venerdì 21 marzo 2008

l’Unità 21.3.08
«G8, An spieghi perché era in sala-regia»
Pericu, sindaco di Genova nel 2001: si diedero un gran da fare con Fini e Ascierto, città off-limits
di Massimo Solani


NEL LUGLIO DEL 2001 Giuseppe Pericu era il sindaco di una città ferita dalla violenza, da uno strappo di cui ancora oggi non riesce a comprendere a pieno le cause. Anche per questo, ora che primo cittadino non lo è più, continua a battersi per l’istituzione di
una commissione parlamentare di inchiesta che faccia luce su molti aspetti della gestione dell’evento. Specialmente dal punto di vista dell’ordine pubblico. «Dopo la manifestazione del giovedì che si svolse senza alcuna criticità - spiega - accaddero davvero cose molto gravi, violenze inaudite. Tanto che i pm hanno chiesto condanne esemplari anche per i manifestanti imputati per le violenze e i saccheggi. Ma è arrivato il momento di capire tutto quello che è successo in quei tre giorni. A prescindere dalle inchieste della magistratura non possiamo più rimandare il tempo per un accertamento di insieme: sia per quanto riguarda la fase di preparazione che quella di gestione dell’evento».
In quelle ore lei ebbe contatti con il ministro dell’Interno Scajola?
«Partecipai alle molte riunioni che si tennero nelle settimane precedenti. Ma tre giorni prima dell’inizio delle manifestazioni il ministero dell’Interno assunse il controllo completo della situazione. Una delle cose di cui io mi lamentai, infatti, era di essere stato messo nella condizione di non sapere quanto si stava preparando».
Nel corso di quelle ore drammatiche, con chi era in contatto?
«Con il prefetto e con il questore. Ma sul posto c’erano i vertici della polizia, ed erano loro a gestire l’evento. Era diventata una questione di ordine pubblico e le decisioni se le sono assunte interamente loro. Come buona parte dei genovesi anch’io scoprii con sorpresa lo schieramento dei container a chiusura delle strade e l’innalzamento delle famose griglie».
Sta dicendo di essere stato esautorato dalle decisioni?
«Da quelle in materia di ordine pubblico sicuramente sì. Per me, in veste di sindaco, il G8 si concluse il 7 luglio quando furono conclusi i lavori per preparare la città all’evento. Da quel momento in poi le mie furono iniziative personali, come quando il venerdì trattai con Vittorio Agnoletto a nome del Social Forum nel tentativo di far cessare l’assedio alla zona rossa, prima della morte di Carlo Giuliani».
Quello che è strano è che invece più di un rappresentante del cdx, in quelle stesse ore, era nelle stanze dei bottoni dove si prendevano le decisioni sull’ordine pubblico.
«In quei giorni gli uomini di An si diedero un gran da fare. Ricordo che l’onorevole Ascierto stazionò per lunghe ore nella caserma dei Carabinieri in Corso Italia. E ricordo anche la presenza di Gianfranco Fini. Tutte vicende che, lo dico una volta di più, sarebbe il caso di approfondire e accertare attraverso il lavoro di una commissione parlamentare. Solo in questo modo potremmo cercare di comprendere meglio quanto successo e farne tesoro per il futuro. Ricordo a tutti che la prossima estate l’Italia ospiterà di nuovo una riunione del G8 sull’isola della Maddalena».
Uno degli argomenti più usati da chi si oppone è il rischio di una sovrapposizione con il lavoro della magistratura.
«I processi penali accerteranno le responsabilità personali degli uomini delle forze dell’ordine coinvolti e dei manifestanti imputati. Ma quello che manca ancora totalmente in questa vicenda è una valutazione complessiva. Che soltanto una commissione di inchiesta parlamentare avrebbe potuto definire».
Avrebbe potuto? Quindi nemmeno lei crede più alla possibilità che si faccia...
«Io ci spero ancora. Ma devo prendo atto del fatto che ogni volta che si è provato a realizzarla è stata puntualmente affossata. E più passa il tempo più è difficile. Senza un lavoro “politico” mancheranno sempre i riferimenti generali in cui contestualizzare il comportamento delle forze dell’ordine, le strategia del loro schieramento in strada e il perché di molte scelte fatte. A partire da una attività di prevenzione insufficiente».
Qualcuno ha remato contro anche all’interno del centrosinistra.
«Purtroppo sì. Ci sono stati gruppi parlamentari, anche all’interno della maggioranza, che hanno fatto di tutto perché non si procedesse».
Sono stati inutili anche i richiami di Prodi e gli appelli di Veltroni. Perché secondo lei?
«Credo che qualcuno non abbia voluto andare a rivangare responsabilità che non sono soltanto del centrodestra, a cui ovviamente va attribuita grande parte del fallimento della gestione del G8. Non dimentichiamo che l’evento venne organizzato e preparato nel periodo del governo Amato di centrosinistra, prima delle elezioni poi vinte da Berlusconi».

Repubblica 21.3.08
"Bolzaneto, politica indifferente si è urlato di più su Guantanamo"
Il ministro Amato: severità verso chi ha sbagliato
di Giuseppe D’Avanzo


Per la Diaz e per la caserma si va al di là di ogni capacità di comprensione Si è voluto colpire i "comunisti"
Immolare il capo della polizia De Gennaro non avrebbe risolto il problema Bisogna ricostruire chi ha fatto che cosa
Per accertare la verità conviene affidarsi al lavoro dei giudici e lasciar perdere le commissioni parlamentari

«Bolzaneto è una gran brutta storia…».
Giuliano Amato, ministro dell´Interno, non si lascia nemmeno porre la domanda. Ripete ancora: «È una bruttissima storia».
È un´opinione condivisa che sia un gran brutta storia, meno condivise sono le ragioni del perché sia potuto accadere. Qual è la sua opinione?
«Mi deve consentire un ricordo personale. Tra i miei primi libri c´è Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale. C´era, ricordo, un capitolo sulla tortura dove ne elencavo anche le tecniche. Era il 1968. In quell´Italia pre-pasoliniana, negli anni cinquanta/sessanta, ci sforzavamo di correggere un´interpretazione riduttiva dei principi costituzionali che sentivamo inespressi in una cultura dello Stato non ancora consapevole di dover essere al servizio del cittadino. Quarant´anni dopo, dover prendere atto che, anche se per un breve stagione, siamo tornati là da dove ci siamo mossi è dura da accettare».
Se capisco bene, è dura da accettare che ancora oggi ci siano servitori dello Stato che hanno dimostrato di disprezzare la disciplina costituzionale della libertà personale. Allora devo chiederle: come e chi forma questi uomini? È nella loro formazione il problema?
«Guardi, io da ministro ho capito che le nostre scuole di polizia hanno processi di formazione che creano tra le migliori professionalità del mondo. Va però detto che è una professione che attira anche gli "istintivamente Rambo". Non ce ne dobbiamo meravigliare. Come non ci dobbiamo sorprendere se, in una situazione di tensione, magari alla 14esima ora del servizio in piazza e dopo ripetuti insulti e lanci di oggetti, ci sia chi non controlla il suo istinto di reazione».
Forse, e non tutti saranno d´accordo, questo può giustificare le violenze nelle strade di Genova, ma non quel che è accaduto alla Diaz. Tantomeno quel che è successo nella caserma di Bolzaneto, luogo chiuso, dove non c´era alcuna emergenza, nessuna minaccia.
«Infatti per la Diaz e Bolzaneto si va al di là di ogni capacità di comprensione. Osservo che questo è vero soprattutto per Bolzaneto dove più che la polizia, c´era soprattutto la polizia penitenziaria che non doveva fare i conti con la pressione della piazza e che, custodendo persone assoggettate, dovrebbe guardarsi dall´abuso di autorità, dovrebbe saper rispettare la dignità umana. Come è stato possibile, dunque? Posso soltanto pensare che bisognerà guardare ulteriormente ai processi di formazione, selezione e avanzamento del personale. Il tema del rispetto della dignità umana è una questione che ho posto ripetutamente nei miei interventi nelle scuole di polizia ricordando che, se è forse agevole un comportamento corretto nei confronti di un bianco con giacca e cravatta, l´obbligo deve essere avvertito ancor di più quando si ha a che fare con disgraziati che possono scatenare quel particolare e violento rapporto che si crea tra il superiore e l´inferiore. So di che cosa si tratta. Sono diventato socialista in una corsia d´ospedale dove gli infermieri e i medici davano il lei ai signori e il tu a mio nonno. Non è un problema irrilevante, però, la disciplina giuridica. Non possiamo giudicare quei comportamenti inumani e vessatori semplicemente come violenza privata o abuso d´ufficio. È qualcosa di più. Deve esserci una severità maggiore quando si esercita violenza contro chi è assoggettato al tuo potere. Intendiamoci: spesso abbiamo la tentazione di risolvere i problemi di ordine pubblico, sicurezza, criminalità con un inasprimento delle pene. E ho detto più volte che inasprire le pene non sempre aiuta a risolvere i problemi. In questo caso - nel caso delle violenze inflitte a chi è assoggettato a un potere - aggravare non tanto le pene ma il tipo di reato è giusto e necessario».
Non aiuta a rimarginare la ferita di Genova la promozione dei funzionari coinvolti nelle violenze.
«Il procedimento disciplinare può seguire l´esito del processo penale con sentenza passata in giudicato. Prima della sentenza penale, è possibile sospendere un funzionario dal servizio soltanto se accusato di alcuni gravi reati, come la collusione con un´associazione mafiosa. Qui, però, davanti a reati trattati come abuso d´ufficio o violenza privata ciò è impossibile. Altro sarebbe il discorso se esistesse una norma che punisse espressamente gli atti di tortura o i comportamenti crudeli e disumani, che ritengo possano essere parificati, per gravità, alla collusione mafiosa».
Capisco, ma c´è una differenza tra non sospendere e promuovere.
«È vero, ma c´è chi è stato promosso dopo un concorso. Chi ha lavorato all´arresto di Bernardo Provenzano e aveva le carte e i tempi giusti per esserlo. E lo dico anche se queste promozioni sono precedenti al mio incarico. Credo che regole e garanzie debbano valere nei confronti di tutti, per chi ha subito le violenze e anche per chi è accusato di essere il presunto violento. Non nego che esiste quel che potremmo definire "un margine di responsabilità oggettiva" che dovrebbe implicare di mettersi da parte, come accade a chi è accusato di reati molto gravi. Diciamo che ritengo questo atteggiamento una "collaborazione rafforzata" con la giustizia. Sono rimasto coinvolto in fatti gravi. Ritengo di non aver colpe e responsabilità. Mi faccio, però, da parte nell´interesse dell´istituzione che rappresento. Se sono poi assolto, ho pagato senza ragione un prezzo. Può accadere. Accade».
Molti ritengono che il capo della polizia all´epoca del G8, Gianni De Gennaro, avrebbe dovuto fare quel passo indietro di cui lei parla, sentire sulle spalle una responsabilità oggettiva. È un fatto che la permanenza di De Gennaro al vertice della Dipartimento della sicurezza pubblica non abbia aiutato a scolorire le polemiche, a sciogliere il rancore che molti giovani nutrono nei confronti degli uomini in divisa, a restituire credibilità alle amministrazioni coinvolte nelle violenze di Genova.
«Non è che debba volare per forza una testa posta in alto perché altrimenti si dice che sono volati solo gli stracci. Io non credo che immolare il capo della polizia avrebbe risolto il problema. Il capo della polizia ha ritenuto di non dimettersi. Ha con fermezza detto di non essere il responsabile di quanto è accaduto. Le violenze di Genova gli sono apparse così lontane dalla sua cultura professionale, dalla sua storia di poliziotto che ha pensato di restare al suo posto, di difendere se stesso».
E lei che ne pensa? Era la cosa giusta da fare?
«Si voleva mettere al rogo De Gennaro per fare l´incendio più fiammeggiante. Lui era quello più in vista, e poco importa se a Bolzaneto c´era soprattutto la penitenziaria che non dipende certo da lui. Io penso invece che va sempre accertato chi ha fatto che cosa. Anche per questo non vedo l´ora che i processi di Genova si concludano in modo che se ne possa riprendere il bandolo e riportarlo all´interno dell´amministrazione assumendo le decisioni più opportune».
Veltroni chiede di accertare se ci siano state, per Genova, responsabilità politiche. È un´opinione condivisa che se oggi la politica ha a lungo taciuto, allora parlò.
«Guardi, io escludo nel modo più assoluto che Gianfranco Fini, della cui presenza a Genova si è molto parlato, abbia potuto dare l´ordine di picchiare duro. Lo conosco. E so che la sua cultura è altra. È possibile piuttosto che, con un governo di centro-destra, ci sia stato chi tra le forze dell´ordine e nella polizia penitenziaria abbia pensato di dare una lezione ai "comunisti". E d´altronde le frasi che sono state gridate a Bolzaneto non lasciano margini al dubbio che si è voluto colpire e punire i "comunisti"».
Questa conclusione, però, rende ancora più inspiegabile il lungo silenzio della politica. Non le pare?
«Non parlerei di silenzio. Parlerei di indifferenza, o meglio di ritrosia. Sorprendente, se ci pensa: si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo, che al loro rispetto a casa nostra. Anche per questo sarebbe essenziale che rilevassimo come una macchia l´eccezione del 2001 e attivassimo le difese per evitare che si ripeta».
Ma perché quella ritrosia?
«Per l´incompiutezza della nostra democrazia. Le forze politiche affrontano questioni dell´ordine pubblico con un sentimento da "taci il nemico ti ascolta". Alcune pensano che le forze dell´ordine possano essere un territorio di conquista, altre credono che - facendone un bersaglio di furori polemici - possano guadagnare consensi. Nasce così, tra eccessi e reticenze, una frattura nel sistema politico, diviso tra chi parteggia e chi accusa».
Ancora ieri la "Sinistra Arcobaleno" di Bertinotti ha chiesto una commissione parlamentare d´inchiesta già invocata nella scorsa legislatura e bocciata anche dal centro-sinistra. Lei pensa che una commissione d´indagine possa essere utile?
«Le dico quel che penso e non da oggi, ma dall´epoca in cui scrissi quel libro di cui parlavo all´inizio: per accertare la verità, mi fido della giustizia non della politica. Noi - e non soltanto noi politici - siamo sempre tentati dal deformare i fatti, piegarli alle nostre convenienze e utilità. Il più straordinario frutto della nostra civiltà è stata la creazione della giurisdizione, di quel potere autonomo e indipendente da altri poteri a cui abbiamo affidato il compito di ricostruire che cosa è accaduto e per responsabilità di chi. Per accertare la verità di Bolzaneto conviene affidarsi al lavoro del giudice e lasciar perdere le commissioni parlamentari».

Repubblica 21.3.08
Antiproibizionismo, il leader della Sinistra arcobaleno attacca il Pd. I radicali: che hanno fatto quando erano al governo?
Bertinotti: "Legalizzare la cannabis e sperimentare le stanze del buco"
Tra le proposte, lo stop alla pubblicità di ogni sostanza nociva legale


ROMA - Sì alla legalizzazione delle droghe leggere. E sì alla sperimentazione delle "stanze del buco", come avviene già in alcuni paesi europei. Fausto Bertinotti rilancia le proposte anti-proibizioniste, e attacca anche su questo fronte il Pd che, stretto fra i radicali e la Binetti, «non dice nulla sul tema delle droghe per paura dei contrasti al proprio interno». Ne aveva però parlato, due giorni fa. Massimo D´Alema, favorevole a reintrodurre una distinzione fra droghe leggere e pesanti, e quindi a modificare la Fini-Giovanardi, suscitando l´immediata reazione del centrodestra. Anche il presidente della Camera, in un´intervista all´Ansa, è per cancellare la legge attuale e si spinge più avanti pronunciandosi con chiarezza per la legalizzazione della cannabis, per impedire che «droghe leggere e pesanti costituiscano uno stesso mercato esponendo così i giovani a maggiori rischi». Il candidato premier della Sinistra arcobaleno vorrebbe allo stesso tempo uno stop alla pubblicità «per qualsiasi sostanza nociva legale», soprattutto alcol e sigarette.
Ma Bertinotti soprattutto apre sulle cosiddette "stanze del buco", dove i tossicodipendenti possono assumere droga in un ambiente protetto e sotto il controllo dei medici. «Non dico di fare come in Olanda ma almeno come in Belgio e Spagna». Si possono sperimentare anche in Italia, dice dunque il presidente della Camera, riprendendo la proposta appoggiata qualche tempo fa dal ministro del suo stesso partito Paolo Ferrero. Fra le proteste, allora, non solo del centrodestra ma anche di una parte dell´Unione, che con il ministro Bindi ne aveva subito preso le distanze («Le stanze del buco non fanno parte del programma del centrosinistra»). Il candidato premier della Sa, sciolto qualunque vincolo con la vecchia Unione, ci riprova. «In Europa - osserva - le "stanze del buco" sono state aperte da decenni da governi di destra e sinistra, e sono riuscite a contenere morti e malattie infettive». Anche in Italia dunque è arrivato il momento di provare questa «forma di assistenza», senza per questo «oscurare la drammaticità del fenomeno ma valutarlo sulla base dell´evidenza scientifica». La stessa Croce rossa internazionale, ricorda, su questi temi si è recentemente espressa «valutando positivamente le politiche di riduzione del danno». Su questo terreno vince la cultura proibizionista, «al silenzio del Pd fa da contraltare l´atteggiamento demagogico della destra».
E si apre subito una polemica con i radicali, visto che la segretaria Rita Bernardini se la prende con Paolo Ferrero, ministro competente per "materia", la Solidarietà sociale. «Lui e gli altri del Prc attaccano tanto i cattivoni del Pd che non hanno permesso l´abrogazione della Fini-Giovanardi. Ma il ministro dov´era? Non mi risulta che abbia battuto i pugni sul tavolo». Replica di Ferrero: la Bernardini è proprio male informata, è stata la maggioranza del governo che ha scelto di non mettere mano alla «terribile» legge sulle droghe, «non sostenendo mai le proposte da me elaborate insieme al ministro della Sanità Livia Turco».

Repubblica 21.3.08
Potere operaio
"I brigatisti? Ottime persone" è polemica sulle parole di Piperno
"Avevano una loro morale". I familiari delle vittime: si vergogni


ROMA - «I terroristi? Io penso che sono moralmente delle ottime persone anche se hanno ucciso». Franco Piperno, il cattivo maestro di Potere operaio, che definì la strage di via Fani «di geometrica potenza», ieri intervenendo a "Controcorrente", l´approfondimento di Sky Tg 24, ha lanciato la sua provocazione. Cosa intende per moralità, gli ha chiesto sorpreso il conduttore, Corrado Formigli. Risposta: «E´ una morale di guerra, non esiste solo una sua morale o una mia morale. La morale è multipla, ci sono persone che vanno a bombardare una città e sono considerate degli eroi e delle persone che sparano su un bersaglio determinato che sono considerate dei criminali. Nel secondo caso solo perché sconfitti».
Da Torino Andrea Casalegno, il figlio di Carlo, ucciso dalle Br nel 1977, è durissimo: «Chi spara nelle schiene di persone innocenti è un miserabile da un punto di vista letterale. E come diceva Platone è meglio subire un´ingiustizia che commetterla: chi uccide uccide la propria anima, chi muore perde soltanto la vita». Benedetta Tobagi, figlia di Walter, assassinato nel 1980 dalla "Brigata 28 marzo", appare turbata di fronte all´uscita: «Negli anni Settanta non c´era la guerra civile. Questa è l´ennesima dimostrazione di quanto ci sia bisogno di dedicarsi seriamente allo studio della storia del nostro paese, invece di rincorrere battute a effetto o sterili polemiche da salotto televisivo dando corda a quelle che la psicanalista Carol Tarantelli nel libro di Mario Calabresi ha definito le "fantasie" degli ex terroristi e dei loro simpatizzanti». Ferdinando Imposimato, che da magistrato ha indagato sul caso Moro, e che ha appena scritto "Doveva morire" (Chiare Lettere), un libro impietoso nell´elencare le responsabilità dello Stato durante i 55 giorni, parla di «provocazione inaccettabile. E´ vero che alcuni di loro erano animati da sinceri ideali, ma non va dimenticato che hanno provocato dolore immedicabile nei famigliari delle vittime e vanificata un´operazione positiva per la democrazia italiana come il compromesso storico, che mirava a scongelare una democrazia bloccata».
Franco Piperno oggi insegna all´Università della Calabria. Al "processo 7 aprile" venne condannato a 2 anni di carcere per costituzione di associazione sovversiva. Ha appena edito un libro di riflessioni sul ‘68 L´anno che ritorna (Rizzoli). Ieri dopo Sky è stato ospite da Vespa, a "Porta a Porta". E´ giusto dare ancora la parola ai protagonisti degli anni di piombo? «Per me sì, hanno il diritto di parlare, ma non facciamone degli eroi», precisa Imposimato. Corrado Guerzoni, tra i più stretti collaboratore di Moro, non nasconde la sua irritazione: «I brigatisti erano solo dei criminali stupidi, che non avevano nessuna consapevolezza della realtà. Non capisco il tentativo di riabilitarli come persone intelligenti, come ha fatto di recente anche Francesco Cossiga».
(c. ve.)

Repubblica 21.3.08
Maria Fida Moro: da Morucci a Faranda li ho voluti incontrare tutti
"Fa un discorso farneticante ma gli assassini di mio padre io sono riuscita a perdonarli"
di Concetto Vecchio


Per loro sono stata anche una specie di punizione: hanno toccato con mano la spirale di dolore che avevano provocato

ROMA - «No, non sono per niente d´accordo con quest´uscita di Piperno. Ho conosciuto molti terroristi in buona fede, ma questo non vuol dire che non sbagliassero gravemente quando sparavano alle persone e pensavano di abbattere lo Stato borghese. Mi pare insomma un discorso un po´ farneticante». Maria Fida Moro, 61 anni, la figlia maggiore di Aldo Moro, ha coltivato negli anni una silenziosa amicizia con gli assassini di suo padre al punto da dire che «se avessi bisogno di aiuto lo riceverei più da loro che dalle persone che sarebbero in dovere di darmelo».
Racconta: «Con Valerio Morucci e Adriana Faranda furono suor Teresilla e il giudice Imposimato a far da tramite: la prima volta c´incontrammo in carcere a Rebibbia nell´ottobre 1984, una cosa molto emozionante. Scoprii che eravamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d´onda e che loro erano diversi da come uno se li immaginava leggendo i gelidi comunicati. Soprattutto c´erano due profonde sofferenze che s´incrociavano. Mia madre mi fece consegnare un mazzo di fiori per loro. Parlammo per quattro ore. Quando furono trasferiti nel carcere di Palliano, mi chiesero di fare l´assistente volontaria lì, e cominciai a coordinare un coro di cui facevano parte la Faranda, Morucci e Antonio Savasta. Vede, ho fatto semplicemente quello che avrebbe fatto mio padre al posto mio: il perdono per un cristiano non è un optional, ma è inevitabile, e la pena dev´essere riabilitativa altrimenti è vendetta. Sono stata anche una specie di punizione per loro in quanto hanno toccato con mano che razza di spirale di dolore avevano innescato».
La sua vita, dice, s´è fermata nella primavera del 1978. «Sono sopravvissuta, vegeto, non è vita. Ho avuto 28 tumori, l´ultimo scoperto da poco. Tutto è andato perduto, anche tra noi fratelli c´è stata come una diaspora, ognuno ha scelto una vita diversa». Eleonora Moro, la mamma, ha 92 anni. «E condivide le mie scelte». Maria Fida Moro sino a qualche giorno fa faceva parte della direzione radicale, il partito dell´ex Prima Linea Sergio D´Elia. «Sergio l´ho difeso quando fu eletto nell´ufficio di presidenza della Camera, la mia parte emotiva si ribella, ma quella razionale mi dice che invece può farlo perché c´è una legge a permetterglielo, e alla fine prevale la parte razionale. Lui è molto diverso da allora, ha dedicato tutta la sua vita a riscattare il male fatto». A parte il grande capo br Mario Moretti li ha incontrati quasi tutti: Alberto Franceschini, Enrico Fenzi, Giovanni Senzani, Marco Barbone. E quando è morta suor Teresilla, travolta da un´auto mentre andava in pellegrinaggio, radunò, gennaio 2007, davanti alla chiesa del Divino Amore a Roma Morucci, Faranda e D´Elia e l´ex direttore del carcere di Palliano Anacleto Benedetti, e sul sagrato composero un cerchio scout per ricordarla insieme, mentre la gente usciva da messa.
Tempo fa ha dato il suo parere favorevole alla concessione della libertà vigilata per la brigatista Barbara Balzerani, che durante il sequestro divideva il covo di via Gradoli con Moretti. «Ma un conto è permettergli di rifarsi una vita, un conto è concedergli la possibilità esclusiva di riscrivere la storia degli anni Settanta in tv e sui giornali com´è accaduto finora, anche se ammetto che nell´ultimo anno qualcosa è cambiato in meglio, anche grazie al nostro appello a Napolitano e ai presidenti delle Camere». Morucci e la Faranda, ad esempio, hanno detto tutto quello che sapevano? «Non lo so, ma non è vero che si potranno chiudere i conti col terrorismo solo quando si sarà saputa tutta la verità, ma solo quando il paese assumerà finalmente su di sé il peso di quello che non è stato fatto per salvare la vita ad Aldo Moro». In due lettere dalla prigionia Moro sollecitò la moglie ad andare in tv per lanciare un appello al paese. Non lo fece, perché sconsigliata. «Io ero d´accordo con mio padre, ma non feci nulla per convincere mia madre, e ne porto il peso. Forse ci sarebbe anche oggi il partito della fermezza, ma a differenza di allora l´opinione pubblica si mobiliterebbe per la liberazione dell´ostaggio, come ha giustamente fatto per Daniele Mastrogiacomo e le due Simone».

Repubblica 21.3.08
Aborto, da Formigoni stop alla Turco
La Lombardia: no alle linee guida sulla 194. Il ministro: le altre regioni sono d'accordo
Il veto potrebbe far saltare l'intesa. Rinviata di una settimana la decisione finale
di Andrea Montanari


MILANO - La Lombardia dice no alle linee guida del ministro Livia Turco sulla legge 194 e la decisione rischia di slittare al prossimo governo. Un rischio al momento ancora teorico, ma che potrebbe concretizzarsi se mercoledì prossimo il veto lombardo, annunciato ieri dall´assessore regionale alle Finanze ciellino Romano Colozzi alla Conferenza Stato-Regioni, verrà confermato. La regione governata da Roberto Formigoni, infatti, ritiene «troppo abortiste» le linee guida proposte dal ministro della Salute. «Nel documento è totalmente assente il principio della vita fin dalla sua prima fase - attacca Colozzi - Invece che prevenire l´aborto questo documento finisce per istigare a commetterlo. Queste linee guida non valorizzano il ruolo attivo dei consultori e dell´associazionismo, che devono favorire la cultura dell´accoglienza. Non si può accettare che la prevenzione sia affidata principalmente alla contraccezione o alla pillola del giorno dopo». Di tutt´altro avviso Livia Turco, che replica polemicamente: «Le altre regioni e l´Anci, che rappresenta i comuni, sono d´accordo». Per uscire dall´impasse, la riunione decisiva è stata rinviata di una settimana. «Per permettere a un tavolo tecnico - aggiunge il ministro - di rendere compatibile le linee guida del governo con la normativa vigente in Lombardia». Che, ad esempio, da quest´anno, hanno ridotto dalla ventiquattresima alla ventiduesima settimana di vita del feto il limite per praticare l´aborto terapeutico.
Il veto della Lombardia potrebbe comunque vanificare tutto, dato che le regole stabiliscono che l´intesa si raggiunga solo all´unanimità. L´assessore Colozzi è categorico: «Non ci accontenteremo di un lifting. Le distanze sono enormi e su troppi punti. Se vinceremo le elezioni il nostro governo varerà linee guida completamente diverse. Queste tradiscono perfino lo spirito della legge 194, che vogliamo applicare». Solo poche settimane fa, il centrodestra lombardo si era battuto per far inserire nei principi cardine del nuovo statuto regionale che la «Lombardia tutelava la vita fin dal suo concepimento». Frase che nel testo finale è stato cambiata in «tutela la vita in ogni sua fase» per ottenere il voto bipartisan del Partito democratico.
Il rinvio sulle linee guida non piace nemmeno all´Udc. «I rinvii non cambiano la sostanza delle cose - chiarisce il capo gruppo alla Camera Luca Volontè - Con un blitz compiuto in piena campagna elettorale, che aggira le sentenze amministrative e mortifica la minima decenza parlamentare, il ministro uscente Turco si prepara a emanare le nuove linee guida della 194. Di questo colpo di mano saranno certamente contente le frange antivita ed eugenetiche cui ha sempre dovuto rendere conto». Durissima, invece, la reazione del Pd lombardo. «La posizione della Lombardia è ideologica e pretestuosa - accusano le consigliere regionali Ardemia Oriani e Sara Valmaggi - Il veto sarebbe grave e incomprensibile». Protesta anche Nicoletta Pirotta di Rifondazione comunista: «Il clerico-liberismo di Formigoni tiene sotto scacco la legge nazionale e il diritto di scelta delle donne».
L´ultimo rapporto del ministero della Giustizia definisce ancora «preoccupante» il fenomeno degli aborti clandestini, ma in calo quello degli aborti dei minorenni senza il consenso dei genitori.

Repubblica 21.3.08
Scegliere di morire lontani dalle ideologie
di Francesco Merlo


Per l´Italia, che ha messo l´ideologia alla porta del mondo e vuol fare decidere alla piazza e ai suoi tumulti quando è l´ora di aprirla e quando è l´ora di chiuderla, suonano come una grande lezione di sobrietà e di stile i due casi di accompagnamento alla morte, avvenuti nello stesso giorno di martedì, senza scioperi della sete e senza girotondi ‘pro life´: uno in Belgio con il conforto della legge e l´altro in Francia fuori dalla legge.
Addirittura il giudice francese, come omaggio elegante a madame Chantal Sébire, sta trattando il suo divorzio dalla vita come «morte naturale». E dunque (sinora) ha evitato l´oltraggio dell´autopsia alla signora che a 52 anni ha disobbedito al tribunale e ha preservato la propria dignità abbandonando quel corpo che non era più la sua custodia ma il suo esilio.
Pensate: i principali quotidiani francesi, a corredo di un delicato – e, per noi italiani, lunare – silenzio sui particolari, hanno pubblicato solo le foto che alla signora Sébire erano state scattate prima dell´orribile tumore che, a partire dal naso, le aveva devastato il viso dolce e sorridente di mamma e di moglie e l´aveva privata della vista, del gusto e dell´odorato. I nostri giornali avrebbero ovviamente invocato il sacro diritto di cronaca per lanciarsi cinicamente nell´abuso di cronaca e dunque stuzzicare la morbosità, raccontare e mostrare l´orrore e il dolore. Per non parlare delle trasmissioni televisive, a partire da quelle di Bruno Vespa, moralisticamente dedicate ai sempre più numerosi appassionati di macelleria umana.
In Belgio, si sa, c´è una legge che, approvata nel 2002, disciplina l´eutanasia attiva e dunque per lo scrittore Hugo Claus è stato tecnicamente più facile divorziare da quel suo corpo ormai corroso da un insopportabile Alzheimer.
Un corpo che stava diventando il campo di Marte di tutte le terapie mediche e i cui disperati segnali di vita erano l´abbandono della vita, la fuga della vita. Claus si è rivolto alla scienza medica, e un ospedale ha accompagnato il suo ultimo passo e l´ha aiutato a chiudere gli occhi. Era uno degli ultimi intellettuali engagés. Era stato scrittore, regista e pittore, negli anni in cui scrittori, registi e pittori scalciavano contro il potere e promuovevano le culture che allora erano ancora subalterne e rivoluzionarie. Claus era dunque abituato a dare scandali che, col tempo, si erano fatti malinconici come il suo viso e come la città di Bruges dov´era nato. In realtà apparteneva a quel genere di uomini che più invecchiano e più vorrebbero sentirsi giovani perché in 78 anni aveva accumulato saperi, esperienze ricche e spesso estreme, mogli, libri, passioni. Insomma conosceva bene la vita e l´ha lasciata solo quando l´ha trovata irriconoscibile. Ebbene, in Belgio tutti hanno rispettato la sua scelta di andarsene, anche chi legittimamente non condivide e combatte l´eutanasia.
Per esperienza, sappiamo bene quanto sia difficile trattenere i coccodrillisti dei giornali, ineluttabili e virtuosi per genere. Ecco, nel caso francese della signora Sébire si sono addirittura autosospesi. Era già accaduto nel 2002 quando soltanto un discreto necrologio sul Figaro aveva salutato la mamma dell´allora primo ministro socialista Lionel Jospin: «Mireille Jospin-Dandieu, ostetrica, vedova di Robert Jospin, membro del comitato di difesa dell´Associazione per il diritto a morire nella dignità, ha deciso, in serenità, di abbandonare la vita all´età di 92 anni, il 6 dicembre del 2002. I figli, i nipoti e la famiglia si augurano che si pensi a lei e informano che un omaggio le sarà reso in un altro momento». Null´altro.
E´ sempre con il silenzio e con il rispetto che la Francia cerca di salutare chi sceglie la buona morte, quella senza frasi né enfasi, senza terrore e senza trasporto. Anche quando, ovviamente, si accende il dibattito come avvenne nel caso di Marie Humbert, assolta dall´accusa di omicidio volontario con una sentenza che si rifiutò di sentenziare, perché non si può sentenziare sulla vita e sulla morte, perché c´è una inadeguatezza di qualsiasi codice dinanzi alla vita e alla morte, e quale che sia la soluzione giuridica adottata non esiste, se non nelle utopie, una giurisprudenza ‘felice´ sull´eutanasia
E però in Francia tutti capirono che l´omicidio volontario non aveva nulla a che vedere con l´atto d´amore di Marie Humbert. Assistita da un anestesista, la donna aveva fatto un´iniezione liberatrice al figlio, un ex vigile del fuoco che era rimasto cieco, muto e paralizzato. Furono dunque assolti la mamma e l´anestesista perché, scrisse il giudice, «le estreme circostanze li esonerano da qualsiasi responsabilità penale».
A seguito di quella sentenza nel 2005 fu approvata una legge che non depenalizza l´eutanasia attiva come in Belgio, ma disciplina «la possibilità di lasciar morire». La legge fu votata all´unanimità, con l´accordo esplicito dei capi delle quattro religioni monoteiste: cattolici, protestanti, musulmani ed ebrei. C´è già tutto nel primo articolo: «Le cure non devono essere proseguite con una ostinazione sragionevole. Quando appaiono inutili, sproporzionate o con l´unico effetto di mantenere la vita artificialmente, possono essere sospese o non essere iniziate».
Adesso, a distanza di tre anni, la vicenda di Chantal Sébire, che non è riducibile alla legge del 2005, ha riaperto il dibattito. E di nuovo il rispetto della Francia, dei suoi giudici e dei suoi giornali, ma anche dei suoi medici e dei suoi vescovi, ha sottratto al tribunale e alla spietatezza della norma un altro caso che la norma non poteva contenere. E ci viene in mente che mai la morte e la vita sono definibili con esatta precisione e che dunque non c´è legge che possa dominarle e governarle. Comunque sia, ora ciascuno sta dicendo la sua, ma nessuno scende in piazza, a nessuno viene in mente di fare un partito, nessuno fa lo sciopero della sete. Perché solo in Italia la vita e la morte – anche la vita e la morte – diventano ideologia e nuovo alimento degli estremismi?
Attenzione. Non vogliamo riaprire il dibattito italiano sull´eutanasia. Personalmente sono contrario che il Parlamento, lo scombiccherato e rissoso Parlamento italiano, discuta se e come aiutare la gente a morire, e penso con orrore alla ferocia italiana di un duello legislativo sull´eutanasia, e ai talk show di nuovo dedicati alla vita e alla morte. Penso anche alla difesa delle famiglie, come quella di Peppino Englaro per esempio, che non si batte per l´eutanasia ma perché cessino l´alimentazione e l´idratazione del corpo inerte di sua figlia Eluana, dal 18 gennaio del 1992 anni ridotta allo stato vegetativo.
Prima di mettere mano alle leggi, l´Italia, che sino al ridicolo copia tutto dalla Francia, dovrebbe provare a imitare l´eleganza francese, quella che ancora riesce a trattare con leggerezza le cose pesanti, la Francia di Pascal e non di Robespierre, la lievità come sostanza, come modo di pensare, come stile, e il silenzio come carezza delle cose, degli uomini, della stessa morte.
Non è questione di leggi, ma di ideologia. Quando si dice ideologia giustamente si pensa al comunismo, alla lotta di classe, a Bertinotti. E però anche l´accanimento sull´idea di vita è ideologia, vitalismo appunto; come il razzismo, il nazionalismo, e ovviamente il laicismo e l´ateismo. E pure la battaglia per la buona morte diventa spesso ideologia: in qualche caso che sembrava disperato, quella cosa strana che si chiama vita è stata stanata e rimessa in circolo.
In Italia c´è qualcosa di pervertito persino nella battaglia radicale che con l´ideologia arriva a giustificare il familismo, disvalore nazionale anche quando indossa la nobile, storica divisa della moralità pannelliana. Io che ho votato Coscioni perché dovrei votare la signora Coscioni? E perché la vedova di Welby?... Anche i radicali dovrebbero deideologizzarsi prima di chiedere ai cristiani di non farsi cristianisti. «Padre, perché mi hai abbandonato?» chiese Cristo che troppo soffriva sulla croce e che perciò, come Claus e come la signora Sébire, voleva morire. Fu così elegante e discreta la risposta del Padre che nessuno l´ha mai saputa.

Repubblica 21.3.08
La Bbc scopre che a inventarlo fu un grafico inglese
Così nacque 50 anni fa il simbolo della pace
di Vittorio Zucconi


Il "No alla guerra" compie 50 anni così nacque il simbolo dei pacifisti
L´esercito Usa cercò di impedirne la diffusione, ma lo esibivano migliaia di soldati

L´omino disperato che abbassa le braccia, ma che non si arrende di fronte all´idiozia della guerra, il simbolo inerme che terrorizza gli armati, falchi, guerrieri, prepotenti, commissari e generali compie cinquant´anni e se disperato sempre rimane, ancora non si è stancato di non combattere.

Era nato, molto opportunamente, un venerdì santo come questo, nel giorno che commemora il massimo sacrificio di un portatore inascoltato di pace, ma non era nato negli Stati Uniti che lo avrebbero poi imposto al mondo scarabocchiato, cucito o appuntato alle divise della protesta per l´ennesima inutile strage, quella volta in Indocina. Era nato a Londra, a Trafalgar Square, nella marcia delle cinquanta miglia organizzata nel 1958 dai pacifisti inglesi per protestare invano contro il riarmo nucleare britannico.
Come figlio di una potenza dei mari, fu quasi naturale che quel simbolo avesse ricavato la ispirazione grafica proprio dalle segnalazioni marine che le navi si scambiavano sventolando bandierine, prima che fossero introdotti i semafori per i messaggi in morse luminoso, le radio e i collegamenti satellitari. La «V» rovesciata che sta alla base dell´emblema è in realtà la lettera «N», nella segnaletica marina, la iniziale di «Nuclear» e la linea eretta verticale sta per la «D», di disarmo. Dunque la figura completa vuol dire semplicemente «Nuclear Disarmament».
Fu creato da un grafico, racconta la Bbc che ha ricostruito la storia di questo «marchio» divenuto talmente universale da apparire orfano, come se fosse stata la creatura spontanea di un tempo e di una ribellione. Si chiamava Gerard Holton, ed era stato obbiettore di coscienza durante la Seconda Guerra Mondiale, finita appena 13 anni prima. Convinse lui gli organizzatori della marcia delle 50 miglia che la loro manifestazione esigeva un logo, un marchio, qualcosa che si appiccicasse agli occhi e alla memoria. Pensò a una variazione sul tema della croce cristiana, ma gli parve già molto sfruttata e non necessariamente associata alla pace, nei secoli bui. E alla fine ripiegò sulla combinazione dei due segnali navali, per dire «No alla Bomba» e sì al disarmo nucleare.
Neppure lui avrebbe potuto sperare che quel simbolo, subito accusato da alcune femministe di essere pericolosamente fallico, si sarebbe attaccato alla fantasia del mondo diventando immediatamente leggibile e riconoscibile dal Tibet all´Arabia Saudita, dove ancora compariva sugli elmetti dei soldati americani pronti a invadere Iraq e Kuwait nel 1991. L´omino disperato invase l´America, dalle strade della San Francisco hippy della «estate dell´amore» ai motoscafi dei soldati lungo il Mekong in Vietam. Occupò le marcie di Woodstock, si fuse con il Sessantotto, divenendone uno dei luoghi principali. Terrorizzò il governo del Sudafrica negli anni dell´Apartheid razziale, che tentò di dichiararlo ufficialmente fuorilegge con prevedibile insuccesso, perché nella sua assoluta semplicità grafica basta un pennarello, una bombola, una matita grossa per essere riprodotto all´infinito. Fu accusato, dai soliti fanatici del cristianismo bellicista americano di essere un simbolo satanico, un richiamo all´Anticristo, con quel sospetto di croce a testa in giù, venerato dai seguaci di Belzebù,.
Lo ripresero gli attivisti neri dei diritti civili, per indicare subito, con Martin Luther King, la loro filosofia di rivolta non violenta e di rifiuto di armi e sangue, rifiuto che non fu accolto da chi sparò loro addosso. Costrinse generali e ufficiali superiori a inseguire i soldati che lo esibivano, vedendovi un segno di scarsa bellicosità, di dissenso, di ammutinamento pacifico: in Vietnam era passibile di punizioni fino alla corte marziale, quando ancora era esibito da pochi renitenti, prima che divenisse troppo diffuso per essere represso senza mandare davanti alla corte intere divisioni di Marines e fanti. Si arrese infine, dopo la guerra, il governo americano stesso che lo immortalò in un´emissione di francobolli negli anni ‘60, secondo il saggio principio del «se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro». Finì su un pacchetto di sigarette molto fumate dai soldati americani, le Lucky Strike e nessuno osa calcolare quante volte e dove sia stato riprodotto in questi 50 anni, tra T-shirt e bandiere. E´ stato un po´ insidiato dai colori dell´iride, quell´Arcobaleno pacifista che, soprattutto dopo l´invasione dell´Iraq, ha cominciato a sventolare anche nelle strade di Londra dove l´omino depresso era nato, ma l´Arcobaleno si presta a equivoci, rappresenta coalizioni variopinte, inter razziali negli Stati Uniti, dove fu creato per la «Rainbow Coalition» del reverendo Jackson, e interpartitiche nei listoni elettorali italiani.
Su quella figura che segnala disarmo, invece, non ci possono essere dubbi. Si può dissentire, addirittura fare causa a chi la espone in giardino, come è accaduto a una coppia di Denver, giudicarla ormai leziosa, demodé, inutile, ora che l´incubo del reciproco annientamento nucleare, così intenso nel 1958, ha lasciato - temporaneamente - la poltrona ad altri incubi elettoralmente più profittevoli. Ma come l´indice e il medio aperti a «v» di Churchill, anche questa curiosa ipsilon rovesciata che né il creatore inglese, né il suo corrispondente americano Ken Kolsburn vollero mai depositare e brevettare, rinunciando così a miliardi di royalties, vivrà ogni volta che l´umanità con un pretesto politico, religioso, economico, razziale, troverà un altro modo per massacrarsi. Cioè per sempre, il che spiega l´aria un po´ moscia e depressa del l´omino cinquantenne, ma ancora in piedi.

Repubblica 21.3.08
Due saggi di Jean-Luc Nancy e Gherardo Colombo
I banbini e la giustizia. La legge dei più deboli
di Umberto Galimberti


Verticale è quella società che di fatto si comporta sul modello delle specie animali
La società orizzontale segue invece Aristotele: ciò che è ingiusto è anche ineguale

Quante volte ci capita di sentire un bambino gridare o dire fra i denti: «Non è giusto». Quante volte egli prova il sentimento di essere giudicato colpevole di un´azione che non ha commesso, o crede di non aver commesso, o non ritiene cattiva. E questo non capita solo ai bambini, ma anche agli adulti ogni volta che sentono l´ingiustizia di un´esclusione non meritata, di un risarcimento non ottenuto, di una prova non superata, di un licenziamento non giustificato, di un abuso subìto.
E ancora, siamo davvero convinti che la giustizia debba essere uguale per tutti, o riteniamo che debba essere diversa a secondo delle circostanze e soprattutto per ciascuno di noi, che sempre disponiamo di buoni e talvolta validi motivi per non sentirci inclusi nella regola che ci prevede comunque oggettivamente colpevoli? Ci sono davvero due giustizie diverse: una valida per tutti e una per ogni singolo individuo? A questo rispondono le attenuanti che possono ridurre anche sensibilmente la pena? Ma la giustizia che ogni individuo si immagina "giusta" e che, come un vestito, si "aggiusta" addosso, non rischia di provocare ulteriori conflitti e alla fine di creare ingiustizia?. E allora: che cos´è giusto?
A questa serie di interrogativi rispondono due libri di facile e avvincente lettura. Il primo è di Gherardo Colombo, Sulle regole (Feltrinelli, pagg. 158, euro 14), il secondo del filosofo francese Jean-Luc Nancy, Il giusto e l´ingiusto (Feltrinelli, traduzione di Francesco Sircana, pagg. 60, euro 6,50). Li accomuna la persuasione che la giustizia non è solo e forse non è tanto una faccenda di tribunali, ma un processo culturale dal passo lento, che può affermarsi solo attraverso processi educativi che sappiano coinvolgere l´intera società a partire dai primi anni di socializzazione che, lo sappiano o meno i professori, incominciano con la frequentazione della scuola. Per questa ragione Gherardo Colombo ha abbandonato la sua carica di magistrato e di consigliere presso la Corte di Cassazione per accettare tutti gli inviti che, numerosissimi, gli provenivano dalle scuole, allo scopo di sensibilizzare i giovani, che sono poi gli adulti di domani, al bisogno di legalità e di regole condivise, senza le quali, come ci ricorda anche Platone nella Repubblica: «neppure una banda di criminali può raggiungere il suo scopo».
Per la stessa ragione Jean-Luc Nancy, una delle figure più significative dello scenario filosofico contemporaneo, ha dedicato una serie di incontri pubblici nelle scuole elementari e medie per spiegare che cos´è la giustizia, a partire dai conflitti in cui i ragazzi vengono a trovarsi tra loro, e poi con i genitori e con gli insegnanti.
Per prima cosa, scrive Gherardo Colombo, occorre distinguere la legge dalla giustizia. Nella storia erano leggi quelle che prevedevano la schiavitù, quelle che discriminavano gli ebrei, quelle che ancora prevedono la pena di morte, così come lo sono quelle che la escludono, che garantiscono la libertà personale e l´uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni primari. Stando così le cose l´osservanza della legge non dice ancora nulla sul concetto di giustizia, come ben dimostra il sistema italiano che era legale tanto prima quanto dopo la promulgazione e l´abolizione delle leggi razziali, anche se la differenza è evidente.
Per avvicinarci al concetto di giustizia è allora necessario uscire dai tribunali dove si applica la legge ed entrare nella società per vedere se la sua struttura, al di là degli enunciati di principio, è ancora verticale o orizzontale.
Gherardo Colombo chiama "verticale" quella società che, pur accettando in linea di principio l´uguaglianza dei diritti, di fatto si comporta sul modello delle specie animali dove vige la legge del più forte, per cui i più potenti, i più attrezzati, i più capaci e, perché no, i più furbi sono meritevoli di maggior considerazione rispetto a coloro che non stanno al passo, perché così vuole la natura che, selezionando i più idonei, garantisce il successo della specie.
Ne consegue che la persona non ha valore in sé, ma acquista o perde importanza a secondo della sua rilevanza sociale, e chi condivide questo punto di vista pensa che la giustizia consista nel promuovere e nel tutelare le gerarchie, nel dare dignità ai privilegi, e nel rubricare "polvere della storia", come vuole l´espressione di Hegel, tutti gli altri, a partire, come documenta la storia, dalle donne, dagli schiavi, dai neri, dagli appartenenti ad altre etnie, e oggi i poveri, gli emarginati, coloro che per condizioni economiche o culturali non ce la fanno a emergere.
La società "orizzontale" che segue il principio aristotelico: «L´uomo ingiusto è colui che non osserva l´uguaglianza, e ciò che è ingiusto è ineguale», si è affacciata da poco e non ovunque nella storia, ma tendenzialmente solo in linea di principio, perché di fatto il riconoscimento non è esteso a tutti i componenti della società, ma solo al gruppo di cui si fa parte, a chi professa la stessa fede, a chi ha lo stesso colore della pelle, a chi parla la stessa lingua, a chi manifesta le stese idee, a chi ha la stessa elevata condizione economica.
Quando il riconoscimento non è universale la società è ingiusta. E non perché vieta a chi ha le capacità di affermarsi, ma perché, in mancanza di un riconoscimento universale, non garantisce che tale percorso possa essere intrapreso da tutti in condizioni non discriminate.
Siccome il modello della società verticale è stato il più seguito nella storia, perché sostenuto, oltre che dall´istinto dei singoli, dalle istituzioni sia religiose sia politiche, questo modello finisce con l´apparire "naturale" e quindi "giusto".
Talvolta persino condiviso dalle vittime, persuase che sia "giusto" che qualcuno comandi e gli altri ubbidiscano, come spesso accade ai subordinati negli uffici, agli operai nelle fabbriche, alle donne senza reddito in famiglia. Qui e altrove le regole della società orizzontale soccombono a quelle della società verticale, dove vige la gerarchia del potere e dove arroganza e sudditanza si confondono persino nella stessa persona. Arrogante con chi sta sotto e sottomesso con chi sta sopra.
"Morbo dell´impresa" come la definisce Pier Luigi Celli nel suo ultimo bellissimo libro Altri esercizi di pentimento (Aliberti editore, pagg. 234, euro 16). Ma la stessa gerarchia dell´impresa la troviamo nell´esercito, nella chiesa, nella scuola, negli uffici, in fabbrica, dove ingiusta non è la gerarchia, ma pensare di risolvere le situazioni di conflitto applicando il principio della scala gerarchica, per cui chi è più in basso deve sempre cedere.
Accade così che in teoria viviamo in una società di uguali dove nessuno oserebbe dire che non è giusto rispettare tutte le persone, in pratica viviamo in una società di subordinati dove il riconoscimento dell´altro dipende dal grado gerarchico o dalla condizione sociale.
Sul riconoscimento dell´altro insiste anche Jean-Luc Nancy, nelle sue lezioni ai bambini, dove tenta di spiegare che il giusto e l´ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri, per cui farsi giustizia da sé non ha alcun senso. Così come non ha senso la "legge del più forte" o, come si suol dire la "legge della giungla", perché nella giungla non troviamo leggi, ma rapporti di forza.
La giustizia, spiega Nancy, esige che si rispetti ad un tempo l´uguaglianza e la singolarità, per cui sarà bene che tagliando una torta si facciano fette uguali, ma se uno è diabetico sarà giusto dargli una fetta più piccola, e una più grossa a chi, per le sue condizioni economiche, non ha molte occasioni di assaggiare una torta.
Questa co-presenza di uguaglianza e di singolarità nel concetto di giustizia comporta che si conosca davvero l´altro, che lo si prenda in considerazione per la sua specificità, raggiungendo quel vertice della giustizia che non è nella generalità della legge, ma, come diceva Aristotele, nell´equità che adatta l´universalità della legge a caso per caso, dando a ciascuno ciò che è veramente dovuto.
Per questo esistono i "diritti dei bambini" che sono diversi dai diritti degli adulti, e per la stessa ragione esistono i "diritti delle donne" dopo secoli di misconoscimento. Ma oltre ai bambini e alle donne esistono gli immigrati che giungono da noi con altri usi e costumi, esistono i diversi da noi per razza, per religione, per scelte sessuali, per forme di convivenza, e ingiusta sarebbe la legge che li discrimina. Mentre abbiamo chiamato i "Giusti" coloro che, nella seconda guerra mondiale, a dispetto della legge e delle loro affinità naturali, pur non essendo ebrei e non avendo alcun legame di religione o di comunità con gli ebrei, hanno salvato la loro vita a rischio della propria.
Siccome la giustizia prevede l´uguaglianza di persone che sono diverse e singolari, la giustizia è un compito infinito. E pensare che non siamo mai abbastanza giusti è già un modo per cominciare ad esserlo. «Questo pensiero - conclude Nancy rivolto ai bambini - dovete pensarlo da soli, perché nessuno verrà mai a dirvi che cos´è la giustizia assoluta. Se qualcuno potesse dirlo, forse non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge».

Corriere della Sera 21.3.08
Scienza Il Comitato di bioetica ferma la prima richiesta. «Pronti a ripresentarla correggendo i punti controversi»
«Aborto, usiamo i feti per la ricerca»
Il team del Policlinico di Milano: è la nuova frontiera degli studi sulle staminali
Il progetto dell'ematologo Paolo Rebulla prevede la nascita di una banca di cellule fetali con campioni di tessuti
di Simona Ravizza


Rocco Mangia, presidente del Comitato di bioetica: il pericolo è di finire con l'incentivare, o quanto meno non disincentivare, le interruzioni di gravidanza

MILANO — I feti degli aborti usati per la ricerca. È la nuova frontiera degli studi sulle cellule staminali proposta da scienziati del Policlinico di Milano in un documento discusso nei giorni scorsi dal Comitato di bioetica dell'ospedale di via Sforza. Un'ipotesi destinata ad aprire un dibattito con forti ripercussioni etico-scientifiche in un'Italia in cui divampa ancora lo scontro sulla 194.
Sul modello della legge sulla ricerca biomedica approvata in Spagna lo scorso luglio, il progetto ideato dall'ematologo Paolo Rebulla prevede la nascita di una banca di cellule fetali. Una fetal cell bank per la raccolta dei campioni di tessuto che derivano dalle interruzioni di gravidanza (sia spontanee sia volontarie). Nel protocollo è proposto l'uso del materiale acquisito in forma anonima «per pubblicazioni di carattere scientifico e/o per lo sviluppo di prodotti commerciali e/o terapeutici». Al momento il Comitato di bioetica ha bloccato l'iniziativa: «Il rischio è che la donazione possa venire considerata dalle donne una sorta di compensazione del disvalore morale legato alla scelta di abortire — spiega l'avvocato Rocco Mangia, presidente del Comitato di bioetica —. Il pericolo è di finire di fatto con l'incentivare, o quanto meno con il non disincentivare, le interruzioni di gravidanza». Ma non finisce qui. Rebulla è deciso a riproporre il suo progetto nelle prossime settimane, dopo averlo rivisto alla luce dei problemi bioetici emersi: «Istituiremo la figura dell'honest broker, un garante superpartes del rispetto dei diritti della donatrice e dell'adempimento dei doveri del ricercatore, come già avviene all'Università di Pittsburgh — dice Rebulla, direttore del Centro di medicina trasfusionale e delle terapie cellulari —. Sarà esclusa, poi, ogni possibilità di utilizzo commerciale dei prodotti abortivi». Il protocollo entra anche in dettagli tecnici. L'intervento di svuotamento uterino deve essere praticato «in modo da garantire la sterilità del materiale e la minor frammentazione possibile del prodotto del concepimento». Con l'impegno dei ginecologi a compromettere il meno possibile il «feto». Contemplata un'apposita struttura organizzativa, denominata «segreteria delle cellule staminali del servizio per la legge 194».
L'obiettivo è ricavare cellule staminali fetali da crioconservare.
Già dal 2005 al Policlinico è attiva una delle biobanche più importanti d'Italia. Quasi 93 mila i campioni contenuti di tessuti, cellule, sieri e Dna. Il sistema di raccolta e uso dei materiali biologici messo a punto dai medici di via Sforza è considerato un modello anche a livello internazionale come dimostrano le pubblicazioni sul Journal of the International Association for Biologicals.
«Con la proposta della fetal cell bank, lo staff del Policlinico apre il dibattito su un progetto unico in Italia — sottolinea il direttore scientifico Ferruccio Bonino —. Io credo in una discussione costruttiva, senza strumentalizzazioni politiche legate alla 194. Bisogna ancora definire con chiarezza un iter che separi nettamente il momento della decisione di abortire della donna dalla richiesta di consenso alla donazione che deve essere sempre successiva all'interruzione di gravidanza. Non solo: va anche dimostrata l'utilità scientifica della raccolta sistematica delle cellule staminali di origine fetale». La questione adesso è sul tavolo.

Corriere della Sera 21.3.08
I taccuini 1836-1844 di Charles Darwin
Il complicato parto dell’evoluzionismo
di Edoardo Boncinelli


Gli appunti mostrano quante informazioni e suggerimenti lui ricavi dagli studi degli altri

Darwin ci pensò un bel po' prima di esporsi al giudizio dei suoi contemporanei e della storia. Tra la prima enucleazione dell'idea di un'evoluzione dei viventi per variazione e selezione e la sua pubblicazione passarono venti anni. Venti anni di riflessione, di illuminazioni, di ripensamenti, di approfondimenti e di messe a fuoco. Venti anni di tormento intellettuale, anche se a distanza di centocinquanta anni il grande naturalista ci appare come una figura imperturbabile dalle convinzioni incrollabili. I pensieri di questi anni vennero da lui accuratamente annotati, e sono raccolti nei cosiddetti Taccuini, che sono stati rivisti e pubblicati in tempi relativamente recenti.
Appare adesso, in Italia, Charles Darwin, Taccuini 1836-1844 (Laterza, pp. 392,
e 20) che raccoglie il materiale di tre dei taccuini originari, quello detto Rosso e quelli designati come B ed E, tutti amorevolmente e autorevolmente curati da Telmo Pievani. Quello Rosso è preparatorio e contiene alcune timide annotazioni le cui virtù premonitrici si possono comprendere solo alla luce delle successive riflessioni; quello designato come B è più ricco di spunti perché accompagna tutto il processo di incubazione del concetto di «trasmutazione» delle specie biologiche; il taccuino E, infine, è successivo alla messa a fuoco del concetto fondamentale di selezione naturale, ne elabora i dettagli e ne soppesa i riflessi.
La lettura di questi appunti non può ovviamente sostituire quella delle opere principali di Darwin, ma offre spunti particolarmente interessanti e proposte che sono magari sparite nelle opere successive. Prendiamo ad esempio il concetto di «corallo della vita», sostituito in seguito da quello di «albero della vita». L'insieme delle specie viventi costituisce solo approssimativamente un albero, perché di quello si vedono i rami ma non il tronco, che è esistito solo in passato ed è scomparso con il passar del tempo. Proprio come per il corallo nel quale sono vivi gli ultimi rami, ma il tronco è morto e fossilizzato.
In verità oggi sappiamo che l'albero della vita non è assolutamente un albero. Per tre ragioni. Innanzi tutto mancano le radici. Da un immaginario punto originario si diramano almeno tre linee di discendenza primaria e non una sola: l'immagine che se ne ha oggi è piuttosto quella dei raggi di un ruota che partono da un punto centrale e vanno in tutte le direzioni, oppure di una stella. In secondo luogo, come abbiamo appena visto, manca il tronco: sono sopravvissute solo le estremità più verdi dei vari rami. Da qui l'immagine straordinariamente efficace del corallo della vita. Non esiste, infine, la successione di biforcazioni tipiche dei rami degli alberi. Si tratta semmai di una proliferazione cespugliosa: da ogni punto derivano numerose specie diverse, non due sole. Forse l'immagine più appropriata dell'insieme delle specie viventi è oggi quella della «rosa» di un fuoco d'artificio: uno scoppiettante inseguirsi di tracciati luminosi che si dipartono da un centro oscuro.
La lettura della massa di temi e di spunti contenuti nei Taccuini mi ha ispirato essenzialmente due considerazioni. Da una parte, un grande, grandissimo rispetto per la consequenzialità e la perseveranza di Darwin naturalista, che medita incessantemente sulla condizione e le vicissitudini della vita sulla terra. Dall'altra, non posso non notare anche quante informazioni e suggerimenti lui desuma dagli studi e dalle osservazioni degli altri; di questo o di quello studioso o viaggiatore curioso, anche se di molti di loro si è conservato oggi a mala pena il ricordo. Insomma un ineguagliabile pensatore che ha operato una grandiosa sintesi in mezzo ad una selva di acuti, onesti e sobri osservatori. L'esatto contrario della rissosità e della disposizione all'invettiva di cui siamo testimoni oggi. Ma anche e soprattutto un fatto di cultura.

giovedì 20 marzo 2008

l’Unità 20.3.08
Bertinotti: «La lotta di classe? È viva e vegeta...»
di Simone Collini


«A guardare i tg o leggere i giornali, sembra che siamo ad una la competizione a due. Così si produce una distorsione sulla campagna elettorale»

La sinistra ora sarà all’opposizione? Vedremo
Negli anni 70 si riuscì a ottenere molto: dallo Statuto alla sanità, alle pensioni, divorzio e aborto

Contesto la tesi di Sartori: il punto fondamentale non è la crescita... ma è l’aumento dei salari a frustare l’economia

Per ora hanno vinto i liberisti: ma possiamo cambiare le cose modificando i rapporti sociali

Scrive Giovanni Sartori sul Corriere della Sera che lei è rientrato nella mischia elettorale più cattivo che mai.
«Sono categorie psicologiche da cui mi tengo lontano», dice il presidente della Camera e candidato premier della Sinistra arcobaleno Fausto Bertinotti
Stiamo allora all’essenziale: Sartori contesta il suo predicare la guerra tra sfruttatori e sfruttati.
«E io contesto la tesi sostenuta da Sartori, secondo la quale il punto fondamentale è la crescita, la formazione della ricchezza, perché altrimenti crolla l’intera impalcatura. Questa idea è stata contraddetta non solo da Marx ma da Keynes. E come ha spiegato uno dei più grandi economisti italiani, Claudio Napoleoni, è invece proprio l’aumento dei salari a determinare una necessaria frusta sull’economia, altrimenti ripiegata dal peso della rendita. Livelli salariali alti determinano una scossa sul sistema delle imprese affinché battano non la strada pigra del vantaggio competitivo ma quella dell’innovazione, della ricerca, dell’aumento della produttività non attraverso lo sfruttamento del lavoro».
È una teoria minoritaria.
«Non è vero. Negli anni 70 non è stato così. Per un intero ciclo, dal ’68-’69 fino a tutti gli anni 70 proprio il paradigma dello sfruttamento è stato messo in discussione non da questa o da quella teoria ma dalla pratica sociale. Tanto è vero che le retribuzioni italiane erano diventate tra le più alte d’Europa».
Oggi non è così.
«Hanno vinto i liberisti, speriamo che perdano. Appunto, è una lotta di classe».
Come si vincono i liberisti?
«Modificando i rapporti sociali. Esattamente come accadde negli anni 70».
Sartori le domanda: che facciamo degli sfruttatori?
«Li rendiamo meno sfruttatori».
Come?
«Gliel’ho detto, mutando i rapporti sociali. La storia industriale, come spiegano diffusamente i sociologi americani, è la storia del conflitto. Quelli che non la definiscono lotta di classe la definiscono contesa industriale. Ha al suo centro le politiche redistributive, visto che l’espressione dei rapporti sociali è data dal rapporto tra salario, prezzi e profitto. Quando i lavoratori sono forti cresce il salario, quando gli imprenditori sono più forti di loro cresce il profitto e cala il salario. Il salario registra i rapporti di forza».
Le politiche economiche, in tutto questo?
«Naturalmente i padroni, gli imprenditori, sono favoriti se i governi sono di laissez faire. Invece i lavoratori sono favoriti se ci sono governi interventisti, che usano anche il fisco al fine di una migliore redistribuzione».
Il governo Prodi se lo aspettava più interventista?
«Molto, certo. Lo abbiamo iniziato a dire da giugno».
Perché non lo è stato, secondo lei?
«Per le sinistre divise all’interno del governo, per il ricatto delle forze moderate e anche per un pilotaggio del governo tutto indirizzato all’accordo tra le parti sociali, e quindi ad attribuire un peso alla Confindustria superiore a quello che avrebbe potuto avere».
Con il prossimo governo le sinistre saranno unite ma verosimilmente staranno all’opposizione.
«Vedremo, ne riparleremo dopo il voto».
Nel senso?
«Che la destra può perdere».
Quindi non esclude un accordo della Sinistra arcobaleno con il Pd?
«Noi pensiamo che staremo all’opposizione, ma ci sono molti modi di stare all’opposizione»
Dice che la Sinistra arcobaleno può influire anche da questa posizione?
«La storia del dopoguerra in Italia è la storia dell’influenza dei partiti della sinistra all’opposizione. Hanno ottenuto molto di più che non stando al governo. Pensi allo statuto dei diritti dei lavoratori, alla riforma sanitaria, alla chiusura dei manicomi, alla riforma pensionistica che dava ai lavoratori l’80% della retribuzione, alla legge sull’aborto, sul divorzio, a tutte le conquiste realizzate dal Partito comunista all’opposizione».
Era diversa la società?
«No, c’era una sinistra molto più forte».
Come si torna a una sinistra forte?
«Ricominciando un cammino, con pazienza. La sinistra deve tornare ad essere consapevole che il tempo della semina è diverso dal tempo della raccolta».
A proposito di semina: non pensa che la Sinistra arcobaleno potesse fare di più con le candidature, mettere in lista più personalità esterne ai quattro partiti fondatori?
«Assolutamente sì. Avrebbe potuto fare molto di più se fosse stata un fenomeno compiuto. Purtroppo le elezioni hanno beccato questo processo all’inizio ed è prevalsa una logica federativa, cioè dell’accordo fra i partiti. Cosa che la Sinistra arcobaleno dovrà superare. E che sono sicuro che farà, perché il suo destino non è quello di essere un cartello elettorale, ma quello di essere un nuovo soggetto politico unitario e plurale che vada al di là dei quattro partiti».
Per lei che ruolo prefigura, dopo il voto?
«Quello di partecipe a questo processo, senza alcun incarico di direzione».
L’obiettivo di medio termine della Sa?
«Avere una massa critica che consenta di intervenire sulla formazione del senso comune».
Dopo un voto giocato sulla contesa tra Pd e Pdl?
«Il bipartitismo rappresenta una grande questione democratica. C’è un vestito totalmente incongruo con le culture politiche del paese che si vuole far indossare a un corpo non in grado di sopportarlo. Se si prosegue su questa strada o si straccia il vestito o si producono delle tensioni difficilmente governabili democraticamente».
Che vuole dire?
«Primo: senza la sinistra si depriverebbe di rappresentanza una parte importante della società italiana. Secondo: pensare che si possa fare un deserto nella rappresentanza politica vuol dire condannarsi all’idea che forze che esprimono disagio prenderanno la forma di antisistema. Ogni tentativo di drogare la realtà per imporre un esito innaturale come il bipartitismo dovrebbe essere guardato con molta preoccupazione da chiunque abbia un minimo di vocazione democratica».
Chi è che droga la realtà?
«Non ci sono macchinazioni, ma c’è una cultura di fondo, una grande onda che la sinistra dovrebbe riuscire a spezzare. E che vedo in un’operazione massmediatica costruita con grande potenza di mezzi. Chiunque guardi con animo sgombro da pregiudizi un telegiornale o un grande quotidiano vede che è come se la competizione fosse a due. A due più delle frattaglie. Così si produce volutamente un effetto distorcente sulla campagna elettorale».
L’obiettivo, secondo lei?
«Una riforma che non si è avuta la forza di realizzare per via istituzionale. C’è una cultura di riferimento che spinge verso la riduzione della politica al duopolio e verso una logica personalizzata e presidenzialista. Questa cultura è prevalente nelle classi dirigenti, ed è la stessa che ha un’attitudine alla grande coalizione».
Il nesso?
«C’è una propensione delle classi dirigenti a riproporre il pensiero unico duramente incrinato dai fatti, visto che la globalizzazione doveva essere portatrice di magnifiche sorti e progressive e invece porta guerre, diseguaglianze, adesso anche la recessione. È un po’ traballante l’edificio apologetico, ma proprio per salvare il salvabile si pensa alla grande coalizione. In modo che il conflitto venga espulso e quindi malgrado la smentita dei fatti possa essere continuata una manovrabilità che non metta in discussione l’essenziale, cioè il primato della competitività così com’è».

Repubblica 20.3.08
Sinistra arcobaleno
Bertinotti: sconvolgente che il reato di tortura non sia previsto dal codice


ROMA - Fausto Bertinotti rilancia la commissione d´inchiesta sui pestaggi del G8 a Genova, una richiesta che nella legislatura appena conclusa non ha ottenuto il via libera per l´opposizione del centrodestra ma anche di Di Pietro. «La commissione - dice il candidato premier della Sinistra Arcobaleno - si conferma come una necessità storica per il paese». Alla luce di quel che sta emergendo dal processo in corso, il presidente della Camera si è detto «colpito, quasi sconcertato» dal fatto che non si possa procedere giuridicamente contro chi, come sostiene il magistrato, ha realizzato una tortura «solo perchè nel codice non è colpevolmente iscritto questo tipo di reato». Ma le stesse parole dei pm, insiste Bertinotti, danno la misura di cosa sia accaduto nella caserma di Bolzaneto, che «è documentato ed è sotto gli occhi di tutti: una repressione indegna di un paese civile, sistematica, strutturale e violenta che ha responsabilità politiche, che abbiamo denunciato subito, e responsabilità penali che la magistratura dovrà accertare». Un confermato impegno perciò - come Bertinotti aveva spiegato pochi giorni fa, in una lettera di risposta su Liberazione ai dubbi del "Comitato verità e Giustizia per Genova" - per la commissione d´inchiesta. In polemica, come fanno alcuni esponenti della Sa, con Veltroni, che pure ha chiesto ieri di accertare le responsabilità politiche della repressione: «Il Pd - accusano - si è alleato con Di Pietro, che ha affossato la Commissione».

l’Unità 20.3.08
Torture a Bolzaneto, destra sotto accusa

Veltroni: bisogna accertare le responsabilità politiche, intollerabile quel che accadde
Nei giorni del G8 nella Questura di Genova c’erano Fini ed altri esponenti di An
«Quanto è accaduto a Bolzaneto non è accettabile» perché «uno stato democratico non può rendersi responsabile di quello che è accaduto al G8 di Genova». Così il leader del Pd Veltroni chiede con forza che siano accertate «le responsabilità politiche» di quelle violenze. Di quei giorni in cui esponenti di primo piano del governo Berlusconi erano nelle caserme di carabinieri e polizia.

«Bolzaneto, la verità sui politici responsabili»
La chiede Veltroni. «Qualcosa sta cambiando, la destra è nervosa e autodistruttiva»
di Bruno Miserendino inviato a Piacenza

SUL PULLMAN che lo porta da Lodi a Piacenza Walter Veltroni legge le agenzie, guarda le foto delle manifestazioni e riflette un po’ sui giovani: «Avete visto quanti ce n’erano in piazza a Pavia? Secondo me non è casuale, vedo un risveglio di interesse, un
avvicinamento alla politica e una curiosità per le nostre idee". Lo dirà anche in piazza: "Le ragazze e i ragazzi erano i grandi assenti dalle manifestazioni. Invece qualcosa si muove". Troppo ottimismo? La realtà è che i giovani, come dicono sondaggi e indagini, sono una parte importante dell’esercito degli indecisi, molti sono tentati dall’astensionismo, e motivarli potrebbe essere importante. E’ presto per capire se c’è un riavvicinamento e una mobilitazione dei giovani, però ieri mattina erano davvero tanti a Pavia, città universitaria. A un certo punto un gruppo di loro ha tirato su uno striscione sarcastico sulle battute di Berlusconi: "Siamo precari, aspettiamo un milionario". Veltroni ha colto la palla al balzo: "Mi piace divertirmi e fare battute ma quello dei precari è un argomento su cui non riesco a scherzare". Ma i giovani erano tanti anche a Lodi, dove c’erano più di tremila persone secondo gli organizzatori. E anche a Piacenza, ultima tappa di una giornata che ha visto Veltroni continuare a distanza il duello con Fini, nato sui costi della politica. "Sono nervosi - dice il leader del Pd - e questo li porta a fare mosse autodistruttive". Il riferimento è a quella battuta di Fini sulla "pensione" di Veltroni che ha di colpo abbassato il livello del politicamente corretto di questa campagna elettorale. A Berlusconi la battuta è piaciuta e infatti l’ha ripresa subito, Veltroni però non risponde più, l’ha fatto con la nota dell’altro giorno che spiegava perché prende il trattamento previsto dopo il mandato parlamentare europeo e come quei soldi, non potendo rifiutarli, li usa per finanziare progetti per i bisognosi. La battuta di Fini, "un’uscita molto fascista", come la definiscono nel Pd, ha convinto Veltroni che sui costi della politica ha toccato un nervo scoperto. E che ha spiazzato tutti gli avversari e anche gli ex alleati della sinistra radicale. Infatti Veltroni non demorde e ovunque va prende gli applausi più fragorosi quando ricorda l’origine della polemica: "Ho detto e ripeto che non è giusto un paese dove ci sono i salari più bassi d’Europa e dove gli stipendi dei parlamentari sono i più alti. Chiedo solo di riportarli nella media europea, sarebbe un gesto di sobrietà utile al paese e anche alla politica in un momento economicamente difficile".
Ma l’eco della polemica si avverte anche in una richiesta che Veltroni lancia proprio a Lodi, parlando di diritti, di legalità e di doveri: "Nessuna coscienza democratica - dice - può rimanere inerte di fronte alle notizie sugli episodi accaduti a Bolzaneto durante il G8 di Genova. Dobbiamo capire anche se ci sono state delle responsabilità politiche e bisognerà accertarle". Veltroni non nomina Fini ma si capisce che nel mirino c’è il leader di An e i vertici di quel partito che un qualche pessimo ruolo devono aver avuto nella gestione dell’ordine pubblico del G8. Veltroni parla di responsabilità politiche per sottolineare che il Pd ha sempre espresso ed esprime "la massima riconoscenza alle forze dell’ordine che in questi anni si sono sacrificate per garantire la sicurezza a tutti". "Questo giudizio non può essere scalfito - dice Veltroni - e proprio per questo quanto è accaduto a Bolzaneto non è accettabile". Tra un comizio e l’altro Veltroni calca la mano sulle liste del Pdl, che - dice - sembrano fatte apposta "per dare schiaffi ad An". "Le hanno inzeppate di gente che dice di An cose pestilenziali e questo sarà fonte di divisioni tra loro a elezioni finite". "D’altra parte - aggiunge riferendosi a Fini - ognuno è vittima delle proprie macchinazioni".
Tuttavia Veltroni queste battute sulle polemiche delle ultime ore le distilla in discorsi che poco concedono al politichese. Parla molto dell’Italia che vuole il Pd, ricordando a ogni manifestazione che il primo provvedimento che prenderà il governo, se sarà quello riformista, sarà il compenso minimo legale per i giovani precari, una misura "che esiste in 23 paesi europei su 27". E’ qui che prende sempre l’applauso più convinto oltre a quello sui costi della politica. Qualcosa vorrà dire. Quanto alle pensioni, l’altro tema con cui il Pd intende parlare al grande esercito degli indecisi, presenterà subito dopo Pasqua un progetto per alzarle.

Queste e tante altre cose rientrano nei misteri del G8 di Genova del 2001. La presenza di politici di An nelle sale operative. La Commissione che loro hanno osteggiato
Il governo della Destra ad un certo punto valutò l’ordine di sparare...
di Enrico Fierro

L’orrore dei giorni del G8 i lettori di questo giornale lo hanno letto negli articoli pubblicati ieri. Il racconto di quella notte nella caserma di Bolzaneto in cui la democrazia fu cancellata per lunghe, interminabili ore, è tratto dalla requisitoria dei pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Mirati. Non riproporremo le testimonianze di quanti furono torturati, insultati, minacciati di morte, feriti (gravemente) nel corpo e nell’anima, di tutti coloro, cittadini italiani e stranieri, trasformati in carne da straziare nella mani di rappresentanti dell’ordine pubblico. Uomini in divisa che tradirono il loro giuramento alla Costituzione italiana trasformandosi in impietosi picchiatori di persone inermi, torturatori di gente ormai inoffensiva, sguaiati urlatori di canzonacce fasciste ed esaltatori di dittatori sudamericani. Questo ci racconta il lavoro di due pubblici ministeri. La loro è stata una inchiesta difficile. Hanno subito attacchi, ci sono stati tentativi di depistaggio, la destra li ha iscritti nell’odiosa categoria di quanti vogliono denigrare le forze dell’ordine spinti da un sinistro furore ideologico. Nonostante ciò la giustizia è andata avanti, alla ricerca della verità su quella enorme violazione dei diritti umani che un organismo indipendente come Amnesty International definì «di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente». La verità giudiziaria, quando i processi saranno conclusi, non sarà però sufficiente a spiegare agli italiani quanto accadde a Genova. Tocca alla politica colmare un vuoto, il più importante e delicato, l’unico che potrà spiegare perché nella caserma di Bolzaneto ci fu (parole di Amnesty) «una breve ma intensa parentesi della democrazia».
Ha ragione Walter Veltroni quando dice che «a Bolzaneto è accaduto qualcosa che non è accettabile per uno stato democratico» e che «bisogna verificare se ci sono state responsabilità politiche». Tutto giusto, ma alle parole deve seguire un fatto, uno solo: l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta. E’ l’unica via per capire chi sbagliò, quali ministri e capi della Polizia allora in carica commisero gli errori che hanno reso possibile gli scempi di Bolzaneto. E’ uno strumento da sempre osteggiato dal centrodestra con lo slogan «non si processa la polizia». Non è così e lo sanno anche i vari La Russa, Ascierto e company, la finta compagnia degli strenui difensori di carabinieri e poliziotti. Perché solo un rigoroso accertamento delle responsabilità politiche può salvare l’onore delle nostre forze dell’ordine. Delle donne e degli uomini in divisa che ogni giorno lavorano per la sicurezza nazionale rispettando le regole della Costituzione, quelle che ritengono sacra la vita e l’incolumità anche del peggiore criminale quando viene neutralizzato e tratto in arresto. Solo una becera propaganda elettorale può accomunare i tanti poliziotti, funzionari, ufficiali e carabinieri, che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alle mafie italiane, ai loro colleghi di Bolzaneto. Si tratta di due mondi diversi e distanti tra loro. E bisognerebbe spiegarlo anche al partito del ministro Antonio Di Pietro che nella scorsa legislatura in Commissione affari costituzionali votò contro la proposta avanzata dal centrosinistra. Gli fecero compagnia la destra e l’Udeur di Mastella. Il Tonino nazionale disse che i suoi votarono contro perché «si voleva indagare solo sulla polizia». Forse una attenta lettura del lavoro dei suoi due ex colleghi genovesi, potrà aprirgli la mente. La Commissione d’inchiesta era nel programma dell’Unione, quella parte fu «stracciata», ora sarebbe utile dire con chiarezza che nella prima riunione del prossimo Parlamento, il Pd la riproporrà. Nonostante gli strepiti della destra e i mal di pancia di qualche alleato. Bisogna capire perché alcuni uomini politici, in primo luogo Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio, erano nelle sale operative in quei giorni, chiedere all’allora ministro dell’Interno Scajola (Fi) perché ad un certo punto valutò la possibilità di ordinare alla polizia di sparare sulla folla. Non dimenticheremo mai i giorni che precedettero il G8, le informative riservate che piombavano nelle redazioni (e che i giornali pubblicavano felici dello «scoop»). Si parlava di attentati terroristici dietro l’angolo, molti con metodi e modalità fantasiosi, si agitavano pericoli poi rivelatisi inesistenti. Tutto per creare un «clima» che giustificasse ogni orrore, ogni deviazione possibile. E allora non bastano più le parole, l’indignazione non è più sufficiente, la politica deve avere la forza di ricercare la verità. Lo deve a quei cittadini inermi torturati, ai poliziotti onesti, alla Costituzione. Che per lunghe ore venne violata, anch’essa prigioniera nella caserma di Bolzaneto.

L’ACCUSA La requisitoria dei pubblici ministeri in aula
«Mani spappolate»
Ecco alcuni stralci della requisitoria dei pm genovesi per il processo Bolzaneto riguardo gli indagati Antonio Biagio Gugliotta (ispettore accusato di abuso d’ufficio, richiesta di condanna 5 anni e 8 mesi), Alessandro Perugini (all’epoca numero 2 della Digos genovese, stessa accusa, richiesta di 3 anni e 6 mesi) e Massimo Pigozzi (poliziotto accusato di lesioni personali, richiesta una pena di 3 anni e 11 mesi).
di Antonio Biagio Gugliotta

La «rivendicazione» della «posizione del cigno»
«Sulla posizione vessatoria (a gambe divaricate, spesso su una gamba sola, ndr) c'è addirittura anche un riscontro quasi documentale, l'appunto di cui l'imputato Gugliotta si è assunto la paternità, che spiega non solo la conoscenza della posizione, ma anche la paternità di questa imposizione ritenuta necessaria per le esigenze che ha riferito l'ispettore Gugliotta». (Ranieri Miniati)

La consapevolezza del trattamento inumano e degradante
«Lo stesso imputato ammette il colloquio con Sabella. Doria ricorda un dialogo dello stesso tenore con Gugliotta, anche se abbiamo già visto che Doria dice di avere visto gli arrestati due volte nella posizione vessatoria, sia venerdì che sabato. "Credo che ci fossero una ventina di detenuti, credo che fossero già immatricolati... misti credo che fossero, alcuni seduti, altri in piedi faccia al muro.... le braccia alzate. Ma non riesco a datarla, ma c'era il giudice Sabella che chiese conto della posizione a Gugliotta... la risposta era che c'era necessità di separare... (...) per motivi di sicurezza". (...) Gugliotta se ne assume la paternità, quindi. Peraltro dall'istruttoria emerge una prova piena che l'ispettore Gugliotta fosse a conoscenza non solo della posizione, ma di tutta un'altra serie di elementi caratterizzanti il trattamento inumano e degradante, e che quindi fosse a consapevolezza dell'intero quadro del trattamento inflitto ai detenuti». (...) «Da questo promemoria e ne esamineremo alcuni punti deriva una prova certa non solo della consapevolezza del trattamento, ma prova della paternità di questo trattamento, della riferibilità diretta a Gugliotta. Forse non fu l'ideatore della posizione, ma sicuramente è stato uno di coloro che ha imposto ai detenuti questa posizione, e l'ha anche teorizzata. Vediamo i punti del promemoria: sulla posizione vessatoria c'è un paragrafo intitolato "posizione faccia al muro", poi c'è "stazionamento nel corridoio", dove si spiega anche perchè era necessario imporre anche la posizione di vessazione di transito. Sullo spirito di emulazione alla quinta pagina del promemoria in cui si legge "gli stessi poliziotti che procedevano ai fermi e agli arresti all'ingresso della struttura posizionavano i soggetti con il viso a muro e con le braccia alazate, e così li prendevamo in consegna". Della mancanza di cibo e acqua c'è un paragrafo dedicato alla cosa, da cui si evince che Gugliotta sapesse della non distribuzione di cibo e acqua, dei problemi nell'accesso al bagno e della carenza di personale femminile». (Petruzziello)

«Lesioni, percosse, minacce e segnali di impunità»
«Ma c'è di più. Perchè l'ispettore Gugliotta risulta essersi reso colpevole di singoli atti di violenza privata, percosse ad opera diretta del comandante di reparto. Secondo l'ufficio del pm per l'imputato esiste qualcosa di più, una responsabilità in ordine alle condotte di lesioni, di percosse, di minacce in danno delle persone offese. La condotta del comandante di reparto che non solo non impedisce atti lesivi dei diritti dell'arrestato, ma compie direttamente questi reati, costituisce un'istigazione. È ovvio che un sottoposto che vede il proprio comandante colpire un detenuto, lo incita a farlo se non l'ho ha ancora fatto, o a ripetersi, perchè per il sottoposto l'azione del comandante costituisce garanzia di impunità. Per cui noi lo riteniamo responsabile». (P)

Il massacro dei ragazzi: «Calci, manganellate e sangue»
«Esaminiamo ora le condotte di cui al capo 20. AC ha riferito di essere stato minacciato ingiuriato e percosso con manganelli; AS è stato costretto a dire viva il duce e fare il saluto romano (idem BA, BA, CA); CP riceve calci e pugni, viene percosso in cella con pugni ai reni, testa contro la parete e calci per divaricare le gambe. DG è insultato nel corridoio, percosso con calci, riceve un colpo con anfibio e manganelli, sanguina dal naso e dal polpaccio in seguito ai colpi. In cella deve stare in piedi a gambe divaricate. In cella viene colpito. Deve attendere a lungo in corridoio e per la perdita di sangue sviene; (...) LA viene percosso con colpi alla pancia e dietro la testa; LG viene percosso con calci e pungni con i guanti. Deve stare in attesa in corridoio e percosso a nuca e spalle. Viene pestato in infermeria. Viene obbligato ad andare in bagno e minacciato di sodomizzazione; (...) PE riceve colpi e sberle al passaggio in corridoio. In bagno è offesa e con ingiurie a sfondo sessuale. Viene costretta a mettere la testa nella turca; RA riceve lo spruzzo di gas urticanti in cella dall'esterno. Viene portato a fare una doccia e un agente lo prende a manganellate sotto la doccia; VA in cella viene percosso con calci e schiaffi. Costretto a dire “viva il duce”. Viene avvicinato un accendino alle mani e viene ustionato. Per sabato: AM percosso con calci e pugni; (...) XX viene percosso, ha un malore. A terra riceve calci e sputi. Lo fanno mettere nudo a quattro zampe; DS nel corridoio è percosso. Percosso in cella. Strizzata ai testicoli; MA in cella percosso con calci ai talloni e pugni ai fianchi. Filastrocca di Pinochet e spray urticante dalla finestra. (...) Domenica: BRA viene percosso con pugni ai reni e un calcio alla gamba ferita; (...) HJ nel corridoio è percosso, riceve sputi e manganellate, viene palpato nei genitali e insultato, lo picchiano con una cinghia. (...) Sulla base di tutte queste testimonianze deve ritenersi provata la penale responsabilità di Gugliotta di tutte le contestazioni di cui al capo 20». (P)

Alessandro Perugini. Quella maledetta «prima stanza a destra»
«L’ufficio è comandato dall’imputata Poggi, e in immediato sottordine dall’ispettore capo La Rosa. Con l’avvento di Perugini, questi diventa il più alto in grado e si pone a lavorare nella prima stanza a destra.
(RM)

Il vero problema é che di cibo a Bolzaneto non ce n’è stato, mentre giustamente è stata posta comunque attenzione al problema del cibo delle forze dell’ordine. La stessa attenzione doveva essere prestata per quanto riguarda i detenuti. Cito soltanto la deposizione di Perugini che è stato degno, e ha provveduto a far arrivare del cibo e dell’acqua per il personale dell’ufficio trattazione atti. (...) Il livello apicale era costituito da: vice questore Perugini, commissario capo Poggi per la Polizia di Stato (...). Abbiamo detto quali sono stati i nostri parametri per la consapevolezza di quello che avveniva, che derivava da una presenza continua nella struttura e duratura, tra 6-8 ore. Con questi criteri rapportati al grado e alle cariche il pm ha valutato se vi erano dei profili di rilevanza penale. (...) Partiamo dalle posizioni del vice questore Alessandro Perugini e del commissario capo Anna Poggi, livello apicale per la Polizia di Stato. I criteri sono quelli di individuare persone con poteri decisionali nella struttura per grado e incarico, che avrebbero potuto quindi dare ordini per incidere sul trattamento dei detenuti. (...) I due imputati Poggi e Perugini, proprio per la loro carica e per il servizio che hanno prestato, sono da ritenersi in posizione di garanzia rispetto ai diritti delle persone in custodia, questo a prescindere dallo svolgimento concreto di una funzione di vigilanza davanti alle celle. (...) Un altro dato molto importante è che gli imputati Poggi e Perugini sono sempre stati considerati e trattati come responsabili e referenti per la struttura da parte della Ps: questo sia da parte di sottoposti in grado che da funzionari. (...) Gli stessi sono stati contattati per il lancio di spray e per la posizione dei detenuti in cella». (P)

E che problema c’è: nessuno ha visto niente...
«L’imputato Perugini ha ricordato di avere visto due volte i detenuti nella posizione in piedi faccia al muro: “non mi sono posto il problema, devo essere onesto”. Il dottor Perugini ha ammesso che in entrambi i casi non ha disposto che si sedessero. (...) Perugini e Poggi stavano nell'ufficio trattazione atti, un ufficio i cui sono avvenuti atti di violenza, e guarda caso loro non ci sono mai. Poi c’è la finestra che dà sul cortile, ma non hanno visto niente. Sono stati nei corridoi e non hanno visto nulla». (P)

Massimo Pigozzi. Quella mano strappata: «Particolare crudeltà»
«Passiamo alla posizione di Pigozzi Massimo. Al capo 57 è contestato il reato di lesioni personali aggravati per avergli lacerato la mano sinistra. È l'unico caso che presenta l'aggravante della particolare crudeltà che si aggiunge alle altre aggravanti. (...) AG giunge a Bolzaneto nel tardo pomeriggio, risulta liberato tra mezzanotte e le due di sabato. È stato ascoltato in udienza e ha confermato la querela. Ha detto di essere stato prelevato da San Martino dove si stava facendo medicare ferite riportate in via Tolemaide. È stato portato a Bolzaneto e picchiato contro un muretto. (...) Vediamo la sua deposizione: "Mi si è avvicinato un agente, ha preso la sinistra, me l'ha divaricata, si vedeva anche l'osso, me l'ha proprio aperta e io sono svenuto" "era un po' più alto di me, molto piu' robusto, capelli neri corti, occhi scuri, in divisa con la mimetica", riconoscendo la B2, "occhi semichiusi, è successo che è venuto qualcuno e mi ha accompagnato in infermeria, mi hanno chiesto come mi ero fatto male e io ho risposto che ero caduto dalle scale, c'erano degli infermieri, dei medici, un lettino. mi hanno fatto spogliare e sedere, ho fatto vedere la mano e me l'hanno cucita. C'era una infermiera donna e non se la sentiva. Mi ha cucito un'altra persona. C'era una persona panciuta che mi teneva. Siccome avevo molto dolore chiedevo qualcosa che poi mi hanno dato, uno straccio da mordere. Mi ha detto di non urlare." Sull'autore della lesione. "L'ho visto poco tempo dopo alla croce verde di Quinto, l'ambulanza era ferma al semaforo, ho guardato l'autists e ho detto “quella faccia la conosco”. Allora arrivo lì, stava estraendo la lettiga. MI guarda e mi dice 'cosa ci fai qua?' gli ho fatto vedere la mano e io gli ho detto che l'avrebbe detto a un giudice. L'ho rivisto su un auto in divisa e ho avuto la conferma". Nel corso della sua deposizione AG ha riconosciuto nella foto 11 raffigurante l'imputato Toccafondi la persona che lo teneva mentre era suturato, e nella foto 5 la dr.ssa Sciandra che non se la sentì, e nella foto 9 raffigurante Amenta, il medico che aveva praticato la sutura. Nel corso delle indagini, sull'esito degli accertamenti ha deposto il colonnello Innocenti il quale ha riferito di aver accertato che prestavano servizio presso la croce verde quattro ps tra cui Pigozzi». (P)

L’urlo di AG e le testimonianze convergenti
«L'imputato è stato interrogato durante le indagini dal pm. L'episodio della ferita alla mano di AG, vediamo le risultanze: SG ricorda l'episodio. È trasportato a Bolzaneto con AG. SG dice di aver visto con la coda dell'occhio mentre era accovacciato a terra, una persona non particolarmente alta e in borghese, e di averla vista prendere la mano e aver sentito un urlo. Il teste SG è attendibile non solo per le considerazioni già fatte, ma per altri elementi. SG parla infatti di un imprevisto che si era verificato a Bolzaneto, uno dei veicoli del convoglio nei pressi del casello di Sampierdarena, circostanza che si è verificata come testimoniato da alcuni testimoni della difesa Pigozzi (Chiappello Mirko, Torre Sergio, Jacoel Gino, Novel Andrea, Bonaccorso Santo, Rocco Antonino, Truppo Simona). SG a dibattimeno ha reso questa versione e ha mantenuto, questo è indice di attendibilità. (...) Andiamo a vedere i riscontri: un primo riscontro documentale è il certificato di San Martino, che riporta alle 17.02 come orario e non si fa riferimento alla mano. Si fa riferimento a cranio e piede, ma alle 17 AG non aveva questa ferita alla mano. Abbiamo poi la deposizione del consulente medico legale, a riscontro dei suoi elaborati scritti. Il dr. ha precisato che AG riportò una ferita lacero contusa con prognosi di 50 gg e permanente indebolimento dell'arto. Il dr. ha confermato la compatibilità della dinamica. Ferite di questo tipo si possono avere anche senza danni strutturali alla mano. Peraltro ha testimoniato anche il consulente medico legale della difesa che però non ha mai visitato AG e quindi spiega così la scarsa rispondenza della consulenza. I riconoscimenti fatti da AG non sono fatti con certezza rispetto a medici e infermieri, e questo conferma l'attendibilità. È perfettamente logico che nella condizione di sofferenza i ricordi si possano essere sommati circa le caratteristiche somatiche. Va ricordato che tutte le persone ricordate da AG erano sicuramente tutti presenti nell'infermeria il pomeriggio del 20 luglio come risulta dalla documentazione. La versione di AG trova riscontro nelle dichirazioni di Pratissoli e Poggi. Poggi: "Mi ricordo di AG, mi rimase impresso, dato che è il nipote del famoso cardio-chirurgo, aveva una ferita lacero contusa alla mano. È rimasto appoggiato, che cercavamo dell'anestetico. Io gli chiesi cosa si era fatto e lui mi disse che era stato picchiato, che era andato all'ospedale per prendere il metadone e l'avevano picchiato. In questo caso l'ha cucito senza anestetico perchè non l'avevamo. È stata una sutura che l'hanno fatta anche bene, io sentivo AG perchè sentivo che urlava, io ero in matricola"». (P)

Quegli strani «buchi» di memoria dei dottori
«Circa la presenza dell'imputato Toccafondi, che è ricordata da Poggi e non da Pratissoli, ha precisato la circostanza il dr. Toccafondi che ha detto di essere stato presente all'episodio. Quindi un altro episodio di difetto di memoria di Pratissoli. Toccafondi parlando dell'episodio ha dichiarato: "È stato uno dei primi che abbiamo visto; il dr amenta mi ha detto che lo cuciva, era una ferita interfalangea con due o tre centimetri di profondità; mi pare che fosse un po' confuso, cmq non ne ha parlato". Riteniamo che dalle testimonianze possa ritenersi provata e riscontrata la versione di AG su quanto avvenne in infermeria». (P)

La confusione, il Ducato e quei minuti di «buio»
«Ho un'ultima osservazione sui testimoni della difesa Pigozzi. Nessuno dei testimoni ha portato degli elementi favorevoli con la posizione dell'imputato Pigozzi o tali da modificare o da depotenziare il quadro propbatorio a carico dell'imputato. Da queste deposizioni emerge che AG e SG furono prelevati da un convoglio della ps composto da un Ducato guidato da Pigozzi, da una volante guidata da Torre, con Chiappello, da una marea con due agenti e una marea con Rocco e Bonaccorso. SG e AG vengono portati a Bolzaneto. Il funzionario che dirigeva le operazioni era la dr.ssa Truppo, e proprio perchè lei andò a conferire con Perugini per il problema dei fermati non ha visto nulla di quanto accadeva fuori. (...) Gli altri agenti hanno tutti dichiarato di non aver visto dove furono portati gli uomini trasportati dal ducato. Altri hanno dichiarato di essere andati via ancora prima della consegna dei fermati. (...) Ritiene il pm che sia ampiamente provata la responsabilità di Pigozzi». (P)

Niente cibo, regolamento carcerario calpestato
«A Bolzaneto non è stato somministrato cibo con cadenze neanche lontanamente vicino al regolamento penitenziario. Questo va detto perché la cosa é stata giustificata come questione relativa agli orari di ingresso e di traduzione.

«Il processo secondo l’ufficio del pm ha provato che a Bolzaneto al di là del disastro organizzativo si sono verificati dei reati gravi e ripetuti, ascrivibili a comportamenti coscienti e volontari di persone che hanno operato nella struttura. Rifugiarsi dietro il disastro organizzativo è solo un alibi». Così il pm Patrizia Petruzziello motiva in uno dei passaggi della requisitoria condotta assieme al collega Vittorio Ranieri Miniati la richiesta di condanna per gli ufficiali e i responsabili della caserma di Bolzaneto. In 44 - secondo l’accusa - sono responsabili delle violenze, delle torture e delle umiliazioni subite dalle centinaia di manifestanti durante quei giorni del G8 2001: da venerdì 20 a domenica 22 luglio. «I livelli di vertice di Bolzaneto erano ufficiali di PG e avevano il dovere di impedire la commissione di reato, erano anche responsabili dell’incolumità delle persone in stato di custodia: avevano l’obbligo di impedire che si verificassero o che continuassero a verificarsi una volta verificatesi. Si è verificato un mancato doveroso intervento per impedire le azioni criminose» spiega ancora Petruzziello. Che insiste soprattutto su un punto: tali condotte hanno di fatto «garantito» che le violenze si commettessero. «Vi è stato ben oltre l’omissione di denuncia: in alcuni casi vi è stata anche quella, ed è sintomatico dell’atteggiamento doloso, ma vi è stato di più, con questa tolleranza delle condotte» è stata di fatto rafforzata «la determinazione nello svolgere queste condotte nella convinzione dell’impunibilità».
e.n.

l’Unità 20.3.08
La mia vita con la schizofrenia
di Cristiana Pulcinelli


Mio figlio schizofrenico e la sua vita «normale»
Clara Sereni e il problema della malattia mentale in famiglia, con Matteo, che ora ha trent’anni. «Qualche volta ho cercato di immaginare cosa sarebbe stato senza la 180. Ma non ci sono riuscita, perché è troppo spaventevole»

Matteo è nato nel 1978, proprio quando è stata approvata la 180. Qualche volta ho cercato di immaginare cosa sarebbe stato di lui senza la legge. Ma non riesco a soffermarmi a lungo su questo pensiero perché è troppo spaventevole. Credo che sarebbe finito presto in un istituto e che noi non avremmo pensato a possibili alternative». Matteo è il figlio di Clara Sereni e di Stefano Rulli ed è schizofrenico. Clara Sereni ha affrontato il problema della malattia mentale nei suoi libri, a cominciare da Manicomio Primavera del 1989.
Stefano Rulli, sceneggiatore e regista, ha girato nel 2004 Un silenzio particolare, un film sulla storia della loro famiglia che ha vinto il Davide di Donatello. Da dieci anni tengono in piedi una fondazione che si occupa di persone con disagi psichici. Clara è la presidente.
La vostra storia personale vi ha portato ad affrontare il tema della malattia mentale?
«In realtà abbiamo iniziato ad occuparcene prima della nascita di Matteo. Stefano aveva girato Matti da slegare, il documentario sui manicomi uscito nel 1975. Inoltre, la psichiatria in quegli anni era un pezzo del movimento e quindi ci apparteneva. E il lavoro di quegli anni ci è stato molto utile, dopo, per non perdere la lucidità».
E poi cosa è successo?
«Poi ci siamo caduti dentro. All’inizio non abbiamo capito, ci sono voluti anni: capire non è stata una passeggiata. Non dico “accettare”, perché non si accetta mai fino in fondo».
Qual è il problema di Matteo?
«Matteo è schizofrenico ed è grave perché lo è dalla nascita. Se la crisi psicotica interviene più avanti, diciamo verso i 18 anni, la persona ha strutturato un pezzo di personalità: sa leggere e scrivere ad esempio. Ma se interviene presto, non ha la possibilità di farlo».
All’epoca abitavate a Roma, poi siete andati via. Perché?
«Roma non è una città vivibile per chiunque abbia problemi. Aveva in sé una dose di violenza per cui era difficile immaginare un futuro».
Ci vuole raccontare un po’ di quella violenza?
«Matteo e Stefano sono a piazza Argentina. Matteo avrà 10 anni ed è in piena crisi. Una crisi che nessuno può confondere con un capriccio. Vuole buttarsi in mezzo alla strada e Stefano fa l’unica cosa che può fare: bloccarlo. Lo spinge contro un’edicola, Matteo comincia a dare testate all’indietro contro la vetrina del negozio. Il proprietario si precipita fuori, non per aiutarli ma per urlare contro chi, secondo lui, voleva rompere il vetro».
Così è maturata la scelta di trasferirvi a Perugia?
«Sì, ma verso Perugia ci spingeva anche la volontà di entrare in una rete di familiari e servizi che in quella città erano abbastanza attivi. Ci eravamo resi conto che la risposta singola non esiste. Così siamo entrati in un’associazione di familiari che lavorava insieme ai servizi pubblici. I familiari non erano utenti, ma, in quanto portatori di conoscenze, erano attori del progetto. Dopo un po’ abbiamo capito però che i servizi pubblici da soli non bastano. Il problema è che il servizio pubblico ha per compito quello di dare il maggior numero di risposte, ma questo spesso avviene a scapito della qualità. Comunque, finché i figli erano piccoli avevamo tante di ipotesi di lavoro che, quando messe in pratica, funzionavano anche. Dopo un po’ però l’associazione è implosa».
Perché?
«Il nostro lavoro comportava che rendessimo i nostri figli più autonomi e soprattutto che ci arrendessimo all’idea che tutto quello che facevamo non poteva guarire i ragazzi. E queste due cose sono difficili da accettare. Io credo che qualche parte di me è ancora in attesa dell’ora x in cui Matteo guarirà. L’accettazione del fatto che le persone possano avere una vita degna di essere vissuta anche senza guarire va di pari passo con quella della loro autonomia. Nella visione della nostra società queste persone sono figli per sempre. Pensiamo ai reportage sui malati: anche quando sono in là con gli anni, li si definisce sempre “ragazzi”. D’altro canto, i familiari sanno che il mondo non sta lì pronto ad accoglierli a braccia aperte e non c’è quindi da stupirsi se hanno paura».
Quando è nata la Fondazione La città del sole?
«Nel 1998. L’idea su cui si fonda è che tutti abbiano bisogno di normalità e queste persone più degli altri. Così, non facciamo niente apposta per loro, ma creiamo contesti di normalità forti e buoni, tanto da essere in grado di accogliere anche chi ha gravi problemi. Un esempio: la residenzialità. Invece di fare case famiglia, mettiamo insieme 3 persone che hanno un normale bisogno abitativo, ad esempio ragazzi che non hanno soldi per pagare l’affitto ma vogliono andare a vivere per conto loro, e una persona con problemi. La Fondazione paga la casa e ognuno si paga le spese quotidiane. Dalle 8 di sera alle 8 della mattina vivono insieme, poi ognuno prende la sua strada. Questo permette una vita normale, come in una casa abitata da studenti. In questo modo anche la persona con problemi può avere una vita come quelli della sua età, con il concerto, il cinema, le uscite del sabato sera. Una vita degna di essere vissuta».
Chi sono i coabitanti?
«Non sono operatori, ma vengono scelti con qualche criterio, primo fra tutti una sensibilità verso il sociale. Qualcuno se ne è andato, ma nel complesso funziona e spesso anche loro percepiscono un elemento di arricchimento personale dall’esperienza».
E i bellissimi casali che si vedono in «Un silenzio particolare»?
«Quelli fanno parte del progetto “turismo per tutti”. Nei casali, che sorgono sul monte Peglia, si fa una normale accoglienza turistica, ma con una particolare attenzione alle persone con problemi. Vengono da noi famiglie, associazioni, Asl. Una volta l’anno facciamo una festa che chiamiamo il Merendanzo: si mangia, ci sono eventi come la lettura di poesie, si canta, c’è la pesca, il mercatino. Lo scopo è duplice: la divulgazione di quello che facciamo e la raccolta fondi. Ma il Merendanzo è anche un momento in cui si vede che se metti insieme “sani” e “diversi” in una situazione buona, si può stare bene. Quest’anno la festa sarà l’8 giugno».
Come Fondazione avrete molti contatti con i familiari dei malati, quali sono i loro problemi?
«Quando sento frasi come “questi genitori eroici” penso sempre “beato il paese che non ha bisogno di eroi”. La difficoltà delle famiglie è reale e prevalente. Le famose strutture intermedie che la legge 180 prevedeva sono poche, i figli spesso stanno in collo ai genitori con un danno doppio: non solo i genitori non possono “liberarsi” dei figli, ma si elimina il fatto che anche questi figli hanno il diritto di essere liberati dai genitori. Io che sono una privilegiata per cultura, censo, posizione sociale, se ripercorro la mia vita negli ultimi 30 anni mi accorgo che è largamente condizionata da mio figlio. Ci sono famiglie in cui questo condizionamento è enormemente più pesante».
Quanto conta nella sua vita la Fondazione?
«È la mia maternità vicaria e la mia prima occupazione. La scrittura, a dire il vero, viene molto dopo».
Dopo la chiusura delle strutture manicomiali negli anni Novanta, sono sorte molte imprese sociali. Sono utili?
«Sono una bellissima cosa, ma qualcuno deve occuparsene. Voglio dire che la parte pubblica deve programmare, qualche volta può anche fare dei progetti assieme alla cooperativa o al privato, ma sempre e in ogni caso deve verificare e controllare. Noi siamo privati ma, avendo contributi pubblici, abbiamo chiesto un tavolo di valutazione condiviso, che peraltro non siamo mai riusciti ad ottenere. Perché chiunque, anche con le migliori intenzioni, può ritrovarsi ad essere Pagliuca. Soprattutto oggi che fondazioni e cooperative si moltiplicano, la rete di controllo deve essere stretta. E non mi sembra che lo sia».
Che cosa serve oggi?
«Servono più fondi perché si tratta comunque di attività costose, anche se un tempo si diceva “nessun progetto costa quanto un giorno di manicomio” ed è vero. Serve più personale nei servizi. Serve un progetto-obiettivo che dia linee di indirizzo più chiare di quelle disponibili al momento.
Serve che si lavori di più con le famiglie. Un lavoro che si articoli in ascolto e terapia, perché una famiglia in cui c’è un disagio si ammala. E serve un po’ di memoria storica: oggi ci dicono di nuovo che l’elettroshock va bene. Si ricomincia sempre da zero».

l’Unità 20.3.08
1978 Trent’anni fa la svolta
E su Radio 3 venti puntate sulla storica legge
di Nico Pitrelli


Tra poche settimane ricorrono i trent’anni della 180, la legge che ha sancito il superamento degli ospedali psichiatrici in Italia e proposto un’assistenza alle persone affette da disturbi mentali basata su una rete di servizi distribuiti sul territorio. Un anniversario cruciale per la storia della psichiatria e dei diritti civili nel nostro Paese che Radio 3 Rai ha deciso di ricordare e attualizzare con un’iniziativa documentaristica di ampio respiro. In venti puntate in onda a partire da fine Marzo il giornalista Guido Votano ci accompagna nei luoghi e nelle situazioni della psichiatria italiana di oggi. Tra centri di salute mentale, ospedali giudiziari, cliniche psichiatriche sparse per tutta la penisola si disegna l’articolato quadro di strutture pubbliche e private, di attività e di persone coinvolte nell’assistenza alle persone con disagio psichico.
Attraverso dialoghi, suoni, rumori, Votano rende la coralità delle voci che partecipano al discorso sulla salute mentale. Il mezzo radiofonico rivela tutta la sua efficacia nella restituzione di una complessità troppo spesso contrapposta alle semplificazioni, non solo mediatiche, che vogliono ridurre la malattia mentale al gesto efferato, alla pericolosità sociale, a un interlocutore misterioso e sconosciuto. Il documentario proposto da Radio 3 Rai è un efficace antitodo informativo contro comode omologazioni. Che non fa sconti però. Perché, se è vero che l’ascolto fa emergere, al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, il valore del sapere contenuto nelle storie delle persone e la ricchezza delle relazioni, è anche vero che fatica e difficoltà non vengono nascoste. Infermieri, pazienti, medici, operatori testimoniano disomogeneità, arretratezze degli interventi, frustrazioni, ritardi della politica, costrizioni di budget. Tutti fattori che inevitabilmente tendono a ridurre la possibilità di rispondere ai bisogni singolari e differenti delle persone. La trasmissione di Votano rende un buon servizio anche da questo punto di vista perché ci fa vedere da vicino il rischio, sempre in agguato a trent’anni dalla 180, di far scomparire nelle difficoltà della gestione amministrativa la sofferenza del disturbo mentale e la contraddizione che essa esprime. Con la conseguenza di non permettere alla storia della singola persona di svilupparsi, di non dare spazio alla ricerca di percorsi di rimonta che non siano solo medici.
La trasmissione va in onda dal 24 marzo al 19 aprile, dal lunedì al venerdì, dalle 18.00 alle 18.45

l’Unità 20.3.08
COMUNICATO SINDACALE


L'assemblea delle redattrici e dei redattori de l'Unità torna a esprimere fortissima preoccupazione per le notizie relative al possibile ingresso maggioritario (si parla del 70%) del Gruppo Caso nella proprietà del giornale. Le informazioni che riguardano la storia imprenditoriale di questa società, infatti, pongono forti e oggettivi interrogativi sulla sua affidabilità economica e sul suo rispetto dei più elementari diritti sindacali: è una storia di aziende e giornali aperti e chiusi, di licenziamenti in blocco, di lavoratori lasciati senza stipendio e senza lavoro. Questo non può non preoccupare i giornalisti de l'Unità che pongono all'attuale proprietà un'esigenza inderogabile di trasparenza e di coerenza con la storia e l'identità del quotidiano: è necessaria una verifica approfondita non solo sulle garanzie che chi è interessato ad entrare nella compagine azionaria deve fornire, ma anche sul progetto editoriale indispensabile per il rilancio della testata. Esigenze già poste con forza quando si è presentata la possibilità concreta dell'ingresso della Tosinvest degli Angelucci nell’Unità.
Come in passato, chiediamo un'articolazione proprietaria che sia di garanzia e di equilibrio per i lettori, per l'attuale compagine azionaria, per la redazione e per l'area di riferimento culturale e politica del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Nessun percorso è obbligato se il prezzo da pagare è, come minimo, quello di una caduta d'immagine irreparabile per il giornale.
Questo chiama in causa direttamente il Partito democratico e il suo segretario Walter Veltroni, anche in considerazione del fatto che l'Unità gode del finanziamento pubblico dei Ds, che nel Pd sono confluiti.
L'urgente problema dell'assetto proprietario del giornale non può non essere centrale nell'agenda politica del Partito democratico nel suo complesso. Abbiamo apprezzato le dichiarazioni a sostegno all'Unità del segretario e di tanti esponenti del Pd e del centrosinistra. Ma queste da sole non bastano più. Al segretario del Pd ricordiamo che è questo il momento degli atti espliciti e conseguenti: per questo chiediamo a Walter Veltroni, già nostro direttore, un incontro in tempi brevi con l'intera redazione.
Il giornale rischia un deperimento. E il pericolo è che le capacità professionali di cui dispone possano essere mortificate da una affannata gestione editoriale e industriale. È una situazione di stagnazione che ha un'influenza negativa e non più accettabile sull'organizzazione del lavoro e sulla valorizzazione delle competenze del giornale.
Per tutti questi motivi i giornalisti de l'Unità - confidando anche nella comprensione e nella solidarietà dei lettori - ben consapevoli delle difficoltà del momento, e attenti alle risposte che potranno venire nei prossimi giorni, proclamano una giornata di sciopero per il 26 marzo 2008.
le redattrici e i redattori de l'Unità

l’Unità 20.3.08
Per chi votare? Un terzo degli italiani decide ora


Censis: davanti alla scelta i più giovani. Aiutano i consigli di amici e parenti, non di Internet

ROMA Saremo pure nell'era di internet ma quando si tratta di dare un consiglio agli indecisi su chi votare contano di più la famiglia e i parenti, gli amici e i colleghi che non la rete e i blog. Nella classifica dei principali canali di raccolta di informazioni utili per la scelta del voto, infatti, internet è solo al 7° posto, preceduto da comizi e manifestazioni elettorali a vario titolo, dagli amici e dai colleghi, dalla radio, dalla famiglia e dai parenti, e, naturalmente, dalla televisione, che si conferma, con un bel 74%, la regina indiscussa delle «fonti» da cui attingere quelle informazioni che possono orientare il voto. È quanto emerge da un dossier del Censis su «abitudini e sorprese nel voto degli italiani», presentato ieri a Roma. L'analisi è fatta su un campione di elettori contattati nelle tre tornate elettorali del 1996, del 2001 e del 2006, con l'obiettivo di capire quali siano le dominanti di fondo che presumibilmente concorreranno a decidere la contesa tra le coalizioni. Sarà il fisco? Secondo il Censis, no. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1996, il 32,7% degli elettori indicava, infatti, il fisco come una preoccupazione forte, mentre prima delle politiche del 2006 l'interesse su salari, tasse e dintorni era calato fino al 14,9%. Ora vi è una ripresa di interesse, ma sono altri gli argomenti fondamentali che determinano la scelta del voto. Scelta che, per quasi un terzo degli elettori (32% circa), avviene proprio in questo periodo di campagna elettorale.
A decidere per chi votare durante la campagna elettorale sono soprattutto i giovani: il 35% di loro nel 2001 ed oltre il 41% nel 2006 fecero la propria scelta proprio in base agli argomenti proposti durante la campagna elettorale. Statisticamente, le motivazioni profonde che determinano la scelta del voto - sempre secondo il dossier del Censis - sono, per poco meno della metà degli elettori (49,5%), i «valori ed ideali» più vicini ai propri; altri, invece, scelgono principalmente in base «ai programmi» (23,2%); sempre meno elettori, invece, in base «al leader» (18% nel 1996, meno del 14% (nel 2006). Sempre in crescita dal 1996 al 2006, la sanità è stato il settore di maggior interesse per gli elettori, seguito da previdenza e pensioni, e poi da giustizia, scuola e fisco. Le prossime elezioni politiche, inoltre - è stato evidenziato - irrompono in un contesto nel quale il rapporto tra la società e la politica è al suo punto più basso. I dati di un'altra indagine del Censis del 2007 mettono, infatti, in rilievo che il 59% degli italiani ritiene che «i politici usano il potere in modo arrogate per interessi personali», valore molto superiore a quello di Francia (34,8%) e del Regno Unito (41,3%) e superato solo dal dato rilevato in Spagna (60,6%).

l’Unità lettere 20.3.08
Sarò pessimista, ma senza Sinistra Arcobaleno Il Pd perde

È davvero ammirevole lo sforzo con cui Veltroni conduce la campagna elettorale, capillare, a tappe forzate senza risparmio di energie. Ed è uno sforzo tanto più ammirevole se si pensa che è praticamente senza speranza. Diciamocelo chiaramente, fra noi, beninteso: nessuno, nemmeno i più ottimisti possono pensare sul serio a un successo del Pd. Prima di tutto, i sondaggi (tutti) sono costantemente negativi. Si dirà che sondaggi non sono il giudizio di Dio, come si è visto in altre occasioni. È vero, ma non sono neanche pagliacciate, specie poi se più o meno tutti sono concordi. Il PD sarà pure in recupero, ma questo recupero, mi pare, si è fermato un mese fa. Secondo: non dimentichiamo mai che i nostri avversari, nonostante ripetuti cambi di maggioranza, possiedono o controllano ancora quasi tutta l’informazione e questo, come ben si sa, non è indifferente. A ciò aggiungiamo pure una buona dose di disaffezione, disincanto, delusione o come la vogliamo chiamare questa sensazione che permea una buona fetta dell’elettorato di centrosinistra ed avremo servito l’amaro piatto della sconfitta. Non è questo il luogo né il momento delle dietrologie, ma è fuori di dubbio che la sostanziale impotenza che ha contrassegnato l’azione del Centrosinistra (tutto) nel passato contro il vandalismo istituzionale della destra abbia inferto colpi mortali all’entusiasmo e alla voglia di riscatto dei cittadini più partecipi. Né vale a consolarci la speranza di un pareggio al Senato. Senza la sinistra arcobaleno, infatti, perderemo quasi sicuramente Liguria, Campania e Calabria assegnando al PdL una maggioranza non enorme ma comunque sufficiente. Cinque anni di Berlusconi, Tremonti & C. ci aspettano ancora. Caratterizzati da altre leggi ad personam, manomissioni di pezzi di stato sociale, finanze creative, condoni e magari, perché no?, un’altra guerra, ecc. che passeranno praticamente nell’indifferenza generale in un clima di tregua sociale a senso unico. È pessimismo? Magari. A me sembra, guardando anche i precedenti, crudo realismo, purtroppo. No, caro Walter. No, we cannot.
Daniele Carbonara

Repubblica 20.3.08
Come punire quelle torture
di Antonio Cassese


Quel che è avvenuto a Bolzaneto nel 2001 è la violazione simultanea e flagrante di tre importanti trattati internazionali che l´Italia aveva contribuito ad elaborare e si era solennemente impegnata a rispettare: la Convenzione europea dei diritti dell´uomo del 1950, il Patto dell´Onu sui diritti civili e politici del 1966, e la Convenzione dell´Onu contro la tortura del 1984. A Bolzaneto sono stati inflitti trattamenti disumani e degradanti ma, in più casi, anche vere e proprie torture.
I trattamenti disumani e degradanti, vietati dalla Convenzione europea, sono quelli che causano sofferenze fisiche o mentali ingiustificate e umiliano e abbrutiscono una persona. Ad esempio, la Corte europea vietò all´Inghilterra di infliggere come pena la fustigazione di minorenni condannati; condannò la Turchia perché due ufficiali avevano commesso atti di violenza carnale nella zona nord di Cipro senza essere puniti; censurò la Lettonia per aver detenuto in un carcere carente di strutture adeguate un condannato paraplegico e non autosufficiente, causandogli ‘sentimenti costanti di angoscia, inferiorità ed umiliazione´. Anche tenere ventidue ore al giorno più detenuti in celle anguste, senza servizi igienici, costituisce trattamento disumano e degradante - come fu rimproverato all´Inghilterra.
Quando si ha invece tortura? Quando i maltrattamenti o le umiliazioni causano gravi sofferenze fisiche o mentali, ed inoltre la violenza è intenzionale: si compiono volontariamente contro una persona atti diretti non solo a ferirla nel corpo o nell´anima, ma anche ad offenderne gravemente la dignità umana; e ciò allo scopo di estorcere informazioni o confessioni, o anche di intimidire, discriminare o umiliare. "Datemi un pezzettino di pelle e ci ficcherò dentro l´inferno", è quel che un grande scrittore americano fa dire ad un aguzzino. La tortura è proprio ciò: l´inferno nel corpo o nell´anima. È tortura l´uso di elettrodi su parti delicate del corpo, il fatto di provocare un quasi-soffocamento (infilando un sacchetto di plastica sul capo), o quasi-annegamento (si tiene una persona a testa in giù, inondandole di acqua la bocca e il naso, così da darle la sensazione di annegamento), o picchiare con forza e a lungo sul capo di una persona con un elenco telefonico, fino a provocare capogiri o svenimenti. Queste e tante altre forme di violenza sono state concordemente considerate tortura da autorevoli giudici internazionali.
A Bolzaneto quasi tutti i 200 e passa arrestati vennero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, come risulta dagli atti dei pubblici ministeri, riassunti nell´incisivo reportage di D´Avanzo pubblicato su questo giornale. Ma in più di un caso si andò oltre e si trattò di vera e propria tortura. Ad esempio, nel caso di A.D. che – cito D´Avanzo – «arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella ‘posizione della ballerina´ [in punta di piedi]. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole, lo minacciano di ‘rompergli anche l´altro piede´. Poi gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano ‘Comunista di merda´». Penso anche al caso di G.A., arrivato ferito a Bolzaneto: «Un poliziotto gli prende la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due ‘fino all´osso´. G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G.A. ha molto dolore. Chiede ‘qualcosa´ Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare». Questi fatti, se confermati dai giudici, costituiscono tortura. Così come si arriva alla soglia della tortura in altri casi apparentemente meno gravi, ma in cui l´effetto cumulativo di più comportamenti (insulti, pestaggi ripetuti, umiliazioni soprattutto nei confronti delle donne, spesso lasciate nude agli sghignazzamenti e agli scherni dei poliziotti), è tale da causare gravi sofferenze mentali (spesso anche fisiche).
Orbene, di fronte a questi fatti cosa si può fare in Italia? Visto che siamo legati da importanti trattati internazionali, se i giudici non infliggeranno adeguate punizioni e significativi risarcimenti, si potrà fare ricorso alla Corte Europea. Ma non basta. La Corte di Strasburgo potrà tutt´al più accertare la violazione della Convenzione europea da parte dell´Italia e condannare il nostro Governo a risarcire i danni materiali e materiali. Più significativo sarebbe che i nostri giudici potessero condannare per tortura coloro che fossero ritenuti colpevoli di tali atti. Ma è impossibile: come è noto, anche se la Convenzione dell´Onu del 1984 ne impone l´emanazione, una legge che vieti specificamente la tortura manca ancora in Italia – benché ben 20 progetti di legge siano stati presentati in Parlamento dal 1996.
Come mai? In genere in Italia tardiamo ad attuare trattati internazionali, per insipienza, lentezze burocratiche, ottuse resistenze della pubblica amministrazione. Nel caso della tortura è lecito però sospettare che la mancanza di una legge sia dovuta anche ad una precisa volontà politica di certi partiti: la volontà di non consentire che i colpevoli dei fatti di Bolzaneto venissero puniti adeguatamente. È significativo che nella penultima legislatura (2001-2006), quando sembrava di essere in dirittura di arrivo, all´improvviso la Camera approvò a maggioranza, in plenaria, un emendamento della Lega che richiedeva per la tortura la sussistenza di "reiterate violenze o reiterate minacce" (non basterebbe torturare solo una volta, bisognerebbe torturare la stessa persona ieri, oggi e domani, per essere puniti!). Anche se successivamente si tornò al testo originario, la legislatura si chiuse senza alcuna legge, così come è avvenuto nel 2006-2008.
Se i giudici confermeranno la ricostruzione dei fatti e le tesi dei pubblici ministeri, si avranno due conseguenze, già sottolineate da altri: taluni fatti non verranno chiamati per nome e cognome (tortura), ma con termini generici, inadatti a rifletterne la gravità, come «abuso di ufficio» e «violenza privata»; e i reati cadranno presto in prescrizione.
Per il futuro, non ci resta che sperare che il prossimo Parlamento sia meno inefficiente. E che le «autorità amministrative competenti» traggano le debite conseguenze da condanne di funzionari dello Stato che infangano il buon nome delle forze dell´ordine, la cui stragrande maggioranza rispetta e tutela i diritti umani. E non si tema di continuare a protestare: il giorno in cui smettiamo di indignarci per fatti come quelli di Bolzaneto, la democrazia è morta in Italia.

Repubblica 20.3.08
La collina delle ebree velate il burqa non è solo islamico
di Alberto Stabile


La rabbanit Keren veste sette lunghi mantelli. Il volto è coperto da stoffa fino agli occhi
La tendenza ha cominciato a diffondersi in Israele malgrado il veto dei rabbini

Gerusalemme. In giro si vedono poco, perché la loro regola prescrive, tra l´altro, di uscire di casa il meno possibile. Ma se decidono di avventurarsi per le strade lo fanno coprendosi dalla testa ai piedi, mani e viso inclusi, con un velo pericolosamente simile a un chador o con un soprabito che potrebbe benissimo essere scambiato per un burqa. Queste però non sono donne iraniane, saudite o afgane soggette alla legge religiosa islamica, ma israelianissime ebree ultra-ortodosse che hanno deciso di portare il precetto della zniuth (modestia) femminile, a nuovi ed estremi livelli, spesso in contrasto con il volere delle famiglie e quasi sempre contro l´opinione dei rabbini.
Il fenomeno ha cominciato a manifestarsi a Beit Shemesh, una delle "capitali" dell´ortodossia arroccata sulle colline della Giudea, tra Gerusalemme e Tel Aviv, dove in un appartamento spoglio, a due piani, sotto il livello della strada, vive la rabbanit (titolo che tradizionalmente serviva ad indicare la moglie del rabbino ma che in questo caso lascia intendere molto di più) Bruria Keren, esperta di medicina alternativa, madre di dieci figli e sacerdotessa della nuova tendenza. Alla base della quale s´intravede un´ideologia che combina l´osservanza più stretta con una forma di femminismo estremo, per cui il corpo di una donna non può essere oggetto di godimento da parte di un uomo, se non per specifica scelta della donna stessa: quindi, in pratica, solo il marito è autorizzato a vedere il volto, o udire la voce, della moglie.
La caratteristica più evidente di questa nuova interpretazione della modestia è ovviamente l´abbigliamento: strati e strati di gonne, fazzoletti, scialli, mantelli e veli, che lasciano scoperti, quando va bene, soltanto gli occhi, per cancellare quanto più possibile il contorno del corpo. Il palmo della mano è coperto fino alla radice delle dita, le calze sono di cotone spesso e le scarpe hanno una suola anti-rumore, perché possano muoversi senza essere udite. Secondo una descrizione comparsa su Ma´ariv, la rabbanit Keren veste dieci gonne di tessuto spesso, sette lunghi mantelli, cinque fazzoletti annodati sotto il mento e tre dietro la nuca ed ha il volto coperto da una pezza di stoffa, da cui sbucano gli occhi. Tutta questa montagna di vestiti è a sua volta coperta da alcuni veli più leggeri, che le scendono dalla cima della testa fino ai piedi.
Naturalmente le regole autoimposte non riguardano soltanto il vestiario: parlare poco (e mai con uomini) e pregare molto (soprattutto, recitare i salmi), uscire il meno possibile di casa, evitare i trasporti pubblici e viaggiare in taxi solo se l´autista è una donna e infine mangiare sano, preferibilmente macrobiotico.
La rabbanit stessa che a detta delle sue seguaci possiede una personalità magnetica e un marito-ombra, non esce quasi mai di casa. Occupandosi professionalmente di medicina alternativa, non ha bisogno di uscire per lavorare e riceve le sue pazienti in casa. In casa dà pure un´unica lezione settimanale alle sue fedeli e per il resto cerca di non parlare più di quattro ore alla settimana, comunicando, quando è necessario, per mezzo di bigliettini o con le mani. La maggioranza della giornata la passa in «digiuno della parola» e in preghiera. Le sue fedeli dicono che in queste ore la rabbanit «acchiappa gli angeli».
Inizialmente, a seguire l´esempio di Bruria erano state soltanto poche giovani donne fra i 20 e i 30 anni, ma presto la nuova maniera d´intendere la decenza femminile, o forse soltanto l´illusione di potersi nascondere al mondo, ha cominciato a diffondersi in maniera sorprendentemente veloce, valicando i confini di Beit Shemesh per manifestarsi nei maggiori centri ultraortodossi del paese, inclusa la storica roccaforte degli haredim, il quartiere di Meah Sharim, a Gerusalemme. Motivo per cui non è più raro incontrare una donna ultraortodossa che, anziché indossare la parrucca, la gonna nera fino alle caviglie e le pesanti calzamaglie, ma a viso scoperto, vada in giro avvolta in una specie di chador che tiene fermo con una mano per coprirsi la faccia mentre con l´altra spinge un passeggino.
Molte di loro vivono della vendita di prodotti naturali e macrobiotici, perché - come spiega una delle allieve di Bruria Keren - «la correlazione fra alimentazione sana e modestia è molto stretta e più che ovvia: le donne modeste sono pulite dentro e fuori. Le figlie d´Israele sono figlie di re, e non è opportuno che vengano osservate. Non sono un pomodoro marcio, che chiunque passa per strada è autorizzato a guardare che cosa abbia o che cosa non abbia».
Di tutto questo, probabilmente, non si sarebbe mai parlato se non ci fosse stata una causa di divorzio, intentata da un marito molto insoddisfatto dell´andamento della famiglia, dopo che la moglie era diventata una delle seguaci della rabbanit: la casa a catafascio, i dieci figli abbandonati a loro stessi perché la mamma era occupata a pregare e non comunicava più con loro, le figlie tenute a casa da scuola per svolgere tutte quelle funzione che la madre non svolgeva, non volendo più uscire di casa. Alla fine, la donna si è presentata davanti al tribunale rabbinico completamente coperta da un velo nero, e guidata per mano da una delle figlie. Avendo risposto con un rifiuto alla richiesta della corte di togliersi il velo («Solo mio marito può vedermi in faccia»), il tribunale rabbinico alla fine ha disposto per il divorzio e le ha sottratto la custodia dei figli minori. La donna ha fatto ricorso alla Corte Suprema (laica: ed così che la cosa si è saputa) che ha confermato la sentenza del tribunale rabbinico.
Nel frattempo però la donna è scomparsa con i figli più piccoli, trovando probabilmente rifugio in una qualche comunità ultra-ortodossa.

Repubblica 20.3.08
Giappone. L’Oms: "bianco" un matrimonio su quattro ma il mercato dell´eros è in pieno boom
Il sesso scompare dalla vita di coppia
di Renata Pisu


Uno studio serio, condotto con metodi scientifici dall´Organizzazione mondiale della Sanità e dall´Università Nihon lancia l´allarme: una coppia giapponese su quattro, in tutto l´arco dell´anno 2007 non ha avuto neanche un rapporto sessuale. C´è di che preoccuparsi? Ebbene, sì, tuona la stampa nipponica, perché andando avanti di questo passo la popolazione dell´arcipelago, che oggi conta 127 milioni di persone, nel 2100 sarà ridotta alla metà e, a poco a poco, al mondo non ci saranno più giapponesi, saranno una specie in via di estinzione, come i panda.
Il tasso di natalità è infatti il più basso del pianeta, appena l´1,3 per cento, e a nulla è valsa l´esortazione lanciata due anni fa alle donne dal ministro della Salute Hakuo Yanagisa, il quale invitò tutte le giapponesi in età fertile a dare fondo a tutte le loro energie per far funzionare al massimo la loro macchina da procreazione. Le donne si offesero, il ministro dovette scusarsi per aver usato il termine "macchina" e tutto rimase come prima, anzi, stando allo studio appena reso noto sul comportamento sessuale giapponese, peggio di prima perché, intervistando 4.624 persone in tutto il Paese è risultato che, in media, il 24,9 per cento delle coppie non ha fatto sesso nemmeno una volta in un anno. Certo, le coppie giovani si sono date più da fare, quelle di mezza età meno, comunque i giapponesi sono sessualmente molto pigri, come rivela anche un´inchiesta della Durex, l´azienda leader del profilattico, che colloca il Giappone tra le nazioni al mondo meno attive sessualmente.
Ma i giapponesi sono davvero tanto pigri? Se così fosse, come si spiegherebbe allora il fatto che i dati riguardanti la diffusione della pornografia raggiungono livelli sconcertanti? E come interpretare il fiorire della "industria del sesso" che in giapponese ha un nome esplicito, shasei shangyo, cioè industria dell´eiaculazione? Si tratta di una vera e propria organizzazione economica dai fatturati altissimi e che dispone di oltre 150 mila locali nei quali prestano la loro opera più di un milione di ragazze disposte a fare di tutto e a farsi fare di tutto.
Bisogna quindi azzardare un´ipotesi, e cioè che forse i giapponesi sono pigri quando si tratta dell´amplesso coniugale classico, quello che mira alla procreazione, ma che si scatenano per farlo "strano". Sadismo, masochismo, feticismo, tutti gli "ismi" della sessualità "strana", per non dire perversa, si praticano infatti nel Paese del Sol Levante con una disinvoltura estrema, senza timore di essere giudicati negativamente all´interno di una società che già da anni pratica il matrimonio sexless, termine coniato per descrivere l´astinenza dei giapponesi, un fenomeno che incuriosisce e preoccupa i sessuologi. Sempre più numerose sono infatti le coppie formate da un uomo e una donna che vivono insieme come madre e figlio o come fratello e sorella, fenomeno in aumento secondo i dati della ricerca condotta dall´Organizzazione Mondiale della Sanità. Comunque, da ormai almeno cinque anni si cerca di analizzare quali possano essere le cause di questa castità coniugale diffusa; si tende a dare tutta la colpa al lavoro stressante, alla distorta etica del lavoro che costringe gli impiegati di ogni livello a rimanere in ufficio fino a tarda notte, cosicché quando rientrano a casa pensano soltanto a dormire; si accusa inoltre lo Stato di non adottare politiche che favoriscano la natalità.
Sarà tutto vero, soltanto che ora ci si sta rendendo conto che forse bisognerebbe scavare più a fondo per capire come mai stia sempre più prendendo piede la tendenza a farlo "strano". E allora, chi si mette sotto accusa? Basta leggere la letteratura che in Giappone va per la maggiore, scritta per lo più da ragazze giovanissime, per accorgersi che è già avvenuta una grande mutazione: l´argomento sesso è affrontato senza inibizioni ma anche senza passione, i rapporti sado-maso e la pratica della prostituzione "per gioco", cioè guadagnare quel tanto che basta a comprarsi un capo firmato, sono la norma, i clienti sono uomini di mezza età desiderosi di trarre piacere dall´annullamento di sé e della occasionale partner. Racconti, romanzi e manga illustrano questa concezione della sessualità che trova riscontro nella realtà, spesso addirittura più "estrema" della finzione: le liceali alternano la prostituzione "per gioco" con la vendita dei loro indumenti intimi usati e non lavati, altra fonte cospicua di guadagno, mentre nei locali appositi, come in certi saloni di karaoke, si possono noleggiare a ore ragazze masochiste che si lasciano legare, bendare e picchiare per una modica cifra; o ragazze sadiche armate di frusta che infliggono raffinate torture.
Afferma il sessuologo Kim Myun Gun che l´offerta di sesso "strano" è dilagante, di conseguenza si scatena un immaginario erotico che non può essere di certo quello di una coppia di coniugi. Resta da vedere cosa succederà quando le liceali di oggi diventeranno mogli. Sono loro, si dice, che guidano il gioco dei desideri: lo vorranno ancora fare "strano"? Opteranno per il matrimonio sexless? O per il rapporto sessuale normale? Il rischio è che il Giappone, ormai entrato nella post-modernità, si avvii decisamente anche verso la post-sessualità.

Repubblica Firenze 20.3.08
"Meglio l'opposizione che sotto il Pd"
Il professore spiega perché la scelta di Veltroni di correre da solo è "dannosa"
di Massimo Vanni


Regola numero uno: «Nelle elezioni del nuovo sindaco di Firenze, meglio stare all´opposizione che essere subordinati al Pd». Lezione numero due: «I sondaggi ci sono sfavorevoli ma in una fase di capitalismo sfrenato ci vuole un partito che non dice basta ai conflitti, come fa Veltroni, ci vuole un partito che dice no». Presentato come il «professore» dal segretario di Rifondazione Francesco Mencaraglia, allo storico Paul Ginsborg basta meno di un´ora e mezzo per sbancare la platea della Sinistra Arcobaleno di martedì sera alla casa del Popolo di Vingone a Scandicci. E alle 22.30, il capogruppo scandiccese della Sinistra democratica Pino Comanzo, dice: «Proporrei di mandare Ginsborg in Tv, ci farebbe guadagnare dei voti».
Cinquanta-sessanta persone ad ascoltare il «professore» che non figura tra i candidati della Sinistra Arcobaleno («Non mi è stato chiesto, non avrei accettato») ma viene considerato uno dei punti di riferimento del dibattito a sinistra. E lui, accento britannico e adagio accademico, spiega che la scelta di Veltroni di correre da solo è «una rottura non necessaria e fortemente dannosa». Serve forse ad affermare l´identità del nuovo partito, ma rischia di far tornare Berlusconi. Uno scenario che Ginsborg giudica una «emergenza democratica» per il Paese: «Potete immaginare cosa vuol dire per l´Italia 3 anni di Berlusconi più 2 di Fini con Berlusconi che diventa presidente della Repubblica?» Conti del settennato a parte (Napolitano è stato eletto nel 2006), il problema secondo lo storico è che molti non se l´immaginano: «Nell´opinione pubblica c´è una rimozione e una sottovalutazione del ritorno di Berlusconi».
Secondo i sondaggi sarebbe un successo se la Sinistra arrivasse all´8 per cento, dice lo storico: eppure di fronte al liberismo sfrenato che crea grandi disuguaglianze c´è ancora spazio per una sinistra. «Dopo il primo anno di governo Berlusconi - profetizza Ginsborg - la sinistra sarà già in ripresa». A patto che riesca ad innovarsi e ad evitare lo spettacolo delle candidature deciso al chiuso di una stanza.
«Ma a Roma diamo l´appoggio a Rutelli?», chiede una signora. «Se serve una sinistra perché abbandonare la falce e martello?», chiede un altro. E «il professore» fa lezione: «Non si può separare la storia russa da quella italiana, il Pci aveva il simbolo di un movimento internazionale», dice lo storico che ha animato l´Associazione per la sinistra unità e plurale. E che già pensa alle elezioni comunali del 2009: «Ce lo insegna l´esperienza del governo Prodi: meglio l´opposizione che governare insieme al Pd in posizione subordinata».

Corriere della Sera 20.3.08
Canfora confuta le tesi dell'edizione critica del papiro
Dietro la maschera di Artemidoro
«Quelle parole non furono scritte dal geografo di Efeso Ecco perché la filologia classica smentisce la chimica»
di Luciano Canfora


Finita la festa di Berlino, esauritosi il monologo, si impone un bilancio. La constatazione più immediata è che la gran parte dei dati di fatto presentati, tre mesi or sono, nel volume laterziano Il papiro di Artemidoro è rimasta senza risposta. Essi riguardano anacronismi, errori geografici, lingua tardiva.
Ma innanzitutto riveliamo al lettore la vera novità di Berlino, prontamente travasata nelle colonne del Sole 24 ore, che rischia di essere soverchiata dal chiasso. Il reperto di partenza ha cambiato natura. Era una maschera funeraria di cartapesta, ora non lo è più! Due anni fa, alla mostra di Palazzo Bricherasio a Torino, ricca e documentata, non c'era nessuna foto dell'oggetto- matrice, allora definito «maschera», da cui l'Artemidoro sarebbe scaturito. E nemmeno dieci anni fa, nell'importante saggio-annuncio, con parziale edizione, dell'Artemidoro ( Archiv 1998) ve n'era traccia. Perciò avevamo previsto che, dati i crescenti dubbi sull'autenticità del papiro, alla fine, una qualche foto di una qualche cosa sarebbe venuta fuori ( Papiro di Artemidoro, p. 18). Ma cosa? Di maschera aveva reiteratamente parlato uno studioso prudente quale il Settis e con insistenza una maschera ostentava il filmato che accompagnava ininterrottamente i visitatori del Palazzo Bricherasio. Nel manifesto dell'8 febbraio 2006 un «esperto» parlò di «ammasso di cartapesta da un cartonnage di mummia». Quattro giorni prima, su Repubblica, Settis parlò di «maschera di mummia in cartonnage». E nel catalogo Tre vite un intero capitolo fu dedicato a spiegare cosa fosse un cartonnage. Fu reiteratamente proclamato che proprietario della maschera era stato il discusso collezionista tardo-ottocentesco Kashaba Pasha, di cui il Metropolitan Museum possiede un manipolo di maschere ben protette. Ora le parole maschera e cartonnage sono scomparse (edizione Led, p. 60), ed è nato il Konvolut, che un tempo era detto Konglomerat. La colla viene quasi del tutto estromessa, si parla di «qualche punto tenuto fermo con un poco di colla». Tutto si basa sulla postuma foto sfoderata per l'occasione berlinese dal venditore e l'oggetto raffigurato viene descritto così: «imbottitura di una cavità non meglio precisabile, ovvero struttura portante di qualche supporto di natura indefinita». Sic. Ad ogni modo l'inelegante gesto tardivo che avevamo previsto è stato compiuto. Potenza dell'arte fotografica. Ma la postuma foto, definita comicamente «prova schiacciante», apre ulteriori problemi anziché risolverne. «Purtroppo — viene ora asserito — l'unica riproduzione disponibile del Konvolut lo mostra già parzialmente smontato, e non consente di avere indicazioni precise né sulla parte più esterna di esso, né sulla forma che presentava quando era intatto». In pratica, quell'oggetto non l'ha visto nessuno e la foto unica disponibile è tale da suggerire qualunque ipotesi. Tra l'altro ci si chiederà: ma allora qual mai oggetto conservava Kashaba nella sua collezione? Una cavità imprecisata? E se la maschera esce di scena, sotto che forma sarebbe a suo tempo fuoruscito dall'Egitto l'ineffabile oggetto? E chi ha tirato fuori la storiella della maschera? Si voleva mascherare una esportazione illegale? Aveva proprio ragione il saggio e dotto Peter Parsons ( Times Literary Supplement dello scorso 22 febbraio) nel collegare reticenza su questo punto e «skulduggery» («loschezza»)... Come poi potesse un oggetto alto 33 centimetri e largo 11 contenere 3 metri di papiro artemidorico più venticinque documenti (il dono del venditore all'Università di Milano) resta un mistero. Ma forse è quasi spietato continuare a porre domande ad una fotografia postuma.
Capiamo bene che lo sfoderamento obtorto collo della foto e la conseguente liquidazione della teoria-maschera hanno come obiettivo di aggredire l'ipotesi che l'Artemidoro sia opera di un falsario. Il ragionamento, deboluccio, è che un falsario non avrebbe fatto a pezzi il suo prodotto per mascherarlo in un ammasso di cartapesta. Leggemmo già questo pensiero su la Repubblica nel lontano 16 settembre 2006, e la scarsa logica del ragionamento non cessa di stupirci. Chi sa perché solo il falsario avrebbe dovuto o potuto fare ciò.
Avevamo previsto che si sarebbe sprigionato uno scintillio di analisi chimiche e di carbonio 14. È quanto è avvenuto a Berlino nei giorni scorsi, dove per fortuna qualche voce prudente ha ricordato agli astanti i margini di errore. Poiché però nella credenza popolare il ricorso alle scienze «dure» come ancelle delle scienze «molli» ha un certo effetto, conviene qui ripetere: 1) ovviamente la datazione con C14 è stata effettuata sul supporto papiraceo, non sull'inchiostro; 2) dell'inchiostro — come era da aspettarsi — ci vien detto che i materiali costitutivi sono quelli propri degli inchiostri antichi (edizione critica Led, pp. 66-77); 3) le ricette degli inchiostri antichi si trovano, a portata di chiunque, in Plinio e in Vitruvio, nonché (un esempio tra tanti) nella gloriosa e diffusissima «Encyclopédie méthodique »; 4) i falsari capaci si servono di supporti papiracei antichi. È inutile sfondare coi carri armati una porta spalancata.
Avevamo previsto che dei due ben differenti problemi — carattere tardivo del testo e ricerca del vero autore — sarebbe stato affrontato piuttosto il secondo che il primo. Ed è andata puntualmente così.
E veniamo perciò alle questioni lasciate senza risposta. Abbiamo dimostrato che la colonna IV del papiro (righi 1-24) è un collage di testi tardivi: due provengono da due differenti opere di Marciano (IV d. C.), un paio di righi riprendono una forma di Tolomeo e dello stesso Marciano, e per colmo di sventura viene accolto anche un errore di calcolo dovuto a Tolomeo (pp. 289-306 = Led, p. 222). La deduzione è palmare: come può uno scritto sorto comunque dopo il IV d. C. trovarsi su di un supporto del I secolo avanti o dopo Cristo, a piacere? Può aver fatto ciò soltanto un falsario. Ma anche se credessimo nei miracoli o in una lunga catena di coincidenze fortuite, resterebbe comunque insormontabile l'assurda affermazione del papiro, secondo cui intorno al 100 a. C. (allorché Artemidoro visitò l'Occidente) la provincia romana della Hispania Ulterior avrebbe incluso «la Lusitania tutta». Insormontabile non solo per l'errore in sé, visto che si tratta, com'è ovvio, della Lusitania «in accezione meramente geografica» (Led, p. 220), ma soprattutto perché il frammento 21 di Artemidoro- Marciano dice il contrario: che cioè la Ulterior giungeva allora «fino alla Lusitania». Inutile cavarsela dicendo che all'epoca i confini erano poco chiari (chi sa perché). Il problema è che Marciano lì sta ricopiando proprio il brano artemidoreo che ci illudiamo di trovare nel papiro: il che dimostra che l'Artemidoro che lui leggeva diceva esattamente il contrario di ciò che troviamo nel papiro.
Altra questione: lo sconclusionato testo proemiale delle colonne I e II. Fantastico l'esordio. «Colui che si accinge ad un'opera geografica (era esatta la traduzione figurante nel catalogo, errata quella Led, p. 196) deve fornire un'esposizione completa della propria scienza dopo avere in precedenza soppesato (ovvero, plasmato: a piacer vostro) l'anima con volontà protesa alla vittoria». Ripetiamo per l'ennesima volta che questo (beninteso ad assumerlo per autentico) non potrebbe che essere l'esordio generale, l'avvio del libro I, strambamente però piazzato in testa al libro II (Spagna). Vana la riluttanza a prenderne atto (Led, p. 108). Che razza mai di rotolo era questo? Non leggiamo oltre. L'addensarsi massiccio, in così breve spazio, di espressioni e lessico tardo-antichi e bizantini non fu che l'inizio. Poi ci si parò dinanzi la cascata degli anacronismi, errori geografici etc...
Per difendere l'indifendibile impasto del divagante proemio, ci viene ora citato un caso: «l'aggettivo alitemeros, noto solo dall'Etimologico Magno è inaspettatamente riemerso nel 1972 in un papiro di Colonia che contiene versi di Archiloco» ( Il Sole di domenica scorsa, p. 48 = Led, p. 57). Viene però sottaciuto che l'Etimologico mette quel termine in relazione con un passo di Callimaco, e nessuno si stupirebbe di trovare in Callimaco una parola già adoperata da Archiloco. L'Etimologico non è che un vocabolario: un verso di Dante citato nel dizionario del Battaglia non per questo diventa del XX secolo. Aggiungiamo poi che alitemeros è già in Esichio e inoltre è stato agevolmente ripristinato in Esiodo, Scudo 91. Insomma, il parallelo è inconsistente, o meglio inesistente, a fronte delle moltissime espressioni cavate dai Typikà di conventi dell'Athos o da Manuele Gabalas o anche da Matteo di Efeso o anche dai Basilici e da Giovanni Cinnamo (se proprio si preferisce plasteusanta al ben più probabile talanteusanta del r. 3). Il ricorso all'«asianesimo» non serve.
Un argomento già ben noto, che campeggiava nel mitico catalogo Tre vite, suonava così: nel papiro figurano due toponimi, Ipsa e Cilibe, «che finora conoscevamo solo da monete» (p. 91). Nel Papiro di Artemidoro (pp. 313-314) abbiamo agevolmente dimostrato che i Cilibitani ci sono già in Plinio, per giunta nella stessa pagina in cui figurano altri toponimi che ritroviamo nel papiro, e inoltre in Rufo Festo Avieno. Cilibe è uscita di scena (Led, p. 256), ed ora è rimasta soltanto Ipsa (Led, p. 58 = Sole, p. 48). Ma il bello è che avevamo anche chiarito che il toponimo attestato da monete non è Ipsa, ma l'iberico Ipses (dunque un altro) e trovasi da tutt'altra parte. Raccomanderei di cercare ancora in Plinio... Non giova tagliar corto con un perentorio «Ipsa dixit». In tutta questa devozione per Ipsa non si è fatto caso ad un fenomeno macroscopico: ne tacciono, pur nell'ambito di analitiche rassegne della Betica, Strabone, Plinio, Tolomeo (dalle straripanti liste) e addirittura Marciano (utilizzato a corrente alternata). E invece il toponimo inaudito sbucherebbe fuori nell'ultra-selettivo periplo del cosiddetto Artemidoro, dove però mancano numerosi importanti toponimi costieri della Spagna (Hemeroskopeion, Abdera, Malake) che invece dai frammenti del vero Artemidoro sappiamo figurare nel libro II.
Caduto tutto il resto, ci si appella al «sampi con un'unità sovrapposta in funzione di esponente » (Led, p. 58 = Sole p. 48), peraltro «mai affermatosi nella tradizione grafica greco-egizia », tanto da indurre i nostri alla fantasiosa ipotesi di un modello in viaggio dalla Ionia (Led, p. 92). Avevamo già dato qualche informazione al riguardo (pp. 310-311). Altre daremo in un imminente volume. Qui ci basti far notare che quel segno era conosciuto già dalle epigrafi della Caria, studiate fin dalla metà dell'Ottocento (quelle di Cnido dal 1863). Non nasconderemo al lettore che dell'alfabeto cario, di cui quel segno è la trentaduesima lettera, il poliedrico Simonidis fu cultore virtuoso: tanto da scrivere un'intera, falsa, pergamena di Aristotele tutta in alfabeto cario.
Ma forse è giunto il momento di ribadire per l'ennesima volta che le questioni sono due e ben distinte: a) il cosiddetto Artemidoro non può essere tale perché incorpora testi di molto successivi, b) se però il papiro che lo tramanda si colloca davvero, e non stentiamo a crederlo, tra 40 a. C. e 130 d. C., allora, purtroppo, è opera di un moderno. Ovviamente potrebbe essere «salvato» se un'altra provvidenziale analisi al carbonio venisse in soccorso, e collocasse il supporto — che dire — tra Diocleziano e Giustiniano, oppure tra Giustiniano e Manuele Gabalas, oppure tra Gabalas e Meletios. Non si sa mai. La scrittura non costituirà impedimento. L'accostamento, riproposto da ultimo più vigorosamente di dieci anni fa, col cosiddetto papiro di Cleopatra, è talmente inconsistente che può essere agevolmente accantonato. E si offre invece una ghiotta possibilità: quella dei papiri ercolanesi, accostamento che non era sfuggito, anzi era cautamente prospettato nell'Archiv del 1998. Certo, sarebbe un po' curioso ritrovare in Egitto scritture di tipo ercolanese, ma, com'è noto, per fortuna, nel XVIII secolo e al principio del XIX i papiri di Ercolano furono ricopiati, disegnati, in album di facile accesso (disegni che, sia detto a onor del vero, Simonidis conosceva benissimo).
Dicono che, dopo la sosta berlinese, il papiro passerà a Monaco. Non sappiamo se sia intenzionale questo ripercorrere le tappe del viaggio, non proprio trionfale, che portò Simonidis a rifugiarsi a Monaco dopo la fuga da Berlino a seguito dello smascheramento dell'Uranios. Dalla capitale dell'allora regno di Baviera, egli lanciò una sfida ai suoi critici con un pugnace libretto intitolato Sull'autenticità di Uranios.
Chi sa se, alla mostra monacense del prossimo luglio, non si accompagnerà un nuovo pugnace opuscoletto intitolato Sull'autenticità di Artemidoro. Resta la domanda se, una volta finite queste peregrinazioni nei luoghi simonidei, toccherà anche all'Artemidoro, come al buon Simonidis, di finire i suoi giorni in Egitto.