. Alcuni testi sono letti da Roberto Herlitzka, che ha interpretato lo statista nel film di Bellocchio Buongiorno notte. Lucia Annunziata ricostruisce cosa avvenne la mattina del 16 marzo ‘78. E poi testimonianze sullo statista di Guido Bodrato, di Eugenio Scalfari, autore dell´ultima intervista a Moro e di Emanuele Macaluso. Infine, il direttore delle relazioni esterne della Luiss, Roberto Ippolito, spiega il vocabolario del presidente della Dc. «Siamo partiti da una constatazione semplice» spiega Giudici «quella di un uomo che è stato prigioniero non solo delle Br ma anche, per trent´anni, di una fotografia: imprigionato in quella istantanea che lo ritrae sofferente. Oggi vedere e ascoltare Moro suscita un´emozione forte».

Corriere della Sera 15.3.08
Un matrimonio fallito su 5 annullato dalla Sacra Rota
Le richieste aumentano del 25% l'anno
di Paolo Conti


ROMA — Benedetto XVI è allarmato. Non solo la famiglia è in crisi. Ma persino l'apparato mondiale dei Tribunali ecclesiastici locali e della Rota Romana centrale, che devono pronunciarsi sulle richieste di annullamento dei matrimoni religiosi, seguono lo spirito dei tempi concedendo molte (forse troppe, per Ratzinger) sentenze favorevoli. Dice Gian Ettore Gassani, presidente dell'Associazione matrimonialisti civili italiani: «Ormai un matrimonio fallito su cinque in Italia viene sciolto da un Tribunale ecclesiastico. Le richieste stanno aumentando da tre anni del 20-25 per cento». Ma il fenomeno riguarda tutto il mondo. Nel 2005 i matrimoni religiosi sciolti dai Tribunali statunitensi in primo grado sono stati ben 24.343, le sentenze contrarie appena 998. Sempre nel 2005, le domande presentate negli Usa sono state 28.844 e in tutto il mondo 48.655, cioè quasi 50.000. In quanto alla sola Rota Romana, autentica Cassazione mondiale dei tribunali ecclesiastici, al 1 gennaio 2008 le cause aperte provenienti dall'Italia erano 421, contro le 215 del 1999 o le 331 del 2003.
Per queste ragioni il Papa, nel suo discorso al Tribunale del 26 gennaio per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha attaccato «le giurisprudenze locali, sempre più distanti dall'interpretazione comune delle leggi positive e persino dalla dottrina della Chiesa sul matrimonio ». E ha condannato la «compilazione di regole astratte e ripetitive, esposte al rischio di interpretazioni soggettive e arbitrarie» ricordando che la Rota «influisce molto sull'operato delle chiese locali». Non per niente la Rota Romana ha già cominciato a invertire la tendenza. Nonostante la quantità di cause pendenti, nel 2007 le sentenze definitive di nullità sono state 160, di cui 79 per la nullità e 81 contrarie. Nel 2006 erano stato 172, di cui 96 per la nullità e 76 contrarie.
Il Pontefice teme che i Tribunali ecclesiastici diventino un'alternativa al divorzio? Gli Usa sono una spina nel cuore di Roma: troppo spesso viene invocato il canone 1095 del codice di diritto canonico che prevede i casi di «incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio», una sorta di «incapacità psichica» e di «immaturità affettiva». Concetti molto vasti, come si vede. Per di più negli Stati Uniti il secondo appello viene quasi sempre sostituito da un rapido decreto di ratifica. Un anno o poco più, e il gioco è fatto.
Dice l'avvocato Gassani: «L'iter però non è sempre così semplice. Perché la sentenza ecclesiastica abbia efficacia giuridica in Italia, occorre una "delibazione" da parte di una Corte d'appello chiamata a controllare che le motivazioni non siano in contrasto con le leggi repubblicane. Da alcuni anni il 40 per cento non vengono trascritte. Non c'è più automatismo ». Accusa Diego Sabatinelli, segretario della Lega per il divorzio breve e membro della direzione dei radicali italiani: «Se si incontra un buon avvocato, la Rota Romana può chiudere una causa anche in un anno e mezzo, massimo due. Così si discrimina il separato cattolico rispetto al separato normale. Ovviamente, è tutta una questione economica. Sappiamo con assoluta precisione e documentazione di cause che costano anche 20.000 euro. Si paga e si va avanti».
Circostanze duramente smentite dai duecento avvocati rotali iscritti allo speciale albo (per accedere occorre seguire tre anni di «Studio rotale» e laurearsi in diritto canonico). Dal 2004 esistono minimali e massimali rigidissimi per le parcelle: dai 1500 ai 2850 euro, più 500 di costi fissi. Non solo, ma secondo le statistiche del 1 gennaio 2008 il 65% delle cause hanno beneficiato del patrocinio gratuito. Dice l'avvocato Alessandro D'Avack: «La nostra clientela è mista, persone benestanti ma anche tanta povera gente che ha autentici problemi di coscienza. Qui si viene soprattutto per convinzione anche se statisticamente, vista la crisi della famiglia, siamo entrati in collisione con l'istituto del divorzio. In quanto ai compensi, le tariffe sono quelle. Spese a parte possono arrivare eventualmente per le definizioni patrimoniali ». Suggerimenti a chi vuole sciogliere il matrimonio religioso? «Dire sempre e comunque la verità. Inutile inventarsi favolette che non reggono in tribunale».
Monsignor Giuseppe Sciacca, uno dei ventuno «Prelati Uditori» di nomina pontificia, cioè i veri giudici della Rota Romana, difende il lavoro dell'istituzione: «La vera pastoralità non è mera accondiscendenza a una semplice richiesta di nullità del matrimonio. Invece è un servizio di verità che è autentica carità e quindi giustizia: i fedeli hanno il preciso diritto di conoscere la realtà del proprio stato matrimoniale. Il giudizio del tribunale ecclesiastico ha un carattere dichiarativo e di accertamento sulla validità o meno del vincolo. La Rota Romana non può "annullare" alcun matrimonio ma solo accertarne la nullità o meno dopo un accurato procedimento giudiziario». Il richiamo del Papa per monsignor Sciacca va nella direzione corretta: «Una diga contro l'arbitrarietà, il personalismo e il relativismo». Forse per questo, Benedetto XVI, chiudendo il suo discorso si è augurato un «autentico rinnovamento di questa venerabile istituzione».

Corriere della Sera 15.3.08
Sentenze. Nella relazione del 2007 raccolte le motivazioni dei processi arrivati a conclusione
Le cause: dal disturbo narcisistico al delirio di gelosia
di P. Co.


ROMA — La stragrande quantità di cause di nullità derivano da un «vizio di consenso» (o incapacità consensuale). E, seguendo il testo della relazione annuale della Rota Romana del 2007, ci si imbatte in una serie di cause psichiche molto variegate, tutte collegate al canone 1095 del diritto canonico («grave difetto di discrezione di giudizio» e «incapacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio »). Ecco alcuni casi accettati come ragione di annullamento: «disturbo affettivo bipolare», «disturbo di personalità schizoide», «disturbo di personalità antisociale», «disturbo di personalità narcisistico », «sindrome ansioso-depressiva conseguente alla morte del primo coniuge», «personalità ossessivo- compulsiva», «personalità passivo- aggressiva e dipendenza dalla madre», «personalità borderline », «disturbo di personalità antisociale e narcisistico», «disturbo con aspetti ipertimici e associato ad abuso alcolico», «disturbo di personalità istrionico», «immaturità affettiva e sessuale», «disturbo di personalità connesso, tra l'altro, a grave sofferenza cerebrale di origine traumatica», «disturbo di personalità con aspetti misti ed evitanti », «personalità globalmente psicopatica», «delirio di gelosia con abuso alcolico», «paranoia alcolica », «marcata irresponsabilità connessa a una nevrosi d'ansia con componenti ossessive, a sua volta legata a infermità somatiche del soggetto».
In un caso di immaturità di donna ha contato «la giovanissima età al momento del matrimonio, 15 anni, la gravidanza intervenuta e la bassa capacità intellettiva».
Poi ci sono i casi di «simulazione del consenso». «Caso di matrimonio di convenienza, celebrato dalla donna convenuta solo per conseguire l'agiatezza economica ». «Mentalità divorzistica acquisita dalla moglie durante la permanenza in Inghilterra negli anni sessanta ».
Oppure: «La donna subordinava la durata del matrimonio alla responsabilizzazione dell'uomo. Si sposò perché era rimasta incinta e non voleva sottoporsi a un secondo aborto, dopo quello già compiuto durante la relazione prematrimoniale ». Capitolo prole, ovvero la volontà di avere figli. Causa di nullità legate alla deliberata assenza di figli: «Forte repulsione verso l'idea di maternità», «prevalente considerazione della prospettiva lavorativa », «paura che i figli rivivano le proprie esperienze negative», «desiderio di tutelare la propria libertà ».
Nel 2003 fece sensazione una sentenza legata alla «mascolinità sicula di un uomo» che rivendicava «esagerata supremazia sulla fidanzata », dicendosi pronto al divorzio se «la donna non fosse stata all'altezza».
Sempre quell'anno viene dichiarato nullo un matrimonio in cui una ragazza incinta aveva costretto il fidanzato a sposarla «minacciando di abortire», un chiaro caso (per i giudici) di «timore invalidante il consenso». Nel 1993 fece discutere quella di una coppia che non credeva nell'indissolubilità del matrimonio in quanto «succube di teorie legate all'atmosfera negativa suscitata dall'introduzione del divorzio in Italia».

Corriere della Sera 15.3.08
Omaggio a Goethe
Provocazioni. Il direttore israeliano (e con passaporto palestinese) suonerà nel teatro voluto da Hitler nella capitale tedesca
Sfida di Barenboim: Wagner a Berlino con l'orchestra arabo-ebraica
di Mara Gergolet


Daniel Barenboim alla guida dell'Orchestra del Divano Occidentale Orientale: il nome è un omaggio a una collezione di liriche di Goethe ispirate alla poesia persiana. E ovviamente un'allusione alla composizione israelo-palestinese dell'orchestra stessa

GERUSALEMME — Sul palcoscenico del lupo. Nell'arena musicale che Hitler costruì per i giochi olimpici di Berlino '36, la Waldbühne, dove gli atleti passavano a salutarlo col braccio alzato, Daniel Barenboim dirigerà la Valchiria. Un direttore ebreo, con la sua orchestra di giovani israeliani e arabi, a suonare Wagner: la musica preferita del Führer, e bandita in Israele.
Una provocazione? Un insulto, questo concerto fissato per il 23 agosto, per molti in Israele. Lui dice l'opposto: «Se Hitler e Wagner ci sentissero si rivolterebbero nella tomba».
Daniel Barenboim è così. Ebreo e israeliano, ma con passaporto anche palestinese (oltre che argentino). Uno dei grandissimi direttori d'orchestra, che apre la stagione della Scala, e che però dice seriamente: «L'orchestra Divan, quest'orchestra di giovani ebrei e palestinesi, è l'impresa musicale più importante della mia vita». L'ha fondata una decina d'anni fa con il suo amico, l'intellettuale palestinese Edward Said, la porta in giro nei grandi teatri del mondo. «Non crediamo che la questione israelo-palestinese si possa risolvere militarmente. I due popoli devono imparare a convivere e ascoltare. Noi musicisti lo facciamo ogni giorno ». I soldi del concerto serviranno a costruire una sala da concerti per i palestinesi a Ramallah: «Se mai ci riusciremo — dice — mi impegno a portare un musicista di valore ogni 4-6 settimane».
Wagner, però, in Israele è una faccenda seria. Vietato sulla tv pubblica, bandito (anche se non formalmente) nel Paese. Scatena passioni e ricordi angoscianti, non tutti ridono con Woody Allen che — ogni volta che sente la Valchiria — prova l'impellente urgenza di invadere la Polonia. Il primo che sfidò il bando fu Zubin Mehta, nel 1985. Fu interrotto da un anziano signore che balzò sul palco, si spoglio e mostrò le cicatrici dei campi di concentramento: «Questa è la musica che sentivo nei Lager ». Mehta rinunciò.
Il tabù fu violato solo nel 2001, in un clamoroso concerto a Gerusalemme, e proprio da Barenboim. A fine programma chiese al pubblico: volete sentire Tristano e Isolda? Discussero mezz'ora, gli piovvero addosso accuse di «fascista» e «antisemita », qualcuno si alzò in piedi e uscì, ma la maggioranza restò. Fu una standing ovation che lo portò quasi alle lacrime. La politica, il giorno dopo — da Sharon a Olmert (sindaco di Gerusalemme) all'( allora) presidente Katsav — lo condannò quasi senza eccezioni.
Lui dice di trovare «mostruose» le idee di Wagner, e «quasi nobile e generosa» la sua musica. «Capisco — ha detto in un'intervista con Edward Said, poco prima che questi morisse — che a molti Wagner generi associazioni col nazismo. E rispetto quelli a cui queste associazioni risultano oppressive. Ma è democratico suonare Wagner per chi lo desidera sentire».

Corriere della Sera 15.3.08
Etica e diritti Prescrizioni negate, ma la legge non lo prevede
Fecondazione, obiettori tra i medici di base
Rifiutano i farmaci. L'Ordine: interverremo
I casi dei camici bianchi che per motivi di coscienza ostacolano anche le pratiche conformi alla legge
di Monica Ricci Sargentini


MILANO — La fecondazione assistita in Italia è sempre più una corsa a ostacoli. Oltre alle limitazioni imposte dalla legge 40, le coppie dei pazienti si trovano di fronte a un nuovo fenomeno: l'obiezione di coscienza di alcuni medici di base che, nonostante la normativa non lo consenta, si rifiutano di prescrivere i farmaci necessari per la fecondazione in vitro o le analisi che i centri richiedono prima di effettuare la terapia. È accaduto, a fine febbraio, a Chiari, in provincia di Brescia, dove una ragazza di 29 anni alla prima Fivet si è recata dalla sua dottoressa di famiglia con il piano terapeutico firmato dal centro specialistico: «Mi ha gelato — racconta — con un "va contro la mia morale. Io ho firmato e depositato l'obiezione di coscienza"». La paziente, in lacrime, si reca alla Asl di zona, quella di Palazzolo. Ha i giorni contati. Senza quei farmaci dovrà rimandare il tentativo. Lì la questione viene risolta cambiando medico di base. «La dottoressa Pasini — dice al Corriere Lia Giovanelli dell'ufficio comunicazioni con il pubblico della Asl di Brescia— ha sbagliato. Però non l'abbiamo chiamata perché non ci sembrava giusto fare un intervento attivo». E non è un caso isolato. All'associazione Cerco Un Bimbo (www.cercounbimbo.net) fioccano le richieste d'aiuto: «Di segnalazioni di questo tipo ne abbiamo ricevute molte — racconta al Corriere Federica Casadei, presidente e fondatrice di Cub, un portale che vanta ben 22mila utenti —, purtroppo è un fenomeno molto sommerso, tanti pazienti non hanno il coraggio di presentare denuncia o pensano che i medici siano nel giusto. Noi consigliamo sempre di rivolgersi alla Asl e di contattare l'ordine dei medici. Per nostra esperienza se si protesta il caso si risolve. L'ordine nazionale dovrebbe istituire un telefono verde per le coppie in difficoltà». Ipotesi da non scartare. Maurizio Benato, vicepresidente della Federazione Nazionale Ordini dei Medici, è netto: «Non esiste l'obiezione di coscienza per la procreazione assistita. È un nostro dovere curare ogni patologia.
Di fronte a casi del genere l'Ordine dei medici potrebbe intervenire con delle direttive serie».
Alcuni dottori invocano la coscienza anche per la semplice prescrizione di un'analisi dello sperma o di una mammografia. È successo a Schio, in provincia di Vicenza. A una donna che, incinta grazie alla Fivet, non riesce a portare a termine la gravidanza vengono prescritti accertamenti per la poliabortività. Il medico di base dice no. «Mi ha detto che era normale che l'avessi perso perché avevo usato una tecnica contro natura» racconta la paziente. Il caso finisce all'Ordine dei medici di Vicenza: «Sì è vero — dice il ragionier Baldinato — il dottore si è rifiutato di prescrivere delle analisi nell'ambito della fecondazione assistita ma la paziente poteva anche andare da un'altra parte ». Interpellato dal Corriere il dottor Buratto non smentisce: «Mi sembrano questioni private — dice —. Io sono obiettore di coscienza sull'aborto, per il resto mi attengo al codice».

Corriere della Sera 15.3.08
Grande Guerra. La crudeltà di Cadorna
Fucilazioni sommarie nella fucina dei genocidi
di Frediano Sessi


Alle radici del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni, la Grande guerra segna «l'inizio di un imbarbarimento » del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio» delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov, che gli ideatori della «soluzione finale» conoscono il loro «battesimo di fuoco». Non stupisce perciò che, per contrastare le proteste dei soldati, costretti a combattere in condizioni estreme, il generale Luigi Cadorna, fin dal 1916, si esprima a favore della decimazione, la fucilazione sommaria di un soldato ogni dieci, nei reparti macchiatisi di «reati collettivi». Poiché, malgrado l'obbligo di registrare le esecuzioni sommarie, tale dovere era spesso disatteso, oggi ancora non conosciamo il numero esatto delle vittime.
I due episodi di decimazione ai danni della valorosa Brigata Catanzaro (formata con soldati calabresi a cui si aggiunsero pugliesi, molisani, lucani e siciliani), ricostruiti da Pluviano e Guerrini sulla base di fonti d'archivio, esemplificano assai bene il livello aberrante cui giunsero la crudeltà e l'incapacità dei comandi. Il reparto fu colpito in modo sproporzionato ben oltre ogni addebito giudiziario, legato ad alcuni episodi di protesta e insubordinazione o allo sbandamento durante un attacco sulle pendici del Monte Mosciagh. Gli autori al termine chiedono la riabilitazione delle vittime a più di novant'anni di distanza.
M. PLUVIANO I. GUERRINI Fucilate i fanti della Catanzaro GASPARI PP. 126, e 18

Corriere della Sera 15.3.08
Vienna. Malinconia e passione
I tormenti del corpo e dell'anima nell'arte della Mitteleuropa
di Francesca Montorfano


È una delle opere più celebri di Egon Schiele, quell'Abbraccio dal segno aspro e dall'intensa drammaticità, a dare il nome e l'immagine alla mostra che si apre oggi nella settecentesca cornice di Villa Olmo, a Como. Un abbraccio che si può leggere anche come un affresco della grande arte mitteleuropea, che si propone di delineare la svolta storica della Secessione e dell'Espressionismo tornando indietro nel tempo a ricercarne le origini, passando dal Barocco al Biedermeier alla Belle Epoque fino ad arrivare alle linee magnetiche e conturbanti di Klimt, ai corpi deformati di Schiele, alle rivoluzionarie sperimentazioni degli artisti del primo Novecento.
«Abbiamo pensato a una rassegna che fosse un'immersione totale in quello straordinario laboratorio di idee che è stata la Vienna tra l'Otto e il Novecento. Una rassegna che consentisse di respirarne la cultura nei suoi vari aspetti: dalle vicende di Sissi ai valzer di Strauss, dagli studi di Freud sull'inconscio alla nascita della psicanalisi — ha precisato Sergio Gaddi, assessore alla cultura di Como che ha curato la mostra insieme a Franz Smola, già curatore del Museo del Belvedere —. Infatti una ricerca interiore lega le oltre 75 opere esposte, mettendo a nudo la realtà delle emozioni e della sofferenza esistenziale. Come al Belvedere, anche a Villa Olmo dipinti e sculture dialogano con strutture architettoniche, arredi e allestimenti secondo quell'ideale di arte totale sostenuto dagli stessi secessionisti ».
A raccontare la ricchezza festosa del tardo Barocco e lo splendore dell'Austria imperiale sono le opere legate a temi storici e mitologici di Paul Troger o i ritratti di corte dall'intenso realismo descrittivo di Van Meytens, mentre le esasperate deformazioni di Messerschmidt sembrano già anticipare l'arte del Novecento. A segnare la caduta della tensione rivoluzionaria e il mutamento del quadro politico dopo il 1815 è invece la nascita di un nuovo stile, il Biedermeier, che porterà a una fase di ripiegamento su toni più intimistici, ben rappresentati dai lavori di Waldmüller e Von Amerling, dove lo studio della luce e la cura nei dettagli si fondono con la grazia delle scene. Ma è a partire dalla seconda metà del secolo che Vienna godrà di un periodo di eccezionale fioritura artistica ed economica, che si manifesterà anche nel nuovo assetto urbano e negli imponenti palazzi della Ringstrasse. È il momento della Belle Epoque con il suo sfarzo, la sua gioia di vivere e le opere di Hans Makart, tra cui i sontuosi ritratti dell'alta società e la spettacolare «Caccia sul Nilo». I primi segnali che porteranno al tramonto dell'impero asburgico sono però alle porte. A interpretare tali inquietudini, ad opporsi allo stagnante ottimismo borghese e alle rigide tradizioni accademiche, sono alcuni giovani artisti desiderosi di rivoluzionare i fondamenti stessi dell'arte figurativa, in una svolta radicale verso la modernità. Grande interprete di quest'epoca splendida e malinconica insieme è Gustav Klimt, figura carismatica del Secessionismo, di cui la rassegna presenta capolavori come «Signora davanti al camino» e il «Ritratto di Johanna Staude», a sottolineare la fascinazione dell'artista per l'enigmatico e conturbante mondo femminile, in una costante ricerca di una superiore armonia estetica. Ed ecco Kolo Moser con i ritratti e i paesaggi, ed Oskar Kokoschka con il suo libero e personalissimo Espressionismo ed opere che ne rivelano lo stile duro e disarmonico, i colori dissonanti, la forte caratterizzazione psicologica dei personaggi. Ed infine Egon Schiele, con la rappresentazione di una sessualità tormentata, di un corpo umano indagato nella sua fragilità, con la sua visione disincantata e amara della vita. E proprio «L'abbraccio» dipinto nel 1917, alla vigilia del crollo dell'Impero ma anche della sua morte avvenuta a soli 26 anni, ne è una drammatica testimonianza.

Corriere della Sera 15.3.08
Ritratto sentimentale Uno scrittore e la metropoli austriaca: dalla storia ai ricordi personali
Quel senso della bellezza più forte di ogni tragedia
La mia città ferita e umiliata. Eppure crocevia unico per musica, arte, scienza
di Giorgio Pressburger


Ho visto Vienna per la prima volta da ragazzo. Era inverno. Le strade innevate a ogni angolo mostravano carcasse di cavalli di frisia, il filo spinato attorcigliato pendeva ancora dalle sbarre. I quattro eserciti occupanti (inglese francese, americano, sovietico) avevano appena tolto il presidio della città. La sfarzosa capitale imperiale d'un tempo, occupata per cinque anni dai nazisti, e per dieci dai liberatori, pareva il relitto della propria grande storia. Non soltanto della storia di dominio militare di mezza Europa, ma anche dell'immensa cultura che negli ultimi secoli l'Impero aveva sviluppato. A Vienna le lotte per il potere politico e militare erano sempre andate di pari passo con le scoperte scientifiche fondamentali della nostra civiltà, con la nascita di innovazioni artistiche in ogni campo, con il sorgere di un nuovo tipo di industria e di artigianato. Di tutto questo allora sapevo ben poco. Ma vedendo Vienna in quello stato misero, avevo provato una stretta al cuore. I valzer di Johann Strauss dov'erano?
Eppure c'era qualcosa di positivo in quella Vienna pur così mal ridotta. L'Austria ora era diventata una nazione neutrale, al di fuori della Guerra fredda che allora affliggeva e divideva in modo ferreo l'Europa. L'Austria si preparava a diventare quello che dopo è diventata: il punto di incontro di grandi potenze contrapposte, palcoscenico di trattative internazionali. A poco a poco, quella città di nuovo aveva assunto l'aspetto di un tempo, quello della capitale raffinata e colta, ma nello stesso tempo popolare, vivace, buontempona. (Almeno nell'immaginario comune).
In realtà questo luogo non è per niente una metropoli, rimane anzi quasi di dimensione familiare, e quindi appare molto ospitale. Penso che non ci sia ungherese o ceco, o croato o sloveno la cui famiglia non avesse mandato a Vienna negli ultimi due secoli qualche suo membro. All'epoca d'oro dei primi anni del Novecento i grandi artisti e progettisti delle Wiener Werkstätte, (Officine Viennesi che fabbricavano oggetti d'uso quotidiano) si chiamavano Powolny o Moholyi-Nagy, o Kokoschka, nomi non tedeschi ma tipici dei Paesi compresi nella corona Austro-Ungarica. Secondo Musil (uno degli scrittori più profondi dell'Impero asburgico di quegli anni) gli austriaci sono un popolo dalla composizione indefinibile. «Chi sono gli austriaci? — domandava Musil —. Possiamo solo dire che sono gli austro-ungarici meno gli ungheresi».
Una ventina d'anni fa fu allestita a Vienna una grande mostra per commemorare l'assedio della città, nel 1686, da parte dei turchi, e la sua liberazione. La capitale austriaca durante la mostra era stata piena di tende turche, di accampamenti ricostruiti filologicamente, di esposizioni e luoghi di conferenze. Perché questo? Forse per ricordare quel lontano momento liberatorio e la conseguente ascesa repentina di Vienna a capitale europea. In che cosa consisteva questa ascesa? I nuovi quartieri, i magnifici palazzi principeschi stavano sorgendo rapidamente. Il principe Eugenio di Savoia, vincitore di molte battaglie contro i turchi, vi aveva edificato il suo Belvedere, da lui stesso destinato a dimora e pinacoteca. Perché oltre che militare e stratega, era anche amante dell'arte e appassionato collezionista.
Anche all'epoca di quell'assedio, Vienna si era ridotta alla fame, anche allora si era risollevata. Un ramo della mia famiglia si stabilì nei sobborghi della città all'inizio del Settecento. Venivano dalla Slovacchia. Quel nugolo di piccoli artigiani, andato avanti con caparbia ostinazione per due secoli, finì di esistere al termine della Prima Guerra mondiale, quando l'Austria stessa crollò di colpo. Quel crollo fu peggiore di quello successivo, della Seconda guerra. Il grande Impero collassò, si ridusse a un piccolo Paese. E i miei parenti? Tutti quei parenti morirono di fame e di febbre spagnola. Mio padre, ragazzo, fu mandato in loro aiuto da Budapest, con un carico di cibo e medicine. Viaggiò sul tetto di un treno. Al suo arrivo nessuno della famiglia era più in vita.
Anche Gustav Klimt morì allora; come del resto Otto Wagner, architetto, autore degli edifici più eloquenti della Vienna moderna. Tutti e due furono vittime degli stenti e del contagio. In quegli anni anche altri architetti come Joseph Hoffmann, Kolomann Moser, Olbrich (tutti sopravvissuti) avevano coltivato il sogno di estendere l'arte a tutti gli abitanti dell'Impero. Avevano disegnato e fatto riprodurre in grandi «tirature» mobili, stoviglie, orologi, caffettiere, bricchi, stoffe per diffondere la bellezza in tutti gli strati della popolazione. Abbellire la vita quotidiana: questo era il loro scopo. Da quella volta questo desiderio è rimasto in qualche modo vivo, a Vienna. Perciò anche oggi avverto un senso di fraterno affetto per quella città. Che ha anche conosciuto ingiustizie, soprusi, burocrazia, ignominia, violenza. Ma che è rimasta ugualmente un serbatoio di grandi aspirazioni all'armonia e all'equilibrio.

Corriere della Sera 15.3.08
Le tele dell'alta borghesia viennese nel mirino del nazismo
«Troppe ebree nei ritratti» E Hitler rinnegò Klimt
Quando il Führer annullò l'esposizione dell'artista suo idolo
di Francesca Bonazzoli


Nel 1907 due diciottenni presentarono domanda di ammissione all'Accademia di Vienna: uno si chiamava Egon Schiele e venne accettato; l'altro respinto. Il suo nome era Adolf Hitler. Ritentò anche l'anno seguente, ma venne nuovamente bocciato e allora quel ragazzo poverissimo, frustrato, pieno di risentimento verso la società che lo escludeva dalla vita artistica che sognava, passò alla politica senza però mai rinunciare all'hobby della pittura.
Essere artista, musicista o scrittore nella Vienna del tempo equivaleva a godere dello stesso prestigio sociale di un medico o un avvocato. Nei caffé si riunivano Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Karl Kraus, Lev Trotzkij, Gustav Mahler, Sigmund Freud o Theodor Herzl, il teorizzatore dello stato ebraico. Molti di loro erano ebrei, i sudditi più fedeli dell'imperatore e del suo regno multiculturale dove si sentivano a proprio agio nel crogiolo di nazionalità slave, tedesche, austriache, magiare, ceche, slovacche. E nonostante alle municipali del 1895 l'antisemita militante Karl Lueger avesse vinto le elezioni (per ben due volte dopo che l'imperatore si era rifiutato di ratificare il voto), tutti continuavano a vivere con spensieratezza in un clima che Herman Broch chiamava di «gioiosa apocalisse ».
Il ritrattista più conteso da questa alta borghesia viennese era Gustav Klimt e a lui toccò in sorte di ritrarre l'aristocrazia finanziaria ebraica che a sua volta lo sostenne fin dal grande scandalo suscitato dai dipinti per l'atrio dell'Università: accusato di «pornografia» ed «esasperata perversione », Klimt fu difeso solo da Emil Zuckerkandl, preside ebreo della facoltà di Medicina. Così come fu l'industriale ebreo Karl Wittgenstein, padre del filosofo, a finanziare il movimento della Secessione presieduto da Klimt il quale ricambierà, nel 1905, con uno splendido ritratto della figlia Margaret, amica dell'ebreo Freud, in abito nuziale. E che dire dei Lederer? Nel 1899 Klimt aveva ricevuto un onorario di 35 mila corone per il ritratto di Serena Lederer, moglie di August, che diverrà il suo maggior cliente. Il magnifico ritratto con sfondo cinesizzante del 1914 della baronessa Bachofen- Echt, non è che l'effige della figlia di August e Serena Lederer, così come quello di Maria Munk sul letto di morte altri non è che quello della giovane nipote suicida di Serena Lederer.
Il capolavoro di Klimt, poi, il ritratto dorato di Adele Bloch-Bauer, immortala una delle più ricche e affascinanti donne ebraiche di Vienna, la moglie dell'industriale Ferdinand.
Furono così tante le donne ebree ritratte da Klimt che quando Hitler, pare alla fine degli anni Trenta, dopo l'annessione dell'Austria, volle organizzare una mostra dedicata a Klimt, in gioventù idolo suo e di Schiele, la annullò stizzito perché ogni volta che domandava chi fosse questa donna, chi quest'altra, gli venivano riferiti nomi ebraici. Il problema fu risolto qualche anno dopo da Baldur von Schirach, il responsabile della città di Vienna nominato da Hitler, ex capo della gioventù hitleriana e responsabile della deportazione di circa 185 mila ebrei. Il 7 febbraio 1943 si inaugurò una mostra di 66 dipinti e 34 disegni di Klimt nella Sala delle Esposizioni nella Friedrichstrasse omettendo in catalogo i nomi dei personaggi ebraici ritratti. Con la resa dei tedeschi a Stalingrado e la Germania coinvolta nella guerra totale, un mese dopo i dipinti, compresi i dieci sequestrati alla famiglia Lederer, furono trasferiti nel castello di Immendorf, vicino al confine ceco. Nel maggio 1945, prima di lasciare il castello in mano ai russi, i tedeschi lo riempirono di esplosivo. Il rogo durò dall'8 all'11 maggio. Ma i ritratti di Serena Lederer, sua madre e sua figlia si salvarono: poiché erano ebree, le loro effigi non erano state ritenute degne di essere portate in salvo a Immendorf.

il Riformista 15.3.08
Intese. Veltroni e Berlusconi si sfidano a Cernobbio, le diplomazie lavorano su Rai, riforme e nomine
Aspettando «quota 75» Pd e Pdl stringono i primi accordi
La somma dei due partiti pesa quasi quanto i singoli risultati
di Stefano Cappellini


La rimonta del Pd, per ora, s'è fermata. Da un paio di settimane tutti i sondaggi inchiodano il partito di Walter Veltroni a 4-5 punti dal Pdl e sotto quota 35, che poi - come in privato ammette lo stratega principe del Loft Goffredo Bettini - è anche la soglia minima per garantire la sopravvivenza tranquilla della leadership anche in caso di sconfitta. D'altra parte, in ossequio alla teoria del «voto utile», l'esito delle elezioni di aprile sarà giudicato al quartier generale democratico anche sul metro di un altro obiettivo, quantificabile in «quota 75»: la somma dei voti al Pd e al Pdl necessaria affinché lo spariglio bipartitista di "Silvio" e "Walter" possa dirsi riuscito e il prossimo Parlamento risultare in pratica diviso in due. E questa seconda cifra, dal punto di vista di entrambi i duellanti, non è meno importante. Lo impone la natura di questa campagna elettorale, dove le ragioni della sfida e quelle dell'intesa futura convivono senza contraddizione.
Tre dossier. Ecco perché l'inizio della campagna non ha spento la macchina della diplomazia parallela e sotterranea tra Pd e Pdl, sull'asse principale Letta-Bettini. Si preparano le larghe intese? Non la loro formalizzazione. Ma una costituzione materiale delle larghe intese c'è già, perché scenari come il pareggio, un governo di minoranza o anche solo la necessità di chiudere virtuosamente la riforma bipartitica, hanno suggerito a Veltroni come a Berlusconi di istruire per tempo i principali dossier del dopo-voto. Gli abboccamenti in corso riguardano tre questioni in particolare: riforme, Rai, nomine.
Nuove regole. Si tratta dell'intesa più avanzata. Esiste già una bozza per modificare i regolamenti parlamentari subito dopo l'insediamento delle nuove Camere. Ne è autore il senatore forzista Gaetano Quagliariello, già capo della diplomazia berlusconiana nella trattativa sulla riforma elettorale, e sul testo c'è il via libera di Veltroni. In sostanza, si vieta la formazione di gruppi parlamentari non presenti sulla scheda elettorale (norma che impedisce un caso radicali all'indomani del voto), si velocizza l'iter delle proposte dell'esecutivo e si rafforzano le tutele per l'opposizione. Va bene al Pd presunto perdente, va bene al Pdl favorito dal pronostico. Spiega Quagliariello: «La proposta è tarata sulle esigenze di due partiti a vocazione maggioritaria».