mercoledì 19 marzo 2008

l’Unità 19.3.08
«T’Ammazzo»: cronache da Bolzaneto

«Bolzaneto è stato un segnale di come questi fatti si possano verificare anche in ordinamenti democratici». A parlare è Patrizia Petruzziello, il pubblico ministero che insieme al collega Vittorio Ranieri Mirati ha condotto la pubblica accusa contro 44 persone, fra poliziotti e medici, al processo per quella notte di orrore a cui furono sottoposte decine di persone fra il 20 e il 22 luglio del 2001 durante il G8 di Genova. Un racconto dell’orrore che riproduciamo attraverso i passi delle requisitorie dei due pm che hanno chiesto condanne per un totale di 76 anni di carcere.

La requisitoria dei pubblici ministeri in aula
«Pestaggi e torture»: cronaca di un orrore

Sette udienze, una mole di lavoro impressionante. È la requisitoria dei pm di Genova su Bolzaneto (la trascrizione anche su www.supportolegale.org.) che ricostruisce passo passo quei giorni: «Abbiamo 200 e rotte deposizioni, tutte precise, dettagliate, univoche e reiterate, gli avvenimenti sono descritti con precisione, in maniera dettagliata e con espressioni chiare e non equivocabili».

Il comitato d’accoglienza: «Facciamo come in Kosovo»
«Le persone offese ci hanno raccontato che all’uscita dai mezzi c’era un trattamento vessatorio: sputi, spintoni, insulti, insulti politici, e anche minacce, particolarmente gravi quando indirizzate verso donne e a sfondo sessuale «entro stasera vi facciamo tutte», «bisogna fare come in Kosovo». Noi lo abbiamo chiamato il «comitato di accoglienza», era la ricezione di chi arrivava. Ci sono descrizioni di calci, sputi, e altro. Sono state descritte situazioni di attesa in questo piazzale, o contro il muro della palazzina, o contro la rete del campetto da tennis. Ad es. tutto il gruppo degli arrestati alla Paul Klee vengono tenuti in piedi sotto il sole contro questa rete. Altri ancora, ed è il caso di due arrestati della Diaz, contro un albero che era - lo abbiamo visto - nel piazzalino. E dobbiamo cominciare a parlare della posizione in cui venivano spesso tenuti: in piedi, gambe divaricate, braccia alzate o lungo il corpo, faccia al muro. Questa posizione è evidente che se imposta per un certo tipo di tempo comporta una sofferenza fisica, ed è evidentemente umiliante per chi la subisce. L’abbiamo chiamata «posizione vessatoria di stazionamento o di attesa», per distinguerla dalla «posizione vessatoria di transito». Abbiamo la testimonianza dell’infermiere Poggi che ci ha ricordato questa posizione, che ci hanno descritto anche molti arrestati, e ci ha detto che nel gergo della polizia penitenziaria veniva chiamata «la posizione del cigno». (Ranieri Miniati)

«1-2-3 viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei»
«Nelle celle sono riferite percosse di vario tipo: manganelli, schiaffi, pugni, pugni guantati, calci, colpo sulla nuca per far sbattere la fronte contro il muro, tanto è vero che parecchi testimoni hanno ricordato di avere visto macchie di sangue sui muri della cella più o meno all’altezza delle teste. Poi abbiamo i lanci... gli spruzzi di spray, sia il venerdì che il sabato, caso emblematico perché è ricordato da tutti, con lo spruzzo su LK, che si sente male, vomita, l’intervento di Toccafondi (medico responsabile della polizia penitenziaria), e poi di Perugini (ex numero due della Digos genovese) chiamato dai carabinieri. Ma non è l’unico caso.
Oltre alle percosse abbiamo poi il riferimento a offese verbali, sia insulti che minacce: si va dalle frasi volgari che a una serie di insulti a sfondo sessuale che a sfondo politico: riferimenti allo stupro, per fortuna limitati alla minaccia, grazie a dio; riferimenti al Kosovo, alla spartizione delle prede; ingiurie politiche varie, l’obbligo di riferire frasi contro personaggi di sinistra, prese in giro su D’Alema, Bertinotti, Manu Chao, che farebbero ridere se non in quel contesto; alcune brutte se non insopportabili, come i continui riferimenti alla morte di Carlo Giuliani, il riferimento agli episodi di piazza ovvero alla morte di un membro delle ffoo e la necessità di pareggiare il conto, per fortuna non vero. Addirittura il teste Giovannetti, che è stato citato dalla difesa, e certamente non è una persona vicina ai no-global, ci ha ricordato che mentre lui era a bolzaneto si era sparsa la voce della morte di un poliziotto tanto che lui si adoperò per tranquillizzare la persona. E ancora altri tipi di minacce politiche: filastrocche come quella di Pinochet “1-2-3 viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei”, la suoneria con Faccetta Nera, abbiamo riferimenti continui al fascismo “viva il duce” “viva Mussolini”. B. ricorda che mentre era al muro ricorda che era venuto un poliziotto che faceva il giochino: “Chi è lo Stato?” “La polizia” “Chi è il capo?” “Mussolini”. Ancora peggio i riferimenti a Hitler, ai nazisti e agli ebrei. F. ci ricorda un dialogo: “Per queste persone ci vorrebbe Mussolini” “Ma no, che Mussolini, ci vorrebbe Adolf e i suoi forni”. I “benvenuti ad Auschwitz”». (RM)

«Vuoi rivedere i tuoi figli? Allora firma»
«All’interno dell’ufficio trattazione atti, le stanze nell’atrio, dove gli arrestati avrebbero dovuto firmare gli atti relativi al loro arresto. Ci hanno ricordato, anche gli stessi appartenenti dell’ufficio, che alcune volte erano gli agenti che andavano nelle celle, ma quasi sempre viceversa. Le persone hanno ricordato pressioni e atti violenti per firmare gli atti. Il caso tipico è della testimonianza di una ragazza a cui viene mostrata la foto dei suoi figli con la minaccia che se non firmava non li avrebbe visti tanto presto... minaccia assai vile, tra l’altro». (RM)

Il piercing vaginale fatto rimuovere davanti a tutti
«Poi due perquisizioni, una della polizia e una della polizia penitenziaria, una nell’atrio e una in infermeria. Anche qui ricordo di oggetti gettati via a casaccio, piercing giustamente rimossi ma in maniera brutale e con minacce, oppure davanti ad altre persone. È il caso della ragazza con il piercing vaginale, obbligata a rimuoverlo con le mestruazioni davanti a 4-5 persone». (RM)

AK, buttata a terra con una mascella rotta
«Ma c’è di peggio: ci sono ricordati più episodi di violenza e percosse nel bagno. Tra cui AK che aveva una mascella rotta e che mentre sta facendo i suoi bisogni viene spinta a terra. Poi abbiamo la mancanza di assorbenti per le donne, cosa ampiamente umiliante e vessatoria: viene ricordato il lancio di pallottole di giornale; addirittura la M. una persona con una certa età, madre, che ha dovuto strappare una maglietta e si è dovuta arrangiare». (RM)

I manganelli e la minaccia di sodomizzazione
«Fortunatamente non abbiamo avuto casi di violenza sessuale, grazie a Dio, ma ci sono state minacce di violenza sessuale sia per le donne che per gli uomini, in molti casi allusivi con l’uso di bastoni o manganelli. Ad es P. è in infermeria nudo e cominciano battute legate all’aspetto del suo membro, del suo aspetto fisico “carino il comunista, ce lo facciamo?”, fino alla minaccia di sodomizzazione». (RM)

La «testa rasata» entra in cella e prende tutti a calci
«Iniziando dal venerdì 20 luglio abbiamo individuato BM, che ha deposto il 30.01.2006: abbiamo la data di arresto sul verbale, anche se non è segnata l’ora di arrivo a Bolzaneto, e l’ora di immatricolazione e di traduzione. BM è arrestato il 20 luglio alle 16.40 ca, preso in carico alla 1.15 dalla matricola, e arriva al carcere alle 3.15. Riferisce di essere arrivato a Bolzaneto e che di essere dovuto passare nel comitato di accoglienza in corridoio dove viene colpito con manganelli. Viene messo in punta di piedi, fronte al muro, mani legate con laccetti dietro la schiena. Ricorda che gli facevano sbattere la testa contro il muro. Ricorda che arrivò una persona rasata con accento emiliano in cella e picchiò un po’ tutti con calci. Ricorda di aver chiesto ma di non essere stato lasciato andare in bagno, ricorda la puzza di urina in cella e le macchie di sangue. Era ferito, ricorda che gli viene dato un sacchetto bianco con del ghiaccio per metterla sull’occhio ferito, e dato che non poteva usare le mani doveva premere la testa contro il muro. Sente rumore di accendino e le urla di un ragazzo. Poi ricorda nella fase finale il passaggio in corridoio dove è preso a calci ed è costretto a dire "duce duce"». (RM)

In ginocchio, sputi addosso e versi di animali
Passiamo a un’altra arrestata del venerdì ET: è arrestata il venerdì verso le 17.30, fa parte del gruppo del carrello di generi alimentari. Ricorda di essere arrivata a Bolzaneto, ricorda i laccetti e le mani dietro la schiena, l’arrivo nel piazzale, gli sgambetti nel corridoio, ricorda una posizione in ginocchio in cella faccia al muro. Ricorda di aver visto EP e FD in cella. Ricorda sputi e versi di animali, espressioni in lingua italiana che non capisce. EP traduce per lei dal francese in italiano. Chiede di andare in bagno e un agente le dice di farsela addosso. Viene accompagnata in bagno e viene percossa nel corridoio. Riconosce l’agente che l’accompagna in bagno come una di quelle che la traduce, le fa sbattere la testa contro il muro. Un agente uomo le dice di lavarsi le mani e quando si avvicina al lavabo viene colpita a calci». (RM)

Spray in faccia due volte e poi bastonate
«Ultimo arrestato del venerdì che esaminiamo è RA, quello che subisce lo spruzzo di spray e che deve essere decontaminato con una doccia e deve stare con una cappa. Ricorda i lacci, di lamentarsi per i lacci. Ricorda il passaggio all’ufficio trattazione atti dove chiede di fare una telefonata e riceve schiaffi. Ricorda che qualcuno in ufficio trattazione atti si mette dei guanti e lo costringono percuotendolo a dire "sono una merda". Viene riportato in cella e deve rimettersi contro il muro. Entra un agente e gli spruzza in faccia per due volte il gas urticante, lui sta male, ricorda la doccia di decontaminazione e mentre la fa viene colpito a manganellate. Ricorda il camice verde ospedaliero che deve mettere sotto la doccia. Poi viene riportato in cella». (RM)

All’operaio di Brescia: «Compagno, io t’ammazzo»
«PB operaio di Brescia che subisce quella vicenda in infermeria di minacce di sodomizzazione. Indossa una maglietta nera con falce e martello gialla e con una scritta di Mao Tse Tung. Questa maglietta fu l’inizio di una serie di guai, perché fu bersagliato per essa. Ricorda nel cortile il primo commento “questo sì è un comunista con le palle”. Ricorda peraltro anche cose positive: in tutti i suoi spostamenti viene accompagnato dal solito agente che cerca di ripararlo un po’. Ricorda vari insulti, ricorda il trasferimento a testa china, minacce, percosse nei corridoi, chiede di andare in bagno ma non l’ottiene, ricorda l’odore di urina, ricorda che durante la perquisizione alcuni oggetti vengono buttati via, ricorda di essere stato colpito con colpi di manganello e di essere stato oggetto di una minaccia “compagno io ti ammazzo” e al suo girarsi di essere stato spruzzato con lo spray». (RM)

Tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001. Due notti. Violenze, umiliazioni. Torture. Genova 2001, l’orrore della casema di Bolzaneto: i manifestanti del G8, 55 «fermati» e 252 «arrestati». Ma quanti davvero con esattezza siano stati «catturati», «identificati», «trattenuti», «curati», non è ancora possibile dirlo con assoluta certezza. È la requisitoria dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati che hanno portato alla richiesta di condanna di 44 persone tra ispettori di polizia giudiziaria, funzionari di polizia, medici, per un totale di 76 anni di carcere. Botte di tutti i generi, insulti razzisti, pestaggi anche «di arti artificiali». «Trattamenti inumani e degradanti» secondo i pubblici ministeri. Che però al massimo sono riusciti a contestare il reato di abuso d’ufficio. Perchè il nostro paese non prevede quello specifico di tortura - i magistrati parlando di Bolzaneto hanno evocato il riferimento alle «tecniche» di interrogatorio usate nella repressione dei tumulti in Irlanda negli anni Settanta - ed è inadempiente rispetto all’obbigo di adeguare il proprio ordinamento alla convenzione dell’Onu che pure abbiamo ratificato 20 anni fa. Ed ecco perchè nel 2009 tutto sarà prescritto. Ha detto in aula la dottoressa Petruzziello: «Abbiamo visto che la tortura è stata molto vicina a Bolzaneto, si sono verificate una serie di sofferenze fisiche e morali continuate, dettate da due dei peggiori fini che la dottrina indica nei comportamenti disumani e degradanti, il fine di intimidazione e costrizione e quello di discriminazione». E ancora: «È stato il segnale, Bolzaneto, di come questi fatti si possano verificare anche in ordinamenti democratici. Non c’è emergenze e non c’è giustificazione». I manifestanti fermati «meritavano il rispetto dei diritti di una persona». E proprio su questo hanno insistito i pm nella memoria di 1000 pagine presentata ieri in cui appunto ricalcano la requisitoria: «La più grave delle violazioni di legge posta in essere dai soggetti del cosidetto livello apicale è senza dubbio quella che riguarda l’articolo 3 della Convenzioneper la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; questa norma infatti racchiude il principio fondamentale dell’inviolabilità della dignità dell'uomo, cui tutte le altre norme si richiamano».

Saluti romani, «viva Mussolini» e «Heil Hitler»
«Passiamo proprio a HJ, citato da IMT: arrestato alla Diaz, ricorda uno spagnolo di nome J con delle fasciature, lui viene dall’ospedale e arriva a ponte x la domenica, e ricorda all’ingresso nel piazzale l’imposizione ad altri di fare il saluto romano e di dire “Heil hitler”. Ha riferito del suo disagio per l’inconveniente di cui sopra, e di questa sua esigenza di lavarsi, e ricorda che gli agenti lo indicavano facendo il gesto di turarsi il naso. Ricorda gli insulti e la stessa cosa che ricorda anche B., un inglese che non ha rapporti con HJ: tra i vari insulti ricorda l’imposizione del giochino “Chi è lo Stato?” “La polizia” “Chi è il capo?” “Mussolini”. Ricorda il trasporto camminando chino, gli insulti alla morte di Carlo Giuliani, di essere andato in bagno con la porta aperta, ricorda AK con la bocca rotta, ricorda un’altra ragazza che aveva dei figli. Ricorda perquisizione e situazione in infermeria: viene portato insieme a un altro, che lo riscontra, ricorda che all’altro viene tolta la cintura e lui viene minacciato con la cintura». (RM)

«Stai zitto, non sei un cittadino ma una merda»
«T. è uno dei pochi italiani transitati domenica, e ricorda di essere arrivato insieme a un inglese che aveva una gamba rotta, RM. Ricorda che mentre era nel piazzale è stato irriso, e minacciato “comunisti per voi è finita”. In cella doveva stare contro il muro e ricorda un’altra cella con le persone con le mani dietro la nuca. Ricorda in cella un tedesco di nome T., uno spagnolo, e ricorda questi appelli che continuano a fare gli agenti, cosa riscontratissima, anche da parecchi appartenenti dell’ufficio trattazione atti che ricorda di aver dovuto fare l’appello degli arrestati più volte. Ricorda di essere stato più volte insultato e paragonato a una capra. Lui disse che fece un intervento dicendo “io sono un cittadino italiano e voglio essere rispettato”, e un agente alla presenza del medico disse “stai zitto non sei un cittadino, ma una merda”». (RM)

«Ne dovevamo ammazzare cento, te gusta el manganello?»
«Arriviamo a BSG, arrestata alla Diaz, arriva a Bolzaneto e ricorda una lunga attesa prima di essere introdotta in cella, ricorda l’etichettatura con il pennarello rosso sul viso, e che altri vennero etichettati in verde. Al momento della perquisizione le sue cose vengono buttate a terra, insulti tipo “troia” e “puttana”, calci durante il transito in corridoio. In cella ricorda alcune espressioni: “Ne abbiamo ammazzato uno, ma ne dovevamo ammazzare cento”, “faccetta nera”, “puttane”, “fate schifo”, “vediamo se Bertinotti e Manu Chao vengono a salvarvi” e poi la canzoncina di Pinochet, e anche una canzona di Manu Chao parafrasata in “te gusta il manganello”. Altri ricordano “te gusta la galera”». (RM)

Gli agenti, le «garanzie» e il senso di impunibilità
«Una osservazione sui livelli di vertice: sicuramente loro non hanno materialmente svolto l’attività di vigilanza davanti alle celle, che è stato svolto da altri che noi abbiamo ascritto ad altro livello di responsabilità. Ma a nostro avviso siccome i livelli di vertice di Bolzaneto erano ufficiali di PG e avevano il dovere di impedire la commissione di reato, erano anche responsabili dell’incolumità delle persone in stato di custodia: avevano l’obbligo di impedire che si verificassero o che continuassero a verificarsi una volta verificatesi. Si è verificato un mancato doveroso intervento per impedire le azioni criminose. Vi è stato ben oltre l’omissione di denuncia: in alcuni casi vi è stata anche quella, ed è sintomatico dell’atteggiamento doloso, ma vi è stato di più, con questa tolleranza delle condotte, che ha di fatto rafforzato la determinazione nello svolgere queste condotte nella convinzione dell’impunibilità». (Petruzziello)

«Brutto nano pedofilo buono per il circo»
«Poi arriviamo ad A. molto basso, ricordato da molti. Cosa dice A.: ricorda alcuni, come una persona più matura con nome tipo Dalla; ricorda di aver dovuto attendere alla rete del campo da tennis in piedi sotto il sole; ricorda l’ingresso; ricorda di aver dovuto stare in cella nella solita posizione; ricorda una serie di insulti che vengono ricordati da molti tipo “nano buono per il circo”. Ripeto su questo punto i riscontri sono innumerevoli, dato che moltissime persone si ricordano di questi insulti. Ricorda che a un certo punto si spruzzò del gas e una ragazza stette male. Ricorda una persona con una gamba artificiale, TM, che di notte non riesce a mantenere la posizione, si siede e viene picchiato per questo. Ricorda poi un episodio: lo accompagnano in bagno un po’ all’ultimo momento, e che il tempo che gli misero a disposizione per fare i bisogni non fu sufficiente e dovette rimanere non proprio pulito, e maleodorante, e quindi ulteriori derisioni. Ricorda un altro episodio con decine di riscontri, e ce lo ricorda addirittura la deposizione dell’agente Astici: A. ricorda che a un certo punto fu accusato di essere un pedofilo, e questo fu fonte di preoccupazione e umiliazione; dal nano non profumato si passò al nano pedofilo». (P)

«Farete la stessa fine di Maria “Sole”»
«KL è la ragazza del vomito. Viene arrestata in via Maggio, ricorda l’attesa vicino alla rete, la posizione vessatoria in cella, ricorda gli insulti “vi facciamo fare la stessa fine di Sole” (Maria Soledad Rosas, l’attivista arrestata nel ‘98 durante un’irruzione al centro sociale di Collegno con l’accusa di ecoterrorismo e poi impiccatasi, ndr), ricorda il cellulare faccetta nera, ricorda lo spruzzo, e il suo vomito di sangue, perdendo quasi i sensi. Si riprende in infermeria dove c’è un dottore con la maschera che indossa una maglietta della polizia penitenziaria, robusto. Si riprende, il dottore chiede di preparare un’iniezione e lei vuole sapere di che cosa si tratta. Il dottore dice “non ti fidi di me?”, lei dice che non vuole fare l’iniezione, e ricorda la risposta “vai pure a morire in cella”». (P)

La stanza dei manganelli e delle canzoncine
«Capo 93: Ingiurie contro AK per averla derisa puntandole contro la bocca ferita il manganello e dicendole “manganello, manganello”. AK: “Sono stata tre volte in questa stanza, c’erano cinque o sei persone, e la porta era sempre aperta; non si è presentato come dottore ma dall’abbigliamento si riconosceva, non so se era verde chiaro o bianco. Mi sono sdraiato sulla barella e il medico mi ha chiesto cosa fosse successo. Io gli ho fatto capire che c’era una ferita per un colpo, lui ha preso un manganello e lo ha avvicinato velocemente fermandosi prima di colpirmi, ha cantato una canzoncina “manganello, manganello”, gli altri intorno si sono messi a ridere con lui. Aveva una quarantina d’anni, lui cantava e gli altri ridevano molto forte”.. Il diario clinico è firmato da Toccafondi (responsabile del servizio sanitario all’interno di Bolzaneto, per lui richiesti 3 mesi 6 giorni 25, ndr), che è presente e indossa un camice. L’identificazione è provata». (P)

Il braccio rotto, ma nemmeno una lastra
«Capo 97: contestazione di omissione d’atti d’ufficio a carico di Toccafondi. La contestazione riguarda il rifiuto del ricovero di OK, atto dovuto in ragione della gravità delle lesioni di OK, frattura scomposta dell’ulna. Esaminiamo il caso: arrestata alla Diaz, immatricolata alle 22.15 di domenica e posta in traduzione lunedì a mezzogiorno. OK aveva fatto querela il 18 ottobre 2001: aveva precisato che in infermeria le avevano buttato le lenti a contatto nell’immondizia. Ha testimoniato: «Avevo un braccio rotto, il gomito sinistro, colpi su entrambe le braccia, sulla schiena e sul collo, il braccio era in una posizione non normale, si vedeva che era rotto; credo che sul lato destro dell’infermeria vi fosse una scrivania, una donna e un uomo, l’uomo con i capelli grigi sul lungo con la faccia rossa e una cappa verde, la donna era bionda; io l’ho guardato e ho detto: “Frattura! frattura!”; la cosa è stata frettolosa, mi hanno dato una crema e una benda». Poi ricorda un secondo passaggio in infermeria: «Era lunedì mattina verso le 11.00, mi sono dovuta spogliare, era un altro medico, i capelli neri, non magro, una polo scura, gli occhiali; c’erano due donne, mi sono dovuta spogliare e girare su me stessa; l’uomo mi ha chiesto se mi drogavo e se avevo problemi di salute; io ho detto “sì, sì, frattura” mostrando il braccio, lui ha alzato le spalle e non ha detto niente; avevo un ematoma sul collo e non riuscivo quasi a parlare ed ematomi sulle braccia”». Chiedemmo se fosse stata rauca, e lei ha risposto di sì. Questo perché nel diario clinico di Voghera era diagnosticata anche la raucedine, oltre il ricovero d’urgenza in ospedale per una frattura all’ulna non diagnosticata a Bolzaneto. Il diario clinico è firmato da Bolzaneto. Abbiamo sentito il dr Caruso. Circa la mancata diagnosi: “Una frattura scomposta può determinare ecchimosi e dismorfismo rilevabile anche senza esami radiografici”. Sappiamo che il 328 al primo comma punisce il pubblico ufficiale che non procede a un atto dovuto per ragioni di sanità: prevede quindi un rifiuto e un atto indilazionabile. Dal nostro prospetto delle presenze sappiamo che nella notte tra domenica e lunedì il dr. Toccafondi era l’unico presente». (P)

Partono i pugni, e il medico non muove un dito
«Capo 108: contestate ad Amenta (Aldo Amenta, medico in servizio a Bolzaneto, per lui chiesti 2 anni e 8 mesi, ndr) lesioni in concorso con Incoronato Alfredo (agente della polizia penitenziaria, ndr) in danno di LGLA. L’episodio è già stato esaminato dalla collega sulla posizione Incoronato. Sul pestaggio ha deposto anche Pratissoli (Ivano Pratissoli, infermiere quel giorno presente a Bolzaneto, ndr): “Ad un certo punto un agente è venuto dentro con un ragazzone, questo G. ero di fianco... Il dr. Amenta era seduto, ho visto questo agente che si è infilato i guanti, gli ha dato un pugno e il ragazzo si è appoggiato al tavolo. Io ho chiesto lumi ad Amenta che ha detto che aveva offeso qualcuno di grosso. Si è rialzato e lo continuavano a colpire. Non c’era Poggi (Marco Poggi, altro infermiere in servizio a Bolzaneto, ndr) e gli ho detto “Oh Marco ma dove siamo capitati?”. Amenta è sicuramente presente, è in servizio venerdì dalle 20 fino alle 8 di sabato mattina, proprio nella fascia oraria in cui transita in infermeria LGLA. La condotta è in evidente concorso morale, confermando negli agenti la sensazione di impunità e che è una delle cause del trattamento inumano e degradante». (P)

l’Unità 19.3.08
IL CASO Perché è stato impedito il via libera. E da chi
Commissione d’inchiesta ecco come è naufragata

«Basti pensare ai fatti di Genova, per i quali ancora oggi non sono state chiarite le responsabilità politica e istituzionale e sui quali l’Unione propone l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta». A pagina 77 del programma di governo dell’Unione (capitolo sulla sicurezza) era scritto a chiare lettere. Qualcuno, però, non lo aveva letto. O aveva fatto finta di non capire. Perché il varo della commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti di Genova è naufragato prima ancora del governo Prodi. Vittima degli attacchi di quel centrodestra che nel 2001 governava il fallimento del vertice e la gestione delinquenziale dell’ordine pubblico (ancora nessuno è riuscito a spiegare cosa ci facessero i colonnelli di Alleanza Nazionale nelle centrali operative del capoluogo ligure in quelle ore di battaglia) ma vittima soprattutto di un fronte tutto interno all’Unione, con Udeur, Italia dei Valori e Socialisti della Rosa nel Pugno pronti a disilludere qualsiasi impegno preso con gli elettori in campagna elettorale. Perché è grazie a loro che il progetto di una commissione d’inchiesta, chiamata a correggere le assurde “assoluzioni plenarie” sancite dall’organo voluto dal centrodestra all’indomani del G8, è naufragato dopo mesi di trattative al ribasso, di compromessi ogni giorno più stringenti e rinvii. Tanto che del progetto iniziale si era optato, anche per evitare le forche caudine dei numeri stretti al Senato, per una commissione monocamerale con poteri molto limitati da istituire unicamente a Montecitorio. Eppure, quando l’accordo sembrava trovato, il banco è definitivamente saltato in commissione affari costituzionali dove la maggioranza è stata costretta ad arrendersi all’evidenza e a mettere nel cassetto ogni desiderio di ricerca della verità sulla gestione istituzionale e politica dei giorni di Genova. E non era bastato nemmeno l’impegno del presidente del Consiglio Prodi che nel novembre scorso aveva provato a mettere sul piatto della bilancia il peso delle sue parole. «La verità su quanto drammaticamente avvenuto a Genova è un impegno preso che non intendiamo disattenedere», spiegò il premier. Impegni che il leader del Pd Veltroni ribadì in una lettera al sindaco di Genova Marta Vincenzi in quegli stessi giorni. Poi la crisi di governo chiuse definitivamente il capitolo.
Massimo Solani

l’Unità 19.3.08
Timothy Ormezzano: nudi e in manette
«Per tutti i segni in faccia mi dicevano “Rocky”... »

A Genova Timothy Ormezzano c’era andato per due motivi: per manifestare, certo, ma anche per lavorare. «Avevo 26 anni e frequentavo un corso di tecniche di riprese. Quel giorno assieme ad alcuni amici avevo ripreso le violenze dei black block e le cariche di piazzale Manin contro le donne della Rete Lilliput».
Che cos’è successo poi?
«A corso Gastaldi, qualche ora dopo la morte di Carlo Giuliani, sono caduto in terra cercando di scappare ad una carica. Una decina di uomini in divisa mi sono piombati addosso e mi hanno ammanettato su entrambe le braccia: da una parte i carabinieri dall’altra la polizia. A quel punto sono iniziate le botte, le manganellate e i pugni. Ho perso i sensi e mi sono risvegliato in ambulanza, mentre mi portavano al “Galiera”: avevo una ferita al sopracciglio destro (otto punti di sutura), un labbro spaccato, ecchimosi al volto e la frattura del processo traverso. Un ossicino vicino all’osso sacro che secondo i medici può essersi rotto solo a causa di un calcio nel sedere datomi quando ero seduto».
Poi la schedatura alla caserma Forte San Giuliano?
«Ero stato arrestato con l’accusa di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, accusa che poi è stata archiviata nel giugno 2006. Là dentro eravamo seduti in terra, ammanettati, e ognuno che ci passava accanto ci prendeva a calci. E poi insulti ed umiliazioni: mi chiamavano Rocky per le ferite che avevo in faccia. Poi ci hanno fatto spogliare per le pequisizioni e ci costringevano a spostarci da una stanza all’altra nudi e ammanettati. Poi ci tennero per una intera notte in una stanza minuscola, in sedici, nudi e in piedi ad aspettare. Al mattino ci hanno fatto salire su un pulmann della polizia penitenziaria: chiesi se potevo andare in bagno dopo tante ore, ma per tutta risposta un agente mi ha colpito alla testa dove avevo la ferita. “E mica vai in hotel”, mi disse. Per ognuno che saliva sull’autobus la storia era la stessa: calci nel sedere appena poggiato il piede sul gradino».
Poi il carcere?
«Esatto, a Pavia. Ma posso dire che in un certo senso quell detenzione durata due giorni è stata la mia salvezza. Lì sono stato curato un po’ meglio e finalmente ero al riparo da altre violenze e torture». ma.so.

l’Unità 19.3.08
Condanne per 108 anni per i 24 no-global

In primo grado sono arrivate condanne per 108 anni complessivi per 24 dei 25 no global imputati di devastazione e saccheggio durante i tre giorni contro il summit dei grandi del mondo. Una sola imputata, Nadia Sanna, è stata assolta per non aver commesso il fatto. I pubblici ministeri avevano chiesto complessivamente 225 anni di carcere contestando a tutti gli imputati il reato di devastazione e saccheggio che prevede pene da 8 anni a 15 anni di reclusione. Un’accusa pesantissima che è rimasta solo per 10 dei condannati che beneficeranno comunque di tre anni di condono. Le richieste avanzate dai pm sono state ridimensionate dai giudici che hanno deciso di non applicare il reato di devastazione e saccheggio alla gran parte degli imputati.

l’Unità 19.3.08
G8: il dovere della verità
di Fulvio Abbate

Il racconto del processo per le violenze, le torture, le vessazioni compiute da poliziotti carabinieri e agenti penitenziari (dinanzi al silenzio complice di alcuni medici e infermieri) a Genova durante il G8 del luglio 2001 non smette di affidarmi una domanda, semplice, necessaria, e forse perfino doverosa: chi si farà carico nel tempo, come dovere civico, delle ragioni di una denuncia che non può restare lettera morta? E questo al di là dell’esito del processo stesso che, se ho letto bene, si concluderà con la prescrizione dei reati comunque accertati. Mi chiedo, insomma, se prevarrà una sorta di realpolitik che prevede in definitiva il silenzio, un silenzio che, sempre nella storia italiana, corrisponde a una scarsa idea della vera legalità repubblicana a favore semmai del ricatto, del timore che taluni apparati dello stato debbano aver garantita comunque l’impunità, perché è meglio così, perché a pretendere chiarezza si corre davvero il rischio di passare per estremisti, a meno che non si desideri destabilizzare il sistema. Non mi stupisce che la destra, perfino quella populista, non senta il problema come uno dei nodi irrisolti della storia civile più recente, mi stupisce semmai che perfino per altri, persone più prossime a noi, si tratta di acqua passata, ma sì, quel che è stato è stato, guardiamo avanti per il bene di tutti. Non mi stupisce che Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, non senta la necessità di spendere una sola parola delle sue su una catena di episodi che narrano la sospensione delle garanzie democratiche, meglio, narrano l’illegalità e l’abuso di potere, del potere. Non mi stupisce che Gianfranco Fini, lui che viene da una storia cui è caro il concetto di "ordine, disciplina e gerarchia" (e lo dico non necessariamente pensando al fascismo!), non abbia mai sentito il dovere di spiegare che ruolo abbiano avuto alcuni uomini del suo partito e del governo che lo vedeva in una posizione eminente nella vicenda che mette insieme i nomi di Bolzaneto, della Diaz e di Carlo Giuliani ucciso in piazza Alimonda, non mi stupisce ben oltre le mille considerazioni che, d’istinto, anche volendo semplificare, potremmo fare sul caso.
Il racconto delle violenze da centinaia di cittadini subite che emergono ancora adesso nel corso del processo mostrano qualcosa di inaudito e di inaccettabile, ed è altrettanto inammissibile che una voce di fondo suggerisca di ritenerle ora e sempre un fatto privato, una disgrazia subita per leggerezza, visto che sarebbe bastato non essere presenti a Genova in quel luglio del 2001 per non ritrovarsi ancora qui a pretendere un risarcimento per le ferite fisiche e morali subite. D’altronde, è noto che la polizia non può andare troppo per il sottile, e via con i mille argomenti dell’inammissibilità di certe accuse. E non basta che la crepa a una richiesta di omertà complice sia giunta anche dal di dentro, da un poliziotto che ha definito alcuni di quei fatti una vera "macelleria messicana".
Chi si farà carico del bisogno di giustizia di coloro che hanno subito, non mi sembra che fra gli argomenti della campagna elettorale in corso coloro che hanno a cuore le ragioni della democrazia fino a serbarla al centro del loro simbolo abbiano speso qualche parola sui nostri fatti che non sembrasse un semplice discorso di circostanza, non mi pare proprio, ma se fosse proprio questo un punto dirimente per non sentirsi estranei a ciò che avverrà nel prossimo aprile. Ha detto Marco Poggi, l’infermiere penitenziario che ha denunciato i fatti di Bolzaneto: "Vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto è questa la mia amarezza".
f.abbate@tiscali.it

Repubblica 19.3.08
"Torture e impunità nell'inferno di Bolzaneto"
Genova, il dossier dei pm: nella caserma tutti sapevano e tollerarono violenze disumane
di Massimo Calandri

Lì dentro ci furono comportamenti crudeli e una sistematica violazione dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali
Gli agenti picchiavano, insultavano e qualcuno diceva che con Berlusconi al governo poteva fare quello che voleva
Alcuni giovani vennero messi in fila e costretti a fare il saluto romano, cantare Faccetta Nera e dire "Viva il Duce"
Vi è stata una volontà diretta a vessare quelle persone per quello che rappresentavano: tutti appartenenti all´area no global
Gli abusi non furono un´esplosione improvvisa: troppo grave il silenzio di tutti Questo ha provato il processo

GENOVA - Nella memoria dei pubblici ministeri di Bolzaneto, il termine Duce compare 48 volte. Mussolini, 8 volte. E 28 Pinochet, 9 Hitler, una Francisco Franco. Nelle 791 pagine consegnate ieri durante il processo al carcere speciale del G8, si ripetono all´infinito quattro sostantivi: rispetto, legalità, difesa, pietà. Ma queste sono parole, scrivono i pm, «cancellate dalla semplice crudeltà dei fatti». Parole annullate da «comportamenti inumani, degradanti, crudeli», dalla «sistematica violazione dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali». Dalle violenze, dagli abusi psicologici, dalle minacce, dalle privazioni, dalle offese: tutte accompagnate da un costante richiamo fascista, con i detenuti costretti ad urlare «Viva il Duce!» e ad esibirsi in umilianti sfilate con il braccio teso in un grottesco saluto romano, mentre un telefonino rimanda sinistra la musica di Faccetta Nera. «Bastardi rossi!». «Voi, dei centri sociali!». «Ebrei di merda!». «Zecche comuniste!». «Bombaroli!». «Popolo di Seattle, fate schifo!».
Luglio 2001, tortura
Tre giorni e tre notti che «non potranno essere dimenticati», spiegano i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, ben sapendo che da sette anni c´è chi gioca col calendario e fa spallucce, contando sulla prescrizione. E però resta questo sofferto documento, di sette capitoli. Che risponde a due istanze fondamentali. La prima è di ordine tecnico-giuridico: fornire le prove inconfutabili di ciò che è accaduto, usando le parole delle vittime e chiarendo perché sono attendibili dalla prima all´ultima parola. La seconda è lasciare un documento storico. Esemplare. Una memoria, appunto, proprio perché nessuno dimentichi. Con l´augurio che il reato di tortura - «questo fu, a Bolzaneto» - venga un giorno disciplinato dal nostro codice penale.
«Con Berlusconi facciamo quello che vogliamo»
Un capitolo, il terzo, è dedicato alle deposizioni dei 209 fermati. Indicati uno per uno. Nome, cognome, scheda segnaletica, fotografia, impronte. È un lungo racconto dell´orrore, basta pescare a caso. Nicola N., Siena, 1981: «Nel corridoio già dall´arrivo deve camminare a testa bassa. Prima di farlo entrare in cella lo fanno inginocchiare davanti alla cella e gli danno due pugni in faccia ed un calcio. Deve stare in piedi con le mani legate dietro alla schiena, ad un certo punto in ginocchio. Ad ogni spostamento viene colpito con calci, pugni, schiaffi colpi a mano aperta nella schiena e ginocchiate nello stomaco. Gli agenti gli dicono di tenere la testa bassa perché è un essere inferiore e non degno di guardarli in faccia, che è una merda e che con Berlusconi possono fare quello che vogliono».
«Ti piace il manganello?»
Ester P., Pinerolo, 1980: «Durante il passaggio nel corridoio riceve calci e sberle al passaggio, e insulti. "Puttana, troia". In bagno l´agente-donna le schiaccia la testa verso il basso sino a quasi toccare la turca mentre dal corridoio gli agenti la insultano con parole: "Puttana, troia, ti piace il manganello?". Dalla cella vede un ragazzo nel corridoio colpito con manganellate ai testicoli. In infermeria deve spogliarsi completamente e la fanno uscire nel corridoio in mutande e reggiseno. Prima della traduzione degli agenti con divisa grigia la fanno mettere in fila con gli altri e fanno fare loro il saluto romano, cantare "Faccetta Nera" e dire "Viva il Duce"».
Il taglio del codino
Adolfo S., spagnolo, Reicon de Olivedo, 1970: «Nel corridoio lo mettono in piedi contro il muro e mentre è in questa posizione descritta, gli agenti gli tagliano il codino. In bagno viene nuovamente percosso con la porta dello stanzino e dove gli agenti buttano nella tazza il codino tagliato e lo obbligano ad urinarvi sopra. Mentre è in corridoio viene riconosciuto da un agente che lo aveva identificato per strada che chiama un collega; lo portano poi in bagno, gli danno due forti colpi, lo chiudono nello stanzino e continuano a colpirlo; poi un agente, che a lui pare indossare la divisa dei carabinieri, gli mostra un distintivo e gli dice: "Avete ucciso un mio collega". Trascorre la notte al freddo, senza cibo e senza acqua e continua a ricevere colpi sino a che al mattino viene portato via».
«Non rivedrai i tuoi figli»
Valerie V., francese, Perpignan, 1966: «Fanno pressione per farle firmare un documento, le danno colpi a mano aperta sulla nuca, le mostrano le foto dei figli sul passaporto e le dicono che se non firma non li avrebbe più rivisti. Riceve anche insulti del tipo: "Comunisti, rossi". Sente urla dal corridoio e da altre celle, e supplicare. Sente che gli agenti fanno versi gutturali come di animali. Ricorda in cella chiazze di sangue e di vomito, e sente odore di urina. Non le danno da bere né da mangiare. Riesce a bere solo un po´ d´acqua da un lavandino, prima di essere picchiata. Ricorda una ragazza americana in cella con lei, Teresa. Viene ammanettata con lei. La rivede nel carcere di Alessandria, e questa volta ha lividi su tutto il corpo».
L´impunità
Non ci furono casi isolati, scatti improvvisi di rabbia. I pm spiegano che «l´istruttoria dibattimentale ha dimostrato una pluralità di comportamenti vessatori perduranti nell´arco di tutti i giorni di presenza degli arrestati». «Vi è stata una volontà diretta a vessare le persone ristrette nel sito, a lederle nei loro diritti fondamentali proprio per quello che rappresentavano: tutti appartenenti all´area no global e partecipanti alle manifestazioni ed ai cortei contro il vertice G8». «Non crediamo ad esplosioni improvvise di violenze. Il processo ha provato che i capi ed i vertici di quella caserma hanno permesso e consentito, con il loro comportamento e con la gravità delle loro consapevoli omissioni, che in quei tristi giorni si verificasse una grave compromissione dei diritti delle persone. Perché è questo ciò che il processo ha provato essere accaduto. Troppo grave è stato il concorso morale in tutte le sue forme, troppo grave la tolleranza, troppo grave ogni mancato dissenso da comportamenti violenti e scorretti, troppo grave anche solo il loro silenzio e la loro inerzia, troppo grave il rafforzamento del diffuso senso d´impunità che ne è conseguito».
La giustizia frustrata
La frustrazione dei magistrati è evidente. Citano Cesare Beccaria, Pietro Verri e Antonio Cassese, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti. «A Bolzaneto fu tortura», ripetono. E per dare forza alle loro argomentazioni, rimandano ad una serie di precedenti internazionali. Ricordano il caso Irlanda contro Regno Unito del gennaio di trent´anni fa, in cui si dà conto delle «torture» subìte dai simpatizzanti irlandesi da parte dell´esercito britannico. Ma a differenza di tutti gli altri paesi, sottolineano, l´Italia non si è mai adeguata alla Convenzione europea dei diritti dell´Uomo. L´ha sottoscritta nell´89, però il codice penale quel reato non lo ha mai disciplinato. Tortura. «Altrimenti, gli imputati avrebbero dovuto essere condannati a pene comprese tra i due e i cinque anni di reclusione». Invece di anni ne hanno potuti chiedere 76, suddivisi tra 46 persone. Che «avrebbero dovuto comportarsi come caschi blu dell´Onu». E invece trasformarono quella caserma in «un inferno».

l’Unità 19.3.08
Sangue e compassione, l’illusione tibetana
di Ugo Leonzio


PERCHÉ I MONACI si ribellano ai cinesi se l’attaccamento alla casa e al proprio Paese è inutile, se tutto è illusione? La risposta è nel cuore dell’insegnamento buddista, che pone al centro della pratica il risveglio (la liberazione) di tutti gli esseri

Che il Tibet sia un paese immaginario inventato dagli occidentali un paio di secoli fa come rifugio dagli illuminismi e poi dalla metastasi della tecnologia dei consumi e dei viaggi «avventura» lo si può vedere dalla falsa coscienza con cui si manifesta con candeline accese e scritte Free Tibet in paesi che per cinquant’anni non hanno mai riconosciuto il Dalai Lama come capo di un governo in esilio. Il Premio Nobel per la Pace, offerto molti anni fa a Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, è la prova di questa dimensione irreale in cui lo abbiamo collocato.
Per chi compra un viaggio «avventura» Lhasa-Kailash-Samye, il Paese delle Nevi è popolato solo da lama persi in meditazioni profonde tra cime di cristallo traversate da mantra accompagnati dai suoni delle trombe sistemate in cima ai gompa. Chi non è lama o almeno un naljorpa itinerante abituato a meditare in «luoghi di potere», sacre caverne o cimiteri, non suscita alcun interesse nel viaggiatore sprofondato nel suo sonno mistico, motivato da un paesaggio di una bellezza profonda e struggente.
Chi va a Dharamsala per ricevere insegnamenti da Sua Santità o iniziazioni di Kalachakra nelle varie parti del mondo in cui questo monaco forte, saggio e ironico cerca di tener viva l’immagine del suo paese, non si chiede che cosa sia veramente il Tibet, i suoi luoghi, la sua storia, affascinante e contraddittoria come tutte. Alimenta esclusivamente la sua ansia di spiritualità e di «compassione», dimenticando un famoso e sostanziale avvertimento del Budda Sakyamuni: «la via della spiritualità è quella che porta più velocemente all’inferno». Chogyam Trungpa, il più intenso e affascinante lama che provò per primo a spiegare il tantrismo tibetano in America, definì i suoi primi allievi, ansiosi di penetrare nei segreti insegnamenti del tantrismo Vajrayana allacciando proficui legami con divinità Pacifiche e Feroci, «pescecani spirituali». Non era un complimento.
È probabile che qualcosa sia cambiato da allora, il buddismo si è diffuso ovunque e in modo imprevedibile, l’immagine di pace interiore che diffonde è un richiamo troppo forte, un antidoto contro la demoniaca avidità che trasforma la nostra mente in un cannibale afflitto da bulimia anoressica. I lama tibetani che oggi danno insegnamenti, conoscono molto meglio i loro allievi e le loro ansie di «altrove», la sete insaziabile di contemplazione & compassione.
Associazioni non governative come Asia, fondata dal grande lama e insegnante dzog chen Namkhai Norbu, costruiscono in Tibet ospedali e scuole dove si insegna la lingua tibetana e mantengono viva, in centri di studio e di meditazione sparsi in tutte le parti del mondo, la tradizione spirituale e le profonde pratiche del tantrismo tibetano che nel Paese delle Nevi rischiano di scomparire.
Eppure, cinquant’anni dopo la drammatica fuga in India del Dalai Lama e i tragici, sanguinosi fatti di questi giorni a Lhasa, il Tibet è rimasto com’era, un paese che continua a essere un sogno, un’utopia mistica ben radicata nelle mente dei suoi sostenitori e che per questo sembrerebbe possedere meno speranze di ritrovare la sua identità della Birmania, che non è un mito ma un territorio buddista con infinite pagode, monaci con tonache suggestive, stupa d’oro, un regime repressivo, eroina, turisti ecc.
Il Tibet, bod come lo chiamano i tibetani, è diverso. Il Tibet è unico. Anche se privato non solo del suo futuro ma anche del suo passato, anche se rischia di essere inghiottito pericolosamente dal «Paese delle nevi», un sogno disegnato genialmente dal mistico pittore russo Nicholas Roerich e costruito con infinita quanto involontaria perizia dalle geniali spedizioni di Giuseppe Tucci nello Zhang Zhung e da una miriade di film, documentari, spedizioni, scalate, viaggi, libri ed estasi pacifiche e feroci, bod sopravviverà.
La sua malìa incanterà anche i cinesi quando l’ansia di forza e di potenza passerà la mano perché il mutamento è la legge dell’esistenza. Questo insegnamento è probabilmente il primo che sia stato dato dal Buddha, nel Parco dei Daini di Kashi, in riva al Gange, insieme alla constatazione che la vita è dolore. Questo piccolo seme di infinita potenza, trasportato negli infiniti deserti tibetani traversati solo da cumuli di nuvole bianche, ha trasformato il Tibet più di qualsiasi altro paese in cui questo insegnamento sia giunto e abbia attecchito.
Ma non sono stati i selvaggi tibetani, di cui si diceva che fossero predoni, assassini e perfino cannibali (sebbene uno dei primi re ricordati dalle cronache antiche, Podekungyal, vivesse all’epoca dell’imperatore cinese della dinastia Han Wu­ti, un paio di secoli prima di Cristo) a svilupparlo. È stato il paesaggio, la profondità dell’orizzonte, l’altitudine che affila l’ossigeno fino a farlo sparire, a creare le Divinità pacifiche e feroci che dominano l’immaginario delle pratiche tantriche rendendolo diverso da tutte le altre forme buddiste di «pianura».
Le religioni nascono nei deserti ma, si sa, niente è più diverso dei deserti. Solo il silenzio li apparenta. Il silenzio è il luogo privilegiato delle apparizioni. Nessuna pratica mistica è più ricca di apparizione del buddismo tibetano. È un’apparizione incessante di divinità pacifiche e ostili, consolanti o persecutorie, assetate di sangue e di sciroppi di lunga vita, quasi tutte descritte scrupolosamente nel classico Oracles and Demons of Tibet da Réne De Nebesky-Wojkowitz (Tiwari’s Pilgrim Book House). Divinità che cavalcano eventi naturali, furori della natura, venti travolgenti, valanghe, instabili abissi e immobili cime, laghi parlanti e salati. Erano queste apparizioni che davano forma alle pratiche e agli insegnamenti esoterici e non il contrario.
Così l’aspetto e la forma di queste apparizioni hanno finito per dividere in tre gruppi (e svariate scuole) l’insegnamento buddista, anche se la leggenda vuole che il monaco Sakyamuni fin dall’inizio desse insegnamenti semplici ad alcuni ed altri, più segreti, esoterici, occulti a quelli che erano in grado di capirli.
Tutti, comunque, conducevano sul sentiero della liberazione. La differenza consisteva nel tempo e nel numero delle rinascite necessarie per il risveglio. Gli insegnamenti segreti permettevano un risveglio istantaneo, nel corso di una sola vita. Per quelli comuni, bisognava armarsi di pazienza. Decine se non centinaia di nascite e rinascite, di transiti tra vita e morte e tra morte e vita (secondo la legge del karma, cioè di causa ed effetto) erano appena sufficienti per sbirciare fuori dai confini del samsara, il regno della sofferenza in cui ci troviamo adesso (di questo, pochi credo possano dubitare e anche chi dubita, perché baciato dalla fortuna, da un lifting ben riuscito o da una fortunata avventura nel regno dei trapianti svizzeri) farebbe meglio ad aspettare le sorprese immancabili e per nulla consolanti del post mortem. Le pratiche che riguardano questo avvenimento cruciale è il cuore dell’insegnamento del tantrismo tibetano e non appartiene ad alcuna altra scuola buddista.
Per i tibetani e soprattutto per il loro celebre Bardo Thos grol, meglio conosciuto come Libro dei morti tibetano, quando il nostro corpo smette di funzionare e si dissolve, noi non andiamo «a far terra per ceci», ma per la durata di sette settimane viaggiamo in un territorio incredibilmente frustrante, crudele e ingannatore. Il nostro grasso inconscio. Tutto il rimosso, il non detto, il negato ci appare interpretato dalla figure sardoniche, irridenti, affamate del coloratissimo pantheon che soggiorna nei regni oltremondani della nostra mente che scomparirà solo alla fine di questo viaggio estremo.
Il libro dei morti tibetano dà a tutti le istruzioni per uscire senza danni da questa imbarazzante situazione e in modo più o meno onorevole. Se riconosciamo che quelle spaventose visioni che ci inseguono, ci minacciano e ci terrorizzano mettendo davanti ai nostri occhi la vera identità di chi siamo stati da vivi, sono il prodotto (illusorio) della nostra mente, istantaneamente l’incubo sparisce e in un raggio glorioso di arcobaleno torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, senza mai saperlo. Saggezza, luce, onnipotente vuoto da cui ogni forma, ogni pensiero, ogni pensiero deriva in una instancabile gioco d’illusione. I tibetani, lama, monaci, gente comune hanno questa certezza che potrebbero condividere con molti dei fisici quantistici che studiano la «teoria delle stringhe». Tutta la realtà è il riflesso iridescente, ma vuoto, del nulla. Niente ha consistenza, niente è «reale». Il dolore, la sofferenza nascono quando non si riconosce questo stato che imprigiona la nostra mente, privandola della sua perfezione felice.
Allora perché ribellarsi a Lhasa? Perché provocare un bagno di sangue e moltiplicare il dolore se tutto è illusione?
Attaccarsi alla propria casa, al proprio paese non solo è inutile ma può essere una forma di avidità che ci proietterà, dopo morti, in uno dei Sei Loka, i regni della sofferenza che costituiscono il samsara, gravido delle nostre passioni.
C’è qualcosa che divide profondamente l’insegnamento buddista e le sue scuole principali, Hinayana, Mahayana e Vajrayana. La compassione.
Nell’Hinayana si persegue il risveglio da soli. La pratica è etica, morale, devozionale. Ciascuno percorre da solo il Sentiero, essenziale è liberarsi. Mahayana e Vajrayana, invece, mettono al centro degli insegnamenti la Compassione, che vuol dire non uscire dal samsara finché anche il più piccolo, il più insignificante degli insetti non sia stato liberato. Il risveglio di tutti gli esseri è il punto essenziale. È la compassione a condurre, prima delle preziose pratiche occulte, sul sentiero irreversibile del Risveglio. Irreversibile, perché anche se l’illusione ci trascina nel sangue, non ci permette mai di scordare l’irrealtà di quello che stiamo vivendo.
C’è un insegnamento più prezioso di questo?

l’Unità 19.3.08
Sotto il mantello i libri «proibiti» si svelano
di Anna Tito


PARIGI Una mostra «vietata ai minori di 16 anni» presenta, per la prima volta al pubblico, scritti erotici, immagini e documenti: nei 350 pezzi un mondo di godurie in bordelli, prigioni e conventi...

«Attenzione: vietata ai minori di sedici anni: alcune immagini possono turbare la sensibilità dei più giovani» avverte all’ingresso la spettacolare esposizione su L’Enfer de la Bibliothèque. L’eros au secret, allestita a Parigi, nella Grande Galleria della Bibliothèque Nationale de France (www.bnf.fr) - fino a sabato - e dedicata alle collezioni «proibite» di «opere piccanti e licenziose» che, secondo la Chiesa, «spingevano l’uomo a peccare». La mostra «evento culturale dell’anno» presenta una serie di scritti erotici, libri, documenti, immagini che svelano un mondo di anonimato, di pseudonimi, di boudoirs, di bordelli, di conventi e di prigioni, a dimostrazione del fatto che la celebrazione del sesso data di lungo tempo: vi compaiono, fra gli altri, i manoscritti sulle estreme godurie del famigerato divino marchese, Donatien-Alphonse de Sade, nonché le prime fotografie erotiche e pornografiche scattate in Francia nell’Ottocento. Si prosegue con le stravaganti lubricità del poeta dell’erotismo Guillaume Apollinaire, passando per le prime espressioni della fotografia pornografica e alle più di duecento opere giapponesi, essenzialmente incisioni e libelli xilografici del tutto inediti dell’epoca Edo (1600-1868). A lungo vituperate dai benpensanti e nascoste «sotto il mantello», le opere catalogate nella sezione Inferno vengono per la prima volta mostrate al pubblico.
Apre la retrospettiva la definizione di «Inferno» tratta dal Grande Dizionario Universale Larousse del 1870 in quanto «luogo chiuso di una biblioteca in cui vengono custoditi i libri di cui si ritiene pericolosa la lettura»: fra i 350 pezzi selezionati, pertanto, non figurano opere suscettibili di turbare l’ordine politico, ma soltanto immagini lascive e «disoneste», messe al bando per «oltraggio alla morale e al pudore».
Ai visitatori viene proposto un duplice percorso: la storia della collocazione speciale Inferno da un lato, a partire dalla maniera in cui si è costituita - con millesettecento opere - e si è evoluta sotto il regno di Luigi Filippo intorno al 1840. In quanto clandestine, le opere sfuggono per definizione al deposito legale e l’Inferno, negli anni in cui si perseguitano con medesime costanza ed energia i libelli politici e gli scritti pornografici, si incrementa soprattutto con i sequestri, e l’Ottocento divenne il secolo d’oro della «letteratura infernale», grazie anche alla censura che rendeva incrementava il commercio «sotto il mantello». Accrescendosi l’offerta e con i nuovi divieti dovuti alla nascita della pornografia, se dell’Inferno, nel 1876, facevano parte seicentoventisei volumi, nel 1909 Apollinaire ne recensiva ottocentoventicinque.
Dall’altro lato abbiamo il contenuto dell’Inferno: i primi disegni risalgono al XVI secolo, ma l’epoca che per eccellenza celebra l’erotismo e la pornografia è il Settecento, «il secolo del libertinaggio» per l’appunto. Nei disegni del periodo emerge la continua ricerca del piacere e le opere raffigurano enormi organi sessuali maschili, spesso celati sotto lunghi mantelli, concezione spensierata e allegra del libertinaggio destinata a svanire con Sade e la sua concezione del «piacere» come «sofferenza» e l’erotismo come un qualcosa di brutale e infausto. Inoltre, gli scontri politici del periodo vennero a servirsi della sessualità e della pornografia: in non pochi componimenti la sovrana «austriaca» Maria Antonietta viene accusata di rapporti intimi con non pochi partner, in altre invece si condanna la perversione del clero.
Compaiono anche alcune guide, quali L’almanacco degli indirizzi e delle signorine di Parigi (1791), che segnala gli indirizzi dei migliori bordelli della capitale e le prostitute più belle. Vicino al nome della «mademoiselle» viene indicato il suo tariffario, nonché la specialità. La passeggiata nell’Inferno prosegue con lo «scabroso» romanzo di Apollinaire, Le 11.000 verghe, del 1907, con abbinati disegni delle scene erotiche del romanzo; altri testi «scabrosi» sono un’edizione originale de I fiori del male (1857) di Charles Baudelaire, condannato per «oscenità» e destinato a rivoluzionare la poesia europea, nonché gli scritti più significativi di un altro «poeta maledetto», cantore della dissoluzione e del piacere, Paul Verlaine. Passando al Novecento, troveremo, fra gli altri, Le con d’Irène (Il sesso di Irene) del 1928 di Louis Aragon, oltre a Histoire d’O, per dirne soltanto alcuni.
Viene a concludere la retrospettiva il poema Onan, con un’acquaforte di Salvador Dalì (1934), realizzata automaticamente con la mano sinistra mentre si masturbava con la destra: per Marie-Françoise Quignard, una delle curatrici della retrospettiva, sul disegno compare al centro una grande macchia di sperma, è «un intervento diretto». E prosegue: «Intendiamo anche far capire questa lingua, invogliare a leggerla, poiché spesso è molto bella».

l’Unità 19.3.08
Nel nuovo volume di Giacomo Marramao la proposta per l’inizio di un nuovo lessico per vivere il nostro complicato presente. Con il dialogo al centro
Senza fretta, con passione... la filosofia come pratica per sopravvivere alla modernità
di Gaspare Polizzi


La collana «incipit» di Bollati Boringhieri ospita l’ultimo libro di Giacomo Marramao, La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo (pp. 291, euro 10,00), «introduttivo» forse perché propone l’inizio di una nuova filosofia all’altezza del presente. Nel suo titolo, felice, il libro intende risvegliare la «passione» della filosofia rispetto al presente, il suo coinvolgimento con l’attualità che dovrà farsi anche «passione», subire il peso del presente, oltre le «passioni tristi» prodotte dalla crisi delle aspettative nel futuro e dall’affermarsi della sindrome della fretta e dell’intempestività.
Marramao presenta un lessico che mostri come «dietro le parole più familiari del nostro lessico si nascondano i paradossi più inquietanti (ma anche più fecondi) della nostra esperienza». Un lessico per quella nuova modernità che ha esteso la modernità-nazione, ponendoci dinanzi a un «passaggio» contingente e incerto, senza tuttavia trapassare nel coacervo del post-moderno, senza rompere con la matrice costitutiva della modernità. Un lessico che nella trama logica delle sue voci - Passaggi, Dilemmi, Costellazioni, Confini, Endiadi - propone un ordine circolare, a sostegno di un pensiero «forte», nell’ambizione di delineare «la costellazione della nostra modernità-mondo» tramite la «creazione di concetti nuovi» e la «ridefinizione di vecchi concetti».
Si tratta quindi di un lessico «filosofico», perché alla filosofia è affidato il compito, difficile, di tracciare una via, in una situazione spirituale che Marramao vede analoga a quella vissuta da Socrate nella polis ateniese del V secolo a. C., con la differenza che oggi cosmopolis è un multiverso culturale che intreccia tradizioni, lingue, religioni nella miscela nuova del glo-cale, di una globalità che si mescola al localismo. Ma la via è ancora socratica, un dialogo che oltrepassi le presunte certezze dei sapienti e il relativismo senza sbocco dei sofisti; ecco che la filosofia torna a proporsi come «una pratica relazionale che si serve del medium del linguaggio per porre in esercizio uno sguardo spiazzante sulle nostre realtà quotidiane».
Se «la filosofia è l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti» (Deleuze - Guattari) Marramao accoglie in pieno la sfida di un impegno teoretico all’altezza di un’epoca che inabissa ogni spinta progettuale nell’«eternizzazione del presente», ma rende marginalmente possibile un «universalismo della differenza», un’ontologia contingente per la sfera pubblica globale della «modernità-mondo». Perché è urgente un lessico filosofico per la società tardo moderna? Il nocciolo della proposta di Marramao sta in una linea che attraversa da lungo tempo la sua ricerca, da Potere e secolarizzazione (1983) a Kairos (1992), due libri fortunati, più volte tradotti, usciti recentemente in nuove edizioni, che non casualmente pongono a sottotitolo «le categorie del tempo» e «apologia del tempo debito»: la ricorrente riflessione sul tempo e sull’esperienza. The time is out of joint, per dirla con Amleto; le nostre vite sono fuori asse rispetto al presente, piegate nella coazione a ripetere di un «futuro passato».
Due soli riferimenti per esemplificare la «vocazione» insieme teoretica e politica del libro. Nelle Costellazioni viene riformulata la simbologia del kairòs, in un efficace confronto con la sindrome della fretta. La dimensione cairologica di una temporalità complessa si traduce nell’espressione di una risposta etico-politica all’usura dei tempi, evoca un tempo opportuno in grado di «acquisire una politica del possibile e del contingente intrecciata a un’etica della finitudine», una «politica universalistica della differenza».

Repubblica 19.3.08
Heidegger. L’ossessione dell´Inizio. Escono i "contributi alla filosofia"
di Antonio Gnoli


Era una sorta di sfida notturna che il pensatore sull´orlo del suicidio lanciava a se stesso e alle proprie frustrazioni: tutto poteva ricominciare
Si aggrappava a una verbalità fantasiosa con parole inconsuete
In questo periodo tormentato vedeva infiochire la luce di "Essere e Tempo"
Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva crescere solo nelle radici
Erano lontani i tempi in cui sbeffeggiava il kantiano Cassirer

Fu sul finire del 1935 che una nube di disperazione cominciò ad avvolgere la mente di Heidegger. Erano gli anni del delirio quelli che si annunciavano per la Germania, che aveva posato il proprio sguardo aggressivo sull´Europa e sul mondo sognando segrete rivincite. Pochi allora constatavano la presenza di un virus che avrebbe lentamente trascinato una nazione dal trionfo alla catastrofe. E quell´uomo - piccolo, duro, schivo, arrogante che, come dopo una tempesta metafisica , aveva prodotto le pagine scintillanti di Essere e Tempo - avvertiva che qualcosa stava sfuggendo alla presa ferrea del suo pensiero. Era il segnale per una ritirata: una guerra dello spirito si stava concludendo e un´altra più dolorosa sarebbe iniziata.
La baldanza con cui, solo un paio d´anni prima, aveva ordito, il discorso del rettorato, lasciò lo spazio ai dubbi, alle incertezze, alla miseria del proprio tempo. Come un lancinante presentimento, egli avvertiva che la filosofia - che avrebbe dovuto illuminare il cammino della nazione, scoprire le virtù originarie di un popolo, sollevare il potere dalle mediocri incombenze - non possedeva né la forza, né la lingua per assolvere a quei compiti. Si sentiva come un giocatore di poker cui la storia aveva letto il bluff. Esattamente a quel punto della vicenda egli non era un nazista deluso, ma un nazista incompreso. Lo avevano voluto a capo di una prestigiosa università, lo avevano caricato di un compito immane, il rinnovamento spirituale di una nazione, avevano sperato che fosse assimilabile a grandi progetti. E lui, aveva immaginato di poter prendere per mano il nuovo corso della storia, farne l´emblema di una filosofia che, malgrado tutto, aveva intuito - molto prima che l´hitlerismo diventasse il pane quotidiano dei tedeschi - quanto di inevitabilmente oscuro si nasconda nella gettatezza dell´esserci, ossia in quell´uomo radicato alla terra, senza una ragione precisa, né una meta da raggiungere.
Con Essere e Tempo - il capolavoro pubblicato nel 1927 - Heidegger si era inoltrato nella notte novecentesca. Aveva dondolato sugli abissi del pensiero, demolendo i grandi edifici della tradizione. Aveva "tradito" Husserl, aveva combattuto la sua personalissima battaglia contro le grandi macchine del pensiero, confidando nella forza selvaggia del suo talento filosofico. Si sentiva un uomo in guerra con il mondo, con il vecchio mondo. Perché Heidegger si considerava il nuovo. E quando il nuovo non produsse ciò che si aspettava, quell´uomo, complicato, oscuro e tagliente, improvvisamente smarrì le certezze. La notte di granito nella quale si era avventurato sembrò improvvisamente più cupa, e aspra. Meno ospitale, anche per una natura ferina come la sua. Erano lontani i tempi di quando in tenuta da sciatore sbeffeggiava il kantiano Cassirer, erano lontani gli anni di una giovinezza trascorsa a cercare la radura a colpi d´ascia nei boschi della Foresta Nera.
Poco o nulla si capirebbe dei Beiträge (Contributi alla filosofia, curati splendidamente da Franco Volpi, traduzione di Alessandra Iadecicco e Franco Volpi, edizioni Adelphi, pagg 497, euro 60), pagine tormentatissime che Heidegger scrisse tra il 1936 e 1938, se non si tenesse conto del fallimento che il filosofo si era trovato a vivere. Non gli bastava che un corte variopinta di pensatori avesse visto in Sein und Zeit un´antropologia nuova e a suo modo originale. Lo infastidiva vedere crescere intorno alla sua figura il consenso, l´attesa, la venerazione.
Non si viveva come un santo da amare, un mandarino da ubbidire, un filosofo da capire. Era Heidegger, che con una mazza ferrata aveva demolito tre quarti abbondanti del pensiero che lo avevano preceduto. E ora quella mazza era riversa ai suoi piedi. Che cosa si illudeva di aver ottenuto? Che cosa gli restava da vedere? Tutto intorno c´erano rovine. E per l´ultima volta l´apocalisse del pensiero sembrò una cosa seria. Ma non si andò oltre. Perciò ricominciò con una furia rivolta contro se stesso e non solo verso gli altri. Al di là dei morti e feriti che aveva lasciato sul campo, i Beiträge erano la notturna sfida che Heidegger lanciò a se stesso, alle proprie frustrazioni. Cominciò ad accarezzare l´idea che una altra lingua potesse spezzare la catena dei suoi dubbi. Perciò ricominciò, tutto da capo.
Era ossessionato dall´Inizio. Se c´era un´origine di tutto, come renderne conto. Dopo il fallimento nel quale era incorsa la filosofia, come riuscire a pensare l´Inizio fuori dal perimetro della metafisica? Tutto ciò che Heidegger aveva fin lì pensato, scritto, divulgato, si mostrava inadatto a soddisfare la domanda. D´altro canto, rifondare un sapere, restituendogli quella sovranità che solo l´origine era in grado di legittimare, avrebbe richiesto un taglio netto con tutto quanto in passato si era pensato e prodotto. Quello che fece con barbara eleganza non bastò. Furono terribili quei mesi per Heidegger. Si trovava in un cul de sac, in una trappola che lui stesso aveva costruito. Scrisse all´amico Karl Jaspers che si sentiva «crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami». Pensò al suicidio come a una via d´uscita. La depressione incalzava, notturna come i suoi pensieri. La follia, quella stessa che aveva aleggiato sulle teste di Hölderlin, Kierkegaard e Nietzsche, sembrava approssimarsi. Costoro, commentò nei Beiträge, patirono lo sradicamento a cui è sospinta la storia occidentale. La stessa tonalità emotiva gli accadde di rivivere.
Solo pochi anni prima, gli era parso di intravedere la verità: selvaggia, brutale, luminosa. E quelle mani da contadino, forti e tozze, l´avevano raccolta, protetta, scagliata come un´ammonizione contro l´Occidente. Ma nel periodo tormentato dei Beiträge vedeva infiochire la luce scandalosa di Essere e Tempo. Non che quell´opera fosse da ripudiare, ma sempre più, ai suoi occhi, essa somigliava a un addestramento alla guerra, più che alla guerra stessa. Poco o nulla nel suo pensiero appariva disinvolto, leggero, veloce. Ossessiva la mente tornava alla lingua. Dove la vecchia terminologia non serviva più, là occorreva rifondare gli etimi, portare a nuova vita le parole. In quell´abisso di logore parole in cui era sprofondata la filosofia Heidegger si aggrappava a una verbalità fantasiosa. Lanciava espressioni inconsuete come "il salto", "il fendersi", "il gioco di passaggio", "i venturi". Somigliavano a fughe nate da uno spartito oscuro, con le quali distinguersi dai vecchi, ambiziosi e disonesti sistemi filosofici. Dai quali più nulla di decisivo si sarebbe appreso.
Heidegger conservò un singolare e tormentatissimo rapporto con la storia culturale dell´Occidente. Ne percepì con chiarezza le tensioni contraddittorie, scrutò il fondo limaccioso su cui le sue categorie poggiavano. Perfino la ricchezza concettuale, che da Platone e Aristotele in poi si era dispiegata dando vita alla tradizione, gli apparve simile a una costruzione che imprigionava piuttosto che liberare l´uomo. Occorreva un gesto radicale, un pensiero che agisse dall´interno, ma al tempo stesso sopravvivesse all´implosione. Egli lo ricondusse a una parola soprattutto, che pose come sottotitolo ai Beiträge, una parola che in quegli anni cominciò a fargli intravedere una possibile via di uscita: Ereignis, "Evento".
Nella nostra percezione, pensiamo l´evento come ciò che accade, e quell´accadere trattiene qualcosa di eccezionale. Nel linguaggio comune l´evento conserva qualcosa di irripetibile. Una manifestazione sportiva, un grande incontro musicale, il congiungersi di due amanti possono diventare altrettanti eventi. Heidegger dissolse la natura comune dell´evento e riportò la parola all´essenza stessa dell´esserci, alla sua finitezza, tanto più drammatica in quanto testimone della fuga degli dèi. L´Ereignis heideggeriano era ciò che stava nel mezzo tra il Dio che non c´è più e la storia dell´uomo che è finita. È in quello scacco nel quale la natura antropologica è gettata, in cui tutto sembra deciso e finito, che può originarsi l´altro Inizio. In che modo? Con quale possibilità di successo?
Fino ad allora il pensiero dell´Essere era stato un immenso equivoco, ma anche una formidabile macchina tesa ad occultare l´aletheia, la verità. Qualunque istanza denigratoria doveva tener conto della potenza di quel pensiero e del fatto che senza quell´errore prolungato, quel fraintendimento colossale nel quale si era trovata la metafisica non ci sarebbe stato nessun altro inizio. Dopotutto, bisognava essere grati agli acrobati del pensiero, agli antichi eroi della filosofia, ai sistematici tentativi del pensiero moderno, perché dal fallimento, dalla distruzione del loro teatro della rappresentazione, poteva sorgere l´Ereignis non come distanza tra l´esserci e l´Essere ma come coappartenenza dei due momenti.
Non sappiamo fino a che punto il pensiero di Heidegger, ormai avvitato nell´oscurità della parola, fosse consapevole di avanzare verso un nuovo fallimento. Poteva l´Ereignis divenire l´asse portante di un nuovo sapere sovrano? Un sapere che per sua stessa ammissione è privo di utilità e non ha nessun valore. In uno sforzo dagli accenti drammatici aveva scritto: «La nostra ora è l´epoca del tramonto», e questa epoca «è conoscibile solo per coloro che vi appartengono. Tutti gli altri devono temere il tramonto, e dunque negarlo e rinnegarlo. Per costoro, infatti, esso è solo debolezza e una fine». Nel tramonto heideggeriano, così diverso da quello scrutato da Spengler, non c´era rassegnazione, declino, esaurimento, ma lo spazio entro cui l´Ereignis avrebbe dato vita all´altro Inizio.
Consapevole che ciò non bastava, Heidegger immaginò che da quel tramonto sarebbe infine nato l´ultimo Dio. Pensò, con la solita arroganza, che non a tutti si sarebbe offerta la possibilità di raccogliere la prima luce dell´ultimo Dio. Solo ai pochi venturi spettava, tra ritegno e reticenza, il compito di un´intima celebrazione. Il Dio immaginato da Heidegger era radicalmente diverso dagli dèi che erano già stati e dal Dio cristiano. E non era l´ultimo in quanto veniva dopo tutti gli altri. «L´ultimo», scrisse con tono perentorio, «non è una fine, ma il conchiudersi in sé dell´inizio». Ossia, ancora una volta, il discorso finiva sulle spalle dell´Ereignis, dell´Evento sempre più intriso dell´odore della salvezza e del sacro.
Quelle tormentate pagine esoteriche sembravano staccarsi dalla perentorietà che solo pochi anni prima fermentava L´autoaffermazione dell´università tedesca. Quel discorso tagliato da una luce sinistra si concludeva nientemeno che con una frase di Platone: «Tutto ciò che è grande... è nella tempesta». Quella tempesta si era trasformata in tramonto. E il tramonto in un nuovo Inizio. Che posto poteva ancora esserci per l´Heidegger nazista?
Nelle sonorità dei Beiträge troviamo considerazioni acutissime sull´idealismo e la scienza, sul nichilismo e Nietzsche (proprio in quegli anni Heidegger aveva iniziato i seminari che lo avrebbero "distrutto") e aperture ambientaliste anticipatrici che invitano al tenere desta l´attenzione sul destino della natura minacciata di distruzione per effetto della tecnica. Heidegger non ignorava la luce pubblica del discorso politico. Conservò il disprezzo per la parola che diventa chiasso, consegnò le "visioni del mondo" (liberalismo, bolscevismo, marxismo, cristianesimo) alle loro "macchinazioni". Guardò con sospetto al culto della personalità che proprio in quegli anni trionfava in certe parti d´Europa. Ma fino a che punto era convinto che a un popolo, il suo popolo, occorresse una filosofia? Ambiguamente scrisse che «il popolo diventa popolo solo quando giungono i suoi individui più unici e quando costoro incominciano a presagire».
Diversamente dal popolo, la massa novecentesca tendeva agli occhi di Heidegger a mostrarsi sradicata ed egoista. Perciò egli aggiunse: «Il dominio sulle masse deve essere istituito e mantenuto con le catene dell´"organizzazione"». Nessuno slancio profetico, nessuna prospettiva salvifica egli trova nell´artificiosità della vita moderna (negli Stati come nei partiti, nei totalitarismi come nelle democrazie) nella quale tutto e tutti si confondono. E il nazismo? Con ogni evidenza anche una tale esperienza storica finisce con l´essere il prodotto della modernità, dell´effetto della tecnica ormai planetaria. Tutto, proprio tutto, era risucchiato nell´infondato della metafisica. A questa sconfortante considerazione cercò di porre rimedio evocando un diverso inizio del pensiero, un modo assolutamente altro di fare i conti con ciò che fino a quel momento la filosofia aveva lasciato come impensato. Occorreva un diverso addestramento all´interrogazione, al fare domande, occorreva il ritegno del saper rinunciare, come scrisse, alla fama e al successo.
Heidegger - "la volpe" come lo definì Hannah Arendt - nel 1936 cominciò a spogliarsi degli abiti pubblici. Si ritrasse, come in una tana, nella sua oscurità mentale illudendosi di andare così oltre Nietzsche. Andò invece nella direzione di un´aristocratica e impotente visione di qualcosa di talmente grande da risultare ingestibile. I Beiträge che, per disposizioni testamentarie, videro la luce solo nel 1989, furono insieme la grandezza e la miseria di questo risultato.

Repubblica Roma 19.3.08
La Notte Bianca degli studenti mix di jazz, filosofia e cous cous
di Laura Mari


Una festa del sapere a cui è stata invitata anche la Minerva. Accanto alla statua-simbolo dell´Università La Sapienza da stasera verranno installati pannelli su cui i più celebri writer romani (tra cui Sten) daranno sfogo alla vena creativa con disegni ispirati alla "Notte Bianca dell´Autogestione". Da oggi pomeriggio e fino alle 6 di domani mattina la città universitaria sarà aperta a tutti per una notte di concerti, dibattiti, convegni e cene sociali organizzata dalla rete dei collettivi studenteschi. Tra gli altri appuntamenti, alle 15 la facoltà di Fisica ospiterà la tavola rotonda "Scienza, chiesa e società", con Giacomo Marramao. Alle 20,30 aperitivo sociale e musica da camera, alle 22,30 concerto jazz. Per i tifosi della Roma e della Lazio a Scienze Politiche dopo la lectio magistralis di Remo Remotti proiezione del derby. La musica ska risuonerà fino all´alba a Geologia, e alle 20,30 cous cous per tutti. Teatro protagonista alla facoltà di Lettere: alle 19 lo spettacolo "La signorina Richmond", e poi hip-hop ad oltranza. E nella notte più lunga dell´università capitolina nella facoltà di Giurisprudenza verranno proiettati alcuni sketch dello spettacolo teatrale "La costituzione" di Paolo Rossi.

Corriere della Sera 19.3.08
Ricerche. Gli archivisti-scrittori
Il processo alle streghe con i documenti veri
di Enrico Mannucci


Lavoce delle streghe «ci viene tramandata da un notaio che verbalizza, traducendo parzialmente in volgare, quelle che erano le espressioni della loro lingua, un dialetto ostico composto di risonanze antiche». Che l'idea di un romanzo abbia bisogno di documentazione attenta l'ha dimostrato anche la letteratura di consumo. Più complesso l'opposto. È il tentativo avviato nel 1998 da un «collettivo» di archivisti con la collaborazione della Fondazione Mondadori e della Regione Lombardia. In pratica, estrarre una storia avvincente da una ricerca pignola quale può essere quella di un ricercatore abituato a frugare fra filze e faldoni polverosi. Riesce a Roberto Grassi, firma di punta del «collettivo» nonché archivista milanese, rileggendo le carte di un processo celebrato nel 1630 dalla corte criminale del Contado di Bormio contro due donne, madre e figlia — di Isolaccia, villaggio della Valdidentro — accusate di malefici vari contro persone e bestie. Il romanzesco sta in alcune licenze cronologiche, nell'evocazione di una contemporaneità illustre — la vicenda manzoniana — ma soprattutto nell'accurato recupero della storia in sé: «Nella superstizione degli intellettuali laici, nel fanatismo dei giudici civili. Questa storia sta nelle coscienze avvelenate da una religione crudele, in un secolo dominato dai demoni». C'è la tortura, c'è l'esecuzione delle imputate, ma c'è anche, nel ritratto delle accuse alle presunte streghe, più di qualcosa che rammenta il contorno dei delitti «condominiali» del nostro tempo.
ROBERTO GRASSI, La voce delle streghe, VIENNEPIERRE PP. 200, e 15

martedì 18 marzo 2008

il Riformista 18.3.08
Bertinotti: globalizzazione e crisi di civiltà
«Ve lo dicevo io, altro che Tremonti»
intervista di Stefano Cappellini


Discutere di crisi del capitalismo con Fausto Bertinotti è come ascoltare il medico di un paziente a lunga degenza, convinto di aver individuato la diagnosi corretta della malattia fin da quando la maggior parte degli altri medici certificavano tutt'al più un malessere passeggero. Dice al Riformista il presidente della Camera e candidato premier della Sinistra arcobaleno: «Ci hanno accusato per anni, al movimento altermondialista si diceva: siete fuori dal tempo, non capite la modernità, qualcuno parlava addirittura di accenti reazionari. Oggi la verifica fattuale ci dà ragione. Una certa globalizzazione si dimostra l'elemento chiave di una crisi di civiltà e non, come si è detto per anni, la via sicura per un benessere a portata di tutti. Non si dirà mai male abbastanza della lettura della globalizzazione come cornucopia. Uno scandalo intellettuale senza pari, che trascinava con sé l'idea della fine del lavoro, la denuncia di ogni opposizione come sintomo localista o passatista, addirittura teorizzava la fine della storia. Cose da pazzi».
Bertinotti ci tiene a non confondersi con i detrattori assoluti del tempo corrente e, del resto, la stessa definizione no global non gli è mai piaciuta troppo: «Non c'è ragione - spiega - per cui una critica deve diventare demonizzazione. Non essere apologetici non significa non vedere la carica di innovazione, di progresso tecnico-scientifico che la globalizzazione ha portato con sé. La messa al lavoro di milioni di persone e la possibilità di accedere a certi livelli di consumi sono un fatto positivo. L'ingresso di massa in un mercato - per quanto spesso corrotto e corruttore - è un fenomeno che mi interessa, ma non al punto di non vedere che tutto ciò avviene sul modello della prima industrializzazione europea: in Cina e nelle economie emergenti dell'Asia, siamo più vicini all'Ottocento che al Novecento. L'aumento del Pil è sbalorditivo, l'aumento di diritti inesistente».
Difficile però resistere alla tentazione di far notare a Bertinotti che - ammesso e non concesso che la diagnosi movimentista fosse giusta e stilata da anni - c'è un dottore di scuola avversa, di nome Giulio Tremonti, che si è intestato il merito di aver individuato il male e la cura. Ma Bertinotti non si sente scavalcato a sinistra dall'antimercatismo di Tremonti: «Non ha inventato nulla. A parte che Tremonti non è nuovo a certe difese, sia in nome della piccola patria padana, sia in nome della difesa comunitaria della produzione locale, ci siamo dimenticati di Chirac? Chirac è stato il primo a dire che il primato della finanza costituiva un cancro per la democrazia del nostro tempo e che il movimento incontrollato di capitale nel mondo determinava la crisi della coesione sociale. E fece una intera campagna in nome della rivalutazione dell'intervento pubblico».
Ma il punto, primogeniture a parte, è che il leader comunista non concorda sulla ricetta tremontiana: «Oggi Tremonti fa colpo con le sue teorie ed evita l'errore banale di attribuire all'Italia la missione protezionistica. Investe del compito l'Europa. Ma che succederebbe se l'Europa lo facesse davvero? Si aprirebbe una guerra commerciale col fronte cino-indiano. E come risponderebbe il sud America, che è già giustamente sul piede di guerra per le nostre politiche agricole protezionistiche?». Bertinotti rifiuta l'idea che la tutela dell'operaio italiano dall'invasione di merci prodotte dall'operaio cinese a basso salario sia nei dazi. «Innanzitutto, segnalo che settori italiani non di nicchia come il tessile o il meccanico, che secondo certe tesi di qualche anno fa dovevano esser travolti dall'est, sono vivi e vegeti. Sui rapporti tra l'operaio cinese e quello europeo serve invece una riprogettazione. Serve la ripresa di un discorso internazionale, che provi a ritessere le fila di una ricostruzione della compagine dei lavoratori, partendo dalla questione della clausola sociale: la tracciabilità delle merci è il futuro del mondo. Le merci devono circolare liberamente, ma devono incorporare diritti minimi che ne giustifichino la circolazione. Nessuno può esser così idiota da pensare che debbano esserci livellamenti salariali impossibili, ma non è accettabile che una merce provenga da un contesto dove non è ammesso per esempio il diritto di sciopero. Questa è la questione da aprire su scala mondiale, non i dazi». Casomai, Bertinotti dà ragione a Tremonti sull'esigenza di una nuova Bretton Woods per la stabilità monetaria: «Proposta ragionevole, che non bisogna lasciare a esponenti della destra, anche perché conosco dieci economisti radicali che il discorso di Tremonti lo fanno da anni. Inascoltati».
Se il programma della sinistra radicale non trova consensi, però, non può essere sempre colpa della sordità altrui. «E infatti noi abbiamo il dovere di chiederci perché non sempre siamo riusciti a costruire una massa critica sulle nostre idee e ci manca ancora, qui parlo soprattutto della sinistra italiana, un programma fondamentale. La riposta alla domanda: chi sei?». Qualcuno direbbe: ormai siete socialdemocratici. Bertinotti non si spaventa: «Noi dobbiamo fondere la nostra cultura comunista di origine, con le altre: la socialista, l'ecologista e quella dei diritti». Per il presidente della Camera la questione socialdemocratica è invece il vero dramma della sinistra riformista: «E' ferma al paradigma di Maastricht. Di fronte alla mancanza di consenso, apre ancora l'ombrello dell'Europa e della dottrina neo-liberista come giustificazione. Non si pone il problema di conciliare la riduzione di debito e deficit con un'impronta sociale, col sostegno alla domanda interna come mezzo per trainare l'economia fuori dai sussulti della crisi. Non prova a rivalutare il keynesismo, dottrina vergognosamente cancellata e demonizzata Non capisce che indagare il capitalismo non significa Soviet più elettrificazione o tornare alla Terza internazionale, e nemmeno alla cultura del Pci. Di essere accusati di essere comunisti, francamente, i vertici del Pd non corrono più il rischio. Il fatto è che temono come la morte di approdare a un orizzonte socialdemocratico. Non ragionano sulla crisi della globalizzazione, un editoriale contrario del Corriere della sera basta a terrorizzarli. La linea di fuga verso l'America è un modo di non fare i conti con questa dannata questione che si chiama socialdemocrazia. Per questo si collocano su una frontier altra, senza vedere che negli Usa la realtà è disgiunta dall'ideologia e la -Fed salva Bear Stearns e non gliene frega nulla delle possibili accuse, perché risponde solo a un criterio di efficacia. E la nazionalizzazione della Northern Rock a opera del governo laburista di Gordon Brown? In Italia la sinistra non l'avrebbe mai fatto, perché è impedita. Sente ancora di doversi accreditare. E lo stesso vale a destra. Perché se non Fini dovrebbe plaudire all'offerta di Air France su Alitalia?». E cosa si dovrebbe fare di Alitalia, se non affidarsi alle offerte del mercato dopo anni di fallimento "pubblico"? «Non accontentarsi dell'offerta da quattro soldi di Air France. La situazione è compromessa. Me ne rendo conto. Rifaccio un esempio che spero non sia preso maliziosamente. La Fiat qualche tempo prima della svolta di Marchionne era considerata spacciata, non infondatamente. Un'operazione di sostegno, di supplenza delle banche si è poi rivelata suscettibile di esito imprevedibile, perché è intervenuta una proposta di missione dell'azienda che ha mobilitato i dirigenti, i quadri e i lavoratori. Non è retorica. Perché questa operazione non è stata tentata su Alitalia? Perché non arriva qualcuno che butta via i luoghi comuni e ci prova. Serve una novità soggettiva, un tempo si sarebbe tempo volontaristica. Lo vogliamo chiamare modello Marchionne? Non importa. Quello che occorre fare è cambiare il terreno della competizione, e all'Italia per le sue caratteristiche dovrebbero riuscire più facile che ad altri. Serve una riprogettazione su un terreno di valori del modello industriale e del modello economico-sociale. Non è possibile che fino a qualche anno si privatizzava per far cassa e adesso, peggio ancora, ci si disfà di assi strategici solo perché non si riesce ad attribuire loro una missione».


Il Messaggero 17.3.08
I trent’anni della legge 180
La “Basaglia” ha chiuso i manicomi, creando però gravi disagi ai malati e alle loro famiglie. Come “correggerla”? Il mondo della cultura si mobilita
di Rita Sala

UN giorno la pittura di Van Gogh armata di colore e di buona salute ritornerà per gettare all'aria la polvere di un mondo oppresso che il suo cuore non poteva più sopportare. Antonin Artaud, attore, regista, scrittore, teorico del “teatro della crudeltà”, morto nel 1948 nel manicomio di Ivry-sur-Seine, vide un giorno, all’Orangerie di Parigi, una restrospettiva di opere del pittore olandese, e instaurò con il genio malato di Vincent, compagno di strada e di sofferenza, un dialogo a distanza. Da folle a folle: l’urlo di due artisti torturati dal disagio mentale.
Cosa direbbe oggi Artaud, consumatore di peyotl e più volte sottoposto a elettroshock, del dibattito che si è aperto in Italia sulla Legge 180? La discussione s’è riaccesa a distanza di trent’anni dal provvedimento e mentre un gruppo di autorevoli medici della mente (da Athanasios Koukopoulos, psichiatra greco che lavora nel nostro Paese, a Giovan Battista Cassano) chiede sia tolto il divieto di usare la cosiddetta “terapia elettroconvulsivante”. La “legge Basaglia” (dal nome del promotore, lo psichiatra veneziano Franco Basaglia) impose nel nostro Paese, dal 13 maggio 1978, la chiusura dei manicomi. E regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio istituendo servizi pubblici di igiene mentale (l’eliminazione effettiva dei manicomi si è completata solo nel 1994, con le strutture di assistenza psichiatrica). Nata dalla sincera utopia di uno scienziato e applicata, sì, ma mai concretamente dotata di strutture, è da allora causa da una parte di demagogia politica, dall’altra di grave disagio per i malati restituiti alla vita sociale, e per le loro famiglie. In questi ultimi mesi, nuove proposte sia affollano attorno alla questione: accettata la convinzione che la 180 non sia riuscita nel proprio intento, occorre proprio riparlarne.
A Roma, un artista che da venticinque anni lavora con i malati di mente, Dario D’Ambrosi, creatore del Teatro Patologico (si fece internare giovanissimo, per tre mesi, al “Paolo Pini” di Milano, per «soffrire assieme ai pazzi e capirne il dolore»), apre le “ostilità”, giovedì 20, in Piazza di Spagna, con un happening teatrale. Titolo: 180 D’Ambrosi torna in manicomio. «Un malato, che interpreto vestito di panni che lo denotino come tale dice esce dal manicomio e arriva casualmente in una delle piazze più famose del mondo, fra gente che cammina per i fatti suoi, turisti, passanti, signore che fanno shopping. Affronterò queste persone. Parlerò con loro: “Perché qualcuno ha deciso per me? Il dottore mi ha detto che devo andare a casa perché sono guarito, ma io veramente non mi sento molto bene... Scusa, le senti anche tu le voci nella tua testa che ti dicono cosa devi o non devi fare?”. Alla fine saranno loro, il pubblico, a giudicare se il matto debba tornare dentro o restare fra i cosiddetti “normali”».
Provoca, D’Ambrosi. Ma la pensano come lui psichiatri illustri, ad esempio il veronese Vittorino Andreoli. Che nel gelo della cappella parigina di Saint-Louis de la Salpêtrière, culla della psichiatria durante la Rivoluzione e ricetto dei diseredati, delle puttane e dei matti fin dal tempo di Luigi XIV, spiegò come proprio là Philippe Pinel, duecento anni fa, liberò gli alienati dalle catene e cominciò ad osservarli caso per caso, annotandone i cambiamenti e gli sviluppi. «Pinel istituì un nuovo sapere. Lo derivò da un gruppo sociale fino ad allora generico, “indemoniato”, quello dei pazzi, che la Rivoluzione considerava comunque citoyens, cittadini come gli altri, benché ammalati di follia. I matti io li ho conosciuti presto, da giovane, ancora sottoposti a “torture” quali la camicia di forza, i salassi, i bagni caldi e freddi, i ripetuti elettroshock. Da allora tanto è cambiato, ma tanto resta ancora da fare. Io ho diretto il manicomio di Verona, cinque padiglioni di sofferenza. Non so descrivere il Quinto Donne: un grumo di dolore inarginabile. Entravi là dentro e trovavi un mare di corpi nudi e urlanti che vagavano nello stanzone, un odore tremendo di urina e di escrementi, la sensazione tattile dello strazio...». Il medico avverte l’esigenza di una “correzione” della 180: «Il pur giusto principio secondo cui è la società ad essere malata e gli alienati mentali sono solo i terminali più fragili di essa, la 180 va umanizzata, calata nella vita delle famiglie al cui interno scoppia la follia. Non illudiamoci che i matti pericolosi non esistano. Conoscete l’odissea di chi deve far ricoverare una persona che impazzisce gravemente? È unga, piena di barriere burocratiche. I matti esistono. Lo dice uno che li ha amati e li ama, che non ha mai dato loro uno schiaffo e nemmeno lo ha preso...».
Al servizio di questa “correzione” si muove D’Ambrosi. Dopo l’azione di giovedì (che sarà replicata il 28 a New York, nella Madison Avenue, all’altezza della 64a strada, e quindi a Milano, il 21 aprile, all’ospedale “Paolo Pini”), realizzerà in maggio l’articolata rassegna Buio in sala... si illumina la mente, in collaborazione con il Teatro di Roma. Sono spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche, video, convegni e dibattiti con l’intervento di psichiatri e uomini delle istituzioni legati agli sviluppi della 180. Gli spazi? India, il teatro del Quarticciolo e la nuova sede del Teatro Patologico, sulla via Cassia, destinata a diventare un’alternativa al manicomio firmata D’Ambrosi: «Sarà la Cittadella Allegra, dove i miei mattacchioni faranno teatro, scopriranno cose interessanti, lasceranno respirare e vivere le loro famiglie». In giugno, spettacoli al Quirino di Roma e al “Franco Parenti” di Milano. Intanto a Londra, dove Dario è famoso (lo hanno visto in teatro con Ellen Stewart e nei film con Greta Scacchi, Anthony Hopkins e Mel Gibson), il Soho Theatre prepara la messinscena di due suoi lavori, Volare e Sognando il mare, e presenta, contestualmente, l’edizione inglese degli ormai numerosi testi teatrali del Patologico.
«Occorrerebbe un altro passaggio dal Medioevo all’Umanesimo dice ancora Andreoli , un recupero dei sensi che riconduca l’Uomo al seul desir: una nuova integrazione la Natura. Intanto, però, diventa fondamentale tornare e ri/tornare sul discorso della follia». Dopotutto, il buio del disagio mentale ha avvolto, oltre Van Gogh e Artaud, Caravaggio e Munch, Kirchner e Bekmann, Nietzche, Ligabue, Dino Campana, Alda Merini, milioni e milioni di esseri indifesi, creature come Antonio (figura centrale dello spettacolo shock di D’Ambrosi I giorni di Antonio, interpretato da Celeste Moratti), venuto alla luce nel 1916 nella campagna milanese, con una gamba più corta dell’altra e gravi handicap mentali. Fu gettato dai genitori nella stia e cresciuto a granturco, come i polli. Assuefatto a sfogare i naturali istinti sessuali con le galline, fuggì dalla sua prigione il giorno in cui qualcuno la lasciò aperta. Lo trovarono sullo stradone, addosso a una prostituta. Venne rinchiuso in un manicomio. A vita.

Repubblica 18.3.07
Lo Stato colpevole
di Valerio Onida

La vicenda del processo penale a carico di agenti delle forze dell´ordine per i maltrattamenti e le vessazioni inflitte, in occasione del G8 di Genova del 2001, ai manifestanti arrestati e portati nella caserma di Bolzaneto merita un rilievo certo maggiore di quello spesso dedicato dai mezzi di comunicazione ai delitti che "appassionano" il pubblico. L´ampia inchiesta di Giuseppe D´Avanzo pubblicata ieri da questo giornale ha il merito di avere richiamato l´attenzione sui fatti. Sono state contestate – non da qualche gruppo no global, ma dai pubblici ministeri del processo – accuse relative ad atti di violenza fisica e morale (fra l´altro, tecniche di interrogatorio che la Corte europea dei diritti dell´uomo giudica "trattamenti inumani") e condotte dirette a umiliare le persone fermate. Si è notato anche che, non essendo ancora stata varata una legge specifica contro la tortura, le ipotesi di reato a carico degli imputati sono "minori" e quindi vi è l´alta probabilità, se non la certezza, che fra un anno scatti la prescrizione, che impedirebbe alle eventuali condanne di diventare definitive.
Il processo non è finito. Devono ancora parlare le difese (ma si è letto che esse non avrebbero messo in dubbio l´attendibilità dei numerosi testimoni; un difensore avrebbe lamentato che "sono state negate le attenuanti", e se si parla di attenuanti vuol dire che i reati sono stati commessi). La verità processuale non si è ancora definitivamente formata. Ma ce n´è abbastanza per fare alcune considerazioni.
Primo. I fatti denunciati, se sono veri, sono di una gravità inaudita per modalità ed estensione. Non si è trattato di singoli episodi isolati, ma di atti (riferiti in modo circostanziato) reiterati, compiuti da parte di molti agenti (44 imputati) e a danno di molte persone, tanto da far dire ai pubblici ministeri che in quella caserma di Bolzaneto per tre giorni "sono stati sospesi i diritti umani". Se non sono gruppi di fuorilegge, ma gli stessi "tutori della legge", ad abbandonarsi a simili comportamenti, ne viene ferita, e gravemente, la credibilità delle istituzioni, dello Stato. Non c´è attenuante di "provocazione", o scusa derivante dalla tensione o dalla fatica di quei giorni, che tenga. Far violenza gratuita su persone inermi e arrestate, insultarle, umiliarle – anche se fossero state a loro volta colpevoli di reati – è qualcosa che non può mai essere ammesso né accettato. Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell´ordine". Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici nel perseguire gli interessi generali. La gravità di essi non deriva tanto dalle oggettive sofferenze inflitte, quanto dal fatto che ad agire così erano rappresentanti dello Stato.
Non ci sarà ancora la legge che punisce espressamente la tortura, ma nel nostro ordinamento, vivaddio, i comportamenti contestati agli agenti sono illeciti e punibili, eccome. L´articolo 13 della Costituzione afferma che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Non "può essere", ma "è" punita: tanto che i giuristi ritengono che questa sia forse l´unica norma della Costituzione dalla quale si ricava un vero e proprio obbligo di irrogare sanzioni penali, che di solito discendono solo da una discrezionale valutazione del legislatore, e costituiscono una extrema ratio per la difesa delle persone e della società.
Secondo. Se la prescrizione impedirà alle eventuali condanne di diventare definitive, sarà ancora una volta scandalosamente evidente l´inadeguatezza del nostro sistema normativo e soprattutto processuale e giudiziario (si ricordi che alla fine della scorsa legislatura la improvvida legge detta "ex Cirielli" ha sancito una abbreviazione dei tempi di prescrizione per molti reati). Allo scandalo di uno Stato violento si aggiungerebbe quello di uno Stato incapace di sanzionare comportamenti di questa gravità tenuti da coloro che operano in nome dello Stato stesso. Del tema dovrebbero occuparsi, e presto, i nostri esponenti politici che in questi giorni chiedono il consenso degli elettori.
Terzo. Anche se dovesse scattare la tagliola della prescrizione per i reati, non sarebbe però finito tutto lì. Anzitutto è verosimile e auspicabile che azioni civili di danno vengano intentate o proseguite dalle vittime non tanto verso i singoli agenti, ma verso lo Stato: e in quella sede, una volta accertati i fatti, dovrebbero essere riconosciuti risarcimenti significativi ed esemplari, a ristoro non tanto dei danni materiali, ma soprattutto di quelli morali provocati dalle condotte illecite (anche se danneggiato "morale", paradossalmente, è pure lo Stato stesso). Inoltre si dovrebbero intraprendere azioni davanti alla Corte europea dei diritti dell´uomo, la quale, se i fatti saranno accertati, non potrà non condannare l´Italia per violazione del divieto di "trattamenti inumani o degradanti" sancito dall´articolo 3 della convenzione. E certo non farà piacere vedere il nostro Stato condannato ancora una volta, e non per inerzie e inefficienze come nel caso della violazione del diritto alla ragionevole durata dei processi, ma per aver violato la dignità di persone arrestate. Il rispetto della persona e della sua dignità è infatti una premessa elementare e irrinunciabile di qualsiasi esercizio dell´autorità in uno Stato costituzionale.
Infine, un Governo degno di questo nome non potrebbe mantenere tranquillamente nei ranghi delle forze dell´ordine coloro che risulteranno aver commesso questi fatti, senza perdere ancora una volta di credibilità. Non basta una ventata di indignazione passeggera: occorre coerenza di comportamenti per il futuro. Allo Stato retto dalla Costituzione non si può non chiedere – anzi, si dovrebbe esigere più che chiedere – che esso tenga fede al primo e fondamentale obbligo morale e giuridico, il rispetto della persona, di ogni persona, titolare dei diritti inviolabili che la Repubblica "riconosce e garantisce".

Repubblica 18.3.07
"Io, l'infame che denunciò gli orrori di Bolzaneto"
di Giuseppe D'Avanzo

Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. «Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro».

«Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell´androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…».
Marco Poggi dice che sa che cos´è la violenza. «Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l´avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"».
Marco Poggi è «l´infame di Bolzaneto». Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo - Io, l´infame di Bolzaneto - ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo - tra chi era dall´altra parte - a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. «Delle violenze nelle strade di Genova - dice - c´erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l´ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c´era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato - l´ho detto - ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch´io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l´ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l´ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani».
Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. «Beh! - dice - un po´ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato - vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l´infame di Bolzaneto».
Dice Marco Poggi che «se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora un reato - non è che te li puoi inventare». Dice che lui «lo sapeva fin dall´inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione». Dice Poggi che però «quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell´autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi - in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco anch´io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c´è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d´inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo».

Repubblica 18.3.07
Lo ha detto Hume: fede e ragione non stanno insieme
di Paolo Flores D'Arcais

Due anni fa, nel maggio del 2006, il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, e Paolo Flores d´Arcais, filosofo e direttore di MicroMega, furono invitati dal direttore della Normale di Pisa, Salvatore Settis, a confrontarsi su un tema delicatissimo: «Ateismo della ragione o ragioni della fede?». I contenuti di quel dibattito, compresi gli interventi che poi seguirono dal pubblico, sono stati raccolti in un libro che esce domani, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede (Marsilio, pagg. 92, euro 7,90). Il volume riproduce il dibattito serrato fra i due interlocutori, un dibattito nel quale a viso aperto e con molta nitidezza Flores espone i motivi per cui fede e ragione siano da considerarsi inconciliabili, Scola, dal canto suo, ribatte richiamando all´attenzione l´enciclica di Giovanni Paolo II intitolata, appunto, Fides et ratio.
Il cardinale Scola è dal 2002 Patriarca di Venezia, è laureato in filosofia e teologia e vanta una ricca bibliografia. Fra gli altri, vanno ricordati La persona umana. Manuale di Antropologia Teologica, Gesù destino dell´uomo, Uomo-donna. Il "caso serio" dell´amore, Chi è la Chiesa, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Il Valore dell´uomo. Tra i libri di Flores si possono ricordare Etica senza fede, Il sovrano e il dissidente, Hannah Arendt e Dio esiste?


Il non credente raramente espone in modo esplicito le ragioni dell´ateismo. Le ragioni, nel senso forte del termine. La convinzione, meditata e criticamente radicata, che per fare filosofia, oltre che per fare scienza, l´ateismo sia una sorta di pre-condizione ineludibile.
L´ateismo metodologico, almeno. Ma talvolta, forse, qualcosa di più. Questa convinzione in genere viene sottaciuta. E tale ipocrisia nasce dal timore che proclamare apertamente l´incompatibilità di fede e ragione (di cui l´ateo è però fermamente convinto), del carattere cioè inguaribilmente irrazionale della fede – non solo di quella cattolica, ma oggi di questa soprattutto ci occupiamo –, possa suonare offensivo nei confronti dell´interlocutore. (...)
Sia chiaro, io non lamento questa ipocrisia come debolezza del non credente nei suoi sforzi di convincere l´interlocutore. L´ateo, infatti, non ha alcuna pulsione a convertire il credente, a fargli perdere la fede. E non ha tale pulsione proprio a cagione del suo ateismo. Ateismo, infatti, non significa nulla più della convinzione che tutto si gioca qui, nell´orizzonte finito della nostra esistenza. Ma se tutto si gioca qui, nel tempo incerto ma irrimediabilmente finito della nostra esistenza, e conta solo, dunque, quanto qui verrà realizzato, cioè i valori che si esprimeranno nel nostro agire, per l´ateo è assolutamente secondario che le persone che insieme a lui per questi stessi valori si batteranno lo facciano a partire da ragionamenti di stampo illuministico o perché hanno "fede" nel Vangelo, e dunque hanno preso sul serio il messaggio dalla parte degli ultimi come un dovere di impegno per la giustizia e per l´uguaglianza. (...)
Io credo che David Hume, nei sui Dialoghi sulla religione naturale, abbia smantellato in modo conclusivo le pretese di ogni ragionevolezza nella fede in Dio. In modo definitivo, almeno nel senso che alle sue obiezioni non sono mai state date risposte minimamente convincenti. Hume ha demolito tutte le pretese di dimostrazione di Dio sia delle religioni positive che di un generico deismo o teismo, di una religione "naturale" spesso predicata durante l´Illuminismo – la maggioranza degli illuministi erano in questo senso credenti. Hume, insomma, ha mostrato l´ateismo della ragione (...).
Ma ormai, nel dialogo fra credenti e non credenti, privo ormai di controversia proprio per quella "ipocrisia" che ricordavo all´inizio, da parte cattolica si ignorano le obiezioni che da Hume in poi sono state rivolte alle pretese di ragionevolezza della fede, visto che da parte non credente si fa la stessa cosa.
Io credo, invece, che si debba discutere proprio questa tesi, assolutamente esplicita: Ragione e Fede sono mutualmente incompatibili. Aut fides aut ratio. (...) Quando parliamo di ragione, tutti in genere concordiamo sulla validità degli "accertamenti" scientifici e sull´uso delle regole logiche nel corso di un´argomentazione. Dopo di che, ciascuno di noi attribuirà alla parola "ragione" anche altri significati, ma la validità della scienza+logica credo che costituisca un denominatore comune.
E allora, credo che oggi la filosofia, rovesciando Socrate, ma per restare fedele all´insegnamento socratico, non debba iniziare riconoscendo che "sappiamo di non sapere", ma debba partire piuttosto dal riconoscimento opposto: "sappiamo tutto". Oggi, dire "sappiamo di non sapere " diventa un alibi per non affrontare la realtà. "Sappiamo tutto", perché sappiamo "il nulla e il perché del nostro essere al mondo". In altre parole, sulla base di ricostruzioni scientifiche straordinariamente corroborate, abbiamo ormai avuto risposta alle grandi domande metafisiche del passato: chi siamo, da dove veniamo (e in un certo senso perfino: che cosa possiamo sperare).
Sappiamo come è nato l´universo, come è evoluto, gli infiniti momenti in cui avrebbe potuto evolvere diversamente, e cioè il peso radicale che ha la contingenza, il caso, nelle vicende che hanno segnato l´evoluzione dell´universo. È per caso che a un certo punto è insorta la vita organica, ma avrebbe potuto non nascere mai. Il caso (...) come elemento fondamentale e continuo dell´evoluzione che ha infine messo capo all´uomo.

Repubblica 18.3.07
Eppure la fede ha le sue ragioni ben fondate
di Angelo Scola, cardinale di Venezia

«Vivere senza Dio è soltanto una sofferenza». Da questa penetrante constatazione Dostoevskij trae la conclusione che gli atei sono «degli idolatri, non dei senza dio». Questa seconda affermazione, che so bene essere paradossale e provocatoria, è però utile per comprendere che quella dell´ateo non è riducibile a una pura tesi teoretica. Non basta affermare "Dio non esiste" per definirsi atei. Questa affermazione nominale è insufficiente perché non determina né la natura del dio che nega, né soprattutto il modo con cui viene operata tale negazione. Anche chi afferma di negare l´esistenza di Dio non riesce a inferire che Dio non esiste. Si deve dunque riconoscere che l´ateismo non è la semplice antitesi del teismo. L´ateismo non si oppone anzitutto alla tesi razionale riguardo all´esistenza di Dio. «Inversamente si può avere un´idea di Dio e concludere alla sua esistenza ed essere chiamati atei» ed è successo a Socrate, ai primi cristiani e a Spinoza. Se qualificassimo quindi la ragione come in se stessa atea, compiremmo un´operazione teoreticamente non rigorosa. (...)
Né ragione in sé atea, né credo quia absurdum. Ma cos´è allora questa fede? Come può restare fede senza cadere nell´assurdo? Può veramente pretendere di offrire ragioni all´umano «mestiere di vivere » (Pavese)?
Con tenacia la tradizione cattolica ha difeso il proprio concetto di fede di fronte a ogni pretesa fideistica basata sull´adagio credo quia absurdum est. Anche oggi possiamo trovare un prezioso criterio per confermare questa radicata attitudine nel nucleo dell´enciclica Fides et ratio, quando Giovanni Paolo II rivolge l´invito a «passare dal fenomeno al fondamento » (FR 83). Infatti, al di là dei contemporanei dibattiti di scuola tra metafisici, post-mmetafisici, analitici, fenomenologi ed ermeneutici, l´affermazione del papa intende sollevare la decisiva questione: «È possibile sradicare in modo assoluto [come fa il professor Flores] la considerazione della finitezza dalla questione della sua origine/destinazione?». O, detto altrimenti: «È possibile riconoscere un fondamento agli enti finiti?».
Il problema delle ragioni della fede o della fede in quanto rationabile obsequium pone, infatti, in modo inesorabile, l´interrogativo seguente: «Si dà fondamento?». E, nel caso di una risposta affermativa, «di che si tratta?».
Per affrontare queste domande, in modo che sarà necessariamente troppo rapido, non appaia temerario partire da un dato incontestabile nella sua tenacia: sempre qualcosa si dà a qualcuno.
L´affermazione va intesa nella sua immediatezza, precisando tuttavia che il "qualcosa" – senza ridursi all´ontico (né oggetto, né ente) – è, in un certo senso, tutto assorbito dal "si dà",così come il "qualcuno" non prende la forma dell´io trascendentale (in tutte le sue varianti) con la sua pretesa di costituire il "qualcosa" che si dà.
Comunque questo dato sia stato denominato lungo la storia del pensiero occidentale, negarlo vorrebbe dire ritrovarsi come il celebre "tronco" di aristotelica memoria. In ogni suo atto, l´io empirico – nella sua stessa "carne", che lo radica nel mondo mentre lo spalanca, attraverso il linguaggio, all´altro – è coinvolto in questo dato. E chiunque si impegni nell´impresa – a un tempo teoretica e pratica – della sua rigorosa "riduzione", scopre che esso, alla fine, sempre si ripropone: come la fenice continuamente risorge dalle sue stesse ceneri!
Per considerarlo cominciamo con l´assegnare – almeno per comodità – alla necessaria opera di rigore anche tutte le più o meno celebri Destruktionen del pensiero occidentale che si sono succedute fino ai nostri giorni, aggiungendovi le diverse varianti del non luogo a procedere o della scelta del non poter o voler entrare in materia proprie del contemporaneo pensiero che si definisce o non ricusa di definirsi debole. In tal modo forse si riduce notevolmente l´ampiezza di questo incoercibile dato, ma non fino al punto da intaccarne la forza elementare.

Repubblica 18.3.07
Il 68 di Maselli "Citto" il rosso: "Io, comunista gaudente"
di Paolo D'Agostini

Mentre prepara un film sulla sinistra, il regista di "Il sospetto" e "Lettera aperta a un giornale della sera" rievoca i suoi anni della contestazione

È il ragazzo rosso del cinema italiano. Maselli Francesco, per tutti "Citto". Classe 1930, come Clint Eastwood, Sean Connery e Sandro Curzi, suo compagno di scuola e allievo di marxismo a 11 anni («è lui a riconoscermelo»). L´enfant gâté dell´intellighenzia di sinistra: quando nel ´55 debutta con Gli sbandati lo invita a cena addirittura il Migliore. Il viveur del cinema impegnato. Il comunista gaudente che si diletta di auto d´epoca. «Un concentrato di contraddizioni», e non si sa se lo dice contrito o compiaciuto. Dopo aver progettato, e non girato, un film sulle sorti del comunismo dopo la (vituperata da lui fondatore di Rifondazione) svolta Occhetto, ora colui che scolpì per Gian Maria Volonté il ritratto del comunista clandestino dei bui anni Trenta nel Sospetto, prepara un film sulla sinistra italiana oggi. Ma su questo è blindato: «Non ne voglio parlare, è troppo presto». Ci sono intervistati che ti fanno maledire il momento in cui devi riaprire il taccuino. Decine di digressioni infilate come matrioske una dentro l´altra. Durante questa conversazione avrà citato un centinaio tra conoscenze dirette o di famiglia: si va da Croce e Sinatra a Palmiro Togliatti e Paul Newman, da Pirandello all´attuale Presidente della Repubblica.
L´argomento è il ´68 visto dal cinema.
«Io mi sono trovato in una situazione particolarissima. Militante del Pci, nel ´68 sono membro della commissione Cultura del partito di lì a poco diretta da Giorgio Napolitano. Che da vero bolscevico comprende subito che io come segretario degli autori cinematografici (Anac) creo tra il ´68 e i primi anni 70 un fronte della cultura straordinario. Il cinema italiano era una cosa importante, guidava una corrente di pensiero forte. Da comunista iscritto ero tra i pochi ad aver presentito il ´68. Nel modo più bizzarro. Facendo un brutto film: Ruba al prossimo tuo, tentativo patetico di commedia politica con Rock Hudson e Claudia Cardinale. Mi trovai a Los Angeles nel ´66 ospite di Paul Newman. Diventando amico di Nathalie Wood (poi mi hanno detto che era un colonnello del Kgb) che una sera mi invitò con Marcuse, Mia Farrow e Sinatra il quale mi chiamava "companero Maselli"».
Per sfotterla, immagino.
«Erano le stranezze e la confusione del momento. Rimasi allibito nel trovare interlocutori informati e politicizzati. C´era una temperatura, un´aria. Il presentimento del ´68 di cui noi non avevamo ancora idea. Newman era snobisticamente contento di avere un regista comunista dentro casa. Almeno fino al momento in cui bussò l´Fbi per ricordare che il mio permesso stava per scadere. Tornato a Roma parlai con Napolitano, Ingrao e altri compagni dirigenti dicendo: guardate che noi non ci rendiamo conto. Mi presero per matto, "figuriamoci se dobbiamo prendere lezioni da Marcuse". Quando il ´68 esplode mi trovo immediatamente schierato con il movimento studentesco. Per me comunista era doveroso partecipare a un movimento d´avanguardia: che ci contestava, ma non vuol dire. Con il pieno consenso di Napolitano e anche di Amendola. Me lo ricordo alle nostre "Giornate" alternative al festival di Venezia. Avevo accanto lui e Godard».
Giorgio Amendola con Jean Luc Godard?
«Tutta la mia vita mi ha portato a stare in mezzo, a mediare tra due mondi distanti e incompatibili. La contestazione della Mostra riuscì con le contraddizioni del caso. Pasolini era in prima fila con me, Zavattini, Pontecorvo, Solinas, Gregoretti, Ferreri ma al contrario di molti di noi il suo Teorema lo ritirò col cavolo dal concorso. Io portai avanti da buon comunista la seguente linea: convogliare le energie rinnovatrici, che erano radicali e primarie, verso una battaglia di autentica riforma delle strutture istituzionali culturali. Ottenemmo la riforma dello statuto della Biennale. E poi degli enti cinematografici di Stato: decreto Piccoli (uomo della destra Dc ma più a sinistra di Asor Rosa e Abruzzese) che contro tutti quelli che allora come oggi blateravano di "criteri di economicità" e di "mercato", conia la più bella definizione: "Ruolo dello Stato in campo culturale è quello di produrre il massimo dell´utile sociale e culturale con il minimo della spesa". Non si parla d´incassare e non si sottovaluta la cultura a favore dello "scendere in piazza" come facevano allora i professorini di sinistra. E infine la riforma della Rai».
Bei film frutto della "politica culturale", però, pochi.
«Forse non capolavori né grandi rotture. Però ci sono: La classe operaia va in paradiso di Petri, il mio Lettera aperta a un giornale della sera, I cannibali di Cavani, La Cina è vicina di Bellocchio».
Le personalità forti si erano espresse prima e si sarebbero espresse dopo, forse meglio. Dalla contestazione niente di indimenticabile.
«Nei processi di riforma devi combattere grandi battaglie e creare alleanze, fare compromessi. Basta una frase, un aggettivo, una virgola (nella legge 122 è bastato sostituire all´ultimo la parola "film" con "opera" per dirottare tutti i soldi dal cinema alla fiction) per minacciare tutto il lavoro, scontentare, perché quello che hai fatto ti si rivolti contro. Io che ho vissuto il percorso togliattiano fin da ragazzino - tessera del partito il giorno dopo la liberazione di Roma, a 14 anni e dopo aver fatto il gappista, padrino di battesimo Pirandello, casa mia salotto intellettuale di Emilio Cecchi e Alberto Savinio - ce l´ho nel sangue la pazienza dei processi riformatori. Non m´illudo che si possano tradurre subito in termini creativi».
Perché non le piace il partito di Veltroni?
«Non ha niente di sinistra. Il punto è nell´idea di una società "deconflittuata". Togliatti era l´opposto. La classe operaia deve diventare protagonista delle riforme, contro la classe padronale che pensa solo al suo utile».
Parla di una società che non esiste più.
«Lo dice lei. Veltroni predica l´adeguamento all´esistente. Io non mi adeguo e combatto».

Corriere del Mezzogiorno 18.3.08
L'intervista Francesco Bruno: «Possibile che nessuno abbia visto che stava male?»
Il criminologo di Cogne: caso simile a quello della Franzoni



NAPOLI — «Non c'è dubbio che la vicenda di Battipaglia presenti alcune analogie con il caso Cogne. Il primo elemento che balza agli occhi è l'orario in cui la donna ha consumato l'aggressione a danno dei propri figli, e di se stessa». Per il criminologo Francesco Bruno l'episodio che si è verificato ieri mattina nella cittadina in provincia di Salerno ricorda, per alcuni aspetti, la vicenda di cronaca più discussa degli ultimi anni.
Le analogie con il delitto imputato ad Annamaria Franzoni si fermano qui?
«Direi di sì. E questa coincidenza è facilmente spiegabile: questi propositi aggressivi o omicidiari vengono covati dentro a lungo, per poi esplodere all'improvviso, e la mattina, per i depressi, è il momento peggiore. Comincia una nuova giornata di lavoro e impegni familiari e, con essa, le angosce del malato».
Lei escluderebbe, quindi, un'emulazione, consapevole o meno, di un caso di cronaca così mediaticamente sovraesposto?
«Sì. Non è sentendo queste storie in tv che maturano tali istinti. Ma ci sono altri elementi che meritano una riflessione in questa vicenda».
Quali?
«Qui siamo oltre la depressione: per la mamma di Battipaglia penserei ad una patologia psicotica, un caso di schizofrenia, sia per la scelta dell'arma che per le modalità d'aggressione. Questa donna è un'infermiera: possibile che nessuno, nemmeno in un ambiente di lavoro come l'ospedale, si sia accorto che stava male?».
C. M.

DOCUMENTO DEI CENTOAUTORI

I centoautori hanno elaborato questo testo. Chiediamo al mondo del
cinema, della TV, del teatro, e più in generale al mondo della cultura
e dell'informazione, di sottoscrivere questa lettera aperta. Chiediamo
a tutti coloro che la condividono di firmare individualmente, e di
aiutarci a diffonderla per raccogliere in breve tempo quante più
adesioni possibile. Per aderire è sufficiente inviare una email
all'indirizzo: piuomenocentoautori@libero.it


Ai deputati e ai senatori della prossima legislatura,
ai ministri del futuro governo

chi vi scrive rappresenta il mondo del cinema, della televisione, dell’audiovisivo. Ciò che raccontiamo si forma a poco a poco, mettendo insieme scrittori, registi, attori, scenografi, musicisti, operatori, maestranze: un insieme di creatività e competenze, un grappolo di saperi - studiati, appresi, tramandati.

Oggi, in un momento in cui si parla di paese ‘bloccato’, vorremmo portare la vostra attenzione su alcune semplici riflessioni. E avanzare delle proposte. Non lo facciamo con timidezza, non mormoriamo nei corridoi, non chiediamo la vostra amicizia per vederle realizzate - come forse un tempo avveniva.
Chiediamo queste cose a voce alta, pubblicamente.
In primo luogo la difesa dell’universo dei nostri ‘diritti’, che sono poi la nostra identità. In fondo, l’unica cosa davvero nostra. I nostri ‘diritti d’autore’ - inalienabili, incedibili, intrattabili - sono il frutto delle nostre intelligenze e del nostro cuore, vengono dal nostro vivere nella comunità: è da qui, da questo ‘sentire e narrare’ degli scrittori, dei registi, degli artisti, che nasce e via via si rafforza l’immaginario del paese. Chi vorrebbe rinunciare a questo? Chi vorrebbe avere, al posto di un romanziere, un burocrate? Chi può mai pensare che un portaborse messo lì da un partito possa essere meglio di un poeta?

E’ per questo che vi proponiamo di rovesciare il punto di vista consueto: non stiamo chiedendo facilitazioni, favori, denaro. Chiediamo che l’avventura storica del nostro cinema e di tutto ciò che dal cinema ‘muove’ – il racconto televisivo ad esempio – possa tornare a essere centrale. Vi chiediamo dunque di pensare all’Italia non solo come a una fabbrica da far funzionare meglio o una famiglia di cui far quadrare i bilanci, ma anche come a un ambiente da affrescare, una grande parete chiara, una palpebra bianca su cui scrivere le storie che racconteranno - a chi verrà dopo di noi - ciò che eravamo, ciò che siamo stati, ciò che abbiamo cercato di essere.

Ci sono parole che sembrano dimenticate e che invece vorremmo che tornassero ad avere senso e forza. Parole come etica, trasparenza, competenza, passione. Parole che, una volte rese reali, significano che in alcuni ruoli ‘specifici’ non devono mai più andare persone che rispondano a patronati, ma persone capaci, oneste, felici di essere chiamate a quel ruolo, e ricche di volontà di fare, preoccupate esclusivamente del bene della collettività.
Nel cinema e nella TV, questo significherebbe avere persone disposte ad ascoltare, a proporre e a disporre, secondo coscienza personale e non su sollecitazioni esterne.
Nel governo del paese, significherebbe avere un Ministro della Cultura immerso nel battito vivo del paesaggio intellettuale, capace di dialogare col mondo della creatività, dotato del linguaggio giusto.

Ci sono parole come ricerca, innovazione, sperimentazione, che sembrano diventate impronunciabili - parole che spaventano chi crede che un film debba essere pensato solo per un pubblico chiuso nel conformismo, sconcertato di fronte a qualunque racconto non elementare o nuovo. E invece non bisogna aver paura del nuovo. Perché il nuovo è il ghiaccio che si spezza – e sotto, piano piano, viene fuori una ricchezza che si faceva fatica ad accettare e che in breve diventa poi linguaggio condiviso.

Pensiamo alla parola meno usata di questa campagna elettorale: cultura. Nessuno è contro la cultura, nessuno ne prende le distanze, nessuno confessa di detestarla, nessuno ammette di considerarla un peso, una roba per intellettuali lamentosi. E’ una parola consumata, che non dice più nulla, e perfino noi abbiamo difficoltà a usarla, per l’uso mercantile e falso che se ne è fatto.
E’ una colpa imperdonabile aver logorato questa parola così importante, nella terra in cui la cultura è invece così vicina alle persone comuni: ci camminano dentro quando attraversano le strade, quando passano davanti alle nostre antiche chiese, quando guardano certi palazzi gentili, certe fontane armoniose, o quei lungofiumi che disegnano quinte di case in mirabili teatri all’aperto. Queste persone sono le stesse che provano una comunanza di sentimenti, pensiero e passione quando, al cinema o in TV, vedono quelle stesse strade, quelle stesse piazze, attraversate dal corpo e dalla voce dei nostri attori e delle nostre attrici. La nostra gente ama la cultura, anche se la chiama con tanti altri nomi. Ma la cultura va di nuovo messa al centro del campo di gioco, non va lasciata ai margini: bisogna far circolare le idee, far circolare i film, le musiche, i colori, i teatri, e tutto il resto che ci gira intorno.

Siamo una nazione ricca del nostro lavoro e della nostra cultura, ma proprio in questo settore, siamo dietro a molti, a troppi paesi. Abbiamo dunque bisogno di cambiare. Sembra difficile, ma non è difficile. Sembra avere dei costi, e invece, tanto per cominciare, si potrebbe partire quasi a costo zero: insegnare il cinema nelle scuole; promuovere il lavoro dei nostri documentaristi sui luoghi di lavoro, nelle case, nelle campagne; avere delle vere regole di mercato; ruotare le nomine; far valere persone brave e competenti. Cose semplici, cose abituali in altri paesi. Servirebbe a noi, e a quelli che verranno…

‘Quelli che verranno’, sono i ragazzi. I nostri – e vostri – figli. Sono quelli che nelle loro stanze, davanti ai loro schermi privati, scaricano film dalla rete, talvolta legalmente, ma più spesso illegalmente, arricchendo i provider che usano il nostro lavoro senza riconoscerlo, privandoci dei nostri diritti. Noi riteniamo che sia giusto che gli autori tutelino lo sfruttamento delle proprie opere, arginando la marea montante della pirateria, anche telematica. Ma pensiamo che sia anche giusto che i giovani possano avere accesso ai nostri film senza pagare un costo che li rende di fatto inaccessibili.
E’ qualcosa di cui dovremmo ragionare assieme.

Quando diciamo ‘assieme’, intendiamo dire che, rispetto a quanto accaduto finora, vorremmo mettere le nostre competenze al servizio della collettività, proprio come sarete chiamati a fare voi una volta eletti.
Vi proponiamo di prenderci delle responsabilità ‘dirette’.
Se vorrete avere delle commissioni che ad esempio debbano decidere quali finanziamenti, a quali produttori, a quali registi, sulla base di quali garanzie - non cercate i nomi nella vostra rubrica privata, non chiamate i vostri amici, le vostre mogli, le vostre segretarie: chiamate noi. E non sottobanco, non come consulenti segreti. Ma, come in molti paesi europei, alla luce del sole. Per periodi di tempo stabiliti in cui non scriveremo, non gireremo i nostri film - ma assolveremo solo il compito che avremo accettato di svolgere.

Il cinema - quando una storia o un’immagine è allo stesso tempo semplice e profonda - ha la forza immensa di dirci ciò che non sapevamo, di mostrarci ciò che non potevamo immaginare, nemmeno su noi stessi. Infatti il cinema, e tutto ciò che dal cinema discende, è un’arte semplice. Ma semplice non vuol dire banale, semplice significa qualcosa che sta alla fine di un lungo lavoro. E’ per questo che, quando un film ‘parla’ al pubblico e lo colpisce al cuore, si assiste a una specie di miracolo: lo spettatore, passivo per vecchia definizione, in realtà non è passivo per niente: si anima, prende parte, si schiera, discute: che diavolo è il monolite di Odissea nello spazio? E’ colpa di Mamma Roma se il figlio muore? Marcello, nella sua dolce vita, è un tipo malinconico o è uno stronzo? Ha ragione o no il professor Silvio Orlando a dire che I promessi sposi sono una palla?

La domanda che occorre porsi è questa: di cosa ha bisogno il nostro paese per ritrovare se stesso, per specchiarsi senza paura della propria immagine, immobilizzata in una maschera? Può, chi governa, limitarsi ad avere il semplice ruolo di arbitro nella corsa dei cittadini al benessere economico individuale? Oppure, può limitarsi a chiedere ai cittadini di riconoscersi come comunità soltanto nel rispetto delle regole, delle compatibilità economiche, o di una maggiore equità fiscale?
C’è bisogno di qualcosa di più. Dobbiamo decifrare il disagio, e raccontarlo, cercando nei nostri film, una specie di ‘utopia concreta’, un progetto di ‘futuro possibile’, a portata di mano, una rivendicazione orgogliosa, capace di vibrare in sintonia col paese reale: vedersi rappresentati, vedersi raccontati, aiuta a capirsi.
Perché di questo c’è bisogno: di tornare a ‘vederci’.
Perché l’immagine che oggi ci rimanda gran parte della TV - la TV peggiore, schiacciata a rincorrere un consenso di puri numeri - non è il paese vero. Dove stanno quelle donne così finte, dove vivono quegli uomini così stupidi, quei giovani così vuoti? Chi incontra mai per strada o in un bar gente vestita in quel modo, atteggiata in quel modo, rincoglionita in quel modo?
Bisogna restituire alla TV - questo potenziale grande strumento di democrazia e uguaglianza - il suo ‘occhio’: il che non significa deprimere l’ascolto, non significa non fare spettacolo, non fare intrattenimento, non fare fiction che appassioni il grande pubblico. Significa fare tutto quello che già si fa, ma pensando che chi guarda abbia voglia di vedersi come realmente è - o come realmente sogna - e non come viene sbrigativamente rappresentato.

Abbiamo bisogno di buon cinema e di buona TV perché abbiamo bisogno di un nuovo sguardo. Non solo per noi, ma per gli spettatori, perché è il pubblico ad avere bisogno di un racconto di sé più nuovo, più abitato dalla contemporaneità.
Nello stesso modo, non siamo noi - gli autori, i cineasti - ad aver bisogno dello Stato, ma è lo Stato che deve tornare a chiedersi se non abbia bisogno di noi: per sapere di nuovo chi siamo, dove siamo, come il paese può essere aiutato a ritrovarsi e a crescere.

Vi ricordiamo, per concludere, quanto il mondo del cinema e della TV e del teatro e della letteratura aveva scritto un anno fa, in occasione di una grande allegra manifestazione: “Crediamo che lo Stato abbia l’obbligo di assicurare ai propri cittadini il diritto di accedere alla più ampia varietà possibile di opere - nazionali e internazionali, commerciali e ‘di nicchia’, di qualità e di intrattenimento, di documentazione e di ricerca, restituendo al cinema e alla TV un ruolo di arricchimento culturale. Negli ultimi anni questo diritto si è indebolito, riducendo la libertà di scelta per autori e fruitori, semplificando i messaggi trasmessi alle giovani generazioni, impoverendo intellettualmente e umanamente tutta la collettività.”
E’ da qui che pensiamo si debba ricominciare. Sediamoci, parliamo.


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GIULIA BERNARDINI; cell.: 333/6778229, e-mail: giulia.ber@gmail.com