mercoledì 26 marzo 2008

Il Sole 24Ore 26.3.08
Aborto
Scontro tra Turco e Formigoni sulle linee guida per la "194".


Continua il braccio di ferro tra la Lombardia ed il ministero della Salute sul terreno minato dell'aborto. Proprio oggi approda in Conferenza Stato-regioni l'accordo sulle linee guida per applicare la legge 194, già bocciate nella precedente riunione della Lombardia che a fine gennaio ha approvato le sue indicazioni regionali. E ieri, alla vigilia del nuovo incontro, lo scontro si è riacceso: "Livia Turco - ha detto il governatore lombardo, Formigoni - deve smetterla di farsi pubblicità elettorale con le bugie, la Lombardia ha respinto il suo documento perchè lesivo della nostra autonomia ed arretrato dal punto di vista scientifico e sanitario".
Pronta la replica del ministro della Salute: "L'atto di indirizzo non è affatto lesivo delle linee guida della Regione Lombardia - ha spiegato Turco -. Formigoni non l'ha letto perchè, in caso contrario, avrebbe visto che c'è una premessa che contiene la valorizzazione di tutte le iniziative fatte a livello regionale". "Personalmente apprezzo le linee guida della Regione Lombardia - ha concluso il ministro - si tratta quindi di un pretesto politico". Ma Formigoni non fa sconti: "La Turco pensa che abbiamo l'anello al naso e da buon vecchio comunista falsifica la realtà". E aggiunge polemicamente: "Se bastasse una frasetta per salvaguardare l'autonomia regionale, il federalismo già trionferebbe in Italia". Insomma il via libera per l'accordo, su cui serve il consenso di tutte le Regioni, sembra essere sempre più in salita. Il testo punta alla prevenzione dell'aborto anche attraverso l'uso della contraccezione, a cominciare dalla pillola del giorno dopo.

l'Unità 26.3.08
Turismo sessuale: l’Italia e il record della vergogna
di Luigi Cancrini


Sono ottantamila ogni anno i nuovi turisti del sesso in cerca di minorenni e gli italiani sono in testa alle classifiche
Riuscirà la politica a occuparsi di questa vergogna?

Ottantamila ogni anno i nuovi turisti del sesso in cerca di minorenni: in Asia e nei Carabi, in Kenia ed in Mongolia. Sfidando le leggi e le più elementari riserve morali. Utilizzando la complicità dei tour operator più spregiudicati ma utilizzando soprattutto il web e la possibilità di organizzare (pregustare?) tutto da casa. Con gli italiani in testa alle classifiche come raccontava ieri in una serie di servizi, atroci e ben documentati, il Corriere della Sera riportando i pareri autorevoli (e lo scoraggiamento doloroso) dei rappresentanti dell’Unicef e delle altre organizzazioni che in tutto il mondo si battono nel tentativo di arginare un fenomeno orrendo e, apparentemente, inarrestabile.
Difficile non riflettere, nel momento in cui ci si trova di fronte a dati come questi, sul modo in cui la vita del nostro Villaggio Globale è condizionata in modo sempre più pressante dalla potenza del dio denaro. I bambini vittime di sfruttamento sessuale a Santo Domingo, scrive Gabriela Jacomella, sono almeno 35.000 e chiunque può portarseli a letto per un pugno di dollari, dai 10 ai 30 (dai sette ai quindici euro): per un turista il prezzo di una cena, per un dominicano la paga di una settimana. Il che spiega insieme, purtroppo, il perché dell’abbandono in cui questi bambini sono lasciati da genitori (più spaventati, forse, che avidi) ed il perché del boom di un turismo sessuale in cui tutte queste cose ci si possono permettere spendendo poco o con la prospettiva, magari, di guadagnarci perché molti sono i turisti che filmano le loro “avventure”. Pronti, domani, a metterle in rete: en amateur e su siti peer to peer come si dice adesso ma anche a pagamento. Con un rischio davvero minimo, alla fine, di essere intercettati se il fenomeno è ormai così diffuso da rendere del tutto casuale l’intervento di una polizia che non può battere di continuo l’intero spazio (sconfinato) di internet.
«Dormo sulla spiaggia, qui arrivano i clienti, dice Josia, dodici anni, che vogliono rapporti orali o sesso por atrás». Abusi sessuali comunque, nel nome per lui di una quantità di denaro che vale la paga di una settimana del padre o della madre e nel nome, per chi gliela dà, di una mancia. Segnalando, con una forza simbolicamente straordinaria, che cosa è ancora oggi l’oppressione che l’uomo può esercitare su un altro uomo (sul suo bambino o sulla sua bambina) «Son nostre figlie/le prostitute/che muoion tisiche/negli ospedàl», cantavano da noi gli anarchici alla fine dell’Ottocento prima che la capacità di organizzarsi dei lavoratori mettesse dei limiti alle miserie e agli orrori del capitalismo selvaggio. Muoiono di Hiv invece che di tubercolosi i bambini oggetto del turismo sessuale di oggi costretti a darsi «por atrás», senza profilattici nella metà dei casi (secondo l’Unicef), dalla furia più che bestiale di questi brutti rappresentanti all’estero del nostro Paese e della nostra cultura. E uguale mi sembra, tuttavia, la ragione economica della sottomissione di quelle che erano allora le figlie degli operai e di quelli che sono oggi i bambini dei poveri in una fase della storia del mondo in cui il capitalismo (che selvaggio, quando può, non smette mai di essere) si è trasformato (dichiaratamente, abilmente e spregiudicatamente,) in impresa sopranazionale: globalizzata e globalizzante. Senza che ci siano più un Marx o un Engels, però, capaci di chiamare a raccolta, perché si uniscano contro i loro sfruttatori, tutti gli sfruttati del mondo.
Se questo è il problema dal punto di vista economico (o, forse, politico), quello che va affrontato è però anche l’altro versante, quello relativo ai “turisti”. Di cui sappiamo dall’inchiesta che non sono “pedofili” (malati, cioè, di pedofilia in quanto obbligati dal loro interno a fare sesso solo con dei bambini) o vecchietti più o meno “bavosi” ma uomini e donne, fra i trenta e i cinquanta, efficienti, manageriali, sportivi, dal reddito e dal livello culturale “alti”. Uomini e donne, cioè, che cercano semplicemente (o non tanto semplicemente) una occasione di piacere in più o una esperienza comunque diversa, capace di farli sentire insieme potenti (“faccio tutto quello che voglio”) e abbrutiti (“mi faccio un po’ schifo”): nel modo in cui più o meno ci si sente, forse, dopo una piccola orgia quando il sesso viene “arricchito” dall’alcool o dalla cocaina. Su linee che sono quelle, insomma, del bisogno indotto e di un consumismo che può alienare completamente l’uomo da se stesso. Contro cui giusto è, sicuramente, muoversi sul piano repressivo perché questo è l’unico modo, in fondo, per riproporre a tutti l’esistenza del limite oltre cui non si può andare. Contro cui quella che si dovrebbe riuscire a mettere in moto, tuttavia, è soprattutto una grande, violenta ondata di indignazione collettiva: capace di collegare il fatto (lo sfruttamento sessuale del minore) alla sua ragione particolare (la violenza dello sfruttatore) e sociale (la violenza della prevaricazione dell’uomo ricco di denaro e di potere).
Faremo ancora politica un giorno su questi temi? Usciremo ancora dall’agenda sempre più soffocante che ci allontana ogni giorno di più dalla Politica vera? Davvero le categorie che più continuano a sembrarmi utili, mentre mi guardo intorno e ragiono su un mondo in cui è così difficile riconoscersi, mi sembrano ancora quelle dell’analisi portata avanti da Marx nei suoi Manoscritti del 1844 e da quelli che per tanto tempo (l’ultimo è stato Attali nel suo bel libro su di lui, Karl Marx. Ovvero, lo spirito del mondo) hanno continuato a credere nel fatto che la storia ha un senso e delle finalità poste molto al di là delle aspirazioni del singolo.

Corriere della Sera 26.3.08
Quei corpi seducenti di marmo e di bronzo Così il fascino ellenico conquistò l'Occidente
di Roberta Scorranese


Non chiedetevi perché il corpo bianchissimo di quella Venere vi stordisce; non stupitevi se il torso levigato di quel giovane vi soggioga e se, davanti a quella testa riccioluta di ragazzo un po' sfrontato, non trovate le parole. La forza del bello non spiega: travolge.
Seduce con l'irripetibile equilibrio armonico delle statue, il vigore controllato dei bronzi, la potenza visiva delle centoventi opere di scultura antica in mostra da sabato a Palazzo Te, a Mantova. E l'arte greca (ri)conquista l'Italia, armata della sola «Forza del bello». Come fece dal VII secolo a. C., quando questa stessa bellezza irretì gli Etruschi prima e i Romani poi. «Ammutolirono— precisa Salvatore Settis, celebre archeologo e curatore dell'esposizione —. Consoli, generali, oratori, si inchinarono tutti e la Grecia divenne un modello di bellezza e perfezione».
La stessa perfezione che sedusse i Gonzaga: a fine Quattrocento, l'insaziabile desiderio di «cose antique» di Isabella d'Este promosse una larga diffusione di opere classiche nelle corti lombarde. Lo stesso Andrea Mantegna ne trasse un insegnamento importante. Ecco perché Mantova e le stanze nude e sobrie di Palazzo Te sono l'intelaiatura ideale: qui marmi e bronzi osservano lo spettatore con l'imperturbabilità dei vincitori. O con l'eleganza di una nudità etica, come nel Kouros Milani (520-510 a.C., qui ricongiunto alla testa), che inaugura la prima sezione: corpo teso, giovane, fatto per vincere nella corsa, per superare il nemico. Per superare persino un dio. «Statue fatte per educare — dice la curatrice, l'archeologa Maria Luisa Catoni — corpi intrisi di valori morali».
Non era importante che quella statua fosse bella: era importante che il corpo fosse bello. Riproducevano non il soggetto, ma il valore. La bellezza aveva vita a sé e la forza del bello nasce anche da questa autarchia etica. Nel fascino irriverente del giovanetto di Mozia (470-450 a.C.), quasi impaziente nelle linee nervose dei muscoli, sembra di risentire il monito del poeta Mimnermo: «Per un tempo brevissimo godiamo i fiori della giovinezza». L'antica Italia dei contadini e dei guerrieri impallidì di fronte alla supremazia estetica. E i Romani saccheggiarono: si ricercavano autentici e si commissionavano copie. La «Graecia capta» quindi oggi rinasce a Mantova nell'Afrodite Sosandra, impenetrabile in una simmetria di vesti; nell'Apollo di Piombino, simile a un angelo bestemmiatore.
Più tardi, la fama dell'arte greca divenne leggenda. «Dante, Petrarca e altri — dice Settis — nominavano Policleto senza averne mai visto un'opera. Era un modello ideale di perfezione». Tramandati dalla letteratura, visto che nel Medioevo dello splendore antico era rimasto poco: i bronzi erano diventati armi, i gessi calce. L'economia spicciola della sopravvivenza aveva vinto sulla gloria imperitura della bellezza? No: la fama continuava a vivere. Eppure, per secoli, l'arte greca venne assimilata a quella romana e, prima che l'archeologo tedesco Johann J. Winckelmann, nel '700, le restituisse la sua «nobile semplicità e serena grandezza», in Europa nacquero primordi di una ricerca «scientifica» della grecità. Tra collezionisti e ricercatori di antichità.

Corriere della Sera 26.3.08
Le due civiltà. L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti
E Roma si divise sullo stile «alla greca»
di Eva Cantarella


La critica di Plinio: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...»

Nel 167 a. C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, «decise di visitare la Grecia — racconta Livio — per vedere quelle bellezze che erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio umano potesse contemplare». I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello aveva fatto sfilare nelle strade della città, durante il trionfo, le opere d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In età precedente, scrive Strabone, i romani, «presi da cose più grandi e più necessarie, non avevano mai prestato attenzione alla bellezza». Ma poi le cose cambiarono. Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: è ingiusto ed egoista, scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo). Roma non era più quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di quel che vedevano nella loro città: come Emilio Paolo, volevano visitare la Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa su Toro di Pitagora di Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi... ». Ma la Grecia era diventata il luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a Cornelio Nipote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i romani condividevano questo amore.
Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea, Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era basata sulla proprietà terriera. Molti esponenti di questa nobiltà stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio: l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova cultura che rischiava di corrompere lo stile di vitache aveva fatto grande Roma. Il secondo secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte tendenze: da un lato i tradiziona-listi, il cui maggior esponente era Catone il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobiltà (celebre quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in particolare quella greca, era indispensabile perché Roma potesse svolgere il suo nuovo compito.
Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza culturale greca, definita da Cicerone «un fiume impetuoso di civiltà e di dottrina» ebbe il sopravvento.
Graecia capta — scrisse Orazio — ferum victorem cepit: la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro debiti verso i greci.
Tutto era cambiato: le abitazioni, più ampie, aperte a giardini e paesaggi; i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era costante: a Pompei, sulle pareti della «Casa del Menandro» erano raffigurate le scene più celebri dell'Iliade; nella «Casa del Poeta Tragico» il sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto ciò premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni originalità. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana, certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma comunque romana.

Liberazione 26.3.08
Roma, viaggio coi movimenti nella città che lotta per i beni comuni
Bertinotti: «Occupare e requisire case sono atti di umanità»
di Checchino Antonini


Da Trastevere a Cinecittà: quattro tappe emblematiche nel disagio abitativo, ieri a Roma, per Fausto Bertinotti, candidato premier, a bordo del bus panoramico della Sinistra l'Arcobaleno. Un tour nel disagio abitativo di una metropoli «così poco europea - sottolinea Patrizia Sentinelli, coordinatrice della campagna elettorale - con quello striminzito 3% della spesa pubblica destinato all'edilizia popolare». E con numeri esorbitanti per misurare il dramma casa. 35mila persone nella graduatoria non aggiornata da troppo tempo, 7 anni fa erano il 30% in meno mentre, in 5 anni, sono state assegnate solo 2mila case. Il dramma cresce al ritmo di 30 sentenze di sfratto al giorno, 20 delle quali per morosità e 10 sfratti reali al giorno, 2mila l'anno. In 15mila hanno fatto richiesta per il buono casa e 70mila famiglie stanno per accendere un mutuo per via delle dismissioni degli enti parapubblici. «C'è fame di case ma a canoni sostenibili», spiega Guido Lanciano dell'Unione inquilini, accompagnando Bertinotti all'interno dello stabile comunale di Trastevere, sottratto 19 anni fa alla speculazione dalla prima esperienza di autorecupero, quella da cui è scaturita la legge regionale. Ora gli occupanti sono assegnatari e altre 200 famiglie romane sono alle prese con l'autorecupero. «E' un esempio concreto di come si può evitare di cementificare costruendo comunità», dice l'assessore uscente alle periferie, Dante Pomponi, cogliendo l'elemento di solidarietà delle lotte. Infatti, quello di Bertinotti sarà un tour nel disagio ma anche all'interno delle «esperienze più significative di movimento», spiega lui stesso a Liberazione al termine di un pomeriggio dedicato all'incontro e all'ascolto. «Conta molto il rapporto con il municipio e con le esperienze di democrazia partecipata, come le occupazioni o le requisizioni. Qui emerge ciò che la politica nasconde: le storie di resistenze già poste in atto».
Ha visto, Bertinotti, gli inquilini sotto sfratto del cinema Maestoso. Palazzo pregiato, citato su molti testi di architettura. Da Assitalia è passato a una sigla collegata a una società in cui figura Galliani nel Cda. E che, per «valorizzare l'area», vuole caccia persone e sala. Paradossi della città del megafestival del cinema. Susi Fantino (Prc), presidente del municipio, ha provato a requisirlo - ossia, per Bertinotti, a «ripristinare un minimo di legalità» - ma il Tar ha detto che non può farlo nemmeno il sindaco. In tanti hanno spiegato le vertenze di altri stabili cartolarizzati, di affitti che si sono moltiplicati e superano salari al palo, di attese interminabili di assegnazioni, prima che il bus con cui la Sinistra vuole osservare la città e farsi notare, muova verso Cinecittà passando davanti agli striscioni, sulla Tuscolana, della prima occupazione di donne. Donne sole, donne vittime di violenza, e i loro bambini. Sandro Medici, altro "minisindaco" requisitore, spiega la vicenda delle 141 famiglie di Via Marchisio hanno assistito alla svendita delle loro case, da Assitalia (ancora) a un imprenditore di Isernia che con 100mila euro e 4 ipoteche è riuscito a far lievitare i prezzi da 800 a 3500 euro al metro quadro di case costruite con fondi pubblici per famiglie a basso reddito. Rendita pura. «Dov'è l'intelligenza del mercato se lascia vuote le case e le persone senza casa?», si domanda Bertinotti riprendendo un'osservazione di Andrea Alzetta, per tutti Tarzan, candidato di Action al Campidoglio, con cui partecipa all'assemblea finale del tour, nella piazza Don Bosco di fronte a mille persone. Tarzan incalza: la nuova sinistra sarà un cartello di partiti o qualcosa di più? «Serve, eccome, la sinistra diffusa, deve trovare casa nelle sedi dei partiti e nei centri sociali e nessuno dovrà avere una parola in più - s'è sentito rispondere - le liste sono il frutto di un passaggio imperfetto ma il cammino ricomincia».

Liberazione 26.3.08
Perché anche voi parlate di voto utile? E' un modo per far polemica
Perché devo votare Sinistra? Per ricostruire
risponde Piero Sansonetti

Caro Piero, leggo dalla pagine di "Liberazione", nella tua risposta ad una lettrice, le seguenti parole: «il voto utile alla fine è quello per La Sinistra Arcobaleno». Con tutta la sincerità avrei preferito non leggere quella frase. Sono molto deluso e ho molte perplessità, proprio come quelle esternate nel suo articolo da Alessandro Dal Lago, ma a differenza di lui sono ancor indeciso. Ho una domanda senza risposte e questa mancanza non mi permette di capire se effettivamente la Sinistra L'Arcobaleno possa essere il futuro per la sinistra italiana. La frase che ti contesto, potrebbe essere una risposta indiretta alla mia domanda, ma commetterei un errore gravissimo se mi lasciassi trasportare dalla delusione. Ho ancora qualche settimana per trovare (forse) una risposta, ma comunque vada avrò la certezza che il mio voto sarà indiscutibilmente utile.
Francesco Bertolini Milano

Caro Bertolini, l'uso dell'espressione «voto utile» - pensavo francamente che si capisse - era un modo per prendere in giro la campagna degli altri. Sai, è difficile credere che chi sostiene una forza che nel migliore dei casi può aspirare al 10 per cento dei voti, possa usare come argomento elettorale l'utilità o l'inutilità del voto. Non ti pare? E' chiaro che ogni voto è utile. Io, addirittura, credo che la campagna per il voto utile sia una campagna di tipo autoritario, antidemocratico. L'idea che esista un voto inutile è una idea assolutamente totalitaria.
Nella risposta che ho dato ieri alla lettera di una lettrice, alla quale tu fai riferimento, svolgevo un ragionamento del tutto tecnico sulle possibilità che Berlusconi risulti senza maggioranza in Senato. E dimostravo (o cercavo di dimostrare) che paradossalmente in alcune regioni, come il Lazio, Berlusconi sarà danneggiato soprattutto dal voto ai partiti più piccoli. Tra questi partiti, ovviamente c'e La Sinistra l'Arcobaleno - e di qui lo slogan ironico sul voto utile - ma, figuriamoci, c'è anche Casini e persino - e soprattutto - la destra di Storace. Non credo che tu possa pensare che volessi fare propaganda a Storace, no?
Poi, mi sembra di capire, tu fai un'altra obiezione, o domanda - assai più pesante e complicata - a proposito dell'editoriale di Dal Lago che abbiamo pubblicato ieri. Era intitolato "Sinistra, sono deluso ma ti voto". Dal Lago elencava tutti i motivi della sua insoddisfazione. Che poi sono semplicemente i "punti" decisivi della sconfitta subìta dalla sinistra in questi ultimi due anni. Caro Francesco, sono convinto, come Dal Lago e come te, che la sinistra è stata sconfitta. E che ora dobbiamo ripartire dalla presa d'atto di questa sconfitta, per costruire qualcosa di nuovo: una politica nuova, nuovi legami di massa, una strategia nuova e io credo anche una nuova forza politica. E per questo penso che abbia una certa importanza che la Sinistra ottenga un discreto risultato elettorale, o un buon risultato elettorale. Perché mi sembra che un buon risultato elettorale renderebbe meno difficile l'opera di ricostruzione. Che serva un'opera di ricostruzione è indubbio. Ciascuno, è chiaro, ha una sua idea su come debba essere questa opera, e di questo bisognerà discutere. Con le forze che oggi stanno dentro l'Arcobaleno e con tante altre forze, che sono fuori, e magari vanno alle elezioni con liste diverse da quella che io voterò. Vuoi sapere se considero inutile un voto che non sia per l'Arcobaleno? Certo che non lo considero inutile, e comunque lo considero molto più utile di un voto per il Pd o per la destra.
Piero Sansonetti

martedì 25 marzo 2008

l’Unità 25.3.08
Pdl-Pd separati da 5 punti, si decide nelle regioni in bilico
Da Swg l’ultima percentuale di distacco.


CINQUE PUNTI Sarebbe questo il vantaggio percentuale del Pdl sul Pd, stando all’ultimo sondaggio realizzato da Swg per Affari Italiani.it. La rilevazione è stata
effettuata giovedì 20 marzo. Il distacco è rimasto invariato rispetto a dieci giorni fa. Popolo della Libertà-Lega Nord-Mpa si attesta al 43%, mentre il 10 marzo oscillava tra il 42,5 e il 43. Nel dettaglio: il Pdl vale il 35,5% (era 34,5-35), il Carroccio è sceso al 6,5% dal precedente 7 e l’Mpa è fermo all’1%. Partito Democratico più Italia dei Valori è al 38% (era tra il 38 e il 38,5%). Il Pd da solo è al 34,5% (34-34,5 il 10 marzo), mentre l’Idv di Di Pietro è scesa al 3,5 dal 4%. In rialzo la Sinistra Arcobaleno al 7,5% rispetto al precedente 6,5-7. Stabile l’Unione di centro di Casini (5,5%), La Destra ottiene il 2,5% dei consensi (era tra il 2 e il 2,5). Il Partito Socialista è fermo all’1% e il Partito comunista dei lavoratori vale lo 0,5%. Allo 0,5% anche Aborto? No, Grazie di Ferrara. «La settimana appena trascorsa non evidenzia significativi cambiamenti - spiega Roberto Weber, presidente di Swg - ma osserviamo un rallentamento della tendenza degli elettori a premiare le due maggiori coalizioni; una lieve ripresa della Sinistra, che pur restando largamente al di sotto del potenziale di voto aggregato del 2006 sembra per la prima volta rallentare l’emorragia in uscita; una situazione di stallo per l’Udc; un incremento seppure lieve (ma che ne testimonia la vitalità) de La Destra». Swg ricorda però che «le ultime due settimane di voto si rivelarono decisive sia nelle politiche del 1996 (accelerazione vincente di Prodi), del 2001 (recupero di Rutelli), e del 2006 (grandissimo recupero di Berlusconi)».
Molto dipende da come andrà nelle cosiddette regioni in bilico: Liguria, Marche, Calabria e Sardegna. Stando a quanto sostenuto da Roberto D’Alimonte, docente di Sistema politico italiano all’Università di Firenze, che, sul «Sole 24 ore» ha analizzato l’ultima rilevazione Cise. Rilevazione da cui emerge che al Senato ci sarebbero solo tre gruppi, Pdl, Pd e Lega perché alla Sinistra arcobaleno andrebbero solo 7 seggi e all’Udc 4, non sufficienti per formare un gruppo. Secondo tale rilevazione, il Pdl potrebbe ottenere 167 seggi al Senato con un margine di maggioranza di 9 senatori. Il risultato però sarebbe in bilico in almeno quattro regioni, dove lo scarto tra i due maggiori partiti sarebbe inferiore al 2%: Liguria, Marche, Calabria, Sardegna. C’è poi l’incognita del Lazio, dove c’è attesa per il risultato della «Destra» di Francesco Storace, che «potrebbe costare a Berlusconi il premio di maggioranza e, combinato con il superamento della soglia da parte dei partiti minori, dai 5 ai 9 seggi».
Stando invece a un sondaggio di tutt’altro genere -effettuato dall’istituto Demopolis dal 10 al 18 marzo su un campione rappresentativo dei cittadini maggiorenni-, il 42% degli elettori andrebbe a cena con Silvio Berlusconi, il 33% con Walter Veltroni. Per una vacanza al mare, lo scenario cambia. È Pier Ferdinando Casini ad aggiudicarsi le preferenze degli italiani (28%) e delle donne in particolar modo, seguito da Daniela Santanchè (25%) e da Silvio Berlusconi (21%).

l’Unità 25.3.08
Nell’inferno degli schiavi bambini
di Johann Hari


In Asia ogni giorno un milione di bambini viene venduto e comprato

A Dacca ci sono 300.000 bambini di strada che vivono (e muoiono) per conto loro

Questa è la storia della tratta degli schiavi-bambini nel XXI secolo. Il mio viaggio nel mondo di questo particolare tipo di malavita ha avuto inizio dove più numerosi sono i bordelli e le prostitute: in Asia, dove stando alle stime delle Nazioni Unite ogni giorno un milione di bambini viene venduto e comprato.
Il viaggio mi ha portato in luoghi che non pensavo potessero ancora esistere: una prigione sotterranea in una zona di confine del Bangladesh dove regna la malavita e dove i bambini vengono segregati dietro le sbarre in attesa di essere condotti nei bordelli in India; un postribolo di ferro dove le donne hanno trascorso una intera vita di violenze sessuali; una clinica dove curano bambini di 11 anni malati di sifilide.
Ma la nostra storia comincia come tutte le storie: con una bambina e una bugia. Sufia si avvicina per parlarmi in un centro di recupero per bambini finanziato da «Comic Relief». Sufia finora ha parlato della sua drammatica esperienza solo con le assistenti del centro. Ma vuole che il mondo sappia quanto le è capitato.
Entra nella stanza avvolta nel suo sari rosso con delle grosse borse nere sotto gli occhi, sorprendenti per la sua età. Parla della sua esperienza lentamente, quasi con un filo di voce. Sufia è cresciuta in un villaggio vicino a Khulna, nella regione sud-occidentale del Bangladesh. I suoi genitori erano contadini e lei aveva sette fratelli e sorelle. «I miei genitori non potevano permettersi di badare a me», mi dice. «Non avevamo nemmeno il denaro per comprare da mangiare».
E qui arriva la bugia. Quando Sufia aveva 14 anni, una vicina disse ai suoi genitori che poteva trovarle un buon lavoro a Calcutta come collaboratrice domestica. Avrebbe vissuto bene, avrebbe imparato l’inglese e avrebbe avuto un futuro tranquillo. «Non stavo nella pelle dalla felicità», mi dice Sufia. «Ma appena siamo arrivate a Calcutta ho capito che c’era qualcosa che non andava. Non sapevo cosa era un bordello, ma capivo che la casa dove mi aveva portato era un brutto posto. Le donne indossavano abiti succinti e c’erano uomini dall’aspetto poco rassicurante che entravano ed uscivano». La vicina di casa in cambio di Sufia intascò 50.000 takka, circa 600 euro. Poi le disse di fare ciò che le avrebbe ordinato e scomparve.
A questo punto il lento monologo di Sufia si arresta. Volge lo sguardo dall’altra parte mentre continua a dondolarsi sulla sedia. Poi continua: «non potevo uscire. Dovevo vedere 10 uomini al giorno». Un’altra lunga pausa. «Prima d’allora non sapevo nulla degli uomini. È stata una cosa spaventosa».
Ha visto quanto accadeva in quel posto alle donne più grandi. Vengono costrette a «dare alla luce un figlio». Le loro figlie vengono allevate per fare le prostitute-schiave. Dopo tre mesi due altre ragazze imprigionate in quel postribolo le dissero che avevano un piano per fuggire. Intendevano mettere da parte i sonniferi che venivano distribuiti ogni sera - per impedire loro di singhiozzare, di lamentarsi e di respingere i “clienti” - per poi metterli nelle bevande dei loro carcerieri e così darsela a gambe.
Il piano funzionò. «Non avevo la minima idea di come orientarmi in città, ma loro erano delle ragazze sveglie», dice Sufia. Quando finalmente rivide la casa dei genitori fece un proposito: «non dirò mai alla mia famiglia cosa è accaduto. Dissi ai miei che avevo lavorato come cameriera e che mi erano mancati troppo. Non posso mai parlare con nessuno della mia esperienza, a parte la gente di qui. Se lo facessi nessuno mi sposerebbe e arrecherei disgrazia alla mia famiglia e la mia vita sarebbe distrutta».
Sa che deve sottoporsi al test dell’Hiv. Ha già fissato l’appuntamento due volte, ma non ce la fa. Non vuole sapere.
Sufia è stata venduta a una banda organizzata che commercia in esseri umani in tutti i continenti e che vende carne umana in cambio di denaro. Questa gente continua ad operare - e, a differenza di Sufia, la maggior parte delle donne non riescono a fuggire.
Sul lato di una strada sterrata a Jamalpur, una cittadina del Bangladesh, c’è un cancello di ferro. All’interno un labirinto di fragili baracche con il tetto in lamiera e all’interno di ciascuna baracca una donna in attesa.
Seduta sul letto dentro una delle baracche trovo Beauty, una donna di 34 anni. Quando le dico che vorrei mi parlasse della sua vita, mi sorride perplessa. «Mio cognato mi ha venduto allo sfruttatore quando avevo 13 anni», mi spiega. «Un giorno mi ha portato via e mi ha condotto qui. Al mio arrivo lo sfruttatore mi ha frustato e mi ha detto che non dovevo mai uscire dal bordello. Ero distrutta. Odiavo questo posto. Continuavo a pensare alla mia famiglia, a mia madre e piangevo in continuazione. Ma lo sfruttatore mi frustava continuamente e mi diceva che dovevo lavorare».
Ha avuto uno squarcio di felicità a 19 anni. Uno degli uomini che frequentava regolarmente il bordello le disse che si era innamorato di lei e le chiese di sposarlo. Pagò una somma di denaro per portarla via e ricondurla al suo villaggio natale da sua madre e da sua sorella. Era stato il sogno di Beauty: «pensavo di tornare ad una vita felice e normale». Ma la sua famiglia la respinse. Avevano sentito dire che faceva la prostituta - suo cognato aveva detto a tutti che era stata una sua libera scelta - e così «mia sorella mi tormentava, mi insultava, mi prendeva in giro e la gente del villaggio mi evitava». Dopo un po’ anche suo marito si stancò di lei e la rivendette al bordello. «Smisi di mangiare», mi racconta. «Volevo morire». Ed eccola qui. Sa che non potrà mai avere né un marito né una casa. Il suo destino è quello di essere evitata da tutti.
Fuori del bordello queste donne hanno una sola strada: diventare essere stesse delle sfruttatrici, mettere su un loro bordello e «guadagnarsi» la liberta’. Ma Beauty mi dice che non può farlo: «No, no... odierei essere una “madam”. Sono un cattiva ragazza, ma non fino a quel punto». Si passa le mani tra i capelli e aggiunge: «so che è triste. È la storia della mia vita. Non un granché, vero?».
Non è difficile ricostruire le rotte dei trafficanti. Il confine tra India e Bangladesh è un lungo fiume dalle acque increspate. Mentre me ne sto in prossimità del confine posso vedere davanti a me la più popolosa democrazia del mondo, mentre alle mie spalle ci sono prigioni con le sbarre di ferro dove vengono tenute le ragazze del Bangladesh prima di essere vendute in India.
Tutta la gente del luogo lo chiama apertamente il «luogo dei trafficanti». Non si nascondono nemmeno. È inutile chiamare la polizia, mi ripetono gli abitanti del villaggio, perché i poliziotti sono sul libro paga dei trafficanti. Mi reco alla più vicina stazione di polizia - un bellissimo edificio di marmo bianco circondato da lussureggianti aiuole molto ben curate - per fare qualche domanda.
Il vice-ispettore, un ufficiale sulla trentina in divisa marrone e un sorriso tranquillo, mi fa segno di “no” agitando al mano. «Non ho commenti da fare su questa faccenda», mi dice. Che vuol dire che non ha commenti da fare? Sicuramente la mia non è una domanda difficile. «Non ho intenzione di parlarne», e questa volta il suo tono di voce è più deciso.
Vi meravigliate allora se tutta le gente della vostra comunità pensa che prendiate le bustarelle? L’ufficiale di polizia accusa il colpo. «Hanno un problema di atteggiamento. Sono poveri e se la prendono con chiunque per i loro problemi», e scoppia a ridere.
Dacca, la capitale del Bangladesh, è una città assordante, rumorosa, caotica che mette a dura prova la vista l’udito, tutti i sensi. In questa megalopoli di 14 milioni di abitanti stipati come sardine, basta gettare lo sguardo in una qualunque strada affollata per essere bersagliati da più stimoli sensoriali di quanti in genere ce ne arrivano in una settimana.
Vistose auto occidentali sono bloccate nel traffico accanto a veicoli scassati e arrugginiti. Povere, eteree vagabonde si aggirano tra le automobili con i figli in braccio e la mano tesa per chiedere l’elemosina. Gli operai camminano tenendo in equilibrio sulla testa carichi enormi. Bambini sono impegnati a lavorare con la macchina da cucire sui tetti delle case. Donne pesantemente truccate ti chiedono 10 takka per farti vedere il serpente danzante nascosto nella scatola di legno che portano legata al collo. Uomini aggrappati agli autobus urlano ai padroni dei risciò che urlano ai pedoni che urlano parlando al cellulare.
Tutto questo accade accompagnato da un assordante rumore di fondo, una sorta di “melodia di Dacca”: lo strombazzare dei clacson delle auto, il cigolio dei risciò, le campanelle e le continue urla della gente.
In mezzo a questo tremendo caos ci sono 300.000 bambini di strada che vivono (e muoiono) per conto loro. Dormono a piccoli gruppi nella zona portuale, intorno alla stazione degli autobus o negli edifici in costruzione sparsi in tutta la città. Sono il sogno dei trafficanti, prede senza difesa.
Seduto sul ponte in prossimità del porto trovo Mohammed e la sua piccola banda di amici. Ha 14 anni, indossa una sudicia camicia di cotone dozzinale e ha la zazzera incolta. Dimostra 10 anni tanto il suo corpo è scarno e scheletrico. Sulla caviglia ha un adesivo della serie Pokemon e lui e i suoi amici accettano di farmi vagabondare insieme a loro per tutta la giornata.
Mohammed sta insieme agli altri bambini da quando è fuggito a Dacca nella speranza di ritrovare sua madre che era stata costretta a lasciare i figli con la matrigna per andare a lavorare e mandare i soldi a casa.
Trascorrono le ore del giorno vagando per le strade di Dacca, raccogliendo pezzi di carta straccia e mettendoli in un sacco. Se la raccolta va bene, alla fine della giornata possono rivendere la carta per 10 takka - circa 15 centesimi di euro sufficienti a comprare un pasto e qualche spliff (NdT, canna con il tabacco).
Si lavano nelle acque fetide e puzzolenti del fiume e forse per questo Mohammed non fa che grattarsi il braccio infettato dalla scabbia. Qualche volta riescono a risparmiare qualche spicciolo per vedere un film - i suoi preferiti, mi dice, sono i film d’azione hollywoodiani e i film musicali di Bollywood.
Tutte le sere si mettono fuori dei ristoranti per rimediare qualche avanzo - e poi cercano di rubare qualcosa al mercato ortofrutticolo. Mi portano lì a mezzanotte, nell’unico luogo illuminato di una città avvolta dalle tenebre. Il mercato ortofrutticolo è una norme città brulicante di persone dove migliaia di venditori eseguono una sorta di danza gli uni intorno agli altri trasportando sulla testa in apposite ceste montagne di patate e oceani di cavoli e mercanteggiando con i dettaglianti e con i proprietari di ristoranti. Mentre seguo la banda di ragazzini che rubacchia qualche frutto sono attratto dall’odore del peperoncino rosso e degli agrumi.
Poi finalmente, alle tre del mattino, si adagiano in un angolino vicino al porto e si preparano a dormire. I sacchi che usano per raccogliere la carta diventano rudimentali sacchi a pelo e si stringono gli uni agli altri per proteggersi dal freddo. Nel porto ci sono migliaia di bambini e famiglie che passano la notte all’addiaccio.
I ragazzini fumano uno spliff e ingoiano qualche sonnifero che hanno comprato. «Se siamo fatti non proviamo troppo dolore se arrivano i poliziotti e ci bastonano», mi spiegano. «So di aver rovinato la mia vita», aggiunge Mohammed. «So di essere un ragazzaccio e so che non uscirò mai di qui. Non ho speranze, non ho futuro. Cosa pensi che dovrei fare?». E d’improvviso mi rendo conto che la sua non è una domanda retorica. Mi sta sinceramente chiedendo consiglio.
La paura dei trafficanti di carne umana aleggia sulla testa di questi bambini come una minacciosa nuvola carica di pioggia. Il solo momento in cui Mohammed tradisce le sue emozioni è quando ricorda una ragazzina di nome Muni che era sua amica.
Un giorno di giugno dell’anno scorso, quando aveva nove anni e mezzo, un vecchio l’ha avvicinata e le ha detto che se l’avesse seguito le avrebbe trovato un buon lavoro. La piccola ha rifiutato ben sapendo cosa accadeva ai bambini quando andavano con queste persone. Ma lui l’ha portata via con la forza. Gli altri ragazzini hanno tentato di dirlo alla polizia, ma i poliziotti li hanno cacciati via.
Il corpo della piccola è stato trovato tre giorni dopo: era stata violentata e strangolata. Mohammed è convinto che l’hanno uccisa perch si è rifiutata di farsi ingannare dalle bugie dei trafficanti e di farsi portare in un bordello e si è difesa con tutte le sue forze.
Mohammed ha bisogno di dormire. Si deve svegliare tra quattro ore per cominciare a raccogliere la carta straccia. Uno dei ragazzi deve rimanere di guardia - «ma è difficile», dice. Gli chiedo cosa gli piacerebbe avere da grande pensando che mi risponderà come fanno di solito i bambini che sognano di avere un macchinone lussuoso. «Avere?», mi chiede. «Vorrei avere mia madre». E ciò detto sorride amaramente e chiude gli occhi.
C’è un piccolo gruppo di cittadini del Bangladesh che ha visto rapire i propri figli dai mercanti di carne umana e che ha deciso - come Muni, con i suoi piccoli pugni - di difendersi e di reagire. Sono finanziati da Sport Relief e dipendono dalle donazioni in denaro dei cittadini britannici.
Ishtiaque Ahmed è un intellettuale che - snocciolando una interminabile serie di numeri e statistiche - mi racconta come ha creato «Aparajeyo» (Imbattuti). È una delle principali organizzazioni che nel Bangladesh lottano contro la tratta dei bambini e delle bambine da avviare nei bordelli. Organizzano scuole nelle strade e offrono un rifugio ai bambini che sono stati fatti oggetto di violenze ed inoltre pagano un esercito di bambini recuperati dalla prostituzione che vanno in giro per la città ad insegnare agli altri bambini come difendersi dai trafficanti. Combattono la schiavitù salvando un bimbo per volta.
Faccio la loro conoscenza all’ultimo piano di un grattacielo trasformato in casa di accoglienza per bambini e bambine violentati che sono riusciti a fuggire. Sembra un posto come tanti altri con numerosi bambini che giocano e strillano. Per un momento non sono prede, sono solo bambini.
Una ragazza piuttosto alta con gli zigomi sporgenti sta cantando. Mi stringe la mano e dice di chiamarsi Shelaka e di avere 16 anni. Poi, scegliendo con cura la parole e senza alcuna timidezza mi racconta come è finita qui.
È cresciuta in un villaggio a tre ore da Dacca e ha sempre amato cantare. «Cantare è la sensazione più bella del mondo», mi dice. Ma arrivata alla pubertà i suoi religiosissimi genitori le dissero che non stava bene che una ragazza musulmana cantasse e che non doveva più pensare a questi «stupidi sogni».
«Se mi mettevo a cantare mi picchiavano», mi racconta. E così decise di fuggire in città per poter continuare a cantare. Vendette la sola cosa che possedeva - l’orecchino ornamentale al naso - e comprò un biglietto dell’autobus diretto a Dacca. Arrivata in città chiese dove era la scuola di canto. Si aggirò per le strade e quando si fece notte una venditrice ambulante di dolciumi le disse che poteva dormire a casa sua. Shelaka la seguì perché la venditrice ambulante le era sembrata una persona gentile. Ma una volta arrivati a casa della signora, si presentò il padrone di casa con alcuni delinquenti. Shelaka fu sequestrata e tenuta prigioniera per tre mesi e costretta ogni giorno a prostituirsi fin quando la venditrice ambulante la aiutò a fuggire. Vagando per le strade capitò per caso dinanzi ad una delle scuole dell’organizzazione «Aparajeyo» e lì fu accolta ed ospitata.
Vive qui da tre anni e continua ad essere aiutata e seguita. Le piace molto. «Sono come una bella famiglia». È iscritta all’Accademia del Bangladesh dove studia canto. Mi chiede se può cantare per me e la sua voce - pur in mezzo ad un frastuono di clacson e di campanelle dei risciò - è calma, bella e pura.
Una delle più belle realizzazioni di «Aparajeyo» si trova nelle enormi e degradate periferie di Khalijpur. In una minuscola stanzetta umida fatta di fango e di lamiera, trovo Rehana, una donna di 33 anni con la fronte piena di rughe. Mi racconta di come suo fratello ha venduto suo figlio per 3.000 takka - poco più di 30 euro. Rehana sapeva da anni che suo fratello era un mercante di bambini. «Mi vergognavo», dice. «Trafficava in bambini perché era povero, ma questo non lo giustifica».
«Andare alla polizia era inutile», mi dice. «I poliziotti erano tutti corrotti». Ma poi nel 2005, proprio il giorno della festa di Eid, suo marito litigò con suo fratello. Due giorni dopo suo fratello andò a prendere suo figlio di sei anni, Shamsul, alla moschea e lo vendette. Non contento di questo derise suo cognato dicendogli che suo figlio si trovava ormai in un bordello in India. «Sono impazzita, sono impazzita», mi racconta. «L’ho cercato dappertutto. Ho passato tutta la giornata a girare per le strade chiamandolo per nome. Non riuscivo a credere a quanto mi stava succedendo».
Dopo due anni di disperazione, Rehana vide un annuncio su un giornale. L’annuncio era stato messo da «Aparajeyo» e diceva: conoscete questo bambino? «Era Shamsul», mi dice commossa. La polizia l’aveva trovato che vagava per le strade e lo aveva affidato all’istituto. Non conosceva né il suo nome né l’indirizzo di casa.
«Quando l’ho riabbracciato era magrissimo e piangeva di continuo», mi dice la madre. «Se non mi vedeva accanto a lui si metteva subito a piangere. Faceva delle cose stranissime: fissava il sole fino al tramonto. Ma il fatto di averlo potuto ritrovare è stato meraviglioso».
Shamsul si aggira per la casa mentre il sole tramonta alle sue spalle. Lo zio che lo ha venduto è sparito. Rehana è convinta che gestisca un traffico di bambini da qualche altra parte. «I trafficanti non abbandonano mai il loro mestiere», mi dice. «Io ringrazio Dio ogni giorno per il fatto che ci sono persone come quelli di “Aparajeyo” che lavorano per fermarli».
Suo figlio si siede sulle sue ginocchia. Almeno un bambino sottratto ad una vita di violenze sessuali. Passa la mano tra i capelli della mamma e con l’altra mi allunga una pallina viola e sorride.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 25.3.08
Dopo «Sex, crimes and Vatican», documentario Bbc, e in attesa del processo a don Gelmini, Vania Lucia Gaito raccoglie in un libro le voci delle vittime
La Chiesa e il crimine della pedofilia: anche per il nostro Paese è il momento della verità
di Emiliano Sbaraglia


«Crimen sollicitationis» è la direttiva che dal ‘62 ha tacitato lo scandalo

Ricostruzione molte volte esemplare attenta ai gesti alle parole all’ambiente

Dal 13 marzo è in libreria Viaggio nel silenzio. I preti pedofili e le colpe della Chiesa (chiarelettere, pp.273, €13), un’inchiesta che colpisce cuore e stomaco del lettore, scritta da Vania Lucia Gaito, collaboratrice del blog di controinformazione «Bispensiero» per il quale, nel maggio del 2007, ha sottotitolato il documentario trasmesso per la prima volta dalla Bbc dal titolo Sex, Crimes and Vatican, al centro di una infuocata puntata di Anno Zero sul tema della pedofilia negli ambienti e tra i rappresentanti del mondo cattolico. Un dramma sociale, oltre che etico e morale, che ora questo libro colloca senza vie di fuga anche nel nostro paese, toccato nel profondo attraverso una serie di testimonianze dirette aumentate in maniera esponenziale in questo ultimo anno.
La realtà dei fatti è stata tenuta nascosta dal Vaticano per decenni, grazie soprattutto allo strumento del Crimen sollicitationis, documento scritto in latino, dunque destinato in primis soltanto agli «addetti ai lavori» (come nelle migliori abitudini della peggiore tradizione ecclesiastica) attraverso il quale, a partire dal 1962, le autorità ecclesiastiche recapitano ai vescovi di tutto il mondo una sorta di vademecum, con l’intento di non rendere pubbliche notizie e informazioni che potrebbero mettere sotto accusa di pedofilia preti e altre categorie clericali, almeno fino a quando ad indagare non sia stata per prima la Chiesa stessa; di questo documento, per circa vent’annim si è principalmente occupato l’allora cardinale Ratzinger, verificandone il funzionamento e il rispetto da parte dei vescovi dei dettami in esso contenuti.
Qualcosa sembra si stia finalmente muovendo in direzione della scoperta di molte verità sinora occultate, e una dimostrazione ne è anche la pubblicazione di questo volume, che raccoglie con impressionante meticolosità le voci le storie di coloro che hanno avuto la forza e il coraggio di superare paure e rimozioni più o meno volontarie, per raccontare i particolari agghiaccianti di vite per sempre segnate da terribili esperienze, fisiche e psicologiche.
Pescando nel torbido bosco delle numerosissime testimonianze contenute nel libro, si incontra tra le altre la vicenda che ha coinvolto Don Gelmini, tornata alla ribalta delle cronache nazionali pochi mesi fa. A proposito della quale si ricordano anche le strenue difese che alcuni organi di informazione hanno ospitato, come quella di Vittorio Messori, che su La Stampa dell’undici agosto scorso non aveva remore nello scrivere frasi di questo tenore: «E allora? Se Don Gelmini avesse toccato qualche ragazzo? E poi su quali basi la giustizia umana santifica l’omosessualità e demonizza la pedofilia?» (p.44).
In questa Italia così tanto impegnata a difendere i valori della vita sin dal suo concepimento, forse sarebbe il caso di porre una certa attenzione e impegnarsi con la stessa solerzia anche a difesa della sorte di tanti bambini e adolescenti, colpiti e violentati nel corpo e nella mente da chi del loro corpo e della loro mente dovrebbe occuparsi in ben altro modo.
Una battaglia tanto sofferta quanto complessa, che il lavoro di Vania Lucia Gaito dimostra essere non più rinviabile a data da destinarsi.

l’Unità 25.3.08
Perché la depressione non è un tema elettorale?
di Luigi Cancrini


La London School ol Economics ha dedicato uno studio ampio e rigoroso al problema dei disturbi depressivi ed ansiosi nel Regno Unito. Le osservazioni rese possibili da questa ricerca permettono di guardare da un punto di vista del tutto nuovo un problema su cui vale la pena di riflettere. Anche in campagna elettorale.
Partendo da una rilevazione epidemiologica, i ricercatori notano prima di tutto che i disturbi depressivi ed ansiosi possono essere verificati in una persona su sei della popolazione normale. Parlando di famiglie, una su tre ha a che fare con questo tipo di diagnosi. Una percentuale molto alta di questi pazienti, d’altra parte, non viene curata in modo adeguato. Con ripercussioni economiche assolutamente drammatiche per l’intero Paese perché «la perdita di produzione legata ai disturbi depressivi ed ansiosi, un insieme di disturbi che si verificano soprattutto nella popolazione attiva, arriva a circa 12 miliardi di sterline l’anno: una cifra che corrisponde all’1% del prodotto interno lordo dell’intero Paese»: un dato, come si vede, che non dovrebbe interessare più solo gli specialisti ed i loro pazienti ma anche, e forse soprattutto, i ministri dell’Economia e i leader politici. Pensando soprattutto al fatto per cui offrire una terapia adeguata a tutti questi pazienti costerebbe, secondo i ricercatori della London School ol Economics, solo 0,6 miliardi di sterline: il 5% esatto, cioè, di quello che viene perso non curandoli o curandoli male.
La sorpresa proposta dallo studio di un gruppo di ricercatori che osserva “da fuori”, sulla base di criteri che sono soprattutto economici, quello che sta accadendo nel mondo da sempre un po’ speciale della pratica psichiatrica, è quella, tuttavia, che riguarda quelle che debbono (dovrebbero) essere ritenute «le cure adeguate» da offrire a questo tipo di pazienti. Come ben documentato da ricerche sempre più convergenti anche da noi in Italia (Panorama del 20 Marzo ne ha proposto di recente una sintesi estremamente efficace) i cambiamenti di cui c’è bisogno per aiutare una persona che sta male a riprendere un normale stile di vita (dal punto di vista della London School ol Economics, la sua capacità di produrre) non sono quelli, a volte brillanti ma sempre o quasi sempre di breve durata, che si ottengono con gli psicofarmaci antidepressivi ma quelli, a volte più lenti ma sempre assai più stabili, che si ottengono con il lavoro psicoterapeutico. Gli studi clinici su cui si basa la valutazione di efficacia dei farmaci antidepressivi (gustosa anche se assai amara è, su questo punto, sempre su Panorama, la confessione di uno psichiatra “pentito” che avrebbe partecipato alla diffusione fra i suoi colleghi di notizie “troppo positive” di un noto farmaco a base di “venlafaxina”, una delle specialità più vendute anche da noi) sono studi che verificano gli effetti della cura a 30-60 giorni del suo inizio mentre gli studi più serii, quelli che portano avanti l’osservazione per 6-24 mesi, documentano una percentuale molto alta di recidive per i pazienti trattati con gli psicofarmaci. Come ben dimostrato, del resto, dalla tendenza sempre più diffusa fra i sostenitori dell’orientamento farmacologico a parlare di «malattia da curare per tutta la vita in quanto destinata a durare con alterne vicende (le ricadute, n.d.r.) per tutta la vita»: assicurando un reddito che dura tutta la vita al medico e all’industria ma poca o nessuna speranza di guarigione al paziente.
Prendendo sul serio i dati di una ricerca che lui stesso aveva promosso per capire quello che era meglio fare (in altri Paesi anche questo accade, che un governo si affidi a dei ricercatori invece che al dibattito e allo scontro politico per fare scelte di politica sanitaria) il governo inglese ha deciso in queste settimane di utilizzare i dati di questa ricerca stanziando 170 milioni di sterline per un programma, ampio e ben coordinato, di formazione degli psicoterapeuti (che mancano perché da loro, dove la psicoterapia non è regolamentata, ce ne sono assai meno che da noi dove le strade per diventare psicoterapeuti sono state tracciate da quasi 20 anni) e di sostegno al pagamento delle loro prestazioni. Un piano di cui sarebbe urgente discutere anche da noi in Italia, dove eravamo arrivati, nel momento in cui la crisi di Governo ha interrotto una legislatura troppo breve, alla approvazione, in Commissione Affari Sociali alla Camera, di un testo di legge sulla psicoterapia convenzionata che ci permetterà, se ci sarà volontà politica, se riusciremo a renderlo operante nella prossima legislatura, di andare rapidamente, usando risorse e terapeuti che ci sono, nella stessa direzione.
Gli esperti di economia e di sanità con cui parlando di psicoterapia mi è capitato di parlare in questi anni hanno sempre guardato con una certa incredulità (o con una certa sufficienza) all’idea per cui le psicoterapie possono essere utili ad un servizio sanitario nazionale oberato da troppe spese inutili determinando, addirittura, se ben utilizzate, una risalita del Pil. Lo studio della London School ol Economics potrebbe forse indurli a riflettere un po’ di più su un argomento che finora avevamo trascurato. Suggerendo idee e proposte un po’ più articolate e realistiche di quelle gridate finora dai protagonisti di una campagna elettorale fra le più generiche della storia repubblicana.

Repubblica 25.3.08
Processo allo Stato
Antigone cosa ci resta delleroina di Sofocle
Un dramma fra politica ed etica
di Franco Cordero


La tragedia di Sofocle si fonda sul principio che la legge non incarna valori assoluti. E che l´unico scudo contro le sbornie dogmatiche è l´analisi critica
Una scelta implica rischi. L´importante è spendersi per la soluzione meno dubbia
La donna è un´antagonista del tiranno, cerca "luminosa gloria" a costo della vita
L´eroina greca si scaglia contro un comando iniquo in nome di norme immutabili

Antigone è testo canonico della retorica giusnaturalista: l´eroina ignora l´iniquo comando (lasciare insepolto il cadavere del fratello, nemico pubblico); vigono norme divine immutabili; e l´epilogo tristissimo prova quanta ragione avesse. Lettura edificante ma tentiamo glosse meno piatte.
Sofocle compone una trilogia concatenata come le costruiva Eschilo, cominciando dalla fine d´una nera saga familiare, nel cinquantasettesimo anno, 442 a.C.: i precedenti lontani vanno in scena almeno 12 anni dopo (430-425); e racconta la seconda tranche d´eventi novantenne o quasi, rappresentata postuma a cura del caro omonimo nipote, malvisto dal padre. Labdaco è figlio di Polidoro, nato da Cadmo e Armonia, il cui ceppo annovera tre figure olimpiche, Afrodite, Ares, Zeus. Suo figlio Laio, monarca tebano, s´attira la collera d´Era, custode dei matrimoni, con una scandalosa liaison omosessuale: aveva rapito Crisippo, la cui morte desta l´ira d´Apollo; tre oracoli predicono sventura se avesse un figlio da Giocasta. Ne nasce uno e i genitori lo espongono con le caviglie trafitte da un punteruolo, affinché abbia ancora meno chance senza che l´atto sia tout court infanticida, donde Edipo: quello dai piedi gonfi; nome ormai desueto, indicava i Dattili, figli della Terra (le creature del mondo tellurico hanno passi pesanti). Ma sopravvive, allevato come figlio da Polibo e Merope regnanti su Corinto. Ormai uomo, consulta l´oracolo delfico sul suo vero status familiare (un ubriaco gli aveva dato del bastardo). Risposta ambigua, come spesso sono i detti apollinei: rischia d´essere parricida e marito incestuoso della madre; non è chiaro il modo della predizione, assoluta o ipotetica. Tali essendo le prospettive, sta lontano da Corinto. Andava a Delfi anche Laio, per sapere se sia ancora vivo quel figlio pericoloso: lo incontra in una strettoia; irrompe il carro regio; lo junior ha riflessi pronti; offeso dalla soperchieria, colpisce col bastone quel prepotente lasciandolo stecchito. Gli succede Creonte, fratello della vedova. Tempi funesti. La Sfinge, mandata da Era, imperversa col suo enigma, divorando i défaillants: c´è un animale con quattro, due o tre gambe; quante più sono, tanto meno rapidi i movimenti. Creonte offre regno e mano della vedova a chi liberi Tebe. Vi riesce Edipo identificando il mutante nell´uomo: dapprima locomotore su mani e ginocchia; poi diventa bipede; vecchio e curvo, usa anche un bastone. L´oracolo s´è compiuto: Edipo re, parricida e marito della madre; non lo sanno; e dalle nozze sciagurate nascono quattro figli, Polinice, Eteocle, Antigone, Ismene.
Tale l´antefatto quando Tebe soffre d´una misteriosa peste; secondo Delfi, consultato da Creonte, il miasma dipende dal vecchio regicidio: l´epidemia finirà quando abbiano scoperto il colpevole. Edipo indaga; s´è pubblicamente impegnato; interroga Tiresia, vecchissimo indovino cieco (ancora adolescente, aveva visto nuda Atena); lo sente reticente e insiste; l´alterco svela quasi tutto; non rendendosene conto, fiuta un complotto le cui fila tiri Creonte, ma confida dubbi angosciosi alla madre-moglie raccontando i precedenti, incluso l´evento mortale nella collisione dei carri. L´arrivo d´un messo da Corinto innesca le agnizioni finali: era solo figlio adottivo del Polibo, la cui morte costui notifica; l´aveva trovato un pastore sul Citerone e questo testimone vive ancora; lo scovano. I due sventurati non resistono all´orribile verità: Giocasta s´impicca; lui strappa le fibbie d´oro dal cadavere e se le conficca negli occhi. Qui finiva la storia tebana d´Edipo.
Il séguito (terza e ultima tragedia) ha come scenario un bosco presso Atene, santuario delle Eumenidi, già nefaste potenze infernali: arriva mendicando, accompagnato da Antigone; Ismene porta notizie. I fratelli sono in guerra: il minore, Eteocle, s´è impadronito della città; lo spodestato primogenito vuol riconquistarla con l´armata che raccoglie ad Argo. Edipo li maledice: potevano salvarlo; e quando usciva dal delirio autopunitivo, l´hanno espulso; non gli corrano dietro adesso; soccomberanno tutti. Teseo, re ospitale, gli garantisce tutela se qualcuno avesse disegni violenti. Viene Creonte, falso amico, «ghigno subdolo e lingua affilata»: vuol ricondurlo tra le mura, adoperabile quale totem; ha catturato Ismene; prenderà anche Antigone; tiene discorsi ipocriti; possibile che gli ateniesi accolgano un parricida incestuoso?
Falsario arrogante, risponde Edipo, erano sventure incolpevoli. Il coup de main sulle due è fallito. Ultimo appare Polinice, il cui nome definisce l´anima, «uomo dai mille litigi». Miserabile, viene piangendo dal padre che aveva espulso: vuole il suo avallo contro Tebe; gli assedianti saranno sconfitti; i fratelli morranno, uccisi uno dall´altro.
Invano Antigone l´esorta a desistere: tenterà la sorte senza svelare la predizione ai sei condottieri alleati: forse è solo un desiderio del vegliardo che l´avventura finisca così; se muore, le sorelle lo seppelliscano. Zeus tuona: «Mi chiama»; «Andate in cerca del re», ordina Edipo. Solo Teseo lo vede scendere nell´Ade «in una calma sovrumana» (è esperto del sito, essendovi andato con Piritoo): risuona una voce; «Edipo, cos´aspetti?». Le due figliole tornano a Tebe.
La peripezia finisce nella città salva: gli argivi hanno tolto l´assedio; i due fratelli sono morti (le Fenicie d´Euripide la reinventano presentando Edipo sopravvissuto alla battaglia e Giocasta suicida sul cadavere dei figli). Prologo a due voci a proposito dell´editto emanato da Creonte: l´assalitore resti insepolto; sarà lapidato chiunque compia o tenti riti funebri.
Antigone, antagonista del tiranno, parla e posa da virago: Edipo è l´uomo dai piedi gonfi; lei ha l´Io ipertrofico; cerca «luminosa gloria» a costo della vita. Ismene incarna una dolente sensibilità femminile: già sono oppresse dalle sventure familiari; non le aggravi temerariamente; da parte sua subirà la forza iniqua dei vivi chiedendo perdono alle ombre; sarebbe follia sfidarli. Creonte era persona ostica, l´abbiamo visto nella seconda e terza pièce della trilogia.
Tale rimane in vesti regali: qualcuno ha sparso terra sul cadavere, annuncia una delle guardie; e lui sospetta che suoi avversari le abbiano comprate; lo scovino o morranno male. Non avevano visto niente, protesta: comandi e lo giurano; o impugnano un ferro incandescente o passano nel fuoco, due classiche ordalie. Secondo episodio: riappare la guardia, allora penitente, adesso radiosa, spingendo Antigone; «eccola qui»; e racconta come l´abbia sorpresa sul fatto mentre ripeteva l´atto delittuoso; «prendila, fanne quel che vuoi»; confessi il delitto. Non poteva essere ritratto meglio l´homunculus oboediens (ad esempio, i gendarmi dall´aria perbene che sorvegliano gl´imputati nelle fotografie dei dibattimenti post 20 luglio 1944 davanti al Tribunale del popolo nazista, destinati a turpi supplizi). Nel dialogo tra i due congiunti, zio e nipote, pulsano violente antipatie: coatta dal bisogno d´esibirsi, lo provoca (se la paura non chiudesse le bocche, quel gesto sarebbe celebrato); lui non ammette che «sia una femmina a comandare». Nobilmente Ismene confessa una correità morale, rimbeccata dalla sorella: e più che affetto, lo direi egotismo; vuol riempire la scena da sola. «Due pazze», commenta il tiranno, archetipo del potere politico naturalmente ottuso.
Segue un dialogo impossibile col figlio, al quale Antigone era promessa. Gli spiega che fattore distruttivo sia l´anarchia: abbatte gli Stati, sovverte le case, scatena disfatte; l´ordine ante omnia; e «mai cedere a una femmina». D´accordo sui teoremi, risponde diplomaticamente Emone, ma consideri l´altro lato della questione. No, «costei è infetta dal malanimo». I tebani pensano diversamente. Non gl´importa, lo Stato è possesso legittimo del sovrano. Così regnerà nel deserto (corrono gli anni d´oro dell´Atene democratica).
Creonte, sinora raziocinante su premesse dogmatiche, scoppia d´ira: comanda che gliela portino e sia uccisa lì; Emone gli dà del folle e corre via. Servili i coreuti (15 vecchi, organo vocale d´un labile sentimento collettivo). Infine, decide: Ismene esce indenne; Antigone sarà chiusa in una caverna con del cibo; se vuole, Ade la salvi (ancora ordalìa, meno pericolosa della deiectio e rupe Tarpeia, dove al paziente resta una sola chance, che qualche dio lo prenda a volo, rompendo la serie causale). S´è spenta la fiammata dell´inflazione psichica. Antigone esce gemebonda: ecco l´ultimo suo sole; va all´Acheronte, sposa d´Ade; morrà come Niobe, trasformata in rupe; comandi iniqui la mandano nella prigione-tomba; «trascinata così, senza amici né sposo», «mi tolgono questa luce». Creonte taglia corto: la portino via; là dentro può vivere o lasciarsi morire. Il coro rende ossequio al tiranno. Chiude l´autocompianto un´inutile mozione d´affetto: «O Tebe, terra dei miei padri, o celesti progenitori»; «guardate la figlia dei vostri re, che cosa deve patire e da quali uomini», avendo adempiuto un dovere morale.
Siamo allo scioglimento, in lingua aristotelica, catastrofe. L´annuncia Tiresia, àugure, quindi ornitologo: seduto nella specola, ascoltava i rumori d´una zuffa furiosa d´uccelli; fenomeni allarmanti, né riusciva la prova delle fiamme sull´altare. L´insepolto contamina Tebe: gli dèi rifiutano i sacrifici; ripensi gli ordini, insistere sarebbe stupidità arrogante. Creonte sospetta ancora manovre politiche e oracoli venali. A parole, non demorde: il corpo del nemico pubblico rimarrebbe dov´è anche corresse tutto l´oro indiano e le aquile portassero i lacerti infetti alla sede del Padre Zeus; «la mia volontà non è in vendita»; ma le iperboli mascherano un panico religioso ("orghé", "horror", "tremor", ecc.) Le Erinni sono già al lavoro, affermava l´indovino cieco, mai smentito dai fatti. Sia prudente, consigliano i coreuti, meno succubi perché lo vedono malfermo. S´è arreso, dicano il da farsi: Polinice sepolto e Antigone libera, subito; le sciagure arrivano fulminee. L´Esodo, infatti, è una sequela calamitosa narrata dal messo: bisognava cominciare dalla sepoltura, poi aprono la caverna; sale un pianto; Antigone s´era impiccata col lino della veste; Emone l´abbraccia; chiamato dal padre, gli sferra un fendente; l´altro lo schiva, allora si pianta la spada nelle viscere; consumeranno le nozze agl´inferi. Quantum mutatus ab illo: Creonte porta in braccio il figlio e s´incolpa dell´accaduto; era demente, ostinato negli errori.
Particolare notevole: non evoca agenti esterni; ammette una colpa, anzi vergogna sua, mentre era antica abitudine greca disfarsi dell´angoscia causata da stati d´animo funesti proiettandoli; "ate" è il nome mitologico della causalità psichica, vedi l´autodifesa d´Agamennone (Iliade, XIX). Non mendica scuse: scelte personali conducevano al colpo con cui un dio l´ha stordito, del quale parla nella battuta seguente; assurdamente le riteneva giuste. Vistolo sgomento, quindi innocuo, i vecchi calcano la mano: è tardi ormai; doveva convertirsi prima. Non ha ancora toccato il fondo. Il secondo messo porta l´ultima notizia funesta: è morta anche Euridice, sua moglie, trafiggendosi; e l´ha maledetto attribuendogli la morte dei due figli (l´altro era Megareo, caduto su una delle porte: lo nomina Eschilo nei Sette a Tebe). E storia nera quella d´Edipo e famiglia; compendiamola in una massima dell´autocrate convertito: i conati umani sono «dolorosi e inutili». Antigone sconta i Todestriebe acuiti dall´Io gonfio: inseguiva la «bella morte»; gliel´aveva detto anche Ismene («vai, innamorata dei morti, se così hai deciso»: Prologo). Insomma, era predestinata al suicidio.
In sede etica e politica semina idee capitali, talvolta fraintese, questo trentaduesimo dramma con cui Sofocle vince il concorso dell´anno 442 a C.: lo Stato non incarna valori assoluti, anzi cova grovigli d´interessi impuri; siamo animali deboli, con midolla manipolabili, vedi quel coro pieghevole, quindi l´unico scudo contro le sbornie comunitarie è l´analisi critica. Chiunque li detti, i dogmi non meritano il sacrificium intellectus, tanto meno quando servano interessi riconoscibilmente particolari, né vigono criteri infallibili, tali non essendo nemmeno le asserite leggi divine: siccome ogni scelta implica rischi, l´importante è spendersi nella ricerca della soluzione meno dubbia, secondo la misura dei talenti individuali; nessuno creda d´essersi salvato l´anima con un torpido mimetismo. Sotto quest´aspetto la mancata sposa d´Emone tramanda un archetipo ammirevole.

Repubblica 25.3.08
Aborto, testamento biologico, due temi per una battaglia di civiltà
Come si decide della propria vita
di Ignazio Marino


"Qual è l´obiettivo della moratoria proposta da Ferrara: rendere illegale l´interruzione volontaria di gravidanza sarebbe un gravissimo errore"

Nell´intervenire sul recente dibattito scatenato dalla proposta di Ferrara di una moratoria sull´aborto devo necessariamente fare ricorso alla mia esperienza personale di medico. Anche se la mia specializzazione, la chirurgia dei trapianti, non ha direttamente a che fare con l´ostetricia e la ginecologia, quando, da studente e poi da giovane medico, frequentavo il pronto soccorso del policlinico universitario dove studiavo (...) ho visto morire donne per emorragia o per l´infezione che seguiva all´aborto clandestino. Ho visto negli stessi anni anche delle giovani ragazze, che avevano maggiori possibilità economiche, rivolgersi a una casa di cura romana, Villa Gina, tristemente famosa per gli aborti clandestini, e altre forse ancora più benestanti che, invece, si recavano a Londra, perché in Inghilterra esisteva già una legge sull´aborto. Quindi io credo – e su questo mi sono confrontato anche con persone di fede e con visioni della vita differenti – che uno Stato laico debba necessariamente avere una legge sull´aborto. Anche il cardinal Martini, in un dialogo pubblicato sull´Espresso nell´aprile del 2006, ha affermato che uno Stato laico non può non avere una legge sull´aborto e che la questione di coscienza è diversa rispetto alla legislazione di uno Stato laico.
Le prime a soffrire profondamente di fronte all´aborto sono proprio le donne che si trovano ad affrontare nella loro vita un momento così difficile e drammatico, e certamente né Giuliano Ferrara né io né altri uomini possiamo anche solo lontanamente immaginare la sofferenza e il dolore, fisici e psicologici, che un evento di quella natura possa portare nella vita di una donna. E, d´altra parte, penso che in un mondo ideale l´aborto (intendo dire l´interruzione volontaria di gravidanza, che ovviamente è cosa diversa dall´aborto terapeutico) non dovrebbe esistere. Devo affermare però che questa idea della moratoria nei confronti dell´aborto mi lascia molto confuso e mi chiedo: qual è l´obiettivo di questa moratoria? È, forse, quello di rendere illegale l´interruzione volontaria di gravidanza e quindi tornare all´aborto clandestino? Forse non sono così intelligente da capire qual è l´obiettivo finale, ma certamente, se fosse quello di abolire una legge equilibrata come la 194 dalla giurisprudenza del nostro paese, sarebbe un gravissimo errore.
Non sono però d´accordo con la proposta, lanciata proprio dalle pagine di MicroMega, di abolire l´obiezione di coscienza sull´aborto. Chi crede in una vita che supera la nostra condizione materiale, nei confronti dell´embrione riterrà giusto il principio di precauzione. E uno Stato laico deve rispettare questa posizione ed è anche per questo che la legge 194 è una legge equilibrata. Una situazione molto diversa è invece quella dell´obiezione di coscienza nei confronti del testamento biologico, dove, al di là di qualunque convinzione basata sui propri ragionamenti o sulla propria fede, si tratta di rispettare, o non rispettare, le indicazioni date da un individuo esclusivamente su se stesso. In questo caso, quindi, non si ha a che fare con un altro individuo. (...)
Se noi non abbiamo oggi una legge sul testamento biologico non è stato solo a causa della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra, ma anche a causa delle divisioni che ci sono state su questo argomento all´interno della coalizione di governo. Io sinceramene non ho ancora capito se chi sostiene che la legge sul testamento biologico può diventare un piano inclinato verso l´eutanasia non è capace di leggere il testo e di capire effettivamente quali sono le sue implicazioni, oppure se vuole sostenere ad arte che quella legge possa portare a dei risultati che invece proprio essa stessa contrasta.
Io sono personalmente contro l´eutanasia. Nel maggio del 2000 – molti lo ricorderanno – mi venne chiesto di entrare in sala operatoria per dividere i corpi di due sfortunate gemelle siamesi, due persone che riconoscevano la madre, due individui da ogni punto di vista anche se condividevano il cuore e il fegato. Io capivo che decidendo di uccidere una di esse si poteva tentare di salvare l´altra, ma mi resi assolutamente indisponibile perché non ho studiato medicina per poi usare le mie competenze per uccidere una persona, anche se l´obiettivo può essere compassionevole. Quella che ho proposto è invece una legge per dare la possibilità, soltanto a chi lo vuole, di fornire delle indicazioni sulle terapie che ritiene accettabili, indicazioni che valgano anche nel momento in cui una persona non si può più esprimere. Esattamente quello che ogni cittadino può fare, sulla base dell´articolo 32 della Costituzione, quando entra in un ospedale e firma il consenso informato. Se un cittadino che deve fare una gastroscopia dice: «io non voglio un tubo che mi entri dalla bocca, mi scenda giù per l´esofago e arrivi nel mio stomaco», nessuno potrà obbligarlo a sottoporsi alla gastroscopia. Per quale motivo, invece, su una persona che non ha più nessuna possibilità di recupero dell´integrità intellettiva deve esistere la possibilità di fare qualunque cosa, a prescindere dalla volontà espressa in precedenza da quell´individuo? Questo è il vero punto di discriminazione.

Corriere della Sera 25.3.08
L'identikit. Giovani, colti, appartengono alla classe media Il Web È lo strumento usato per aggirare i controlli
I nuovi turisti del sesso
Gli italiani in testa alle classifiche 80 mila l'anno in cerca di minorenni
di Ga. Ja.


È giovane, ha poco meno di 30 anni. È tecnologico, scivola nei meandri della Rete come un pesce dentro l'acqua. È di cultura media, non necessariamente con un reddito alto, e ama visitare un po' tutto il mondo, dal Kenya alla Colombia, dalla Cambogia all'Ucraina. Ed è, sempre più spesso, italiano.
Il nuovo identikit del «turista sessuale con minori » — definizione giuridicamente asettica, che cela l'orrore di due milioni di piccole vite violentate e spezzate per sempre — è un pugno nello stomaco del nostro Paese. Sono oltre 80.000 i viaggiatori che ogni anno lasciano la Penisola per andare a caccia di sesso proibito, con bambini e adolescenti; non solo pedofili (il 3% del totale), ma soprattutto uomini e donne normali. Lo dicono i dati raccolti dall'Ecpat (End Child Prostitution, pornography And Trafficking in children for sexual purposes), una rete internazionale di Ong presente in 70 Paesi. In Italia, Ecpat è attiva dal 1994 (www.ecpat.it). Nel 1998 le sue azioni di lobbying hanno contribuito alla nascita della legge 269 (poi migliorata dalla 38/06), che combatte lo sfruttamento di prostituzione, pornografia e turismo sessuale a danno dei minori, anche quando il fatto è commesso all'estero; è grazie a questa normativa che nel marzo 2007 il veronese Giorgio Sampec è stato condannato a 14 anni di carcere, e nel settembre scorso, a Trento, un 55enne è finito in manette per aver commesso atti sessuali con ragazzine thailandesi e cambogiane tra i 12 e i 16 anni. Nel 2000, infine, Ecpat ha promosso il «Codice di condotta dell'industria italiana del turismo».
Ma nella primavera 2008, per Ecpat Italia è di nuovo allarme rosso. «Negli ultimi anni — spiega il presidente, l'avvocato Marco Scarpati — l'italiano ha scalato pesantemente i primi posti di questa terribile "classifica": se prima in alcuni Paesi eravamo fra le prime 4-5 nazionalità, oggi siamo i più presenti in Kenya (il 24% dei clienti di prostituti/e minorenni è italiano, contro il 38% di "locali"), Repubblica Dominicana, Colombia...». La soglia di attenzione si alza, e si abbassa l'età del turista sessuale, «che non corrisponde più al cliché del "vecchio ricco e bavoso". La media è intorno ai 27 anni, i low cost permettono di spostarsi di più, il Web consente di gestire tutto da soli e di oltrepassare le "dighe" che avevamo cercato di erigere a difesa di questi ragazzi». Come gli accordi con catene alberghiere e tour operator, che in alcuni Paesi vietano l'ingresso in hotel ai minori non accompagnati da un genitore o un tutore. O le alleanze con i tassisti, sguinzagliati a «controllare» i predatori di bambini. «Ma oggi il turista sessuale sa come trovare un autista clandestino, alberghi "senza stelle" e senza formalità, contatti locali che lo aiutino a "cavarsela" in caso di denuncia...». E i nuovi territori di caccia si spingono in luoghi lontani e quasi dimenticati: in Mongolia, per dire, una segnalazione ad Ecpat Italia «ha rivelato l'esistenza di tour operator che organizzano viaggi a sfondo sessuale, presentandoli come battute di pesca sportiva». Tutto online, sfuggente, inafferrabile; intercettare i flussi è complicato e costoso, il materiale si scambia in siti peer-to-peer che come garanzia per l'ingresso richiedono foto del «candidato » impegnato in situazioni hard con minori.
Dai dossier di Ecpat, nati da indagini sul campo e dossier medici, interviste a beach boys e giovanissime jineteras («i ragazzi in genere sono più grandicelli, dai 13 ai 18, per le bambine la fascia è 11-15 anni»), affiora il ritratto «di un italiano turista del sesso che in Kenya, ad esempio, una volta su 2 non vuole il profilattico. In molti poi filmano gli incontri, anche con il cellulare, e li mettono in Rete». C'è poi il mondo inesplorato del turismo sessuale femminile, «fatto di donne dal reddito e livello culturale alti; le mete? Kenya, Gambia, Senegal, ma anche Cuba, Brasile, Colombia».
Da parte sua, Ecpat non sta con le mani in mano: ci sono i progetti di cooperazione e i centri di recupero nei Paesi a rischio (tra gli ultimi nati, quello in Bulgaria, «ci arrivano bambini che hanno avuto fino a 6.000 "clienti" l'anno»), formazione congiunta per poliziotti italiani e stranieri, progetti di campagne sociali («se l'età del turista sessuale è calata in modo così drammatico, questo significa che la prevenzione, qui, va fatta sin dall'adolescenza»). Perché l'Italia, Paese d'origine di tanti predatori del sesso, è anche in prima fila tra chi li combatte: «Come finanziamenti governativi, siamo al primo posto in Europa e sul podio mondiale. Un impegno costante, dal 2000 ad oggi», conferma Scarpati. L'appuntamento, ora, è per il III Congresso mondiale contro lo sfruttamento sessuale dei minori, organizzato da Ecpat, Unicef e Ong per la Convenzione dei diritti dell'Infanzia. Luogo: Rio de Janeiro. Data: dal 25 al 28 novembre prossimi. L'Italia, anche stavolta, ci sarà.

Corriere della Sera 25.3.08
Polemica con Formigoni sulle linee guida per l'aborto: vado avanti anche se ci sono veti
La Turco: rianimare i prematuri
Nota inviata agli ospedali: nessun limite di settimane se possono sopravvivere
di Margherita de Bac


I medici decideranno se e come assisterli, evitando accanimento terapeutico e indipendentemente dal consenso dei genitori

ROMA — «I neonati prematuri devono essere rianimati per osservare se possiedono capacità vitali tali da far prevedere possibilità di sopravvivenza anche a seguito di cure intensive». Tradotto in un linguaggio più snello rispetto a quello tecnico: tutti i bambini partoriti con grande anticipo rispetto alla scadenza naturale — parliamo di 22-25 settimane — vanno aiutati col respiratore artificiale, senza tenere conto della loro età.
Diventa un atto di indirizzo per i centri italiani di ostetricia e neonatologia il parere approvato il 4 marzo scorso dal Consiglio Superiore di Sanità. Ad annunciarlo è il ministro della Salute, Livia Turco: «Trasmetterò alle Asl, attraverso le Regioni, quel testo che quindi assume le caratteristiche di linee guida per gli operatori. E' stato espresso da un organismo di esperti, di tecnici. Non è una presa di posizione fine a se stessa, ma ha un valore operativo». Quindi, per la rianimazione di queste minuscole creature niente limiti definiti sulla base del tempo gestazionale. Il medico deciderà se e come assisterli al momento del parto, evitando accanimento terapeutico e indipendentemente dal consenso dei genitori.
Iniziativa unica. Di solito i documenti del Consiglio, ora coordinato dal professor Franco Cuccurullo, vanno ad arricchire la letteratura di riferimento e, al massimo, orientano le scelte del ministero. Stavolta il parere viene adottato per intero e trasformato in una nota informativa, come si chiamano adesso gli atti di indirizzo. Il contenuto rispecchia le posizioni garantiste già espresse dal Comitato nazionale di bioetica e dai docenti universitari di ostetricia degli atenei romani. «In questo caso la raccomandazione ha un doppio valore — insiste la Turco —. Non solo espressione dell'autorità politica ma anche scientifica».
Questa settimana o la prossima le Regioni potrebbero ricevere anche le linee guida della 194. Il ministro non ha infatti intenzione di fermarsi, anche se la Lombardia continuerà a dissociarsi, come è accaduto nell'ultima riunione della conferenza Stato-Regioni. La titolare della Salute è molto decisa e allo stesso tempo contrariata dall'atteggiamento del governatore Roberto Formigoni «che prima ha appoggiato formalmente l'accordo, attraverso l'assessore alla sanità Borsani e al capo di gabinetto, e poi in sede tecnica ne ha preso le distanze in modo pretestuoso, senza argomenti.
Dunque anche se la Lombardia non ci ripensa io tradurrò quell'atto in indirizzo del governo. Non basta un veto per fermarmi. Sono certa che altre Regioni lo faranno proprio con una delibera, come Liguria e Emilia Romagna ».
Le linee guida indicano una serie di interventi per la piena applicazione della legge 194 sull'aborto, soprattutto definiscono e ribadiscono il ruolo dei consultori che devono essere organizzati in modo tale da offrire alla donna il sostegno per affrontare un'interruzione volontaria di gravidanza, per prevenirla e per essere informate sulla contraccezione. «Eravamo d'accordo anche con il centrodestra, con Provincie e Comuni — accusa il ministro —. Noi abbiamo tenuto conto nella premessa delle richieste della Lombardia, stabilendo che l'autonomia delle Regioni viene rispettata. Dunque non c'è ragione di rimangiarsi la parola. E' un pretesto vergognoso, si vuole fare della 194 un uso politico. Uno sfregio al senso di cooperazione ». E ancora: «Formigoni vuole applicare il federalismo fai-da-te e respinge il ruolo di coordinamento di un'autorità centrale».

Corriere della Sera 25.3.08
La mamma di Harry Potter: orgogliosa di esserne uscita
Il segreto della Rowling: ho pensato al suicidio
«Avevo 20 anni, una figlia ed ero senza soldi»
di Guido Santevecchi


LONDRA — L'inizio degli anni Novanta, una madre sola, in preda alla depressione, cerca aiuto dal suo medico del Servizio sanitario nazionale a Edimburgo. La dottoressa è in ferie e la riceve il sostituto che non capisce la gravità della situazione e se la sbriga consigliandole di parlare di tanto in tanto con l'infermiera se si sente ancora giù. La giovane donna però è sull'orlo del suicidio, perché ha appena divorziato dal marito, abita in una stanza dei servizi sociali, non ha neanche i soldi per l'affitto e si sente terribilmente insoddisfatta. Quella ragazza si chiamava Joanne Rowling e allora era sconosciuta: oggi che ha firmato come JK Rowling l'ultimo dei sette romanzi della saga di Harry Potter, è la prima scrittrice vivente ad aver guadagnato un miliardo di dollari e secondo la classifica di Forbes è più ricca della regina, non ha dimenticato quei giorni di disperazione e ha raccontato come era arrivata a un passo dal togliersi la vita.
«Le circostanze della mia esistenza quando avevo vent'anni erano davvero miserabili, sono precipitata. Ero a terra, non mi sentivo solo abbattuta, sto parlando di pensieri di suicidio. Ma c'era Jessica, mia figlia, e mi dicevo che non era giusto che crescesse con una madre in quello stato. È per lei che andai a chiedere aiuto», ha detto la Rowling al giornale dell'Università di Edimburgo. Il medico di turno non le diede importanza e ora lei, che già in passato aveva accennato alla sua depressione, ammette che probabilmente l'avrebbe fatta finita. Se qualche settimana dopo non avesse ricevuto una telefonata. Era la sua dottoressa che, tornata al lavoro, aveva letto le note lasciatele dal sostituto e aveva capito.
«Mi ha salvato, perché non credo che avrei avuto il coraggio di tornare una seconda volta», spiega la scrittrice. Il consiglio fu di cominciare una terapia di «comportamento cognitivo » che la fece riemergere e le restituì l'equilibrio. «Non ha mai provato vergogna per la depressione, mai. Sono orgogliosa di esserne uscita», ha detto al giovane intervistatore della rivista studentesca Adeel Amini.
In passato la Rowling aveva raccontato di come le era venuta l'ispirazione per Harry Potter. Dopo il divorzio dal primo marito, un giornalista portoghese, era tornata in Gran Bretagna. Si trovò bloccata per quattro ore in attesa di un treno in ritardo: «Mi misi a pensare per occupare il tempo e Harry entrò nella mia testa già completamente formato, con i suoi amici, la sua scuola». Era laureata in letteratura e lingua francese, ma riusciva a trovare solo impieghi frustranti da segretaria. Passava ogni momento libero a perfezionare il mondo magico di Harry, immaginava le sue avventure mentre spingeva la carrozzina con Jessica nelle strade di Edimburgo. Quando la bambina si addormentava entrava in un caffè e scriveva a mano per ore: quel tavolino più accogliente delle pareti della sua casa «squallida e deprimente» le costava solo il prezzo di un bicchiere d'acqua e di un espresso. Harry Potter era il suo modo di sfuggire alle paure della vita, faceva parte della terapia.
Poi cominciò la battaglia per far stampare il manoscritto, completato nel 1995. Finalmente trovò un editore, Bloomsbury, che però non voleva pubblicare un libro di avventure per ragazzi firmato da una donna: così le suggerì di firmarsi J Rowling; lei aggiunse la K di Kathleen, il nome di sua nonna. Era nata JK Rowling, seguirono i sette libri pubblicati in 65 Paesi, venduti in più di 400 milioni di copie, trasformati in film, prodotti di merchandising: un giro d'affari valutato in una dozzina di miliardi.
JK Rowling, 42 anni, si è risposata, ha altri due bambini e ha detto che il settimo Harry Potter è stato l'ultimo. Ma ammette di avere «momenti di debolezza» nei quali pensa che forse in futuro potrebbe scrivere ancora un romanzo sul maghetto, perché Jessica, che oggi ha 14 anni, ha già cominciato a fare pressioni sulla mamma scrittrice. Nel frattempo lavora a un romanzo per adulti e a una «fiaba politica».
Una storia a lieto fine quella di Joanne Rowling. «È uno splendido modello di guarigione ed è meraviglioso che abbia deciso di rendere pubblica la sua vicenda», commenta la portavoce della Mental Health Foundation.
E può essere felice anche lo studente Adeel Amini di Edimburgo: la sua intervista è stata ripresa da tutta la stampa internazionale.

il Riformista 25.3.08
Rivolte. Laburisti per la libertà di coscienza
Dodici ministri inglesi contro l'embryo bill
di Mauro Bottarelli


Londra. Dodici ministri pronti a dire addio al governo - e quindi, nei fatti, a farlo cadere portando il paese a elezioni anticipate - e un primo ministro costretto a una retromarcia senza precedenti. In Gran Bretagna il cosiddetto Embryo Bill, ovvero il disegno di legge per rivedere la normativa sulla fecondazione in vitro ma anche dare il via libera ad esperimenti su embrioni uomo-animale, si sta trasformando in un vero e proprio caso di Stato, con la Chiesa cattolica che ha ingaggiato un braccio di ferro con Downing Street.
Per capire il clima in cui si trova il primo ministro bastano due dati: Gordon Brown ha prima tentato di convincere sottobanco i deputati laburisti di fede cattolica (tra cui tre ministri del suo esecutivo) affinché si astenessero dal voto parlamentare sulla nuova legge, e poi ha spostato di mesi il voto trascinandolo praticamente alla fine dell'anno anziché prima dell'estate. Il Chief Whip laburista, Geoff Hoon, aveva approntato una deroga senza precedenti al regolamento che garantisse la clausola di opt-out (ovvero la possibilità di non esprimersi) su temi etici che toccano la sensibilità religiosa dei deputati. I quali, per tutta risposta, hanno denunciato l'accaduto e detto a chiare lettere al primo ministro che loro in aula si recheranno e voteranno contro il provvedimento. Una grana non da poco per il già traballante esecutivo che con il passare dei giorni e delle polemiche ha visto salire a dodici i ministri pronti a dimettersi in caso non venga garantita loro libertà di coscienza all'atto del voto, una pattuglia guidata dai cattolicissimi Des Browne, ministro della Difesa, Paul Murphy, segretario per il Galles e Ruth Kelly, ministro dei Trasporti, già terminata nel mirino dei tabloid e degli avversari per la sua affiliazione all'Opus Dei.
Ma cosa cambierà con l'eventuale approvazione dello Human Fertilisation and Embryology Bill? La prima novità è quella che rende facoltativa la presenza del padre per accedere alla fecondazione in vitro, cosa che comporta il riconoscimento delle coppie omoparentali: in assenza della clausola vincolante finora conosciuta come "need for a father", nulla vieterebbe a una coppia di lesbiche di ricorrere alla fecondazione assistita per concepire insieme un figlio. Inoltre l'Embryo Bill consentirà agli scienziati di creare in laboratorio tre tipi di ibridi uomo-animale: la chimera, ottenuta iniettando cellule animali all'interno di un embrione umano; l'uomo transgenico, che richiede l'iniezione di Dna animale in un embrione umano; l'ibrido citoplasmico, creato trasferendo nuclei di cellule umane, ad esempio cellule della pelle, all'interno di uova di animali dalle quali è stato rimosso quasi interamente il materiale genetico. Unica fattispecie di cui la nuova legge non consente la creazione è quella dei cosiddetti veri ibridi, che si ottengono fondendo uova e sperma umano e animale. Come se non bastasse, la legge prevede anche l'allungamento del periodo massimo di conservazione degli embrioni da cinque a dieci anni, e concede ai laboratori un anno di "cooling off" prima di dover distruggere gli embrioni conservati senza il consenso dei genitori. Ci sono novità, poi, in tema di privacy: grazie all'Embryo Bill i donatori di seme sarebbero sempre tempestivamente informati dallo Stato nel caso in cui i figli concepiti con il loro sperma si mettano a cercare informazioni al loro riguardo, mentre i figli nati da donazioni, al compimento del diciottesimo anno di età, acquisirebbero il diritto a conoscere l'eventuale esistenza di "fratelli o sorelle". E se un sondaggio del Daily Mail vede il 61 per cento degli interpellati schierati al fianco dei ribelli e contro la nuova legge, il duro attacco del cardinale scozzese - proprio come il primo ministro - Keith O'Brien contro «l'abominio di un provvedimento mostruoso, degno di Frankenstein» e il rischio di vedere il proprio governo crollare per un tema etico dopo aver superato un iceberg come quello di Northern Rock potrebbero convincere il primo ministro al più classico degli annacquamenti, magari eliminando le parti più controverse, oppure al ritiro in toto della legge in attesa di tempi migliori e magari di un rimpasto di governo. Il silenzio della Chiesa anglicana la dice lunga sul ruolo preponderante che quella cattolica si sta ritagliando giorno per giorno. Forte anche, forse, di un fratello ex primo ministro ancora molto influente e ascoltato.

Rosso di Sera 25.3.08
Candidature e movimenti
di Elena Canali


Si parla tanto di cambiare la politica, di colmare la distanza tra il ceto politico e la gente…..ma sui fatti concreti le prassi confermano come le aspettative e le richieste della base sono costantemente ignorate e calpestate. Le modalità di costituzione delle liste, operate dai quattro partiti, hanno dato in tutta Italia ulteriore dimostrazione di come la doppiezza del linguaggio sia prassi comune e diffusa: propagandare in pubblico il percorso unitario e aperto del nuovo soggetto politico e praticare nelle stanze dei bottoni esattamente il contrario, fino alle inqualificabili imposizioni dall’alto delle teste di lista, scelte mai condivise con i territori, ma imposte d’autorità!!!
E’ il caso della Sardegna e della Sicilia, dove le proteste dei compagni non hanno avuto ascolto, tanto che il Movimento Sardista, secondo me a ragione, aveva deciso di non votare la Sinistra Arcobaleno alla Camera. Tutto il balletto del “Volemose bene” declamato dai palchi alle realtà di base, alle reti e i movimenti, i vari “Travolgeteci!!!”, si è dissolto al momento di stilare il programma e redigere le liste. Alla faccia della “Nuova politica”!
Non sarà che se tutti insieme prenderemo meno di quanto il PRC prese nelle ultime elezioni da solo un motivo c’è? Non sarà che di queste modalità la gente ne ha le scatole piene? Non sarà che la doppiezza del messaggio, la non coerenza tra il dire e il fare, il non mantenere la parola data, che per molti di noi sarebbe ancora un valore, oggi la gente non te lo perdona più?
Non sarà che se prendiamo solo il 7 per cento , o anche meno, un motivo c’è e qualcuno deve assumersi delle responsabilità?
*Sinistra Romana

domenica 23 marzo 2008

l’Unità 23.3.08
Billy Bragg, un «politico» dal cuore punk
di Giancarlo Susanna


MUSICA Un anno speciale per il cantautore più testardo e impegnato d’Inghilterra: Bragg compie cinquant’anni e ne celebra venticinque da musicista con un nuovo disco, «Mr Love & Justice» e un libro

Questo è un anno speciale, per Billy Bragg. Il cantautore più testardo e impegnato d’Inghilterra compirà cinquant’anni e al tempo stesso celebrerà venticinque anni di carriera nel music business. Il suo nuovo album, Mr. Love & Justice, è l’ennesima dimostrazione di come la passione per la politica possa convivere (e come!) con della grande musica. Ecco cosa ci ha detto l’incorreggibile Mr. Bragg.
L’ultima volta che ti ho visto in concerto eri da solo. Nel nuovo tour ci sarà il tuo gruppo?
«Penso che sarò da solo, anche se l’album è stato realizzato con la band. Fare concerti con il gruppo può essere molto dispendioso. E poi suonare da solo è più eccitante. Puoi rispondere al pubblico, ma anche alle cose che succedono e che ti capita di leggere sul giornale. Mi piacerebbe parlare di queste cose e in fondo questo è quanto dovrebbe fare Billy Bragg».
Tu hai cominciato proprio così. Motivi economici o è stata una scelta precisa?
«È stata una scelta. L’idea era di provare a fare questo lavoro nel modo più essenziale e in un certo senso più piatto. Avrei dato tutto al pubblico senza nascondermi. Sarei stato solo come un uomo che cammina sul filo. Mi sono detto che a cinquant’anni avrei voluto aver percorso la mia strada in un modo pericoloso e difficile. Avrei voluto aver dato tutto. Poteva anche non funzionare. E invece ha funzionato. Sono qui, ho cinquant’anni e ha funzionato. Incredibile».
Quando hai cominciato avevi qualche modello? So che conosci e ami folksingers come Martin Carthy, Leon Rosselson o Dick Gaughan.
«Non avevo veramente un modello. Avevo un’idea di come la musica folk potesse avere un lato politico. Anche durante il periodo punk ero consapevole della forza del folk. C’erano persone come Dick Gaughan che sostenevano lo sciopero dei minatori e quando io sono andato a fare dei concerti nel nord dell’Inghilterra, nelle miniere di carbone, i folksinger erano già lì. Erano lì dall’inizio dello sciopero, perché questo è parte della loro tradizione. Ho conosciuto Dick Gaughan e Leon Rosselson così. Non li avevo mai sentiti prima. Conoscevo Martin Carthy, ma questi folksingers più politici sono stati un insegnamento per me».
La novità che hai portato tu era la chitarra elettrica.
«La mia tradizione era il punk ed ero consapevole che se avessi suonato un’acustica, sarei dovuto andare nei folk club. Non era quello il pubblico che volevo. Io volevo un pubblico punk. Suonare la chitarra elettrica è stato un elemento importantissimo. Adesso può sembrare una cosa vecchia, ma fino a quel momento nessuno lo aveva fatto. Per molte persone era strano, ma non per me. A me è sempre piaciuto suonare da solo».
Quel periodo non è stato il migliore per i cantautori.
«È vero. Era l’epoca dei New Romantics, in cui lo stile era più importante dei contenuti. Io invece ho sempre pensato il contrario. E poi se tutti vanno in una direzione, tu devi andare in quella opposta. Se tutti fanno zig, tu devi fare zag. Dal punto di vista culturale questo conta molto: ci sono sempre persone che cercano qualcosa di diverso. Se riesci a trovare persone così, puoi costruire una carriera».
Tu sei un cantautore che parla dei problemi della gente comune. Un po’ come fa Ken Loach con i suoi film.
«La musica è un grande veicolo per riflettere. E i cantautori sono tra quelli che riflettono di più. Credo che non bisognerebbe guardarsi troppo dentro e alcuni cantautori sono troppo introversi. Sono convinto che sia meglio occuparsi di quello che accade fuori di noi, ma non voglio dire a nessuno cosa dovrebbe fare. Ogni cantautore segue la sua Musa. La mia mi ha sempre incoraggiato, ispirato a riflettere il mondo che mi circonda tanto quanto quello che accade nella mia stanza».
Un dato essenziale del tuo stile è la melodia. Le cose di cui parli viaggiano sulle ali di una musica suggestiva.
«La cosa che conta di più per me è intrattenere il pubblico. Se lo fai, ottieni la sua attenzione. Se lo fai, le persone si concentrano. Così riesci a dire loro le cose che intendi comunicare. Non dimentico mai di essere soprattutto un entertainer. Non sono un politico. Avere l’attenzione del pubblico mi offre l’opportunità di parlare delle cose in cui credo appassionatamente».
Questa volta però, il pubblico è stato costretto ad aspettarti sei anni.
«Ho una scusa seria: ho scritto un libro. Ho dovuto rispondere all’elezione di consiglieri fascisti nella mia città (East London, n.d.r.). Ci voleva qualcosa di più di un disco e ho pensato di scrivere un libro. Mi scuso per aver fatto passare tanto tempo dal mio ultimo album, ma era una cosa che dovevo assolutamente fare. Il mio mestiere non è fare il cantautore. Il mio mestiere è comunicare. A volte scrivo un libro, a volte una canzone, a volte mi rivolgo ai vostri lettori, ma tutto è legato alla comunicazione, alla necessità di offrire un punto di vista differente sul mondo».

Repubblica 23.3.08
Il Duca e il mistero del lago fantasma
I paesaggi di Piero
di Michele Smargiassi


Piero della Francesca è il pittore degli enigmi: i suoi dipinti sono pieni di simboli, allusioni, dettagli che rimandano a intrighi e perfino ad autentici "gialli". Ma nessuno finora aveva provato a sovrapporre i suoi panorami di fantasia a quelli reali e attuali. Ora la lacuna è stata colmata da due appassionate "cacciatrici di sfondi" che hanno percorso il Montefeltro in lungo e in largo fino a trovare le "location" che fanno da fondale al "Dittico degli Uffizi"
Nel baule dell´auto Rosetta Borchia tiene sempre un binocolo, una macchina fotografica, una mappa dettagliata della zona e l´opera omnia del pittore Da mesi la vedono girare con qualsiasi tempo

Urbino. Li hanno sotto il naso da mezzo millennio e non se n´erano accorti. I paesaggi di Piero. Proprio come li hanno letteralmente sotto il naso i due duchi, Federico da Montefeltro e la sua consorte Battista, nei ritratti gemelli che ce ne tramandano i profili, robusto e roccioso lui, levigata ed opalescente lei. Quelle colline verdastre, quegli specchi d´acqua, quei campi trapunti di alberelli non sono sfondi immaginari, non sono paesaggi idealizzati e simbolici come tanti critici hanno detto e scritto: quei rilievi e quei fiumi hanno un nome, un´identità, un indirizzo. Li si può andare a trovare, ancora oggi. Li stiamo andando a trovare, in effetti. Eccoli. Coi talloni nel fango di una vecchia carraia che s´inerpica sopra l´abitato di Urbania, in mano le riproduzioni del Dittico degli Uffizi, frughiamo con gli occhi la piana dove il Metauro, in meandri alberati, svanisce verso l´orizzonte. Dal paradiso dei pittori, Piero della Francesca ci vuol bene: ci ha prenotato una giornata fresca, luminosa, rugiadosa, c´è persino quella leggera foschia bassa, come nel mattino eterno delle sue tavole.
E lo vediamo. Si chiama monte Fronzoso. Il suo profilo a piramide è più netto a sinistra, appoggiato a un colle più basso sulla destra. Nella tavola, proprio sulla verticale del nasone aquilino di Federico, il colle dipinto ha lo stesso, identico aspetto. Bisogna ammetterlo. Persino le stesse ombre. «Convinto adesso?», sorride di soddisfazione Rosetta, la cacciatrice di paesaggi. «Quando l´ho trovato, per l´emozione non ho dormito tre notti».
Nel baule della macchina Rosetta Borchia tiene sempre un binocolo, una macchina fotografica, una mappa dettagliata del Montefeltro, e l´opera omnia di Piero nelle migliori riproduzioni disponibili. Da mesi la vedono girare con qualsiasi tempo per strade improbabili, fermarsi, scendere, scrutare, confrontare, fotografare. È bello essere un´ex dirigente comunale in pensione, una sessantenne piena di energia. Che voleva dedicare al suo splendido giardino-museo di rose antiche (seicento varietà) oppure ai suoi quadri, paesaggi marchigiani, naturalmente. Ma un giorno, mentre girava un video promozionale per l´agriturismo di un amico, di colpo il deja-vu: «Io qui vedo Piero». Piero chi, chiese l´amico. Piero l´unico, il grande, il "monarca della pittura". Rosetta non per nulla ha un diploma di Belle arti. E ha un´eccellente memoria visiva. La sera a casa, davanti al computer, il confronto tra le foto e i dipinti la convinse di aver visto giusto. «Ma io lo sapevo. Piero era innamorato del mondo che vedeva. Se fu capace di dipingere i nei sulla guancia di Federico, non poteva accontentarsi di uno sfondo di fantasia». Non restava che cercarli, rintracciarli uno per uno, i paesaggi "fotografati" da Piero, e rifotografarli dal punto esatto in cui li vide lui. «Qui ho fatto tagliare due alberi dal contadino, per avere la visuale libera». Tutto pur di strappare a Piero uno dei suoi segreti.
Che Piero sia pittore enigmatico, è cosa nota. Scarne le notizie sulla sua vita, un rompicapo la cronologia delle sue opere, un mistero le allusioni, i simboli, i dettagli disseminati nei suoi dipinti. Sull´identità dei tre personaggi in primo piano nella Flagellazione, conservata proprio qui a Urbino, lo storico Carlo Ginzburg scrisse Indagini che fecero accapigliare le accademie. Al paragone, i paesaggi sullo sfondo del doppio ritratto dei duchi di Urbino (e dei loro allegorici Trionfi, dipinti sul retro delle due tavolette) sono sempre apparsi molto meno problematici ai grandi lettori d´arte. Piero, in fondo, è un maestro dei corpi e delle prospettive architettoniche. E l´invenzione del paesaggio come genere pittorico a pieno titolo doveva aspettare ancora qualche decennio, almeno fino alla Tempesta del Giorgione. Quegli sfondi monfeltrini sono un po´ diversi, è vero, dalle rocailles e dalle colline convenzionali degli altri rari scenari naturali dei dipinti di Piero. Ma anch´essi da liquidare in poche righe. Paesaggi «severi e dignitosi» ma impersonali, tagliò corto il Berenson. «Non uno scenario ma un luogo della mente», stabilì il Focillon. «Paesaggio simbolico» in cui «non si possono identificare precisi elementi topografici», riprese lo Hartt, per il quale anche le quattro barche dipinte dietro i Trionfi sono solo un´allegoria delle virtù cardinali.
Eppure è perfino ovvio che lo sfondo di un ritratto encomiastico debba avere qualche relazione con l´omaggiato. Il dittico di Urbino, oltretutto, era uno speciale oggetto d´affezione per Federico, duca guerriero, condottiero illuminato, sovrano umanista: lo aveva commissionato al suo protetto, amico e quasi coetaneo Petrus de Burgo Sancti Sepulchri, pittore già affermato, non per esporlo, ma per tenerlo vicino a sé, piegato in due come un libro, riposto in uno scaffale del suo meraviglioso studiolo intarsiato, da aprire in solitudine, tuttalpiù con gli intimi, sospirando di rimpianto per la sua amata Battista, morta prematuramente di parto nel 1472. Si può immaginare che Federico volesse avere sempre con sé non solo il volto dell´amata, ma anche il panorama che avevano condiviso, che adorava, le dolci colline del Montefeltro, i suoi possedimenti, i luoghi del riposo, della caccia, della sovranità. A questo, fin dai tempi di Plinio, servivano i parerga, paesaggi "proprietari", dipinti sulle pareti domestiche per deliziare ogni giorno l´occhio del loro padrone. Piero del resto, ce lo assicura Vasari, era il pittore più adeguato al compito, essendo il «miglior geometra che fusse ne´ tempi suoi». Sapendolo, alcuni studiosi hanno tentato di essere più precisi nell´identificazione: il Clark parla di «domini» ducali, Caldarelli di «terra di Urbino», Paolucci addita deciso il Montefeltro, Battisti azzarda, avvicinandosi alla verità, la valle del Metauro. Altri però si dirigono lontano, Bertelli pensa di vedere Volterra, Salmi addirittura il Trasimeno e la Valdichiana.
«Non voglio insegnare niente a nessuno, gli studiosi ne sanno più di me», ammette Rosetta, «ma non s´allontanano dalle loro scrivanie. Io quei paesaggi li ho cercati, trovati, e glieli metto volentieri a disposizione». Delle sue scoperte, Rosetta farà forse un libro. È preparata alle inevitabili contestazioni dei luminari: «Sono solo una cercatrice». Ma in fondo, perché tanti sforzi? Cosa cambia se Piero questi monti li ha visti, o solo immaginati? «Questo lo diranno gli studiosi. Noi pensiamo solo di avere trovato qualche elemento in più per i loro giudizi».
Non è stato difficile. Bastava ricalcare i passi di Piero. Che per andare dalla sua Sansepolcro a Urbino, dove arrivò la prima volta nel 1460 per soggiornarvi spesso, ospite del padre di Raffaello, aveva a disposizione un´unica strada: la via di San Pietro, delle Capute e di Monte Spadara. «I paesaggi che poi dipinse poteva averli visti solo lì, nei suoi lenti spostamenti, nelle soste su un poggio, all´apertura di una curva». Rosetta ha percorso avanti e indietro la stessa strada: e ha trovato per primo il paesaggio del duca. Poi ha seguito la via che portava Piero agli altri suoi mecenati, i Malatesta di Rimini: e quaranta chilometri più a nord ha pescato anche lo sfondo della duchessa. È l´orizzonte che si abbraccia dalla rocca di San Leo, guardando verso sud. O meglio si abbracciava, perché da allora una parte dello sperone è crollato, e il punto di vista preciso qui Rosetta non l´ha trovato, forse non esiste più. Ma quella collina sotto il mento della Battista, con il suo profilo singolare, c´è ancora: è il Maiolo, solo che c´è voluta una ripresa aerea per capirlo. Del resto, Rosetta non s´affida solo ai suoi occhi. Chiama in aiuto la scienza. Assieme a lei, coinvolta o meglio travolta dall´entusiasmo dell´amica, c´è spesso, come oggi, Olivia Nesci, geomorfologa all´università di Urbino. Tavolette dell´Igm con altimetrie e orografie alla mano, analisi della composizione dei suoli quando serve, accredita o smentisce le proposte di Rosetta. Sul Fronzoso, per esempio, dà semaforo verde: «Osservi, nel dipinto c´è un salto netto di colore fra un versante e l´altro; non sembra solo indicare un´ombra, ma una differenza nel manto vegetale. Ora guardi il monte: anche oggi da una parte c´è il bosco, dall´altra il prato, non è un caso, è l´effetto di una composizione del suolo che improvvisamente cambia, da un lato calcareo-marnoso, dall´altra argilloso...».
«Convinto?», insiste Rosetta. Sì e no. Il Fronzoso lo vedo. Ma il lago dov´è? Si scambiano un´occhiata. Certo, il lago è stato un bel problema. Niente laghi con barche, in Montefeltro. E il Metauro è un torrente stretto, incavato e ghiaioso. Il Tasso diceva: più ricco di gloria che d´acqua. Ma non è sempre stato così. Nel Quattrocento era navigabile: lo dimostrano antichi toponimi (Barcaiola, Marecchia...) e alcune stampe antiche. «Proprio negli anni in cui Piero dipingeva era in atto una "piccola era glaciale" di tre secoli, con grandi piogge e fiumi straripanti», spiega la professoressa Nesci. Il duca, dicono le tradizioni, raggiungeva via acqua il Barco, la sua tenuta di caccia, che forse si intravede nel dipinto, là dove una linea più scura potrebbe essere un antico cerreto, storicamente documentato. Più che un grande lago, lo specchio d´acqua in primo piano potrebbe allora essere un bacino temporaneo, un allagamento accidentale, o magari anche programmato, per creare una zona umida favorevole all´uccellagione: a Urbania ci sono tracce di una chiusa, sotto il ponte antico. Un lago da loisir. «Vede questa sponda arrotondata? E questo sperone triangolare? Si vedono ancora, nei rilievi altimetrici». Non è troppo grande lo stesso, il lago? «Piero era un maestro della prospettiva: e la prospettiva esagera i primi piani». Il bacino sembra passare dietro la figura di Federico, alle cui spalle si nota un altro colle su cui pare d´intravedere una torre. Rosetta e Olivia pensano di riconoscerlo come il paesino di Peglio. Ma la veduta non combacia al cento per cento. Notti intere a incollare col Photoshop le fotografie sul dipinto, e il puzzle non viene mai. Poi una folgorazione: «È un montaggio quasi cubista. Quelle ai due lati del duca sono due vedute dello stesso paesaggio, ma prese da punti di vista diversi, accostate per dare l´impressione di continuità».
Ma ammettiamolo, non tutto torna. «Siamo solo all´inizio della ricerca». Il paesaggio dietro la Battista fa ancora resistenza. Se quello è Maiolo, attorno dovrebbero esserci rilievi un po´ più aspri di quelli che Piero ha dipinto. E di quelle strade e mura, di quella torre dipinta con precisione, non c´è traccia. «Be´, Piero non era davvero un fotografo. Lavorava in studio. Forse su schizzi presi dal vero, ma solo dei rilievi più significativi». Strade, costruzioni, edifici possono essere stati enfatizzati per sottolineare l´operoso buongoverno ducale. Un paesaggio è anche un documento politico. Nello sfondo di Federico, ad esempio, Piero ignora il Sasso Simone che apparteneva ai Medici, con cui il duca non era in splendidi rapporti. Forse per questo il paesaggio dietro ai Trionfi, che non sono più semplici ritratti ma allegorie, è un puzzle in cui si mescolano topografia e mito. Il monte al centro della doppia immagine è quasi certamente il Mont´Elce, sempre nella valle del Metauro, visto da Ovest. In passato si chiamava Mons Asdrubali, perché ai suoi piedi, secondo la tradizione, i romani sconfissero il fratello di Annibale durante la seconda guerra punica. Quale sfondo migliore per l´apoteosi del duca-guerriero in armatura lucente? Lo stiamo guardando nella stessa prospettiva, dalla sommità di Pieve del Colle: ma è tutto un po´ più aspro che nel dipinto. «Però vede? C´è la nebbiolina, nel quadro, che attenua i rilievi». Sì, ma c´è di nuovo un lago fantasma. Un altro, e questa volta sembra lungo lungo, e ha perfino un´isola. Un´altra alluvione? «Laggiù c´è una collinetta, proprio in mezzo alla piana, la chiamano ancora Isola». Non mollano mai, le due cacciatrici di paesaggi. «Faremo qualche rilievo sul fondovalle per vedere se c´è il letto fossile di un bacino fluviale più ampio di quello di oggi».
Ma la sera ormai incombe, e il paesaggio di Piero si va oscurando. La caccia riparte domani, Rosetta? «Non mi sono mai divertita tanto. Non credo che smetterò. Anzi, sa una cosa. Prima, dietro quella curva, penso proprio di avere intravisto un Raffaello».

Repubblica 23.3.08
La Cina e il suo Far West
di Federico Rampini


Nel colosso asiatico in pieno sviluppo è in corso il più vasto esodo umano della storia: ogni anno 15 milioni di contadini fuggono verso le città. Teatro di questa migrazione è l´autostrada 312, che attraversa il Paese da est a ovest. Un giornalista l´ha percorsa e racconta il suo viaggio straordinario

Chi ha vissuto la tragedia del Tibet nel resto del mondo non può immaginare la percezione che ne hanno i cinesi. Dalle famigliole che si incontrano la sera nei ristoranti popolari di Pechino, ai giovani che si esprimono sui blog, si sente vibrare un´indignazione ben diversa dalla nostra. «I tibetani sono degli ingrati», è una delle frasi più moderate che ho sentito in questi giorni. Ingrati, perché i cinesi sono convinti di aver fatto molto per loro: prima li hanno liberati da una teocrazia feudale e parassitaria, poi gli hanno costruito ospedali, strade, aeroporti e ferrovie, li hanno alfabetizzati. A loro è stato perfino concesso un privilegio negato a quasi tutti i cinesi han: in quanto minoranza etnica i tibetani non sono tenuti a rispettare la regola del figlio unico. Come tutta risposta gli «ingrati» si scatenano nelle scene di violenza contro la popolazione cinese, riprese dalla tv di Stato nei giorni scorsi.
A pensarla così non sono soltanto i cinesi che vivono dentro le frontiere della Repubblica popolare e quindi sono sotto l´influenza della propaganda, di un´informazione censurata e manipolata. So che perfino le comunità di studenti cinesi nelle università americane di fronte agli avvenimenti del Tibet si arroccano, si sentono circondate da un muro d´incomprensione. Sentono montare l´ostilità degli occidentali. Ascoltando le accuse rivolte a Pechino, si considerano le vittime di un linciaggio ideologico. Questi giovani cinesi che da anni vivono negli Stati Uniti hanno ricevuto le notizie recenti dal Tibet come le abbiamo avute noi; hanno sentito parlare il Dalai Lama; hanno letto e ascoltato i nostri commenti. Eppure anche nei campus universitari americani i cinesi condividono il parere dei loro connazionali su quegli «ingrati» dei tibetani. La verità è che molti cinesi del Ventunesimo secolo hanno verso una parte del proprio Paese un atteggiamento che evoca quello dei pionieri americani dell´Ottocento. I tibetani sono i loro indiani pellerossa: dei selvaggi, incapaci di adattarsi alla rivoluzione industriale. I cinesi si sentono portatori di una missione civilizzatrice. Considerano i tibetani un popolo inferiore.
Chi non ha traversato per esteso la Cina non può rendersi conto di questo paradosso: la nazione più popolosa del pianeta è per lo più un territorio disabitato. I cinesi etnici o han stanno quasi tutti concentrati nelle regioni costiere dell´est e del sud, dove la densità della popolazione è altissima. Restano ancora semivuote le aree ben più vaste che sono la Mongolia interna, lo Xinjiang musulmano, il Tibet. Lì il viaggiatore può passare settimane intere senza incontrare una vera città; a volte senza imbattersi in un´anima viva. La Cina del Ventunesimo secolo è impegnata a "portare il progresso", colonizzandole, in quelle immense regioni che rappresentano il suo Far West: la nuova frontiera dello sviluppo. In mezzo ai deserti, o nelle steppe mongole, o su altipiani himalayani sconfinati lavorano battaglioni di tecnici e operai cinesi per fare le autostrade e le ferrovie, i tralicci dell´elettricità e i ripetitori dei telefonini. Proprio come i loro antenati emigrati in America costruivano la grande ferrovia transcontinentale che doveva unire la East Coast al Pacifico. La nuova frontiera da conquistare, il Far West cinese, rappresenta anche la grande speranza per salvare da un futuro collasso Shanghai, Shenzhen e Canton: è là nelle immensità semidesertiche che i cinesi cercano il petrolio e il gas, l´acqua e i metalli per continuare ad alimentare la crescita delle zone costiere.
A metà strada fra Pechino e il Far West sono sorte gigantesche metropoli che rappresentano le "teste di ponte" della colonizzazione. Per esempio Chongqing (30 milioni di abitanti), la mostruosa piovra industriale sullo Yangze: sembra una Chicago del primo Novecento ingigantita dalla fantasia dello scenografo di Blade Runner. In quei crocevia nel cuore della Cina cozzano due flussi, quello della conquista coloniale verso ovest, e le migrazioni dei più poveri che dalle campagne arretrate fuggono per cercare lavoro in fabbrica.
Bisogna aver visto questo movimento incessante per capire la Cina di oggi, anche la sua durezza, la sua crudeltà. È lo sforzo che ha fatto Rob Gifford, un giovane veterano tra i giornalisti occidentali in Cina, che frequenta questo Paese dal 1987 e vi è stato corrispondente della National Public Radio americana (l´unica radio pubblica, e di qualità, negli Stati Uniti). Quando ha saputo che stava per concludersi il suo incarico di corrispondente in Cina, Gifford ha deciso di attraversare il Paese on the road. Si è messo in viaggio lungo l´autostrada 312, che attraversa la Cina per quasi cinquemila chilometri da est a ovest, da Shanghai si lancia nel cuore agricolo e povero del Paese fino a raggiungere il deserto del Gobi, e da lì la vecchia Via della Seta.
L´autostrada 312 è, letteralmente, uno spaccato della Repubblica popolare: la taglia longitudinalmente e soprattutto la viviseziona. Consente di fare un viaggio nello spazio e nel tempo, dalla Cina più ricca e avanzata alle zone che sono ancora Terzo mondo. La 312 stessa è un microcosmo perché la Cina di oggi è una nazione in eterno movimento. È il teatro del più vasto esodo umano mai accaduto nella storia: ogni anno 15 milioni di contadini fuggono dalle campagne verso le città. Le autostrade sono la versione contemporanea della ferrovia transcontinentale negli Stati Uniti dell´Ottocento, lì passano i pionieri in viaggio verso la nuova frontiera. La 312 è anche diventata un luogo di culto, un itinerario di moda per i giovani cittadini in cerca di emozioni, l´equivalente della leggendaria Route 66 americana. Lungo l´autostrada cinese avvengono due pellegrinaggi di natura molto diversa. Da un lato c´è un popolo in cerca di speranza che fugge come i contadini dell´Oklahoma degli anni Trenta descritti da John Steinbeck nel romanzo Furore, i poveri scacciati dalla siccità che emigravano verso la California. Nel senso inverso c´è una gioventù in cerca di emozioni e di avventure che parte da Shanghai con lo spirito di Jack Kerouac, dei beatnik e degli hippy americani negli anni Cinquanta e Sessanta. Vanno verso il deserto del Gobi a cercare la loro California. L´autostrada è il luogo migliore per intercettare lo spirito della Cina di oggi, il suo eterno movimento, la frenesia di spostare, trasferire, trasportare uomini e cose. Per capire che Paese diventerà questa Cina, Gifford ha provato a esplorarlo seguendo l´arteria principale: «La mia idea è di rispondere a queste domande viaggiando lungo la 312, tra camionisti e puttane, yuppy e artisti, agricoltori e venditori di telefonini». Ne è venuto fuori un libro singolare, China Road, che esce in Italia tra pochi giorni, pubblicato da Neri Pozza col titolo Cina. Viaggio nell´Impero del futuro.
«Negli Stati Uniti», scrive Gifford, «ci sono nove città con più di un milione di abitanti. In Cina quarantanove. Può capitare di viaggiare per la Cina, arrivare in una città grande due volte Houston e pensare che quel posto non lo si è mai nemmeno sentito nominare. La nuova Route 312 ha contribuito al cambiamento, riducendo drasticamente la durata del viaggio per Nanchino, a Shanghai e verso la costa. Così come hanno contribuito l´espansione verso l´interno di fabbriche e società in cerca di costi più contenuti, e le rimesse dei lavoratori emigrati sulla costa».
La grande traversata inizia proprio da Shanghai - «energia, atmosfera, speranza, possibilità, passato futuro: è tutto qui» - dove Gifford focalizza subito una differenza tra noi e loro. La coglie nel comportamento diverso di due gruppi di turisti che passeggiano sul Bund, il lungofiume di Shanghai che ospita i palazzi art déco del primo Novecento, e sull´altra sponda ha di fronte Pudong, la Manhattan dell´Asia con selve di grattacieli che svettano sempre più in alto. «Gli occidentali, come fa immancabilmente ognuno di loro a Shanghai, cercano di ricreare il passato scattando qualche foto ai vecchi palazzi coloniali. Anche i cinesi fanno quello che i cinesi fanno immancabilmente a Shanghai, cercano di sfuggire al vecchio scattando foto nella direzione opposta, lo sguardo perso oltre il fiume».
Penetrando nella Cina profonda, nella provincia agricola dello Anhui lungo la 312, Gifford s´imbatte in un uomo in bicicletta con un bandierone rosso attaccato alla sella che garrisce al vento mentre pedala, e ha un grande cartello giallo attaccato alla ruota posteriore. Sul cartello c´è scritto «Viaggio attraverso la Cina contro la corruzione». L´uomo, Wang Yongkang, è stato rovinato da funzionari statali disonesti. «Tutte uguali le dinastie», commenta il ciclista-dissidente solitario, «partono bene ma poi si guastano. È per questo che abbiamo bisogno di una riforma politica. Altrimenti il partito e il Paese crolleranno entro una decina d´anni. In Occidente la gente ha un modello morale interiore. I cinesi no. Se non c´è qualcosa di esterno a frenarli, loro fanno quello che vogliono per se stessi, senza chiedersi se è giusto o sbagliato».
Una serata con una prostituta in una squallida e remota città di provincia rivela i miracoli del karaoke: «Da giornalista radiofonico ho scoperto nel corso degli anni che convincere i cinesi a parlare con franchezza al microfono è una fatica improba. Per quanto nel Paese non circoli più la rigidità dell´era maoista, resta sempre una certa titubanza a esprimersi apertamente, soprattutto con uno straniero. Ma basta ficcare un microfono da karaoke in mano a un cinese e lui o lei non esiteranno a cantare. Il karaoke per gli asiatici è il mezzo socialmente accettabile per esprimere ciò che sentono nel profondo. (La prostituta) Wu Yan ha detto un sacco di cose a questa grande stanza vuota e a me».
Unico straniero su una corriera di campagna diretta a Jinchang, il reporter americano s´imbatte in una ginecologa che fa il giro dei villaggi per costringere ad abortire le donne che hanno già figli. Ne esce un racconto orripilante, di aborti forzati all´ottavo mese sotto la pressione della polizia. «La dottoressa non si rende conto che sta rivelando cose molto delicate. Per lei è tutto logico e patriottico e giusto. "I cinesi sono troppi", ripete. Quando le chiedo come si sente come madre a fare quelle cose non capisce nemmeno la domanda. I cinesi vedono il mondo occidentale, con tutte le gravidanze adolescenziali e le relative conseguenze, e si domandano cosa diavolo crediamo di fare, lasciando che tutto questo succeda quando potremmo risolvere il problema con una semplice procedura medica».
Arrivato nel deserto del Gobi dove l´autostrada 312 indica 2.643 chilometri da Shanghai, nella cittadina di Zhangye Gifford s´imbatte nei manifesti di Brad Pitt e Angelina Jolie, la pubblicità del film Mr & Ms. Smith. S´imbatte anche nei rappresentanti locali della Amway, celebre multinazionale americana della "vendita diretta", il marketing porta-a-porta di prodotti domestici. È uno dei quadretti più deliziosi del suo racconto di viaggio. Il gruppo dei venditori locali della Amway, ai confini del più vasto deserto dell´Asia centrale, è organizzato quasi come una setta religiosa. Hanno i loro raduni, in cui ascoltano il Verbo del marketing dal loro capo, per assorbire le tecniche di persuasione occulta con cui vendere i prodotti più inverosimili: deodorante per le ascelle in una landa desolata dove i clienti sono rozzi muratori dei cantieri; spray per profumare il fiato dopo i pasti a base di cibi piccanti e soffritti d´aglio. Quasi come in un miraggio fra le dune del deserto Gifford ha la visione del Sogno Cinese e del Sogno Americano che si fondono l´uno nell´altro.
La 312 prosegue attraversando lo Xinjiang, l´ex Turkmenistan orientale popolato dagli uiguri di religione islamica. Ai tempi di Marco Polo lo solcavano le carovane dei cammelli, i mercanti lungo la Via della Seta facevano la spola tra l´Impero di Mezzo e Samarcanda, Buccara, la Persia, il Mediterraneo. Lo Xinjiang ha le dimensioni dell´Italia più la Francia, la Germania e la Spagna messe assieme. Se fosse una nazione sarebbe la sedicesima al mondo per superficie, eppure ha appena venti milioni di abitanti. È solcato dall´oleodotto che trasporta energia dall´Asia centrale. Stagno, alluminio, rame, ferro, oro: sotto la sabbia del deserto ci sono giacimenti di ricchezze immense. Il cellulare di Gifford vibra, come sempre succede in Cina quando si entra in una nuova provincia o regione. Il messaggio pubblicitario dice: «Benvenuto nello Xinjiang». Subito dopo gli arriva un altro sms: «Cerchi un regalo? La giada di Khotan è perfetta per ogni occasione. Chiama subito questo numero».

Repubblica Firenze 23.3.08
Opa, cardiochirurghi al top e stanno per sbarcare al Meyer
Il centro di Massa giudicato il migliore in Europa
Incentivare la diagnosi prenatale di cardiopatie congenite


Sbarca a Firenze il miglior centro di cardiochirurgia pediatrica d´Europa. Da giugno i chirurghi dell´ospedale pediatrico apuano di Massa (Opa) faranno interventi anche al Meyer di Firenze. Il gruppo è da poco stato riconosciuto dalla Eacts, european association for cardio-thoracic surgery, come quello con i dati migliori di tutto il continente in fatto di mortalità dei pazienti. La Eacts ha da poco pubblicato i numeri dell´attività del 2006 e del 2007 di oltre 100 strutture europee dove si sono fatti interventi sui cuori di circa 15 mila bambini. Ebbene, l´Opa risulta quello con la più bassa mortalità dei pazienti a 30 giorni dall´intervento: lo 0,53 per cento contro una media europea del 3,93. Se si considera solo il dato dei neonati (circa il 35% del totale) il centro toscano è secondo, ma dietro una struttura che non fa circolazione extracorporea, procedura abbastanza rischiosa. Quel parametro è uno dei più significativi per valutare la qualità di un centro cardiochirurgico, insieme a quello dei reinterventi, che nel 2002 a Massa erano il 24% e oggi sono inferiori al 10%. La degenza media, altro dato importante, dal 2003 è invece scesa da 26 giorni a 16.
Sono circa 200 all´anno gli interventi fatti nel reparto di Massa, che è diretto da Bruno Murzi e fa capo alla fondazione Monasterio, l´ente creato da Cnr, Regione e Università toscane il cui direttore generale è il professor Luigi Donato. Murzi e la sua équipe già da qualche mese collaborano con il Meyer e da giugno inizieranno a svolgere la stessa attività assistenziale dell´Opa a Firenze. La sala operatoria è già pronta, il pediatrico sta organizzando la terapia intensiva e l´emodinamica e reclutando il personale qualificato. L´avvio dell´attività al Meyer non farà calare il lavoro a Massa ma potrebbe esercitare una maggior attrattiva sui pazienti di fuori regione, visto il nome che si sta facendo l´ospedale pediatrico. Il numero di bambini che hanno bisogno di interventi cardiochirurgici è basso, per accrescere l´attività è necessario operare un maggior numero di pazienti che vivono fuori dalla Toscana.
L´intento della fondazione Monasterio è quello di far crescere l´attività toscana di diagnosi prenatale di cardiopatie congenite per intercettare prima possibile tutti i neonati che avranno bisogno di un intervento al cuore. «Vogliamo far partire questa iniziativa - spiega Donato - perché sembra incredibile ma il 40% delle cardiopatie congenite si scoprono dopo la nascita. Con il Meyer faremo una squadra di professionisti di alto livello per aiutare i punti nascita toscani e non a riconoscere precocemente le cardiopatie congenite».
(mi.bo.)

Repubblica Firenze 23.3.08
La mortalità più bassa
Parla Bruno Murzi, il direttore del reparto specialistico
"La nuova frontiera operarli prima che nascano"


Con la sua équipe vede circa 200 bambini all´anno, la maggior parte a Massa, gli altri in paesi del terzo mondo, dove va ad operare con progetti di solidarietà.
Dottor Murzi, perché il vostro centro è il migliore d´Europa?
«Perché siamo un grande gruppo. Io so che se sono all´estero a lavorare vengo sostituito da persone che sono perfettamente in grado di sostituirmi. Poi ci vuole organizzazione. Noi siamo in quattro chirurghi, io, Stefano Luisi, Anna Maizza e Massimo Bernabei e tre di noi sono sempre in ospedale».
A Firenze cosa farete?
«Cercheremo di creare un centro di attrazione importante per le famiglie di tutta Italia, anche grazie al fatto che al Meyer ci sono specialisti di altissimo livello in molti campi della medicina».
C´è qualcosa che vorrebbe migliorare nel vostro lavoro?
«Mi piacerebbe fare più ricerca. Ad esempio per sviluppare la possibilità di intervenire sul cuore dei feti ancora in utero. Stiamo sviluppando la tecnica utilizzando pecore. Abbiamo già fatto 25 interventi sperimentali. Per molte malattie operare prima della nascita sarebbe un enorme vantaggio».
Cosa vuol dire fare interventi sul cuore dei bambini?
«Quando sono neonati si ha a che fare anche con pazienti di 2-3 chili. Tecnicamente è necessario inventarsi il lavoro ogni volta, trovare soluzioni tecniche adeguate a quel tipo particolarissimo di paziente. Usare binocoli per osservare il cuore, fare microchirurgia. Il tutto con una grandissima precisione. Mi trovo meglio in queste situazioni».
E il rapporto con i pazienti e i genitori com´è?
«I bambini un po´ più grandicelli sono pazienti di cui devi conquistarti la fiducia dal punto di vista umano, perché a loro delle tue qualità di medico non importa niente. E´ necessario saperci giocare, non incutere loro alcun timore. Con la famiglia non bisogna mai dimenticare che è durissimo dal punto di vista emotivo portare i figli ad operare. Hanno uno stress altissimo che va affrontato con il dialogo».
(mi.bo.)

Repubblica Firenze 23.3.08
Un anno fa Repubblica rivelò lo scandalo degli abusi in parrocchia
Don Cantini, al vaglio le decime i soldi dei parrocchiani al prete
Dopo trent'anni di silenzio decine di testimoni hanno raccontato quello che succedeva
di Franca Selvatici


PER trenta anni era rimasto avvolto nell´ombra, protetto dal silenzio, dalla vergogna e dell´omertà. L´8 aprile 2007, domenica di Pasqua, lo scandalo degli abusi nella parrocchia fiorentina della Regina della Pace divenne pubblico sulle pagine del nostro giornale. Un anno più tardi, una Pasqua dopo, tutto risulta confermato: sia le rivelazioni delle ex parrocchiane ed ex parrocchiani della Regina della Pace sulle violenze e le perversioni di don Lelio Cantini, sia il racconto del giovane commerciante gay Paolo Chiassoni sulla notte sadomaso trascorsa anni fa in una canonica in compagnia di alcuni sacerdoti e di un alto prelato, da lui riconosciuto nel vescovo ausiliario di Firenze Claudio Maniago, allievo prediletto di don Cantini.
Un anno più tardi l´inchiesta del pm Paolo Canessa non si è fermata. Gli abusi raccontati dai numerosi testimoni sono gravissimi ma risalgono a 20-30 anni fa e dunque sono coperti dalla prescrizione. Alcune ex parrocchiane hanno subìto atti sessuali a 11-12 anni e sono state segnate per sempre. Talvolta il sacerdote imponeva rapporti orali dopo la confessione, simulando di offrire l´ostia benedetta: condotte che, a norma di diritto canonico, comportano la scomunica. Una delle vittime è ancora oggi, a 40 anni, sotto cure psichiatriche, vive nel terrore e non può fare a meno di assumere psicofarmaci. A ogni ragazzina o ragazza costretta a subire gli abusi, il sacerdote faceva credere che fosse «la sua prediletta». Solo molti anni più tardi, ormai adulte, hanno scoperto che il loro parroco aveva abusato di molte di loro, e (secondo alcune) anche di qualche ragazzo. I loro racconti (il pm ha ascoltato decine di testimoni) hanno disegnato un quadro estremamente inquietante, dal quale don Lelio Cantini - il priore rigido, autoritario e sessuofobo al punto di vietare alle sue giovani parrocchiane di indossare i jeans - emerge come un abusante compulsivo. Con la conseguenza che tutti i giovani e i giovanissimi che hanno frequentato la Regina della Pace anche in anni più recenti sono stati potenzialmente esposti al rischio di abusi. Le indagini, perciò, si sono spostate in avanti, agli ultimi anni in cui don Lelio ha retto la parrocchia.
L´inchiesta prosegue anche sul fronte patrimoniale. Alcune ex parrocchiane hanno raccontato di aver consegnato al priore per anni la «decima» (cioè un decimo del loro stipendio). Le elemosine venivano depositate in banca, alcune famiglie furono indotte a privarsi di beni ereditati e delle loro case di proprietà in favore della parrocchia. Dove sono finiti tutti quei beni che, secondo il sacerdote, erano destinati alla costruzione di una «vera chiesa», una chiesa parallela?
La testimonianza del giovane gay Paolo Chiassoni ha ampliato i fronti dell´indagine al vescovo Claudio Maniago, l´allievo più brillante di don Cantini. Chiassoni raccontò di essere fuggito dalla canonica dopo la notte sadomaso, di essere stato contattato altre volte dai sacerdoti che aveva conosciuto e di aver accettato quella che loro definivano un´offerta, forse per garantirsi il suo silenzio: tre milioni di lire bonificati su un suo conto a Iesi, nelle Marche. I carabinieri hanno rintracciato il bonifico, che risulta provenire dal conto di una parrocchia. E´ stato accertato anche che accanto alla chiesa che ospitò gli incontri sadomaso c´erano una colonia estiva per disabili e un centro di accoglienza per tossicodipendenti.

Corriere della Sera 23.3.08
Bertinotti apre al Cavaliere «Il suo progetto va discusso»
«Prodi sia responsabile, il rischio è meglio del disastro»


Il Pd ha diversi esponenti di peso nel governo: non può fingere che Romano stia da una parte e Veltroni dall'altra

ROMA — Esiste un punto, in questa intricatissima vicenda Alitalia, su cui, secondo Fausto Bertinotti, c'è poco da discutere: «Il nostro è un Paese che ha una vocazione turistica a 360 gradi, per cui una compagnia di bandiera è necessaria ». Per questa ragione «il governo Prodi dovrebbe sottrarsi all'aut aut "o mangi questa minestra o salti dalla finestra" che è stato imposto dall'Air France». Perché «se non lo fa, allora tanto vale che non ci sia il governo: a che serve un esecutivo se non ad assumersi le sue responsabilità?». E in effetti Prodi ha il pallino in mano: «Sì, è così, e allora chieda del tempo, si faccia protagonista, invece di subire ultimatum », anche perché «chi, come in questo caso, vende per fare cassa o per disperazione, in realtà svende». Già, c'è anche la questione di quanto vale Alitalia e di quanto ha offerto Air France al centro di questo dibattito. La situazione, però, è resa ancor più complicata dal fatto che c'è una campagna elettorale. Il leader della Sinistra-l'Arcobaleno non lo nega, ma a suo giudizio occorre «verificare assolutamente la possibilità di una cordata italiana», che, per il presidente della Camera, avrebbe «senza dubbio una co-partecipazione internazionale». Peccato, però, che a sostenere la cordata di casa nostra ci sia Berlusconi, e da Veltroni a Di Pietro dicono che il Cavaliere è in conflitto di interessi. «Il conflitto di interessi — replica Bertinotti — effettivamente c'è, tuttavia delegittima il leader del Pdl solo dal punto di vista delle sue prerogative di presidente del Consiglio. Perciò, se avanza una proposta bisogna discuterne e non sottrarsi alla discussione. Dobbiamo ricordarci tutti che l'occupazione è più importante delle beghe della campagna elettorale».
Poi, se Berlusconi andrà a Palazzo Chigi, ipotesi più che probabile, «visto che è il candidato favorito», si potrà pensare che questa proposta «la porteranno materialmente avanti altri imprenditori». Ma se si dice di no ad Air France e si attende una cordata nostrana per cui ci vuole qualche tempo c'è l'eventualità che si scivoli nel commissariamento dell'azienda... «Che significa, che bisognerebbe bere l'imbevibile, bere la cicuta proposta da Air France?». Forse meglio il «calice» amaro d'Oltralpe che il rischio di un commissariamento. «Il rischio è meglio del disastro »: su questo Bertinotti è netto.
Nel Partito democratico più d'uno si è lamentato perché il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa e il presidente del Consiglio Romano Prodi hanno scelto questo «timing» per l'operazione: in piena campagna elettorale. «Certo — osserva il leader della Sa — pesa elettoralmente, però c'è da dire che il Pd ha diversi esponenti di peso nell'esecutivo e quindi non può far finta che il governo Prodi stia da una parte e il partito di Veltroni dall'altra. Eppoi dovrebbe essere obiettivo di una forza politica quello di individuare la soluzione di problemi come Alitalia ». Sempre a proposito del Pd: il suo leader ha rotto con la sinistra e ha deciso di andare da solo per evitare divisioni e tensioni, ma alla fine, come dimostra questa vicenda, se le è ritrovate nel suo stesso partito. Paradossale?
Sorride il presidente della Camera, e dice: «Secondo me, dopo l'annuncio che sarebbero andati da soli sia il Pdl sia il Pd si sono configurati come partiti- coalizione. Come avvenne con il passaggio dal proporzionale al maggioritario qui, invece di garantire la semplificazione del sistema politico e la governabilità, otteniamo esattamente l'opposto. Tanto è vero che già ora i due maggiori partiti riproducono gli stessi difetti delle coalizioni in cui stavano prima».
Dunque la vicenda Alitalia starebbe a dimostrare che Veltroni non è riuscito nel suo intento? «Per ottenere il voto utile ha dovuto prendere le stesse anime divergenti che caratterizzavano la coalizione e le ha messe insieme sotto un altro nome — Pd — ma sono la stessa cosa di prima. E così non riescono ad andare avanti così come non riusciva ad andare avanti l'Unione». Bertinotti, però, dovrebbe fare un po' di autocritica: l'Alitalia non è l'esempio di come l'intervento pubblico sia nocivo? «No: anzi ci vorrebbe adesso l'intervento pubblico.
Del resto, quando Air France entrò in crisi per risolvere la situazione fecero il contrario di quel che ora propongono per Alitalia: lo Stato ci mise una barca di soldi, le rotte vennero allargate e furono comprati veicoli d'avanguardia...».

Corriere della Sera 23.3.08
Inedito in Italia Il filosofo ed economista intervenne in Parlamento il 20 maggio. Il testo segnò per sempre il movimento femminista
1867. Manifesto per il voto alle donne
Londra, lo storico discorso di John Stuart Mill «Pagano le tasse, ora serve un atto di giustizia»
di John Stuart Mill


Niente può distogliere la nostra attenzione da una questione semplicissima, se ci sia un'adeguata giustificazione per continuare a escludere un'intera metà della comunità, non solo dall'accesso, ma addirittura dai presupposti per accedere allo spazio costituzionale, sebbene abbia pienamente tutte le condizioni legali e costituzionali per accedervi, valide in tutti i casi tranne in questo.
Signori, all'interno della nostra Costituzione non c'è nessun altro esempio di un'esclusione così assoluta. Se la legge riconosce il diritto di voto solo a coloro che possiedono l'equivalente di 5.000 sterline all'anno, l'uomo più povero della nazione potrebbe, ora e in futuro, acquisire questo diritto. Ma né la nascita, né la fortuna, né il merito, né lo sforzo, né l'intelligenza, neppure il possesso di una grande capacità di gestire gli affari e i destini umani, farà mai sì che una donna possa far sentire la sua voce in quegli interessi nazionali che riguardano direttamente lei o le sue cose come qualsiasi altra persona nello Stato. (...) Come è possibile dimostrare che le donne che amministrano una proprietà o guidano un'impresa — donne che pagano le tasse, spesso per grandi importi e frequentemente per propri guadagni, molte delle quali sono responsabili capifamiglia e alcune, facendo le insegnanti, insegnano molte più cose di quello che un gran numero di elettori maschi abbia mai imparato —, come è possibile, chiedo, dimostrare che non siano capaci di esercitare un diritto che esercita ciascun capofamiglia uomo? O forse abbiamo paura che, se ottenessero il diritto di voto, rivoluzionerebbero lo Stato, o ci priverebbero di alcune delle nostre più stimate istituzioni, oppure che ci farebbero avere pessime leggi, o in ogni caso che ci renderebbero mal governati, proprio come conseguenza del fatto che partecipano al voto? Nessuno, signori miei, crede a cose del genere. E non sono solo i principi generali di giustizia a essere infranti e messi da parte con l'esclusione delle donne in quanto donne da ogni forma di rappresentanza: questa esclusione va anche contro alcuni principi specifici della Costituzione inglese. Viola, infatti, una delle più antiche e amate massime costituzionali — una dottrina cara ai riformatori e dal punto di vista teorico elaborata dai conservatori — ovvero che la tassazione e la rappresentanza si estendono parallelamente.
Ogni donna che è in regime di sui iuris non contribuisce forse alle entrate dello Stato esattamente come un uomo, e non ha dunque lo stesso requisito per esercitare il voto? Se in questo Paese avere un interesse significa qualcosa, chi possiede una proprietà fondiaria o chi ce l'ha in affitto ha lo stesso interesse, uomo o donna che sia. Nei nostri archivi costituzionali, infine, c'è la prova che le donne hanno avuto in passato, nelle contee e in alcuni consigli, il diritto di voto, certamente in epoche antiche e lontane della nostra storia. (...) La difficoltà che molte persone provano nell'affrontare questo argomento non è legata a un'obiezione concreta. Si tratta solamente di una sensazione, una sensazione di stranezza. «Questa proposta è così nuova », pensano in definitiva molti, ma sbagliano. Questa, infatti, è una proposta molto vecchia. Signori, la stranezza è una cosa che svanisce; alcune delle cose che per molti di noi erano abbastanza strane tre mesi fa oggi non lo sono già più. E quanto alle novità, viviamo in un mondo di novità; la dittatura dell'abitudine è in declino, per fortuna. Oggi non ci accontentiamo più di sapere che cosa è una cosa, ma chiediamo se debba essere così o diversamente; e alla fine in questa Camera, io sono indotto a credere che un appello andrà oltre il giudizio dell'abitudine per essere sottoposto a quello di un tribunale più alto, il tribunale della ragione. (...) Probabilmente si pensa che le occupazioni quotidiane delle donne siano un ostacolo superiore alla comprensione della cosa pubblica. Probabilmente si pensa che coloro che sono impegnate nell'educazione morale delle future generazioni di uomini, non siano in grado di formarsi un'opinione sulle questioni morali ed educative di un popolo. E che coloro che come principale occupazione quotidiana hanno l'amministrazione oculata del denaro, in modo da ottenere il più grande risultato possibile con le minori risorse finanziarie possibili, non hanno la possibilità di insegnare niente agli onorevoli di questa o dell'altra Camera, che riescono a produrre in modo tanto singolare piccoli risultati con un grande dispendio di risorse.
Nutro un elevato grado di fiducia in questa causa, che non nutrirei se il cambiamento politico che ho evocato non si fondasse su un precedente cambiamento sociale. L'idea di una linea netta di separazione tra le occupazioni femminili e quelle maschili appartiene a una condizione lontana della società, che si perde nel passato. Non prestiamo sufficiente attenzione al fatto che intorno a noi ha già avuto luogo una silenziosa rivoluzione domestica: gli uomini e le donne sono per la prima volta nella storia veramente ciascuno il compagno dell'altro. Le nostre convinzioni riguardo alle relazioni tipiche tra i sessi derivano da un tempo in cui le loro vite si svolgevano separatamente. In passato, un uomo trascorreva la sua vita insieme agli uomini; tutte le sue amicizie, tutte le sue relazioni confidenziali, erano uomini; la moglie era o un giocattolo, o una schiava di lusso. Ma tutto questo, tra le classi di maggiore cultura, adesso è cambiato: i due sessi adesso trascorrono insieme la loro vita; le donne della famiglia di un uomo sono la sua abituale compagnia; la moglie è la sua socia principale, la sua amica più intima, e spesso il suo consigliere di maggior fiducia. Oggi può un uomo sperare di avere come compagna più vicina, le cui speranze e desideri esercitano una pressione così forte su di lui, una persona i cui pensieri sono totalmente estranei ai suoi — una persona che non possa essere mai un aiuto per i suoi interessi e obiettivi più nobili? Può questa comunanza stretta e così esclusiva andare d'accordo con un modo di essere delle donne distante da argomenti di ampio respiro? È una cosa buona per un uomo vivere in completa comunione di pensieri e di sentimenti con una donna che è deliberatamente tenuta in una condizione di inferiorità rispetto a lui, i cui unici interessi concepibili sono forzatamente confinati nelle quattro mura di casa e che coltiva, insieme alla grazia del carattere, l'ignoranza e l'indifferenza per le questioni più rilevanti? Qualcuno può forse sostenere che tutto questo possa accadere senza uno svilimento dell'indole dell'uomo?

Corriere della Sera 23.3.08
All’Eliseo “Il malinteso”. Pietro Carriglio crede al drammaturgo, ma il testo ha punti deboli
Camus tra idee e assenza di Dio
di Franco Cordelli


Ne avevo un ricordo lugubre, sempre più confuso con il passare degli anni. Rivedere Il malinteso di Albert Camus mi attraeva. Chissà che non mi fossi sbagliato. L'edizione di Pietro Carriglio peggiora il ricordo. Colpa di Carriglio? Egli è un regista tanto accurato quanto geloso del proprio regno, al teatro Biondo di Palermo le regie sono tutte sue, o giù di lì. Alla lunga, potrebbe non giovare all'insieme della produzione. Ma non voglio farne una questione di quantità, sebbene sia sbarcato a Roma con tre spettacoli uno dopo l'altro. Il problema è la qualità del singolo prodotto.
L'idea che si ricava assistendo a Il malinteso è che Carriglio creda ciecamente in Camus o, meglio, nel suo dramma. Crede in quella problematica pseudo-antica, crede nel caso e nel destino, crede nei paroloni di cui lo scrittore si ammanta. Per me, invece, sono tutte sciocchezze. Pensando a Robbe-Grillet e alla sua polemica contro Sartre e Camus, non si può che dargli ragione. Robbe-Grillet, Simon, Butor, la Sarraute, Perec sono molto più artisti dei due dioscuri, i due belligeranti Sartre-Camus! Gli artefici del nouveau roman non avevano bisogno di esibire alcunché. Benché sia una figura ineludibile, Camus non riesce a sottrarsi a questa condanna. Ma le sue grandi opere non sono Lo straniero, La peste, La caduta e i vari drammi. Sono i due saggi,
Il mito di Sisifo e L'uomo in rivolta.
È che Camus aveva carattere: come tanti scrittori volontaristici, aveva una posizione. Non aveva immaginazione, tanto meno capacità di ascolto e fantasia. Dei personaggi, cioè delle persone una per una, lui così fiero sostenitore della libertà individuale, gli importava poco. Gli interessavano, dicono i suoi sostenitori, le idee; gli interessava il travaglio, il conflitto tra un'idea e l'altra, come nell'antica tragedia. Ma un conto è la Grecia del V secolo a.C. e un conto è la Francia del 1940, quando l'abitudine al realismo e la sua urgenza sono una vera necessità, mai più venuta meno, neppur oggi.
I punti deboli de Il malinteso
sono due, uno strutturale, l'altro stilistico. Per il primo, la metafora per così dire realistica (albergo- patria) non regge il peso del significato che Camus vuole trasmettere. Il figlio torna a casa, è un figlio prodigo, ma non si fa riconoscere (perché? non è chiaro). La madre e la sorella, proprietarie di un albergo, usano eliminare i loro ospiti (perché? per conquistarsi un posto al sole, ciò che tutti i piccolo-borghesi senza colpo ferire poco dopo realizzarono: la casetta in riva al mare). Che fanno le due sciagurate? Uccidono il figlio e fratello (perché? perché, va da sé, non lo riconoscono, come nella faccenda di Edipo). Da un punto di vista stilistico, il tono è sempre alto, anche quando si devono dire frasi qualunque. «Avete visto, l'alba è venuta ». Ma chi parla così? Qui, invece, tutti parlano così, e sempre lo fanno. In più, nello spettacolo di Carriglio, il raddoppio è costante. La scena non disegna un albergo, ma uno spazio astratto. Gli interpreti pronunciano le loro battute come fossero oracoli, sentenze, aforismi— dolenti, dolorosi, quel che si vuole, ma pur sempre in forma lapidaria, con una quantità di spazi bianchi, ovvero di pause, tra l'una e l'altra. Quello che se la cava meglio è Luca Lazzareschi, l'unico che tenda a smorzare. Galatea Ranzi è prossima ai suoi standard di semi-solennità. Più sacrificata, Giuliana Lojodice. Valentina Bardi è la moglie del figlio prodigo. Lo stesso Carriglio è il servo muto, che alla fine è Dio in persona, il grande assente.
Teatro Eliseo di Roma In scena Galatea Ranzi, Giuliana Lojodice e Luca Lazzareschi
Il malinteso di Camus/Carriglio

Corriere della Sera 23.3.08
Die Welle La storia (vera) di un caso californiano ambientata in Germania dal regista Dennis Gansel
Come si fa in fretta a diventare nazisti
Divide i tedeschi il film in cui un professore «indottrina» gli studenti
Lo strano esperimento «pedagogico» viene interrotto dopo soli 5 giorni, ma questo non evita una fine drammatica
di Danilo Taino


La tesi dell'autore è che quello del fanatismo politico sia un pericolo ancora molto vivo in Germania, ma sono in molti a non condividere questa preoccupazione

BERLINO — Dice Dennis Gansel che, se lo si lascia salire in cattedra, Adolf Hitler conquista ancora. Il regista tedesco è da qualche giorno nelle sale con un film a tesi —
Die Welle (L'onda) — che sta facendo discutere parecchio in Germania. Dopo essere stato applaudito all'ultimo Sundance Festival e visto da 1.400 spettatori in piedi alla Berlinale, tra i quali il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier.
Una classe di teenager viene sottoposta a un esperimento dall'insegnante: lui fa il dittatore, loro devono obbedire. Esperimento realizzato nella vita vera già 40 anni fa in una scuola californiana ma che nel film di Gansel prende toni drammatici e politicamente più rilevanti, anche perché il regista accompagna la pellicola con interviste tipo «penso che, persino oggi, qualcosa del genere possa succedere ancora, in Germania».
L'insegnante Rainer Wenger (l'attore è Jürgen Vogel, Rosenstrasse e The Free Will)
vuole fare una simulazione e trasforma la sua classe, una trentina di studenti, in una dittatura: assume toni da sergente maggiore, impone l'uniforme- camicia bianca, detta slogan, decide il modo in cui si sta seduti in classe, introduce un saluto distintivo: la mano che fa il gesto dell'onda.
Soprattutto, pretende la delazione: chi non sta alle regole va denunciato. La dinamica del gruppo dapprima funziona: cameratismo e aiuto reciproco tra gli aderenti. In poco tempo, però, assume toni fanatici, la violenza si propaga per il campus, i «resistenti» vengono emarginati e si arriva a un finale tragico.
Il film, ambientato nella Germania di oggi, trae ispirazione da un romanzo del 1988 dell'americano Morton Rhue, The Wave. Un testo che molte scuole tedesche fanno leggere agli alunni, uno dei tanti modi per affrontare il «come ci è potuto succedere». Il libro, a sua volta, era ispirato all'esperimento del 1967 di Ron Jones, un insegnante californiano che di fronte ai suoi studenti desiderosi di capire come una dittatura potesse assumere connotati di massa, ricreò un microcosmo nazista in classe.
Immediatamente, gli studenti risposero nel peggiore dei modi, come pecore, tanto che Jones, quando si accorse che stava perdendo il controllo della situazione (solo cinque giorni dopo l'inizio dell'esperimento), convocò un'assemblea, urlò in faccia agli studenti che li aveva manipolati, mostrò loro un film sul nazismo e, ovviamente, mise fine alla simulazione.
Ora, le dinamiche di gruppo sono materia interessante. E, infatti, l'esperimento del 1967, così come il libro del 1988, suscitarono molto interesse. Stabilire, da questo, che il nazismo rischia di riproporsi in Germania — come fa Gansel — è però un salto che richiederebbe qualche prova in più. In fondo; Hitler e Goebbels furono maestri di manipolazione, ma solo con la manipolazione non sarebbero arrivati al potere.
Gansel, 34 anni, dice di avere letto il libro a scuola e di non avere smesso di pensarci da allora. Giustamente, sostiene che «le dinamiche di gruppo possono essere benevole ma anche minacciose» e, in un'intervista alla Reuters, ha citato i casi — diversi tra loro — dei tifosi di calcio, dei manifestanti anti-globalizzazione e della reazione dell'America agli attentati dell'11 settembre 2001. Ma ha anche tratto la conclusione che una nuova dittatura in Germania è ancora possibile.
Più semplicemente, il suo film, percorso da spirito didattico, è interessante perché mostra come le persone possano essere vulnerabili se sottoposte a un regime autoritario. Grazie a Dio, però, non basta una cattedra per fare un Hitler.
Un pericolo ancora presente?