martedì 18 marzo 2008

il Riformista 18.3.08
Bertinotti: globalizzazione e crisi di civiltà
«Ve lo dicevo io, altro che Tremonti»
intervista di Stefano Cappellini


Discutere di crisi del capitalismo con Fausto Bertinotti è come ascoltare il medico di un paziente a lunga degenza, convinto di aver individuato la diagnosi corretta della malattia fin da quando la maggior parte degli altri medici certificavano tutt'al più un malessere passeggero. Dice al Riformista il presidente della Camera e candidato premier della Sinistra arcobaleno: «Ci hanno accusato per anni, al movimento altermondialista si diceva: siete fuori dal tempo, non capite la modernità, qualcuno parlava addirittura di accenti reazionari. Oggi la verifica fattuale ci dà ragione. Una certa globalizzazione si dimostra l'elemento chiave di una crisi di civiltà e non, come si è detto per anni, la via sicura per un benessere a portata di tutti. Non si dirà mai male abbastanza della lettura della globalizzazione come cornucopia. Uno scandalo intellettuale senza pari, che trascinava con sé l'idea della fine del lavoro, la denuncia di ogni opposizione come sintomo localista o passatista, addirittura teorizzava la fine della storia. Cose da pazzi».
Bertinotti ci tiene a non confondersi con i detrattori assoluti del tempo corrente e, del resto, la stessa definizione no global non gli è mai piaciuta troppo: «Non c'è ragione - spiega - per cui una critica deve diventare demonizzazione. Non essere apologetici non significa non vedere la carica di innovazione, di progresso tecnico-scientifico che la globalizzazione ha portato con sé. La messa al lavoro di milioni di persone e la possibilità di accedere a certi livelli di consumi sono un fatto positivo. L'ingresso di massa in un mercato - per quanto spesso corrotto e corruttore - è un fenomeno che mi interessa, ma non al punto di non vedere che tutto ciò avviene sul modello della prima industrializzazione europea: in Cina e nelle economie emergenti dell'Asia, siamo più vicini all'Ottocento che al Novecento. L'aumento del Pil è sbalorditivo, l'aumento di diritti inesistente».
Difficile però resistere alla tentazione di far notare a Bertinotti che - ammesso e non concesso che la diagnosi movimentista fosse giusta e stilata da anni - c'è un dottore di scuola avversa, di nome Giulio Tremonti, che si è intestato il merito di aver individuato il male e la cura. Ma Bertinotti non si sente scavalcato a sinistra dall'antimercatismo di Tremonti: «Non ha inventato nulla. A parte che Tremonti non è nuovo a certe difese, sia in nome della piccola patria padana, sia in nome della difesa comunitaria della produzione locale, ci siamo dimenticati di Chirac? Chirac è stato il primo a dire che il primato della finanza costituiva un cancro per la democrazia del nostro tempo e che il movimento incontrollato di capitale nel mondo determinava la crisi della coesione sociale. E fece una intera campagna in nome della rivalutazione dell'intervento pubblico».
Ma il punto, primogeniture a parte, è che il leader comunista non concorda sulla ricetta tremontiana: «Oggi Tremonti fa colpo con le sue teorie ed evita l'errore banale di attribuire all'Italia la missione protezionistica. Investe del compito l'Europa. Ma che succederebbe se l'Europa lo facesse davvero? Si aprirebbe una guerra commerciale col fronte cino-indiano. E come risponderebbe il sud America, che è già giustamente sul piede di guerra per le nostre politiche agricole protezionistiche?». Bertinotti rifiuta l'idea che la tutela dell'operaio italiano dall'invasione di merci prodotte dall'operaio cinese a basso salario sia nei dazi. «Innanzitutto, segnalo che settori italiani non di nicchia come il tessile o il meccanico, che secondo certe tesi di qualche anno fa dovevano esser travolti dall'est, sono vivi e vegeti. Sui rapporti tra l'operaio cinese e quello europeo serve invece una riprogettazione. Serve la ripresa di un discorso internazionale, che provi a ritessere le fila di una ricostruzione della compagine dei lavoratori, partendo dalla questione della clausola sociale: la tracciabilità delle merci è il futuro del mondo. Le merci devono circolare liberamente, ma devono incorporare diritti minimi che ne giustifichino la circolazione. Nessuno può esser così idiota da pensare che debbano esserci livellamenti salariali impossibili, ma non è accettabile che una merce provenga da un contesto dove non è ammesso per esempio il diritto di sciopero. Questa è la questione da aprire su scala mondiale, non i dazi». Casomai, Bertinotti dà ragione a Tremonti sull'esigenza di una nuova Bretton Woods per la stabilità monetaria: «Proposta ragionevole, che non bisogna lasciare a esponenti della destra, anche perché conosco dieci economisti radicali che il discorso di Tremonti lo fanno da anni. Inascoltati».
Se il programma della sinistra radicale non trova consensi, però, non può essere sempre colpa della sordità altrui. «E infatti noi abbiamo il dovere di chiederci perché non sempre siamo riusciti a costruire una massa critica sulle nostre idee e ci manca ancora, qui parlo soprattutto della sinistra italiana, un programma fondamentale. La riposta alla domanda: chi sei?». Qualcuno direbbe: ormai siete socialdemocratici. Bertinotti non si spaventa: «Noi dobbiamo fondere la nostra cultura comunista di origine, con le altre: la socialista, l'ecologista e quella dei diritti». Per il presidente della Camera la questione socialdemocratica è invece il vero dramma della sinistra riformista: «E' ferma al paradigma di Maastricht. Di fronte alla mancanza di consenso, apre ancora l'ombrello dell'Europa e della dottrina neo-liberista come giustificazione. Non si pone il problema di conciliare la riduzione di debito e deficit con un'impronta sociale, col sostegno alla domanda interna come mezzo per trainare l'economia fuori dai sussulti della crisi. Non prova a rivalutare il keynesismo, dottrina vergognosamente cancellata e demonizzata Non capisce che indagare il capitalismo non significa Soviet più elettrificazione o tornare alla Terza internazionale, e nemmeno alla cultura del Pci. Di essere accusati di essere comunisti, francamente, i vertici del Pd non corrono più il rischio. Il fatto è che temono come la morte di approdare a un orizzonte socialdemocratico. Non ragionano sulla crisi della globalizzazione, un editoriale contrario del Corriere della sera basta a terrorizzarli. La linea di fuga verso l'America è un modo di non fare i conti con questa dannata questione che si chiama socialdemocrazia. Per questo si collocano su una frontier altra, senza vedere che negli Usa la realtà è disgiunta dall'ideologia e la -Fed salva Bear Stearns e non gliene frega nulla delle possibili accuse, perché risponde solo a un criterio di efficacia. E la nazionalizzazione della Northern Rock a opera del governo laburista di Gordon Brown? In Italia la sinistra non l'avrebbe mai fatto, perché è impedita. Sente ancora di doversi accreditare. E lo stesso vale a destra. Perché se non Fini dovrebbe plaudire all'offerta di Air France su Alitalia?». E cosa si dovrebbe fare di Alitalia, se non affidarsi alle offerte del mercato dopo anni di fallimento "pubblico"? «Non accontentarsi dell'offerta da quattro soldi di Air France. La situazione è compromessa. Me ne rendo conto. Rifaccio un esempio che spero non sia preso maliziosamente. La Fiat qualche tempo prima della svolta di Marchionne era considerata spacciata, non infondatamente. Un'operazione di sostegno, di supplenza delle banche si è poi rivelata suscettibile di esito imprevedibile, perché è intervenuta una proposta di missione dell'azienda che ha mobilitato i dirigenti, i quadri e i lavoratori. Non è retorica. Perché questa operazione non è stata tentata su Alitalia? Perché non arriva qualcuno che butta via i luoghi comuni e ci prova. Serve una novità soggettiva, un tempo si sarebbe tempo volontaristica. Lo vogliamo chiamare modello Marchionne? Non importa. Quello che occorre fare è cambiare il terreno della competizione, e all'Italia per le sue caratteristiche dovrebbero riuscire più facile che ad altri. Serve una riprogettazione su un terreno di valori del modello industriale e del modello economico-sociale. Non è possibile che fino a qualche anno si privatizzava per far cassa e adesso, peggio ancora, ci si disfà di assi strategici solo perché non si riesce ad attribuire loro una missione».


Il Messaggero 17.3.08
I trent’anni della legge 180
La “Basaglia” ha chiuso i manicomi, creando però gravi disagi ai malati e alle loro famiglie. Come “correggerla”? Il mondo della cultura si mobilita
di Rita Sala

UN giorno la pittura di Van Gogh armata di colore e di buona salute ritornerà per gettare all'aria la polvere di un mondo oppresso che il suo cuore non poteva più sopportare. Antonin Artaud, attore, regista, scrittore, teorico del “teatro della crudeltà”, morto nel 1948 nel manicomio di Ivry-sur-Seine, vide un giorno, all’Orangerie di Parigi, una restrospettiva di opere del pittore olandese, e instaurò con il genio malato di Vincent, compagno di strada e di sofferenza, un dialogo a distanza. Da folle a folle: l’urlo di due artisti torturati dal disagio mentale.
Cosa direbbe oggi Artaud, consumatore di peyotl e più volte sottoposto a elettroshock, del dibattito che si è aperto in Italia sulla Legge 180? La discussione s’è riaccesa a distanza di trent’anni dal provvedimento e mentre un gruppo di autorevoli medici della mente (da Athanasios Koukopoulos, psichiatra greco che lavora nel nostro Paese, a Giovan Battista Cassano) chiede sia tolto il divieto di usare la cosiddetta “terapia elettroconvulsivante”. La “legge Basaglia” (dal nome del promotore, lo psichiatra veneziano Franco Basaglia) impose nel nostro Paese, dal 13 maggio 1978, la chiusura dei manicomi. E regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio istituendo servizi pubblici di igiene mentale (l’eliminazione effettiva dei manicomi si è completata solo nel 1994, con le strutture di assistenza psichiatrica). Nata dalla sincera utopia di uno scienziato e applicata, sì, ma mai concretamente dotata di strutture, è da allora causa da una parte di demagogia politica, dall’altra di grave disagio per i malati restituiti alla vita sociale, e per le loro famiglie. In questi ultimi mesi, nuove proposte sia affollano attorno alla questione: accettata la convinzione che la 180 non sia riuscita nel proprio intento, occorre proprio riparlarne.
A Roma, un artista che da venticinque anni lavora con i malati di mente, Dario D’Ambrosi, creatore del Teatro Patologico (si fece internare giovanissimo, per tre mesi, al “Paolo Pini” di Milano, per «soffrire assieme ai pazzi e capirne il dolore»), apre le “ostilità”, giovedì 20, in Piazza di Spagna, con un happening teatrale. Titolo: 180 D’Ambrosi torna in manicomio. «Un malato, che interpreto vestito di panni che lo denotino come tale dice esce dal manicomio e arriva casualmente in una delle piazze più famose del mondo, fra gente che cammina per i fatti suoi, turisti, passanti, signore che fanno shopping. Affronterò queste persone. Parlerò con loro: “Perché qualcuno ha deciso per me? Il dottore mi ha detto che devo andare a casa perché sono guarito, ma io veramente non mi sento molto bene... Scusa, le senti anche tu le voci nella tua testa che ti dicono cosa devi o non devi fare?”. Alla fine saranno loro, il pubblico, a giudicare se il matto debba tornare dentro o restare fra i cosiddetti “normali”».
Provoca, D’Ambrosi. Ma la pensano come lui psichiatri illustri, ad esempio il veronese Vittorino Andreoli. Che nel gelo della cappella parigina di Saint-Louis de la Salpêtrière, culla della psichiatria durante la Rivoluzione e ricetto dei diseredati, delle puttane e dei matti fin dal tempo di Luigi XIV, spiegò come proprio là Philippe Pinel, duecento anni fa, liberò gli alienati dalle catene e cominciò ad osservarli caso per caso, annotandone i cambiamenti e gli sviluppi. «Pinel istituì un nuovo sapere. Lo derivò da un gruppo sociale fino ad allora generico, “indemoniato”, quello dei pazzi, che la Rivoluzione considerava comunque citoyens, cittadini come gli altri, benché ammalati di follia. I matti io li ho conosciuti presto, da giovane, ancora sottoposti a “torture” quali la camicia di forza, i salassi, i bagni caldi e freddi, i ripetuti elettroshock. Da allora tanto è cambiato, ma tanto resta ancora da fare. Io ho diretto il manicomio di Verona, cinque padiglioni di sofferenza. Non so descrivere il Quinto Donne: un grumo di dolore inarginabile. Entravi là dentro e trovavi un mare di corpi nudi e urlanti che vagavano nello stanzone, un odore tremendo di urina e di escrementi, la sensazione tattile dello strazio...». Il medico avverte l’esigenza di una “correzione” della 180: «Il pur giusto principio secondo cui è la società ad essere malata e gli alienati mentali sono solo i terminali più fragili di essa, la 180 va umanizzata, calata nella vita delle famiglie al cui interno scoppia la follia. Non illudiamoci che i matti pericolosi non esistano. Conoscete l’odissea di chi deve far ricoverare una persona che impazzisce gravemente? È unga, piena di barriere burocratiche. I matti esistono. Lo dice uno che li ha amati e li ama, che non ha mai dato loro uno schiaffo e nemmeno lo ha preso...».
Al servizio di questa “correzione” si muove D’Ambrosi. Dopo l’azione di giovedì (che sarà replicata il 28 a New York, nella Madison Avenue, all’altezza della 64a strada, e quindi a Milano, il 21 aprile, all’ospedale “Paolo Pini”), realizzerà in maggio l’articolata rassegna Buio in sala... si illumina la mente, in collaborazione con il Teatro di Roma. Sono spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche, video, convegni e dibattiti con l’intervento di psichiatri e uomini delle istituzioni legati agli sviluppi della 180. Gli spazi? India, il teatro del Quarticciolo e la nuova sede del Teatro Patologico, sulla via Cassia, destinata a diventare un’alternativa al manicomio firmata D’Ambrosi: «Sarà la Cittadella Allegra, dove i miei mattacchioni faranno teatro, scopriranno cose interessanti, lasceranno respirare e vivere le loro famiglie». In giugno, spettacoli al Quirino di Roma e al “Franco Parenti” di Milano. Intanto a Londra, dove Dario è famoso (lo hanno visto in teatro con Ellen Stewart e nei film con Greta Scacchi, Anthony Hopkins e Mel Gibson), il Soho Theatre prepara la messinscena di due suoi lavori, Volare e Sognando il mare, e presenta, contestualmente, l’edizione inglese degli ormai numerosi testi teatrali del Patologico.
«Occorrerebbe un altro passaggio dal Medioevo all’Umanesimo dice ancora Andreoli , un recupero dei sensi che riconduca l’Uomo al seul desir: una nuova integrazione la Natura. Intanto, però, diventa fondamentale tornare e ri/tornare sul discorso della follia». Dopotutto, il buio del disagio mentale ha avvolto, oltre Van Gogh e Artaud, Caravaggio e Munch, Kirchner e Bekmann, Nietzche, Ligabue, Dino Campana, Alda Merini, milioni e milioni di esseri indifesi, creature come Antonio (figura centrale dello spettacolo shock di D’Ambrosi I giorni di Antonio, interpretato da Celeste Moratti), venuto alla luce nel 1916 nella campagna milanese, con una gamba più corta dell’altra e gravi handicap mentali. Fu gettato dai genitori nella stia e cresciuto a granturco, come i polli. Assuefatto a sfogare i naturali istinti sessuali con le galline, fuggì dalla sua prigione il giorno in cui qualcuno la lasciò aperta. Lo trovarono sullo stradone, addosso a una prostituta. Venne rinchiuso in un manicomio. A vita.

Repubblica 18.3.07
Lo Stato colpevole
di Valerio Onida

La vicenda del processo penale a carico di agenti delle forze dell´ordine per i maltrattamenti e le vessazioni inflitte, in occasione del G8 di Genova del 2001, ai manifestanti arrestati e portati nella caserma di Bolzaneto merita un rilievo certo maggiore di quello spesso dedicato dai mezzi di comunicazione ai delitti che "appassionano" il pubblico. L´ampia inchiesta di Giuseppe D´Avanzo pubblicata ieri da questo giornale ha il merito di avere richiamato l´attenzione sui fatti. Sono state contestate – non da qualche gruppo no global, ma dai pubblici ministeri del processo – accuse relative ad atti di violenza fisica e morale (fra l´altro, tecniche di interrogatorio che la Corte europea dei diritti dell´uomo giudica "trattamenti inumani") e condotte dirette a umiliare le persone fermate. Si è notato anche che, non essendo ancora stata varata una legge specifica contro la tortura, le ipotesi di reato a carico degli imputati sono "minori" e quindi vi è l´alta probabilità, se non la certezza, che fra un anno scatti la prescrizione, che impedirebbe alle eventuali condanne di diventare definitive.
Il processo non è finito. Devono ancora parlare le difese (ma si è letto che esse non avrebbero messo in dubbio l´attendibilità dei numerosi testimoni; un difensore avrebbe lamentato che "sono state negate le attenuanti", e se si parla di attenuanti vuol dire che i reati sono stati commessi). La verità processuale non si è ancora definitivamente formata. Ma ce n´è abbastanza per fare alcune considerazioni.
Primo. I fatti denunciati, se sono veri, sono di una gravità inaudita per modalità ed estensione. Non si è trattato di singoli episodi isolati, ma di atti (riferiti in modo circostanziato) reiterati, compiuti da parte di molti agenti (44 imputati) e a danno di molte persone, tanto da far dire ai pubblici ministeri che in quella caserma di Bolzaneto per tre giorni "sono stati sospesi i diritti umani". Se non sono gruppi di fuorilegge, ma gli stessi "tutori della legge", ad abbandonarsi a simili comportamenti, ne viene ferita, e gravemente, la credibilità delle istituzioni, dello Stato. Non c´è attenuante di "provocazione", o scusa derivante dalla tensione o dalla fatica di quei giorni, che tenga. Far violenza gratuita su persone inermi e arrestate, insultarle, umiliarle – anche se fossero state a loro volta colpevoli di reati – è qualcosa che non può mai essere ammesso né accettato. Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici nel perseguire gli interessi generali. La gravità di essi non deriva tanto dalle oggettive sofferenze inflitte, quanto dal fatto che ad agire così erano rappresentanti dello Stato.
Non ci sarà ancora la legge che punisce espressamente la tortura, ma nel nostro ordinamento, vivaddio, i comportamenti contestati agli agenti sono illeciti e punibili, eccome. L´articolo 13 della Costituzione afferma che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Non "può essere", ma "è" punita: tanto che i giuristi ritengono che questa sia forse l´unica norma della Costituzione dalla quale si ricava un vero e proprio obbligo di irrogare sanzioni penali, che di solito discendono solo da una discrezionale valutazione del legislatore, e costituiscono una extrema ratio per la difesa delle persone e della società.
Secondo. Se la prescrizione impedirà alle eventuali condanne di diventare definitive, sarà ancora una volta scandalosamente evidente l´inadeguatezza del nostro sistema normativo e soprattutto processuale e giudiziario (si ricordi che alla fine della scorsa legislatura la improvvida legge detta "ex Cirielli" ha sancito una abbreviazione dei tempi di prescrizione per molti reati). Allo scandalo di uno Stato violento si aggiungerebbe quello di uno Stato incapace di sanzionare comportamenti di questa gravità tenuti da coloro che operano in nome dello Stato stesso. Del tema dovrebbero occuparsi, e presto, i nostri esponenti politici che in questi giorni chiedono il consenso degli elettori.
Terzo. Anche se dovesse scattare la tagliola della prescrizione per i reati, non sarebbe però finito tutto lì. Anzitutto è verosimile e auspicabile che azioni civili di danno vengano intentate o proseguite dalle vittime non tanto verso i singoli agenti, ma verso lo Stato: e in quella sede, una volta accertati i fatti, dovrebbero essere riconosciuti risarcimenti significativi ed esemplari, a ristoro non tanto dei danni materiali, ma soprattutto di quelli morali provocati dalle condotte illecite (anche se danneggiato "morale", paradossalmente, è pure lo Stato stesso). Inoltre si dovrebbero intraprendere azioni davanti alla Corte europea dei diritti dell´uomo, la quale, se i fatti saranno accertati, non potrà non condannare l´Italia per violazione del divieto di "trattamenti inumani o degradanti" sancito dall´articolo 3 della convenzione. E certo non farà piacere vedere il nostro Stato condannato ancora una volta, e non per inerzie e inefficienze come nel caso della violazione del diritto alla ragionevole durata dei processi, ma per aver violato la dignità di persone arrestate. Il rispetto della persona e della sua dignità è infatti una premessa elementare e irrinunciabile di qualsiasi esercizio dell´autorità in uno Stato costituzionale.
Infine, un Governo degno di questo nome non potrebbe mantenere tranquillamente nei ranghi delle forze dell´ordine coloro che risulteranno aver commesso questi fatti, senza perdere ancora una volta di credibilità. Non basta una ventata di indignazione passeggera: occorre coerenza di comportamenti per il futuro. Allo Stato retto dalla Costituzione non si può non chiedere – anzi, si dovrebbe esigere più che chiedere – che esso tenga fede al primo e fondamentale obbligo morale e giuridico, il rispetto della persona, di ogni persona, titolare dei diritti inviolabili che la Repubblica "riconosce e garantisce".

Repubblica 18.3.07
"Io, l'infame che denunciò gli orrori di Bolzaneto"
di Giuseppe D'Avanzo

Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. «Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro».

«Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell´androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…».
Marco Poggi dice che sa che cos´è la violenza. «Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l´avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"».
Marco Poggi è «l´infame di Bolzaneto». Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo - Io, l´infame di Bolzaneto - ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo - tra chi era dall´altra parte - a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. «Delle violenze nelle strade di Genova - dice - c´erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l´ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c´era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato - l´ho detto - ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch´io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l´ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l´ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani».
Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. «Beh! - dice - un po´ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato - vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l´infame di Bolzaneto».
Dice Marco Poggi che «se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora un reato - non è che te li puoi inventare». Dice che lui «lo sapeva fin dall´inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione». Dice Poggi che però «quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell´autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi - in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco anch´io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c´è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d´inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo».

Repubblica 18.3.07
Lo ha detto Hume: fede e ragione non stanno insieme
di Paolo Flores D'Arcais

Due anni fa, nel maggio del 2006, il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, e Paolo Flores d´Arcais, filosofo e direttore di MicroMega, furono invitati dal direttore della Normale di Pisa, Salvatore Settis, a confrontarsi su un tema delicatissimo: «Ateismo della ragione o ragioni della fede?». I contenuti di quel dibattito, compresi gli interventi che poi seguirono dal pubblico, sono stati raccolti in un libro che esce domani, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede (Marsilio, pagg. 92, euro 7,90). Il volume riproduce il dibattito serrato fra i due interlocutori, un dibattito nel quale a viso aperto e con molta nitidezza Flores espone i motivi per cui fede e ragione siano da considerarsi inconciliabili, Scola, dal canto suo, ribatte richiamando all´attenzione l´enciclica di Giovanni Paolo II intitolata, appunto, Fides et ratio.
Il cardinale Scola è dal 2002 Patriarca di Venezia, è laureato in filosofia e teologia e vanta una ricca bibliografia. Fra gli altri, vanno ricordati La persona umana. Manuale di Antropologia Teologica, Gesù destino dell´uomo, Uomo-donna. Il "caso serio" dell´amore, Chi è la Chiesa, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Il Valore dell´uomo. Tra i libri di Flores si possono ricordare Etica senza fede, Il sovrano e il dissidente, Hannah Arendt e Dio esiste?


Il non credente raramente espone in modo esplicito le ragioni dell´ateismo. Le ragioni, nel senso forte del termine. La convinzione, meditata e criticamente radicata, che per fare filosofia, oltre che per fare scienza, l´ateismo sia una sorta di pre-condizione ineludibile.
L´ateismo metodologico, almeno. Ma talvolta, forse, qualcosa di più. Questa convinzione in genere viene sottaciuta. E tale ipocrisia nasce dal timore che proclamare apertamente l´incompatibilità di fede e ragione (di cui l´ateo è però fermamente convinto), del carattere cioè inguaribilmente irrazionale della fede – non solo di quella cattolica, ma oggi di questa soprattutto ci occupiamo –, possa suonare offensivo nei confronti dell´interlocutore. (...)
Sia chiaro, io non lamento questa ipocrisia come debolezza del non credente nei suoi sforzi di convincere l´interlocutore. L´ateo, infatti, non ha alcuna pulsione a convertire il credente, a fargli perdere la fede. E non ha tale pulsione proprio a cagione del suo ateismo. Ateismo, infatti, non significa nulla più della convinzione che tutto si gioca qui, nell´orizzonte finito della nostra esistenza. Ma se tutto si gioca qui, nel tempo incerto ma irrimediabilmente finito della nostra esistenza, e conta solo, dunque, quanto qui verrà realizzato, cioè i valori che si esprimeranno nel nostro agire, per l´ateo è assolutamente secondario che le persone che insieme a lui per questi stessi valori si batteranno lo facciano a partire da ragionamenti di stampo illuministico o perché hanno "fede" nel Vangelo, e dunque hanno preso sul serio il messaggio dalla parte degli ultimi come un dovere di impegno per la giustizia e per l´uguaglianza. (...)
Io credo che David Hume, nei sui Dialoghi sulla religione naturale, abbia smantellato in modo conclusivo le pretese di ogni ragionevolezza nella fede in Dio. In modo definitivo, almeno nel senso che alle sue obiezioni non sono mai state date risposte minimamente convincenti. Hume ha demolito tutte le pretese di dimostrazione di Dio sia delle religioni positive che di un generico deismo o teismo, di una religione "naturale" spesso predicata durante l´Illuminismo – la maggioranza degli illuministi erano in questo senso credenti. Hume, insomma, ha mostrato l´ateismo della ragione (...).
Ma ormai, nel dialogo fra credenti e non credenti, privo ormai di controversia proprio per quella "ipocrisia" che ricordavo all´inizio, da parte cattolica si ignorano le obiezioni che da Hume in poi sono state rivolte alle pretese di ragionevolezza della fede, visto che da parte non credente si fa la stessa cosa.
Io credo, invece, che si debba discutere proprio questa tesi, assolutamente esplicita: Ragione e Fede sono mutualmente incompatibili. Aut fides aut ratio. (...) Quando parliamo di ragione, tutti in genere concordiamo sulla validità degli "accertamenti" scientifici e sull´uso delle regole logiche nel corso di un´argomentazione. Dopo di che, ciascuno di noi attribuirà alla parola "ragione" anche altri significati, ma la validità della scienza+logica credo che costituisca un denominatore comune.
E allora, credo che oggi la filosofia, rovesciando Socrate, ma per restare fedele all´insegnamento socratico, non debba iniziare riconoscendo che "sappiamo di non sapere", ma debba partire piuttosto dal riconoscimento opposto: "sappiamo tutto". Oggi, dire "sappiamo di non sapere " diventa un alibi per non affrontare la realtà. "Sappiamo tutto", perché sappiamo "il nulla e il perché del nostro essere al mondo". In altre parole, sulla base di ricostruzioni scientifiche straordinariamente corroborate, abbiamo ormai avuto risposta alle grandi domande metafisiche del passato: chi siamo, da dove veniamo (e in un certo senso perfino: che cosa possiamo sperare).
Sappiamo come è nato l´universo, come è evoluto, gli infiniti momenti in cui avrebbe potuto evolvere diversamente, e cioè il peso radicale che ha la contingenza, il caso, nelle vicende che hanno segnato l´evoluzione dell´universo. È per caso che a un certo punto è insorta la vita organica, ma avrebbe potuto non nascere mai. Il caso (...) come elemento fondamentale e continuo dell´evoluzione che ha infine messo capo all´uomo.

Repubblica 18.3.07
Eppure la fede ha le sue ragioni ben fondate
di Angelo Scola, cardinale di Venezia

«Vivere senza Dio è soltanto una sofferenza». Da questa penetrante constatazione Dostoevskij trae la conclusione che gli atei sono «degli idolatri, non dei senza dio». Questa seconda affermazione, che so bene essere paradossale e provocatoria, è però utile per comprendere che quella dell´ateo non è riducibile a una pura tesi teoretica. Non basta affermare "Dio non esiste" per definirsi atei. Questa affermazione nominale è insufficiente perché non determina né la natura del dio che nega, né soprattutto il modo con cui viene operata tale negazione. Anche chi afferma di negare l´esistenza di Dio non riesce a inferire che Dio non esiste. Si deve dunque riconoscere che l´ateismo non è la semplice antitesi del teismo. L´ateismo non si oppone anzitutto alla tesi razionale riguardo all´esistenza di Dio. «Inversamente si può avere un´idea di Dio e concludere alla sua esistenza ed essere chiamati atei» ed è successo a Socrate, ai primi cristiani e a Spinoza. Se qualificassimo quindi la ragione come in se stessa atea, compiremmo un´operazione teoreticamente non rigorosa. (...)
Né ragione in sé atea, né credo quia absurdum. Ma cos´è allora questa fede? Come può restare fede senza cadere nell´assurdo? Può veramente pretendere di offrire ragioni all´umano «mestiere di vivere » (Pavese)?
Con tenacia la tradizione cattolica ha difeso il proprio concetto di fede di fronte a ogni pretesa fideistica basata sull´adagio credo quia absurdum est. Anche oggi possiamo trovare un prezioso criterio per confermare questa radicata attitudine nel nucleo dell´enciclica Fides et ratio, quando Giovanni Paolo II rivolge l´invito a «passare dal fenomeno al fondamento » (FR 83). Infatti, al di là dei contemporanei dibattiti di scuola tra metafisici, post-mmetafisici, analitici, fenomenologi ed ermeneutici, l´affermazione del papa intende sollevare la decisiva questione: «È possibile sradicare in modo assoluto [come fa il professor Flores] la considerazione della finitezza dalla questione della sua origine/destinazione?». O, detto altrimenti: «È possibile riconoscere un fondamento agli enti finiti?».
Il problema delle ragioni della fede o della fede in quanto rationabile obsequium pone, infatti, in modo inesorabile, l´interrogativo seguente: «Si dà fondamento?». E, nel caso di una risposta affermativa, «di che si tratta?».
Per affrontare queste domande, in modo che sarà necessariamente troppo rapido, non appaia temerario partire da un dato incontestabile nella sua tenacia: sempre qualcosa si dà a qualcuno.
L´affermazione va intesa nella sua immediatezza, precisando tuttavia che il "qualcosa" – senza ridursi all´ontico (né oggetto, né ente) – è, in un certo senso, tutto assorbito dal "si dà",così come il "qualcuno" non prende la forma dell´io trascendentale (in tutte le sue varianti) con la sua pretesa di costituire il "qualcosa" che si dà.
Comunque questo dato sia stato denominato lungo la storia del pensiero occidentale, negarlo vorrebbe dire ritrovarsi come il celebre "tronco" di aristotelica memoria. In ogni suo atto, l´io empirico – nella sua stessa "carne", che lo radica nel mondo mentre lo spalanca, attraverso il linguaggio, all´altro – è coinvolto in questo dato. E chiunque si impegni nell´impresa – a un tempo teoretica e pratica – della sua rigorosa "riduzione", scopre che esso, alla fine, sempre si ripropone: come la fenice continuamente risorge dalle sue stesse ceneri!
Per considerarlo cominciamo con l´assegnare – almeno per comodità – alla necessaria opera di rigore anche tutte le più o meno celebri Destruktionen del pensiero occidentale che si sono succedute fino ai nostri giorni, aggiungendovi le diverse varianti del non luogo a procedere o della scelta del non poter o voler entrare in materia proprie del contemporaneo pensiero che si definisce o non ricusa di definirsi debole. In tal modo forse si riduce notevolmente l´ampiezza di questo incoercibile dato, ma non fino al punto da intaccarne la forza elementare.

Repubblica 18.3.07
Il 68 di Maselli "Citto" il rosso: "Io, comunista gaudente"
di Paolo D'Agostini

Mentre prepara un film sulla sinistra, il regista di "Il sospetto" e "Lettera aperta a un giornale della sera" rievoca i suoi anni della contestazione

È il ragazzo rosso del cinema italiano. Maselli Francesco, per tutti "Citto". Classe 1930, come Clint Eastwood, Sean Connery e Sandro Curzi, suo compagno di scuola e allievo di marxismo a 11 anni («è lui a riconoscermelo»). L´enfant gâté dell´intellighenzia di sinistra: quando nel ´55 debutta con Gli sbandati lo invita a cena addirittura il Migliore. Il viveur del cinema impegnato. Il comunista gaudente che si diletta di auto d´epoca. «Un concentrato di contraddizioni», e non si sa se lo dice contrito o compiaciuto. Dopo aver progettato, e non girato, un film sulle sorti del comunismo dopo la (vituperata da lui fondatore di Rifondazione) svolta Occhetto, ora colui che scolpì per Gian Maria Volonté il ritratto del comunista clandestino dei bui anni Trenta nel Sospetto, prepara un film sulla sinistra italiana oggi. Ma su questo è blindato: «Non ne voglio parlare, è troppo presto». Ci sono intervistati che ti fanno maledire il momento in cui devi riaprire il taccuino. Decine di digressioni infilate come matrioske una dentro l´altra. Durante questa conversazione avrà citato un centinaio tra conoscenze dirette o di famiglia: si va da Croce e Sinatra a Palmiro Togliatti e Paul Newman, da Pirandello all´attuale Presidente della Repubblica.
L´argomento è il ´68 visto dal cinema.
«Io mi sono trovato in una situazione particolarissima. Militante del Pci, nel ´68 sono membro della commissione Cultura del partito di lì a poco diretta da Giorgio Napolitano. Che da vero bolscevico comprende subito che io come segretario degli autori cinematografici (Anac) creo tra il ´68 e i primi anni 70 un fronte della cultura straordinario. Il cinema italiano era una cosa importante, guidava una corrente di pensiero forte. Da comunista iscritto ero tra i pochi ad aver presentito il ´68. Nel modo più bizzarro. Facendo un brutto film: Ruba al prossimo tuo, tentativo patetico di commedia politica con Rock Hudson e Claudia Cardinale. Mi trovai a Los Angeles nel ´66 ospite di Paul Newman. Diventando amico di Nathalie Wood (poi mi hanno detto che era un colonnello del Kgb) che una sera mi invitò con Marcuse, Mia Farrow e Sinatra il quale mi chiamava "companero Maselli"».
Per sfotterla, immagino.
«Erano le stranezze e la confusione del momento. Rimasi allibito nel trovare interlocutori informati e politicizzati. C´era una temperatura, un´aria. Il presentimento del ´68 di cui noi non avevamo ancora idea. Newman era snobisticamente contento di avere un regista comunista dentro casa. Almeno fino al momento in cui bussò l´Fbi per ricordare che il mio permesso stava per scadere. Tornato a Roma parlai con Napolitano, Ingrao e altri compagni dirigenti dicendo: guardate che noi non ci rendiamo conto. Mi presero per matto, "figuriamoci se dobbiamo prendere lezioni da Marcuse". Quando il ´68 esplode mi trovo immediatamente schierato con il movimento studentesco. Per me comunista era doveroso partecipare a un movimento d´avanguardia: che ci contestava, ma non vuol dire. Con il pieno consenso di Napolitano e anche di Amendola. Me lo ricordo alle nostre "Giornate" alternative al festival di Venezia. Avevo accanto lui e Godard».
Giorgio Amendola con Jean Luc Godard?
«Tutta la mia vita mi ha portato a stare in mezzo, a mediare tra due mondi distanti e incompatibili. La contestazione della Mostra riuscì con le contraddizioni del caso. Pasolini era in prima fila con me, Zavattini, Pontecorvo, Solinas, Gregoretti, Ferreri ma al contrario di molti di noi il suo Teorema lo ritirò col cavolo dal concorso. Io portai avanti da buon comunista la seguente linea: convogliare le energie rinnovatrici, che erano radicali e primarie, verso una battaglia di autentica riforma delle strutture istituzionali culturali. Ottenemmo la riforma dello statuto della Biennale. E poi degli enti cinematografici di Stato: decreto Piccoli (uomo della destra Dc ma più a sinistra di Asor Rosa e Abruzzese) che contro tutti quelli che allora come oggi blateravano di "criteri di economicità" e di "mercato", conia la più bella definizione: "Ruolo dello Stato in campo culturale è quello di produrre il massimo dell´utile sociale e culturale con il minimo della spesa". Non si parla d´incassare e non si sottovaluta la cultura a favore dello "scendere in piazza" come facevano allora i professorini di sinistra. E infine la riforma della Rai».
Bei film frutto della "politica culturale", però, pochi.
«Forse non capolavori né grandi rotture. Però ci sono: La classe operaia va in paradiso di Petri, il mio Lettera aperta a un giornale della sera, I cannibali di Cavani, La Cina è vicina di Bellocchio».
Le personalità forti si erano espresse prima e si sarebbero espresse dopo, forse meglio. Dalla contestazione niente di indimenticabile.
«Nei processi di riforma devi combattere grandi battaglie e creare alleanze, fare compromessi. Basta una frase, un aggettivo, una virgola (nella legge 122 è bastato sostituire all´ultimo la parola "film" con "opera" per dirottare tutti i soldi dal cinema alla fiction) per minacciare tutto il lavoro, scontentare, perché quello che hai fatto ti si rivolti contro. Io che ho vissuto il percorso togliattiano fin da ragazzino - tessera del partito il giorno dopo la liberazione di Roma, a 14 anni e dopo aver fatto il gappista, padrino di battesimo Pirandello, casa mia salotto intellettuale di Emilio Cecchi e Alberto Savinio - ce l´ho nel sangue la pazienza dei processi riformatori. Non m´illudo che si possano tradurre subito in termini creativi».
Perché non le piace il partito di Veltroni?
«Non ha niente di sinistra. Il punto è nell´idea di una società "deconflittuata". Togliatti era l´opposto. La classe operaia deve diventare protagonista delle riforme, contro la classe padronale che pensa solo al suo utile».
Parla di una società che non esiste più.
«Lo dice lei. Veltroni predica l´adeguamento all´esistente. Io non mi adeguo e combatto».

Corriere del Mezzogiorno 18.3.08
L'intervista Francesco Bruno: «Possibile che nessuno abbia visto che stava male?»
Il criminologo di Cogne: caso simile a quello della Franzoni



NAPOLI — «Non c'è dubbio che la vicenda di Battipaglia presenti alcune analogie con il caso Cogne. Il primo elemento che balza agli occhi è l'orario in cui la donna ha consumato l'aggressione a danno dei propri figli, e di se stessa». Per il criminologo Francesco Bruno l'episodio che si è verificato ieri mattina nella cittadina in provincia di Salerno ricorda, per alcuni aspetti, la vicenda di cronaca più discussa degli ultimi anni.
Le analogie con il delitto imputato ad Annamaria Franzoni si fermano qui?
«Direi di sì. E questa coincidenza è facilmente spiegabile: questi propositi aggressivi o omicidiari vengono covati dentro a lungo, per poi esplodere all'improvviso, e la mattina, per i depressi, è il momento peggiore. Comincia una nuova giornata di lavoro e impegni familiari e, con essa, le angosce del malato».
Lei escluderebbe, quindi, un'emulazione, consapevole o meno, di un caso di cronaca così mediaticamente sovraesposto?
«Sì. Non è sentendo queste storie in tv che maturano tali istinti. Ma ci sono altri elementi che meritano una riflessione in questa vicenda».
Quali?
«Qui siamo oltre la depressione: per la mamma di Battipaglia penserei ad una patologia psicotica, un caso di schizofrenia, sia per la scelta dell'arma che per le modalità d'aggressione. Questa donna è un'infermiera: possibile che nessuno, nemmeno in un ambiente di lavoro come l'ospedale, si sia accorto che stava male?».
C. M.

DOCUMENTO DEI CENTOAUTORI

I centoautori hanno elaborato questo testo. Chiediamo al mondo del
cinema, della TV, del teatro, e più in generale al mondo della cultura
e dell'informazione, di sottoscrivere questa lettera aperta. Chiediamo
a tutti coloro che la condividono di firmare individualmente, e di
aiutarci a diffonderla per raccogliere in breve tempo quante più
adesioni possibile. Per aderire è sufficiente inviare una email
all'indirizzo: piuomenocentoautori@libero.it


Ai deputati e ai senatori della prossima legislatura,
ai ministri del futuro governo

chi vi scrive rappresenta il mondo del cinema, della televisione, dell’audiovisivo. Ciò che raccontiamo si forma a poco a poco, mettendo insieme scrittori, registi, attori, scenografi, musicisti, operatori, maestranze: un insieme di creatività e competenze, un grappolo di saperi - studiati, appresi, tramandati.

Oggi, in un momento in cui si parla di paese ‘bloccato’, vorremmo portare la vostra attenzione su alcune semplici riflessioni. E avanzare delle proposte. Non lo facciamo con timidezza, non mormoriamo nei corridoi, non chiediamo la vostra amicizia per vederle realizzate - come forse un tempo avveniva.
Chiediamo queste cose a voce alta, pubblicamente.
In primo luogo la difesa dell’universo dei nostri ‘diritti’, che sono poi la nostra identità. In fondo, l’unica cosa davvero nostra. I nostri ‘diritti d’autore’ - inalienabili, incedibili, intrattabili - sono il frutto delle nostre intelligenze e del nostro cuore, vengono dal nostro vivere nella comunità: è da qui, da questo ‘sentire e narrare’ degli scrittori, dei registi, degli artisti, che nasce e via via si rafforza l’immaginario del paese. Chi vorrebbe rinunciare a questo? Chi vorrebbe avere, al posto di un romanziere, un burocrate? Chi può mai pensare che un portaborse messo lì da un partito possa essere meglio di un poeta?

E’ per questo che vi proponiamo di rovesciare il punto di vista consueto: non stiamo chiedendo facilitazioni, favori, denaro. Chiediamo che l’avventura storica del nostro cinema e di tutto ciò che dal cinema ‘muove’ – il racconto televisivo ad esempio – possa tornare a essere centrale. Vi chiediamo dunque di pensare all’Italia non solo come a una fabbrica da far funzionare meglio o una famiglia di cui far quadrare i bilanci, ma anche come a un ambiente da affrescare, una grande parete chiara, una palpebra bianca su cui scrivere le storie che racconteranno - a chi verrà dopo di noi - ciò che eravamo, ciò che siamo stati, ciò che abbiamo cercato di essere.

Ci sono parole che sembrano dimenticate e che invece vorremmo che tornassero ad avere senso e forza. Parole come etica, trasparenza, competenza, passione. Parole che, una volte rese reali, significano che in alcuni ruoli ‘specifici’ non devono mai più andare persone che rispondano a patronati, ma persone capaci, oneste, felici di essere chiamate a quel ruolo, e ricche di volontà di fare, preoccupate esclusivamente del bene della collettività.
Nel cinema e nella TV, questo significherebbe avere persone disposte ad ascoltare, a proporre e a disporre, secondo coscienza personale e non su sollecitazioni esterne.
Nel governo del paese, significherebbe avere un Ministro della Cultura immerso nel battito vivo del paesaggio intellettuale, capace di dialogare col mondo della creatività, dotato del linguaggio giusto.

Ci sono parole come ricerca, innovazione, sperimentazione, che sembrano diventate impronunciabili - parole che spaventano chi crede che un film debba essere pensato solo per un pubblico chiuso nel conformismo, sconcertato di fronte a qualunque racconto non elementare o nuovo. E invece non bisogna aver paura del nuovo. Perché il nuovo è il ghiaccio che si spezza – e sotto, piano piano, viene fuori una ricchezza che si faceva fatica ad accettare e che in breve diventa poi linguaggio condiviso.

Pensiamo alla parola meno usata di questa campagna elettorale: cultura. Nessuno è contro la cultura, nessuno ne prende le distanze, nessuno confessa di detestarla, nessuno ammette di considerarla un peso, una roba per intellettuali lamentosi. E’ una parola consumata, che non dice più nulla, e perfino noi abbiamo difficoltà a usarla, per l’uso mercantile e falso che se ne è fatto.
E’ una colpa imperdonabile aver logorato questa parola così importante, nella terra in cui la cultura è invece così vicina alle persone comuni: ci camminano dentro quando attraversano le strade, quando passano davanti alle nostre antiche chiese, quando guardano certi palazzi gentili, certe fontane armoniose, o quei lungofiumi che disegnano quinte di case in mirabili teatri all’aperto. Queste persone sono le stesse che provano una comunanza di sentimenti, pensiero e passione quando, al cinema o in TV, vedono quelle stesse strade, quelle stesse piazze, attraversate dal corpo e dalla voce dei nostri attori e delle nostre attrici. La nostra gente ama la cultura, anche se la chiama con tanti altri nomi. Ma la cultura va di nuovo messa al centro del campo di gioco, non va lasciata ai margini: bisogna far circolare le idee, far circolare i film, le musiche, i colori, i teatri, e tutto il resto che ci gira intorno.

Siamo una nazione ricca del nostro lavoro e della nostra cultura, ma proprio in questo settore, siamo dietro a molti, a troppi paesi. Abbiamo dunque bisogno di cambiare. Sembra difficile, ma non è difficile. Sembra avere dei costi, e invece, tanto per cominciare, si potrebbe partire quasi a costo zero: insegnare il cinema nelle scuole; promuovere il lavoro dei nostri documentaristi sui luoghi di lavoro, nelle case, nelle campagne; avere delle vere regole di mercato; ruotare le nomine; far valere persone brave e competenti. Cose semplici, cose abituali in altri paesi. Servirebbe a noi, e a quelli che verranno…

‘Quelli che verranno’, sono i ragazzi. I nostri – e vostri – figli. Sono quelli che nelle loro stanze, davanti ai loro schermi privati, scaricano film dalla rete, talvolta legalmente, ma più spesso illegalmente, arricchendo i provider che usano il nostro lavoro senza riconoscerlo, privandoci dei nostri diritti. Noi riteniamo che sia giusto che gli autori tutelino lo sfruttamento delle proprie opere, arginando la marea montante della pirateria, anche telematica. Ma pensiamo che sia anche giusto che i giovani possano avere accesso ai nostri film senza pagare un costo che li rende di fatto inaccessibili.
E’ qualcosa di cui dovremmo ragionare assieme.

Quando diciamo ‘assieme’, intendiamo dire che, rispetto a quanto accaduto finora, vorremmo mettere le nostre competenze al servizio della collettività, proprio come sarete chiamati a fare voi una volta eletti.
Vi proponiamo di prenderci delle responsabilità ‘dirette’.
Se vorrete avere delle commissioni che ad esempio debbano decidere quali finanziamenti, a quali produttori, a quali registi, sulla base di quali garanzie - non cercate i nomi nella vostra rubrica privata, non chiamate i vostri amici, le vostre mogli, le vostre segretarie: chiamate noi. E non sottobanco, non come consulenti segreti. Ma, come in molti paesi europei, alla luce del sole. Per periodi di tempo stabiliti in cui non scriveremo, non gireremo i nostri film - ma assolveremo solo il compito che avremo accettato di svolgere.

Il cinema - quando una storia o un’immagine è allo stesso tempo semplice e profonda - ha la forza immensa di dirci ciò che non sapevamo, di mostrarci ciò che non potevamo immaginare, nemmeno su noi stessi. Infatti il cinema, e tutto ciò che dal cinema discende, è un’arte semplice. Ma semplice non vuol dire banale, semplice significa qualcosa che sta alla fine di un lungo lavoro. E’ per questo che, quando un film ‘parla’ al pubblico e lo colpisce al cuore, si assiste a una specie di miracolo: lo spettatore, passivo per vecchia definizione, in realtà non è passivo per niente: si anima, prende parte, si schiera, discute: che diavolo è il monolite di Odissea nello spazio? E’ colpa di Mamma Roma se il figlio muore? Marcello, nella sua dolce vita, è un tipo malinconico o è uno stronzo? Ha ragione o no il professor Silvio Orlando a dire che I promessi sposi sono una palla?

La domanda che occorre porsi è questa: di cosa ha bisogno il nostro paese per ritrovare se stesso, per specchiarsi senza paura della propria immagine, immobilizzata in una maschera? Può, chi governa, limitarsi ad avere il semplice ruolo di arbitro nella corsa dei cittadini al benessere economico individuale? Oppure, può limitarsi a chiedere ai cittadini di riconoscersi come comunità soltanto nel rispetto delle regole, delle compatibilità economiche, o di una maggiore equità fiscale?
C’è bisogno di qualcosa di più. Dobbiamo decifrare il disagio, e raccontarlo, cercando nei nostri film, una specie di ‘utopia concreta’, un progetto di ‘futuro possibile’, a portata di mano, una rivendicazione orgogliosa, capace di vibrare in sintonia col paese reale: vedersi rappresentati, vedersi raccontati, aiuta a capirsi.
Perché di questo c’è bisogno: di tornare a ‘vederci’.
Perché l’immagine che oggi ci rimanda gran parte della TV - la TV peggiore, schiacciata a rincorrere un consenso di puri numeri - non è il paese vero. Dove stanno quelle donne così finte, dove vivono quegli uomini così stupidi, quei giovani così vuoti? Chi incontra mai per strada o in un bar gente vestita in quel modo, atteggiata in quel modo, rincoglionita in quel modo?
Bisogna restituire alla TV - questo potenziale grande strumento di democrazia e uguaglianza - il suo ‘occhio’: il che non significa deprimere l’ascolto, non significa non fare spettacolo, non fare intrattenimento, non fare fiction che appassioni il grande pubblico. Significa fare tutto quello che già si fa, ma pensando che chi guarda abbia voglia di vedersi come realmente è - o come realmente sogna - e non come viene sbrigativamente rappresentato.

Abbiamo bisogno di buon cinema e di buona TV perché abbiamo bisogno di un nuovo sguardo. Non solo per noi, ma per gli spettatori, perché è il pubblico ad avere bisogno di un racconto di sé più nuovo, più abitato dalla contemporaneità.
Nello stesso modo, non siamo noi - gli autori, i cineasti - ad aver bisogno dello Stato, ma è lo Stato che deve tornare a chiedersi se non abbia bisogno di noi: per sapere di nuovo chi siamo, dove siamo, come il paese può essere aiutato a ritrovarsi e a crescere.

Vi ricordiamo, per concludere, quanto il mondo del cinema e della TV e del teatro e della letteratura aveva scritto un anno fa, in occasione di una grande allegra manifestazione: “Crediamo che lo Stato abbia l’obbligo di assicurare ai propri cittadini il diritto di accedere alla più ampia varietà possibile di opere - nazionali e internazionali, commerciali e ‘di nicchia’, di qualità e di intrattenimento, di documentazione e di ricerca, restituendo al cinema e alla TV un ruolo di arricchimento culturale. Negli ultimi anni questo diritto si è indebolito, riducendo la libertà di scelta per autori e fruitori, semplificando i messaggi trasmessi alle giovani generazioni, impoverendo intellettualmente e umanamente tutta la collettività.”
E’ da qui che pensiamo si debba ricominciare. Sediamoci, parliamo.


PER INFORMAZIONI:

GIULIA BERNARDINI; cell.: 333/6778229, e-mail: giulia.ber@gmail.com

lunedì 17 marzo 2008

l'Unità 17.3.08
Nazismo, l’onda di ritorno in Germania
di Paolo Soldini


Datemi delle persone mediamente acculturate, come ad esempio una classe di studenti di liceo, una realtà istituzionale fortemente strutturata, diciamo una scuola, e una personalità dotata di un certo carisma come può essere un bravo e stimato insegnante e in una settimana vi creo il nazismo in laboratorio. È la tesi, anzi: la trama, di «Die Welle» (L’onda), un film che esce in questi giorni in Germania. Il regista Dennis Gansel ne ha fatto un’opera di fantasia, con una conclusione tragica e simbolicamente pedagogica: la classe di «nazisti artificiali», trasformatasi in setta assassina, viene sterminata.
Ma la storia è avvenuta davvero, con una conclusione meno truculenta ed è raccontata in un libro dell’americano Morton Rhues che è un classico della letteratura pedagogica e viene letto nelle scuole statunitensi nell’ambito dei programmi di storia ed educazione civica, così come viene proiettato un documentario che ne venne tratto. Rhues, che negli anni 60 insegnava in una scuola superiore di Palo Alto (California), per convincere gli studenti di una nona classe del fatto che sbagliavano a pensare che un’esperienza autoritaria tipo il nazismo fosse «inconcepibile» in una società libera come quella americana, organizzò un singolare esperimento: chiese ai ragazzi di adottare certi riti sociali (come il saluto con il braccio destro che mima il movimento di un’onda) e certe uniformità di comportamento in fatto di linguaggio e gerarchie. Poi ordinò di isolare e di punire chi si rifiutava. Nel giro di qualche giorno la classe si era trasformata in una piccola società di gregari pronti a tutto. Quando, un giorno, Rhues si accorse che persino il preside lo salutava con «l’onda», ebbe paura di essere andato troppo in là e interruppe bruscamente l’esperimento (nel film di Gansel ambientato in Germania l’insegnante, Rainer Wenger, non ci riesce e i giovani precipitano nella tragedia).
Ancor prima di uscire, «Die Welle» ha sollevato un’infinità di discussioni e di polemiche che ruotano, in larga parte, sullo stesso pre-giudizio che fu alla base dell’esperimento di Palo Alto: da noi, nella Germania democratica, liberale e fin troppo individualista in cui crescono i giovani del 2000, «non potrebbe mai succedere». Si parla molto, ma è bizzarro come a nessuno (per quanto ne sappiamo noi) sia venuto in mente di notare che la discussione su «Die Welle» è straordinariamente simile a quella che scosse il paese dodici anni fa, quando uscì «Hitlers willige Vollstrecker», l’edizione tedesca di «Hitler’s Willing Executioners» in cui lo storico americano Daniel Jonah Goldhagen sosteneva una tesi che è, a ben vedere, una sorta di trasposizione in grande delle tesi alla base dell’esperimento di Palo Alto: invece della classe, l’intera nazione tedesca; al posto della scuola, lo Stato e, come figura carismatica, non uno stimato professore ma un diabolico demagogo privo di scrupoli. La «follia» nazista, agli occhi di Goldhagen, non deriva né dalla corruzione né dalla devianza di una parte della società tedesca, ma le è, per così dire, connaturale. Una volta data l’esistenza delle tre condizioni - identità comunitaria, organizzazione politica dello Stato, dittatore in grado di esprimere un «Führerprinzip» - il nazismo viene «da solo» e porta con sé il suo frutto più disperatamente perverso: l’esclusione e l’odio per gli altri, i «diversi», i «non tedeschi», i «non ariani», i «deviati». Esclusione e odio che traggono elemento dall’antisemitismo diffuso nella società della Germania come in quella di tutta Europa, ma solo in Germania sfociano in un universo criminale di annientamento degli ebrei cui - questo è l’aspetto più duro e controverso delle tesi che Goldhagen argomenta con indubbia efficacia nel suo libro - partecipa consapevolmente e con entusiamo l’intera società tedesca.
Forse non è tanto strano che la discussione sui temi evocati da Goldhagen non sia stata rievocata nel momento in cui si attende l’uscita di «Die Welle». Su quei temi ha operato, da subito (e per anni) un meccanismo di rimozione che, insieme con certi aspetti molto forti dell’opera dello storico americano, figlio di un ebreo di Czernowitz sopravvissuto all’Olocausto, ha teso a seppellire molti lavori scientifici sul rapporto della «normale» società tedesca con la Shoah usciti in Germania a metà degli anni 90: dal celebre «Ordinary Men, the Reserve Police Battaillon 101» di Cristopher Browning sulla partecipazione entusiastica di pacifici e miti pensionati della polizia di Amburgo agli orribili eccidi degli Einsatzgruppen nei Paesi Baltici, in Bielorussa e in Ucraina, agli studi di Louis Begley, Elie Wiesel, Götz Aly e tanti altri. Nel dibattito è stato evocato, invece, Jonathan Littell con il suo «Les Bienveillantes», il romanzo di stile biografico che è stato il caso letterario dei mesi scorsi e che, dopo molte esitazioni, sta per uscire anche in tedesco presentandosi un po’ come l’altra faccia della medaglia dei Vollstrecker di Goldhagen: tutti i tedeschi hanno, a loro modo, partecipato, sostiene il secondo; chiunque, messo nelle condizioni di Max Aue, l’ufficiale delle SS protagonista de «Le benevole», avrebbe potuto, secondo il primo, compiere gli stessi crimini considerandoli espressione del proprio ruolo e del proprio dovere verso lo Stato. Tutte e due le posizioni confinano in modo assai significativo, come si vede facilmente, con le scelte della classe di «Die Welle». Non è un caso neppure, allora, che il dibattito sul film sia andato ad arenarsi su un punto che è importante ma, in fin dei conti, non è il più importante e che, soprattutto, aggiunge poco a una discussione che data dalla fine della seconda guerra mondiale e, almeno, dal Processo di Norimberga: quanto sapevano e quanto potevano non sapere i tedeschi «normali» della Shoah e dei crimini nazisti? Domanda oziosa quant’altre poche alle orecchie di chiunque abbia avuto un minimo di frequentazione con i luoghi dell’Olocausto o abbia un minimo di conoscenza, anche indiretta, dei rapporti che si creano tra il fronte e la madrepatria nei periodi bellici. Il Lager di Buchenwald funzionò per otto anni, producendo almeno 30 mila morti, nella foresta di Etterberg, che domina Weimar, la capitale della omonima Repubblica e della Germania letteraria e artistica tra le due guerre. È impensabile che i 100mila e più abitanti della città e dei dintorni non si siano accorti di quanto accadeva nei boschi in cui, normalmente andavano a passeggiare e organizzavano picnic. Un altro dato: alla campagna contro l’Unione Sovietica parteciparono diverse centinaia di migliaia di soldati della Wehrmacht, che furono tutti testimoni delle uccisioni di massa degli ebrei nei territori occupati. Dal fronte i militari potevano scrivere liberamente a casa e lo facevano: quanti milioni di testimonianze raggiunsero la Germania solo per questa via?
Che i tedeschi non potessero non sapere è un dato storicamente acquisito. Le riflessioni su «Die Welle» dovrebbero fissarsi intorno a un altro dato. Quello originario, che motivò l’esperimento di Rhues, l’idea che «qui da noi in America non potrebbe succedere» e la sua versione europea anni Duemila: «Oggi qui da noi non potrebbe succedere». Ma ad Abu Ghraib e a Falluja c’erano dei soldati americani, dal massacro, «tutto europeo», di Srebrenica sono passati solo tredici anni e per le strade di Berlino, di Parigi e di Roma ricompaiono svastiche e croci celtiche, e si «sdoganano» fascisti e nazisti. «Da noi non succede»: ne siamo così sicuri?

l'Unità 17.3.08
Bertinotti: la sinistra forte è utile anche al Pd
Il candidato premier in comizio a Rieti: ricordiamoci che il governo Prodi è caduto a destra
Il presidente della Camera: i democratici guardano al centro, non parlano delle crisi del Paese


Fausto Bertinotti si prepara a fare opposizione, che a vincere le elezioni sia il Pd o il Pdl. Ma proprio per questo, dice, il «voto utile» per chi vuole difendere gli interessi dei lavoratori è quello per la Sinistra arcobaleno. «Veltroni dice di essere un riformista e non di sinistra, ed è vero - dice Bertinotti nel corso di un comizio a Rieti - e il Pd è una formazione di centrosinistra che guarda al centro. Ogni singolo voto per la Sinistra arcobaleno è un modo di “costringere” il Partito democratico a guardare a sinistra. Se saremo tanti, se saremo massa critica, allora il Pd dovrà guardare a sinistra». Bertinotti non è tenero con la forza guidata da Veltroni. Quel partito, dice, non parla di crisi e avanza proposte vicine a quelle delle destre. L’errore di fondo è che il Pd accetta questo modello di sviluppo che ritiene di poter correggere: «È come cercare di svuotare il mare con un secchiello». A prova di ciò Bertinotti cita l’inserimento nelle liste del Pd di Calearo, «il falco della Federmeccanica che ha costretto i metalmeccanici, che hanno le retribuzioni basse che conosciamo, a cinquanta ore di sciopero, a togliersi cioè dalla busta paga il valore retributivo di cinquanta ore di sciopero. Questo dimostra di non aver capito qual è la situazione italiana».
Circa il governo uscente, Bertinotti confessa di non avere nessuna «nostalgia di Prodi», che ha fatto bene alcune cose, come la politica estera, ma ha «sbagliato tutto sulla precarietà»: «Ha fallito essenzialmente nel non aver portato avanti una chiara discontinuità con il governo Berlusconi, nell’aver lasciato sostanzialmente in atto la legge in vigore», dice aggiungendo che «per guadagnare una capacità di intervento bisogna superare la legge 30». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno ci tiene a sottolineare che Prodi «è caduto da destra», ma ricorda anche che «la critica della sinistra è iniziata proprio con la discussione della riforma delle pensioni»: «L’accordo con le parti sociali era bruttino, ma la parte sul mercato del lavoro era brutta e basta».

l'Unità 17.3.08
Nel diario esistenziale di Anders, «Discesa nell’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966», un lungo ma deludente viaggio nei luoghi d’origine
La nostra specie? È senza speranza... Scompariremo come le vittime della Shoah
di Igino Domanin


L’approdo tardivo a una terra natale, spogliata ormai delle sue valenze affettive, devastata e senza radici, dove non ha più senso immaginare una patria. Questo è il senso delle amarissime considerazioni che costellano il fitto diario esistenziale di Anders, Discesa nell’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 pubblicato per i tipi di Bollati Boringhieri a cura di Sergio Fabian, un drammatico reportage, una specie di libro di viaggio nei luoghi d’origine che si rivela però essere la narrazione di una catabasi negli Inferi.
Anders scrive una filosofia d’occasione e non accademica. Non troviamo trattazioni tecniche di problemi metafisici, bensì meditazioni che prendono lo spunto da situazioni concrete. Il filo conduttore è solo l’esperienza quotidiana. Ma non si tratta di un esercizio di saggezza. Non sono aforismi che riguardano la buona vita. Al contrario, Anders, come del resto in tutti i suoi testi ci descrive l’orrore che sordamente si cela dietro le apparenze confortevoli della civiltà tecnologicamente avanzata. Questo volume, però, è particolarmente significativo dei risvolti biografici di Anders ed entra, anche con crudeltà, nelle pieghe più personali del suo pensiero.
Anders, intellettuale ebreo di nazionalità tedesca, esule in America e sopravvissuto allo sterminio degli ebrei, ritorna nella nativa Breslavia. La città ha cambiato nome, è diventata Wroclaw e adesso fa parte della Polonia comunista. Per recarvisi è necessario transitare nei pressi di Auschwitz. Il racconto del libro si apre lì. Anders e la sua terza moglie Charlotte sono in viaggio con la loro auto. Nelle vicinanze del lager. Le vittime della Shoah sono scomparse senza lasciare una traccia del loro morire. Proprio per questo, per via della loro eliminazione affidata a un cieco dispositivo tecnologico, per essere state private di qualsiasi connotazione umana della morte, non è possibile nessuna elaborazione del lutto. Un atmosfera mefitica, un miasma insopportabile si respira nell’aria. La presenza dei morti è invadente, pressante, ingombrante. Chi è sopravvissuto è soverchiato da un’incontenibile vergogna d’esistere. Un fatto che non riguarda solo il mondo ebraico, ma che diventa il crisma universale della situazione storica attuale. Per Anders, infatti, questa è diventata la condizione normale degli esseri umani. Come testimonia il prosieguo del testo, dove, a partire dall’arrivo a Breslavia, si assiste alla descrizione di uno scenario perturbante: l’assoluta mancanza di patria del mondo attuale. Siamo tutti meramente dei sopravvissuti. O dei profughi, solo per il momento scampati a un pericolo supremo. Potremmo sparire dal mondo senza nessun motivo, privati persino di poter depositare qualche segno ascrivibile alla nostra presenza. La nostra specie è senza speranza. Ha costruito sistemi di distruzione, che, se si sono rivelati micidialmente nell’epoca dei totalitarismo, sono definitivamente presenti nel nostro orizzonte. La possibilità della definitiva scomparsa del genere umano è diventa una realtà. Questo potere di distruzione senza limiti è dovuto alla tecnologia che è in grado di annichilire, fino alle estreme conseguenze, la vita. Le conseguenze attuali sono sotto il nostro sguardo. La violenza della seconda guerra mondiale non è un ricordo. Torna a ripetersi. Ma il nostro senso d’umanità pare ridursi. La stato d’eccezione diventa normale.
Per Anders il pericolo cresce smisuratamente nella misura in cui questa situazione angosciosa e solo presentita, ma non può essere immaginata. La nostra sensibilità è dimidiata. Le catastrofi ci vedono solo spettatori anestetizzati ed eticamente indifferenti. La tragedia del mondo ci appare in uno specchio irreale rispetto al quale non siamo in grado d’essere coinvolti. Siamo intrappolati dentro una deficienza emotiva, incapaci di avvertire sensibilmente la tragedia in cui siamo calati.
Questo è l’enigma che ci consegna questo preziosissimo libro. Come espandere la nostra coscienza, come dilatare il nostro mondo psichico fino a entrare in contatto con la minaccia irrapresentabile che aggredisce le fondamenta della condizione umana?

l'Unità 17.3.08
Uno studio italiano sul Dna mitocondriale retrodata il primo passaggio dello stretto di Bering
La conquista dell’America avvenne 20mila anni fa


Le prime popolazioni umane giunsero in America dall’Asia attraverso lo Stretto di Bering: su questo concorda ormai quasi tutta la comunità scientifica. Più controversa è l’epoca in cui avvenne tale colonizzazione. Fino a qualche tempo fa le teorie più accreditate fissavano la prima migrazione all’incirca 13.500 anni fa, assegnando al complesso Clovis del New Mexico (vecchio di 11.000 anni) la palma della più antica cultura originaria. Una serie di nuove scoperte archeologiche ha rimesso tutto in discussione. Ad esempio il sito preistorico di Monte Verde, in Cile, risale a 12.500 anni fa: dunque non solo è precedente a Clovis, ma impone di rivedere anche la data dell’arrivo di popolazioni umane in America: riesce difficile immaginare che i primi coloni si siano spinti, in un millennio, fino all’estremità meridionale del continente.
Ora un gruppo internazionale di ricerca diretto da due genetisti italiani, il professor Antonio Torroni dell’Università di Pavia e il dottor Alessandro Achilli dell’Università di Perugia, apporta nuovi dati al dibattito. Gli studiosi hanno esaminato il Dna mitocondriale di oltre 200 nativi, spostando a 20.000 anni fa il fatidico passaggio attraverso lo Stretto di Bering.
Il piccolo Dna mitocondriale (37 geni in tutto), trasmesso solo dalla madre e caratterizzato da un elevato tasso evolutivo, è una sorta di archivio molecolare: su di esso è registrata la storia genetica dei nostri antenati femminili. Nel caso in questione, più del 95% dei genomi mitocondriali degli indiani d’America appartiene a quattro aplogruppi (linee materne), identificati una quindicina di anni fa proprio dal professor Torroni e definiti pan-americani per la loro diffusione sull’intero continente.
Secondo i risultati della ricerca, pubblicati il 12 marzo sulla rivista scientifica PLoS one, i quattro aplogruppi pan-americani (e di conseguenza la quasi totalità della popolazione nativa) hanno un’origine genetica comune, risalente a 20.000 anni fa.
Quell’epoca segnerebbe quindi l’inizio della colonizzazione del Nuovo Mondo. Il pianeta aveva appena superato l’ultimo picco glaciale quando un gruppo umano proveniente dall’Asia si affacciò per la prima volta su un territorio inesplorato.

Repubblica 17.3.08
La verità sulle violenze al G8 di Genova
Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
di Giuseppe D'Avanzo


Genova: senza il reato di tortura, pene lievi e prescritte per gli imputati

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Oggi la caserma non è più quella di allora: e i "luoghi della vergogna" sono stati cancellati
Manganellate, minacce, insulti, botte e umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di trecento testimoni Episodi documenti, provati
In quei tre giorni poliziotti e carabinieri rinchiusero per ore studenti, operai e professionisti.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
* * *
Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»
* * *
La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.
* * *
Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
* * *
È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.
A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».
* * *
Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?

Repubblica 17.3.08
Londra: "Schedare Dna dei bimbi a rischio delinquenza"


LONDRA - Schedare il Dna dei bambini delle scuole elementari, il cui comportamento indica che potrebbero diventare delinquenti da grandi: è la proposta di un esperto di Scotland Yard, per far fronte alla crescente criminalità in Gran Bretagna. Secondo Gary Pugh, direttore di scienze forensi di Scotland Yard, è necessario aprire un dibattito su come poter identificare il prima possibile i potenziali delinquenti. Nella banca-dati del Regno Unito ci sono i dati di 4,5 milioni di individui, ma la polizia ritiene che ancora non sia sufficiente. «Il numero di delitti che rimangono insoluti indica che non abbiamo le tracce genetiche di un numero sufficiente di persone».

Repubblica 17.3.08
Renoir. I preziosi tesori impressionisti


Al Complesso del Vittoriano a Roma la grande rassegna "La maturità tra classico e moderno"
Alla fine degli anni Ottanta il suo viaggio in Italia da Venezia fino in Sicilia
Già nel 1869 dipingeva fianco a fianco a Monet sulle rive della Senna
Aveva sposato con entusiasmo la causa di quella che all´inizio fu detta "nuova pittura"

ROMA. Al Complesso del Vittoriano s´è aperta la mostra "Renoir. La maturità tra classico e moderno" (a cura di Kathleen Adler, catalogo Skira): e già il primo giorno d´apertura al pubblico, lunghe file all´ingresso preannunciano un successo dell´esposizione, come è d´obbligo per uno dei maggiori nomi dell´impressionismo. Centotrenta opere, fra le quali oltre sessanta dipinti, affiancati da disegni, incisioni e qualcuna (per fortuna non troppe) fra le ultime sculture eseguite in collaborazione con Richard Guino, si stringono nello spazio espositivo, di recente ampliato. La mostra è dunque vasta, e si avvale di prestiti provenienti da molti musei internazionali; nonostante ciò, essa è ben lungi dall´essere la mostra in grado di rappresentare congruamente il tema del rapporto che legò il Renoir post-impressionista all´idea del classico e del museo. Fatalmente, occorre dire, giacché a rappresentarlo idoneamente, quel grande tema, un´esposizione non può fare a meno di presentare opere - come Madame Charpentier e i figli o La bagnante bionda, Gli ombrelli o I bambini a Wagermont, per finire con le Grandi bagnanti di Filadelfia - che sono le bandiere che il Renoir orgogliosamente ingresque, devoto alla composizione e al disegno, innalzò nei suoi magici anni Ottanta. Opere tutte, d´altronde, che non sono di fatto oggi spostabili, e che - se mai lo fossero - non andrebbero altro che a una mostra organizzata dai musei nazionali francesi, da Londra o da New York.
Renoir aveva sposato con entusiasmo la causa della "nuova pittura", come fu detta, prima di prendere fra mille dubbi il nome con cui sarà più nota, la pittura impressionista. Già alla fine degli anni Sessanta, dipingeva fianco a fianco a Monet sulle rive della Senna, alla Grenouillère, luogo di gite domenicali della borghesia parigina sotto l´Impero di Napoleone III: e ritraeva con l´amico i riflessi mobili della luce sull´acqua, e le acconciature delle signore che si confondevano nell´atmosfera. Poi aveva partecipato alla prima mostra (1874, dal fotografo Nadar) dei futuri impressionisti: e di lì in avanti, per un pugno d´anni, aveva dipinto capolavori indimenticabili - Il palco, Sentiero che sale tra l´erba, L´altalena - in cui la luce, scendendo dall´alto, lenta e trepida, spesso attraverso una fronda di verzura, bagnava le cose togliendo loro, con la nitidezza dei contorni, il peso e la fatica dell´esistenza.
Sul finire degli anni Settanta, però, la solidarietà che aveva stretto l´animo e l´azione dei giovani impressionisti va rapidamente scemando: e, per ragioni prevalentemente strategiche, l´uno dopo l´altro si sottrarranno alle esposizioni di gruppo, che proseguiranno con sempre minor entusiasmo fino al 1886. Una fra le ragioni delle prime defezioni risale al 1878: quando Degas riuscì a far approvare la determinazione che rendeva inconciliabile l´invio contemporaneo di opere al Salon ufficiale e alle mostre impressioniste. Renoir fu il primo, allora, a scegliere la grande manifestazione dell´Accademia, condividendo la convinzione che era stata sempre di Manet, che «si vinca o si perda solo al Salon»; inviò già all´edizione del 1879, e in quella successiva ottenne uno strepitoso successo con il quadro di grandi dimensioni raffigurante una signora dell´alta borghesia, Madame Charpentier, circondata dai suoi figli e dalle stoffe, dai tappeti, dai mobili del suo salotto.
Quel dipinto, che pur ancora rinserrava piccoli tesori "impressionisti" soprattutto nei volti e nelle vesti delle due piccole figlie, aveva un sapore d´antico: per le sue grandi dimensioni, per la studiatissima composizione, per la sua ordinata spazialità, per l´analisi degli "affetti" che vi si legge. Renoir vi ripercorreva esplicitamente la tradizione accademica del "ritratto di famiglia in un interno". Il successo che ottenne lo convinse che la conversione alla nuova forma era la via da perseguire; e non appena le condizioni economiche glielo consentirono, egli intraprese quel viaggio in Italia che, riconducendolo alle fonti dell´arte classica, era in grado di nutrirne l´inclinazione a rivisitare il più illustre passato della pittura. Fu in Italia alla fine del 1881. Partì da Venezia e arrivò sino in Sicilia, dove ritrasse Wagner che vi aveva appena portato a compimento il Parsifal (una replica di questo celebre dipinto è oggi in mostra a Roma). E nel febbraio dell´anno seguente, appena rientrato in Francia, scriveva dall´Estaque, dove s´era fermato a rendere visita a Cézanne, proprio a Madame Charpentier del «museo di Napoli», delle «pitture di Pompei» e di Raffaello, concludendo che «guardando molto, credo potrei conquistare la grandezza e la semplicità dei pittori antichi».
Da lì in avanti, disseminati per il decennio, sarebbero venuti i dipinti con cui Renoir riformava se stesso e i suoi anni, diversamente meravigliosi, della giovinezza impressionista. La mostra di oggi li ripercorre, con le inevitabili lacune di cui s´è detto, ma anche con soste preziose (La zingarella, del 1879; Il bagno della Thyssen-Bornemisza; la Donna con fiocco bianco del museo de Il Cairo; il Ritratto di Paul Haviland di Kansas City; le Fanciulle al piano di Omaha).
E va oltre, a cercare nell´età tarda ed estrema quella nuova dissoluzione della forma salda e chiusa del tempo "classico" che caratterizzò gli ultimi anni del pittore, e che fu certo guardata dal Picasso "mediterraneo" al transito fra anni Dieci e anni Venti del nuovo secolo.

il Riformista 17.3.08
Un paese che ha politici che non urlano
Zapatero vince perchè ci crede fino in fondo
di Tiziana Santarsia


Caro Costanzo, sono un'italiana che vive in Spagna da poco più di un anno e, strano ma vero, "ho incontrato Zapatero" si, è proprio così; questa estate mi trovavo a Sanlucar de Barrameda, il "pueblo" sulle foci del Guadalquivir da dove Colombo salpò più volte per i suoi viaggi verso le americhe. Ci avevano consigliato un posticino dove gustare, tra le tante "tapas" tipiche, le tortillas de cammarones. Giunti sul posto, notammo subito che l'assembramento di gente e lo spiegamento di forze pubbliche e cameraman non era né per noi né per le tortillas. Il Presidente arrivò poco dopo tra le ali della folla curiosa e accaldata, si sedette al suo tavolino blindato della modesta taverna e gustò le fumanti tapas; si lasciò riprendere da telefonini, dalle macchine fotografiche dei turisti, si fece abbracciare dalle anziane signore di paese e firmò autografi come da copione. Capii ben presto che non si trattava di una visita di piacere nè di una visita istituzionale, ma che ci trovavamo di fronte a quello che probabilmente era l'inizio della campagna elettorale.
Zapatero era tornato in Andalusia, tra gli elettori che avevano contribuito più di chiunque altro alla sua vittoria nel 2004 per chiedere nuovamente il loro appoggio.
Oggi, alla luce della sua rielezione a capo della Spagna, mi chiedo perché la gente lo ha scelto ancora? Ha forse indovinato la chiave di lettura per una campagna elettorale vincente, o gli spagnoli si sono invaghiti di lui e delle sopracciglia a punta?
La mia non vuol essere una domanda sarcastica dettata dalla necessità di schierarsi a favore o contro, ma è la pura curiosità di chi, alle soglie delle ennesime elezioni in Italia, legge negli occhi e nelle parole dei suoi connazionali tanta incertezza, disorientamento, disillusione e quant'altro.
A parte gli "irriducibili" dei vari schieramenti, mi chiedo quante persone in Italia siano veramente interessate a ciò che dicono i politici. E va bene che anche in politica, come in amore, c'è il gioco delle parti ed ognuno ha il suo ruolo da rispettare. Ma c'è modo e modo: e la comunicazione ha comunque delle regole, un'etica. Non possiamo sempre passare per quelli che fanno spettacolo; persino la gente del paesino dove vivo mi dice "….ah sì, i politici italiani, quelli che si insultano in Parlamento!".
Senza entrare nel merito politico, mi è sembrato che il clima pre-elettorale che si è respirato qui fosse più civile ed improntato alla comunicabilità di un preciso messaggio, quale che esso fosse.
Nel corso dei mesi che hanno preceduto le elezioni ho seguito sommariamente la campagna di Zapatero. Ma so per certo che è stata capillare nel territorio e mirata soprattutto a convincere: a) i suoi sostenitori a dargli la possibilità di continuare, "rispettando il suo programma", sulla strada delle riforme intrapresa nella passata legislatura, e b) parlare con gli indecisi e gli scontenti, per convincerli che tanto ancora si poteva fare per rafforzare la presenza spagnola in una Europa sempre più esigente, a fronte degli innegabili dati di crescita registrati.
Zapatero si è concentrato sulle fasce sociali, per così dire, più deboli e quindi più sensibili, convincendole che la qualità della vita dei cittadini avrebbe continuato ad essere una priorità nel suo governo. E l'ondata di riforme civili che si sono attuate hanno dato forza e peso alle sue parole. Difatti le zone nelle quali il suo partito ha ottenuto il maggior numero di voti sono quelle meno industrializzate e con i maggiori problemi di disoccupazione. Inoltre, ha accontentato gli animi federalisti aumentando le autonomie delle Comunidad (regioni)
Ha martellato i suoi sostenitori dicendo loro che, per governare bene, era necessaria la maggioranza assoluta, per non scendere a compromessi e stringere strane alleanze (e noi italiani ne sappiamo qualcosa).
Insomma "Zp" (zepe), come lo chiamano qui, si è presentato come un abile comunicatore e stratega, carismatico ed anche di bell'aspetto, il che non guasta mai. Nella sua campagna fin dall'inizio ha mostrato serenità, autoironia e sicurezza di sé e delle azioni del suo governo, senza mai eccedere nell'attacco diretto e denigratorio al proprio rivale.
Più volte ha ripetuto che "molte sono le cose ancora da risolvere, ma molte altre da celebrare. Mi piace il paese in cui viviamo, e mi piace la Spagna di oggi ". Una frase stata studiata a tavolino, sta di fatto che ha centrato il suo obiettivo.
E non posso che dargli ragione. Sfido qualsiasi politico italiano, di destra o di sinistra, a dire una cosa del genere e a non essere linciato.
Io da straniera mi ritrovo in una realtà decisamente vivibile (trasporti che funzionano, sanità accettabile, infrastrutture efficienti ecc.), che credo di non poter ritrovare in questo momento in Italia. Nonostante viva nel profondo sud della Spagna.
Secondo me Zapatero ha saputo vendere bene la propria immagine, riscuotendo gradimenti anche all'estero. Spesso si è mostrato con abbigliamento informale, sorridente e rilassato, ed ha assunto un atteggiamento confidenziale con gli elettori mirando, come lui stesso diceva, ad accorciare le distanze tra la politica ed i cittadini. Il tutto in contrapposizione ad un Rajoi (l'avversario conservatore) ancora troppo ingessato nel suo stereotipo di politico tradizionale, serio e spesso poco incisivo, anche se molto preparato e con solide argomentazioni.
Dopo 15 anni per la prima volta i candidati premier dei due partiti più importanti si sono mostrati alla nazione in due faccia a faccia televisivi creando un evento mediatico forse esagerato rispetto a quelli che sono stati poi i contenuti dei botta e risposta, rigorosamente preparati, che però per due sere ha catalizzato l'attenzione di molti milioni di spettatori ed elettori (altro che festival di Sanremo).
Certo, questo non è il paese delle meraviglie, anche qui non mancano controsensi e "buchi neri", ma almeno qui i politici non urlano e non s'insultano …… per non dire altro.

il Riformista 17.3.08
Total Audience. Un nuovo Verbo per confondere il mercato
Il Gruppo L'Espresso rischia di contare le mele con le pere
di Marco Barbieri


Con l'abituale ritardo rispetto ai mercati veri, anche l'editoria italiana sta importando le nuove parole d'ordine, con il rischio di aderire agli slogan, senza dotarsi degli strumenti adeguati a trasformarsi. E come al solito non sa nemmeno tradurli. "Total audience" è il verbo. Che avrebbe un senso, eccome. La stampa ha bisogno di dimostrare - cosa che probabilmente è anche vera - che buona parte dei contatti utili a livello pubblicitario si sono trasferiti sul Web. O perlomeno l'uno e l'altro mezzo costituiscono una efficace integrazione.
Mentre si discuteva di quale fosse il modello di business più efficace per rendere redditizia la grande Rete, negli Stati Uniti, così come nel Regno Unito, si procedeva pragmaticamente per tentativi. Il "New York Times" riduce progressivamente i suoi accessi a pagamento, convinto che l'uso gratuito delle sue notizie diffuse sui siti, sia sufficiente a equilibrare i conti, secondo la vecchia legge tv: raccolgo teste (o con l'intrattenimento o con le news) per poi rivenderle come contatti agli utenti pubblicitari. E la Bbc scopre che in una settimana sul suo sito raccoglie più utenti di quanti spettatori abbiano seguito i singoli programmi tv negli ultimi cinque anni.
E allora? Copiamo. Tra i primi, un anno e mezzo fa, il Gruppo Espresso aveva commissionato uno studio a Eurisko per dimostrare l'esistenza di un nuovo "medium", che nasceva dalla combinazione del quotidiano "la Repubblica" e dal sito Web: 8 milioni di contatti al giorno (circa 6 quelli del cartaceo, circa 2 quelli online, allora: oggi sono quasi 3 milioni). Poche settimane fa Marco Benedetto ha ribadito l'obiettivo, estendendolo a tutti i prodotti del gruppo: non solo quotidiano (meglio: quotidiani) e Web, ma anche il settimanale ("l'Espresso", più gli altri periodici), le radio, le tv. Ogni settimana oltre il 50% della popolazione italiana, circa 33 milioni di individui, si mette in contatto con almeno un mezzo o un veicolo del Gruppo Espresso.
Insomma, ecco la nuova frontiera. Dichiarata ormai anche da Rcs. E gli altri grandi gruppi editoriali non saranno da meno. A parole. Già, a parole. Perché la questione è passare dalla parole ai fatti. E i fatti sono spesso composti di numeri. Dati, cifre. Per i quali l'Italia e gli italiani hanno una consolidata idiosincrasia. E il mercato pubblicitario per anni ha offerto una accondiscendente opacità, vinta solo da qualche eccellenza che non ha fatto scuola.
In questi giorni di campagna elettorale i maggiori istituti di ricerca di mercato e di opinione sfornano previsioni e sondaggi. Magari arrivando - una vera assurdità - a polemizzare con alcuni loro committenti (i partiti o gli editori) perché esagererebbero nell'uso dei loro numeri. Peccato che per le società in questioni la continua campagna elettorale italiana costituisca un'occasione unica di pubblicizzazione dei loro marchi e dei loro servizi. Ciononostante la propensione all'investimento in ricerche di mercato e sondaggi di opinione è in Italia assai sotto la media europea. Spendono poco le aziende. Spende pochissimo la Pubblica amministrazione. Non ci sono serie storiche, non ci sono numeri condivisi. E soprattutto sul fronte dell'editoria.
La storia recente di Audipress merita silenzi e non commenti. Le certificazioni di Ads (accertamenti sulle diffusioni) sono più utili ai contributi pubblici sulla carta, che a monitorare il mercato dell'editoria. In questo contesto sentire parlare di "total audience" può essere motivo di speranza o di sconforto. Speranza di poterci avvicinare alle tanto vituperate pratiche di quantificazione con cui la tv (Auditel sarà il mostro che è, ma almeno è uno strumento che funziona) ha abituato la sua utenza pubblicitaria. Sconforto? Sì, il rischio è che sotto una mano di belletto - nominalistico o di procedura - si continui a voler nascondere i numeri della carta stampata dietro quelli incontrovertibili del Web. Ma di nuovo confondendo il mercato con un improbabile somma di mele e pere.