lunedì 17 marzo 2008

l'Unità 17.3.08
Nazismo, l’onda di ritorno in Germania
di Paolo Soldini


Datemi delle persone mediamente acculturate, come ad esempio una classe di studenti di liceo, una realtà istituzionale fortemente strutturata, diciamo una scuola, e una personalità dotata di un certo carisma come può essere un bravo e stimato insegnante e in una settimana vi creo il nazismo in laboratorio. È la tesi, anzi: la trama, di «Die Welle» (L’onda), un film che esce in questi giorni in Germania. Il regista Dennis Gansel ne ha fatto un’opera di fantasia, con una conclusione tragica e simbolicamente pedagogica: la classe di «nazisti artificiali», trasformatasi in setta assassina, viene sterminata.
Ma la storia è avvenuta davvero, con una conclusione meno truculenta ed è raccontata in un libro dell’americano Morton Rhues che è un classico della letteratura pedagogica e viene letto nelle scuole statunitensi nell’ambito dei programmi di storia ed educazione civica, così come viene proiettato un documentario che ne venne tratto. Rhues, che negli anni 60 insegnava in una scuola superiore di Palo Alto (California), per convincere gli studenti di una nona classe del fatto che sbagliavano a pensare che un’esperienza autoritaria tipo il nazismo fosse «inconcepibile» in una società libera come quella americana, organizzò un singolare esperimento: chiese ai ragazzi di adottare certi riti sociali (come il saluto con il braccio destro che mima il movimento di un’onda) e certe uniformità di comportamento in fatto di linguaggio e gerarchie. Poi ordinò di isolare e di punire chi si rifiutava. Nel giro di qualche giorno la classe si era trasformata in una piccola società di gregari pronti a tutto. Quando, un giorno, Rhues si accorse che persino il preside lo salutava con «l’onda», ebbe paura di essere andato troppo in là e interruppe bruscamente l’esperimento (nel film di Gansel ambientato in Germania l’insegnante, Rainer Wenger, non ci riesce e i giovani precipitano nella tragedia).
Ancor prima di uscire, «Die Welle» ha sollevato un’infinità di discussioni e di polemiche che ruotano, in larga parte, sullo stesso pre-giudizio che fu alla base dell’esperimento di Palo Alto: da noi, nella Germania democratica, liberale e fin troppo individualista in cui crescono i giovani del 2000, «non potrebbe mai succedere». Si parla molto, ma è bizzarro come a nessuno (per quanto ne sappiamo noi) sia venuto in mente di notare che la discussione su «Die Welle» è straordinariamente simile a quella che scosse il paese dodici anni fa, quando uscì «Hitlers willige Vollstrecker», l’edizione tedesca di «Hitler’s Willing Executioners» in cui lo storico americano Daniel Jonah Goldhagen sosteneva una tesi che è, a ben vedere, una sorta di trasposizione in grande delle tesi alla base dell’esperimento di Palo Alto: invece della classe, l’intera nazione tedesca; al posto della scuola, lo Stato e, come figura carismatica, non uno stimato professore ma un diabolico demagogo privo di scrupoli. La «follia» nazista, agli occhi di Goldhagen, non deriva né dalla corruzione né dalla devianza di una parte della società tedesca, ma le è, per così dire, connaturale. Una volta data l’esistenza delle tre condizioni - identità comunitaria, organizzazione politica dello Stato, dittatore in grado di esprimere un «Führerprinzip» - il nazismo viene «da solo» e porta con sé il suo frutto più disperatamente perverso: l’esclusione e l’odio per gli altri, i «diversi», i «non tedeschi», i «non ariani», i «deviati». Esclusione e odio che traggono elemento dall’antisemitismo diffuso nella società della Germania come in quella di tutta Europa, ma solo in Germania sfociano in un universo criminale di annientamento degli ebrei cui - questo è l’aspetto più duro e controverso delle tesi che Goldhagen argomenta con indubbia efficacia nel suo libro - partecipa consapevolmente e con entusiamo l’intera società tedesca.
Forse non è tanto strano che la discussione sui temi evocati da Goldhagen non sia stata rievocata nel momento in cui si attende l’uscita di «Die Welle». Su quei temi ha operato, da subito (e per anni) un meccanismo di rimozione che, insieme con certi aspetti molto forti dell’opera dello storico americano, figlio di un ebreo di Czernowitz sopravvissuto all’Olocausto, ha teso a seppellire molti lavori scientifici sul rapporto della «normale» società tedesca con la Shoah usciti in Germania a metà degli anni 90: dal celebre «Ordinary Men, the Reserve Police Battaillon 101» di Cristopher Browning sulla partecipazione entusiastica di pacifici e miti pensionati della polizia di Amburgo agli orribili eccidi degli Einsatzgruppen nei Paesi Baltici, in Bielorussa e in Ucraina, agli studi di Louis Begley, Elie Wiesel, Götz Aly e tanti altri. Nel dibattito è stato evocato, invece, Jonathan Littell con il suo «Les Bienveillantes», il romanzo di stile biografico che è stato il caso letterario dei mesi scorsi e che, dopo molte esitazioni, sta per uscire anche in tedesco presentandosi un po’ come l’altra faccia della medaglia dei Vollstrecker di Goldhagen: tutti i tedeschi hanno, a loro modo, partecipato, sostiene il secondo; chiunque, messo nelle condizioni di Max Aue, l’ufficiale delle SS protagonista de «Le benevole», avrebbe potuto, secondo il primo, compiere gli stessi crimini considerandoli espressione del proprio ruolo e del proprio dovere verso lo Stato. Tutte e due le posizioni confinano in modo assai significativo, come si vede facilmente, con le scelte della classe di «Die Welle». Non è un caso neppure, allora, che il dibattito sul film sia andato ad arenarsi su un punto che è importante ma, in fin dei conti, non è il più importante e che, soprattutto, aggiunge poco a una discussione che data dalla fine della seconda guerra mondiale e, almeno, dal Processo di Norimberga: quanto sapevano e quanto potevano non sapere i tedeschi «normali» della Shoah e dei crimini nazisti? Domanda oziosa quant’altre poche alle orecchie di chiunque abbia avuto un minimo di frequentazione con i luoghi dell’Olocausto o abbia un minimo di conoscenza, anche indiretta, dei rapporti che si creano tra il fronte e la madrepatria nei periodi bellici. Il Lager di Buchenwald funzionò per otto anni, producendo almeno 30 mila morti, nella foresta di Etterberg, che domina Weimar, la capitale della omonima Repubblica e della Germania letteraria e artistica tra le due guerre. È impensabile che i 100mila e più abitanti della città e dei dintorni non si siano accorti di quanto accadeva nei boschi in cui, normalmente andavano a passeggiare e organizzavano picnic. Un altro dato: alla campagna contro l’Unione Sovietica parteciparono diverse centinaia di migliaia di soldati della Wehrmacht, che furono tutti testimoni delle uccisioni di massa degli ebrei nei territori occupati. Dal fronte i militari potevano scrivere liberamente a casa e lo facevano: quanti milioni di testimonianze raggiunsero la Germania solo per questa via?
Che i tedeschi non potessero non sapere è un dato storicamente acquisito. Le riflessioni su «Die Welle» dovrebbero fissarsi intorno a un altro dato. Quello originario, che motivò l’esperimento di Rhues, l’idea che «qui da noi in America non potrebbe succedere» e la sua versione europea anni Duemila: «Oggi qui da noi non potrebbe succedere». Ma ad Abu Ghraib e a Falluja c’erano dei soldati americani, dal massacro, «tutto europeo», di Srebrenica sono passati solo tredici anni e per le strade di Berlino, di Parigi e di Roma ricompaiono svastiche e croci celtiche, e si «sdoganano» fascisti e nazisti. «Da noi non succede»: ne siamo così sicuri?

l'Unità 17.3.08
Bertinotti: la sinistra forte è utile anche al Pd
Il candidato premier in comizio a Rieti: ricordiamoci che il governo Prodi è caduto a destra
Il presidente della Camera: i democratici guardano al centro, non parlano delle crisi del Paese


Fausto Bertinotti si prepara a fare opposizione, che a vincere le elezioni sia il Pd o il Pdl. Ma proprio per questo, dice, il «voto utile» per chi vuole difendere gli interessi dei lavoratori è quello per la Sinistra arcobaleno. «Veltroni dice di essere un riformista e non di sinistra, ed è vero - dice Bertinotti nel corso di un comizio a Rieti - e il Pd è una formazione di centrosinistra che guarda al centro. Ogni singolo voto per la Sinistra arcobaleno è un modo di “costringere” il Partito democratico a guardare a sinistra. Se saremo tanti, se saremo massa critica, allora il Pd dovrà guardare a sinistra». Bertinotti non è tenero con la forza guidata da Veltroni. Quel partito, dice, non parla di crisi e avanza proposte vicine a quelle delle destre. L’errore di fondo è che il Pd accetta questo modello di sviluppo che ritiene di poter correggere: «È come cercare di svuotare il mare con un secchiello». A prova di ciò Bertinotti cita l’inserimento nelle liste del Pd di Calearo, «il falco della Federmeccanica che ha costretto i metalmeccanici, che hanno le retribuzioni basse che conosciamo, a cinquanta ore di sciopero, a togliersi cioè dalla busta paga il valore retributivo di cinquanta ore di sciopero. Questo dimostra di non aver capito qual è la situazione italiana».
Circa il governo uscente, Bertinotti confessa di non avere nessuna «nostalgia di Prodi», che ha fatto bene alcune cose, come la politica estera, ma ha «sbagliato tutto sulla precarietà»: «Ha fallito essenzialmente nel non aver portato avanti una chiara discontinuità con il governo Berlusconi, nell’aver lasciato sostanzialmente in atto la legge in vigore», dice aggiungendo che «per guadagnare una capacità di intervento bisogna superare la legge 30». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno ci tiene a sottolineare che Prodi «è caduto da destra», ma ricorda anche che «la critica della sinistra è iniziata proprio con la discussione della riforma delle pensioni»: «L’accordo con le parti sociali era bruttino, ma la parte sul mercato del lavoro era brutta e basta».

l'Unità 17.3.08
Nel diario esistenziale di Anders, «Discesa nell’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966», un lungo ma deludente viaggio nei luoghi d’origine
La nostra specie? È senza speranza... Scompariremo come le vittime della Shoah
di Igino Domanin


L’approdo tardivo a una terra natale, spogliata ormai delle sue valenze affettive, devastata e senza radici, dove non ha più senso immaginare una patria. Questo è il senso delle amarissime considerazioni che costellano il fitto diario esistenziale di Anders, Discesa nell’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 pubblicato per i tipi di Bollati Boringhieri a cura di Sergio Fabian, un drammatico reportage, una specie di libro di viaggio nei luoghi d’origine che si rivela però essere la narrazione di una catabasi negli Inferi.
Anders scrive una filosofia d’occasione e non accademica. Non troviamo trattazioni tecniche di problemi metafisici, bensì meditazioni che prendono lo spunto da situazioni concrete. Il filo conduttore è solo l’esperienza quotidiana. Ma non si tratta di un esercizio di saggezza. Non sono aforismi che riguardano la buona vita. Al contrario, Anders, come del resto in tutti i suoi testi ci descrive l’orrore che sordamente si cela dietro le apparenze confortevoli della civiltà tecnologicamente avanzata. Questo volume, però, è particolarmente significativo dei risvolti biografici di Anders ed entra, anche con crudeltà, nelle pieghe più personali del suo pensiero.
Anders, intellettuale ebreo di nazionalità tedesca, esule in America e sopravvissuto allo sterminio degli ebrei, ritorna nella nativa Breslavia. La città ha cambiato nome, è diventata Wroclaw e adesso fa parte della Polonia comunista. Per recarvisi è necessario transitare nei pressi di Auschwitz. Il racconto del libro si apre lì. Anders e la sua terza moglie Charlotte sono in viaggio con la loro auto. Nelle vicinanze del lager. Le vittime della Shoah sono scomparse senza lasciare una traccia del loro morire. Proprio per questo, per via della loro eliminazione affidata a un cieco dispositivo tecnologico, per essere state private di qualsiasi connotazione umana della morte, non è possibile nessuna elaborazione del lutto. Un atmosfera mefitica, un miasma insopportabile si respira nell’aria. La presenza dei morti è invadente, pressante, ingombrante. Chi è sopravvissuto è soverchiato da un’incontenibile vergogna d’esistere. Un fatto che non riguarda solo il mondo ebraico, ma che diventa il crisma universale della situazione storica attuale. Per Anders, infatti, questa è diventata la condizione normale degli esseri umani. Come testimonia il prosieguo del testo, dove, a partire dall’arrivo a Breslavia, si assiste alla descrizione di uno scenario perturbante: l’assoluta mancanza di patria del mondo attuale. Siamo tutti meramente dei sopravvissuti. O dei profughi, solo per il momento scampati a un pericolo supremo. Potremmo sparire dal mondo senza nessun motivo, privati persino di poter depositare qualche segno ascrivibile alla nostra presenza. La nostra specie è senza speranza. Ha costruito sistemi di distruzione, che, se si sono rivelati micidialmente nell’epoca dei totalitarismo, sono definitivamente presenti nel nostro orizzonte. La possibilità della definitiva scomparsa del genere umano è diventa una realtà. Questo potere di distruzione senza limiti è dovuto alla tecnologia che è in grado di annichilire, fino alle estreme conseguenze, la vita. Le conseguenze attuali sono sotto il nostro sguardo. La violenza della seconda guerra mondiale non è un ricordo. Torna a ripetersi. Ma il nostro senso d’umanità pare ridursi. La stato d’eccezione diventa normale.
Per Anders il pericolo cresce smisuratamente nella misura in cui questa situazione angosciosa e solo presentita, ma non può essere immaginata. La nostra sensibilità è dimidiata. Le catastrofi ci vedono solo spettatori anestetizzati ed eticamente indifferenti. La tragedia del mondo ci appare in uno specchio irreale rispetto al quale non siamo in grado d’essere coinvolti. Siamo intrappolati dentro una deficienza emotiva, incapaci di avvertire sensibilmente la tragedia in cui siamo calati.
Questo è l’enigma che ci consegna questo preziosissimo libro. Come espandere la nostra coscienza, come dilatare il nostro mondo psichico fino a entrare in contatto con la minaccia irrapresentabile che aggredisce le fondamenta della condizione umana?

l'Unità 17.3.08
Uno studio italiano sul Dna mitocondriale retrodata il primo passaggio dello stretto di Bering
La conquista dell’America avvenne 20mila anni fa


Le prime popolazioni umane giunsero in America dall’Asia attraverso lo Stretto di Bering: su questo concorda ormai quasi tutta la comunità scientifica. Più controversa è l’epoca in cui avvenne tale colonizzazione. Fino a qualche tempo fa le teorie più accreditate fissavano la prima migrazione all’incirca 13.500 anni fa, assegnando al complesso Clovis del New Mexico (vecchio di 11.000 anni) la palma della più antica cultura originaria. Una serie di nuove scoperte archeologiche ha rimesso tutto in discussione. Ad esempio il sito preistorico di Monte Verde, in Cile, risale a 12.500 anni fa: dunque non solo è precedente a Clovis, ma impone di rivedere anche la data dell’arrivo di popolazioni umane in America: riesce difficile immaginare che i primi coloni si siano spinti, in un millennio, fino all’estremità meridionale del continente.
Ora un gruppo internazionale di ricerca diretto da due genetisti italiani, il professor Antonio Torroni dell’Università di Pavia e il dottor Alessandro Achilli dell’Università di Perugia, apporta nuovi dati al dibattito. Gli studiosi hanno esaminato il Dna mitocondriale di oltre 200 nativi, spostando a 20.000 anni fa il fatidico passaggio attraverso lo Stretto di Bering.
Il piccolo Dna mitocondriale (37 geni in tutto), trasmesso solo dalla madre e caratterizzato da un elevato tasso evolutivo, è una sorta di archivio molecolare: su di esso è registrata la storia genetica dei nostri antenati femminili. Nel caso in questione, più del 95% dei genomi mitocondriali degli indiani d’America appartiene a quattro aplogruppi (linee materne), identificati una quindicina di anni fa proprio dal professor Torroni e definiti pan-americani per la loro diffusione sull’intero continente.
Secondo i risultati della ricerca, pubblicati il 12 marzo sulla rivista scientifica PLoS one, i quattro aplogruppi pan-americani (e di conseguenza la quasi totalità della popolazione nativa) hanno un’origine genetica comune, risalente a 20.000 anni fa.
Quell’epoca segnerebbe quindi l’inizio della colonizzazione del Nuovo Mondo. Il pianeta aveva appena superato l’ultimo picco glaciale quando un gruppo umano proveniente dall’Asia si affacciò per la prima volta su un territorio inesplorato.

Repubblica 17.3.08
La verità sulle violenze al G8 di Genova
Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
di Giuseppe D'Avanzo


Genova: senza il reato di tortura, pene lievi e prescritte per gli imputati

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Oggi la caserma non è più quella di allora: e i "luoghi della vergogna" sono stati cancellati
Manganellate, minacce, insulti, botte e umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di trecento testimoni Episodi documenti, provati
In quei tre giorni poliziotti e carabinieri rinchiusero per ore studenti, operai e professionisti.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
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Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»
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La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.
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Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
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È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.
A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».
* * *
Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?

Repubblica 17.3.08
Londra: "Schedare Dna dei bimbi a rischio delinquenza"


LONDRA - Schedare il Dna dei bambini delle scuole elementari, il cui comportamento indica che potrebbero diventare delinquenti da grandi: è la proposta di un esperto di Scotland Yard, per far fronte alla crescente criminalità in Gran Bretagna. Secondo Gary Pugh, direttore di scienze forensi di Scotland Yard, è necessario aprire un dibattito su come poter identificare il prima possibile i potenziali delinquenti. Nella banca-dati del Regno Unito ci sono i dati di 4,5 milioni di individui, ma la polizia ritiene che ancora non sia sufficiente. «Il numero di delitti che rimangono insoluti indica che non abbiamo le tracce genetiche di un numero sufficiente di persone».

Repubblica 17.3.08
Renoir. I preziosi tesori impressionisti


Al Complesso del Vittoriano a Roma la grande rassegna "La maturità tra classico e moderno"
Alla fine degli anni Ottanta il suo viaggio in Italia da Venezia fino in Sicilia
Già nel 1869 dipingeva fianco a fianco a Monet sulle rive della Senna
Aveva sposato con entusiasmo la causa di quella che all´inizio fu detta "nuova pittura"

ROMA. Al Complesso del Vittoriano s´è aperta la mostra "Renoir. La maturità tra classico e moderno" (a cura di Kathleen Adler, catalogo Skira): e già il primo giorno d´apertura al pubblico, lunghe file all´ingresso preannunciano un successo dell´esposizione, come è d´obbligo per uno dei maggiori nomi dell´impressionismo. Centotrenta opere, fra le quali oltre sessanta dipinti, affiancati da disegni, incisioni e qualcuna (per fortuna non troppe) fra le ultime sculture eseguite in collaborazione con Richard Guino, si stringono nello spazio espositivo, di recente ampliato. La mostra è dunque vasta, e si avvale di prestiti provenienti da molti musei internazionali; nonostante ciò, essa è ben lungi dall´essere la mostra in grado di rappresentare congruamente il tema del rapporto che legò il Renoir post-impressionista all´idea del classico e del museo. Fatalmente, occorre dire, giacché a rappresentarlo idoneamente, quel grande tema, un´esposizione non può fare a meno di presentare opere - come Madame Charpentier e i figli o La bagnante bionda, Gli ombrelli o I bambini a Wagermont, per finire con le Grandi bagnanti di Filadelfia - che sono le bandiere che il Renoir orgogliosamente ingresque, devoto alla composizione e al disegno, innalzò nei suoi magici anni Ottanta. Opere tutte, d´altronde, che non sono di fatto oggi spostabili, e che - se mai lo fossero - non andrebbero altro che a una mostra organizzata dai musei nazionali francesi, da Londra o da New York.
Renoir aveva sposato con entusiasmo la causa della "nuova pittura", come fu detta, prima di prendere fra mille dubbi il nome con cui sarà più nota, la pittura impressionista. Già alla fine degli anni Sessanta, dipingeva fianco a fianco a Monet sulle rive della Senna, alla Grenouillère, luogo di gite domenicali della borghesia parigina sotto l´Impero di Napoleone III: e ritraeva con l´amico i riflessi mobili della luce sull´acqua, e le acconciature delle signore che si confondevano nell´atmosfera. Poi aveva partecipato alla prima mostra (1874, dal fotografo Nadar) dei futuri impressionisti: e di lì in avanti, per un pugno d´anni, aveva dipinto capolavori indimenticabili - Il palco, Sentiero che sale tra l´erba, L´altalena - in cui la luce, scendendo dall´alto, lenta e trepida, spesso attraverso una fronda di verzura, bagnava le cose togliendo loro, con la nitidezza dei contorni, il peso e la fatica dell´esistenza.
Sul finire degli anni Settanta, però, la solidarietà che aveva stretto l´animo e l´azione dei giovani impressionisti va rapidamente scemando: e, per ragioni prevalentemente strategiche, l´uno dopo l´altro si sottrarranno alle esposizioni di gruppo, che proseguiranno con sempre minor entusiasmo fino al 1886. Una fra le ragioni delle prime defezioni risale al 1878: quando Degas riuscì a far approvare la determinazione che rendeva inconciliabile l´invio contemporaneo di opere al Salon ufficiale e alle mostre impressioniste. Renoir fu il primo, allora, a scegliere la grande manifestazione dell´Accademia, condividendo la convinzione che era stata sempre di Manet, che «si vinca o si perda solo al Salon»; inviò già all´edizione del 1879, e in quella successiva ottenne uno strepitoso successo con il quadro di grandi dimensioni raffigurante una signora dell´alta borghesia, Madame Charpentier, circondata dai suoi figli e dalle stoffe, dai tappeti, dai mobili del suo salotto.
Quel dipinto, che pur ancora rinserrava piccoli tesori "impressionisti" soprattutto nei volti e nelle vesti delle due piccole figlie, aveva un sapore d´antico: per le sue grandi dimensioni, per la studiatissima composizione, per la sua ordinata spazialità, per l´analisi degli "affetti" che vi si legge. Renoir vi ripercorreva esplicitamente la tradizione accademica del "ritratto di famiglia in un interno". Il successo che ottenne lo convinse che la conversione alla nuova forma era la via da perseguire; e non appena le condizioni economiche glielo consentirono, egli intraprese quel viaggio in Italia che, riconducendolo alle fonti dell´arte classica, era in grado di nutrirne l´inclinazione a rivisitare il più illustre passato della pittura. Fu in Italia alla fine del 1881. Partì da Venezia e arrivò sino in Sicilia, dove ritrasse Wagner che vi aveva appena portato a compimento il Parsifal (una replica di questo celebre dipinto è oggi in mostra a Roma). E nel febbraio dell´anno seguente, appena rientrato in Francia, scriveva dall´Estaque, dove s´era fermato a rendere visita a Cézanne, proprio a Madame Charpentier del «museo di Napoli», delle «pitture di Pompei» e di Raffaello, concludendo che «guardando molto, credo potrei conquistare la grandezza e la semplicità dei pittori antichi».
Da lì in avanti, disseminati per il decennio, sarebbero venuti i dipinti con cui Renoir riformava se stesso e i suoi anni, diversamente meravigliosi, della giovinezza impressionista. La mostra di oggi li ripercorre, con le inevitabili lacune di cui s´è detto, ma anche con soste preziose (La zingarella, del 1879; Il bagno della Thyssen-Bornemisza; la Donna con fiocco bianco del museo de Il Cairo; il Ritratto di Paul Haviland di Kansas City; le Fanciulle al piano di Omaha).
E va oltre, a cercare nell´età tarda ed estrema quella nuova dissoluzione della forma salda e chiusa del tempo "classico" che caratterizzò gli ultimi anni del pittore, e che fu certo guardata dal Picasso "mediterraneo" al transito fra anni Dieci e anni Venti del nuovo secolo.

il Riformista 17.3.08
Un paese che ha politici che non urlano
Zapatero vince perchè ci crede fino in fondo
di Tiziana Santarsia


Caro Costanzo, sono un'italiana che vive in Spagna da poco più di un anno e, strano ma vero, "ho incontrato Zapatero" si, è proprio così; questa estate mi trovavo a Sanlucar de Barrameda, il "pueblo" sulle foci del Guadalquivir da dove Colombo salpò più volte per i suoi viaggi verso le americhe. Ci avevano consigliato un posticino dove gustare, tra le tante "tapas" tipiche, le tortillas de cammarones. Giunti sul posto, notammo subito che l'assembramento di gente e lo spiegamento di forze pubbliche e cameraman non era né per noi né per le tortillas. Il Presidente arrivò poco dopo tra le ali della folla curiosa e accaldata, si sedette al suo tavolino blindato della modesta taverna e gustò le fumanti tapas; si lasciò riprendere da telefonini, dalle macchine fotografiche dei turisti, si fece abbracciare dalle anziane signore di paese e firmò autografi come da copione. Capii ben presto che non si trattava di una visita di piacere nè di una visita istituzionale, ma che ci trovavamo di fronte a quello che probabilmente era l'inizio della campagna elettorale.
Zapatero era tornato in Andalusia, tra gli elettori che avevano contribuito più di chiunque altro alla sua vittoria nel 2004 per chiedere nuovamente il loro appoggio.
Oggi, alla luce della sua rielezione a capo della Spagna, mi chiedo perché la gente lo ha scelto ancora? Ha forse indovinato la chiave di lettura per una campagna elettorale vincente, o gli spagnoli si sono invaghiti di lui e delle sopracciglia a punta?
La mia non vuol essere una domanda sarcastica dettata dalla necessità di schierarsi a favore o contro, ma è la pura curiosità di chi, alle soglie delle ennesime elezioni in Italia, legge negli occhi e nelle parole dei suoi connazionali tanta incertezza, disorientamento, disillusione e quant'altro.
A parte gli "irriducibili" dei vari schieramenti, mi chiedo quante persone in Italia siano veramente interessate a ciò che dicono i politici. E va bene che anche in politica, come in amore, c'è il gioco delle parti ed ognuno ha il suo ruolo da rispettare. Ma c'è modo e modo: e la comunicazione ha comunque delle regole, un'etica. Non possiamo sempre passare per quelli che fanno spettacolo; persino la gente del paesino dove vivo mi dice "….ah sì, i politici italiani, quelli che si insultano in Parlamento!".
Senza entrare nel merito politico, mi è sembrato che il clima pre-elettorale che si è respirato qui fosse più civile ed improntato alla comunicabilità di un preciso messaggio, quale che esso fosse.
Nel corso dei mesi che hanno preceduto le elezioni ho seguito sommariamente la campagna di Zapatero. Ma so per certo che è stata capillare nel territorio e mirata soprattutto a convincere: a) i suoi sostenitori a dargli la possibilità di continuare, "rispettando il suo programma", sulla strada delle riforme intrapresa nella passata legislatura, e b) parlare con gli indecisi e gli scontenti, per convincerli che tanto ancora si poteva fare per rafforzare la presenza spagnola in una Europa sempre più esigente, a fronte degli innegabili dati di crescita registrati.
Zapatero si è concentrato sulle fasce sociali, per così dire, più deboli e quindi più sensibili, convincendole che la qualità della vita dei cittadini avrebbe continuato ad essere una priorità nel suo governo. E l'ondata di riforme civili che si sono attuate hanno dato forza e peso alle sue parole. Difatti le zone nelle quali il suo partito ha ottenuto il maggior numero di voti sono quelle meno industrializzate e con i maggiori problemi di disoccupazione. Inoltre, ha accontentato gli animi federalisti aumentando le autonomie delle Comunidad (regioni)
Ha martellato i suoi sostenitori dicendo loro che, per governare bene, era necessaria la maggioranza assoluta, per non scendere a compromessi e stringere strane alleanze (e noi italiani ne sappiamo qualcosa).
Insomma "Zp" (zepe), come lo chiamano qui, si è presentato come un abile comunicatore e stratega, carismatico ed anche di bell'aspetto, il che non guasta mai. Nella sua campagna fin dall'inizio ha mostrato serenità, autoironia e sicurezza di sé e delle azioni del suo governo, senza mai eccedere nell'attacco diretto e denigratorio al proprio rivale.
Più volte ha ripetuto che "molte sono le cose ancora da risolvere, ma molte altre da celebrare. Mi piace il paese in cui viviamo, e mi piace la Spagna di oggi ". Una frase stata studiata a tavolino, sta di fatto che ha centrato il suo obiettivo.
E non posso che dargli ragione. Sfido qualsiasi politico italiano, di destra o di sinistra, a dire una cosa del genere e a non essere linciato.
Io da straniera mi ritrovo in una realtà decisamente vivibile (trasporti che funzionano, sanità accettabile, infrastrutture efficienti ecc.), che credo di non poter ritrovare in questo momento in Italia. Nonostante viva nel profondo sud della Spagna.
Secondo me Zapatero ha saputo vendere bene la propria immagine, riscuotendo gradimenti anche all'estero. Spesso si è mostrato con abbigliamento informale, sorridente e rilassato, ed ha assunto un atteggiamento confidenziale con gli elettori mirando, come lui stesso diceva, ad accorciare le distanze tra la politica ed i cittadini. Il tutto in contrapposizione ad un Rajoi (l'avversario conservatore) ancora troppo ingessato nel suo stereotipo di politico tradizionale, serio e spesso poco incisivo, anche se molto preparato e con solide argomentazioni.
Dopo 15 anni per la prima volta i candidati premier dei due partiti più importanti si sono mostrati alla nazione in due faccia a faccia televisivi creando un evento mediatico forse esagerato rispetto a quelli che sono stati poi i contenuti dei botta e risposta, rigorosamente preparati, che però per due sere ha catalizzato l'attenzione di molti milioni di spettatori ed elettori (altro che festival di Sanremo).
Certo, questo non è il paese delle meraviglie, anche qui non mancano controsensi e "buchi neri", ma almeno qui i politici non urlano e non s'insultano …… per non dire altro.

il Riformista 17.3.08
Total Audience. Un nuovo Verbo per confondere il mercato
Il Gruppo L'Espresso rischia di contare le mele con le pere
di Marco Barbieri


Con l'abituale ritardo rispetto ai mercati veri, anche l'editoria italiana sta importando le nuove parole d'ordine, con il rischio di aderire agli slogan, senza dotarsi degli strumenti adeguati a trasformarsi. E come al solito non sa nemmeno tradurli. "Total audience" è il verbo. Che avrebbe un senso, eccome. La stampa ha bisogno di dimostrare - cosa che probabilmente è anche vera - che buona parte dei contatti utili a livello pubblicitario si sono trasferiti sul Web. O perlomeno l'uno e l'altro mezzo costituiscono una efficace integrazione.
Mentre si discuteva di quale fosse il modello di business più efficace per rendere redditizia la grande Rete, negli Stati Uniti, così come nel Regno Unito, si procedeva pragmaticamente per tentativi. Il "New York Times" riduce progressivamente i suoi accessi a pagamento, convinto che l'uso gratuito delle sue notizie diffuse sui siti, sia sufficiente a equilibrare i conti, secondo la vecchia legge tv: raccolgo teste (o con l'intrattenimento o con le news) per poi rivenderle come contatti agli utenti pubblicitari. E la Bbc scopre che in una settimana sul suo sito raccoglie più utenti di quanti spettatori abbiano seguito i singoli programmi tv negli ultimi cinque anni.
E allora? Copiamo. Tra i primi, un anno e mezzo fa, il Gruppo Espresso aveva commissionato uno studio a Eurisko per dimostrare l'esistenza di un nuovo "medium", che nasceva dalla combinazione del quotidiano "la Repubblica" e dal sito Web: 8 milioni di contatti al giorno (circa 6 quelli del cartaceo, circa 2 quelli online, allora: oggi sono quasi 3 milioni). Poche settimane fa Marco Benedetto ha ribadito l'obiettivo, estendendolo a tutti i prodotti del gruppo: non solo quotidiano (meglio: quotidiani) e Web, ma anche il settimanale ("l'Espresso", più gli altri periodici), le radio, le tv. Ogni settimana oltre il 50% della popolazione italiana, circa 33 milioni di individui, si mette in contatto con almeno un mezzo o un veicolo del Gruppo Espresso.
Insomma, ecco la nuova frontiera. Dichiarata ormai anche da Rcs. E gli altri grandi gruppi editoriali non saranno da meno. A parole. Già, a parole. Perché la questione è passare dalla parole ai fatti. E i fatti sono spesso composti di numeri. Dati, cifre. Per i quali l'Italia e gli italiani hanno una consolidata idiosincrasia. E il mercato pubblicitario per anni ha offerto una accondiscendente opacità, vinta solo da qualche eccellenza che non ha fatto scuola.
In questi giorni di campagna elettorale i maggiori istituti di ricerca di mercato e di opinione sfornano previsioni e sondaggi. Magari arrivando - una vera assurdità - a polemizzare con alcuni loro committenti (i partiti o gli editori) perché esagererebbero nell'uso dei loro numeri. Peccato che per le società in questioni la continua campagna elettorale italiana costituisca un'occasione unica di pubblicizzazione dei loro marchi e dei loro servizi. Ciononostante la propensione all'investimento in ricerche di mercato e sondaggi di opinione è in Italia assai sotto la media europea. Spendono poco le aziende. Spende pochissimo la Pubblica amministrazione. Non ci sono serie storiche, non ci sono numeri condivisi. E soprattutto sul fronte dell'editoria.
La storia recente di Audipress merita silenzi e non commenti. Le certificazioni di Ads (accertamenti sulle diffusioni) sono più utili ai contributi pubblici sulla carta, che a monitorare il mercato dell'editoria. In questo contesto sentire parlare di "total audience" può essere motivo di speranza o di sconforto. Speranza di poterci avvicinare alle tanto vituperate pratiche di quantificazione con cui la tv (Auditel sarà il mostro che è, ma almeno è uno strumento che funziona) ha abituato la sua utenza pubblicitaria. Sconforto? Sì, il rischio è che sotto una mano di belletto - nominalistico o di procedura - si continui a voler nascondere i numeri della carta stampata dietro quelli incontrovertibili del Web. Ma di nuovo confondendo il mercato con un improbabile somma di mele e pere.

domenica 16 marzo 2008

la locandina del 17 marzo all'Eliseo
clicca sull'immagine per renderla leggibile
(ricevuta da Carlotta Mazzetta)



l'Unità 16.3.08
Bertinotti: sulla pace internazionale

Fausto Bertinotti vede luci e ombre nell’esperienza di governo della sinistra radicale con Prodi. E polemizza col Pd su conflitto sociale e finanziamento ai partiti. Sul governo uscente, dice Bertinotti: «Abbiamo fatto con lealtà quel tentativo, con l’idea che andava realizzato un progetto di rinascita. Alcune cose si sono realizzate, come un indirizzo di pace nella politica internazionale». Sul terreno economico e sociale, invece, «il cambiamento non è avvenuto, dunque è stato un insuccesso». Quanto al presente, Bertinotti dice: «Non siamo la risposta al Partito democratico. L’Arcobaleno nasce come risposta a chi non ha voce e non si sente rappresentato dalla politica». Non mancano attacchi al Pd: «Financo la destra, anche se su posizioni sbagliate, è convinta che siamo di fronte ad una crisi di civiltà - dice Bertinotti -. Nel Pd, invece, sembrano vivere in un mondo di dolce civilizzazione e sembrano così disporsi ad accettare l’attuale modello economico e sociale, al massimo proponendosi di mitigarlo. Come se fosse davvero possibile». Ma Bertinotti sfida Veltroni a dimostrare che possano stare insieme «questo modo di funzionamento dell'economia ed il superamento del precariato. Provi a dimostrar come si conciliano la Confindustria e gli aumenti di salari e pensioni. Non ci riuscirà. Il Pd vuole cancellare dalla politica il conflitto sociale, ma i fatti hanno la testa dura. Possono cancellarlo dalla loro politica, ma non dalla realtà». Secondo Bertinotti, i salari italiani, che erano tra i più alti d’Europa negli anni Novanta, oggi sono tra i più bassi «perché hanno vinto i padroni con la complicità dei governi». Quanto ai finanziamenti ai partiti, per Bertinotti la proposta del Pd «è un’idea di privatizzazione della politica»: il finanziamento pubblico va difeso perché garantisce il «riconoscimento ai partiti della loro funzione di protagonisti della democrazia».

UN INSERTO DI SETTE PAGINE SULL'UNITÀ
l'Unità 16.3.08
Moro. 16 MARZO 1978
L’uomo politico e il suo tentativo di «allargare la democrazia» e quei maledetti 55 giorni al centro della puntata straordinaria in onda stasera su Rai1 con David Sassoli
Prima della tempesta che spaccò la Repubblica: uno speciale Tg1 per «liberare Moro dal caso Moro»
di Roberto Brunelli

Aldo Moro è stato dimenticato. Non quello del rapimento che ha spaccato in due la storia dell’Italia repubblicana. Quello è stato raccontato, i misteri sono stati sviscerati e se ne sono aperti di nuovi, le testimonianze si sono accavallate. Quell’altro, quello che cercava di «allargare la democrazia», quello che voleva dialogo con il Pci, quello della solidarietà nazionale. Per raccontare quell’Aldo Moro lì, attraverso la lente di quei 55 giorni e oltre quei 55 giorni che sconvolsero la Repubblica, ci vuole uno schermo spezzato in tre. Su un lato c’è lui, lo statista, che parla, lentamente, con quella sua lingua sinuosa, elegante, che a noi oggi suona antica. In mezzo scorrono le immagini di via Fani, il sangue, il respiro affannoso di Paolo Frajese, le dichiarazioni di Zaccignini, di Cossiga, le edizioni straordinarie del Tg, il materiale d’archivio. A destra, le testimonianze, i commenti, le storie.
«Liberare Moro dal caso Moro», dice David Sassoli, vicedirettore del Tg1, presentando lo speciale che andrà in onda stasera alle 23.45, e realizzato insieme allo storico Alberto Melloni e a Barbara Modesti. Raccontare l’uomo, la sua vicenda politica ed umana, rimasta ingabbiata, in questi trent’anni che ci separano dal 16 marzo 1978, dal rapimento ad opera delle Brigate Rosse. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo si chiama lo speciale, titolo tratto dall’ultima, drammatica lettera, spedita dalla prigionia, indirizzata alla moglie. Uno speciale di rara qualità, considerato lo standard della televisione italiana: perché ci spiega, con le immagini oltreché con le parole, quella spaccatura netta che separa il prima e il dopo 16 marzo 1978. Una data emblematica, rileva Sassoli, che si pone esattamente al centro tra di noi e il sessantesimo della Costituzione.
In mezzo allo studio, sui lati di una gabbia di garza - identica a quella in cui Moro fu presumibilmente tenuto prigioniero, di due metri e mezzo di profondità e un metro e venti di larghezza - sono proiettati i frammenti di racconto, le schegge di verità, i pezzi di storia pubblica e privata, una specie di prisma visivo che finisce per creare un fiume narrativo volto a restituirci la complessità della vicenda Moro. La doppia vicenda: quella dei 55 giorni e quella dello statista Moro, dell’uomo che aveva lavorato intensamente per superare le barriere della vita democratica, che aveva cercato il dialogo con la sinistra: «Antifascisti e anticomunisti democratici», questo avrebbero dovuto essere i democristiani di Aldo Moro, quelli stessi da cui si sentì tradito durante la prigionia.
Soprattutto, Se ci fosse luce sarebbe bellissimo è una sorta di affresco televisivo, che riesce a raccontare, con gli strumenti della televisione, il prima e il durante di una delle più devastanti tempeste della storia d’Italia. Su quello schermo diviso in tre scorrono, come in un incastro, come a dialogare con il pensiero di Aldo Moro (per certi versi rivoluzionario, visto con gli occhi di oggi), i vari pezzi di paese fotografati al culmine del proprio stato di choc: le immagini del consiglio di fabbrica dell’Alfa Romeo, le invocazioni di papa Paolo VI, gli appelli dell’allora ministro degli interni Francesco Cossiga, le dichiarazioni di Almirante che quel ministro voleva sostituire con un militare, i lavori della camera presieduti da Pietro Ingrao, i comizi di Luciano Lama, le trattative tra Berlinguer e Craxi, e per quel che riguarda il Moro «pre-rapimento», le tribune politiche, il discorso di Benevento, gli interventi dell’«instancabile mediatore». Accanto a questo, le valutazioni e i ricordi di uomini come Giorgio Napolitano, Giovanni Bachelet, Tina Anselmi, un giovanissimo Massimo D’Alema che parla del rapporto della sinistra con il mondo cattolico, quasi a dialogare con un D’Alema dei nostri giorni, che spiega esattamente cos’è che cominciò a finire, quel 16 marzo 1978: la grande stagione dei partiti, stagione di cui gli anni ‘80 furono solo una immensa agonia.
Ma ci sono anche altri protagonisti, nello speciale del Tg1: e sono le vittime. I figli, i fratelli, le sorelle di chi fu ucciso dalla «peggio gioventù». A nome loro in studio c’è la vedova di Domenico Ricci, uno degli uomini della scorta. «Il paese ci ha lasciati soli, in questi trent’anni». Insieme a lei, per la prima volta, una delle figlie di Moro, Agnese. Un incontro non banale: per tre decadi si è discettato sul fatto che Moro non avesse mai parlato, nelle sue lettere, degli uomini che furono trucidati lì, in via Fani, ed ecco che Sassoli cita un’altra missiva, rinvenuta - chissà perché - solo nel ‘90, in cui il capo della Dc parlava della sua «disperazione» per il destino a cui quegli uomini erano andati incontro. Vittime, come tante altre, nei cosiddetti anni di piombo. Vittime, anche loro, dimenticate.

Repubblica 16.3.08
"Così ho abbattuto l'aereo di Saint-Exupéry"
Dopo 64 anni il pilota della Luftwaffe racconta il duello nei cieli con il Piccolo principe
"Lo ammiravo, lo avevo letto, avessi saputo che era lui non avrei mai sparato"
di Giampiero Martinotti

PARIGI - «Sono stato io ad abbattere l´aereo di Saint-Exupéry». Sessantatré anni dopo, il mistero che aleggia sulla fine dello scrittore francese è forse svelato: Horst Rippert, 88 anni, pilota della Luftwaffe durante la guerra, assicura di aver colpito, il 31 luglio 1944, l´aereo pilotato dall´autore del "Piccolo pincipe". Un riconoscimento tardivo, che getta un po´ di luce in una vicenda ancora piena di interrogativi. Sembra tuttavia certo, ormai, che l´aereo dello scrittore, partito dalla Corsica, sia stato abbattuto dai tedeschi.
A ritrovare Rippert sono stati il sommozzatore Luc Vanrel e uno specialista della Luftwaffe, Lino von Gartzen. Vanrel è l´uomo che qualche anno fa ha ritrovato sui fondali dell´isola di Riou, a sud di Marsiglia, i resti dell´aereo di Antoine de Saint-Exupéry, ma anche i rottami di un motore in dotazione ai Messerschmitt utilizzati dalla aeronautica tedesca. Il sommozzatore e von Gartzen, con pazienza da certosini, sono riusciti a ritrovare i piloti che quel giorno volavano nella zona. Fra loro Rippert, che assicura di aver messo fine alla vita dello scrittore, ovviamente senza saperlo. Il suo racconto è contenuto in un libro scritto in collaborazione con il giornalista Jacques Pradel, di cui sono stati pubblicate ieri alcune anticipazioni.
È il 31 luglio 1944, gli alleati sono già sbarcati in Normandia e si apprestano ad investire la costa provenzale. Rippert è in servizio all´aerodromo delle Milles, nei pressi di Aix-en-Provence. Gli viene ordinato di decollare: i radar hanno identificato un aereo sconosciuto sopra Annecy, in Savoia. Rippert decolla, perlustra i cieli della costa, non vede niente e decide di rientrare. È a questo punto che vede, tremila metri più in basso, un Lightning che sta volando verso Marsiglia. Lo segue a distanza, lo vede virare verso il largo, poi verso la costa. Rippert racconta: «Dopo averlo seguito mi sono detto: ragazzo, o te ne vai via o ti sparo. Mi sono fiondato nella sua direzione e ho sparato, non sulla fusoliera ma sulle ali. L´ho colpito. L´aereo è precipitato dritto in mare. Nessuno è saltato dall´abitacolo. Il pilota non l´ho visto. Ho appreso qualche giorno dopo che era Saint-Exupéry. Ho sperato e spero ancora che non fosse lui. In gioventù abbiamo letto tutti i suoi libri, li adoravamo. Sapeva descrivere in modo ammirevole il cielo, i pensieri e le impressioni dei piloti. Il personaggio mi piaceva. Lo avessi saputo, non avrei sparato. Non su di lui. Non ho mirato contro un uomo che conoscevo. Ho sparato su un aereo nemico che è caduto».
Resta da capire come mai Rippert ha taciuto per più di 63 anni. Giornalista alla televisione tedesca, dice di non aver parlato per proteggere la propria carriera: «Immaginate cosa sarebbe diventata, se si fosse saputo cosa avevo fatto durante la guerra». Ma anche durante gli anni della pensione Rippert non ha detto nulla. È diventato molto loquace solo quando von Gartzen gli ha telefonato: «Smetta di cercare, sono io che ho abbattuto Saint- Exupéry».

Corriere della Sera 16.3.08
Walter, caccia ai moderati La salvezza è a «quota 35»
Via al «corteggiamento» degli elettori di area udc
Se il leader raggiungerà quella soglia nessuno nel Pd potrà chiedergli conto dell'insuccesso elettorale
di Maria Teresa Meli

ROMA — Quota 35 per cento: è il traguardo che — al di là dei proclami di una vittoria prossima futura — Veltroni e i suoi uomini si sono posti. Se il "Walter-partito" (come lo chiamano scherzosamente nel loft e dintorni) otterrà questa cifra, anche in caso di sconfitta — che al momento, persino nei sondaggi del Pd, viene data come probabile — l'ex sindaco di Roma non avrà problemi. Nessuno gli potrà chiedere conto dell'insuccesso, vista la base da cui si partiva. Anzi, quel 35 per cento verrà vissuto come un risultato più che mai lusinghiero. Sotto quella soglia, invece, tutto è possibile, e Veltroni sa che dentro il Pd c'è già chi affila le armi.
Ma come raggiungere quella quota, quando, in tutti i sondaggi, il Partito democratico nel migliore dei casi ottiene il 34 per cento? È su questo interrogativo che si stanno esercitando al Pd. Dalla sinistra, bene o male, il nuovo soggetto politico nato dalle ceneri dell'Ulivo, ha preso quanto poteva prendere, tant'è vero che a Rifondazione comunista, come nella Sinistra Democratica di Fabio Mussi, si fasciano la testa ancor prima del voto. Più della metà del potenziale elettorato del movimento del ministro dell'Università confluirà nel Pd. Lo stesso dicasi per i verdi. E anche il Pdci e il Prc potranno contare solo sul loro zoccolo duro.
Il problema, quindi, è un altro: riuscire a portare a casa una parte di quei voti cosiddetti moderati in libera uscita dal Pdl. Operazione non facile, perché a intercettarli c'è l'Udc di Casini e, al momento almeno, il Pd non sembra mostrare una grande "appeal" presso quell'elettorato. Per questa ragione Veltroni è costretto a continuare nella politica del "ma anche". E allora il Partito democratico, guardando a sinistra, ha pronta la sua proposta sulla scaletta mobile per le pensioni (ma guai a pronunciare quella definizione, perché la scala mobile ha il sapore del vecchio, oltre che della sconfitta). Ma nel contempo l'ex sindaco di Roma getta le sue reti nel mare dei commercianti, dei piccoli e dei medi imprenditori, di quel mondo, insomma, dove ancora non riesce ad aprirsi un vero varco. Eppure è quello l' obiettivo da centrare se si vuole veramente raggiungere quota 35.
Una quota che è diventata quasi un incubo, perché manca ancora un mese alle elezioni e in questo periodo potrebbe accadere quel che Veltroni teme sopra ogni cosa. Sì, c'è un rischio che i dirigenti del Pd hanno ben presente. Infatti, se in quest'ultimo scorcio di campagna elettorale, gli italiani si convinceranno che nonostante le fanfare della rimonta, alla fine della festa, la vittoria andrà a Berlusconi, la logica del voto utile non avrà più senso. «Allora — si ragiona ai piani alti del Pd — tanti elettori che oggi pensano di votare per noi, con l'idea di battere la destra, torneranno a votare per la Cosa rossa, perchè penseranno così di condizionare l'opposizione futura, spostandola a sinistra ». E in questo caso, altro che "quota 35". Perciò, avanti con il "ma anche" e con gli annunci di una vittoria a portata di mano. A portata di qualche punto in percentuale, nella speranza che i moderati antiberlusconiani snobbino Casini e abbraccino Veltroni.

Corriere della Sera 16.3.08
Il ginecologo suicida Gli interventi dopo esami e diagnosi alterate
Genova, gli aborti segreti con cartelle cliniche false
di Erika Dellacasa

Per i ricoveri a Villa Serena, gestita dalle suore, si faceva figurare che le donne avevano subìto un aborto spontaneo e avevano bisogno di un raschiamento. La telefonata intercettata tra ginecologo e paziente: «Venga, la faccio abortire in studio».
GENOVA — Cartelle cliniche «aggiustate» e esami di laboratorio alterati per far figurare che le donne ricoverate a Villa Serena, clinica privata gestita dalle suore Immacolatine di Genova, avevano necessità di una «pulizia della cavità uterina» dopo un aborto naturale. Non avrebbero potuto abortire volontariamente nella clinica delle religiose, dove nel cda siede Paolo Moraglia, fratello di un monsignore, ma un «raschiamento » quello sì era concesso. Adesso i Nas cercano nelle cartelle cliniche la prova di possibili esami fasulli che attesterebbero la cessazione del battito del feto, emorragie in atto o ecografie con malformazioni inesistenti. Tutti sistemi per sostenere che la donna aveva avuto un aborto naturale e eludere gli obblighi della legge 194 che prescrive l'utilizzo di strutture sanitarie pubbliche. Potrebbe così coinvolgere altre persone l'inchiesta che ha visto indagato per aborti clandestini il ginecologo Ermanno Rossi, suicida dopo la perquisizione dei carabinieri nei suoi studi privati. Le due cartelle cliniche sequestrate dai Nas contengono il nome dell'anestesista di Rossi e la posizione del medico è all'esame del magistrato. Il ginecologo non avrebbe invece fatto uso di farmaci che inducono l'aborto, nella perquisizione dei suoi studi non ne sono stati trovati. A Rapallo, sul marciapiede dove si è schiantato Rossi, dopo essersi gettato dalla finestra del suo studio, si moltiplicano i fiori e i bigliettini di ringraziamento lasciati dalle sue pazienti.
Lunedì il magistrato terminerà gli interrogatori delle otto donne indagate per violazione della 194. Le donne accompagnate dai loro legali (qualcuna anche dal marito) hanno ascoltato le conversazioni intercettate durante le quali fissavano l'appuntamento con il ginecologo in modo inequivocabile. «Dottore, ormai ho deciso per l'interruzione, ma sono preoccupata, è sicuro che poi...». «Stia tranquilla signora, si può fare in studio», seguono accordi. Ma c'è anche chi dice chiaro e tondo: «Dottore, sa, per l'aborto, non voglio aspettare... », e il medico consulta l'agenda in cerca del «primo giorno disponibile per la clinica ». È proprio questa intercettazione che ha fatto crollare in lacrime una delle donne ricoverate a Villa Serena: impossibile continuare a sostenere di aver avuto un aborto naturale. I responsabili di Villa Serena prima hanno negato l'eventualità di aborti illegali («Non può essere »), poi hanno espresso «amarezza per l'inganno subito ». «Villa Serena — dicono — è un'ulteriore vittima, dopo la vita nascente, del raggiro».
Alcune donne si sono difese dicendo di non sapere di commettere un reato: «Ero al di sotto dei tre mesi di gravidanza— ha detto la madre di due figli — mi sono rivolta al mio medico di fiducia e il dottor Rossi mi ha detto che potevo farlo con lui. Perché andare da un estraneo? Era già brutto così».
I Nas intanto stanno verificando una decina di posizioni «sospette» e discretamente controllano anche la documentazione relativa alle pazienti minorenni del ginecologo. L'ipotesi di un'interruzione di gravidanza praticata su una minorenne è agli atti.

Corriere della Sera 16.3.08
L'intervista Claudio Crescini, il segretario dei ginecologi lombardi
«Una pillola, poi l'emorragia Così si aggira la legge 194»
di Simona Ravizza

MILANO — «Pillole a base di misoprostolo al posto degli uncinetti degli anni Settanta. Così oggi si possono provocare emorragie che causano aborti illegali mascherati da interruzioni di gravidanza spontanee». Per 30 anni agli Ospedali Riuniti di Bergamo, Claudio Crescini, classe 1952, è il segretario per la Lombardia dell'Associazione italiana ostetrici e ginecologi ospedalieri (Aogoi), rappresentativa di 800 medici. Il suo timore è che oggi gli interventi fuori dalla legge 194 li facciano ginecologi insospettabili a donne dell'upper class che vogliono accorciare i tempi e restare il più possibile nell'anonimato. Le immigrate, invece, spesso ricorrono al fai-da-te.
Il rischio che corre il medico è la reclusione fino a tre anni (quattro se si tratta di un aborto terapeutico, oltre i 90 giorni). Ma il sistema per scatenare interruzioni di gravidanza che appaiano naturali è relativamente semplice. «Alla donna può essere fatto prendere anche a casa un farmaco antiulcera a base di misoprostolo che somministrato in determinate quantità provoca le contrazioni con conseguente espulsione del feto — dice Crescini —. Quando avviene il ricovero l'emorragia è già in atto. Dimostrare, poi, che il tutto non è avvenuto spontaneamente è davvero difficile».
Tra i ginecologi l'argomento è tabù: «Nessuno ammette di conoscere il fenomeno, anche se i sospetti non mancano — sottolinea Crescini —. Le donne economicamente agiate, d'altronde, non vogliono affrontare il percorso a ostacoli con cui devono fare i conti quelle che abortiscono negli ospedali pubblici, uniche strutture abilitate a praticare le interruzioni di gravidanza. Chi può va all'estero o magari finisce in qualche studio privato».
È come fare un salto indietro nel tempo. Agli anni che hanno preceduto l'approvazione della legge 194 del '78. «Nel primo intervento chirurgico che ho fatto da giovane ginecologo agli Ospedali Riuniti nell'estate del 1978 ho trovato un uncinetto nell'utero di una donna. Era stato messo tempo prima per provocare un'emorragia. Con ogni probabilità, l'aborto era stato fatto passare come spontaneo — racconta Crescini —. Lo stesso può essere fatto ora con il misoprostolo ».
Per il segretario lombardo dell'Aogoi per contrastare una recrudescenza del fenomeno bisogna puntare soprattutto sulla prevenzione. «È l'unico modo per difendere davvero la vita — dice —. Ostacolare l'applicazione della 194 non serve a nulla. Se non a favorire il ritorno gli aborti illegali».

Corriere della Sera 16.3.08
Fecondazione Pronta una legge per tutelare i diritti dei piccoli e delle madri che noleggiano se stesse
Alt dell'India al turismo dell'«utero in affitto»
Crescono i centri per le gravidanze surrogate: centinaia i bimbi nati ogni anno
di Margherita De Bac

ROMA — Ne arrivano a decine, ormai. Destinazioni preferite Calcutta, Bombay, Gujarat, New Delhi. Qui in India negli ultimi due anni sono fiorite cliniche specializzate in gravidanze surrogate. Offrono alle donne occidentali, soprattutto inglesi e americane, servizi difficili da trovare in altre parti del mondo. Mettono a disposizione ragazze, la maggior parte orfane o madri di famiglia, che per poche migliaia di dollari danno in affitto l'utero e accolgono in grembo gli embrioni dei genitori titolari. Un pacchetto turistico a basso costo, la metà o un terzo almeno rispetto al tariffario di Londra, dove la surrogacy viene ammessa solo tra residenti. Le clienti sono mamme poco agiate o che magari hanno già speso tutto per tentare di avere il bambino in patria.
Mercato fiorente, in grande espansione. Il governo indiano ha finalmente deciso di mettere sotto controllo. E' in discussione una legge per tutelare i diritti dei bambini nati con questa pratica e delle madri che noleggiano se stesse. Verranno affrontati anche temi di ordine etico. Se autorizzare o no gravidanze surrogate per conto di coppie omosessuali o di single. Se porre un limite di età dei clienti. Infine la questione della nazionalità. Oggi un neonato partorito da una mamma indiana riceve automaticamente passaporto britannico, statunitense e delle altre nazionalità dei «genitori», senza nessun passaggio intermedio e questo rende più difficile la sorveglianza del fenomeno.
In India ogni anno nascono centinaia di bambini da madri surrogate. Calcoli molto approssimativi, perché nella realtà è impossibile registrare i casi, specie se sono implicate strutture sanitarie del terzo mondo. Non c'è da stupirsi che l'affitto dell'utero sia un prodotto così diffuso in un Paese che vende di tutto, il primo a mettere in vendita il rene. I costi sono ridicoli. Circa 15 mila dollari mentre arrivano fino a 150 mila negli Stati Uniti. Trovare una mamma surrogata è semplice. Basta scorrere gli annunci sui giornali, pubblicati gratuitamente da agenzie che si sono specializzate nel settore. Non bisogna temere raggiri, spiegano gli inserzionisti. Si versa una piccola caparra, segue un anticipo ma solo quando la gravidanza è avviata. Il resto della somma, solo a parto avvenuto o, come si dice in gergo a «bambino in braccio».
In Italia la surrogacy è vietata dalla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita e ancor prima dal codice deontologico dei medici. Non è da escludere che qualche donna sia volata in India per realizzare il sogno della maternità, sia pure indiretta. Se esistono, i precedenti si contano sulla punta delle dita, gli italiani preferiscono mete più sicure come Stati Uniti e Canada. «Noi non lo scopriremo mai, sono solo ipotesi. Le nostre pazienti non svelerebbero mai un tale proposito anche se di solito al ginecologo confidano tutto», racconta Nino Guglielmino, del centro Hera di Catania, uno dei più qualificati in Italia. La limitatezza di un eventuale mercato alimentato dalle italiane è dovuta d'altra parte anche alla rarità delle diagnosi che spingerebbero verso una soluzione tanto estrema e penosa. La strada dell'affitto diventerebbe obbligata solo per le donne che hanno subito l'asportazione dell'utero in età giovanile o che l'hanno perso per errori ostetrici.

Corriere della Sera 16.3.08
Università L'obiettivo: rafforzare la reputazione internazionale e promuovere la ricerca
Nasce il club dei 19 atenei d'élite: «Noi i migliori, dateci più fondi»
Il debutto di Aquis a Bologna: «Ma non è una secessione»
Giulio Ballio (Politecnico di Milano): avremo un effetto trainante per tutto il sistema
di Gabriela Jacomella

BOLOGNA — Non è un addio, giurano. Nessuna secessione dalla Crui, rassicurano. Certo è che l'aria che si respirava ieri mattina, nell'aula absidale dell'Alma Mater bolognese, tutto aveva fuorché il sapore di una marcia indietro.
A una settimana dall'invio del documento ai candidati premier, con la (ri)apertura del dibattito su criteri di merito e assegnazione dei fondi, i rettori degli 11 atenei firmatari — Politecnica delle Marche, Bologna, Calabria, Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, Modena e Reggio Emilia, Padova, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Trento e Verona —, con l'aggiunta di Ferrara, si sono seduti intorno a un tavolo e hanno rilanciato. La proposta: un'associazione che raccolga le università «più produttive e virtuose» del Paese. Il nome: Aquis, cioè Associazione per la qualità delle università italiane statali. L'obiettivo: «migliorare la reputazione internazionale» degli atenei pubblici, «promuovere la qualità di formazione, ricerca scientifica e organizzazione », «proporre strategie per la definizione di obiettivi e programmi comuni con Parlamento e Governo».
Chi vorrà unirsi al nuovo «gruppo di lavoro» dovrà garantire una produttività superiore alla media definita dal Ministero. Poi, almeno due crocette sulle caselle relative a contenimento delle spese per il personale (meno del 90% del Fondo di finanziamento ordinario), «reputazione internazionale » (presenza nella classifica del Times o dell'università Jiao Tong di Shangai), dimensioni (almeno 15 mila studenti). Ne deriva, secondo i «fondatori», un elenco di 19 idonei: oltre ai famosi 12, gli atenei di Chieti, Lecce, Milano, Perugia, Roma Tre, Salerno e Torino. Tutti insieme, fanno il 40% della popolazione studentesca, per un terzo degli atenei statali.
In attesa del via libera degli organi accademici, gli sforzi si concentrano nel ribadire che no, non c'è nessuna frattura con la Conferenza dei rettori, anzi «lavoreremo al suo fianco per migliorare l'intero sistema — spiega il rettore di Bologna, Pier Ugo Calzolari —. Ci preme però appoggiare gli atenei più competitivi sulla scena internazionale. Al nuovo governo proponiamo più risorse in cambio di gestioni rigorose dei bilanci».
La parola d'ordine, tra richieste di trasparenza e nuove strategie di governance, è ripartire dal «patto per l'università» stretto tra Mussi e Padoa- Schioppa e poi arenatosi in Parlamento. Tocca a Giulio Ballio (Politecnico di Milano) presentare progetto e criteri di selezione, «Aquis è aperta a chi ha i requisiti oggettivi, deducibili da dati nazionali e internazionali ». Ballio parla di «effetto trainante», per Patrizio Bianchi (Ferrara) l'associazione «non surroga la Crui, ma stimola il dibattito interno»; per Vincenzo Milanesi (Padova) «non c'è volontà di divisione ma assunzione di responsabilità». Francesco Profumo (Politecnico di Torino) auspica: «Vorrei ritrovarmi qui tra 3 anni con 25 atenei, e poi 30... ».
«Siamo pronti a immaginare compiti aggiuntivi — chiosa Calzolari —, ma facciamo in fretta, si stanno esaurendo i tempi». Gianfelice Rocca, vicepresidente per l'education di Confindustria e unico relatore «esterno», concorda: «La Crui è stata un luogo di immobilismo, abbiamo bisogno di locomotive che trainino». Al nuovo governo chiede un «segnale»: 3-400 milioni, da attribuire «secondo i criteri buoni». Il mondo industriale «farà il suo mestiere: ricercare, innovare, andare nel mondo. Così saremo buoni partner per gli atenei». I «migliori», s'intende.

Corriere della Sera 16.3.08
L'autore di «La morte e la fanciulla» racconta il suo ritorno in Cile, il Paese dal quale era fuggito alla caduta di Allende
Il dolore dei carnefici
Dorfman: «Ho ritrovato l'eroina che mi ha salvato la vita ma mi sono commosso per la donna che piangeva Pinochet»
di Ariel Dorfman

La città era Santiago del Cile, fine settembre 1973, e io scappavo a perdifiato per mettermi in salvo, alla vigilia di un esilio dal quale non ero sicuro di tornare...

La città era Santiago del Cile, fine settembre 1973, e io scappavo a perdifiato per mettermi in salvo, alla vigilia di un esilio dal quale non ero sicuro di poter mai tornare.
Fu in quel frangente che conobbi la donna che mi avrebbe salvato la vita: un colpo di stato aveva proprio allora rovesciato il governo di Salvador Allende. Non l'avevo mai vista prima e non conoscevo il suo nome. Ma sapevo solo che se ci avessero preso, ci avrebbero ammazzati entrambi. Nell'attraversare la città pullulante di soldati, ricordo un pensiero bizzarro: «Ehi, si potrebbe girare un film eccezionale», seguito da una voce più prudente dentro di me che sussurrava: «Sì, se ne esci vivo per poter raccontare la tua storia».
Ne sono uscito vivo, ho raccontato la mia storia e oggi, quasi trentacinque anni dopo, è stato girato un film per narrare gli avvenimenti di quei giorni, che da allora mi hanno spinto a vagabondare senza una meta precisa.
Sul finire del 2006, il regista canadese Peter Raymont ( Shake hands with the Devil)
mi ha seguito in Cile per rivivere gli entusiasmi della rivoluzione di Allende e le conseguenze sanguinose del golpe militare. È stato un tuffo nel passato, che mi ha dato la gioia di rintracciare finalmente quella donna anonima per ringraziarla.
Ho pensato spesso a lei durante gli anni dell'esilio, e quando nel 1990 si è ristabilita in Cile una fragile democrazia, sempre in bilico sul baratro, le ho reso omaggio con il personaggio di Paulina, la protagonista di La morte e la fanciulla, una donna che salva le vittime, pur sperando, a differenza di Paulina, che la mia salvatrice anonima fosse riuscita a evitare l'arresto, la tortura o l'esilio.
Ebbene sì, era viva e vegeta, nel corpo e nello spirito, eppure né lei né il suo nome compaiono nel documentario.
E' vero, le strade di Santiago, oggi democratica, non sono più pattugliate dai soldati, ma l'antico terrore permane nell'aria, contamina ancora troppe vite umane. La mia «Paulina» non ha voluto essere filmata, ha detto, perché alcuni familiari, sostenitori della dittatura, non hanno mai avuto sentore del suo eroismo segreto, e preferisce che tutto rimanga così.
Non era in simili circostanze che avevo pregustato la nostra festosa riunione. Un po' ingenuamente, mi ero immaginato che, proprio come lei mi aveva salvato la vita, oggi la troupe cinematografica che mi seguiva in giro per il Cile l'avrebbe riscattata da un ingiusto oblio.
Ma se la telecamera le ha impedito di fare il suo ingresso nel nostro film, quella stessa telecamera ha reso possibile, in altre occasioni, tutta una serie di incontri e di impegni rimasti in sospeso, e continuamente rimandati.
L'ultima volta che l'avevo visto vivo, Salvador Allende era al balcone del palazzo presidenziale, affacciato a salutare la folla festante di un milione di sostenitori. Oggi, il film mi ha consentito di sostare su quello stesso balcone, a fissare una piazza deserta, a riflettere sulla fine di Allende, una manciata di ceneri fredde, e su tutti quegli uomini e quelle donne che non erano più laggiù, a sfidare l'ingiustizia.
Ma non era quella l'unica morte che mi aspettava in Cile.
Una mattina a Santiago, proprio nel bel mezzo delle riprese, la radio ha trasmesso la notizia che l'odiato nemico, il generale Augusto Pinochet, era stato colpito da ictus; sarebbe morto nel giro di una settimana.
Siamo corsi in ospedale.
L'esilio è sconsolante, eppure ti risparmia almeno la sgradevole vicinanza dei servi e dei sicari del tiranno. Ecco lì, davanti ai cancelli della clinica, un gruppetto di donne in lacrime per il loro idolo moribondo, guidato da una signora piccola e rotondetta, la bocca carica di rossetto, che stringeva tra le mani il ritratto del suo eroe, mentre le lacrime le sgorgavano da dietro un paio di improbabili occhiali scuri. Eccola là, a dare uno spettacolo patetico agli occhi del mondo intero, a difendere un dittatore condannato dai tribunali cileni ed esteri come torturatore, assassino, bugiardo e ladro. Ecco che cos'era diventato il Cile: un Paese dove questa donna, che aveva inneggiato alla morte della democrazia, che aveva festeggiato mentre mi davano la caccia e trucidavano i miei amici, quella stessa donna veniva filmata e adulata da trenta telecamere e cento microfoni, mentre la mia Paulina restava invisibile, nell'ombra, a soffrire ancora per il terrore inflitto da quel generale, che continuava a essere circondato dall'ammirazione e dall'affetto dei suoi fedelissimi.
Eppure, per un inspiegabile paradosso, mi sono sentito irrefrenabilmente commosso dal suo dolore. Per impulso, mi sono avvicinato alla donna e le ho detto che io avevo pianto la morte di Allende e la capivo, ora che toccava a lei piangere il suo leader. Ma volevo anche che si rendesse conto di quanta sofferenza ci fosse dalla nostra parte.
Avrò fatto bene ad agire così?
Nei miei romanzi e nelle mie opere teatrali, ho meditato profondamente sui muri che ci separano da quanti ci hanno fatto del male e ho suggerito che il pentimento è essenziale a ogni dialogo. Ma nella vita reale, non potevo aspettare quel pentimento in eterno. In questo interludio di compassione ho riversato il senso profondo e toccante del film.
La narrativa aspira a raggiungere un momento come questo, ma solo il documentario riesce a catturarlo nella sua pienezza.
Dedico questo momento alla mia Paulina. Con la speranza che anche lei, un giorno, possa emergere dall'ombra.
© Ariel Dorfman, 2008 (Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 16.3.08
Mussolini in Grecia: la «guerra sporca»
di Aldo Grasso

In certe parti della Grecia non abbiamo lasciato un buon ricordo. Era il 16 febbraio 1943 quando l'esercito italiano di stanza in Grecia massacra 150 uomini innocenti di Domenikon, un villaggio della Tessaglia. L'eccidio di Domenikon non è un caso isolato, ma un anello di una catena di brutalità nei confronti della popolazione civile. Non fa piacere vedere «La guerra sporca di Mussolini» di Giovanni Donfrancesco, ma almeno fa piacere che la verità non rimanga sepolta sotto un velo di ipocrisia, di reticenza, di insabbiamento (History Channel, venerdì, ore 21). Basato sugli studi di Lidia Santarelli della New York University e sulla testimonianza diretta dei parenti delle vittime, il documentario ricostruisce alcuni infausti episodi che sono il risultato diretto di una precisa strategia militare voluta dai vertici del fascismo. Una volta conquistata la Grecia, grazie al decisivo intervento dell'alleato tedesco, le truppe italiane d'occupazione si sono abbandonate, in alcune circostanze, a ripetute violenze nei confronti dei civili.
D'altronde già negli anni '50, per aver scritto un soggetto cinematografico che si chiamava «L'armata s'agapò» («s' agapò» in greco significa «ti amo»), dedicato alle vicende dell'occupazione militare italiana della Grecia, il grande critico Renzo Renzi fu arrestato, degradato (era un ufficiale dell' esercito) e condannato dal tribunale militare con l'accusa di «vilipendio delle Forze Armate e dell'arma di cavalleria». Il processo produsse un vasto movimento di opinione a favore degli imputati: non solo due civili (c'era anche il direttore Guido Aristarco) venivano processati da un tribunale mi-litare, ma pareva scandaloso non si potesse rievocare episodi per noi negativi accaduti durante l'occupazione. La «guerra sporca» è una macchia ancora da lavare; De Gasperi aprì un'inchiesta senza mai giungere a una conclusione.

Corriere della Sera Salute 16.3.08
La Cina copia anche il modello italiano di cure psichiatriche
Una «riforma Basaglia» a Pechino
I nostri psichiatri aiuteranno i colleghi cinesi nel tentativo di superare in tempi brevi manicomi e pregiudizi
di Giada Messetti

Lo psichiatra Renzo De Stefani e Roberto Cuni, della associazione La Panchina, seguiranno il progetto cinese

PECHINO - La legge Basaglia fa scuola in Cina. Tutto è cominciato quando, il 23 agosto scorso, a Pechino è arrivato, da Venezia, il "Treno dei matti": in 208, tra malati mentali, familiari e operatori di tutta Italia (organizzati dal movimento "Parole Ritrovate" e dall'associazione Anpis), avevano affrontato il viaggio allo scopo di contrastare i pregiudizi nei confronti della malattia mentale e di testimoniare la pratica del "fareassieme", strumento di prevenzione e cura che valorizza la responsabilità personale. Il messaggio era forte e il gigante asiatico ha deciso di coglierlo.
In Cina ci sono 18 milioni di malati mentali gravi e 63 milioni di individui con disagi psichici; molti non ricevono alcun tipo di trattamento: il 50% degli schizofrenici e il 20% dei depressi non sono curati per mancanza di assistenza sanitaria diffusa. Lo stigma nei confronti del disturbo psichico è radicato. Negli ultimi anni, però, le istituzioni hanno espresso la volontà di rinnovare il sistema riabilitativo, ancorato a meccanismi di custodia e assistenza ospedaliera.
Ora, su invito del National Center for Mental Health of China, il direttore del Dipartimento di Salute mentale di Trento, Renzo De Stefani e il responsabile dell'associazione "La Panchina", Roberto Cuni, hanno siglato con i massimi dirigenti della psichiatria cinese un accordo di cooperazione che punterà al raggiungimento del modello territoriale italiano di prevenzione e cura della malattia mentale. Come primo passo, nel distretto pechinese di Haidian, si svilupperà un progetto pilota di psichiatria di comunità. Per l'Italia, l'iniziativa sarà sostenuta dalla Cooperazione internazionale della Provincia di Trento e realizzata dalla Ong "Solidarietà & Servizio" di Viterbo, rappresentata a Pechino dal dottor Pierluigi Cecchi. Oltre al superamento dell'ospedale psichiatrico, il progetto prevede la creazione di figure simili agli "utenti e familiari esperti" che da anni a Trento affiancano medici e paramedici e forme di partecipazione della comunità per giungere all'accettazione della malattia mentale.
«La psichiatria cinese - spiega De Stefani - oggi è centrata quasi esclusivamente sul strutture ospedaliere che funzionano secondo il modello assicurativo.
Abbiamo visto ospedali nuovi o comunque con offerte riabilitative interessanti (dai gruppi sulle abilità sociali, al problem solving; dalla danzaterapia, ai gruppi karaoke), ma anche strutture obsolete in cui la funzione di contenimento era più evidente. Abbiamo incontrato un'umanità dolente, come era inevitabile, in cui si sente forte la potenziale ricchezza delle emozioni e dei sentimenti. Un' ottima base per costruire percorsi di cura fuori dall'ospedale ». Ovviamente sarà necessario declinare il modello italiano secondo la complessa realtà cinese, ma forse arriverà il momento di un nuovo "Treno dei matti", questa volta in partenza da Pechino verso l'Italia.

Corriere della Sera Salute 16.3.08
Cina. Sanità in crisi
Qui, dove tutto si paga, la salute è un diritto negato

PECHINO - Gli ospedali? Come le imprese: o hanno le risorse per autofinanziarsi e offrire il servizio, o chiudono. I medici? Come i manager: attenti alle cure e (forse di più) alle entrate e ai bilanci dell'azienda. I pazienti? O pagano in contanti o niente esami, niente medicine, niente ricoveri.
Addio welfare. La Cina ha adottato il suo modello: una giungla di leggi e di circolari controverse, una deregulation selvaggia che è durata tutti gli anni Ottanta e Novanta. Lo Stato ha ridimensionato i trasferimenti di fondi e ha smesso di dispensare servizi gratuiti, si limita a garantire una copertura minima con molte differenze da categoria a categoria (con una protezione maggiore del dipendente pubblico), più di facciata che di sostanza, l'equivalente di pochi euro diluiti lungo l'arco di 12 mesi. Il peso delle spese è lasciato a carico del cittadino. Chi ha bisogno di una visita (mai a domicilio) va all'ospedale e versa in contanti. Chi ha bisogno di un farmaco si rivolge alle rivendite autorizzate all'interno degli ospedali e se non si tratta di prodotti per i quali è prevista la distribuzione obbligatoria (pochissimi) apre il portafoglio. Chi deve sottoporsi a una radiografia passa prima dalla cassa. Una rivoluzione, ma sarebbe più corretto parlare di una contro-riforma, il cui risultato è drammatico. Non per il ceto medio urbano benestante, sempre più aggrappato alle assicurazioni private, ma per 800 milioni di contadini che con un reddito di poco più di 350 euro all'anno non hanno neppure il diritto di ammalarsi. Lo ammettono i responsabili della politica sanitaria: la popolazione rurale non è nelle condizioni di curarsi perché non ha i soldi per un'aspirina o solo per un cerotto. Una tragedia. La Cina, ormai terza potenza economica, è stabilmente agli ultimi posti della classifica mondiale nella distribuzione delle risorse nella sanità. Sprechi. Abusi.
Discriminazioni. Il solco fra ricchezza e povertà che si allarga. Una vergogna nazionale alla quale il governo sta ora provando a porre rimedio con un nuovo programma di finanziamenti. La Cina si è resa conto che la sua è Malasanità istituzionalizzata. Un Paese che aspira al progresso non può permettersela.

Corriere della Sera Salute 16.3.08
Nuove dipendenze Potrebbe sembrare piacevole soffrirne, eppure dicono che la «sex addiction» va curata
Drogati di sesso, chiamate il dottore
di Daniela Natali

Promossa da un gruppo di terapeuti una campagna di disintossicazione
Non solo Michael Douglas e altri vip: la sesso dipendenza è diffusa anche tra i comuni mortali. E si cura così.

Sono molti, soprattutto molti più di quanto si pensi: circa il 6% degli uomini e il 3% delle donne. Hanno tra i 20 e i 40 anni. Sono talmente tanti i "drogati del sesso" che la «Rete nazionale per le nuove dipendenze», coordinamento che raccoglie psicologi, medici e sociologi in tutta Italia, ha deciso di dedicare il mese di marzo alla prevenzione delle "dipendenze sessuali" e dei disturbi d'ansia, organizzando incontri e fornendo diagnosi gratuita (www.retenuovedipendenze.
it). Certo la dipendenza dal sesso sembrerebbe una malattia della quale non è poi male soffrire, ma gli esperti affermano che non è affatto così. Spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta, direttore scientifico della Rete: «Quando il sesso diventa il perno intorno al quale ruota tutta la vita, un valore assoluto cui si sacrificano amicizie, lavoro, studio, hobby e "veri" amori, posso assicurarvi che non si sta affatto bene. Si è vittima di impulsi sui quali si perde ogni controllo e che vanno soddisfatti subito. Chi soffre di sex addiction è in realtà una persona terrorizzata dalla vera sessualità che è rapporto con l'altro, scambio profondo: elementi completamente persi e negati da una rincorsa frettolosa a prestazioni multiple e continue. O nella fuga in direzione della masturbazione compulsiva, della pornografia e del sesso virtuale. Il sesso diventa così un pensiero ossessivo, un rituale con il quale ci si difende da qualcosa che fa paura: ma il sollievo dura poco: il tempo di un rapporto. Un rapporto del quale spesso ci si vergogna e questo spinge a trovare consolazione nell'unica maniera che si conosce. Come fa il drogato o l'alcolista, si insiste a cercare la soluzione in quello che è, invece, il problema».
La sesso dipendenza è dunque una malattia, ma perché definirla "nuova"? C'è sempre stato chi giocava troppo a "ninfe e fauni"... «Quello che c'è di nuovo — ribatte Mininno — è il fatto che oggi viviamo nella società edonista del "tutto e subito", in cui l'approccio sessuale è molto più facile che in passato. Una facilità solo apparente perché in realtà si è molto soli e lontani dal conoscere la sessualità. Tutto è concesso, ma non è chiaro cosa si debba cercare».
E come ci si cura? In America si ricorre perfino al ricovero, si prescrive l'astinenza per mesi, si usano psicofarmaci... «Gli psicofarmaci contro sintomi acuti di ansia e depressione possono contenere temporaneamente il malessere — dice l'esperta —, ma la terapia fondamentale è psicologica. Anche i gruppi di auto-aiuto possono servire, meglio però se sono guidati. Poiché l'obiettivo da raggiungere è alto: far nuovamente diventare un piacere quel che è diventato un'ossessione, non basta una seduta. E una volta raggiunti i primi risultati bisogna verificare, nel tempo, che l'amore non torni ad essere una droga».
«Attenzione, però, — puntualizza Carla Anna Durazzi, socio fondatore dell'Associazione psicoanalitica per la prevenzione e la cura del disagio psichico — l'origine del disagio va rintracciata in una sofferenza profonda che si fa "sentire" a livello sessuale e questo perché la sessualità esprime le nostre parti più segrete, è il terreno in cui ci si "spoglia" di più, e non solo dei vestiti. È ovvio, quindi, che il desiderato incontro con l'altro possa anche essere temuto e molti dei nostri comportamenti siano dettati dal bisogno di proteggerci dal rischio di essere abbandonati, sopraffatti o di sentirci inadeguati. L'erotismo senza affetti fa sentire "potenti", sicuri; per di più l'innovazione tecnologica ha portato nuovi tipi di dipendenze come lo scaricamento compulsivo di materiale pornografico».
«Compito del terapeuta — conclude Durazzi — è aiutare il paziente a vedere nel "sintomo" un segnale di conflitti profondi non risolti. Chi si rivolge al nostro Centro di aiuto psicologico intraprende un percorso di riscoperta della propria personalità spostando, gradualmente, l'impiego delle sue energie vitali, da dipendenze che risucchiano, verso il lavoro di analisi e il ritrovamento delle capacità di vivere pienamente la vita».

Corriere della Sera Salute 16.3.08
Castità. Niente rapporti, ma non è detto che ci voglia sempre il medico
In coppia, ma sempre in «bianco»
di Cesare Capone

Nella nostra società erotizzata sono in aumento le persone che smettono di fare sesso o che non l'hanno mai fatto. E si prepara a sbarcare anche da noi l'associazione americana «Silver Ring Thing» che predica la castità, o meglio, l'erotismo solo all'interno del matrimonio, per ragioni estremamente pratiche: scongiurare ma-lattie e gravidanze indesiderate.
Intanto, Jean-Philippe de Tonnac, intitola addirittura «La rivoluzione asessuale » (Castelvecchi, ora in libreria) la sua inchiesta antropologica sulla vita senza sesso. Dice de Tonnac: «I media vogliono farci credere che la vita erotica sia ricca e bella, ma non è quella che la gente sperimenta davvero sotto le coperte». Ed è recente l'uscita del trattato «Sessuologia medica» (Cortina) dove Emmanuele Iannini e collaboratori hanno dedicato due densi capitoli al «desiderio sessuale ipoattivo» che considerano una vera patologia «solo» quando crea sofferenza. «Il fenomeno non è quantificabile — spiega Iannini, coordinatore del corso di laurea in sessuologia all'Università dell'Aquila — perché di solito le persone provano imbarazzo e fanno credere, anche nelle inchieste giornalistiche e scientifiche, di avere una vita sessuale soddisfacente». Ma oltre la metà di chi cerca aiuto per risolvere problemi sessuali lamenta di non avere rapporti intimi a causa di impotenza, vaginismo, scarsità o assenza di desiderio.
«Il declino della libido riguarda sia le donne, sia gli uomini che sono penalizzati anche da un aumento dell'impotenza precoce; mentre fra le donne la dispareunia e il vaginismo sono in diminuzione» avverte Giacomo Dacquino, psichiatra e psicoanalista di Torino, autore per Mondadori di una dozzina di libri basati sulla sua lunga esperienza di terapeuta.
E, non da oggi, nella maggior parte delle coppie stabili i rapporti intimi si riducono gradualmente, con l'avanzare del-l'età, oppure si deteriorano. «Quando un uomo dirada l'attività sessuale — riprende Iannini — la secrezione del testosterone cala a livelli infantili e quindi non si avverte quasi più il desiderio. Un meccanismo simile è ipotizzabile nelle donne, perché anche il desiderio femminile dipende dal testosterone prodotto dalla ovaie e dalle surrenali». Il fatto che l'involuzione della vita intima coniugale avvenga precocemente e frequentemente preoccupa medici, psicologi e sociologi. Ma non tutti gli interessati. Osserva Iannini: «Se calo o assenza di desiderio non sono causa di sofferenza per lui o per lei, il ricorso all'andrologo, al ginecologo o allo psicologo non è giustificato. Occorre però intervenire su eventuali fattori (stress, depressione, alcol, fumo e droga) comunque dannosi alla salute, che portino anche allo scadimento della sfera erotica».
«Almeno il 6% dei matrimoni non viene addirittura mai consumato e in molti casi la convivenza non ne soffre. Dico "almeno" perché tale condizione si sottrae a una statistica precisa, data la riservatezza delle coppie» afferma Dacquino. Riservatezza che vien meno di fronte al medico, quando si desidera un figlio — aggiunge Giorgio Rifelli, responsabile del Servizio di sessuologia del Dipartimento di psicologia, Università di Bologna —. Nel 70% dei casi le coppie riescono ad averlo per via "normale", salvo riprendere poi la vita coniugale come fratello e sorella». Vi sono persone sessualmente inappetenti per costituzione e non è detto che sia patologico; altre per motivi morali, religiosi o perché fortemente inibite: «Uomini che provano angoscia all'idea di penetrare incontrano donne angosciate all'idea di essere penetrate» — osserva Dacquino —. Nel "matrimonio bianco" le coppie sono spesso serene. Sono uomini e donne che si proteggono a vicenda».