domenica 23 marzo 2008

l’Unità 23.3.08
Billy Bragg, un «politico» dal cuore punk
di Giancarlo Susanna


MUSICA Un anno speciale per il cantautore più testardo e impegnato d’Inghilterra: Bragg compie cinquant’anni e ne celebra venticinque da musicista con un nuovo disco, «Mr Love & Justice» e un libro

Questo è un anno speciale, per Billy Bragg. Il cantautore più testardo e impegnato d’Inghilterra compirà cinquant’anni e al tempo stesso celebrerà venticinque anni di carriera nel music business. Il suo nuovo album, Mr. Love & Justice, è l’ennesima dimostrazione di come la passione per la politica possa convivere (e come!) con della grande musica. Ecco cosa ci ha detto l’incorreggibile Mr. Bragg.
L’ultima volta che ti ho visto in concerto eri da solo. Nel nuovo tour ci sarà il tuo gruppo?
«Penso che sarò da solo, anche se l’album è stato realizzato con la band. Fare concerti con il gruppo può essere molto dispendioso. E poi suonare da solo è più eccitante. Puoi rispondere al pubblico, ma anche alle cose che succedono e che ti capita di leggere sul giornale. Mi piacerebbe parlare di queste cose e in fondo questo è quanto dovrebbe fare Billy Bragg».
Tu hai cominciato proprio così. Motivi economici o è stata una scelta precisa?
«È stata una scelta. L’idea era di provare a fare questo lavoro nel modo più essenziale e in un certo senso più piatto. Avrei dato tutto al pubblico senza nascondermi. Sarei stato solo come un uomo che cammina sul filo. Mi sono detto che a cinquant’anni avrei voluto aver percorso la mia strada in un modo pericoloso e difficile. Avrei voluto aver dato tutto. Poteva anche non funzionare. E invece ha funzionato. Sono qui, ho cinquant’anni e ha funzionato. Incredibile».
Quando hai cominciato avevi qualche modello? So che conosci e ami folksingers come Martin Carthy, Leon Rosselson o Dick Gaughan.
«Non avevo veramente un modello. Avevo un’idea di come la musica folk potesse avere un lato politico. Anche durante il periodo punk ero consapevole della forza del folk. C’erano persone come Dick Gaughan che sostenevano lo sciopero dei minatori e quando io sono andato a fare dei concerti nel nord dell’Inghilterra, nelle miniere di carbone, i folksinger erano già lì. Erano lì dall’inizio dello sciopero, perché questo è parte della loro tradizione. Ho conosciuto Dick Gaughan e Leon Rosselson così. Non li avevo mai sentiti prima. Conoscevo Martin Carthy, ma questi folksingers più politici sono stati un insegnamento per me».
La novità che hai portato tu era la chitarra elettrica.
«La mia tradizione era il punk ed ero consapevole che se avessi suonato un’acustica, sarei dovuto andare nei folk club. Non era quello il pubblico che volevo. Io volevo un pubblico punk. Suonare la chitarra elettrica è stato un elemento importantissimo. Adesso può sembrare una cosa vecchia, ma fino a quel momento nessuno lo aveva fatto. Per molte persone era strano, ma non per me. A me è sempre piaciuto suonare da solo».
Quel periodo non è stato il migliore per i cantautori.
«È vero. Era l’epoca dei New Romantics, in cui lo stile era più importante dei contenuti. Io invece ho sempre pensato il contrario. E poi se tutti vanno in una direzione, tu devi andare in quella opposta. Se tutti fanno zig, tu devi fare zag. Dal punto di vista culturale questo conta molto: ci sono sempre persone che cercano qualcosa di diverso. Se riesci a trovare persone così, puoi costruire una carriera».
Tu sei un cantautore che parla dei problemi della gente comune. Un po’ come fa Ken Loach con i suoi film.
«La musica è un grande veicolo per riflettere. E i cantautori sono tra quelli che riflettono di più. Credo che non bisognerebbe guardarsi troppo dentro e alcuni cantautori sono troppo introversi. Sono convinto che sia meglio occuparsi di quello che accade fuori di noi, ma non voglio dire a nessuno cosa dovrebbe fare. Ogni cantautore segue la sua Musa. La mia mi ha sempre incoraggiato, ispirato a riflettere il mondo che mi circonda tanto quanto quello che accade nella mia stanza».
Un dato essenziale del tuo stile è la melodia. Le cose di cui parli viaggiano sulle ali di una musica suggestiva.
«La cosa che conta di più per me è intrattenere il pubblico. Se lo fai, ottieni la sua attenzione. Se lo fai, le persone si concentrano. Così riesci a dire loro le cose che intendi comunicare. Non dimentico mai di essere soprattutto un entertainer. Non sono un politico. Avere l’attenzione del pubblico mi offre l’opportunità di parlare delle cose in cui credo appassionatamente».
Questa volta però, il pubblico è stato costretto ad aspettarti sei anni.
«Ho una scusa seria: ho scritto un libro. Ho dovuto rispondere all’elezione di consiglieri fascisti nella mia città (East London, n.d.r.). Ci voleva qualcosa di più di un disco e ho pensato di scrivere un libro. Mi scuso per aver fatto passare tanto tempo dal mio ultimo album, ma era una cosa che dovevo assolutamente fare. Il mio mestiere non è fare il cantautore. Il mio mestiere è comunicare. A volte scrivo un libro, a volte una canzone, a volte mi rivolgo ai vostri lettori, ma tutto è legato alla comunicazione, alla necessità di offrire un punto di vista differente sul mondo».

Repubblica 23.3.08
Il Duca e il mistero del lago fantasma
I paesaggi di Piero
di Michele Smargiassi


Piero della Francesca è il pittore degli enigmi: i suoi dipinti sono pieni di simboli, allusioni, dettagli che rimandano a intrighi e perfino ad autentici "gialli". Ma nessuno finora aveva provato a sovrapporre i suoi panorami di fantasia a quelli reali e attuali. Ora la lacuna è stata colmata da due appassionate "cacciatrici di sfondi" che hanno percorso il Montefeltro in lungo e in largo fino a trovare le "location" che fanno da fondale al "Dittico degli Uffizi"
Nel baule dell´auto Rosetta Borchia tiene sempre un binocolo, una macchina fotografica, una mappa dettagliata della zona e l´opera omnia del pittore Da mesi la vedono girare con qualsiasi tempo

Urbino. Li hanno sotto il naso da mezzo millennio e non se n´erano accorti. I paesaggi di Piero. Proprio come li hanno letteralmente sotto il naso i due duchi, Federico da Montefeltro e la sua consorte Battista, nei ritratti gemelli che ce ne tramandano i profili, robusto e roccioso lui, levigata ed opalescente lei. Quelle colline verdastre, quegli specchi d´acqua, quei campi trapunti di alberelli non sono sfondi immaginari, non sono paesaggi idealizzati e simbolici come tanti critici hanno detto e scritto: quei rilievi e quei fiumi hanno un nome, un´identità, un indirizzo. Li si può andare a trovare, ancora oggi. Li stiamo andando a trovare, in effetti. Eccoli. Coi talloni nel fango di una vecchia carraia che s´inerpica sopra l´abitato di Urbania, in mano le riproduzioni del Dittico degli Uffizi, frughiamo con gli occhi la piana dove il Metauro, in meandri alberati, svanisce verso l´orizzonte. Dal paradiso dei pittori, Piero della Francesca ci vuol bene: ci ha prenotato una giornata fresca, luminosa, rugiadosa, c´è persino quella leggera foschia bassa, come nel mattino eterno delle sue tavole.
E lo vediamo. Si chiama monte Fronzoso. Il suo profilo a piramide è più netto a sinistra, appoggiato a un colle più basso sulla destra. Nella tavola, proprio sulla verticale del nasone aquilino di Federico, il colle dipinto ha lo stesso, identico aspetto. Bisogna ammetterlo. Persino le stesse ombre. «Convinto adesso?», sorride di soddisfazione Rosetta, la cacciatrice di paesaggi. «Quando l´ho trovato, per l´emozione non ho dormito tre notti».
Nel baule della macchina Rosetta Borchia tiene sempre un binocolo, una macchina fotografica, una mappa dettagliata del Montefeltro, e l´opera omnia di Piero nelle migliori riproduzioni disponibili. Da mesi la vedono girare con qualsiasi tempo per strade improbabili, fermarsi, scendere, scrutare, confrontare, fotografare. È bello essere un´ex dirigente comunale in pensione, una sessantenne piena di energia. Che voleva dedicare al suo splendido giardino-museo di rose antiche (seicento varietà) oppure ai suoi quadri, paesaggi marchigiani, naturalmente. Ma un giorno, mentre girava un video promozionale per l´agriturismo di un amico, di colpo il deja-vu: «Io qui vedo Piero». Piero chi, chiese l´amico. Piero l´unico, il grande, il "monarca della pittura". Rosetta non per nulla ha un diploma di Belle arti. E ha un´eccellente memoria visiva. La sera a casa, davanti al computer, il confronto tra le foto e i dipinti la convinse di aver visto giusto. «Ma io lo sapevo. Piero era innamorato del mondo che vedeva. Se fu capace di dipingere i nei sulla guancia di Federico, non poteva accontentarsi di uno sfondo di fantasia». Non restava che cercarli, rintracciarli uno per uno, i paesaggi "fotografati" da Piero, e rifotografarli dal punto esatto in cui li vide lui. «Qui ho fatto tagliare due alberi dal contadino, per avere la visuale libera». Tutto pur di strappare a Piero uno dei suoi segreti.
Che Piero sia pittore enigmatico, è cosa nota. Scarne le notizie sulla sua vita, un rompicapo la cronologia delle sue opere, un mistero le allusioni, i simboli, i dettagli disseminati nei suoi dipinti. Sull´identità dei tre personaggi in primo piano nella Flagellazione, conservata proprio qui a Urbino, lo storico Carlo Ginzburg scrisse Indagini che fecero accapigliare le accademie. Al paragone, i paesaggi sullo sfondo del doppio ritratto dei duchi di Urbino (e dei loro allegorici Trionfi, dipinti sul retro delle due tavolette) sono sempre apparsi molto meno problematici ai grandi lettori d´arte. Piero, in fondo, è un maestro dei corpi e delle prospettive architettoniche. E l´invenzione del paesaggio come genere pittorico a pieno titolo doveva aspettare ancora qualche decennio, almeno fino alla Tempesta del Giorgione. Quegli sfondi monfeltrini sono un po´ diversi, è vero, dalle rocailles e dalle colline convenzionali degli altri rari scenari naturali dei dipinti di Piero. Ma anch´essi da liquidare in poche righe. Paesaggi «severi e dignitosi» ma impersonali, tagliò corto il Berenson. «Non uno scenario ma un luogo della mente», stabilì il Focillon. «Paesaggio simbolico» in cui «non si possono identificare precisi elementi topografici», riprese lo Hartt, per il quale anche le quattro barche dipinte dietro i Trionfi sono solo un´allegoria delle virtù cardinali.
Eppure è perfino ovvio che lo sfondo di un ritratto encomiastico debba avere qualche relazione con l´omaggiato. Il dittico di Urbino, oltretutto, era uno speciale oggetto d´affezione per Federico, duca guerriero, condottiero illuminato, sovrano umanista: lo aveva commissionato al suo protetto, amico e quasi coetaneo Petrus de Burgo Sancti Sepulchri, pittore già affermato, non per esporlo, ma per tenerlo vicino a sé, piegato in due come un libro, riposto in uno scaffale del suo meraviglioso studiolo intarsiato, da aprire in solitudine, tuttalpiù con gli intimi, sospirando di rimpianto per la sua amata Battista, morta prematuramente di parto nel 1472. Si può immaginare che Federico volesse avere sempre con sé non solo il volto dell´amata, ma anche il panorama che avevano condiviso, che adorava, le dolci colline del Montefeltro, i suoi possedimenti, i luoghi del riposo, della caccia, della sovranità. A questo, fin dai tempi di Plinio, servivano i parerga, paesaggi "proprietari", dipinti sulle pareti domestiche per deliziare ogni giorno l´occhio del loro padrone. Piero del resto, ce lo assicura Vasari, era il pittore più adeguato al compito, essendo il «miglior geometra che fusse ne´ tempi suoi». Sapendolo, alcuni studiosi hanno tentato di essere più precisi nell´identificazione: il Clark parla di «domini» ducali, Caldarelli di «terra di Urbino», Paolucci addita deciso il Montefeltro, Battisti azzarda, avvicinandosi alla verità, la valle del Metauro. Altri però si dirigono lontano, Bertelli pensa di vedere Volterra, Salmi addirittura il Trasimeno e la Valdichiana.
«Non voglio insegnare niente a nessuno, gli studiosi ne sanno più di me», ammette Rosetta, «ma non s´allontanano dalle loro scrivanie. Io quei paesaggi li ho cercati, trovati, e glieli metto volentieri a disposizione». Delle sue scoperte, Rosetta farà forse un libro. È preparata alle inevitabili contestazioni dei luminari: «Sono solo una cercatrice». Ma in fondo, perché tanti sforzi? Cosa cambia se Piero questi monti li ha visti, o solo immaginati? «Questo lo diranno gli studiosi. Noi pensiamo solo di avere trovato qualche elemento in più per i loro giudizi».
Non è stato difficile. Bastava ricalcare i passi di Piero. Che per andare dalla sua Sansepolcro a Urbino, dove arrivò la prima volta nel 1460 per soggiornarvi spesso, ospite del padre di Raffaello, aveva a disposizione un´unica strada: la via di San Pietro, delle Capute e di Monte Spadara. «I paesaggi che poi dipinse poteva averli visti solo lì, nei suoi lenti spostamenti, nelle soste su un poggio, all´apertura di una curva». Rosetta ha percorso avanti e indietro la stessa strada: e ha trovato per primo il paesaggio del duca. Poi ha seguito la via che portava Piero agli altri suoi mecenati, i Malatesta di Rimini: e quaranta chilometri più a nord ha pescato anche lo sfondo della duchessa. È l´orizzonte che si abbraccia dalla rocca di San Leo, guardando verso sud. O meglio si abbracciava, perché da allora una parte dello sperone è crollato, e il punto di vista preciso qui Rosetta non l´ha trovato, forse non esiste più. Ma quella collina sotto il mento della Battista, con il suo profilo singolare, c´è ancora: è il Maiolo, solo che c´è voluta una ripresa aerea per capirlo. Del resto, Rosetta non s´affida solo ai suoi occhi. Chiama in aiuto la scienza. Assieme a lei, coinvolta o meglio travolta dall´entusiasmo dell´amica, c´è spesso, come oggi, Olivia Nesci, geomorfologa all´università di Urbino. Tavolette dell´Igm con altimetrie e orografie alla mano, analisi della composizione dei suoli quando serve, accredita o smentisce le proposte di Rosetta. Sul Fronzoso, per esempio, dà semaforo verde: «Osservi, nel dipinto c´è un salto netto di colore fra un versante e l´altro; non sembra solo indicare un´ombra, ma una differenza nel manto vegetale. Ora guardi il monte: anche oggi da una parte c´è il bosco, dall´altra il prato, non è un caso, è l´effetto di una composizione del suolo che improvvisamente cambia, da un lato calcareo-marnoso, dall´altra argilloso...».
«Convinto?», insiste Rosetta. Sì e no. Il Fronzoso lo vedo. Ma il lago dov´è? Si scambiano un´occhiata. Certo, il lago è stato un bel problema. Niente laghi con barche, in Montefeltro. E il Metauro è un torrente stretto, incavato e ghiaioso. Il Tasso diceva: più ricco di gloria che d´acqua. Ma non è sempre stato così. Nel Quattrocento era navigabile: lo dimostrano antichi toponimi (Barcaiola, Marecchia...) e alcune stampe antiche. «Proprio negli anni in cui Piero dipingeva era in atto una "piccola era glaciale" di tre secoli, con grandi piogge e fiumi straripanti», spiega la professoressa Nesci. Il duca, dicono le tradizioni, raggiungeva via acqua il Barco, la sua tenuta di caccia, che forse si intravede nel dipinto, là dove una linea più scura potrebbe essere un antico cerreto, storicamente documentato. Più che un grande lago, lo specchio d´acqua in primo piano potrebbe allora essere un bacino temporaneo, un allagamento accidentale, o magari anche programmato, per creare una zona umida favorevole all´uccellagione: a Urbania ci sono tracce di una chiusa, sotto il ponte antico. Un lago da loisir. «Vede questa sponda arrotondata? E questo sperone triangolare? Si vedono ancora, nei rilievi altimetrici». Non è troppo grande lo stesso, il lago? «Piero era un maestro della prospettiva: e la prospettiva esagera i primi piani». Il bacino sembra passare dietro la figura di Federico, alle cui spalle si nota un altro colle su cui pare d´intravedere una torre. Rosetta e Olivia pensano di riconoscerlo come il paesino di Peglio. Ma la veduta non combacia al cento per cento. Notti intere a incollare col Photoshop le fotografie sul dipinto, e il puzzle non viene mai. Poi una folgorazione: «È un montaggio quasi cubista. Quelle ai due lati del duca sono due vedute dello stesso paesaggio, ma prese da punti di vista diversi, accostate per dare l´impressione di continuità».
Ma ammettiamolo, non tutto torna. «Siamo solo all´inizio della ricerca». Il paesaggio dietro la Battista fa ancora resistenza. Se quello è Maiolo, attorno dovrebbero esserci rilievi un po´ più aspri di quelli che Piero ha dipinto. E di quelle strade e mura, di quella torre dipinta con precisione, non c´è traccia. «Be´, Piero non era davvero un fotografo. Lavorava in studio. Forse su schizzi presi dal vero, ma solo dei rilievi più significativi». Strade, costruzioni, edifici possono essere stati enfatizzati per sottolineare l´operoso buongoverno ducale. Un paesaggio è anche un documento politico. Nello sfondo di Federico, ad esempio, Piero ignora il Sasso Simone che apparteneva ai Medici, con cui il duca non era in splendidi rapporti. Forse per questo il paesaggio dietro ai Trionfi, che non sono più semplici ritratti ma allegorie, è un puzzle in cui si mescolano topografia e mito. Il monte al centro della doppia immagine è quasi certamente il Mont´Elce, sempre nella valle del Metauro, visto da Ovest. In passato si chiamava Mons Asdrubali, perché ai suoi piedi, secondo la tradizione, i romani sconfissero il fratello di Annibale durante la seconda guerra punica. Quale sfondo migliore per l´apoteosi del duca-guerriero in armatura lucente? Lo stiamo guardando nella stessa prospettiva, dalla sommità di Pieve del Colle: ma è tutto un po´ più aspro che nel dipinto. «Però vede? C´è la nebbiolina, nel quadro, che attenua i rilievi». Sì, ma c´è di nuovo un lago fantasma. Un altro, e questa volta sembra lungo lungo, e ha perfino un´isola. Un´altra alluvione? «Laggiù c´è una collinetta, proprio in mezzo alla piana, la chiamano ancora Isola». Non mollano mai, le due cacciatrici di paesaggi. «Faremo qualche rilievo sul fondovalle per vedere se c´è il letto fossile di un bacino fluviale più ampio di quello di oggi».
Ma la sera ormai incombe, e il paesaggio di Piero si va oscurando. La caccia riparte domani, Rosetta? «Non mi sono mai divertita tanto. Non credo che smetterò. Anzi, sa una cosa. Prima, dietro quella curva, penso proprio di avere intravisto un Raffaello».

Repubblica 23.3.08
La Cina e il suo Far West
di Federico Rampini


Nel colosso asiatico in pieno sviluppo è in corso il più vasto esodo umano della storia: ogni anno 15 milioni di contadini fuggono verso le città. Teatro di questa migrazione è l´autostrada 312, che attraversa il Paese da est a ovest. Un giornalista l´ha percorsa e racconta il suo viaggio straordinario

Chi ha vissuto la tragedia del Tibet nel resto del mondo non può immaginare la percezione che ne hanno i cinesi. Dalle famigliole che si incontrano la sera nei ristoranti popolari di Pechino, ai giovani che si esprimono sui blog, si sente vibrare un´indignazione ben diversa dalla nostra. «I tibetani sono degli ingrati», è una delle frasi più moderate che ho sentito in questi giorni. Ingrati, perché i cinesi sono convinti di aver fatto molto per loro: prima li hanno liberati da una teocrazia feudale e parassitaria, poi gli hanno costruito ospedali, strade, aeroporti e ferrovie, li hanno alfabetizzati. A loro è stato perfino concesso un privilegio negato a quasi tutti i cinesi han: in quanto minoranza etnica i tibetani non sono tenuti a rispettare la regola del figlio unico. Come tutta risposta gli «ingrati» si scatenano nelle scene di violenza contro la popolazione cinese, riprese dalla tv di Stato nei giorni scorsi.
A pensarla così non sono soltanto i cinesi che vivono dentro le frontiere della Repubblica popolare e quindi sono sotto l´influenza della propaganda, di un´informazione censurata e manipolata. So che perfino le comunità di studenti cinesi nelle università americane di fronte agli avvenimenti del Tibet si arroccano, si sentono circondate da un muro d´incomprensione. Sentono montare l´ostilità degli occidentali. Ascoltando le accuse rivolte a Pechino, si considerano le vittime di un linciaggio ideologico. Questi giovani cinesi che da anni vivono negli Stati Uniti hanno ricevuto le notizie recenti dal Tibet come le abbiamo avute noi; hanno sentito parlare il Dalai Lama; hanno letto e ascoltato i nostri commenti. Eppure anche nei campus universitari americani i cinesi condividono il parere dei loro connazionali su quegli «ingrati» dei tibetani. La verità è che molti cinesi del Ventunesimo secolo hanno verso una parte del proprio Paese un atteggiamento che evoca quello dei pionieri americani dell´Ottocento. I tibetani sono i loro indiani pellerossa: dei selvaggi, incapaci di adattarsi alla rivoluzione industriale. I cinesi si sentono portatori di una missione civilizzatrice. Considerano i tibetani un popolo inferiore.
Chi non ha traversato per esteso la Cina non può rendersi conto di questo paradosso: la nazione più popolosa del pianeta è per lo più un territorio disabitato. I cinesi etnici o han stanno quasi tutti concentrati nelle regioni costiere dell´est e del sud, dove la densità della popolazione è altissima. Restano ancora semivuote le aree ben più vaste che sono la Mongolia interna, lo Xinjiang musulmano, il Tibet. Lì il viaggiatore può passare settimane intere senza incontrare una vera città; a volte senza imbattersi in un´anima viva. La Cina del Ventunesimo secolo è impegnata a "portare il progresso", colonizzandole, in quelle immense regioni che rappresentano il suo Far West: la nuova frontiera dello sviluppo. In mezzo ai deserti, o nelle steppe mongole, o su altipiani himalayani sconfinati lavorano battaglioni di tecnici e operai cinesi per fare le autostrade e le ferrovie, i tralicci dell´elettricità e i ripetitori dei telefonini. Proprio come i loro antenati emigrati in America costruivano la grande ferrovia transcontinentale che doveva unire la East Coast al Pacifico. La nuova frontiera da conquistare, il Far West cinese, rappresenta anche la grande speranza per salvare da un futuro collasso Shanghai, Shenzhen e Canton: è là nelle immensità semidesertiche che i cinesi cercano il petrolio e il gas, l´acqua e i metalli per continuare ad alimentare la crescita delle zone costiere.
A metà strada fra Pechino e il Far West sono sorte gigantesche metropoli che rappresentano le "teste di ponte" della colonizzazione. Per esempio Chongqing (30 milioni di abitanti), la mostruosa piovra industriale sullo Yangze: sembra una Chicago del primo Novecento ingigantita dalla fantasia dello scenografo di Blade Runner. In quei crocevia nel cuore della Cina cozzano due flussi, quello della conquista coloniale verso ovest, e le migrazioni dei più poveri che dalle campagne arretrate fuggono per cercare lavoro in fabbrica.
Bisogna aver visto questo movimento incessante per capire la Cina di oggi, anche la sua durezza, la sua crudeltà. È lo sforzo che ha fatto Rob Gifford, un giovane veterano tra i giornalisti occidentali in Cina, che frequenta questo Paese dal 1987 e vi è stato corrispondente della National Public Radio americana (l´unica radio pubblica, e di qualità, negli Stati Uniti). Quando ha saputo che stava per concludersi il suo incarico di corrispondente in Cina, Gifford ha deciso di attraversare il Paese on the road. Si è messo in viaggio lungo l´autostrada 312, che attraversa la Cina per quasi cinquemila chilometri da est a ovest, da Shanghai si lancia nel cuore agricolo e povero del Paese fino a raggiungere il deserto del Gobi, e da lì la vecchia Via della Seta.
L´autostrada 312 è, letteralmente, uno spaccato della Repubblica popolare: la taglia longitudinalmente e soprattutto la viviseziona. Consente di fare un viaggio nello spazio e nel tempo, dalla Cina più ricca e avanzata alle zone che sono ancora Terzo mondo. La 312 stessa è un microcosmo perché la Cina di oggi è una nazione in eterno movimento. È il teatro del più vasto esodo umano mai accaduto nella storia: ogni anno 15 milioni di contadini fuggono dalle campagne verso le città. Le autostrade sono la versione contemporanea della ferrovia transcontinentale negli Stati Uniti dell´Ottocento, lì passano i pionieri in viaggio verso la nuova frontiera. La 312 è anche diventata un luogo di culto, un itinerario di moda per i giovani cittadini in cerca di emozioni, l´equivalente della leggendaria Route 66 americana. Lungo l´autostrada cinese avvengono due pellegrinaggi di natura molto diversa. Da un lato c´è un popolo in cerca di speranza che fugge come i contadini dell´Oklahoma degli anni Trenta descritti da John Steinbeck nel romanzo Furore, i poveri scacciati dalla siccità che emigravano verso la California. Nel senso inverso c´è una gioventù in cerca di emozioni e di avventure che parte da Shanghai con lo spirito di Jack Kerouac, dei beatnik e degli hippy americani negli anni Cinquanta e Sessanta. Vanno verso il deserto del Gobi a cercare la loro California. L´autostrada è il luogo migliore per intercettare lo spirito della Cina di oggi, il suo eterno movimento, la frenesia di spostare, trasferire, trasportare uomini e cose. Per capire che Paese diventerà questa Cina, Gifford ha provato a esplorarlo seguendo l´arteria principale: «La mia idea è di rispondere a queste domande viaggiando lungo la 312, tra camionisti e puttane, yuppy e artisti, agricoltori e venditori di telefonini». Ne è venuto fuori un libro singolare, China Road, che esce in Italia tra pochi giorni, pubblicato da Neri Pozza col titolo Cina. Viaggio nell´Impero del futuro.
«Negli Stati Uniti», scrive Gifford, «ci sono nove città con più di un milione di abitanti. In Cina quarantanove. Può capitare di viaggiare per la Cina, arrivare in una città grande due volte Houston e pensare che quel posto non lo si è mai nemmeno sentito nominare. La nuova Route 312 ha contribuito al cambiamento, riducendo drasticamente la durata del viaggio per Nanchino, a Shanghai e verso la costa. Così come hanno contribuito l´espansione verso l´interno di fabbriche e società in cerca di costi più contenuti, e le rimesse dei lavoratori emigrati sulla costa».
La grande traversata inizia proprio da Shanghai - «energia, atmosfera, speranza, possibilità, passato futuro: è tutto qui» - dove Gifford focalizza subito una differenza tra noi e loro. La coglie nel comportamento diverso di due gruppi di turisti che passeggiano sul Bund, il lungofiume di Shanghai che ospita i palazzi art déco del primo Novecento, e sull´altra sponda ha di fronte Pudong, la Manhattan dell´Asia con selve di grattacieli che svettano sempre più in alto. «Gli occidentali, come fa immancabilmente ognuno di loro a Shanghai, cercano di ricreare il passato scattando qualche foto ai vecchi palazzi coloniali. Anche i cinesi fanno quello che i cinesi fanno immancabilmente a Shanghai, cercano di sfuggire al vecchio scattando foto nella direzione opposta, lo sguardo perso oltre il fiume».
Penetrando nella Cina profonda, nella provincia agricola dello Anhui lungo la 312, Gifford s´imbatte in un uomo in bicicletta con un bandierone rosso attaccato alla sella che garrisce al vento mentre pedala, e ha un grande cartello giallo attaccato alla ruota posteriore. Sul cartello c´è scritto «Viaggio attraverso la Cina contro la corruzione». L´uomo, Wang Yongkang, è stato rovinato da funzionari statali disonesti. «Tutte uguali le dinastie», commenta il ciclista-dissidente solitario, «partono bene ma poi si guastano. È per questo che abbiamo bisogno di una riforma politica. Altrimenti il partito e il Paese crolleranno entro una decina d´anni. In Occidente la gente ha un modello morale interiore. I cinesi no. Se non c´è qualcosa di esterno a frenarli, loro fanno quello che vogliono per se stessi, senza chiedersi se è giusto o sbagliato».
Una serata con una prostituta in una squallida e remota città di provincia rivela i miracoli del karaoke: «Da giornalista radiofonico ho scoperto nel corso degli anni che convincere i cinesi a parlare con franchezza al microfono è una fatica improba. Per quanto nel Paese non circoli più la rigidità dell´era maoista, resta sempre una certa titubanza a esprimersi apertamente, soprattutto con uno straniero. Ma basta ficcare un microfono da karaoke in mano a un cinese e lui o lei non esiteranno a cantare. Il karaoke per gli asiatici è il mezzo socialmente accettabile per esprimere ciò che sentono nel profondo. (La prostituta) Wu Yan ha detto un sacco di cose a questa grande stanza vuota e a me».
Unico straniero su una corriera di campagna diretta a Jinchang, il reporter americano s´imbatte in una ginecologa che fa il giro dei villaggi per costringere ad abortire le donne che hanno già figli. Ne esce un racconto orripilante, di aborti forzati all´ottavo mese sotto la pressione della polizia. «La dottoressa non si rende conto che sta rivelando cose molto delicate. Per lei è tutto logico e patriottico e giusto. "I cinesi sono troppi", ripete. Quando le chiedo come si sente come madre a fare quelle cose non capisce nemmeno la domanda. I cinesi vedono il mondo occidentale, con tutte le gravidanze adolescenziali e le relative conseguenze, e si domandano cosa diavolo crediamo di fare, lasciando che tutto questo succeda quando potremmo risolvere il problema con una semplice procedura medica».
Arrivato nel deserto del Gobi dove l´autostrada 312 indica 2.643 chilometri da Shanghai, nella cittadina di Zhangye Gifford s´imbatte nei manifesti di Brad Pitt e Angelina Jolie, la pubblicità del film Mr & Ms. Smith. S´imbatte anche nei rappresentanti locali della Amway, celebre multinazionale americana della "vendita diretta", il marketing porta-a-porta di prodotti domestici. È uno dei quadretti più deliziosi del suo racconto di viaggio. Il gruppo dei venditori locali della Amway, ai confini del più vasto deserto dell´Asia centrale, è organizzato quasi come una setta religiosa. Hanno i loro raduni, in cui ascoltano il Verbo del marketing dal loro capo, per assorbire le tecniche di persuasione occulta con cui vendere i prodotti più inverosimili: deodorante per le ascelle in una landa desolata dove i clienti sono rozzi muratori dei cantieri; spray per profumare il fiato dopo i pasti a base di cibi piccanti e soffritti d´aglio. Quasi come in un miraggio fra le dune del deserto Gifford ha la visione del Sogno Cinese e del Sogno Americano che si fondono l´uno nell´altro.
La 312 prosegue attraversando lo Xinjiang, l´ex Turkmenistan orientale popolato dagli uiguri di religione islamica. Ai tempi di Marco Polo lo solcavano le carovane dei cammelli, i mercanti lungo la Via della Seta facevano la spola tra l´Impero di Mezzo e Samarcanda, Buccara, la Persia, il Mediterraneo. Lo Xinjiang ha le dimensioni dell´Italia più la Francia, la Germania e la Spagna messe assieme. Se fosse una nazione sarebbe la sedicesima al mondo per superficie, eppure ha appena venti milioni di abitanti. È solcato dall´oleodotto che trasporta energia dall´Asia centrale. Stagno, alluminio, rame, ferro, oro: sotto la sabbia del deserto ci sono giacimenti di ricchezze immense. Il cellulare di Gifford vibra, come sempre succede in Cina quando si entra in una nuova provincia o regione. Il messaggio pubblicitario dice: «Benvenuto nello Xinjiang». Subito dopo gli arriva un altro sms: «Cerchi un regalo? La giada di Khotan è perfetta per ogni occasione. Chiama subito questo numero».

Repubblica Firenze 23.3.08
Opa, cardiochirurghi al top e stanno per sbarcare al Meyer
Il centro di Massa giudicato il migliore in Europa
Incentivare la diagnosi prenatale di cardiopatie congenite


Sbarca a Firenze il miglior centro di cardiochirurgia pediatrica d´Europa. Da giugno i chirurghi dell´ospedale pediatrico apuano di Massa (Opa) faranno interventi anche al Meyer di Firenze. Il gruppo è da poco stato riconosciuto dalla Eacts, european association for cardio-thoracic surgery, come quello con i dati migliori di tutto il continente in fatto di mortalità dei pazienti. La Eacts ha da poco pubblicato i numeri dell´attività del 2006 e del 2007 di oltre 100 strutture europee dove si sono fatti interventi sui cuori di circa 15 mila bambini. Ebbene, l´Opa risulta quello con la più bassa mortalità dei pazienti a 30 giorni dall´intervento: lo 0,53 per cento contro una media europea del 3,93. Se si considera solo il dato dei neonati (circa il 35% del totale) il centro toscano è secondo, ma dietro una struttura che non fa circolazione extracorporea, procedura abbastanza rischiosa. Quel parametro è uno dei più significativi per valutare la qualità di un centro cardiochirurgico, insieme a quello dei reinterventi, che nel 2002 a Massa erano il 24% e oggi sono inferiori al 10%. La degenza media, altro dato importante, dal 2003 è invece scesa da 26 giorni a 16.
Sono circa 200 all´anno gli interventi fatti nel reparto di Massa, che è diretto da Bruno Murzi e fa capo alla fondazione Monasterio, l´ente creato da Cnr, Regione e Università toscane il cui direttore generale è il professor Luigi Donato. Murzi e la sua équipe già da qualche mese collaborano con il Meyer e da giugno inizieranno a svolgere la stessa attività assistenziale dell´Opa a Firenze. La sala operatoria è già pronta, il pediatrico sta organizzando la terapia intensiva e l´emodinamica e reclutando il personale qualificato. L´avvio dell´attività al Meyer non farà calare il lavoro a Massa ma potrebbe esercitare una maggior attrattiva sui pazienti di fuori regione, visto il nome che si sta facendo l´ospedale pediatrico. Il numero di bambini che hanno bisogno di interventi cardiochirurgici è basso, per accrescere l´attività è necessario operare un maggior numero di pazienti che vivono fuori dalla Toscana.
L´intento della fondazione Monasterio è quello di far crescere l´attività toscana di diagnosi prenatale di cardiopatie congenite per intercettare prima possibile tutti i neonati che avranno bisogno di un intervento al cuore. «Vogliamo far partire questa iniziativa - spiega Donato - perché sembra incredibile ma il 40% delle cardiopatie congenite si scoprono dopo la nascita. Con il Meyer faremo una squadra di professionisti di alto livello per aiutare i punti nascita toscani e non a riconoscere precocemente le cardiopatie congenite».
(mi.bo.)

Repubblica Firenze 23.3.08
La mortalità più bassa
Parla Bruno Murzi, il direttore del reparto specialistico
"La nuova frontiera operarli prima che nascano"


Con la sua équipe vede circa 200 bambini all´anno, la maggior parte a Massa, gli altri in paesi del terzo mondo, dove va ad operare con progetti di solidarietà.
Dottor Murzi, perché il vostro centro è il migliore d´Europa?
«Perché siamo un grande gruppo. Io so che se sono all´estero a lavorare vengo sostituito da persone che sono perfettamente in grado di sostituirmi. Poi ci vuole organizzazione. Noi siamo in quattro chirurghi, io, Stefano Luisi, Anna Maizza e Massimo Bernabei e tre di noi sono sempre in ospedale».
A Firenze cosa farete?
«Cercheremo di creare un centro di attrazione importante per le famiglie di tutta Italia, anche grazie al fatto che al Meyer ci sono specialisti di altissimo livello in molti campi della medicina».
C´è qualcosa che vorrebbe migliorare nel vostro lavoro?
«Mi piacerebbe fare più ricerca. Ad esempio per sviluppare la possibilità di intervenire sul cuore dei feti ancora in utero. Stiamo sviluppando la tecnica utilizzando pecore. Abbiamo già fatto 25 interventi sperimentali. Per molte malattie operare prima della nascita sarebbe un enorme vantaggio».
Cosa vuol dire fare interventi sul cuore dei bambini?
«Quando sono neonati si ha a che fare anche con pazienti di 2-3 chili. Tecnicamente è necessario inventarsi il lavoro ogni volta, trovare soluzioni tecniche adeguate a quel tipo particolarissimo di paziente. Usare binocoli per osservare il cuore, fare microchirurgia. Il tutto con una grandissima precisione. Mi trovo meglio in queste situazioni».
E il rapporto con i pazienti e i genitori com´è?
«I bambini un po´ più grandicelli sono pazienti di cui devi conquistarti la fiducia dal punto di vista umano, perché a loro delle tue qualità di medico non importa niente. E´ necessario saperci giocare, non incutere loro alcun timore. Con la famiglia non bisogna mai dimenticare che è durissimo dal punto di vista emotivo portare i figli ad operare. Hanno uno stress altissimo che va affrontato con il dialogo».
(mi.bo.)

Repubblica Firenze 23.3.08
Un anno fa Repubblica rivelò lo scandalo degli abusi in parrocchia
Don Cantini, al vaglio le decime i soldi dei parrocchiani al prete
Dopo trent'anni di silenzio decine di testimoni hanno raccontato quello che succedeva
di Franca Selvatici


PER trenta anni era rimasto avvolto nell´ombra, protetto dal silenzio, dalla vergogna e dell´omertà. L´8 aprile 2007, domenica di Pasqua, lo scandalo degli abusi nella parrocchia fiorentina della Regina della Pace divenne pubblico sulle pagine del nostro giornale. Un anno più tardi, una Pasqua dopo, tutto risulta confermato: sia le rivelazioni delle ex parrocchiane ed ex parrocchiani della Regina della Pace sulle violenze e le perversioni di don Lelio Cantini, sia il racconto del giovane commerciante gay Paolo Chiassoni sulla notte sadomaso trascorsa anni fa in una canonica in compagnia di alcuni sacerdoti e di un alto prelato, da lui riconosciuto nel vescovo ausiliario di Firenze Claudio Maniago, allievo prediletto di don Cantini.
Un anno più tardi l´inchiesta del pm Paolo Canessa non si è fermata. Gli abusi raccontati dai numerosi testimoni sono gravissimi ma risalgono a 20-30 anni fa e dunque sono coperti dalla prescrizione. Alcune ex parrocchiane hanno subìto atti sessuali a 11-12 anni e sono state segnate per sempre. Talvolta il sacerdote imponeva rapporti orali dopo la confessione, simulando di offrire l´ostia benedetta: condotte che, a norma di diritto canonico, comportano la scomunica. Una delle vittime è ancora oggi, a 40 anni, sotto cure psichiatriche, vive nel terrore e non può fare a meno di assumere psicofarmaci. A ogni ragazzina o ragazza costretta a subire gli abusi, il sacerdote faceva credere che fosse «la sua prediletta». Solo molti anni più tardi, ormai adulte, hanno scoperto che il loro parroco aveva abusato di molte di loro, e (secondo alcune) anche di qualche ragazzo. I loro racconti (il pm ha ascoltato decine di testimoni) hanno disegnato un quadro estremamente inquietante, dal quale don Lelio Cantini - il priore rigido, autoritario e sessuofobo al punto di vietare alle sue giovani parrocchiane di indossare i jeans - emerge come un abusante compulsivo. Con la conseguenza che tutti i giovani e i giovanissimi che hanno frequentato la Regina della Pace anche in anni più recenti sono stati potenzialmente esposti al rischio di abusi. Le indagini, perciò, si sono spostate in avanti, agli ultimi anni in cui don Lelio ha retto la parrocchia.
L´inchiesta prosegue anche sul fronte patrimoniale. Alcune ex parrocchiane hanno raccontato di aver consegnato al priore per anni la «decima» (cioè un decimo del loro stipendio). Le elemosine venivano depositate in banca, alcune famiglie furono indotte a privarsi di beni ereditati e delle loro case di proprietà in favore della parrocchia. Dove sono finiti tutti quei beni che, secondo il sacerdote, erano destinati alla costruzione di una «vera chiesa», una chiesa parallela?
La testimonianza del giovane gay Paolo Chiassoni ha ampliato i fronti dell´indagine al vescovo Claudio Maniago, l´allievo più brillante di don Cantini. Chiassoni raccontò di essere fuggito dalla canonica dopo la notte sadomaso, di essere stato contattato altre volte dai sacerdoti che aveva conosciuto e di aver accettato quella che loro definivano un´offerta, forse per garantirsi il suo silenzio: tre milioni di lire bonificati su un suo conto a Iesi, nelle Marche. I carabinieri hanno rintracciato il bonifico, che risulta provenire dal conto di una parrocchia. E´ stato accertato anche che accanto alla chiesa che ospitò gli incontri sadomaso c´erano una colonia estiva per disabili e un centro di accoglienza per tossicodipendenti.

Corriere della Sera 23.3.08
Bertinotti apre al Cavaliere «Il suo progetto va discusso»
«Prodi sia responsabile, il rischio è meglio del disastro»


Il Pd ha diversi esponenti di peso nel governo: non può fingere che Romano stia da una parte e Veltroni dall'altra

ROMA — Esiste un punto, in questa intricatissima vicenda Alitalia, su cui, secondo Fausto Bertinotti, c'è poco da discutere: «Il nostro è un Paese che ha una vocazione turistica a 360 gradi, per cui una compagnia di bandiera è necessaria ». Per questa ragione «il governo Prodi dovrebbe sottrarsi all'aut aut "o mangi questa minestra o salti dalla finestra" che è stato imposto dall'Air France». Perché «se non lo fa, allora tanto vale che non ci sia il governo: a che serve un esecutivo se non ad assumersi le sue responsabilità?». E in effetti Prodi ha il pallino in mano: «Sì, è così, e allora chieda del tempo, si faccia protagonista, invece di subire ultimatum », anche perché «chi, come in questo caso, vende per fare cassa o per disperazione, in realtà svende». Già, c'è anche la questione di quanto vale Alitalia e di quanto ha offerto Air France al centro di questo dibattito. La situazione, però, è resa ancor più complicata dal fatto che c'è una campagna elettorale. Il leader della Sinistra-l'Arcobaleno non lo nega, ma a suo giudizio occorre «verificare assolutamente la possibilità di una cordata italiana», che, per il presidente della Camera, avrebbe «senza dubbio una co-partecipazione internazionale». Peccato, però, che a sostenere la cordata di casa nostra ci sia Berlusconi, e da Veltroni a Di Pietro dicono che il Cavaliere è in conflitto di interessi. «Il conflitto di interessi — replica Bertinotti — effettivamente c'è, tuttavia delegittima il leader del Pdl solo dal punto di vista delle sue prerogative di presidente del Consiglio. Perciò, se avanza una proposta bisogna discuterne e non sottrarsi alla discussione. Dobbiamo ricordarci tutti che l'occupazione è più importante delle beghe della campagna elettorale».
Poi, se Berlusconi andrà a Palazzo Chigi, ipotesi più che probabile, «visto che è il candidato favorito», si potrà pensare che questa proposta «la porteranno materialmente avanti altri imprenditori». Ma se si dice di no ad Air France e si attende una cordata nostrana per cui ci vuole qualche tempo c'è l'eventualità che si scivoli nel commissariamento dell'azienda... «Che significa, che bisognerebbe bere l'imbevibile, bere la cicuta proposta da Air France?». Forse meglio il «calice» amaro d'Oltralpe che il rischio di un commissariamento. «Il rischio è meglio del disastro »: su questo Bertinotti è netto.
Nel Partito democratico più d'uno si è lamentato perché il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa e il presidente del Consiglio Romano Prodi hanno scelto questo «timing» per l'operazione: in piena campagna elettorale. «Certo — osserva il leader della Sa — pesa elettoralmente, però c'è da dire che il Pd ha diversi esponenti di peso nell'esecutivo e quindi non può far finta che il governo Prodi stia da una parte e il partito di Veltroni dall'altra. Eppoi dovrebbe essere obiettivo di una forza politica quello di individuare la soluzione di problemi come Alitalia ». Sempre a proposito del Pd: il suo leader ha rotto con la sinistra e ha deciso di andare da solo per evitare divisioni e tensioni, ma alla fine, come dimostra questa vicenda, se le è ritrovate nel suo stesso partito. Paradossale?
Sorride il presidente della Camera, e dice: «Secondo me, dopo l'annuncio che sarebbero andati da soli sia il Pdl sia il Pd si sono configurati come partiti- coalizione. Come avvenne con il passaggio dal proporzionale al maggioritario qui, invece di garantire la semplificazione del sistema politico e la governabilità, otteniamo esattamente l'opposto. Tanto è vero che già ora i due maggiori partiti riproducono gli stessi difetti delle coalizioni in cui stavano prima».
Dunque la vicenda Alitalia starebbe a dimostrare che Veltroni non è riuscito nel suo intento? «Per ottenere il voto utile ha dovuto prendere le stesse anime divergenti che caratterizzavano la coalizione e le ha messe insieme sotto un altro nome — Pd — ma sono la stessa cosa di prima. E così non riescono ad andare avanti così come non riusciva ad andare avanti l'Unione». Bertinotti, però, dovrebbe fare un po' di autocritica: l'Alitalia non è l'esempio di come l'intervento pubblico sia nocivo? «No: anzi ci vorrebbe adesso l'intervento pubblico.
Del resto, quando Air France entrò in crisi per risolvere la situazione fecero il contrario di quel che ora propongono per Alitalia: lo Stato ci mise una barca di soldi, le rotte vennero allargate e furono comprati veicoli d'avanguardia...».

Corriere della Sera 23.3.08
Inedito in Italia Il filosofo ed economista intervenne in Parlamento il 20 maggio. Il testo segnò per sempre il movimento femminista
1867. Manifesto per il voto alle donne
Londra, lo storico discorso di John Stuart Mill «Pagano le tasse, ora serve un atto di giustizia»
di John Stuart Mill


Niente può distogliere la nostra attenzione da una questione semplicissima, se ci sia un'adeguata giustificazione per continuare a escludere un'intera metà della comunità, non solo dall'accesso, ma addirittura dai presupposti per accedere allo spazio costituzionale, sebbene abbia pienamente tutte le condizioni legali e costituzionali per accedervi, valide in tutti i casi tranne in questo.
Signori, all'interno della nostra Costituzione non c'è nessun altro esempio di un'esclusione così assoluta. Se la legge riconosce il diritto di voto solo a coloro che possiedono l'equivalente di 5.000 sterline all'anno, l'uomo più povero della nazione potrebbe, ora e in futuro, acquisire questo diritto. Ma né la nascita, né la fortuna, né il merito, né lo sforzo, né l'intelligenza, neppure il possesso di una grande capacità di gestire gli affari e i destini umani, farà mai sì che una donna possa far sentire la sua voce in quegli interessi nazionali che riguardano direttamente lei o le sue cose come qualsiasi altra persona nello Stato. (...) Come è possibile dimostrare che le donne che amministrano una proprietà o guidano un'impresa — donne che pagano le tasse, spesso per grandi importi e frequentemente per propri guadagni, molte delle quali sono responsabili capifamiglia e alcune, facendo le insegnanti, insegnano molte più cose di quello che un gran numero di elettori maschi abbia mai imparato —, come è possibile, chiedo, dimostrare che non siano capaci di esercitare un diritto che esercita ciascun capofamiglia uomo? O forse abbiamo paura che, se ottenessero il diritto di voto, rivoluzionerebbero lo Stato, o ci priverebbero di alcune delle nostre più stimate istituzioni, oppure che ci farebbero avere pessime leggi, o in ogni caso che ci renderebbero mal governati, proprio come conseguenza del fatto che partecipano al voto? Nessuno, signori miei, crede a cose del genere. E non sono solo i principi generali di giustizia a essere infranti e messi da parte con l'esclusione delle donne in quanto donne da ogni forma di rappresentanza: questa esclusione va anche contro alcuni principi specifici della Costituzione inglese. Viola, infatti, una delle più antiche e amate massime costituzionali — una dottrina cara ai riformatori e dal punto di vista teorico elaborata dai conservatori — ovvero che la tassazione e la rappresentanza si estendono parallelamente.
Ogni donna che è in regime di sui iuris non contribuisce forse alle entrate dello Stato esattamente come un uomo, e non ha dunque lo stesso requisito per esercitare il voto? Se in questo Paese avere un interesse significa qualcosa, chi possiede una proprietà fondiaria o chi ce l'ha in affitto ha lo stesso interesse, uomo o donna che sia. Nei nostri archivi costituzionali, infine, c'è la prova che le donne hanno avuto in passato, nelle contee e in alcuni consigli, il diritto di voto, certamente in epoche antiche e lontane della nostra storia. (...) La difficoltà che molte persone provano nell'affrontare questo argomento non è legata a un'obiezione concreta. Si tratta solamente di una sensazione, una sensazione di stranezza. «Questa proposta è così nuova », pensano in definitiva molti, ma sbagliano. Questa, infatti, è una proposta molto vecchia. Signori, la stranezza è una cosa che svanisce; alcune delle cose che per molti di noi erano abbastanza strane tre mesi fa oggi non lo sono già più. E quanto alle novità, viviamo in un mondo di novità; la dittatura dell'abitudine è in declino, per fortuna. Oggi non ci accontentiamo più di sapere che cosa è una cosa, ma chiediamo se debba essere così o diversamente; e alla fine in questa Camera, io sono indotto a credere che un appello andrà oltre il giudizio dell'abitudine per essere sottoposto a quello di un tribunale più alto, il tribunale della ragione. (...) Probabilmente si pensa che le occupazioni quotidiane delle donne siano un ostacolo superiore alla comprensione della cosa pubblica. Probabilmente si pensa che coloro che sono impegnate nell'educazione morale delle future generazioni di uomini, non siano in grado di formarsi un'opinione sulle questioni morali ed educative di un popolo. E che coloro che come principale occupazione quotidiana hanno l'amministrazione oculata del denaro, in modo da ottenere il più grande risultato possibile con le minori risorse finanziarie possibili, non hanno la possibilità di insegnare niente agli onorevoli di questa o dell'altra Camera, che riescono a produrre in modo tanto singolare piccoli risultati con un grande dispendio di risorse.
Nutro un elevato grado di fiducia in questa causa, che non nutrirei se il cambiamento politico che ho evocato non si fondasse su un precedente cambiamento sociale. L'idea di una linea netta di separazione tra le occupazioni femminili e quelle maschili appartiene a una condizione lontana della società, che si perde nel passato. Non prestiamo sufficiente attenzione al fatto che intorno a noi ha già avuto luogo una silenziosa rivoluzione domestica: gli uomini e le donne sono per la prima volta nella storia veramente ciascuno il compagno dell'altro. Le nostre convinzioni riguardo alle relazioni tipiche tra i sessi derivano da un tempo in cui le loro vite si svolgevano separatamente. In passato, un uomo trascorreva la sua vita insieme agli uomini; tutte le sue amicizie, tutte le sue relazioni confidenziali, erano uomini; la moglie era o un giocattolo, o una schiava di lusso. Ma tutto questo, tra le classi di maggiore cultura, adesso è cambiato: i due sessi adesso trascorrono insieme la loro vita; le donne della famiglia di un uomo sono la sua abituale compagnia; la moglie è la sua socia principale, la sua amica più intima, e spesso il suo consigliere di maggior fiducia. Oggi può un uomo sperare di avere come compagna più vicina, le cui speranze e desideri esercitano una pressione così forte su di lui, una persona i cui pensieri sono totalmente estranei ai suoi — una persona che non possa essere mai un aiuto per i suoi interessi e obiettivi più nobili? Può questa comunanza stretta e così esclusiva andare d'accordo con un modo di essere delle donne distante da argomenti di ampio respiro? È una cosa buona per un uomo vivere in completa comunione di pensieri e di sentimenti con una donna che è deliberatamente tenuta in una condizione di inferiorità rispetto a lui, i cui unici interessi concepibili sono forzatamente confinati nelle quattro mura di casa e che coltiva, insieme alla grazia del carattere, l'ignoranza e l'indifferenza per le questioni più rilevanti? Qualcuno può forse sostenere che tutto questo possa accadere senza uno svilimento dell'indole dell'uomo?

Corriere della Sera 23.3.08
All’Eliseo “Il malinteso”. Pietro Carriglio crede al drammaturgo, ma il testo ha punti deboli
Camus tra idee e assenza di Dio
di Franco Cordelli


Ne avevo un ricordo lugubre, sempre più confuso con il passare degli anni. Rivedere Il malinteso di Albert Camus mi attraeva. Chissà che non mi fossi sbagliato. L'edizione di Pietro Carriglio peggiora il ricordo. Colpa di Carriglio? Egli è un regista tanto accurato quanto geloso del proprio regno, al teatro Biondo di Palermo le regie sono tutte sue, o giù di lì. Alla lunga, potrebbe non giovare all'insieme della produzione. Ma non voglio farne una questione di quantità, sebbene sia sbarcato a Roma con tre spettacoli uno dopo l'altro. Il problema è la qualità del singolo prodotto.
L'idea che si ricava assistendo a Il malinteso è che Carriglio creda ciecamente in Camus o, meglio, nel suo dramma. Crede in quella problematica pseudo-antica, crede nel caso e nel destino, crede nei paroloni di cui lo scrittore si ammanta. Per me, invece, sono tutte sciocchezze. Pensando a Robbe-Grillet e alla sua polemica contro Sartre e Camus, non si può che dargli ragione. Robbe-Grillet, Simon, Butor, la Sarraute, Perec sono molto più artisti dei due dioscuri, i due belligeranti Sartre-Camus! Gli artefici del nouveau roman non avevano bisogno di esibire alcunché. Benché sia una figura ineludibile, Camus non riesce a sottrarsi a questa condanna. Ma le sue grandi opere non sono Lo straniero, La peste, La caduta e i vari drammi. Sono i due saggi,
Il mito di Sisifo e L'uomo in rivolta.
È che Camus aveva carattere: come tanti scrittori volontaristici, aveva una posizione. Non aveva immaginazione, tanto meno capacità di ascolto e fantasia. Dei personaggi, cioè delle persone una per una, lui così fiero sostenitore della libertà individuale, gli importava poco. Gli interessavano, dicono i suoi sostenitori, le idee; gli interessava il travaglio, il conflitto tra un'idea e l'altra, come nell'antica tragedia. Ma un conto è la Grecia del V secolo a.C. e un conto è la Francia del 1940, quando l'abitudine al realismo e la sua urgenza sono una vera necessità, mai più venuta meno, neppur oggi.
I punti deboli de Il malinteso
sono due, uno strutturale, l'altro stilistico. Per il primo, la metafora per così dire realistica (albergo- patria) non regge il peso del significato che Camus vuole trasmettere. Il figlio torna a casa, è un figlio prodigo, ma non si fa riconoscere (perché? non è chiaro). La madre e la sorella, proprietarie di un albergo, usano eliminare i loro ospiti (perché? per conquistarsi un posto al sole, ciò che tutti i piccolo-borghesi senza colpo ferire poco dopo realizzarono: la casetta in riva al mare). Che fanno le due sciagurate? Uccidono il figlio e fratello (perché? perché, va da sé, non lo riconoscono, come nella faccenda di Edipo). Da un punto di vista stilistico, il tono è sempre alto, anche quando si devono dire frasi qualunque. «Avete visto, l'alba è venuta ». Ma chi parla così? Qui, invece, tutti parlano così, e sempre lo fanno. In più, nello spettacolo di Carriglio, il raddoppio è costante. La scena non disegna un albergo, ma uno spazio astratto. Gli interpreti pronunciano le loro battute come fossero oracoli, sentenze, aforismi— dolenti, dolorosi, quel che si vuole, ma pur sempre in forma lapidaria, con una quantità di spazi bianchi, ovvero di pause, tra l'una e l'altra. Quello che se la cava meglio è Luca Lazzareschi, l'unico che tenda a smorzare. Galatea Ranzi è prossima ai suoi standard di semi-solennità. Più sacrificata, Giuliana Lojodice. Valentina Bardi è la moglie del figlio prodigo. Lo stesso Carriglio è il servo muto, che alla fine è Dio in persona, il grande assente.
Teatro Eliseo di Roma In scena Galatea Ranzi, Giuliana Lojodice e Luca Lazzareschi
Il malinteso di Camus/Carriglio

Corriere della Sera 23.3.08
Die Welle La storia (vera) di un caso californiano ambientata in Germania dal regista Dennis Gansel
Come si fa in fretta a diventare nazisti
Divide i tedeschi il film in cui un professore «indottrina» gli studenti
Lo strano esperimento «pedagogico» viene interrotto dopo soli 5 giorni, ma questo non evita una fine drammatica
di Danilo Taino


La tesi dell'autore è che quello del fanatismo politico sia un pericolo ancora molto vivo in Germania, ma sono in molti a non condividere questa preoccupazione

BERLINO — Dice Dennis Gansel che, se lo si lascia salire in cattedra, Adolf Hitler conquista ancora. Il regista tedesco è da qualche giorno nelle sale con un film a tesi —
Die Welle (L'onda) — che sta facendo discutere parecchio in Germania. Dopo essere stato applaudito all'ultimo Sundance Festival e visto da 1.400 spettatori in piedi alla Berlinale, tra i quali il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier.
Una classe di teenager viene sottoposta a un esperimento dall'insegnante: lui fa il dittatore, loro devono obbedire. Esperimento realizzato nella vita vera già 40 anni fa in una scuola californiana ma che nel film di Gansel prende toni drammatici e politicamente più rilevanti, anche perché il regista accompagna la pellicola con interviste tipo «penso che, persino oggi, qualcosa del genere possa succedere ancora, in Germania».
L'insegnante Rainer Wenger (l'attore è Jürgen Vogel, Rosenstrasse e The Free Will)
vuole fare una simulazione e trasforma la sua classe, una trentina di studenti, in una dittatura: assume toni da sergente maggiore, impone l'uniforme- camicia bianca, detta slogan, decide il modo in cui si sta seduti in classe, introduce un saluto distintivo: la mano che fa il gesto dell'onda.
Soprattutto, pretende la delazione: chi non sta alle regole va denunciato. La dinamica del gruppo dapprima funziona: cameratismo e aiuto reciproco tra gli aderenti. In poco tempo, però, assume toni fanatici, la violenza si propaga per il campus, i «resistenti» vengono emarginati e si arriva a un finale tragico.
Il film, ambientato nella Germania di oggi, trae ispirazione da un romanzo del 1988 dell'americano Morton Rhue, The Wave. Un testo che molte scuole tedesche fanno leggere agli alunni, uno dei tanti modi per affrontare il «come ci è potuto succedere». Il libro, a sua volta, era ispirato all'esperimento del 1967 di Ron Jones, un insegnante californiano che di fronte ai suoi studenti desiderosi di capire come una dittatura potesse assumere connotati di massa, ricreò un microcosmo nazista in classe.
Immediatamente, gli studenti risposero nel peggiore dei modi, come pecore, tanto che Jones, quando si accorse che stava perdendo il controllo della situazione (solo cinque giorni dopo l'inizio dell'esperimento), convocò un'assemblea, urlò in faccia agli studenti che li aveva manipolati, mostrò loro un film sul nazismo e, ovviamente, mise fine alla simulazione.
Ora, le dinamiche di gruppo sono materia interessante. E, infatti, l'esperimento del 1967, così come il libro del 1988, suscitarono molto interesse. Stabilire, da questo, che il nazismo rischia di riproporsi in Germania — come fa Gansel — è però un salto che richiederebbe qualche prova in più. In fondo; Hitler e Goebbels furono maestri di manipolazione, ma solo con la manipolazione non sarebbero arrivati al potere.
Gansel, 34 anni, dice di avere letto il libro a scuola e di non avere smesso di pensarci da allora. Giustamente, sostiene che «le dinamiche di gruppo possono essere benevole ma anche minacciose» e, in un'intervista alla Reuters, ha citato i casi — diversi tra loro — dei tifosi di calcio, dei manifestanti anti-globalizzazione e della reazione dell'America agli attentati dell'11 settembre 2001. Ma ha anche tratto la conclusione che una nuova dittatura in Germania è ancora possibile.
Più semplicemente, il suo film, percorso da spirito didattico, è interessante perché mostra come le persone possano essere vulnerabili se sottoposte a un regime autoritario. Grazie a Dio, però, non basta una cattedra per fare un Hitler.
Un pericolo ancora presente?

sabato 22 marzo 2008

Corriere della Sera 22.3.08
«Partita» del Senato, decisivi Udc e Sinistra
Stabile il divario Pd-Pdl. Appelli incrociati al «voto utile», sì dal 60% degli italiani
La soglia dell'8%
Per vincere al Senato è decisivo il risultato elettorale di Udc e Sinistra Arcobaleno: il raggiungimento di quota 8% dell'una o dell'altra forza in alcune regioni può determinare la vittoria
di Renato Mannheimer


Berlusconi si assesta tra il 44 e il 46%, Veltroni tra il 36 e il 38%: in realtà la differenza di voti (virtuali) tra i due schieramenti è pari al 4-5% Per il Pdl è importante il ruolo della Lega

Nelle ultime settimane — e ancor più negli ultimi giorni — la distribuzione delle intenzioni di voto rilevata dai vari istituti di ricerca pare avere assunto un assetto relativamente stabile. Vi sono, certo, differenze, talvolta rilevanti, tra istituto e istituto, specialmente, in relazione al momento in cui il sondaggio è stato effettuato. Ma, nel complesso, tutte le ricerche confermano che la coalizione guidata da Berlusconi continua a conquistare la maggioranza relativa, attestandosi attorno al 44-46%. E che quella condotta da Veltroni goda approssimativamente del 36-38% dei consensi. La distanza tra le due si può quindi stimare in circa l'8%. In realtà, la differenza di voti (virtuali) tra Pdl e Pd è inferiore ed è pari a circa il 4-5%. Contano molto dunque le forze con cui essi si sono alleati. Conta, in particolare, la Lega che contribuisce a rafforzare significativamente la coalizione di centrodestra.
Le implicazioni per il nuovo Parlamento
Se il voto «vero» del 13-14 aprile confermerà questi dati, la prevalenza del centrodestra alla Camera è largamente assicurata, grazie al premio di maggioranza che viene qui compu-tato, come si sa, a livello nazionale. Diversa è la situazione per il Senato ove lo stesso premio è calcolato per ciascuna regione. Qui l'esistenza di una solida maggioranza è incerta. Sia a causa della persistente indeterminatezza del voto ai partiti in certe regioni (ad esempio il Lazio), sia, in alcune di esse, per l'incognita sul raggiungimento della soglia dell'8% per le forze concorrenti a quelle maggiori, in particolare, l'Unione di Centro e la Sinistra l'Arcobaleno. Infatti, il conseguimento dell'8% per l'una o per l'altra sottrarrebbe un numero consistente di senatori al Pd o al Pdl aumentando le incognite sulla distribuzione dei seggi in Senato.
E' specialmente per questo motivo che Berlusconi e Veltroni continuano a perorare la causa del «voto utile » — destinato cioè ai partiti maggiori e non «disperso » verso le forze più piccole — specie al Senato. Peraltro, questa richiesta sembrerebbe essere accolta dalla maggior parte (ma non da tutti) dei loro elettori. Un recente sondaggio ha mostrato infatti come il 60% degli italiani sia favorevole alla pratica del «voto utile».
Le fasi future della campagna elettorale
Ma la situazione potrebbe modificarsi anche, sensibilmente, nelle prossime settimane che sono quelle decisive e quelle in cui, solitamente, i leader avanzano le promesse più impegnative, tentando di convincere i tanti elettori che decidono all'ultimo minuto. Molti dei quali sono addirittura in bilico tra l'una e l'altra coalizione: grossomodo il 16% dell'elettorato dichiara infatti di «prendere in considerazione» al tempo stesso forze appartenenti al centrodestra e al centrosinistra. La persuasione degli indecisi spetterà particolarmente a Veltroni. E' nel centrosinistra, infatti, che si trovano in misura relativamente maggiore gli elettori che non hanno ancora deciso di riconfermare il voto dato nel 2006.

Repubblica 22.3.08
Il ministro dell´Interno aveva denunciato a "Repubblica" il silenzio dei politici sulle violenze della polizia. Migliore: chi allora non c´era, adesso urla il suo sdegno
G8, la Sinistra Arcobaleno contro il Pd Bertinotti: da Amato propaganda sfacciata
"Veltroni dimentica che lui e il suo partito furono tra i primi a lasciarci soli"
di Paola Coppola


ROMA - La Sinistra contro Giuliano Amato. Accusato di opportunismo politico e di aver usato parole ambigue sulle violenze contro i manifestanti nella caserma di Bolzaneto nell´intervista a Repubblica.
Il ministro dell´Interno ha puntato il dito contro l´indifferenza della politica su quei fatti sanguinosi. «Ci siamo stati dalla sera stessa della repressione con la denuncia di quello che è accaduto. Da lì è partita una incessante denuncia nel silenzio colpevole di coloro che ora dicono che c´è stato silenzio», gli ha risposto Fausto Bertinotti, ricordando che l´attuale ministro dell´Interno «era presidente del Consiglio fino a due mesi prima di Genova». Il leader della Sinistra Arcobaleno ha detto anche di essere «sconvolto dalla sfacciataggine su Genova e il G8» del Pd. «Il fatto è che su Genova loro hanno le loro responsabilità, noi no perché stavamo da un´altra parte e ci siamo sempre battuti per la verità».
Le parole di Amato sono «un capolavoro di opportunismo politico per tutelare il suo futuro» per Vittorio Agnoletto, ex portavoce del Genoa social forum e oggi europarlamentare perché «si autoassolve facendo ricadere le responsabilità sulla polizia penitenziaria, ridimensiona le responsabilità di De Gennaro, allora capo della Polizia, e assolve anche Fini che in quei giorni era nella sala operativa dei carabinieri a Genova». Agnoletto ha poi ricordato: «Come movimento non siamo riusciti a bucare il silenzio della politica che ha cercato di mettere sotto il tappeto in fretta i giorni di Genova, perché quello che è successo era scomodo per tutti. Se oggi se ne discute è per il lavoro di un gruppo di magistrati coraggiosi. Che hanno un ruolo ben diverso dalla commissione parlamentare d´inchiesta che Amato non vuole: a loro il compito di accertare le responsabilità penali, alla commissione quelle politiche».
Contro la lettura fatta da Amato degli abusi commessi a Bolzaneto anche la senatrice Manuela Palermi, capogruppo Verdi-Pdci: «I colpevoli sono stati gli agenti di polizia penitenziaria che si sono scatenati contro i "comunisti". Troppo facile e troppo comodo».
Sul ministro dell´Interno e sul Pd piove anche l´accusa di essere tornati a parlare di Genova in nome di una strategia pre-elettorale. In una lettera a Repubblica, Gennaro Migliore, capogruppo Prc alla Camera, Giuseppe De Cristofaro, segretario regionale Campania del Prc, e Michele De Palma, responsabile Enti locali Prc, scrivono: «Alcuni di quelli che non c´erano arrivano adesso a urlare il loro sdegno. Meglio tardi che mai, se fosse sincero. Non ci sembra che sia così. Veltroni dimentica che lui e il suo partito furono i primi a lasciarci soli. Il ministro Amato denuncia ma senza trarne alcuna conseguenza concreta». E, ancora, Francesco Caruso ha accusato il Pd di «speculazione» alla vigilia delle elezioni e Paolo Ferrero ha ricordato che con il Pd non si è riusciti a fare una commissione d´inchiesta. Duro anche Paolo Cento: «Il ministro apra gli armadi del Viminale e dia un contributo all´accertamento delle responsabilità politiche». Carlo Leoni, vicepresidente della Camera, ha chiesto a Veltroni di chiarire «la proposta del Pd». Anche dal Sappe (il sindacato autonomo di polizia penitenziaria) critiche al ministro: «a Bolzaneto c´era anche - e non principalmente - la Polizia penitenziaria», si legge in un comunicato. E, ancora, «è un´offesa sostenere che dovrebbe guardarsi dall´abuso di autorità» perché «è un´istituzione democratica e sana», mentre «la responsabilità penale è personale».

l’Unità 22.3.08
Wiesel: Pechino fermi la repressione
Il premio Nobel per la pace unisce la sua voce a quella del Dalai Lama: liberare subito gli arrestati
«La comunità internazionale non può restare indifferente di fronte alla tragedia di un popolo pacifico»
di Umberto De Giovannangeli


«La cosa più importante in questo momento è unire le nostre voci a quella del Dalai Lama per chiedere alle autorità cinesi di fermare la repressione, liberare le persone incarcerate e avviare il dialogo». A parlare è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace nel 1986, promotore di un appello per il Tibet sottoscritto da altri 25 Nobel. «Abbiamo avvertito la necessità - spiega Wiesel - di protestare contro l’ingiustificata e ingiustificabile repressione condotta dalle autorità cinesi contro il nostro collega e amico, sua Santità il Dalai Lama, che si è sempre fatto portatore di proposte ragionevoli e che ha sempre dimostrato la sua volontà di dialogo».

COSA C’È ALLA BASE DELL’APPELLO di cui Lei si è fatto promotore e che ha già raccolto l’adesione di altri venticinque Premi Nobel per la Pace? «Alla base ci sono i drammatici eventi che in questi giorni stanno segnando il Tibet, di fronte ai quali abbia-
mo avvertito la necessità di agire, di unire le nostre voci a quelle del Dalai Lama. In questo momento la priorità assoluta è fermare la violenza e porre fine all’oppressione. Mi lasci aggiungere che fatico davvero a comprendere il perché un gigante non solo economico ma politico e militare qual è la Cina debba aver paura del Tibet…».
Il governo di Pechino ribatterebbe alla sua domanda che è suo diritto difendere l’integrità territoriale del Paese.
«Concetto ineccepibile ma che, e questo discorso non vale solo per la vicenda del Tibet, non può comunque giustificare sanguinose repressioni e la soppressione dei diritti umani. In questo caso specifico, poi, il discorso non regge di fronte al fatto che il Dalai Lama non ha mai cavalcato né avallato spinte indipendentiste, che anzi ha sempre rigettato. Ciò che ha chiesto è una maggiore autonomia del Tibet, da concordare con le autorità cinesi. Si tratta di una richiesta ragionevole, io credo; ciò a cui il Dalai Lama ambisce è di garantire l’autonomia culturale e religiosa del Tibet e del suo popolo. L’autonomia è condizione indispensabile per preservare l’antico patrimonio tibetano. Il Dalai Lama propugna il dialogo, condanna ogni forma di violenza, rivendica diritti senza fare di questa rivendicazione un’arma per ledere diritti altrui, per negare altre identità. Ciò che chiede, è bene sottolinearlo sempre, è di poter preservare l’identità tibetana. Ed è una richiesta che facciamo nostra con questo appello».
Dalla Cina giungono segnali contraddittori rispetto alla disponibilità al dialogo manifestata dal Dalai Lama. L’appello di cui Lei si è fatto promotore condanna le violenze e chiede l’avvio di un dialogo. Ma se la Cina dovesse proseguire nel pugno di ferro?
«Mi auguro con tutto il cuore che ciò non avvenga, ma se la violenza dovesse proseguire, se le autorità proseguiranno sulla strada della repressione, allora sarebbe inevitabile chiedere di più, non escluso di riesaminare lo svolgimento delle Olimpiadi. Ma non siamo ancora a questo punto. Ciò che è importante è mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama: di non abbassare la guardia, e di sostenere con forza le ragioni del dialogo. Il primo ministro cinese ha affermato di essere disponibile ad incontrare il Dalai Lama a condizione che quest’ultimo rigetti la violenza e ogni opzione indipendentista. Se questi sono le condizioni, il problema non esiste perché il Dalai Lama ha più volte ribadito di non volere un Tibet indipendente. E per quanto riguarda la violenza, essa è qualcosa di totalmente estraneo all’orizzonte culturale, esistenziale del Dalai Lama».
La sua attività di scrittore, intrecciata alla sua esperienza umana di sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, l’ha portata a rimarcare l’importanza di mantenere in vita la memoria delle tragedie del passato, perché quel passato non torni a farsi presente. Ciò vale anche per il Tibet?
«Certo che sì. Perché il Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è stato mai animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste. È la tragedia di un popolo la cui unica mira di conquista è quella dell’anima, della conquista di una libertà interiore. La forza interiore per raggiungere l’assoluto. Ma è forse proprio questo che fa paura. E se oggi potessi rivolgermi al popolo cinese, oltre che alla dirigenza politica, direi loro che concedere la libertà religiosa al Tibet sarebbe una dimostrazione di forza e non un cedimento, perché di quella libertà il Tibet non abuserebbe né la ritorcerebbe contro gli interessi cinesi. Direi loro che oggi siete un grande impero, oltre due miliardi di persone, che non ha bisogno di dominare il piccolo Tibet. Il Tibet non è una potenza nucleare. Il Tibet non può certo conquistare la Cina. I serbatoi di cui è ricco sono i serbatoi di conoscenze, una conoscenza mistica. Per questo il piccolo, grande Tibet, è un patrimonio dell’umanità. Da preservare, da difendere».
Cosa teme di più oggi?
«L’indifferenza, l’oblio delle coscienze. Un discorso che non vale solo per il Tibet».

l’Unità 22.3.08
La Mezzaluna Rossa: un milione le vittime nei cinque anni di guerra in Iraq


L’Alto commissariato Onu per i rifugiati: 3mila palestinesi allo stremo al confine con la Siria. Il figlio di Tareq Aziz: mio padre sta morendo in un carcere americano a Baghdad

Baghdad. A cinque anni dall’inizio del conflitto l’Iraq è attraversato da nuove ondate di violenza, ieri tre civili sono morti in un attentato avvenuto nella città settentrionale di Mosul, diventata una delle roccaforti di Al Qaeda, mentre nel sud almeno quattro miliziani sciiti sono stati uccisi nel corso di combattimenti con le forze di polizia governative. Da Tunisi, dove si è conclusa l’assemblea dell’organizzazione Araba di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, arriva un nuovo bilancio delle vittime di cinque anni di guerra in Iraq: sarebbero - secondo i promotori dell’incontro «un milione». La stima è stata fatta raccogliendo i dati forniti da 50mila volontari della Mezzaluna Rossa, una delle poche istituzioni rimaste che ancora operano in Mesopotamia (l’organizzazione ha perso venti operatori nel corso della guerra).
Le agenzie delle Nazioni Unite stanno intanto tentando di sensibilizzare i governi sulla grave situazione dei palestinesi cacciati dall’Iraq. L’Alto commissariato per i rifugiati fa sapere che continuano a peggiorare le condizioni di oltre 2.700 palestinesi bloccati al confine tra Iraq e Siria, «dove vivono in due campi di fortuna in condizioni disumane». L’Alto commissariato negli ultimi 2 anni ha lanciato numerosi appelli per trovare «soluzioni umanitarie urgenti» per i profughi, e garantirne il trasferimento altrove, anche se temporaneo. Alcuni paesi hanno offerto ospitalità ai palestinesi provenienti dall’Iraq, ma al momento non è stata ancora avviata alcuna procedura. Il Cile, per esempio, ha recentemente annunciato che di poter accogliere un primo gruppo di 117 palestinesi rifugiati in Iraq, mentre il Sudan ne ospiterà altri 2000. L’accoglienza in un altro Paese - sottolinea in una nota l’agenzia Onu, non aiuterà però tutti i palestinesi sistemati nei campi «dove la situazione sanitaria diventa sempre più insostenibile, in assenza di cure mediche adeguate e di alternative praticabili». Negli ultimi mesi sono morti almeno dodici rifugiati. L’ultimo, di 25 anni, è deceduto nel campo di al-Waleed per un’intossicazione alimentare; la sua famiglia era stata selezionata dall’Unhcr per il reinsediamento già nel luglio 2007, ma nessuno Stato estero li aveva accolti. Si stima che, dei 34.000 palestinesi presenti in Iraq nel 2003, non ne siano rimasti più di 10-15mila. Il campo di al-Waleed ospita al momento oltre 2000 rifugiati, mentre quello di al-Tanf, tra Iraq e Siria, ce ne sono 710.
I familiari di Tareq Aziz, già ministro degli esteri e vice-premier nell’Iraq di Saddam, tornano intanto a lanciare un allarme sulla situazione del detenuto che - affermano - è in condizioni di salute così gravi che probabilmente morirà prima di subito un qualsiasi processo. Il figlio di Aziz, Ziad, ha dichiarato al britannico The Times di non sapere esattamente la natura della malattia (sembra polmonare, spiega il quotidiano) perché gli avvocati dell’ex numero 2 di Baghdad non hanno avuto il permesso di visitarlo di recente. Gli americani, che confermano che il solo cristiano dell’ex governo iracheno è malato, lo hanno spostato per ragioni di sicurezza in una cella condivisa all’interno della base Usa presso l’aeroporto di Baghdad. Ziad sostiene che suo padre dev’essere rilasciato: «Cinque anni sono una punizione sufficiente per lui. Faceva parte del regime, ma nessuno lo ha accusato di niente. Ha 72 anni, un sacco di problemi di salute. Lasciate che passi gli ultimi anni con i figli e i nipoti». Fedelissimo di Saddam per 20 anni, Tareq Aziz non si pente della sua lealtà: «Ha lavorato con lui per 35 anni - dice il figlio - diceva: è il mio amico, il mio leader, il mio presidente. Ha pianto quando hanno ucciso Saddam». La sua famiglia si trova in Giordania. Aziz si consegnò agli americani il 24 aprile 2003 in cambio di un salvacondotto per i suoi cari.

l’Unità 22.3.08
La strage del lavoro: 1.260 morti nel 2007
Secondo le stime dell’Inail c’è un miglioramento del 6%. Damiano: «Ma ancora non basta»
di Giampiero Rossi


NUMERI Nel 2007 le morti sul lavoro in Italia sono calate del 6%, gli infortuni complessivi dell’1,5%. Evviva. Anzi no, c’è poco di cui rallegrarsi di fronte a 1.260 croci idealmente piantate in cantieri, fabbriche, porti, magazzini, set cinematografici di tutta Italia.
Ma tant’è. I bilanci di fine anno sono fatti di numeri e quello contenuto nella relazione dell’Inail per lo scorso anno, presentata ieri a Torino dal direttore generale Pietro Giorgini e dal ministro del lavoro Cesare Damiano, evidenzia stime sugli incidenti migliori rispetto al passato. Suona strano, se si pensa che il 2007 è stato l’anno del rogo della ThyssenKrupp, dei morti di genova, Porto Marghera, Molfetta e di mille altri.
Le prime stime - il dato definitivo sarà pronto ad ottobre - parlano di 1.260 vittime contro le 1.341 del 2006. E il totale degli infortuni è sceso da 928.158 a 913.500. nel dettaglio per settori, dai dati dell’Inail emerge che nel 2007 le morti bianche sono state 1.130 nell’industria e servizi (295 nel settore delle costruzioni), 115 nell’agricoltura, 15 tra i dipendenti in conto Stato. In 260 casi le vittime non sono morte sul luogo di lavoro, ma sulla strada da o verso casa. «Il 57,4% degli infortuni totali del 2006 - ha fatto osservare Giorgini - sono stati concentrati in 18.233 aziende che hanno avuto almeno cinque episodi, un dato importante per stabilire le politiche di prevenzione». Il costo complessivo dei danni da lavoro ammonta, nel 2007, a 45 miliardi e 445 milioni di euro, il 3,21% del pil.
Certo, le cose sono migliorate rispetto al 1963, l’anno peggiore, quando sul lavoro in Italia morirono 4.644 persone. Rispetto a quei tempi c’è da consolarsi, a meno che non si sia coniuge, genitore o figlio di uno dei 1.260 che nel 2007 non sono tornati a casa. «C’è un’inversione di tendenza, anche se la riduzione è ancora modesta - commenta infatti il ministro Damiano - ogni morte sul lavoro è una tragedia per la famiglia colpita e per l’intera collettività. Dobbiamo proseguire con forza sulla strada presa negli ultimi tempi per ridurre drasticamente il numero degli incidenti sul lavoro e per adeguarci a quanto ci chiede l’Unione Europea. A questo proposito è ottima l’idea di un Procura nazionale specializzata proposta dai magistrati (il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, ndr) ma la sicurezza dei lavoratori è una priorità anche nel programma elettorale del Pd».
Anche l’Anmil, l’associazione che rappresenta le vittime degli infortuni sul lavoro, analizza le stime dell’Inail: «Confermano la gravità del fenomeno e testimoniano la necessità di mantenere alta la soglia di attenzione - sottolinea il presidente Pietro Mercandelli - dopo che il 2006 aveva fatto segnare un netto peggioramento il numero di incidenti mortali ad oggi stimato per il 2007, se si escludono gli incidenti “in itinere”, si posiziona comunque sui livelli, consolidati, del 2005 senza una significativa inversione che era legittimo attendersi a fronte della forte attenzione istituzionale e dei provvedimenti varati dal governo. Quella contro gli incidenti sul lavoro è una battaglia che si vince soltanto con un impegno forte e costante mai mancato in questi ultimi due anni, ma che dovrà proseguire nell’immediato futuro pena un nuovo peggioramento del fenomeno».
E già oggi la campagna per la sicurezza sul lavoro approderà negli stadi italiani: in tutti i campi della serie A, prima dell’inizio della partita a centrocampo verrà esposta un’enorme scritta sullo sfondo tricolore: «Sicurezza sul lavoro. Tutti in campo. Nessuno in panchina».

l’Unità 22.3.08
Ecco Leonard Cohen, non spingete
di Giancarlo Susanna


Una semplice e intima bellezza che non ha mai legato la sua arte al mercato

Alla buon’ora: il gran poeta ebreo canadese tornerà in Italia dopo 20 anni. E passerà dall’Auditorium romano a fine luglio. Ce lo meritavamo: lo amiamo da tanto, vi ricordiamo perché...

La notizia del nuovo tour di Leonard Cohen a quindici anni di distanza dall’ultimo era di per sè di quelle che fanno sobbalzare sulla sedia. Figuriamoci poi se viene seguita a ruota dall’annuncio di due date italiane: il 27 luglio a Lucca e il 28 a Roma, nella cavea dell’Auditorium. Si tratta di un vero e proprio evento, soprattutto se si considerano l’età non più verde del grande cantautore canadese - compirà 74 anni il prossimo 21 settembre - e l’assenza dai nostri palcoscenici dal lontano 1988.
Lo scorso 10 marzo, introducendolo nella Hall of Fame del Rock’n’Roll, Lou Reed ha paragonato uno dei due romanzi di Cohen a Il pasto nudo di William Burroughs, uno di quei libri che hanno segnato un cambiamento nella storia della letteratura in lingua inglese (e non solo). Già. Perché prima di esordire al principio del 1968 con Songs of Leonard Cohen, un album che ebbe un successo assolutamente imprevisto, Mr. Cohen era soprattutto un poeta e un romanziere.
La sua passione per la musica non era tuttavia una novità: già nel 1957 Cohen aveva tenuto delle letture dei suoi versi con l’accompagnamento di un pianista jazz. La sua decisione di esporsi in prima persona, contando su una voce dal timbro basso e inconfondibile e su uno stile chitarristico quasi spartano, fu probabilmente dettata dall’ascolto dei dischi di Bob Dylan del 1965 e del 1966. E anche, secondo una piccola e accreditata leggenda, da quella di Violets Of Dawn di Eric Andersen, un cantautore per molti versi paragonabile a lui per l’approccio letterario e musicale. E se Bob Dylan ebbe un aiuto decisivo da Joan Baez, che lo presentò al pubblico del folk boom, Leonard Cohen ebbe una spinta da Judy Collins, una folksinger dalla voce cristallina e dai gusti raffinati. La Collins - Judy Blue Eyes nell’omonima canzone di Crosby, Stills & Nash del ’69 - fu la prima a incidere le sue canzoni, oltre a portarlo sul palco di un concerto al Central Park di New York.
Riascoltato oggi, Songs Of Leonard Cohen, sorprende per la sua semplice e intima bellezza. Intorno a Cohen la nuova musica americana e inglese diventava sempre più elettrica e aggressiva - Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, The Doors, The Who, Eric Burdon, per citare appena qualche nome - Songs Of Leonard Cohen spiccava soprattutto per l’intensità dei suoi versi e il fascino delle sue melodie (vedi la fortunata e celeberrima Suzanne). Detto per inciso, la Legacy, il "ramo delle ristampe" della Columbia, ha cominciato un’operazione che riporterà nei negozi, su cd rimasterizzati e racchiusi in confezioni curatissime, tutto il catalogo di Cohen. Un’anima inquieta, profondamente legata alla cultura ebraica e al tempo stesso incapace di riproporsi sempre e soltanto nello stesso modo.
Se il secondo album, Songs From A Room (1969), riprende le atmosfere del primo, il terzo, Songs Of Love And Hate (1971) recupera a tratti il country dell’adolescenza in Canada e colpisce soprattutto per la sofferta e quasi feroce Famous Blue Raincoat, descrizione impietosa di un triangolo sentimentale.
Questi tre dischi sono la base solidissima di una produzione discografica discontinua e sempre slegata da considerazioni puramente commerciali. E quando Cohen scopre le «macchine» - dopo opere considerevoli come New Skin For The Old Ceremony (1974), il discusso Death Of A Ladies’ Man (1977), prodotto nientemeno che da Phil Spector («Arrivava in studio e poggiava la pistola sulla consolle di registrazione», ricorda Cohen), e il misconosciuto Recent Songs (1979) - lo fa bistrattando un po’, in Various Positions (1984), canzoni poi divenute memorabili come Hallelujah, uno dei cavalli di battaglia dell’indimenticabile Jeff Buckley, o Dance Me To The End Of Love. Mentre i suoi dischi si fanno più rari, seguendo un ritmo di uscite che scoraggerebbe qualsiasi discografico, gli «allievi» gli rendono omaggio con due «tributi»: I’m Your Fan (1991), con R.E.M. e John Cale e molti altri, e Tower Of Songs (1995), con Tori Amos, Peter Gabriel e Suzanne Vega, tra gli altri. Resta intatto il fascino di un grande poeta, di uno di quei rari personaggi che hanno veramente cambiato la storia della popular music.

l’Unità 22.3.08
Con Barenboim per unire i diritti israeliani e palestinesi
di Luca Lombardi


Ho visitato Israele per la prima volta nel 2003 e da allora ci torno almeno una volta all'anno. Lo trovo un paese bello, vitale, stimolante e invito chi ne parla senza conoscerlo ad andarlo a visitare. La realtà è, come sempre, diversa dalla propaganda e dall'ideologia e per capirla niente vale come l'esperienza diretta. Non ignoro certo il problema dei palestinesi e mi auguro di potere vedere e festeggiare la nascita di un loro Stato. Lo si sarebbe potuto avere già nel 1948, quando un voto delle Nazioni Unite aveva istituito, accanto allo Stato israeliano anche uno Stato palestinese, ma, come ricordava recentemente Furio Colombo su questo giornale, le potenze petrolifere arabe impedirono ai palestinesi di accettare. Come sarebbe bello se proprio quest'anno Tony Blair, incaricato dal «Quartetto» (Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea, Russia), riuscisse nell'impresa in cui hanno finora fallito i politici di tre generazioni, quella di porre fine a una guerra lunga già due volte quella già lunghissima dei trent'anni (terminata anch'essa in un anno '48, quello di quattro secoli fa). Nel frattempo nella società civile molte forze creative - scrittori, musicisti, cineasti - sono al lavoro per creare quella base di conoscenza e di dialogo senza la quale nessuna vera pace è possibile. Tra gli esempi che si potrebbero citare, l'Orchestra del Divano occidentale-orientale, nella quale suonano giovani musicisti israeliani, palestinesi e di altri paesi arabi. Daniel Barenboim la fondò nel 1999 a Weimar e gli diede il nome di una famosa raccolta di poesie di Goethe, cittadino illustre di quella città. Barenboim, grande musicista internazionale, ha da più di un anno (anche se la notizia è trapelata solo recentemente) un passaporto palestinese, che si aggiunge ai passaporti israeliano, argentino ed europeo. Io proporrei di offrirgli anche il passaporto italiano, perché è un amico del nostro paese e collabora con importanti istituzioni musicali italiane (Teatro alla Scala, Accademia di S. Cecilia). Ma, certo, un passaporto italiano avrebbe uno scarso valore simbolico, e poi, a fronte di quanto accade nel nostro paese - dalla legge elettorale chiamata dal suo stesso autore «porcellum» alle porcherie mastelliane e al suo «cosí fa tutti» (che, se non tutti, almeno la metà del paese sembra approvare), all'immondo intreccio di camorra e spazzatura in Campania - non penso che il nostro passaporto sia, almeno in questo momento, molto ambito... Viceversa, un ebreo israeliano che, nonostante le critiche che gli vengono mosse anche da molti ebrei (israeliani e non), si adopera per il dialogo con il «nemico», dà un segnale di speranza. E alimenta la speranza il fatto che con la musica si tenti di superare quelle barriere, reali e psicologiche, che dividono israeliani e palestinesi. Come musicista non mi faccio molte illusioni sulle capacità salvifiche della musica. Non credo che la musica - e la cultura in genere - possano migliorare l'animo umano. Un compositore sommo come Wagner (che Barenboim vuole giustamente proporre anche in Israele) era umanamente mediocre. E i nazisti, che costruirono il campo di concentramento di Buchenwald a Weimar - non già nonostante, ma proprio perché si trattava della cittadella del classicismo tedesco (la città di Schiller oltre che di Goethe, e, per quanto riguarda la musica, di Bach e Liszt) - erano grandi amanti della musica, anche e soprattutto della Nona Sinfonia di Beethoven, quella che auspica la fratellanza universale...). Credo però, nonostante quanto ho appena detto, che la musica possa riuscire a fare accedere i più fortunati tra noi a un livello superiore di consapevolezza, e fare musica insieme, come fanno nell'orchestra di Barenboim israeliani e arabi, come magari a suo tempo facevano o avrebbero potuto fare in Irlanda del Nord protestanti e cattolici, o, prima della fine della seconda guerra mondiale francesi e tedeschi, possa contribuire a preparare il terreno su cui si potrà sviluppare una cultura di pace.
Sulla posizione di Barenboim ho letto alcune critiche, anche di persone che stimo e che di Israele e dei problemi mediorentali sanno molto più di me. Non escludo che Barenboim possa peccare di ingenuità - ma, anche se cosí fosse, mi sembra un'ingenuità - e aggiungo: generosità - che può portarci più lontano, e cioè più vicino alla pace, di molti distinguo che non fanno che cementare, che lo vogliano o no, lo status quo.
* compositore

l’Unità 22.3.08
Quando un bel quadro ci lascia senza parole
di Giuseppe Montesano


È POSSIBILE spiegare o raccontare un’immagine? Tentano di rispondere a questa domanda Emilio Villa, Didi-Hubermann, John Berger e Simon Schama. Nei loro libri punti di vista diversi su ciò che non è nato per farsi scrivere

Scrissi d’Arte: così potrebbero dire critici e poeti che hanno tentato di spiegare o raccontare le immagini dell’arte. Ma si può scrivere di ciò che è stato fatto per non essere scritto, di ciò che è stato fatto perché non poteva o forse non voleva essere scritto, di ciò che ha scelto o è stato scelto da immagini non alfabetiche per esistere? Un libro che è un piccolo grande evento, ci sprofonda in questa domanda: l’autore è Emilio Villa, poeta oscuro e mitologico nonché traduttore famoso dell’Odissea e meno noto traduttore della Bibbia, il titolo del libro è Attributi dell’arte odierna 1947/1967 e si tratta di una riedizione del volume uscito per Feltrinelli nel 1970 accompagnato da una serie di scritti di Villa inediti in volume, raccolti e introdotti da Aldo Tagliaferri. Il libro esce nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa, e sembra una perfetta illustrazione di quella via della scrittura che Cortellessa chiama lucrezianamente la fisica della poesia. In queste pagine su Fontana, Pollock, Cy Twombly, Burri, Rothko, Manzoni, alla domanda se sia possibile scrivere d’arte, Villa risponde di sì: ma non scrive d’arte, scrive dall’arte, parla arte, scrive sé, e infine scrive e basta: un atto fisiologico, una secrezione.
Citarlo sarebbe un abuso, le sue frasi e i suoi pensieri non sono analitici ma analogici, tentativi di rivivere in parole il magma che schizza o cola sulle tele di Pollock e di Burri: e il suo scrivere è uno svenarsi di voci che si condensano e si accumulano iterative, forzando le separazioni tra le lingue, in un francese di jeux de mots, attraverso calchi latini, greci, ebraici, e in un italiano che spreme Barocchi e Rondisti come in un Finnegan’s Wake che abbia rinunciato per sempre alla trama. Come un parassita accoccolato nelle opere che succhia, un parassita sublime che si nutre di mutezza, sospinto dai verbi verso una sognata origine, immerso in un luogo che solo forse è quello degli artisti, Villa tiene sott’acqua la sua lingua nella disperata ricerca di ritrasformarla in uterina, incosciente e oscuramente naturale come la materia che lo ha ispirato: a scrivere Arte, non a scrivere d’Arte.
Completamente diverso è il modo in cui Didi-Hubermann si avvicina a ciò che è nato per non farsi scrivere, come dimostra l’ultimo libro tradotto da Fazi: Il gioco delle evidenze, un libro irto e teso, il cui titolo originale suona Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, una specie di: «Quel che vediamo, quel che ci guarda e ci riguarda». Aggirandosi tra i monoliti minimalisti di Robert Morris e Tony Smith, Didi-Huberman procede nella sua classica discesa al di sotto delle apparenze ma sapendo che le cose dell’arte sono impastate nell’apparenza: lo fa con un linguaggio a volte stucchevolmente sottilizzante molto post-Bataille-Blanchot-etc. e a volte illuminante, e lo fa secondo lo schema dell’astrazione filosofica, cercando nel luogo della più cieca e impenetrabile apparenza perseguita dall’arte l’elemento trasparente, conoscitivo.
Ma allora è possibile scrivere d’Arte?
Dalle immagini viene una forma di ottusa chiusura che forse è necessaria alla loro stessa esistenza, una chiusura che rifiuta la chiarezza conoscitiva della filosofia e accetta, con la pazienza di un bue che tollera le mosche che lo covano, le parole della poesia. Gli artisti, che lavorano con quelli che restano in ogni caso dei simulacri, tendono a levare le parole di bocca a se stessi per primi e poi agli altri: le immagini, o la loro distruzione, o la loro riduzione all’assurdo, volgono le spalle al parlare e scrivere: e forse si sottraggono anche al pensare dove il pensare è, come è nella tradizione di tremila anni e fino a oggi, inseparabile dal linguaggio. Ma allora dove vorrebbero stare i fabbricatori di immagini? Qual è la loro straordinaria e ingenua pretesa? Forse essi vogliono sottrarsi al significato, e attraverso questa azione non difficile, compiere poi l’operazione più ardua: sottrarsi al senso. Gli artisti ripetono il mantra di fuga dalle parole: la pittura è quello che vedete, questo oggetto è se stesso e nient’altro, non c’è niente da dire, dite quel che volete, è tutto vero, non è vero niente. Che cosa esprime questo sottrarsi? È la fuga dal metaforico che sta al cuore del verbale ma forse anche del vivente, quel metaforico che di analogia in analogia moltiplica il senso e lo perverte polimorfo, fino a mostrare nell’evidenza più assoluta e insieme ambigua che il mondo non è una cosa ma è connessione, rete, relazione, e che la legge dell’arte come poesia o romanzo o scrittura o musica sta in un motto: Only connect.
Ma l’arte delle immagini, che ha a che fare con l’apparenza sensibile delle cose, pretende di essere Natura, di farsi cosa della Natura e così di sottrarsi alla perversione della metafora: le figure geometriche di Tony Smith vogliono essere natura come Brancusi voleva che fossero natura le sue forme, e quando Robert Morris fa arte con il vapore, ancora pretende in forma radicale che l’arte faccia Natura. È il sogno illusorio della fine dell’antropomorfismo nel gesto di un’arte che metta la cosa al posto della parola: in una ricerca di quel silenzio sapienziale evocato e distrutto da Beckett, là dove risuona implacabile il disco incantato e orribilmente estatico dell’Innomable: «Non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, non posso continuare, continuo». Quel silenzio attira la parola come la bellezza della Lulu di Wedekind attirava la violenza del suo adorato assassino: la ferita che Fontana infligge alla superficie, le ustioni a cui Burri sottopone plastiche e sacchi vogliono scendere sotto la coscienza razionale, sono gesti primitivi che vorrebbero essere primari, come i colpi d’ascia con cui erano sbozzate le Demoiselles d’Avignon o il trauma ritmico del Sacre du Printemps: ferite afasiche che attraggono la parola a entrare in esse, a buttarsi nello squarcio non si sa se per colmarlo o per approfondirlo.
L’arte contemporanea più attenta è tutta occupata in un gesto straordinario e esteticamente possente, ma che nasconde in sé il teo-arcaico di chi non si rassegna a ciò che Marcel Duchamp scoprì ìlare e funerario scegliendo di segare il ramo su cui era seduto: indicando nel gesto del Barone di Munchausen che si tira dalla palude tirandosi per i capelli il suo stemma, e seppellendo prima che nascesse tutta l’arte contemporanea. Da allora non c’è forse più niente da vedere, e anche l’arte delle immagini o della loro sparizione nel gesto concettuale o della loro sopravvivenza nel gioco, deve rassegnarsi alla scoperta che se è vero come diceva Goethe che anche l’innaturale è Natura, è vero anche che tutto il visibile è sotto il dominio ambiguo della metafora, e nessuna creazione che ripristini l’origine è possibile: solo connessioni, mai più cose. Nel 1870 e dintorni Corbière aveva scritto profetico: Fu un vero poeta, non sapeva cantare...Pittore: amava la sua arte - dimenticò di dipingere… Vedeva troppo - E vedere è un accecamento. Ma quel troppo che resta da vedere all’arte è traboccante. La superficie è cieca e muta, ma la speranza dell’arte è tutta in quella superficie. L’accecamento che l’arte invoca quando è all’altezza del sapersi quasi impossibile, non è quello della materia o della natura o del theos: ma quello del lampo che toglie la vista e la cala nel buio per farla rinascere. L’accecamento che le immagini sognano è il risveglio che scoperchia i sarcofaghi, quando una voce balbetta dissennata ciò che non è mai stato prima e ciò che vive solo nel tempo in cui le parole lo fanno apparire: il pezzo di muro che splende nella Recherche non è una cosa, c’è solo nelle parole di Proust e in chi le dice. È in quel pezzo di muro che esiste solo nell’immaginazione che si realizza intera la promessa delle immagini?

l’Unità 22.3.08
Il Sessantotto e la Francia di Re Sarkozy
di Giovanna Trento


Scrivono leader dell’epoca, da Cohn Bendit a Glucksmann. E per Larousse un «dizionario»
Qual è il nesso tra la «libertà» invocata allora e il «liberismo» che domina al presente?

DOPO IL SALON DU LIVRE Siamo alle soglie del quarantennale del Maggio. E la fiera parigina ha presentato un’ondata di testi che rivisitano quei giorni. Qual è il filo che li lega all’oggi?

Il Salon du livre ha chiuso mercoledì pomeriggio con un dibattito in diretta di Radio-France sul tema: «Quarant’anni dopo, cosa resta del Maggio ‘68?». Allo scoccare in primavera dei quarant’anni del fatidico Mai 68, si prevede un’inondazione mediatica sull’argomento, e lo stesso Salon du Livre ha dedicato quest’anno due tavole rotonde al Sessantotto e alla sua controversa eredità.
Per compiere un lavoro di riappropriazione e riflessione sul movimento, ci vengono in soccorso quest’anno molti libri, o in uscita, o già presenti sugli scaffali delle case editrici francesi al Salon du livre, per un totale di circa ottanta titoli previsti nel corso del 2008. Tra gli altri la ripubblicazione dei due volumi Génération, di Hervé Hamon e Patrick Rotman; il dizionario Larousse Dictionaire Mai 68; di Christine Fauré Mai 68 en France ou la révolte du citoyen disparu; il libro fotografico Mai 68 con l’introduzione di Daniel Cohn-Bendit e molto altro ancora…
L’interesse pubblico per questa ricorrenza era già stato alimentato l’anno scorso: durante la campagna presidenziale monsieur Sarkozy, nel corso di un discorso a Bercy nell’aprile 2007, si era espresso contro le rivendicazioni e i valori di coloro che nel ‘68 «avevano proclamato che tutto è permesso»; il futuro presidente esortava quindi la popolazione a liquidare l’eredità del movimento sessassontino. Da questo episodio prende spunto il libro di André e Raphael Glucksmann: Mai 68 expliqué à Nicolas Sarkozy (il Maggio 68 spiegato a Nicolas Sarkozy), uscito in questo febbraio per Denoël. I Glucksmann - André, padre, era allora sulle barricate - sostengono viceversa che, senza il relativismo del Maggio ‘68 e i suoi slogan surreali e dadaisti, Sarkozy, «provinciale» e «divorziato», non sarebbe mai potuto diventare presidente.
Se oggi i francesi oscillano fra fascinazione e rifiuto del Sessantotto, è perchè una definizione netta di cosa esso sia stato non esiste. Perciò oggi Patrick Rotman, con il suo Mai 68 raconté à ceux qui ne l’ont pas vécu, edizioni Seuil (Il Maggio 68 raccontato a chi non l’ha vissuto), cerca di ripartire dai fatti di quella primavera a Parigi, quando il 3 maggio iniziarono le otto settimane più calde dell’anno. Rotman sostiene che il Maggio ‘68 è stato uno dei momenti più importanti nella storia del secondo dopoguerra, e che, per recuperarne la realtà storica, è necessario liberarlo dal carico ideologico che lo investe ancora. Vanno ricostruiti quegli avvenimenti che fecero tremare la Francia, accompagnandoli all’analisi di un decennio dove tutto si ribaltava e in cui le circostanze internazionali erano molto particolari, tanto da favorire un generale spirito rivoluzionario.
Un movimento globale, allora? Probabilmente sì. Non solo perché coinvolse contemporaneamente molti luoghi del pianeta (Italia, Francia, Messico, Cecoslovacchia, Giappone, Stati Uniti…), ma anche perché aprì la strada a un mondo che, di lì ad alcuni anni, sarà detto nomade, diasporico, globalizzato, postcomunista… Non a caso risale al 1969 l’incontro fra Deleuze e Guattari che li condurrà, con Mille Plateaux (1980) o Qu’est-ce que la philosophie? (1991), a divenire riferimenti obbligati del pensiero postmoderno. Ma anche questa è storia, ormai.
Se le ipotesi politico-economiche scaturite dal ‘68 sono rimaste inattuate, viceversa le richieste di riappropriazione soggettiva del corpo, di autonomia, libertà e trasparenza nei rapporti interpersonali, hanno di lì in poi marcato profondamente la nostra vita relazionale, almeno in Europa. Di recente è uscito per La Découverte il volume Enquête sur la sexualité en France. Pratiques, genre et santé (Inchiesta sulla sessualità in Francia. Pratiche, genere e salute), nato da una ricerca di due anni coordinata da Nathalie Beltzer. Le riflessioni che ne emergono non sono indirizzate al pubblico specializzato, e il libro dà conto del profondo cambiamento della percezione e dell’uso della sessualità in Francia negli ultimi quarant’anni. Anche Toni Negri (in Francia lettissimo), dalle pagine di un corposo almanacco fatto uscire in questi giorni da Le Monde, dichiara che la sinistra politica non ha capito che dopo il ‘68 la produzione e l’organizzazione sociale non potevano più strutturarsi in modo verticale, ma andavano concepite come reti; invece, secondo Negri, su altri fronti identitari il mutamento è stato radicale: il ‘68 ci ha cambiato tutti, e i giovani lo hanno ormai «in corpo» e nel loro Dna.
Essenziale fu la «liberazione della parola», che presupponeva una nozione «debole» di rivoluzione, ovvero una rivoluzione «di lunga durata». Ma così, dell’immaginario del 68 si è facilmente appropriato il discorso mediatico che ne ha restituito una serie di clichés. In molti si sono allora chiesti dove finisca la «libertà» e dove inizi il «liberismo», e come trarre dal Maggio ‘68 un’eredità positiva. Su simili temi si era già espresso Jean-Pierre Le Goff nel 2006 in Mai 68, l'héritage impossibile(Maggio 68, l’eredità impossibile), ritornandovi in una bella intervista apparsa in febbraio su Libération: «Non mi spingerò fino al dire che ciò che oggi definiamo genericamente neoliberismo è il frutto della crisi culturale apertasi nel ‘68. Tuttavia, negli anni ‘80 un incontro ha pur avuto luogo fra questi due movimenti».
Oggi ci si chiede quindi in Francia che significato abbia assunto, dopo il 68, il valore della «libertà» nella costruzione dei rapporti interpersonali, sociali ed economici. Ma simili interrogativi emergevano già implicitamente dallo scontro che oppose Franco Fortini a Pier Paolo Pasolini, nella loro diversa valutazione delle famose rivolte studentesche a Valle Giulia in quel fatidico anno. Perché, paradossalmente, non è Fortini (il pro ‘68), ma è Pasolini (il «populista estetizzante», tendenzialmente avverso al movimento) che, con i suoi atteggiamenti critici e insolenti, veicolerà la «libertà» sessantottina, divenendo infine una «icona postmoderna», in Francia come altrove.

Repubblica 22.3.08
I diritti e la barbarie
di Stefano Rodotà


Sacrificate ovunque in nome della sicurezza, le libertà civili hanno ricevuto un inatteso aiuto pochi giorni fa dalla Corte costituzionale tedesca, che ha ritenuto illegittima una norma antiterrorismo fortemente restrittiva dei diritti. Questa decisione è importante per due motivi. Perché offre indicazioni nuove e significative per cogliere in concreto il modo in cui si stanno modificando i rapporti tra i cittadini e lo Stato, per individuare i rischi ai quali è esposta la stessa democrazia e, soprattutto, per mettere a fuoco le trasformazioni che sta conoscendo la nostra personalità. E perché consente di misurare l´adeguatezza dei programmi elettorali in circolazione rispetto alle complesse questioni ogni giorno proposte dall´innovazione scientifica e tecnologica.
E al di là di questo, perché ci impone riflessioni su come la dignità delle persone sia oggi considerata nel nostro paese.
I giudici costituzionali tedeschi si sono trovati di fronte a questo problema: fino a che punto si può frugare nei personal computer delle persone, a loro insaputa, indagando su ogni loro attività e comunicazione, magari predisponendo i computer proprio per renderne possibile il controllo in qualsiasi momento? Una questione, come ben si vede, che riguarda tutti e che rivela prospettive inquietanti. Tecnologie della libertà – che ci hanno appunto liberato dai vincoli del tempo e dello spazio, che hanno avviato un nuovo modo di costruire le relazioni, personali, sociali, politiche – possono essere integralmente rovesciate in tecnologie del controllo.
Consapevole di tutto questo la Corte non si è limitata ad affermare l´illegittimità di quella norma, contenuta in una legge del land Nord Reno-Westfalia, imponendo restrizioni rigorosissime a questa nuova forma di perquisizione. Ha creato un nuovo diritto della persona: "il diritto fondamentale alla garanzia della confidenzialità e dell´integrità del proprio sistema tecnico-informativo", come espressione del diritto della personalità. La novità è grande. Il corpo di ciascuno di noi si allarga fino a comprendere gli strumenti tecnologici di cui ci serviamo nella vita quotidiana. La Corte costituzionale tedesca non rafforza solo la garanzia giuridica. Crea una nuova antropologia. Su questo nuovo corpo, insieme fisico e tecnologico, "non si possono mettere le mani". Viene così rinnovata l´antica promessa della Magna Charta e nasce un nuovo habeas corpus.
Questa decisione non arriva a caso. Alle sue spalle vi è una lunga riflessione, cominciata nel 1983 con una sentenza sempre della Corte costituzionale tedesca che, riconoscendo il diritto all´autodeterminazione informativa, ha notevolmente influenzato l´intera riflessione su privacy e libertà. E´, dunque, il risultato di una cultura sedimentata che, proprio per questo, fornisce anticorpi adeguati, che consentono di affrontare i problemi senza abbandonarsi alle derive tecnologiche, senza diventare ostaggi della regressione civile che fa diventare la sicurezza un imperativo totalizzante, in nome del quale diritti e libertà possono essere tranquillamente accantonati.
Se proviamo a cercare tracce di una simile cultura nei nostri programmi elettorali, si è a dir poco delusi. Con tanto parlare di modernità e di futuro, è sostanzialmente scomparsa proprio l´intera questione del significato e degli effetti delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, dunque il tema capitale del nostro tempo. I problemi legati alla biologia ed alla genetica, quelli cosiddetti "eticamente sensibili", non devono entrare nella campagna elettorale perché "divisivi", perché possono turbare qualche finto idillio tra schieramenti e dividere i partiti al loro interno. Ai problemi tecnologici si dedica qualche scappellata, simile all´indimenticata promessa di "un computer per ogni studente". Oggi, ad esempio, si promette "banda larga per tutti". Ma, se pure questo programma venisse realizzato e così reso più agevole e generalizzato l´accesso al sistema della comunicazione elettronica, quali sarebbero i suoi effetti? Senza affrontare la questione delle garanzie dei diritti si creerebbe una situazione nella quale i cittadini vedrebbero sì allargata la possibilità del loro agire tecnologico, ma al tempo stesso si trasformerebbero in ostaggi di una tecnologia che permette di scrutare nel profondo la loro vita. Per salvarsi, dovrebbero rinunciare proprio ad utilizzare la tecnologia loro elargita. La contraddizione è evidente, ma è facilmente spiegabile tenendo presente l´enfasi ossessiva sulla sicurezza, la palese rinuncia a subordinare le logiche di polizia al rispetto dei vecchi e nuovi diritti fondamentali delle persone.
La salvezza arriverà da lontano, dalla lungimiranza di giudici come quelli tedeschi? "Dalla barbarie ci salverà l´Europa", era il titolo di un bell´articolo di Antonio Cassese che richiamava l´attenzione su due sentenze della Corte europea dei diritti dell´uomo che ribadivano con forza come le esigenze della lotta al terrorismo "non possono assolutamente portare ad una compressione dei nostri diritti umani, né di quelli dei presunti terroristi". La sentenza della Corte costituzionale tedesca è una sfida ad un´altra Europa, quella dei ministri degli Interni e di quei commissari europei che vogliono realizzare proprio le forme di controllo capillare ritenute incompatibili con la libertà della persona. E rende così manifesto il conflitto tra una politica sempre meno attenta ai diritti e una giustizia, costituzionale ma non solo, che incarna in modo sempre più netto il soggetto istituzionale al quale è affidato il compito di garantire, insieme ai diritti, gli equilibri democratici. Basta ricordare, ad esempio, l´intervento della Corte Suprema degli Stati Uniti sulla vicenda di Guantanamo o le sentenze della Corte costituzionale italiana su alcune delle cosiddette "leggi vergogna" del quinquennio berlusconiano.
Grande è la responsabilità dei giudici costituzionali e della cultura giuridico-politica nel garantire il pieno rispetto e lo sviluppo delle libertà e dei diritti fondamentali. Né occhi chiusi, né sguardo rivolto all´indietro. Bisogna reinterpretare le norme costituzionali esistenti, non solo creare diritti nuovi. Ad esempio: che cosa diventa la libertà di circolazione in città sempre più videosorvegliate? Si può continuare a parlare di libertà e sicurezza delle comunicazioni quando i dati riguardanti il traffico telefonico sono conservati per otto anni? Se non si risponde in modo adeguato a queste domande, si rischia di lasciare senza garanzie costituzionali proprio le situazioni più fortemente modificate dalle tecnologie.
Bisogna opporsi ad ogni forma di "degradazione dell´individuo", dando la più ampia portata a questa efficace espressione dei nostri giudici costituzionali. Di nuovo i giudici. Ad essi, e solo ad essi, si deve l´agghiacciante catalogo delle violenze nella caserma di Bolzaneto a Genova. Una sequenza di orrori che, senza esagerazioni, richiama quelli della prigione irachena di Abu Ghraib, di fronte ai quali le altre istituzioni erano rimaste sostanzialmente silenziose e ai quali una parte consistente del mondo politico aveva offerto una vergognosa copertura (sarebbe il caso di ripubblicare, senza commenti, molte dichiarazioni di questi anni). La dignità umana, cardine della nostra Costituzione e proclamata "inviolabile" in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, non aveva mai conosciuto in Italia una così profonda mortificazione.
"Pietà l´è morta"? Vien proprio voglia di rispondere di sì quando, ad esempio, si torna con la memoria alla violenza esercitata su una donna che, a Napoli, aveva legittimamente interrotto la sua gravidanza. Violenza che non è tanto quella dell´interrogatorio poliziesco, ma di chi ha ripetutamente e pubblicamente accusato quella donna di "aver ucciso un bambino malato". La cultura del rispetto è scomparsa da tempo dal nostro dibattito politico, ma non era mai accaduto che la violazione della dignità costituisse il segno d´una posizione politica ufficiale.

Repubblica 22.3.08
Un no
di Paolo Flores D’Arcais


Il popolo del Tibet si è ribellato, una volta di più. I morti si contano a decine, il primo giorno. E con la rivolta e la repressione, è scattato puntuale l´inverecondo balletto della falsa solidarietà al popolo tibetano, quella che non costa nulla.
A parole, tutti condannano la repressione delle autorità cinesi. Ma queste ultime, oggi come oggi, una sola cosa temono davvero, che l´Occidente ponga l´aut aut: se la repressione non cessa immediatamente, non parteciperemo alle olimpiadi di Pechino. Esattamente quello che l´ipocrisia occidentale si guarderà bene dal fare. Le argomentazioni non mancheranno, ammantate di nobiltà e ragionevolezza, per scegliere una strada da sepolcri imbiancati.
Si dirà che il boicottaggio non risolve nulla, potrebbe anzi danneggiare il popolo cinese e in particolare i gruppi dissidenti, spingendo le autorità infuriate a nuovi giri di vite. Che in Cina le libertà si faranno strada, anche se lentamente, proprio moltiplicando gli scambi di ogni genere, dunque anche sportivi, oltre che economici.
La verità è ben diversa e la conoscono anche i sassi. Agli establishment occidentali non importa un bel nulla dei valori e dei principi, se rischiano di mettere in discussione il principio di tutti i principi e il valore di tutti i valori: Mammona, l´unico Dio che adorino, e la quotazione in borsa, suo unico riconosciuto profeta.
Il profitto viene prima, il danaro viene prima, questo proclama a squarciagola la giaculatoria interminabile delle giustificazioni e dei silenzi, l´olimpiade della doppiezza in cui i governi occidentali si sono subito impegnati con zelo agonistico, forti di un antico e mai interrotto allenamento. Del resto, con il tempismo profetico di chi ha dichiarato di parlare direttamente con Gesù, Bush aveva tolto la Cina dalla lista dei paesi che commettono violazioni gravi dei diritti umani, proprio alla vigilia della repressione che ha colpito i sudditi tibetani.
Vorremmo poter sperare nell´Europa. Vorremmo poter immaginare che il parlamento europeo dichiari, alto e forte, che nessun paese del vecchio continente parteciperà a Olimpiadi di sangue. Che i dirigenti cinesi, se non avranno rinunciato alla repressione, dovranno pagare un prezzo, il fallimento di quelle Olimpiadi che nelle attese del regime post-maoista dovrebbero invece celebrare il trionfo internazionale – e internazionalmente riconosciuto – della superpotenza capitalistico-comunista cinese.
Vorremmo credere che governi e schieramenti che si definiscono liberali, e per soprammercato sbandierano magari come irrinunciabili le radici cristiane dell´Europa, insegneranno ai loro concorrenti di sinistra l´intransigenza in fatto di libertà, e il loro ultimatum non negoziabile ai dirigenti cinesi obbedirà a quel "il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal demonio" che è la cifra inequivocabile di chi prende sul serio il Vangelo.
Vorremmo sperare che governi e schieramenti che si definiscono di sinistra sapranno tenere alte le bandiere di libertà abbandonate dalla borghesia, come si diceva ai tempi del comunismo europeo "riformista", dimostrando con ciò di essere i soli eredi legittimi delle istanze universalistiche dell´illuminismo e delle rivoluzioni liberali.
Vorremmo sperare che se anche nulla di tutto questo accadrà in Europa, accadrà almeno in Italia, dove c´è pur sempre un Papa, pur sempre obbedito dai politici di destra e di sinistra, e pur sempre disposto a sussurrare il dovere mondiale della pace e della giustizia, che della pace è l´altro nome, come possiamo leggere in infinite encicliche. Infine, vorremmo poter aggrapparci almeno ad una speranza minimalista. Che il "non possumus" dell´Italia di fronte alle Olimpiadi di sangue sappia prometterlo, anche a costo dl più completo isolamento, Walter Veltroni, che l´isolamento ha dimostrato di non temere e ha voluto invece trasformarlo in una risorsa. Vorremmo.
Ma poiché sappiamo bene come di pie illusioni democratiche siano lastricate le autostrade dei successi totalitari, contiamo solo sui cittadini. E in particolare su quei cittadini che hanno il privilegio dell´accesso ai mass-media, gli opinion-makers, gli intellettuali, le personalità dello spettacolo, gli sportivi. Il loro NO alle Olimpiadi di sangue è l´unica solidarietà concreta per i democratici del Tibet e della Cina.
(Questo articolo sarà nel numero di MicroMega in edicola martedì 25 marzo)

Repubblica 22.3.08
Si apre il 29 marzo a Mantova una grande mostra di arte antica
La scoperta del bello
Come i greci divennero classici
di Salvatore Settis


Platone aveva svalutato le arti figurative viste come imitazione della realtà
Per gli antichi la techne (in latino ars) era una competenza tecnica
È tra Sette e Ottocento che la patria di Omero diventa un punto di riferimento, un serbatoio di idee e di progetti validi per il futuro grazie agli studi di Winckelmann

In un autografo di Hegel, scritto verso il 1796 con il contributo (a quel che pare) di Schelling e di Hölderlin, la fondazione di una nuova etica come «sistema completo di tutte le idee o - il che è lo stesso - di tutti i postulati pratici» include la «rappresentazione di "me stesso" come un essere assolutamente libero», «che porta in sé il mondo intellettuale e non deve cercare né Dio né l´immortalità fuori di sé». Questo progetto trova nel Bello il suo principio unificante: «.. l´idea che le unifica tutte, l´idea della bellezza, prendendo la parola nell´elevato senso platonico. (...) L´atto supremo della ragione, quello col quale essa abbraccia tutte le idee, è un atto estetico; verità e bontà sono affratellate solo nella bellezza»; anzi, l´estetizzazione delle idee è il presupposto necessario per un patto sociale che leghi i filosofi e il popolo in una «nuova religione che sarà l´ultima, la più grande opera dell´umanità». In questo incunabolo dell´idealismo tedesco aleggia lo spirito di Platone, evocato ad assicurare il primato dell´esperienza estetica come cuore conoscitivo dell´io, che ne assicura l´intimo legame col mondo della natura e con quello della città. Bellezza, filosofia e grecità sono tutt´uno (...)
Il Bello di cui qui si parla non è solo quello delle arti figurative o della poesia, non è fatto solo di corpi atletici, templi marmorei, versi epici, tragici o lirici. Corrisponde a un sistema di concetti e di valori (armonia, misura, equilibrio), che proprio fra Sette e Ottocento veniva prendendo il nome, ancor oggi in voga, di «classico»; e cioè una sorta di perfezione immutabile che valga sia nel tempo (in particolare, nella storia dell´antica Grecia) sia fuori dal tempo (perché modello perpetuo per le generazioni future). La cultura greca, vecchia di oltre duemila anni, acquistava in tal modo il ruolo inatteso di un serbatoio di idee e di progetti per il futuro.
Eppure, la concezione del Bello come ispiratore di una nuova etica, di una nuova religione e di una nuova società non sarebbe stata possibile senza la mediazione di una speciale bellezza sensibile, quella dell´arte greca, che l´Europa colta aveva scoperto grazie alla Storia dell´arte dell´Antichità di Johann Joachim Winckelmann (Geschichte der Kunst des Alterthums, 1764).
Egli era riuscito nel compito quasi impensabile di dare all´arte greca non solo la piena consistenza di una narrazione storica, ma anche un´attualità e una funzione nel presente e nel futuro. Secondo Winckelmann, l´arte greca realizzò un´irripetibile armonia delle forme, che nella bellezza dei corpi e nell´eleganza del loro atteggiarsi rifletteva le ricchezze e le tensioni della vita interiore; una «nobile semplicità e quieta grandezza» che era negli spiriti e nella tempra della cultura greca, prima d´incarnarsi nel marmo. Perciò l´arte greca trasmette all´osservatore quel prodigioso equilibrio fra libertà razionale dello spirito ed emozione estetica, che egli definì con una parola prelevata dall´italiano, Grazie («grazia»), e indicò come traguardo per gli artisti e per l´educazione delle élites. In questa visione, ideale etico e ideale estetico si fondevano in uno, e l´arte greca generava una metafisica del Bello capace di trasformare nell´intimo l´uomo colto, illuminandone e disciplinandone l´intelletto, donandogli una vita più piena, una più ricca interiorità e libertà (...).
In questa centralità dell´esperienza estetica, definita dalla specialissima grazia dell´arte greca, sembrava trovar soluzione un´antica domanda: se l´artista debba imitare la natura, o cercare i propri modelli nell´arte. Nel Rinascimento italiano si era fatta strada l´idea che l´imitazione perfetta della natura sia già tutta contenuta nelle statue antiche, e che - dunque - il «classico» possa essere l´equivalente del «naturale» o addirittura superiore ad esso (idea espressa poi nel Seicento da teorici dell´arte come Roger de Piles); e si era associato all´arte greco-romana un forte senso del corpo, espresso nella frequente rappresentazione della nudità, che sin dal Medio Evo era stata vista come una caratteristica sommamente «antica». Dopo Winckelmann, l´arte greca fu la nuova stella polare degli artisti, a preferenza della natura stessa; perché l´arte, e non la natura, esprimeva la grazia in grado di innescare un´esperienza estetica rinnovatrice. Nell´arte greca poteva ormai additarsi la matrice dell´arte nuova; in essa trovarsi la perpetua misura del bello, il linguaggio universale del corpo umano e del suo gestire, che era tempo di far rinascere (lo fecero assai efficacemente artisti come Jacques-Louis David).
Queste tesi così influenti, che si formarono nel corso del Settecento e determinarono con forza impressionante il linguaggio e le pratiche dell´arte e della critica del secoli successivi, hanno alcuni aspetti paradossali. Prima di tutto, Winckelmann aveva visto ben poca arte autenticamente greca; egli non sapeva nemmeno che l´Apollo di Belvedere, secondo lui fra le opere greche più perfette, non è che una copia di età romana.
Le sculture del Partenone e quelle di Egina approdarono a Londra e a Monaco solo fra il 1802 e il 1813, e nel corso dell´Otto e del Novecento si ebbe la graduale riscoperta della Grecia e degli originali di arte greca (ancora in corso con rinvenimenti recenti come, per citarne uno solo, i Bronzi di Riace). Le pagine di Winckelmann, che in pochissimi anni avevano conquistato l´Europa, erano state quindi una sorta di profezia sull´arte greca, che con straordinaria lungimiranza riuscì a estrarre «l´essenza dell´arte» dei Greci da copie romane, da notazioni di gusto, aneddoti, racconti delle fonti antiche (per esempio i greci Pausania e Luciano, i romani Cicerone e Plinio il Vecchio); ma poté farlo perché aveva eletto a proprio traguardo l´esperienza estetica non in astratto, bensì nel suo innestarsi su valori etici e civili, di cui già i testi degli Antichi erano impregnati.
Non meno paradossale è un secondo aspetto: l´idea di «arte», o l´artisticità come valore, al centro dell´esperienza estetica esaltata da Winckelmann (e dietro di lui dall´autografo hegeliano citato all´inizio), e poi assolutamente centrale nell´idea di arte fino ai nostri giorni, fu estranea alle civiltà classiche. Per esse, techne (in latino ars, da cui l´italiano «arte») era una competenza tecnica, un know - how che si poteva assimilare e praticare a vari livelli di qualità, ma di cui si poteva parlare solo in termini altamente specifici. Buona o cattiva poteva essere non «l´arte» in astratto; bensì gli esiti tangibili, i «prodotti» della techne del medico, del pittore, del cuoco, dello scultore, dell´aedo, dell´architetto, dell´addestratore di cavalli. Il portatore di ciascuna di queste «arti» doveva avere abilità specifiche, coltivate mediante l´apprendimento di regole, e riconosciute mediante l´esercizio pubblico del mestiere: è solo nel Settecento che prese corpo l´idea di un´«arte» unitaria che si manifesta in varie forme (architettura, scultura, pittura...). Possiamo dunque dire che i Greci produssero al massimo livello «arte» (nel senso in cui ne parliamo dal Settecento ad oggi), e persino tutto un vocabolario del «giudizio d´arte»; ma non ebbero un concetto astratto di «arte» come quello che diamo oggi per scontato, e che si concentra sulle qualità formali e prescinde da ogni altro valore. L´emergere del concetto moderno di «arte» comportò il divorzio delle qualità formali dell´«arte» dai suoi contenuti e dalle sue implicazioni etiche (...).
Maggiore degli altri è forse il terzo (e ultimo) paradosso: Platone, fra tutti i Greci il più citato quanto alle idee sulla bellezza, aveva invece svalutato le arti figurative come imitazione (mimesis) di una realtà sensibile che a sua volta non è che imitazione imperfetta della realtà ideale. Ma proprio questa apparente svalutazione contiene ben chiaro il germe di una convinzione, anzi, opposta: se Platone si batte in favore di certe forme di arte e contro altre forme, è perché riconosce (e perciò teme) il potere della rappresentazione artistica, dalla danza alla pittura.
Perciò egli rigetta con la massima durezza non l´abilità dell´artista, ma la possibilità che essa, giocando sull´ingannevole potere delle arti mimetiche, si dedichi alla rappresentazione di contenuti negativi, diseducativi per il cittadino. Dall´arte Platone esige non la facile bellezza delle forme, ma la superiore bellezza dei contenuti, dei valori, delle idee che danno sostanza alla polis, che vi radicano il cittadino, che assicurano la stabile pratica di un´etica condivisa.

Repubblica 22.3.08
Stendhal. Passioni e sorprese d’amore
Le opere raccolte nei Meridiani
di Daria Galateria


A quindici anni si innamorò furiosamente di Mademoiselle Kubly, ma quando la vide venire verso di lui si sentì svenire e scappò via
La deliziosa Lamiel paga un ragazzino per conoscere il sesso e ne fu delusa

Mademoiselle Kubly, la cantatrice, era così giovane, che aveva i seni ancora immaturi. Ciononostante Stendhal, a quindici anni, se ne innamorò furiosamente; prese lezioni di musica, e era sempre a teatro; un giorno che passeggiava tra i castagni del Jardin de Ville di Grenoble, la vide apparire; veniva verso di lui. Stendhal si sentì svenire, girò sui tacchi e scappò. Così, due anni dopo, nel 1800, era ancora alle prime armi quando in Italia conobbe il battesimo del fuoco e dell´amore.
«E´ tutto qui?», pensò - o comunque, è quello che scrisse nell´autobiografica Vita di Henry Brulard. La traversata del San Bernardo, tra i ghiacci e la nebbia, era stata ardua, e specie la discesa; il giovane soldato dell´Armata d´Italia si espose al fuoco sull´Albaredo («era una specie di verginità che mi pesava come quell´altra»); erano tutti ventenni dietro a un generale di 27; lui vide forse Napoleone per la prima volta. Stendhal parlava ai curati in latino, e imparava l´italiano; il Matrimonio segreto di Cimarosa lo abbagliò; e poi il sole, le milanesi: «il più bel momento» della vita. Eppure, nello stesso passaggio dell´Henry Brulard, dichiarerà di non ricordare in quale bordello, e con chi, aveva perso in quei giorni l´innocenza.
Ripensa a quella frase («E´ tutto qui?») Mariella Di Maio, concludendo la magistrale cura dei tre volumi di Romanzi e Racconti di Stendhal (il terzo Meridiano esce ora da Mondadori, con la Certosa, le Cronache italiane e Lamiel tradotti con estro stendhaliano da Maurizio Cucchi, pagg.1535). E accosta quelle parole alla risata «cristallina e metafisica» della deliziosa, ingovernabile Lamiel, la contadinella dell´ultimo romanzo di Stendhal, quando paga un ragazzino per conoscere l´amore: «Voglio essere la tua amante»; «Ah, allora è diverso» disse Jean, agitato; e così, senza trasporto, senza amore, il giovane normanno fece di Lamiel la sua amante. «"Non c´è nient´altro?", chiese la fanciulla; "No", rispose Jean».
Lamiel («possibile? L´amore è solo questo?») dà cinque franchi al «povero Jean», poi si siede a terra: «si asciugò il sangue e non prestò attenzione al dolore. Poi scoppiò a ridere, ripetendosi: Ma come! Il famoso amore è tutto qui?!». Questa scena «insopportabile» salda tanti conti di Stendhal: la rievocazione della giovinezza, nell´attimo di più forte cristallizzazione mitica, e la noia presente, «che rende possibile il komico»(sic); l´amore degradato da un riso beffardo, pur se appunto argentino - è un po´ il finale dell´Education sentimentale di Flaubert: il momento più bello della vita è stato, per il protagonista, la prima visita a una casa d´appuntamenti, un mazzo di fiori di campo in mano. Naturalmente, anche per Lamiel Stendhal prevedeva l´amour - passion - come poteva essere altrimenti, per il «tenero amico delle donne» (Simone de Beauvoir)? Ma per le anime femminili, energiche e forsennate non ci sono più amori carbonari, guerre e rivoluzioni.
Lamiel si innamora di un bandito. Il bandito ha un modello: Lacenaire. Dandy pluriassassino, e senza motivo, Lacenaire non si scompose, quando nel 1836 fu ghigliottinato. Per tutto il 1835, in un seguitissimo processo, Lacenaire aveva «intenerito il secolo» con le sue parole «fredde e colorate». I morti della rivoluzione di Luglio, in un lustro, erano già diventati ridicoli, aveva affermato. Le rivendicazioni sociali, e la «rivolta, con tutta la sua nostalgia di una morale» (Baudelaire) diventavano, con lui, e all´epoca del re borghese, vendetta solitaria. Svanite le fulminanti carriere napoleoniche, i falliti d´ingegno del 1830 sentono che la fortuna non si può più strappare con un gesto d´energia, e mimano, con l´atto disperato del crimine, l´illegalità rivoluzionaria. Tra il 1839 e il 1841, l´incantevole Lamiel non conclude la sua carriera libertina, né Stendhal il suo romanzo: però lo scrittore annota, del bandito che Lamiel ama: «tre omicidi senza motivo (come Lacenaire)».
Questo romanzo ferisce perché Stendhal non usa qui il suo prestissimo per suscitare con vertiginosa sobrietà di mezzi le forsennate passioni. Il romanticismo va scolorando, e anche la grazia del razionalismo settecentesco. Stendhal si sta davvero misurando col nuovo secolo; «diventeremo una borghesia rispettabile», assicura Sansfin, il dottore gobbo che istruisce Lamiel: eppure è in atto, in quel momento, un´insurrezione. Per questo si cerca di non pensare a Lamiel, che è un romanzo bellissimo, ma che prende alla gola, perché Stendhal - che alle ultime pagine ha già avuto un colpo apoplettico - mette il cuore al ritmo di un´epoca indigente. Mariella Di Maio raccomanda di rileggere la «prima volta» di Lamiel, e tutto il romanzo: Stendhal vi «lascia deflorare il suo immaginario romantico dell´Eros», e così di nuovo ci stupisce come «grande (forse il più grande) narratore realista».
Diceva Stendhal che la sua vita morale era iniziata a sette anni, nel 1790, quando la madre era morta di parto; aveva cominciato allora a «dire male di God». Così, per tutta la vita si era divertito a costernare i moderati con discorsi giacobini, e mille mistificazioni. Nel «nido di rondine» di Civitavecchia, dove era console, gli era venuta a mancare anche questa risorsa. Ma alla Biblioteca Vaticana aveva scoperto dei manoscritti italiani del Cinquecento, che fece copiare. Erano storie sanguinarie di incesti, vendette, fughe, veleni, adulteri. Se ne ispirò per molte novelle; e per la Certosa. Per Lamiel, Stendhal non ha una fonte cronachistica, ma un personaggio, Lacenaire appunto - e anche Lamiel è il romanzo di un personaggio. L´ultima, grandissima stagione di Stendhal narratore stava chiudendosi. «Trovo che non ci sia niente di ridicolo a morire per strada se non lo si fa apposta», aveva scritto Stendhal a un amico, l´8 aprile 1841. Un anno dopo successe, alle 7 di sera, in una via di Parigi.
Eppure a luglio lo scrittore aveva conosciuto ancora «un´oasi».
Era arrivata a Civitavecchia, con una lettera di raccomandazione per il console, la moglie di un pittore, Cecchina Bouchot. Era figlia di un famoso cantante, era alta e bruna, un viso «italiano»; voleva far bagni di mare. Stendhal le fece leggere la Certosa, e conversò - quello che più gli mancava di Parigi. Un giorno lei lo accolse in un déshabillé così eloquente che il console - intimidito dal fisico appesantito, dai suoi 58 anni, e dall´attacco che, mentre scriveva sul caminetto Lamiel, lo aveva fatto quasi precipitare nel fuoco - fu costretto a farla capitolare.

Repubblica Firenze 22.3.08
Follia e sicurezza
Ascanio Celestini: "Venite con me in manicomio"
di Roberto Incerti


«Il mio lavoro consiste nel raccontare storie ascoltandone altre. Quando una persona legge o ascolta una storia, si trova davanti a delle immagini che vengono evocate dalla parola». Quelli che raccontano, gli attori-affabulatori rappresentano l´ultima rivelazione del teatro italiano. Ascanio Celestini ha trasformato in arte il «recitar parlando». In un´era in cui la gente parla sempre meno, preferendo passare il tempo a osservare risse verbali in tv, quelli come Ascanio - e potremmo citare anche Dario Fo, Marco Paolini, Laura Curino, Marco Baliani, Mimmo Cutucchio, David Enia - riescono a riempire i teatri. Celestini sarà a Firenze, attesissimo al Puccini la prossima settimana con la La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico (28/29 marzo ore 21, euro 22/18, info 055362067). Lunedì 31 marzo poi sarà proiettato al cinema Grotta di Sesto Fiorentino il suo film Parole sante che descrive la vita agra dei lavoratori del call center.
Con l´aria sorniona e l´atteggiamento in bilico fra eroe epico e ragazzo di borgata, Ascanio sa incantare raccontando storie senza tempo che parlano di Resistenza e stermini, eroi popolari e streghe. Negli spettacoli di quest´artista che sa far ridere e commuovere, i protagonisti sono sempre tre: la memoria, i racconti, la follia. E anche stavolta Celestini è solo in scena col suo carisma a parlare nel suo romanesco reinventato. Gli unici elementi scenici sono una sedia e delle lampadine che brillano di luce fioca, come stelle riuscite male. «L´arte dell´oralità l´ho appresa dalla sorella della mia nonna, si chiamava Fenisia e sapeva raccontare bellissime storie di streghe».
Quali sono i segreti de «La pecora nera»?
«Il mio spettacolo nasce da interviste condotte dal 2002 al 2005. Ho contattato circa 150 persone che hanno vissuto nei manicomi, soprattutto infermieri. Molte testimonianze vengono dalla Toscana, a San Salvi e Castelpulci. Ho raccolto le memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po´ come facevano i geografi del passato che chiedevano ai marinai di raccontare com´era fatta un´isola o a un commerciante di spezie com´era una strada verso l´Oriente. E poi le disegnavano».
Può raccontare qualche storia che l´ha particolarmente colpita?
«A San Salvi lavorava come infermiere un ragazzo che si chiama Luciano. Appena assunto gli dettero delle chiavi e gli dissero: queste chiavi aprono alcune porte ed altre no. Più farai carriera e più chiavi avrai. Capito? La chiave diventava er potere, era come er fucile dell´ufficiale in guerra».
Parliamo delle interviste agli ex pazienti.
«Le dico una cosa. Quando c´erano i manicomi e venivano dati ai pazienti dei permessi per uscire lo sa dove finivano queste persone? Nei bar di fronte al manicomio. Lo stesso vale per i detenuti in libera uscita o per gli operai che vanno in pensione dopo quarant´anni di lavoro. Trascorrono i loro attimi di libertà in un caffè davanti al carcere o alla fabbrica dove hanno trascorso i migliori anni della loro vita».
Perché ?
«Perché in quei luoghi hanno trascorso la loro vita, sia pure fra sofferenze, ma in sicurezza. Lì ritrovano la loro identità».
Come mai ha preferito intervistare gli infermieri dei manicomi piuttosto che i medici?
«Nell´ambiente si diceva: er dottore quanno viene ar manicomio lascia l´auto cor motore acceso. Parliamoci chiaro: i grandi psichiatri che dovevano lavorare in un manicomio piuttosto, chessò, all´Università, vuol dire che avevano fallito. Invece gli infermieri che hanno trascorso nei manicomi la loro vita sono stati complici e testimoni delle esperienze dei pazienti. Pazienti che venivano raggruppati non per patologia, ma per comportamento. Venivano messi insieme i tranquilli, gli agitati, i sudici. E così via».
Come spiega i tanti spettatori under 30 che vengono a vedere i suoi spettacoli e che di solito non vanno mai a teatro?
«Il mio è un pubblico trasversale che mi viene a vedere mosso dalla curiosità di un teatro che sa parlare della vita. Il pubblico fa la coda perché nella vita quotidiana è di solito circondato da persone che quando parlano annoiano. Il teatro sociale che apre questioni e dibattiti diventa un atto pubblico e politico. Il mio teatro nasce da una responsabilità nei confronti degli spettatori che ho davanti ogni sera e dalla necessità di fare arte».
Che reazioni ha il suo pubblico?
«Fondamentale è che i miei racconti in scena generano altri racconti. Non manca mai uno spettatore che riesce ad aggiungere dei particolari alle storie che ho narrato. Durante Scemo di guerra descrivevo il cinema Iris a cui andava mio nonno. Una volta venne da me un signore nato nel ´32 che aveva conosciuto proprio mio nonno in quel cinema».

Corriere della Sera 22.3.08
Aborto Il Comitato nel 2005 aveva dato parere positivo. Cinzia Caporale: ma dovevano essere rispettate tutte le nostre condizioni
I saggi della Bioetica: no alla ricerca sui feti
D'Agostino: Milano potrebbe vendere le staminali. Scontro Turco-Lombardia sulla 194
Anche monsignor Sgreccia aveva detto sì. Era prevista l'assoluta mancanza di interessi economici dei ricercatori
di Margherita De Bac


Vogliono usare anche feti di 21 settimane, quando le possibilità di sopravvivenza sono concrete

ROMA — Rimedia un altro altolà il progetto del Policlinico di Milano per una banca di cellule derivate da feti abortiti, già respinto dalla commissione etica interna. Il secondo no viene da Francesco D'Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica che pure nel 2005, all'unanimità, ha espresso un parere favorevole a ricerche sulle staminali fetali. «Un autogol», così viene definita la proposta al Policlinico. «Sbagliano, considerano sorgente di staminali anche feti di 21 settimane, quando le possibilità di sopravvivenza sono concrete. In questi casi c'è il rischio di violare la legge 194 che impone di rianimare se esistono segni di vitalità del feto», obietta D'Agostino. E ricorda: «Noi ci riferivamo a materiale di aborti molto precoci, entro il terzo mese ».
Il parere positivo del Comitato nazionale di bioetica aveva trovato d'accordo anche i cattolici, compreso monsignor Elio Sgreccia. Ma erano fissate rigorose condizioni: assoluta mancanza di interessi economici dei ricercatori, richiesta del consenso al prelievo di staminali solo dopo aver effettuato l'aborto, assenza di protocolli alternativi più facilmente percorribili dal punto di vista etico. «Se il comitato interno del Policlinico ha detto no significa che mancavano elementi convincenti — aggiunge D'Agostino —. C'è il sospetto che si sia voluto forzare la mano per creare una banca di staminali. Chi garantisce che un giorno non vengano vendute. Se avessero rispettato le nostre indicazioni, nessuno avrebbe sollevato questioni ».
Il parere del 2005 è stato scritto da Cinzia Caporale, bioeticista dell'università di Siena: «Rebulla dovrebbe adottare in toto il nostro documento. Abbiamo messo nero su bianco diritti e garanzie per la donna e il feto. Il nostro testo purtroppo è stato fatto cadere dai ministri Francesco Storace e Livia Turco. C'è un vuoto legislativo». Giorgio Lambertenghi, presidente dei medici cattolici di Milano, componente del Comitato etico del Policlinico, motiva il no alla banca di staminali: «Ci sono altre sorgenti di cellule fetali, il cordone ombelicale, i villi coriali, il liquido amniotico, il sangue materno. Noi abbiamo espresso dubbi scientifici, non confessionali. Tra l'altro l'impiego dei feti per la ricerca non si concilia con la legge della Lombardia sulla sepoltura».
Le polemiche sul caso del Policlinico affiancano quelle sulle linee guida alla legge sull'interruzione volontaria di gravidanza annunciate dal ministro della Salute Livia Turco (se ne parlerà nella Conferenza Stato-Regioni del 26 marzo). Il governatore Roberto Formigoni ha anticipato che non le avallerà. Ieri il ministro gli ha risposto con una dura critica: «Le sue motivazioni sono pretestuose, la invito a non interrompere il lavoro comune». Il documento contiene delle indicazioni per gli operatori dei servizi sanitari. L'obiettivo è che tutti i centri abbiano uniformità di comportamento. Il ministro Barbara Pollastrini reagisce: «Ci risiamo, la giunta regionale ancora una volta fa prevalere valutazioni ideologiche». Formigoni ribatte: «Commenti scomposti e ansiosi».

Corriere della Sera 22.3.08
Lo scienziato Il capo dell'équipe del Policlinico
«Non molliamo: aprirà la banca delle cellule»
Rebulla: servono per le cure del sistema nervoso
di Francesco D'Agostino


MILANO — È nella bufera, ma non molla: «Da scienziato il mio obiettivo è trovare nuove strade per individuare terapie utili a combattere malattie oggi difficili da curare ». Paolo Rebulla è l'ematologo a capo dell'équipe del Policlinico che ha proposto di usare i feti degli aborti per una banca di cellule staminali da utilizzare per la ricerca. Sulla scrivania, nel suo studio all'ospedale di via Sforza 35, c'è una copia del volume «Scienza, tecnica e rispetto dell'uomo. Il caso delle cellule staminali» curato da Sergio Zaninelli.
Perché lo tiene aperto a pagina 119?
«C'è il parere di Ignazio Carrasco de Paula, cancelliere della Pontificia Accademia Pro Vita».
Un'opinione che può smorzare le polemiche suscitate dal suo progetto di creare una fetal cell bank per raccogliere tessuti fetali che derivano dalle interruzioni di gravidanza (Ivg)?
«Tra le possibili fonti di cellule staminali qui sono indicati anche i feti abortiti senza che vengano riscontrate difficoltà etiche insormontabili. Nel caso delle Ivg è considerato indispensabile garantire che non ci sia un rapporto causa-effetto fra ricerca e aborto. Una condizione che nel nostro protocollo vogliamo rispettare».
Ma perché ritiene utile potere usare anche i «prodotti abortivi »?
«In base alle conoscenze scientifiche attuali ritengo verosimile che possano offrire vantaggi nello studio di terapie contro malattie del sistema nervoso come l'Alzheimer e il morbo di Parkinson».
Il motivo?
«Più le cellule staminali sono giovani, più hanno potenzialità replicative. Il che vuol dire che una volta trapiantate possono garantire un effetto terapeutico più duraturo ».
Ma da dove nasce l'idea di creare una fetal cell bank?
«Dal novembre del 2005 è in corso un progetto simile all'Università di Pittsburgh. È stata chiesta la disponibilità di migliaia di tessuti fetali di muscoli, pancreas, fegato, polmoni, ossa e prostata. La materia, poi, è stata anche disciplinata lo scorso luglio dalla Spagna».
In Italia c'è un vuoto normativo?
«Non c'è una legge specifica, ma la questione è già stata esaminata sotto il profilo etico dal Comitato nazionale per la bioetica».
L'accusa che viene mossa al suo protocollo è proprio quella di non rispettare le indicazioni del 2005.
«Nella rielaborazione della proposta che sarà ripresentata entro aprile al Comitato etico saranno superati i punti critici».
In che modo?
«Il consenso alla donazione del feto sarà chiesto alla donna solo dopo l'interruzione di gravidanza, in modo da non interferire con la legge 194. Sarà escluso qualsiasi utilizzo commerciale dei tessuti fetali».
Nel Centro di risorse biologiche del Policlinico, comunque, ci sono già la cord blood bank (banca di sangue placentare), la cell factory (unità di manipolazione cellulare a scopo terapeutico) e la biobanca italiana per i materiali biologici. È proprio necessario creare anche una fetal cell bank?
«È un progetto su cui lavoriamo da tre anni. Nel tentativo di avere il più ampio ventaglio possibile di campioni di tessuti da affidare alla custodia della biobanca, rimuovendo ogni concetto di proprietà».
Riesce a spiegarsi il perché delle polemiche che hanno investito il suo protocollo?
«Ripeto: sono convinto che i problemi saranno archiviati. La principale differenza rispetto ad altri casi di utilizzo di materiali abortivi è che qui si fa riferimento specifico anche all'aborto volontario. Il progetto, però, non riguarda la 194, ma semplicemente l'uso a scopo di ricerca di tessuti fetali».
Viene messa sotto accusa anche l'idea di conservare in modo sistematico i feti degli aborti senza indicare un progetto mirato e legato a un numero limitato di campioni fetali, come ha fatto, per esempio, l'istituto neurologico Besta per il morbo di Huntington.
«Ma mi impegno fin d'ora a sottoporre al Comitato etico del Policlinico tutti i progetti scientifici che riguarderanno l'uso delle cellule staminali fetali».
Simona Ravizza Il centro
Paolo Rebulla (nella foto a lato) nel suo laboratorio al Policlinico e, sopra e a destra, due componenti della sua équipe al lavoro nella «Biobanca» milanese In piccolo, a sinistra,

Corriere della Sera 22.3.08
Salta il ciclo di conferenze. Il Giappone: una sua rinuncia
Tokio nega il visto a Negri E lui: «È una persecuzione»
di Gianna Fregonara


ROMA — Indesiderato. «Anche se non credo di essere una persona pericolosa, né per il mio passato che è una storia che ho compiuto in modo pieno, né per le mie idee». Toni Negri, biglietto aereo già in mano, mercoledì non è riuscito a partire per Tokio. Mancanza di visto. Peccato però che il visto non sia necessario per i cittadini italiani che vanno in Giappone, se non per lavorare. «Eppure me l'hanno chiesto, due giorni prima di partire. E quando mi sono precipitato all'ambasciata di Parigi mi sono trovato davanti questa sorpresa: avrei dovuto presentare la documentazione della mia vicenda processuale e le sentenze degli anni 80. Venticinquemila pagine, non un certificato e basta. Non ho avuto la possibilità di farlo». E dunque niente viaggio, niente conferenze in giro per il Giappone. L'ex leader di Autonomia Operaia, oggi considerato uno dei pensatori della galassia altermondista, si è rifugiato al mare per una vacanza, lasciando a Parigi anche il computer: «È una provocazione incomprensibile. Una persecuzione. Sono cose che non succedono più, sono stato in 22 Paesi negli ultimi cinque anni (da quando ha chiuso il debito con la giustizia ndr) ».
«Non abbiamo rifiutato il visto a Toni Negri, ma è stato il signor Negri che, spontaneamente, durante il processo di acquisizione dei dati per il visto, ha rinunciato ad averlo», precisa l'ambasciata giapponese a Roma.
C'è chi ha azzardato che dietro il ripensamento di Tokio ci sia il giro di vite in vista del G8 che si terrà nella terra del Sol levante quest'estate: «Ma ormai — replica Negri — anche in America sta perdendo forza lo spirito neoconservatore. Lì ci sono stato senza problemi».
Tant'è: Negri ha dovuto rinunciare al suo prestigioso tour che l'avrebbe portato all'Università di Tokio, di Kyoto, Kobe, all'Accademia di Belle arti e alla International House, che lo aveva invitato. Che ci fosse qualcosa nelle prolusioni «del cattivo maestro» che ha insospettito le autorità? I testi delle sue conferenze sono già in Giappone per essere tradotti: «Non credo proprio, non hanno nulla a che fare con la politica attiva », si difende Negri.
Tutto comincia un anno fa con l'invito dell'International House. Sei mesi dopo partono le operazioni burocratiche, ma assicurano
Chi è
Toni Negri parlamentare radicale in un'immagine degli anni 80. Con Oreste Scalzone nel 1967 ha fondato il gruppo Potere operaio.
Arrestato nel '79 ha subito un processo per reati legati al terrorismo. Dopo l' esilio in Francia, è rientrato in Italia nel 1997
da Tokio «non ci vuole il visto », perché, racconta Negri, «sarei stato ospite senza percepire compensi». Il 17, due giorni prima della partenza una nuova mail dal Giappone, la corsa all'ambasciata. Invano. All'ultimo minuto gli organizzatori del viaggio tentano una mediazione: «Basta un'autocertificazione in cui si afferma di non essere stato un detenuto semplice, ma un detenuto politico». Ma non è così.
Ed essendo il Giappone il Paese coinvolto, viene in mente la vicenda opposta di Delfo Zorzi, l'ex militante di Ordine Nuovo processato (e assolto) per la strage di piazza Fontana e ancora sotto inchiesta per piazza della Loggia: dal 1989 è diventato cittadino giapponese e non viene estradato: «Non si faccia alcun parallelo. Io ho scontato 11 anni di carcere. Sono innocente e non ho mai ucciso. Basta con queste storie di stragismo di destra e di sinistra. Chi fa paralleli è un mistificatore ». Ma per il viaggio bisognerà aspettare ancora.

Corriere della Sera 22.3.08
Film e letteratura horror: perchè hanno tanto successo
Il nostro cervello ha bisogno di mostri
Ci crediamo? E' un fenomeno etologico
di Danilo Mainardi


La prima volta che si parlò del mostro di Loch Ness fu nel 1871, quando un certo signor Mackenzie credette d'aver visto, sulla brumosa superficie del Loch omonimo, un lago scozzese, qualcosa muoversi stranamente e a differenti velocità, e da ciò suppose che un essere mostruoso si nascondesse in quelle acque fino ad allora praticamente sconosciute. Fu questa l'origine della leggenda che ha poi goduto sempre d'un'ottima salute in quello che si definisce come l'immaginario collettivo. E il mostro (Nessie per gl'intimi) piace sempre di più. A riprova di ciò è il successo che ha accolto la recente proiezione negli Usa dell'ennesima pellicola, intitolata appunto «The Water Horse: legend of the deep» (Sony Columbia Pictures), film che da pochi giorni è presente anche nelle nostre sale cinematografiche. E siccome piacerà anche da noi, è prevedibile che ciò rinfocoli anche in Italia il dibattito tra quelli che all'esistenza del mostro vogliono assolutamente credere e quelli che, al contrario, non ci credono per niente.
La storia di Nessie è, a ogni modo, scientificamente interessante, o per lo meno istruttiva. Essendomi capitato (avendo partecipato a una puntata dedicata all'argomento della trasmissione televisiva «Enigma » di Corrado Augias) di analizzare con attenzione la documentazione sul presunto mistero, inizierò affermando, in tutta sicurezza, che il mostro non esiste né, verosimilmente, mai è esistito. Potrebbe, ben che vada, trattarsi d'un grosso pesce. Quanto alle cosiddette prove, esistono solo foto, in parte certamente taroccate, dove si scorgono strane macchie, un po' di schiuma, niente di più consistente. Davvero poco come evidenze concrete. Abbiamo però le testimonianze, e quelle sì che sono tante. Molte sono le persone che asseriscono d'aver visto qualcosa. Due naturalisti, Sir Peter Scott e Robert Rines, hanno immaginato che il mostro fosse una specie di foca, cui hanno regalato il nome scientifico di Nessiteras rhombopteryx. A ogni modo, a nessuna persona di buon senso non può che risultare evidente che, siccome nessun animale può perpetuarsi nel tempo stando solo, occorrerebbe ipotizzare l'esistenza, almeno, d'una piccola popolazione di mostri, questa sarebbe sicuramente stata identificata. Inoltre, nel tempo, avrebbe dovuto lasciare consistenti tracce biologiche.
Il mistero vero, pertanto, sta soprattutto nel perché tante persone (anche non considerando quelle interessate agli ovvi vantaggi per il turismo locale) continuino a credere all' esistenza del mostro e, soprattutto, perché molti abbiano sostenuto d'averlo addirittura visto. Aiuta un fenomeno etologico che si chiama «costruzione dell'immagine di ricerca» che consiste nel fatto che, se un predatore si specializza nel catturare una preda, poi è in grado di percepirla anche in un ambiente dove un essere non specializzato mai la coglierebbe. Bastano pochi segni, pochi tratti emergenti, e quel predatore è come se la vedesse, come se l'estraesse dal contesto, completandola poi di suo. Ebbene, noi umani sappiamo fare altrettanto. Così, se per ipotesi andassimo speranzosi al lago provvisti di una immagine culturalmente ereditata, basterebbe una macchia un po' strana, un'altra un po' più in là, e quel mostro potremmo senz'altro pensare di vederlo, perché il suo disegno si concretizzerebbe automaticamente nel nostro cervello. A tutti d'altronde è capitato di credere di vedere una cosa che poi, avvicinandoci, era invece tutt'altra.
Detto ciò, si potrebbe perfino affermare che il mostro, in un certo senso, esiste, e che l'errore sta piuttosto nell'habitat dove insistiamo a volerlo piazzare. In quel loch, cioè, mentre la sua vera casa altro non è che il nostro teatrino mentale. Se poi i teatrini sono tanti, tanto meglio. Come infatti ha scritto Iris Murdoch: «Una storia è vera se ci sono abbastanza persone disposte a crederci». La nostra specie è fatta così, e pertanto anche questa è etologia umana.

Corriere della Sera 22.3.08
Lo scenario Il futuro dell'Occidente, le sfide del mercato, il ruolo della Chiesa e dell'economia: il filosofo critica l'ultimo libro dell'ex ministro
Platone e la globalizzazione
di Emanuele Severino


Si dice: l'Europa si è allontanata dalle proprie radici cristiane, tuttavia, purché lo si voglia, esse possono salvarla già qui sulla terra. Ma si dice anche: nonostante il rinnovato vigore del cristianesimo nel mondo cattolico, e negli Stati Uniti e in Russia, tale rinnovamento appartiene a un processo dove quelle radici sono destinate alla decomposizione e dove la tecnica è la volontà che, al culmine di tale processo, si presenta come la suprema forza salvifica.Sostengo da tempo questa tesi, ma in un senso che però differisce essenzialmente dalle varie forme di tecnocrazia. La prima tesi è invece propria della Chiesa cattolica e di quanti seguono il suo insegnamento. Tra di essi, in Italia, ora anche Giulio Tremonti, nel suo libro La paura e la speranza (Mondadori, pp. 112, e16): per salvare l'Europa serve «una filosofia che ci sposti dal primato dell'economia al primato della politica», «serve una leva» il cui «punto di appoggio può essere uno solo: le radici giudaico-cristiane dell'Europa» (p. 62); e per Tremonti questo discorso «coincide perfettamente » con la dottrina, di Benedetto XVI, che «non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio» (p. 81). Si vuole dunque governare la storia, avere potenza su di essa; e, certo, lungo la tradizione occidentale si pensa per lo più che la vera potenza sia ottenuta alleandosi a Dio. Pertanto Tremonti aggiunge che «il principio della soluzione della crisi europea non sta nella tecnica, non sta nella supposta forza salvifica della tecnocrazia, sta nella politica e nel potere» (p. 62).
Egli non giustifica una così rapida liquidazione della tecnica. Forse perché, come altri, identifica ciò che non è identico: economia (di cui, certo, parla molto) e tecnica. Inoltre, nonostante l'intento di assegnare alla filosofia una posizione fondamentale, l'affermazione che «punto di appoggio» della «leva» filosofica siano le «radici giudaico-cristiane» implica che la filosofia debba fondarsi sulla fede cristiana — la qual cosa, come ho altre volte rilevato ( Corriere, 19 gennaio 2008) è daccapo un principio che, sebbene particolarmente sottolineato dall'attuale pontefice, è tuttavia una resa a quel «relativismo » da cui anche l'ortodossia cattolica di Tremonti vorrebbe prendere le distanze.
Rifacendosi a Platone, egli aggiunge che i marinai non governano il vento, ma le vele. Ma come soffia il vento? I pericoli dell'Europa — risponde — sono la globalizzazione, la conseguente aggressività economica dell'Asia, il «mercatismo» che riduce l'uomo a homo oeconomicus. E invece il pericolo che minaccia la tradizione europea è ben più profondo: il pensiero filosofico degli ultimi due secoli (la cui forza, tendenzialmente nascosta, dev'essere peraltro capita) mostra l'impossibilità di ogni valore eterno, a cominciare da Dio. Per le radici cristiane il pericolo è ancora maggiore: sin dall'inizio «Europa» è la volontà (si chiama «filosofia») di vedere come stanno le cose al di là del volere, proprio delle religioni, che esse stiano in un certo modo. Tremonti afferma invece che per salvare l'Europa si devono «conservare valori che per noi sono eterni», i valori cristiani (p. 87). Lo afferma in modo oscillante, perché i valori eterni intendono essere leggi che guidano e muovono la vita umana, mentre per lui è da respingere il principio «comunista» (e della sinistra europea) che «la vita degli uomini sia mossa e possa essere mossa da una "legge"» e tanto meno da una «legge assoluta» (p. 35). Eppure le leggi marxiane della storia hanno la stessa assolutezza della Provvidenza, della coscienza morale, delle «leggi di natura», concetti centrali del cristianesimo.
Per salvare l'Europa, egli dice seguendo il pontefice, si deve «governare la storia», aver «potere» su di essa. La salvezza è potenza. (L'impotente non si salva; chi si salva o chi salva è potente). E la potenza è la capacità di superare i limiti che ostacolano la volontà. Ma i «valori eterni» sono i limiti assoluti, che più degli altri ostacolano la volontà di potenza e di governo della storia. Eccoci al tratto decisivo: se l'essenza della filosofia degli ultimi due secoli mostra l'impossibilità di ogni valore eterno, la volontà di potenza che scorge questa impossibilità è più potente e da ultimo è inevitabilmente vincente rispetto alla volontà di potenza che invece non scorge quella impossibilità e crede, illudendosi, che la maggiore potenza sia data da Dio. Se la salvezza dell'Europa è una questione di potenza, allora la salvezza può farsi avanti solo se ci si allontana dalla tradizione europea, dunque solo se si recidono le radici giudaico-cristiane dell'Europa. Questo processo è già in atto. Certo, esiste lo sbandamento attuale dell'Europa (a cui anche Tremonti si riferisce). Il quale è però la conseguenza del fatto che anch'essa si trova in mezzo al guado: tra la sponda della tradizione occidentale e la sponda della volontà di potenza vincente. Che non è l'economia di mercato, ma la tecnica guidata dalla scienza moderna.
Anche il capitalismo intende essere un valore eterno (mi sembra che anche Tremonti lo ritenga tale, pur rifiutandosi di vedere in esso l'unico valore). Non può quindi sentire la voce che mostra il tramonto di ogni valore eterno. Sono un valore eterno, nel capitalismo, l'individuo, la proprietà privata, la libertà e la sua applicazione al mercato, la concorrenza (il cui fondamento è la riduzione della potenza dei concorrenti, con la conseguente riduzione della potenza globale a disposizione dell'uomo), il carattere escludente della volontà capitalistica (come di ogni altra forma di volontà della tradizione occidentale), cioè il carattere per il quale il tipo di potenza voluta (cioè un mondo capitalistico) esclude la realizzazione di altre forme di potenza (cioè un mondo comunista, cristiano, democratico, ecc.). Nonostante le crisi, il capitalismo sembra oggi vincente perché si serve della tecnica. È inevitabile che per continuare a vincere voglia rafforzare sempre più lo strumento che gli consente di vincere. Ma con questa volontà il capitalismo non assume più come scopo l'incremento indefinito del profitto, ma l'incremento indefinito della potenza della tecnica. Inevitabile quindi che, rinunciando al proprio scopo, rinunci a se stesso, ossia perda proprio perché vuole vincere. Rinuncia a se stesso anche quando si vuole che l'economia sia guidata dalla politica e la politica dalle radici cristiane, come dice Tremonti — e in questo modo egli non si avvede (peraltro in compagnia dei più) che se il «bene comune» cristiano, cioè la potenza e la salvezza date da Dio, diventa lo scopo del capitalismo, il capitalismo e l'uso capitalistico della tecnica cessano di vivere. Il capitalismo, comunque, non è la tecnica.
Se la salvezza è una questione di potenza, l'Europa si salva alleandosi non alla potenza di Dio, ma a quella della tecnica — qualora quest'ultima ascolti la voce della filosofia del nostro tempo. Ma è anche inevitabile che la ascolti, perché ascoltandola raggiunge la maggiore potenza — che d'altra parte non è data dalla semplice fede nell'inesistenza di Dio. E se anche per Tremonti non tutto ciò che è tecnicamente fattibile è moralmente lecito (p. 67), va rilevato che questa morale è l'adeguazione ai valori eterni, e quindi declina col loro declinare. La morale autentica è oggi l'adeguazione alla maggiore potenza, che non può più essere quella di Dio, ma è quella della tecnica. (Né con ciò abbiamo detto l'ultima parola sul destino della tecnica).
Questo libro di Tremonti identifica la «sinistra » con il vizio capitale del «mercatismo», ma non chiude la porta a una politica di «grossa coalizione» (p. 87). E qui non sbaglia, perché sinistra e destra restano accomunate, anche a livello mondiale, dalla persistente incapacità di comprendere il senso autentico della destinazione della tecnica al dominio, cioè il senso autentico di ciò che possiamo chiamare «la grande politica». La politica può modificare il contesto immediato del proprio agire, ma, ancora, sta andando contro il vento dell'Occidente: o ha fede nelle radici cristiane, oppure ha fede nella modernità, nella scienza, nella tecnica, senza affrontare la tradizione europea ma voltandole semplicemente e ingenuamente le spalle. Il pensiero non dice che cosa i popoli o l'Europa debbano fare, ma mostra che cosa sono destinati a volere.