venerdì 28 marzo 2008

l’Unità 28.3.08
Senato, Berlusconi ha paura: «Non votate i minori...»
di Giuseppe Vittori


ECCO DI NUOVO il Berlusconi scatenato, quello che non ne vuole sapere di «toni bassi», quello che strepita contro una Rai in mano ai comunisti e teme di perdere al Senato. È nervoso il capo del Pdl, secondo molti osservatori. Aveva cominciato con la
querelle Porta a Porta: «Macché par condicio: è stato un atto violento di Veltroni». È il giudizio berlusconiano sull’annullamento della sua partecipazione al salotto di Vespa: «Il fatto che lui non voglia andare non significa che il leader dell’opposizione non possa andare lui. Lui non vuole rispondere ai giornalisti, chi è che scappa?». Per il Cavaliere si tratta di «una violenza inaccettabile e gli italiani devono sapere che ancora la Rai è in mano alla sinistra che la domina come e quando vuole». Poveretto: «Ho anche tutte le istituzioni contro: il Capo dello Stato lo hanno nominato loro, così come 11 membri della Corte Costituzionale. Ho una sola preoccupazione, un solo incubo: i brogli elettorali».
Per la verità, di incubi ce n’è anche un altro: il voto ai partiti minori, che al Senato potrebbero far vincere il Pd. «Bisogna spiegare a tutti coloro che sono del centrodestra come il voto, soprattutto al Senato, dato ai partiti minori può portare in qualche regione a una vittoria dell’altra parte». Subito si corregge, almeno parzialmente. Parla di «ipotesi non realistiche» come quelle relative a pareggi e grandi coalizioni. «Ho dei dati - ha spiegato - che mi dicono che in Senato ho una vasta maggioranza, si calcola sui 28-30 senatori». Così, mentre il Capo accusa la Rai e trema per il Senato, ed Emilio Fede, direttore del Tg4, attua una sua personalissima par condicio (per Veltroni e il Pd minuti al cronometro, ma alle due di notte), tiene banco il caso Porta a Porta, coinvolgendo tutti i livelli della Rai, dal presidente Petruccioli, al direttore generale Cappon. Petruccioli ha ricostruito, «fino alla pignoleria» - scrive, rispondendo a Mario Landolfi, della Vigilanza - la vicenda. «Qui si tratta di una seconda presenza di Berlusconi non equilibrata da altre presenze e, in particolare, da una seconda presenza di Veltroni». Il succo, insomma, è che «il comitato si è trovato di fronte ad una ipotesi di programmazione per le ultime 10 puntate di Porta a Porta in cui erano previste due presenze di Berlusconi e una di Veltroni, senza che ne venisse fornita alcuna giustificazione». Non è d’accordo, ovviamente, Bruno Vespa. Scrive in una lettera di non condividere che un’assenza volontaria ne determini un’altra: «Ho detto che avrei annullato la trasmissione solo dopo una lettera di Cappon. Questa lettera, molto cortese, ma anche assai esplicita, è arrivata più tardi. Non si può dunque attribuirmi in alcun modo la decisione finale».

Repubblica 28.3.08
Berlusconi lancia l'allarme "Al Senato si può perdere"
di Gianluca Luzi


Il Cavaliere: "A qualcuno piace l´Udc? Gli dia il voto ma solo alla Camera"

ROMA - Ne parla Veltroni, i sondaggi lo confermano e per la prima volta dall´inizio della campagna elettorale Berlusconi evoca esplicitamente il fantasma del pareggio. Anzi, va ancora più in là e in un forum elettorale all´agenzia di stampa Adnkronos ammette che al Senato può anche perdere. «Non mi esercito mai in ipotesi che considero irrealistiche», premette il leader del Pdl riferendosi alla Grande coalizione dopo il voto. «I dati in mio possesso - afferma Berlusconi - dicono che avremo una vasta maggioranza al Senato, di 28-30 senatori». Ma Berlusconi non sembra tanto sicuro che le cose andranno a finire proprio così, o perlomeno non con una vittoria che lo metterebbe in condizione di governare senza problemi. Perché c´è Storace che toglie voti da destra e soprattutto c´è Casini che può erodere il patrimonio di voti del Pdl. Per questo, martella Berlusconi, «dobbiamo spiegare agli elettori del centrodestra come il voto ai partiti minori, soprattutto al Senato, può portare a una vittoria dell´altra parte, è un regalo a Veltroni». Del resto, già ieri mattina incontrando la Confartigianato, Berlusconi aveva avvertito che «bisogna concentrare il voto e non disperderlo: un elettore di centrodestra deve votare il Pdl per consentirgli di ottenere una solida maggioranza. E se a qualcuno piace Casini perché l´è un bel fioeu, allora lo voti alla Camera ma non al Senato». Berlusconi cita l´ultimo sondaggio a sua disposizione che dà al Pdl un vantaggio di 8,6 punti sul Pd: «Noi con la Lega e l´Mpa siamo al 44,6 per cento, mentre il Pd con Di Pietro sta al 36 per cento». Ma l´ipotesi pareggio evidentemente è presente anche al vertice del Pdl tanto che Fini avverte perentorio: «Al Senato non si può disperdere neanche un voto». Casini naturalmente sul «voto utile» come lo intende Berlusconi è di parere opposto così come definisce «bufale che verranno smentite» quelle del voto disgiunto: Udc alla Camera e Pdl al Senato. «Gli elettori italiani non si facciano coinvolgere da una politica che è diventata molto poco seria, e votino per i loro ideali». E in caso di pareggio Casini esclude un accordo con il Pdl: «Non esiste proprio. Le alleanze si fanno prima del voto e non dopo». I sondaggi dicono che tira aria di pareggio. Anche per Veltroni è un´ipotesi realistica e in questo caso - sottolinea il leader del Pd - bisognerà fare le riforme che non sono state fatte prima dello scioglimento delle Camere. «Se alla fine di questa fiera c´è parità, voglio capire come si governa questo Paese. - fa notare Veltroni - Serve una fase costituente e può darsi che saremo costretti ad accelerare i tempi». L´Italia «ha bisogno di una fase costituente che porti a tutte quelle riforme di cui il Paese ha bisogno, soprattutto in un momento in cui la congiuntura economica internazionale è negativa e l´Italia sta attraversando una fase di difficoltà». Il pericolo, per Veltroni, è che il Paese «rischia di non trovare la chiave per accendere la macchina» quindi «serve una stagione riformista, di qualunque segno essa sia, basta che non restiamo nella gelatina o nella marmellata. Senza una stagione riformista rischiamo di entrare in una spirale molto negativa». E se c´è il pareggio? «Qualunque sia il risultato delle elezioni, per me lo scenario non cambia: chi vince anche di un solo voto governa, poi le riforme si fanno insieme».

Corriere della Sera 28.3.08
Il sondaggio In bilico Sardegna, Liguria, Abruzzo, Calabria e Lazio
Sfida Pdl-Pd, in cinque regioni la distanza è del 2%
A livello nazionale il divario è intorno al 6 per cento. Seggi al Senato, decisivo il risultato di Udc e Sinistra


A livello nazionale il divario è intorno al 6 per cento. Seggi al Senato, decisivo il risultato di Udc e Sinistra

Il quadro emerso da diverso tempo appare confermato: la coalizione di centrodestra rimane in vantaggio, con una differenza di circa 6 punti rispetto a quella avversaria. Ma quest'ultima sembra, di recente, secondo alcuni istituti, avere accorciato significativamente le distanze.
Occorre tuttavia sottolineare che questi dati si riferiscono alla competizione per la Camera, ove il computo del premio di maggioranza (oltre che della soglia di accesso del 4%) si effettua considerando l'elettorato nel suo insieme, come fanno, appunto i sondaggi. Diverso è il discorso per il Senato, ove il calcolo avviene a livello delle singole regioni. Anche qui si rileva oggi la prevalenza netta della coalizione di centrodestra, con circa 9 seggi oltre la maggioranza assoluta. Ma il dato può modificarsi anche sostanzialmente. Per almeno due ordini di fattori: a) la distanza ravvicinata tra le coalizioni in alcune regioni. In certi contesti, il risultato appare ragionevolmente scontato. Lombardia, Veneto e Sicilia andranno al Pdl (con Lega e MPA). In Emilia, Toscana e Umbria vincerà il Pd (con l'Idv). In altre regioni, l'esito parrebbe però in qualche misura più contrastato e in alcune (Liguria, Sardegna, Abruzzo, Calabria e Lazio) davvero molto incerto, dato che la distanza tra le due coalizioni risulta assai esigua e oscillante tra l'1-2%.
b) La «lotteria» dell'8%. Il secondo fattore comporta a un risultato imprevedibile in tutte (o quasi) le regioni. Si tratta di quella che D'Alimonte ha denominato in modo assai efficace la «lotteria» dell'8%. Nella gran parte delle regioni, infatti, le due principali forze concorrenti ai partiti maggiori, vale a dire l'Udc e la Sinistra l'Arcobaleno, risultano oggi toccare da vicino — ma non sempre superare — la soglia per accedere alla distribuzione dei posti in Senato. Il raggiungimento dell'8% in una o più regioni comporterebbe un maggior numero di partecipanti alla ripartizione dei seggi e quindi una parziale sottrazione di questi ultimi al Pd o al Pdl. Se, ad esempio, in una data regione debbono essere assegnati in tutto 10 seggi e 6 vanno alla coalizione vincente (Pd o Pdl), i restanti 4 andranno tutti al soccombente (Pd o Pdl) se nessun altro raggiunge l'8%. Andranno invece ripartiti anche con Udc e/o Sin. Arcobaleno se questi riescono a superare la soglia di ammissione. Tutto ciò può modificare, anche in modo sostanziale, gli equilibri e le maggioranze.
Nessuno quindi può dire se il responso delle urne confermerà il quadro oggi rilevato: la volta scorsa, nel 2006, le ultime due settimane videro, grazie alla capacità comunicativa di Berlusconi e agli errori di Prodi, una forte «rimonta» da parte del centrodestra.
Potrà Veltroni «rimontare» in modo analogo? Secondo alcuni, lo sta già facendo. L'ex sindaco di Roma ha dalla sua parte una forte popolarità personale: un recente sondaggio ha visto proprio Veltroni primo nella classifica nella fiducia espressa dagli elettori. Forse anche per questo, il quesito che richiede le previsioni degli stessi elettori sull'esito del voto, mostra, nelle ultime settimane, un accrescersi della quantità di indecisi sul risultato elettorale. Ma non è detto che il leader del Pd sappia o possa sfruttare appieno queste sue potenzialità. Tutto dipenderà da quella minoranza (10%) che deciderà all' ultimo minuto. E' verso costoro - che sceglieranno sulla base dei confronti televisivi e, spesso, dei consigli degli amici - che è diretta in realtà la campagna elettorale dei prossimi giorni.

l’Unità 28.3.08
La sfida degli indecisi: 8 milioni di voti in bilico
di Eduardo Di Blasi


Sondaggio Lorien su chi decide «d’impulso»: a far pendere la bilancia le performance dei leader

NELLA SCORSA tornata elettorale, le previsione fatte sulla platea dei cosiddetti «indecisi», circa 15 milioni di potenziali elettori che alla domanda fatidica dei son-
daggisti sulle intenzioni di voto non rispondono (e che poi andranno a votare in 6, 7, 8 milioni), furono tutte disattese. Nessun istituto di ricerca riuscì a cogliere la crescita di Silvio IV (al tempo candidato per la quarta volta di fila alla Presidenza del Consiglio) anche in questo bacino potenziale.
Oggi uno studio della Lorien Consulting di Antonio Valente, eseguito su un campione mobile di 2000 cittadini strutturati per sesso, età e provincia, ci informa che i due terzi di costoro hanno già quasi definito il proprio orientamento (e devono solo «non essere distratti ed essere rassicurati»), mentre all’altro terzo occorrono ancora elementi per fare una scelta, e voterà d’impulso (la categoria è definita «voto emozionale», o, per l’appunto «di impulso»).
Per raccogliere il voto di queste persone ci si affida alle «ultime promesse elettorali», alle «ultime performance dei partiti o dei loro candidati», al voto «per controdipendenza» (il famoso «votare contro»). In questa fetta ci sarà comunque qualcuno tra costoro che apporrà la propria preferenza a questo o quel partito per «impulso puro», vale a dire una volta dentro la cabina.
I comportamenti elettorali, anche quelli che appaiono come i più razionali, hanno sempre una componente emozionale. Ecco perché gli ultimi appelli al «voto disgiunto» (vale a dire a un voto che premi in alcune regioni i partiti più forti e in quelle dove questi perdono quelli di media stazza, in grado di togliere consenso al partito maggiore) possono fare breccia non solo tra l’elettorato più accorto politicamente (inteso come quello che mira alla vittoria della propria parte), ma anche in quello ancora indeciso. E qui farebbe comodo illustrare il «voto potenziale» espresso da quegli elettori «indecisi» che «sicuramente» o «probabilmente» andranno a votare. Il sondaggio della Lorien Consulting prende in esame anche questa categoria. E afferma, per cominciare, quale sia la «prima scelta».
Ha scelto in prima istanza di votare il Pdl il 35,4% del campione di indecisi. Mentre il 30,3% ha come prima opzione il Pd. Sempre in questa fetta di indecisi, il 18,2% premierebbe l’Idv, il 16,3% l’Udc, il 13,7% la Lega, il 13,4% la Sinistra Arcobaleno, l’8,1% la Desta e il 5,5% il Partito Socialista.
Tra chi ha espresso come prima opzione il Pdl, opterebbe anche per la Lega (29,3%), per la Destra di Storace (20,1%), per l’Udc di Casini (19,6%), e, in parte, anche per il Pd (10,7%).
Di contro, tra chi preferisce in prima battuta il Pd, non dispiacciono nemmeno l’Idv (42,9%), la Sinistra Arcobaleno (22,3%), il Partito Socialista (12,4%), e anche Udc (22,5%).
Tra chi pone come prima scelta Sa, il 52,8% darebbe anche il proprio voto al Pd, il 46,5% all’Idv, il 15,8% ai Socialisti, e, strano a pensarci, il 15,4% anche all’Udc (la possibilità di risposte multiple allarga la torta).
L’elettorato più difficile da conservare, in questa categoria di indecisi, sembra però proprio quello del partito di Casini. Tra gli elettori del centro moderato, infatti, il 43,8% voterebbe anche Berlusconi, il 42,2% darebbe la propria preferenza anche al Pd, il 25,3% all’IdV e il 17,7% alla Lega.
Tra le ultime note dell’analisi, la Sinistra è data stabile (intorno al 7%, «con segnali di saturazione del proprio bacino»), mentre la Destra di Storace, pur potendo pescare su un bacino elettorale ampio, non sembra sganciarsi da 2-3%.

l’Unità 28.3.08
Veltroni: «Se ci fosse il pareggio si acceleri la fase costituente»
di Bruno Miserendino


Veltroni chiude il tour in Sicilia: da mesi ci inseguono
Berlusconi? I leader europei hanno la mia età, non la sua

E SE FOSSE PAREGGIO? Rieccolo il tormentone. La Destra suona le trombe dicendo che il pareggio non ci sarà, ma l’ipotesi, stando ai sondaggi e alla bizzarria della legge elettorale, è sul tappeto più che mai. «Ci si chiede se ci sarà una maggioranza... ». Vel-
troni, sia chiaro, non vuole larghe intese, «chi ha un voto in più governa», ma riforme e governabilità bisogna assicurarle. «Una fase costituente» è indispensabile al paese, dice, e bisognerà pur chiedersi come si governa in una congiuntura così difficile, coi venti di recessione che vengono dagli Usa. Non è la prima volta che ne parla, ma stavolta l’accento batte sulla debolezza dell’Italia. Lo dice all’assemblea di Confagricoltura di Taormina, nella sala che ospiterà tra oggi e domani anche Casini e Berlusconi. Fa un discorso che non cerca applausi, spiega perché il paese rischia brutto se non si fronteggia la situazione e non si accelera sulle riforme.
Il presidente di Confagricoltura evoca l’assemblea costituente e Veltroni dice che quella no, non serve, però una fase costituente per le riforme, quella sì che ce n’è bisogno come il pane, comunque vadano le elezioni: «Può darsi - aggiunge - che saremo costretti ad accelerare i tempi perché se alla fine di questa fiera finirà come dicono i sondaggi con 3-4 voti di differenza, voglio capire come si governa questo paese». All’uscita dall’assemblea di Confagricoltura, vista la curiosità dei cronisti, getta acqua sul fuoco: «Non ho detto niente di nuovo». Come dire, non ci sono larghe intese alle viste, chi vince governa, poi, come ho sempre sostenuto, le riforme di sistema si fanno insieme.
Il problema, fa capire Veltroni, è che se si arrivasse a una situazione simile a quella che ha inguaiato Prodi, non si potrebbe tornare alle elezioni senza mettere mano alle riforme. E nel frattempo ci vorrebbe un governo in grado di fronteggiare l’emergenza economica che sta arrivando. È chiaro che se vincesse la Destra, in ogni caso quella del Pd sarebbe un’opposizione per le riforme, non distruttiva, che si farebbe carico del problema della governabilità. Non è un caso che il riferimento alla fase costituente Veltroni lo fa citando esempi stranieri: «Ci sono Paesi in cui la maggioranza ha pochi voti di scarto, ma c’è un fair play che consente stabilità. E senza stabilità il Paese va a gambe all’aria». Da noi, invece, «se c’è un’epidemia d’influenza rischia di cadere il governo... ». Ecco perché lui darebbe la guida di una Camera all’opposizione, al contrario di Berlusconi che ha già fatto marcia indietro sul punto.
Quello di Veltroni, dunque, è un discorso di metodo. «Noi puntiamo a vincere - dicono al Pd - e ci crediamo perché i sondaggi lo indicano», però bisogna fare i conti con questa legge elettorale. Il leader del Pd non fa sconti a chi non ha voluto le riforme. «La chiave della macchina Italia è sotto i piedi di chi l’ha schiacciata il giorno in cui ci disse no all’ipotesi di un governo per le riforme».
Al Paese, dice, servono «alcuni anni di terapia di innovazione». La situazione economica ricorda tanto la crisi del ’29 «e bisogna tenere alta la guardia». «Serve una stagione riformista, di qualunque segno essa sia...», afferma. Aggiunta, sorridendo: «Più di questo non posso dire, basta che non restiamo nella gelatina».
«Girare la testa verso il futuro», è il leit motiv di Veltroni. Un modo elegante e volutamente soft per dire che dall’altra parte c’è il vecchio. Insiste sull’età del candidato Berlusconi, che non nomina mai, spiegando che in nessun paese del mondo ci si candida per la quinta volta a premier. Spiega che in tutta Europa i leader che contano hanno la sua età, non quella di Berlusconi. E Tremonti si occuperà di economia e Bossi di riforme, proprio come 14 anni fa.«Su ogni cosa che facciamo, subito il giorno dopo, c’è un inseguimento». Come sulle pensioni.
A Messina, terza tappa dopo Siracusa (comizio sotto la pioggia) e Taormina, Veltroni trova un palasport gremito da migliaia di persone e dà la carica, dando appuntamento alla domenica dei gazebo. Al Palasport partono fischi contro Berlusconi e Tremonti ma lui stoppa: «Anche se loro non hanno rispetto per noi, io ce l’ho per loro... ». Anche a Catania teatro stracolmo. Il tour siciliano si conclude a tarda sera, con una videochat notturna in diretta. Veltroni ci crede ancora.

Repubblica 28.3.08
E ora l'operazione voto disgiunto tenta il Pd in più di una regione
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Dovete andare bene, mi raccomando». Con un sorrisetto piuttosto chiaro, Pierluigi Bersani ha augurato al leader della Sinistra Arcobaleno Franco Giordano un buon risultato nella sua regione, l´Emilia Romagna. I due si sono incrociati in uno studio televisivo qualche giorno fa e hanno parlato del "voto inutile" che invece può diventare utilissimo, soprattutto per chi insegue. Utile per impedire la vittoria del Popolo delle libertà al Senato, per creare le condizioni di un sostanziale pareggio. Nelle regioni rosse (Toscana, Emilia, Umbria, Marche) lo schieramento di Fausto Bertinotti deve perciò assolutamente superare l´8 per cento necessario a strappare seggi al Senato. Tanto lì il Partito democratico ha già il premio di maggioranza in tasca, dunque bisogna concentrarsi sui voti di minoranza e fare in modo che il resto dei senatori eletti in quell´area vadano a tutti (anche all´Udc di Pier Ferdinando Casini) fuorché a Berlusconi, Fini e Bossi, cioè al Popolo delle libertà.
I sondaggi dicono che una buona affermazione dei centristi e della sinistra è davvero in grado di condizionare l´esito delle elezioni e disegnare una situazione di stallo al Senato. L´ipotesi è stata ripresa da Europa, l´ex quotidiano dalla Margherita che adesso vede l´utilità di un voto disgiunto: Partito democratico alla Camera, naturalmente, e un´eventuale preferenza a Casini o Bertinotti al Senato (ma più Casini di Bertinotti visti i rapporti della Margherita con Rifondazione nell´ultima legislatura). Sono voti sottratti a Veltroni, ma danneggerebbero Berlusconi come se li prendessero i democratici. Il segretario del Pd ha studiato i numeri e le tabelle. Per il momento punta ancora a costruire il consenso intorno al Pd. «È difficile il meccanismo del voto disgiunto...», evita di sbilanciarsi Veltroni.
Ma il "trucco" è possibile. «Se la Lega si fosse presentata da sola o con una lista Bossi in Lombardia e Veneto, il centrodestra avrebbe preso 7 senatori in più», spiega Roberto Calderoli, l´autore della legge che per la seconda volta potrebbe portare all´ingovernabilità di Palazzo Madama. «Ma ascoltate me che sono il massimo esperto di questa norma: il pareggio non ci sarà, vincerà il Pdl. Di 30, 15 o 9 senatori in più non importa. Ma vincerà». Perciò invita sia Veltroni sia il suo alleato Berlusconi «a non fare appelli per il voto disgiunto». Dice Calderoli: «Date alla gente la possibilità di scegliere con chiarezza». Certo, la tentazione rimane. Bertinotti e Casini sognano un ruolo decisivo a Palazzo Madama e quindi per la partita complessiva. Chi è in vantaggio teme il pareggio, chi insegue, come il Partito democratico, ci fa un pensierino. Il Partito democratico per esempio è destinato alla sconfitta in Veneto, ma in quella regione l´Udc oscilla intorno al 7 per cento, a un punto dalla fatidica soglia. Conviene a Veltroni appellarsi al voto disgiunto? Mica tanto. Se Casini resta sotto l´8 (e la Sinistra Arcobaleno in Veneto è molto lontana da quel risultato) i seggi di minoranza può conquistarli tutti Veltroni magari lasciandone uno a Di Pietro. Nel Lazio, che è in bilico, al Pd conviene giocarsela fino in fondo invece di augurare all´Udc il superamento del tetto. Ma in Campania, dove i democratici sembrano avviati alla sconfitta, la possibilità di far superare a Casini l´8 per cento permette di riaprire la partita. E in Puglia può accadere lo stesso. Poi, per paradosso, questo meccanismo consentirebbe in Campania di favorire l´elezione a Ciriaco De Mita che dell´Unione di centro è il capolista, ma questo è un aspetto secondario. Nel ´96 la lista Dini, allora nel centrosinistra, superò lo scoglio del 4 per cento grazie ai voti della Quercia, si disse. Oggi forse non è più così facile controllare i voti. Ma anche i trucchi legati alla legge elettorale fanno parte del gioco.

Corriere della sera 28.3.08
Verso il voto «Se vinco avrò tutte le istituzioni contro, anche il capo dello Stato»
Berlusconi: Senato a rischio E lancia il «voto disgiunto»
«Casini, un bel fioeu. Chi vuole lo scelga, ma solo alla Camera»
di Lorenzo Fuccaro


Affondo sul no di Veltroni a Vespa: violenza inaccettabile, la Rai è ancora in mano alla sinistra

ROMA — «Solo un matto si può prendere la responsabilità di governare di fronte alla situazione in cui la sinistra ha ridotto il Paese». Silvio Berlusconi si dà del folle, in senso metaforico, per avere accettato la nuova sfida. Ma il tono è aspro: «Se vincerò avrò tutte le istituzioni contro: il Capo dello Stato lo hanno nominato loro, il Csm è di là, le Procure di là, nella Corte costituzionale hanno la maggioranza e volevano pure nominare l'ex sindaco di Genova, Giuseppe Pericu ». Evoca poi il cosiddetto voto disgiunto per scongiurare un eventuale pareggio al Senato appellandosi agli elettori dell'Udc, benché in serata si corregga sostenendo che «avremo una vasta maggioranza di 28-30 senatori ». Quella del voto disgiunto resta, comunque, una novità rispetto al leitmotiv del voto utile usato finora, del voto cioè dato solo ai due grandi partiti. Dopo avere ricordato l'importanza che gli elettori del centrodestra diano la preferenza al Pdl per consentirgli di avere una maggioranza stabile, Berlusconi ammette: «Se a qualcuno piace Casini lo voti, magari perché è un bel fioeu... lo voti alla Camera ma non al Senato». Una battuta ironica che ricorda quella usata a suo tempo da Romano Prodi che definì Francesco Rutelli «un bello guaglione».
In ogni caso, il bersaglio di Berlusconi è il capo del Pd che, disertando una serata nel salotto tv di Bruno Vespa, «si sottrae al confronto per la disperazione, è un già visto che fece anche Prodi nel 2006».
Con questo scontro a distanza la campagna elettorale si infiamma. Parlando nel pomeriggio nella sede dell'AdnKronos, il Cavaliere cita un'ultima rilevazione, secondo la quale il Pdl con la Lega e il Mpa è al 44,6% mentre il Pd assieme all'Italia dei valori raggiunge il 36. Ed è questa la chiave per comprendere il gesto dell'ex sindaco di Roma. «La sinistra di Walter Veltroni e Bettini - argomenta l'ex premier irritato per il paragone con Jean-Marie Le Pen fatto per l'appunto da Bettini nell'intervista al Corriere di ieri, segno a suo dire del cambio di strategia nella comunicazione politica con il ritorno all'antiberlusconismo ha la consapevolezza che questi ormai sono i sondaggi e loro sono a un sentimento prossimo alla disperazione perché sono consapevoli dell'eredità che ci lasciano e di come siano ormai cadute tutte le promesse contenute nella fiction di Veltroni».
Davanti all'assemblea di Confartigianato, in mattinata, l'ex premier è molto più duro. La decisione di Veltroni di disertare
Porta a porta, tuona, non significa che debba fare altrettanto il leader dell'opposizione: «Questa è una violenza inaccettabile e gli italiani devono sapere che la Rai è ancora in mano alla sinistra che la domina come e quando vuole». Non solo: «La par condicio non c'entra nulla, c'entra un atto violento da parte di Veltroni che ha detto non voglio andare a rispondere ai giornalisti ». Certo, incalza sarcastico, «lo capisco, poverino. È stanco a salire su e giù dal pullman. Tutti i giorni va a mangiare a sbafo da una famiglia diversa. Capisco che sia stanco. Ma così la Rai si è messa al suo servizio».

l’Unità 28.3.08
Nuovo appello per Ingrid Betancourt: «Sta molto male»
di Marina Mastroluca


Ostaggio delle Farc dal 2003, avrebbe contratto l’epatite B e la leishmaniosi. «Cerchiamo di farle avere delle medicine»

«Le informazioni di cui noi disponiamo, è che si trova in uno stato di salute molto precario, le sue condizioni fisiche e la sua salute si sono deteriorate». Ingrid Betancourt sta male, a dirlo è l’Ombudsman colombiano Volmar Perez, confermando le notizie allarmate diffuse anche da un ex ostaggio, liberato di recente. La ex candidata alle presidenziali della Colombia, rapita nel febbraio del 2003 dalle Farc, sarebbe in pessime condizioni fisiche, affetta da epatite b e leishmaniosi, una malattia della pelle che se non curata può avere un esito fatale. Nei giorni scorsi il Diario de Huila aveva persino parlato della possibilità che fosse morta, dopo che dalla selva erano stati fatti arrivare alcuni cadaveri a San Vicente del Caguan. Ma questa ipotesi è stata smentita. Il governo colombiano smentisce anche le voci sulle precarie condizioni di salute di Ingrid. «Non diamo grande credibilità a queste voci - ha detto Luis Carlos Restrepo, Alto commissario per la pace -. Abbiamo cercato di entrare in contatto con le persone che riportano queste voci, ma non c’è niente di vero, niente di concreto».
L’ultima testimonianza fornita dalle Farc sulle condizioni di Betancourt risale allo scorso dicembre. Nelle immagini Ingrid appariva magrissima, con il volto scavato, pallida e con gli occhi spenti. Anche l’ex ostaggio Luis Eladio Perez ha confermato che la salute della donna è davvero fragile. «Abbiamo potuto verificare che Ingrid è stata curata in centri medici del dipartimento del Guaviare, fra i quali El Retorno», ha spiegato l’Ombudsman alla radio privata colombiana Caracol, spiegando che in base alle informazioni raccolte la situazione di Ingrid «non era molto lontana dalle immagini che conosciamo dei bambini della Somalia», quanto a magrezza e debolezza. Perez ha anche detto che si sta tentando di intervenire per aiutarla. «Cercheremo di farle giungere farmaci per la cura delle malattie tropicali», ha detto, sottolineando che «le Farc dovrebbero capire che è necessario, in base al diritto internazionale umanitario, permettere visite mediche».
Le affermazioni di Perez sono state prese con estrema prudenza dai familiari di Betancourt. Nelle ultime settimane si è parlato di un nuovo piano per la liberazione di Ingrid, dopo l’attacco colombiano su una postazione delle Farc, che ha provocato la morte di un alto dirigente dell’organizzazione e ha interrotto i contatti avviati dal presidente venezuelano Chavez.

Repubblica 28.3.08
G8, parla il superfunzionario Luperi "Diaz, pagina orribile per la polizia"
di Massimo Calandri


GENOVA - «La scuola Diaz è una delle pagine più brutte della storia della polizia. Una notte da dimenticare, una storia orribile. Come quella di Bolzaneto». Giovanni Luperi, 58 anni, attuale capo dell´Aisi, l´agenzia di informazioni e sicurezza interna ex Sisde, ricorda il blitz nell´istituto che durante il G8 ospitava i no-global. Per quella sciagurata irruzione - 93 persone picchiate e imprigionate con prove fasulle - è imputato di falso in atto pubblico, calunnia aggravata, arresto illegale e abuso d´ufficio. Insieme a lui, difeso dall´avvocato Carlo Di Bugno, sono accusati 28 tra funzionari ed agenti. Ieri mattina si è presentato in aula ed ha reso spontanee dichiarazioni. Senza contraddittorio, come gli consente il codice. Per la prima volta uno dei super-poliziotti coinvolti ha parlato pubblicamente dell´operazione del 21 luglio 2001. Si è detto «profondamente addolorato» per tutti quei ragazzi feriti nella scuola. «Sconcertato» per tutti gli arresti. Però ha preso le distanze dai colleghi, sostenendo di aver avuto un ruolo del tutto marginale e non operativo.
La procura invece mostra filmati e testimonianze: sostenendo che in quella "brutta pagina" lei abbia avuto un ruolo da protagonista.
«Io al vertice mi occupavo dei rapporti tra le polizie internazionali. Non di polizia giudiziaria. Quella notte ho accompagnato il prefetto Arnaldo La Barbera, appena arrivato a Genova. Per me il G8 era finito, stavo in disparte: quando è finito tutto mi hanno pure lasciato da solo, senz´auto».
Ero solo un osservatore, dice. Ma in un video la si vede con in mano il sacchetto delle due molotov, la regina delle prove fasulle, che un poliziotto aveva portato dentro l´istituto.
«Il peso di quel sacchetto me lo porto dietro da più di sette anni. Mi sono rimaste appiccicate alle mani, le bottiglie. Sono certo di averle poi consegnate ad una funzionaria che conoscevo. Non so chi me le abbia date. Davvero, non ricordo. Comunque, questo non è importante».
E cosa è importante?
«Domandatelo al vigliacco che ce le ha messe dentro. Io come potevo sapere che fosse tutto falso? Ad un certo punto un agente ha detto di aver ricevuto una coltellata da uno sconosciuto. Perché non avrei dovuto credergli?».
La versione degli imputati è la stessa. Nessuno ha picchiato, nessuno ha perquisito. Nessuno ha visto o fatto niente. Nessun responsabile, insomma. Non è che poi pagheranno solo un paio di agenti dalle mani pesanti?
«Lo ripeto, sono consapevole che sia stata scritta una brutta pagina nella storia della Polizia di Stato. Ma non l´ho scritta io. Io non ci volevo andare, in quella scuola».

Repubblica 28.3.08
La politica e le torture di Bolzaneto
di Stefano Rodotà


Quando a Bruxelles si scriveva la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, qualcuno osservò che forse non era il caso di fare un riferimento esplicito alla tortura. La prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio, si diceva, doveva guardare al futuro, non attardarsi su anacronismi, certamente nobili, ma che l´Occidente civilizzato si era ormai lasciati alle spalle. Saggiamente si decise di resistere a questa tentazione, e così il divieto, già con forza ribadito dalla Convenzione dell´Onu del 1984, è stato mantenuto nell´articolo 4 della Carta: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti». Si era alla fine del 2000. Di lì a poco sarebbero venuti Guantanamo e Abu Ghraib, le deportazioni verso compiacenti paesi torturatori, i suggerimenti del professor Dershowitz per una tortura "legalizzata" e il veto del presidente Bush contro una sia pur limitata legge antitortura. E Bolzaneto, Italia. L´Occidente ha dovuto di nuovo fare i conti con il suo lato più oscuro, rimosso non cancellato.
In Italia tutti sapevano, o comunque si era di fronte ad una vicenda per la quale davvero l´ignoranza non scusa. Voci diverse si erano levate, le testimonianze si moltiplicavano, ricordo tra le tante la narrazione di un noto giornalista sportivo che, con una straordinaria freddezza di cronista, riferiva lo stato in cui aveva ritrovato suo figlio. Ma i fatti della Diaz e di Bolzaneto venivano progressivamente respinti sullo sfondo, sopraffatti dalle violenze dei black block e dall´uccisione di Carlo Giuliani. Sembrava quasi che le violenze dei manifestanti e la reazione mortale d´un carabiniere appartenessero ad una normalità perversa, ma governata da una sorta d´invincibile fatalità; e descrivessero comunque qualcosa che può accadere quando pulsioni e paure si fanno troppo forti.
Bolzaneto no. Da lì si voleva distogliere lo sguardo. In quelle stanze s´era manifestata all´estremo la "degradazione dell´individuo" tante volte ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale. Ufficialità, perbenismo, cattiva coscienza rifiutavano di specchiarsi nella negazione dell´umano.
Proprio quella negazione è svelata dal tremendo catalogo compilato dai magistrati genovesi, e squadernato davanti all´opinione pubblica dall´iniziativa di questo giornale, dagli implacabili reportage di Giuseppe D´Avanzo. Il silenzio istituzionale è stato rotto, la stampa ha ritrovato la sua funzione di ombudsman diffuso, l´opinione pubblica non può più trincerarsi dietro il "non sapevo". E tuttavia la reazione già appare attutita, inadeguata. Non è venuta un´attenzione corale del sistema dell´informazione: rispetto della regola gelosa per cui non si riprendono le notizie lanciate dagli altri? Non è venuta un´attenzione vera e intensa dall´intero sistema politico: l´eterno gioco delle convenienze, l´eterna vocazione a minimizzare? Sta di fatto che, dopo i fuochi dei primi giorni, è tutto un troncare, sopire… Le norme non ci sono – si dice. Al massimo ci saranno stati comportamenti "devianti" di qualche sconsiderato. E ci si acquieta.
Ma i Paesi davvero civili, le democrazie non ancora perdute dietro riti televisivi insensati reagiscono quando scoprono i loro vuoti, le loro inadeguatezze. S´interrogano sulle ragioni, si mettono in discussione. Proprio il trovarsi nel cuore d´una campagna elettorale avrebbe dovuto favorire il parlar chiaro, gli impegni netti, la sfida alle proprie pigrizie. Perché non dire subito che la prima proposta di legge (o la seconda o la terza, non importa) sarebbe stata proprio quella volta a colmare la vergognosa lacuna dell´assenza di una norma sulla tortura, che rende inadempiente l´Italia non di fronte a un trattato tra i tanti, ma di fronte all´umanità intera? Perché, tra le varie iniziative e commissioni annunciate con fragore di trombe, non ne è stata inclusa una incaricata di preparare proprio quel testo? Perché tra gli impegni bipartisan su temi di grande e comune interesse, che dovrebbero vedere dopo le elezioni gli sforzi congiunti di maggioranza e opposizione, non compare la questione della tortura, l´impegno a rendere finalmente operante in Italia la Convenzione dell´Onu dopo un quarto di secolo di disattenzioni e di ritardi?
Non basta tornare sulla proposta di una commissione parlamentare d´inchiesta. Conosciamo, purtroppo, il degrado di questo strumento: non sono più i tempi della Commissione De Martino sul caso Sindona o della Commissione Anselmi sulla P2. E, comunque, si tratta di qualcosa di là da venire, che può assumere il sapore del rinvio. Mentre già oggi, pur con le lacune della legislazione penale, sono possibili impegni istituzionali e politici, vincolanti almeno per il futuro ministro dell´Interno: ricorso a tutti gli strumenti amministrativi disponibili per emarginare chi è stato protagonista di quelle vicende; pubblica condanna, senza troppi distinguo, nel momento stesso dell´assunzione dell´incarico. Una difesa della polizia in quanto tale può essere intesa come una promessa di copertura, la banalizzazione degli atti di violenza assomiglia ad una sorta di annuncio di una loro inevitabile ripetizione. Che cosa dire di fronte all´affermazione di un ex-ministro della Giustizia che, parlando di persone obbligate tra l´altro a stare in piedi per ore, si sente autorizzato a fare battute di pessimo gusto sui metalmeccanici che sono in questa condizione ogni giorno per otto ore? Ma l´irresponsabilità politica viene da lontano. Ricordo un sottosegretario alla Giustizia, poi transitato nelle schiere garantiste quando le inchieste giudiziarie cominciarono a riguardare il ceto politico, che venne alla Camera dei deputati a parlare di violenze carcerarie sostenendo che, avvertiti di un trasferimento, alcuni detenuti si erano «sporcati il viso con vernice rossa».
Giuliano Amato ha sottolineato che «si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo che al loro rispetto in casa nostra». Chiediamoci perché, allora. E la risposta va cercata proprio nell´eclissi sempre più totale della cultura dei diritti, sopraffatta da un´enfasi sproporzionata e strumentale sul bisogno di sicurezza. I diritti disturbano, possono essere sospesi, com´è appunto accaduto a Bolzaneto. La fabbrica della paura è divenuta parte integrante della fabbrica del consenso. Basta girare per il centro di Roma, dove si circola senza particolari problemi, invaso da manifesti davvero bipartisan che ossessivamente promettono sicurezza, e solo sicurezza. Quale enorme responsabilità assume in questo modo la politica, creando un clima che induce a ritenere giustificata qualsiasi reazione.
E non si insiste, come sarebbe doveroso, sul fatto che la magistratura, una volta di più, è stata l´unica istituzione capace di vera e civile reazione. Si colgono, anzi, atteggiamenti stizziti, dietro i quali non è difficile scorgere il disagio di chi avverte che l´inchiesta di Genova non rivela soltanto comportamenti inqualificabili, ma mette a nudo i limiti della politica. Si celebrano i giudici lontani, com´è giustamente accaduto quando la Corte Suprema degli Stati Uniti condannò le violazioni dei diritti a Guantanamo. Troppi dimenticano di dire che la vergogna di Genova può cominciare ad essere riscattata solo contrapponendo la civiltà giuridica e la lealtà istituzionale dei magistrati genovesi alla violenza contro l´umano e la legalità consumata a Bolzaneto.

Repubblica 28.3.08
Spagna, la cena del primo europeo
Ad Atapuerca i resti fossili d'un pasto, più di un milione di anni fa
di Elena Dusi


Su "Nature" l´annuncio della scoperta dei paleontologi spagnoli

ROMA - Un milione e duecentomila anni fa, in una grotta profonda venti metri a nord della Spagna, un gruppo di uomini mangiava uccelli e piccoli roditori seduto intorno al fuoco. C´era chi abbozzava un coltello battendo due pietre l´una contro l´altra e chi usava quelle armi primitive per spaccare le ossa lunghe della cacciagione e succhiarne il midollo. La statura di questi uomini non era molto diversa dall´attuale: un metro e settanta circa. E il cervello aveva una capienza ridotta di un terzo rispetto a oggi, anche se è noto che fra dimensioni e intelligenza non necessariamente il legame è diretto.
La mandibola che José Maria Bermudez de Castro e Eudald Carbonell tengono delicatamente fra le dita e osservano - in quella stessa grotta, ma un milione e duecentomila anni più tardi - appartiene al primo uomo vissuto in Europa. O almeno del più antico fra quelli che ci è dato incontrare. Mentre osservano i pochi centimetri del mento, una manciata di denti sparsi fra gli strati di calcare, i resti animali di cui i nostri antenati si erano cibati e i rudimentali coltelli che avevano costruito, i due ricercatori spagnoli rivedono davanti ai loro occhi la scena della "prima cena europea".
Al nostro antenato ritrovato nel sito di Atapuerca, nei pressi di Burgos, Nature ha dedicato ieri la sua copertina. E i paleontologi spagnoli, che da giugno del 2007 (data del ritrovamento) a oggi (fine delle analisi dei reperti e pubblicazione sulla rivista scientifica) avevano cercato di mantenere il segreto con i colleghi-rivali (italiani in primis), possono finalmente esultare. «Di fronte a noi abbiamo il più antico fossile umano d´Europa» dice Bermudez.
Atapuerca, più che un sito archeologico, è una miniera d´oro per antropologi. Su questa collina a mille metri di altezza, tiepida, ventilata e ricca di piccoli animali da cacciare, i nostri antenati dovevano trovarsi proprio bene. A duecento metri dalla grotta di "Sima del Elefante" (quella della "prima cena") nel 1994 era stato ritrovato il secondo uomo più antico d´Europa, che aveva "appena" 800mila anni d´età. E un chilometro più in là nel corso degli anni sono emersi 6mila resti fossili di Homo heidelbergensis, di poco più giovane. «La Sierra de Atapuerca è un complesso di siti straordinari, tanto che è inserito nella lista del patrimonio dell´umanità dell´Unesco» spiega Giorgio Manzi, paleoantropologo dell´università La Sapienza a Roma. «Per conservarsi così a lungo, i resti umani devono prima fossilizzarsi, e poi un giorno diventare accessibili per i ricercatori. Davanti a questo colpo grosso degli spagnoli, noi italiani rispondiamo con l´uomo di Ceprano». Ritrovato nel 1994 nel Lazio, questo ominide di 800mila anni non raggiunge l´età degli spagnoli. «Ma è un cranio, non un frammento di mandibola. E quindi ci dà più informazioni sulle caratteristiche dell´umanità di quel periodo e sulla loro possibile evoluzione» spiega Manzi.
Le notizie sul primo europeo spagnolo, al di là delle ossa dei roditori e di un mustelide simile alla lontra consumati per cena, sono infatti ancora frammentarie. A titolo provvisorio, l´antenato di Sima del Elefante, è stato assegnato alla specie Homo antecessor, detto anche "uomo pioniere". Le dimensioni modeste della mandibola farebbero pensare a una donna di 20-30 anni. Ma unendo con un tratto continuo tutti i punti dove sono stati ritrovati ominidi di epoche simili, si riesce forse a ricostruire il percorso dei primi uomini dall´Africa (la culla dell´umanità, dove la nostra storia iniziò circa 4 milioni di anni fa) fino a quest´angolo estremo dell´Europa che gli antenati di Homo sapiens raggiunsero dopo essersi diffusi lungo il medio oriente, l´Italia, la Francia e infine la penisola iberica. In mezzo ci sono i resti dell´uomo di Dmanisi, in Georgia nel Caucaso. Hanno 1,7 milioni di anni e segnano il punto di passaggio del percorso dall´Africa fino all´ultima tappa della Sierra de Atapuerca.

Corriere della Sera 27.3.008
Dialoghi a colori sull’energia
Da Prometeo a Giordano Bruno, fra materia e pensiero
di Ariela Piattelli


Mentre l’Italia si confronta con l’Europa in materia di energie rinnovabili, a Palazzo Valentini due artisti “dialogano”, attraverso le loro opere, proprio sul tema dell’energia e sul rapporto tra arte e scienza. Roberta Pugno e Ján Hoffstädter, lei pittrice italiana, lui scultore slovacco (ex direttore dell’Accademia d’Arte di Bratislava), espongono per la mostra intitolata “Materia Energia Pensiero”. Un percorso che si snoda in tre sale diverse, ognuna di queste dedicata ad un tema. La prima è la “Sala della Materia”, allestita puntando sul gioco di luci e ombre.
Le opere esposte sono un elogio alla concretezza; e mentre Hoffstädter, con la scultura “Il cerchio piegato”, inizia il suo discorso sulla geometria e su come questa aderisca alla realtà, la Pugno ricerca la materia nei personaggi del mito e del passato: due omaggi a Giordano Bruno, “perché - spiega la pittrice – lui è stato il primo ad avere il coraggio di sostenere che la materia ha creato il cosmo”. L’artista, dunque, mette in mostra gli ingrandimenti delle xilografie del filosofo. Poi un ritratto in bassorilievo di Prometeo “anche lui esempio di coraggio - spiega la Pugno - . Ha scoperto il fuoco per regalarlo agli uomini”.
Così si passa alla “Sala dell’Energia”, dove i quadri e le sculture evocano l’energia a lavoro che trasforma le cose, ma anche quella umana che genera la vitalità.
Hoffstädter propone una scultura monumentale, fatta da due elementi, una colonna bianca e un tubo luminoso: è “X e Y”, che rappresenta la donna e l’uomo, due corpi irriducibilmente diversi che si attraggono, immortalati nella loro continua ricerca di comunicazione. E siccome soddisfatti i bisogni materiali bisogna pensare a quelli dell’animo, in questa sala trova spazio anche il “Cupido” della Pugno, un ritratto che evoca l’energia dei sentimenti.
Tra gli altri spunta anche il quadro della pittrice, intitolato “I Mulini”, un omaggio alle rinnovabili e alle energie del pianeta. Dal peso della materia si giunge, dunque, alla leggerezza del pensiero, e mentre la pittrice indaga con un trittico di quadri su come il pensiero si estende nel tempo, dal giorno alla notte (“perché di notte si continua a pensare” sottolinea la Pugno), Hoffstädter le risponde con la metafora della leggerezza richiamando Pegaso, il cavallo alato: una scultura fatta di bronzo e piume rappresenta due ali che si spiegano, raccontando così il desiderio di evasione.

Il Tempo 27.3.08
Palazzo Valentini


La mostra “Materia Energia Pensiero” è in corso a Palazzo Valentini. Si tratta di un incontro di arte e di scienza con la nuova Europa. L’esposizione sarà aperta fino al primo aprile. L’incontro tra arte e scienza sul tema attuale dell’energia ottenuta da fonti rinnovabili, che da dimensione locale si amplia al confronto con altri Paesi Europei, in questo caso con la Slovacchia, è il fulcro della manifestazione ideata da Antonio Di Micco, presidente di Alea – Azienda Latina Energia Ambiente e direttore della Federlazio di Latina, promossa e organizzata insieme a Rosa Cipollone, direttrice del Museo di Palazzo Altieri di Oriolo Romano e Miroslav Musil, direttore dell’Istituto Slovacco a Roma. Il confronto artistico e scientifico con la nuova Europa è vitale oggi più che mai per rafforzare la cooperazione internazionale in un Paese con cui si sta condividendo la fine delle barriere doganali, l’ingresso della moneta unica e una sempre più stretta collaborazione nel campo energetico. L’esposizione si preannuncia assai interessante e riuscirà a intrecciare l’arte con la scienza.

LA SINISTRA L’ARCOBALENO PER LA CULTURA
UNA LETTERA DI FAUSTO BERTINOTTI


Arte, cultura e creatività sono la ricchezza di una società che si rinnova e si trasforma.
Nelle storie e nelle opere degli artisti, nel lavoro di tante e tanti, operatori e tecnici dello spettacolo e della cultura, si raccontano esperienze individuali e mutamenti sociali, emerge la critica del reale e l’aspirazione al cambiamento, si costruiscono la memoria collettiva e l’immagine del futuro.
Oggi la creatività è la ricchezza non riconosciuta di un’economia che del lavoro cognitivo e intellettuale ha fatto un motore di sviluppo. Mai come ora la libera espressione della personalità sembra messa in dubbio dalla mercificazione degli stessi strumenti e delle condizioni che permettono la libera circolazione della conoscenza e della creatività.
La condizione di precarietà che caratterizza tutti gli operatori cognitivi impedisce il riconoscimento di un adeguato statuto sociale degli artisti e gli operatori culturali, ne svilisce la figure e riduce le loro competenze a ingranaggio del circuito di produzione e consumo.
“La sinistra, l’arcobaleno” vuole porsi all’altezza di questi problemi, per immaginare percorsi e proposte in grado di tutelare ciascuna storia creativa in tutti i passaggi, riconoscere lavoro e competenze, anche fuori e oltre la produzione di eventi, per tutelare quella zona grigia di precariato che rappresenta il moderno indotto dell’industria culturale. Vanno attivate nuove forme di reddito e welfare, in grado di intervenire sull’intermittenza di ciascuna espressione del lavoro culturale, per salvaguardare la qualità della vita.
In alternativa a un mercato che impone generi e gusti di consumo di massa e veicola un pensiero unico globalizzato, schiacciando le forme di libera creatività popolare e i patrimoni di sapere e competenza che germogliano ai margini del mainstream, vogliamo confrontarci con il tema dell’accesso libero e democratico al sapere e la cultura. Accesso libero a tecnologie, condivisione dei saperi e della creatività contro l’azione proprietaria, in favore di forme di copyleft e partecipazione; accesso economico a strutture, mezzi e competenze, attraverso cui esprimere liberamente le creatività. Il mondo dell’arte e della cultura hanno bisogno di strutture e risorse, finalizzate alla valorizzazione e l’espansione della creatività.
E’ nostra intenzione, in questa prospettiva, aprire un dialogo fecondo con il mondo della creatività e dei saperi, al fine di intraprendere la lotta per una maggiore estensione di opportunità, diritti e tutele che sappia intrecciare due punti di vista, sinergici e indispensabili: quello sulle condizioni che favoriscano la libera fruibilità, circolazione e realizzazione delle opere e degli eventi culturali e quello che contemporaneamente riconosca e tuteli le condizioni materiali di vita di chi vive ‘nel’ e ‘del’ mondo culturale, perché l’uno non vive senza l’altro.
Il dialogo, per quanto ci riguarda, è appena iniziato, e parte anche dal modo con cui abbiamo deciso di affrontare le questioni aperte, ponendoci in ascolto delle esigenze dei precari della cultura, mostrando nello stesso tempo che si può fare in un altro modo.
Per questo motivo vi invitiamo a partecipare a l’iniziativa pubblica che si svolgerà il 2 aprile 2008 alle ore 17.30 presso le “Officine Marconi” di Roma – spazio, recuperato alla socialità e alla cultura, che vive di partecipazione e libertà – e che vogliamo concludere in una grande festa (dalle 22,00 alle 2,00) con il Dj set degli Asian Dub Foundation.
Un’altra politica, più rispettosa e vicina alle esigenze dell’ambiente e della gente, può essere manifestata anche nelle piccole cose, come il palco fotovoltaico a bassissimo impatto ambientale con cui stiamo affrontando questa campagna elettorale, cominciando a praticare una nuova politica attenta alle reali esigenze del paese e di donne e uomini che ogni giorno vivono la propria quotidianità.
Vi aspettiamo.

Cordialmente,
Fausto Bertinotti

Roma 26 marzo 2008


PROGRAMMA
LA SINISTRA L’ARCOBALENO PER LA CULTURA


1. Investire sulla cultura


La Cultura, risorsa fondamentale per lo sviluppo del Paese, ha per noi un valore in sé, a prescindere dall’utile economico che può produrre.
Uno stato civile investe in cultura: per questo motivo, La Sinistra, l’Arcobaleno propone di portare gli investimenti nella cultura dall’attuale 0.26% circa, almeno all’1% del PIL.
In particolare proponiamo di:
  • favorire e sostenere economicamente la produzione indipendente e quindi la pluralità dell’espressione e dell’offerta culturale;
  • contrastare con normative antitrust i monopoli nei settori della musica, del cinema, dell’audiovisivo, dell’editoria e rivedere le norme sul diritto d’autore;
  • ridurre l’IVA al 4% per tutti i prodotti e le attività culturali;
  • prevedere interventi economici e prezzi ridotti per i giovani e le classi più disagiate per concerti, teatri, cinema, mostre, biblioteche, musei, archivi.
2. Garantire il lavoro creativo: reddito d’intermittenza e reddito sociale

Riconoscere il lavoro creativo e artistico in tutte le sue fasi e quindi anche i periodi di elaborazione e creazione come periodi di lavoro e quindi retribuiti. Prevedere forme di retribuzione nei periodi di non lavoro che sono insiti in tali forme di attività. Prevedere ammortizzatori sociali, malattie del lavoro, gravidanza, pensioni. Garantire che il rispetto del contratto nazionale di lavoro è requisito per accedere a qualsiasi forma di finanziamento pubblico.

Proponiamo, inoltre, l’introduzione del reddito sociale per inoccupati, disoccupati ed occupati con contratto di lavoro precario:

  • un reddito diretto, fino al raggiungimento di 8.500 euro lordi annui, con la relativa copertura contributiva;
  • un reddito indiretto, per un valore di ulteriori 2.500 euro annui, che prevede l’accesso ad un pacchetto ampio di beni e servizi (sanità, trasporto pubblico regionale, agevolazioni sugli affitti e sui mutui per la prima casa, formazione professionale, ingresso gratuito a mostre, concerti, cinema, teatri e impianti sportivi, acquisizione gratuita di libri di testo e supporti audio video).
Il reddito sociale è da garantire per un periodo da 3 a 5 anni a seconda del tasso di disoccupazione nel luogo di residenza, fermo restando l’obbligo per i disoccupati di non rifiutare le occasioni di lavoro, se non per giustificate ragioni. Per favorire le assunzioni prevediamo incentivi per le imprese che attivano contratti di lavoro a tempo indeterminato.

3. I beni culturali

E’ necessario affermare il valore pubblico del bene culturale in tutte le sue espressioni, finalizzato alla crescita politica, sociale, culturale e democratica dei cittadini. Proponiamo: una conferenza nazionale con il coinvolgimento di tutti i soggetti portatori di interessi: Stato, Regioni, enti locali, associazionismo; di ridare un ruolo centrale alle Soprintendenze, sempre più emarginate nell’esercizio della tutela

4. Spazio alla cultura e alla socialità

Gli spazi dove viviamo sono importanti, quelli per fare musica, arte e cultura, autogestire il proprio tempo sono dei beni comuni che vogliamo vedere riconosciuti e garantiti.
Vogliamo l’assegnazione di tutti gli immobili di proprietà pubblica ai soggetti occupanti che presentino progetti di valore culturale e sociale.
Serve una riqualificazione delle ex-aree industriali con la ristrutturazione e l'assegnazione delle aree a soggetti associativi attivi per la promozione sociale e l'integrazione fra le culture. Prevedere che una quota degli immobili di proprietà del Ministero della Difesa, passati agli enti locali nella finanziaria 2007, sia destinata a progetti sociali e culturali.

5. Liberare la cultura

Noi proponiamo nuove forme al diritto d'autore e la rivisitazione delle normative attuali in senso libertario per sganciare una fetta consistente delle nuove produzioni culturali dai vincoli mercantili: gli autori che sono favorevoli devono poter aderire a nuove forme di tutele che lascino aperte le strade ad usi sociali dei contenuti come le Creative Commons.
Proponiamo di superare l'attuale sistema di norme sull'editoria che garantisce profitti alle grandi imprese e non incoraggia la sperimentazione di nuove forme, autonome e indipendenti, di comunicazione e informazione

6. Liberare il web

La divisione che attraversa la società della conoscenza è tra chi ha accesso all'informazione e chi ne è escluso. Abbattere queste divisioni è il primo necessario passo verso una democrazia digitale.
Gli informatici che si sono opposti alla brevettabilità dei linguaggi imposta dalla Microsoft, hanno sperimentato e prodotto l'uso condiviso e a volte gratuito, attraverso la logica Open Source.
Noi proponiamo di far migrare i sistemi informatici della Pubblica Amministrazione verso l'Open Source, garantendo un risparmio di oltre 3 miliardi di Euro l'anno, una più efficiente organizzazione e la rinascita di un'industria informatica nazionale.
Proponiamo una corsia privilegiata ai comuni per offrire ai cittadini connettività gratuita, attraverso hot spot nelle strade, nelle piazze e nei parchi della città e ai cittadini servizi gratuiti di accesso attraverso il Wi-Max per tutte le applicazioni a banda larga non a pagamento.

7. La RAI deve essere servizio pubblico

Lo spazio pubblico nella comunicazione non può essere ridotto: la Rai, come grande industria culturale del Paese non deve essere privatizzata ma rimanere pubblica e va ripensata interamente alla luce delle potenzialità delle tecnologie digitali, liberata dai vincoli asfissianti delle lottizzazioni che hanno umiliato e mortificato le professioni, svincolata dal condizionamento del modello commerciale, resa plurale nelle espressioni e nelle voci.

8. Normative antitrust e piano delle frequenze

L’applicazione delle normative antitrust europee ai soggetti privati è necessaria per allargare la capacità di concorrenza e pluralismo aziendale, a partire dal rispetto delle sentenze
Noi vogliamo il governo pubblico delle frequenze per le telecomunicazioni e la radiodiffusione. Serve una normativa che stabilisca un piano delle frequenze radiotelevisive, e che impedisca alla Rai di svendere un patrimonio inestimabile come quello rappresentato da RAI Way, la società degli impianti dell'alta frequenza e una società pubblica alla quale affidare il compito di garantire uno sviluppo omogeneo della rete sul territorio nazionale (eliminando il digital divide per l'accesso) a partire dalle reti dell'ex monopolista pubblico, per evitare il passaggio in mani straniere. E’ necessaria una normativa che incida sulla concentrazione della pubblicità, che oggi impone al nostro Paese la svendita di questa risorsa nel mercato della pubblicità mondiale.

9. Accesso libero alla formazione, ai saperi e alla cultura.

  • Una carta di cittadinanza studentesca: attraverso convenzioni e progetti, deve essere garantito agli studenti l’accesso a manifestazioni culturali, teatri, cinema, rappresentazioni artistiche e musicali, come parte fondamentale di una formazione critica e libera. E che garantisca la gratuità dei mezzi di trasporto. Vanno garantiti finanziamenti per spazi autogestiti dagli studenti per l’orientamento, il sostegno scolastico e le attività creative, al fine di stimolarne il protagonismo attivo.
  • materiali didattici consultabili e scaricabili gratuitamente nei siti delle università in formato copyleft per arginare i costi sociali delle spese di formazione;
  • investimenti straordinari per il comodato d' uso gratuito dei libri di testo

giovedì 27 marzo 2008

in Brandeburgo e in Sassonia-Anhalt il primo partito è la Linke
Corriere della Sera 27.3.08
Germania. Spd crolla nei sondaggi Superata in tutti i Länder

BERLINO — In due anni e mezzo la Spd di Kurt Beck (nella foto) è passata dall'essere il primo il primo partito in 14 dei 16 Länder tedeschi a non esserlo più nemmeno in uno. È quanto emerge da un sondaggio di Stern. In 14 Länder il primo partito è ora la Cdu, mentre in quelli orientali del Brandeburgo e della Sassonia-Anhalt il primato è passato alla Linke.

Corriere della Sera 27.3.08
L'evento Il musicista dirigerà un'orchestra mista di giovani israeliani e palestinesi a Gerusalemme: «Impossibile vincere una guerra permanente»
«Il mio Mozart contro il Muro del Medio Oriente»
Daniel Barenboim: «Avviare un processo di depoliticizzazione del conflitto»
di Giuseppina Manin


Orchestra di pace. il Maestro ha messo insieme 33 giovani strumentisti provenienti da Israele e dalla Palestina

A Gerusalemme arriverà domani. In tasca due passaporti, uno israeliano e uno palestinese. Perché Daniel Barenboim, pianista e direttore d'orchestra tra i più celebri al mondo, di casa alla Staatsoper di Berlino e alla Scala di Milano, ha nelle vene sangue ebreo e nel cuore l'amore per la Palestina. «Due popoli legati in modo inestricabile da un unico destino», sostiene il musicista, impegnato in questa sfida dai tempi del saggio scritto con l'intellettuale Edward Said, Paralleli e paradossi (Il Saggiatore).
E così domani al Jerusalem International YMCA Barenboim sarà protagonista di un evento fortemente voluto, un «Concerto per due popoli» che si aprirà nel più emblematico dei modi, con il Concerto per due pianoforti e Orchestra di Mozart dove a una tastiera ci sarà l'israeliano Barenboim, all'altra il palestinese Saleem Abboud Ashkar. A suonare con loro un'orchestra speciale, inventata per l'occasione dal direttore sul modello della sua ormai celebre «Divan»: 33 giovani strumentisti provenienti da Israele e dalla Palestina chiamati a far musica insieme.
Un'orchestra per la pace?
«No, un'orchestra contro la paura e l'ignoranza — risponde Barenboim —. Il segno che un'altra via è possibile. Dopo 60 anni di guerra permanente mi pare evidente che la soluzione militare si è rivelata fallimentare.
Altri percorsi
«Dopo sessant'anni, mi pare evidente che la soluzione militare si è rivelata fallimentare. Anzi, ogni vittoria non ha fatto che indebolire lo Stato ebraico. Anche i negoziati politici non sono approdati a nulla. Bisogna quindi cercare altri percorsi»
Anzi, ogni vittoria non ha fatto altro che indebolire Israele. D'altra parte anche i negoziati politici non sono approdati a nulla. Bisogna quindi cercare altri percorsi che non passino né dall'esercito né dai politici. Se si vuole uscire da questo tragico impasse, è arrivato il momento di avviare quello che io chiamo un processo di depoliticizzazione».
Cosa intende con questo termine?
«Che bisogna spezzare la relazione malsana innescata tra vita e politica e dar spazio ai veri bisogni e ai veri interessi dei cittadini dei due popoli. Coinvolgendoli in progetti comuni, artistici o scientifici che siano. Se i politici hanno eretto muri, noi dobbiamo creare un substrato culturale dove incontrarci e comunicare liberamente».
Un'idea magnifica, ma dopo tanti anni di sangue e odio sembra solo un sogno.
«Il peggio che può capitare è di cedere al cinismo e al fatalismo. Quando non c'è più posto per la speranza si spalancano le porte a ogni orrore. Bisogna trovare la forza di credere a nuove occasioni d'incontro. Anziché distruggersi a vicenda, cerchiamo di fare qualcosa di bello insieme».
Tra pochi giorni lo stato d'Israele festeggerà i suoi 60 anni. Chi salva tra i suoi premier?
«Uno solo, Moshe Sharett, il successore di Ben Gurion. L'unico che teneva presente la dignità dei palestinesi. Ma poiché non era un "falco" fu considerato debole e allontanato».
Cosa pensa delle polemiche anti Israele al recente Salone del libro di Parigi?
«Che Israele dovrà abituarsi. Almeno fino a quando insisterà nella sua mancanza di critica all'interno».
Ma insomma, la tanto decantata intelligenza ebraica dov'è finita?
«E' un capitale che ormai temo sia stato speso tutto. Se vogliamo tentare di rimetterlo insieme bisogna rimboccarsi le maniche ».

Corriere della Sera 27.3.08
Mariela Castro «Papà? Molte discussioni, ma è mio alleato»
«Per Cuba un socialismo con meno proibizioni»
di Alessandra Coppola


La figlia di Raúl: «Ci vorrebbe un Rinascimento italiano»
Mariela Castro Espín presenterà alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna il suo libro «Cosa succede nella pubertà?», Giunti editore, a cura di Bianca Pitzorno, piccolo manuale che parla di sesso agli adolescenti Moretti

Essere la figlia di Raúl e dire tranquillamente: «Il "permesso di uscita" da Cuba andrebbe abolito; gli hotel non dovrebbero essere riservati solo ai turisti; bisognerebbe garantire libero accesso a tutti gli strumenti elettronici...». Certo, sono state «proibizioni necessarie», ma appena ce ne saranno le condizioni potrebbero essere rimosse.
«Contrasti con mio padre?
Ne ho avuti sin da bambina — ride — su tutto: da come si apparecchia la tavola alle vicende politiche». Ma non sulle questioni di fondo: «Oggi è lui il mio principale alleato».
Mariela Castro Espín, il volto vivace del socialismo cubano. Nipote di Fidel, secondogenita dell'attuale presidente, da bambina leggeva
Heidi, racconta, «mia madre poi mi diede un libro su Leonardo Da Vinci che mi piacque moltissimo ». La biografia di Garibaldi di papà, invece, rimase sullo scaffale, con lui piuttosto guardava i film di Charlie Chaplin.
Oggi, 45 anni e tre figli, Mariela è sessuologa impegnata per i diritti di omosessuali e trans, dirige il Centro nazionale di educazione sessuale (Cenesex), scrive testi sulla pubertà e ha una grande passione per Roberto Benigni: «Lo adoro, il suo film
La vita è bella, ma anche lui come persona. Vorrei che questo messaggio gli arrivasse... ». In attesa di risposta, ha in programma di andare al cinema a vedere Caos Calmo:
nella lista dei preferiti c'è pure Nanni Moretti, «nella Stanza del figlio ho pianto come se il figlio fosse mio...».
Il secondo marito fotografo palermitano («Ma italiani e cubani, tutti machistas —
ride —, stessa cultura latina...»), Mariela nel nostro Paese è di casa: «Ah, il David di Michelangelo... Mi piacerebbe che il socialismo cubano fosse come il Rinascimento, un rinascimento in tutti i sensi: quello che è mancato all'esperienza del socialismo...». L'ultima occasione per superare l'Oceano e atterrare ieri a Malpensa è la Fiera internazionale del libro per ragazzi che apre il 31 a Bologna, dove presenterà Cosa succede nella pubertà? (tradotto in italiano da Giunti).
Da dove viene il suo interesse per questi temi?
«Alla Facoltà di Pedagogia mi occupavo di età prescolare. Mia madre Vilma (pioniera a Cuba nel campo dei diritti delle donne, morta nel 2007, ndr) aveva avviato da tempo un lavoro sull'educazione sessuale, progressivamente me ne sono interessata anche io».
Con il Cenesex ha raggiunto obiettivi che anche associazioni italiane reclamano, come le cure ormonali garantite dal servizio sanitario pubblico. Quali ostacoli ha incontrato? Si può dire che Cuba è un Paese omofobico?
«Io direi che a Cuba c'è un'omofobia light,
non aggressiva, non si hanno casi di persone uccise o picchiate perché gay, come succede in Europa o negli Usa. C'è stato un periodo più difficile negli anni '60-'70, è vero, quando però c'era un rifiuto dell'omosessualità in tutto il mondo. Poi a partire dal lavoro sui diritti delle donne si è arrivati a riconoscere anche il diverso orientamento sessuale».
Suo padre che cosa pensa della sua attività? Le dà consigli?
«Molti anni fa, a un Congresso delle donne cubane mio padre disse pubblicamente che mia madre lo aveva aiutato molto a cambiare mentalità. E che anche io lo avevo aiutato... Mi dice sempre di procedere come faceva mamma: con attenzione, rispetto, delicatezza. Senza strappi. Così ho fatto».
Che presidente sarà suo padre? Visto dall'Europa, rispetto al fratello sembra dare segnali di apertura. Nel discorso di insediamento, lo scorso 24 febbraio, ha accennato alla riforma monetaria e alla rimozione di molte proibizioni...
«I cambiamenti a Cuba ci sono dal primo gennaio '59, è l'Europa che non se ne accorge. Cuba è un Paese in rivoluzione, in cambiamento costante. Le trasformazioni di questo periodo non dipendono dal cambio di presidente, Fidel continua a essere il comandante e tutte le decisioni sono prese con lui».
Ma si tratta comunque di due leader diversi...
«Certo, hanno personalità distinte, Fidel fa discorsi lunghi, profondi, filosofici. Mio padre è più rapido, i discorsi lunghi lo innervosiscono. Fidel guarda all'obiettivo finale, non perde mai la visione strategica. Papà la trasforma in realtà palpabile, in passi quotidiani. Sono complementari».
Già dalla malattia di Fidel, nel luglio 2006, sembra essersi schiuso uno spiraglio per opinioni diverse. Il Paese si sta aprendo alle critiche?
«Ma noi cubani siamo molto critici con Cuba! Non è vero che non c'è libertà di espressione! Forse sì, adesso più di prima, la gente pensa che la propria opinione meriti di essere ascoltata e parla. Anche io considero diritti costituzionali poter andare in un hotel (come aveva rivendicato, con scandalo, uno studente universitario davanti al presidente del Parlamento Alarcón,
ndr), avere accesso a computer e apparecchi elettrici, abolire il "permesso di uscita", risolvere il problema della doppia moneta... Il punto è che a Cuba c'è la volontà politica di riconoscere gli errori e di avanzare senza perdere di vista l'essere umano e le sue necessità. Lo spazio per discutere e proporre c'è, nella cornice del socialismo. La maggioranza dei cubani vuole che si mantenga il socialismo, ma che sia gestito meglio. Come ogni Paese, dobbiamo trovare la nostra via...».

Agi.it 26.3.08
VENERDI' IN SALA "NESSUNA QUALITA' AGLI EROI"
CINEMA: ELIO GERMANO, GRAZIE A PAOLO FRANCHI UCCIDO MIO PADRE
"Mi affascinano i personaggi complessi, in piena crisi. In questo caso ho un ruolo in cui mi confronto con me stesso, con mio padre, con l'autorita' castrante, col tribunale interiore che devo uccidere nella speranza vana di liberarmi. Un ruolo raro nel nostro cinema che riporta ai temi della grande letteratura, da 'Edipo Re' a Dostoevskij a Shakespeare". Elio Germano racconta in una conferenza stampa romana la sua soddisfazione per aver aver potuto interpretare il ruolo del protagonista di "Nessuna qualita' agli eroi", il film di Paolo Franchi in sala dal prossimo venerdi', al fianco dei francesi Bruno Todeschini e Irene Jacob, oltre all'esordiente Mimosa Campironi. La prova di attore piu' intensa mai fornita da quello che ormai e' unanimamente considerato 'il migliore della sua generazione', in un film difficile, con una fortissima componente psicologica (Paolo Franchi e' uno dei tanti estimatori-allievi dello psicologo-regista-sceneggiatore Massimo Fagioli, gia' alter-ego cinematografico del 'secondo' Bellocchio). Un uomo scopre di non poter avere figli quando, sul suo cammino, irrompe un ragazzo ambiguo e disturbato che sembra 'perseguitarlo'. Il destino dei due si intreccia fino all'identificazione finale secondo i piu' classici canoni del cinema e della letteratura psicologica, forse un po' datata ma sempre attuale. "Nessuna qualita' agli eroi" e' stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e ha suscitato molte polemiche. "Per qualche motivo il mio film e' stato preceduto da discussioni sui suoi contenuti scandalosi e sulle scene di sesso - spiega il regista a margine della conferenza stampa -. Per questo c'era attesa legata a una certa 'pruderie' e tutta la conferenza stampa veneziana e' stata incentrata sul sesso. Ma quello era un elemento del tutto secondario. Lo stesso Marco Muller - aggiunge - mi ha detto che forse avrei dovuto portare il film in una sezione secondaria e non in concorso". Le scene di sesso, in effetti, sono una parte irrilevante del film e appaiono sempre funzionali alla pellicola. "Il fatto che la stampa si sia concentrata su questo aspetto - aggiunge, evitando di tornare alle polemiche di Venezia - e' dovuto al fatto che oggi sui giornali lo spazio dedicato alla critica cinematografica e' sempre piu' limitato, mentre si da' ampio risalto a tutto cio' che e' colore e che gira attorno a un film". "Nessuna qualita' agli eroi", interpretato da un trio di attori eccezionale (in un piccolissimo ruolo appare anche un'altra attrice-culto degli ultimi anni, Maria DeMedeiros, nel cast stellare di 'Pulp fiction'), "e' un film nichilista - spiega Franchi - in cui nessuno riesce veramente a liberarsi delle sue angosce: e' come se ogni gesto non avesse senso perche' non porta a nulla. Il personaggio di Todeschini sembra riuscire a trovare una soluzione al suo conflitto interiore ma non e' cosi' perche' - ammonisce il regista - nel suo caso si assiste al passaggio dalla depressione alla psicosi". Nel ruolo difficile e volutamente pacatissimo e lento della moglie di Todeschini, la 'musa' di Kieslowski ("La doppia vita di Veronica" e "Film rosso"), Irene Jacob. "Sono rimasta affascinata da questa sceneggiatura - racconta l'attrice, che ha appena finito di girare "La polvere del tempo" di Theo Angelopoulos - che mi ha fatto pensare all'universo di Kafka o Dostoevskji che va a scavare nel mondo dell'onirico e dell'inconscio. Credo che Paolo Franchi abbia avuto grande coraggio - aggiunge - avventurandosi in un terreno che spesso abbiamo paura di esplorare e creando dei personaggi molto profondi. Per me e' stata una sfida e sono felice di averla accettata interpretando una moglie che, a differenza delle tante altre viste nel cinema, non e' solo una spettatrice passiva della vicenda". (AGI) - Roma, 26 mar. -

Il Messaggero 27.3.08
«Il mio film nichilista, fra psicosi e sesso»
Franchi, regista di “Nessuna qualità agli eroi”: porto al cinema quello che la gente non vuole vedere
di Roberta Bottari


ROMA - Seduto di fronte al medico, il quarantenne Bruno Ledeux (Bruno Todeschini) sembra un uomo calmo e riservato. Lo sguardo, invece, tradisce un’inquitudine estrema. La diagnosi, d’altronde, è chiara: non potrà mai avere figli. Sulla sua vita, comincia a scendere una fitta nebbia. Ma, di quella diagnosi senza scampo, Bruno non dice niente all’amatissima moglie Anne (Irène Jacob). Così come non le fa cenno del grosso debito che ha contratto con Giorgio Neri (Paolo Graziosi), un usuraio, che si nasconde dietro il ruolo di direttore di banca. Bruno, con la sua donna, parla solo a monosillabi: non potrebbe fare altrimenti, perché si sente privo qualità e di talento. Lui è solo un uomo mediocre, dall’orgoglio ferito. Poi c’è anche Luca (Elio Germano), uno strano ragazzo che ha nello sguardo una combinazione di ingenuità e dolore, determinazione e follia. Non ha niente in comune con Bruno. Eppure, qualcosa accomuna questi due perfetti estranei. Forse il dolore pulsante, disperato, così familiare... Sullo sfondo, giocano il loro ruolo anche i due padri: quello di Bruno (un famosissimo pittore, egoista e manipolatore) e quello di Luca (Giorgio Neri, l’usuraio “coperto” dalla banca).
Passato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, Nessuna qualità agli eroi, noir esistenziale e nichilista di Paolo Franchi (nei cinema da dopodomani con Bim), non è un film facile. Piuttosto, come dice il regista «guarda dritto negli occhi cose che la maggior parte delle persone non vuole vedere: angoscia, depressione, psicosi, attacchi di panico, omicidio e nessuna redenzione». Per questo Elio Germano lo ama tanto: «Adoro il personaggio di Luca - afferma - perché riguarda tutti noi. È una figura tragica, che rappresenta i grandi temi di sempre, cantati da Edipo Re, Shakespeare, Kafka, Dostoevskji». A Venezia, Nessuna qualità agli eroi ha scatenato diverse polemiche: una era causata dalla scena erotica in cui si vede il pene in erezione di Germano. «Non capisco le polemiche: il sesso - risponde l’attore - non è una di quelle cose che riguarda tutti?». Secondo Paolo Franchi, «in Italia non c’è più la critica cinematografica, ma solo il colore e, in quest’ottica, il sesso fa notizia, l’angoscia, no. Alla conferenza stampa di Venezia avevo preso dei Tavor, oggi invece non l’ho fatto, quindi non vorrei addentrarmi in questa polemica. Ci tengo però a ribadire, visto che me lo domandano in molti, che non sento nessuna affinità elettiva con Marco Bellocchio. Casomai, con la dottrina di Massimo Fagioli. I miei registi di riferimento sono invece Michael Haneke, Bruno Dumont e... E basta».

l'Unità 27.3.08
Si parla da tempo di istituire un controllo dei luoghi di detenzione. Forse il racconto delle condizioni di vita a cura di «Antigone» può riproporre la questione
Cpt: corpi reclusi, corpi ancora oggi senza un Garante
di Luigi Manconi


Un protagonista indiscusso ha solcato le scene della politica negli ultimi anni. Da un trentennio in qua, gli spazi formali di relazione sociale si sono andati via via riempiendo di un’immediata materialità: il corpo umano, con il suo carico di concretezza e individualità, è stato l’oggetto principe della nostra riflessione, del radicarsi degli schieramenti, della produzione normativa, dell’iniziativa politica. Il corpo che ci identifica, il corpo che si riproduce, che è potenziale donatore di organi o potenziale malato terminale.
Un anno fa fu Piergiorgio Welby a rappresentare il momento più alto di partecipazione collettiva a una pubblica riflessione, un uomo che chiedeva di poter sospendere la vita artificiale del proprio corpo malato. Oggi le Nazioni Unite votano la moratoria della pena capitale. La pena di morte non è soltanto la pena estrema, la massima punizione che sia dato immaginare, ma è anche e soprattutto l’estremo dominio sul corpo, il potere sommo di uno Stato che decide della fine di una esistenza umana. E poi c’è il corpo recluso, privato della sua libertà di movimento, esposto a tutti i rischi della sua condizione. Del corpo recluso ci parla Diritti e castigo. Il rapporto sulle istituzioni totali italiane del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura, a cura di Susanna Marietti e Gennaro Santoro dell’associazione Antigone, uscito recentemente per le edizioni Carta. Il libro rende disponibili in lingua italiana i rapporti del Comitato relativi alle sue due ultime visite all’Italia, quella periodica del 2004 e quella ad hoc di due anni successiva.
Il Cpt è un organismo del Consiglio d’Europa istituito per monitorare le condizioni di vita all’interno di tutti quei luoghi nei quali una pubblica autorità priva chiunque della propria libertà personale, perché condannato a scontare una pena (carceri), perché forse lo sarà (carceri o caserme o camere di sicurezza), perché privo di qualche requisito amministrativo (centri di permanenza temporanea e assistenza per stranieri), perché incapace di intendere e di volere (ospedali psichiatrici o luoghi dove si attuano trattamenti sanitari obbligatori) e via dicendo. Il Comitato controlla che le persone private della libertà non vengano assoggettati a pratiche di tortura, né sottoposti a trattamenti o pene inumani o degradanti. Ben 47 Stati hanno deciso di rinunciare a una parte considerevole della propria sovranità - da un punto di vista simbolico quanto effettuale - , permettendo agli ispettori europei di accedere senza preavviso ai luoghi di privazione della libertà, di parlare privatamente con chiunque, di visionare ogni documento rilevante. L’Italia è ovviamente tra questi.
Il Comitato per la Prevenzione della Tortura visita i luoghi di detenzione e li descrive in rapporti, che presentano rilievi e raccomandazioni. Eppure, come tutti gli organismi sovranazionali che si occupano di diritti umani, non buca gli schermi e non riscalda i cuori. In pochi sanno della loro esistenza, perfino tra gli addetti ai lavori (recentemente, proprio in Italia, gli ispettori del Cpt rischiarono di finire in manette ad opera di un agente di polizia troppo zelante e ignaro della loro funzione e del loro status diplomatico riconosciuto dalle convenzioni internazionali). Ciò rende ancora più urgente la diffusione di una cultura dei diritti umani: e, in quest’ottica si inserisce la previsione di un’autorità nazionale indipendente di controllo dei luoghi di detenzione. È dal lontano 1997 che se ne parla, di un Garante delle persone private della libertà, e ancora una volta lo scioglimento anticipato della legislatura ne ha lasciato a metà del guado il disegno di legge istitutivo, mentre crescono e si diffondono le sperimentazioni a livello regionale e locale.
Si può sperare che il racconto delle condizioni di vita nei luoghi di privazione della libertà di cui Diritti e castigo ci dà conto, contribuisca a riproporre nella prossima legislatura due proposte di legge: la prima è quella, appunto, istitutiva del Garante dei diritti dei detenuti; la seconda è la previsione del reato di tortura nel nostro codice penale, adempiendo così a un ventennale obbligo internazionale. La parola «tortura» e il concetto che le corrisponde sono da utilizzarsi in modo aperto. Il potere dello Stato sul corpo dell’individuo può trasformarsi in quanto di più crudele e pericoloso per la democrazia. Tanto più oggi, quando urla di emergenza vorrebbero relegare in secondo piano i diritti umani. Come dice Zygmunt Barman, nell’intervista che si può leggere nell’ampio apparato introduttivo di Diritti e castigo (che contiene anche contributi di Loïc Wacquant e del presidente del Comitato per la Prevenzione della Tortura, l’italiano Mauro Palma), gli Stati contemporanei sembrano costruire la loro autorità sulla vulnerabilità personale, piuttosto che sulla protezione sociale. I rapporti del Cpt e iniziative editoriali come questa ci indicano una via per sottrarre la vita umana all’arbitrio del potere e per restituire alla politica la responsabilità del bene comune e della libertà individuale.

il Riformista 27.3.08
Un governo di minoranza
(cominciate a pensarci)


Se il sondaggio Ipr Marketing pubblicato ieri da Repubblica.it si dimostrasse azzeccato, la notte del 14 aprile potrete buttare tutti i giornali, i comizi, i talk show e le interviste di questi mesi, nei quali i leader politici si sono impegnati in una discussione - talvolta anche seria - su che cosa si deve fare per l'Italia e su che cosa si può promettere ai cittadini. L'esito che quel sondaggio prevede per la composizione del Senato della Repubblica darebbe infatti la conseguenza dell'ingovernabilità del parlamento italiano, per la seconda volta in due anni. Nell'ipotesi più favorevole a Berlusconi, infatti, nel caso cioè che a una vittoria nazionale con cinque punti e oltre di vantaggio corrisponda anche la vittoria in regioni in bilico come Piemonte, Liguria, Lazio, Puglia, Calabria e Sardegna, il Pdl raccoglierebbe soltanto 160 senatori eletti, a fronte di una maggioranza richiesta di 158 (cui poi si può aggiungere il voto dei senatori a vita, perché se è valso per il centrosinistra può valere anche per il centrodestra). Non c'è bisogno di aver passato gli ultimi due anni a Palazzo Madama per sapere che così non si governa. Nelle altre tre ipotesi, tutte altrettanto realistiche, prese in esame dal sondaggio (e cioè in base a risultati diversi regione per regione), le cose stanno anche peggio di così, nel senso che la coalizione che vincerebbe alla Camera, dove grazie alla legge godrebbe di una solida maggioranza, sarebbe invece minoranza nell'altro ramo del parlamento, mancandole 7, 13 o addirittura 21 seggi.
Le cose, ahinoi, stanno proprio così. Lo avevamo segnalato qualche giorno fa, quando ponemmo ai partiti una domanda: che si fa se al Senato non c'è una maggioranza? Non si tratta nemmeno di una pareggio, in tre casi su quattro, ma di un puzzle pressoché inestricabile. A quel punto, o si dà vita a un mercato delle vacche in cui la aspirante maggioranza tratta ogni singolo voto con ogni singolo senatore delle forze minori, o addirittura il Pdl dà vita a improbabili governi di coalizione con la Destra o con Casini, dopo gli insulti reciproci della campagna elettorale. Oppure, ed è questa l'ipotesi che preferiamo, bisogna considerare seriamente la soluzione di un governo di minoranza. La parte soccombente nelle urne, cioè, molto probabilmente il Pd, consente con l'astensione e alla luce del sole la nascita di un governo, ma lo condiziona a una durata a termine e a tre punti programmativi: liberarci da queste legge elettorale folle sostituendola con una decente; cambiare i regolamenti parlamentari; rivedere il finanziamento pubblico dei partiti. Solo dopo aver realizzato questo programma, per fare il quale un governo in carica comunque serve, si può realisticamente tornare al voto. Perché se a qualcuno venisse il ghiribizzo, dopo un risultato così, di chiedere le elezioni subito, gli italiani sarebbero autorizzati al lancio di pomodori.

il Riformista 27.3.08
Una cosa è sicura: vincerà Berlusconi
di Stefano Di Michele


Una cosa è sicura: vincerà Berlusconi. Un'altra cosa pare probabile: vincerà male - così pure lui sperimenterà gli effetti della "porcata". La "svolta" a sinistra della campagna del leader del Pd - dal lavoro alle pensioni alla commissione sul G8 - dopo l'imbarcata di industriali e prefetti e generali, tiene a bada una Sinistra Arcobaleno che non riesce a decollare neanche con il ritorno alla leadership di Bertinotti. Anche sul fronte del sicuro vincitore, molti problemi aperti. Berlusconi ha inglobato An, ma la Destra storaciana e l'Udc di Casini forse pesano sulla strategia del leader del Pdl più di quanto valutasse all'inizio. Alla fine Berlusconi guiderà un governo in più di Prodi, ma saranno più tempi governativi di mestizia che di gloria. E comunque brevi.

Rosso di Sera 27.3.08
Bettini ammette la sconfitta


C'è una parte molto interessante della intervista odierna che il Corriere ha fatto a Gianfranco Bettini, braccio destro di Walter Veltroni. Bettini afferma che per il Pd la soglia minima è il 35%, sotto la quale lui e Veltroni si dimetterebbero. Ora, il 35% non basta ed è molto lontano, a dirla tutta, dal minimo necessario per vincere le elezioni, liet motiv della campagna elettorale del Pd.Come del resto uno intelligente come Nicola Latorre ha capito subito, smentendo sonoramente Bettini e dichiarando che l'obiettivo è vincere, non arrivare secondi.Quella di Bettini, insomma, è una ammissione preventiva di sconfitta. Se così stanno le cose, allora cade del tutto - se mai ha avuto senso - il tormentone del voto utile. Gli elettori di sinistra devono scegliere tra due tipi di opposizione: quella "riformista" del Pd, nel quale militano esponenti come Calearo e Colannino che non farebbero fatica a votare alcuni provvedimenti economici del governo Berlusconi, o quella della Sinistra, che mai ovviamente si sognerebbe di avallare un rafforzamento della legge 30 o le riforme istituzionali di Bossi o ancora lo sciopero fiscale legalizzato. Tanto più che al Senato il terzo e quarto incomodo (cioè S.A. e Udc) sono più importanti per determinare il risultato finale che il Pd e il Pdl stessi.Insomma appare del tutto fallimentare la strategia semi-solitaria del Pd. Non farà vincere le elezioni, come Bettini indirettamente ammette, ha diviso l'Unione e renderà difficile costruire una opposizione unitaria a Berlusconi. Infine la replica di Latorre forse prefigura scenari da notte dei lunghi coltelli dopo le elezioni, all'interno del Pd, se Veltroni non dovesse vincere. Altro che 35%.

mercoledì 26 marzo 2008

Il Sole 24Ore 26.3.08
Aborto
Scontro tra Turco e Formigoni sulle linee guida per la "194".


Continua il braccio di ferro tra la Lombardia ed il ministero della Salute sul terreno minato dell'aborto. Proprio oggi approda in Conferenza Stato-regioni l'accordo sulle linee guida per applicare la legge 194, già bocciate nella precedente riunione della Lombardia che a fine gennaio ha approvato le sue indicazioni regionali. E ieri, alla vigilia del nuovo incontro, lo scontro si è riacceso: "Livia Turco - ha detto il governatore lombardo, Formigoni - deve smetterla di farsi pubblicità elettorale con le bugie, la Lombardia ha respinto il suo documento perchè lesivo della nostra autonomia ed arretrato dal punto di vista scientifico e sanitario".
Pronta la replica del ministro della Salute: "L'atto di indirizzo non è affatto lesivo delle linee guida della Regione Lombardia - ha spiegato Turco -. Formigoni non l'ha letto perchè, in caso contrario, avrebbe visto che c'è una premessa che contiene la valorizzazione di tutte le iniziative fatte a livello regionale". "Personalmente apprezzo le linee guida della Regione Lombardia - ha concluso il ministro - si tratta quindi di un pretesto politico". Ma Formigoni non fa sconti: "La Turco pensa che abbiamo l'anello al naso e da buon vecchio comunista falsifica la realtà". E aggiunge polemicamente: "Se bastasse una frasetta per salvaguardare l'autonomia regionale, il federalismo già trionferebbe in Italia". Insomma il via libera per l'accordo, su cui serve il consenso di tutte le Regioni, sembra essere sempre più in salita. Il testo punta alla prevenzione dell'aborto anche attraverso l'uso della contraccezione, a cominciare dalla pillola del giorno dopo.

l'Unità 26.3.08
Turismo sessuale: l’Italia e il record della vergogna
di Luigi Cancrini


Sono ottantamila ogni anno i nuovi turisti del sesso in cerca di minorenni e gli italiani sono in testa alle classifiche
Riuscirà la politica a occuparsi di questa vergogna?

Ottantamila ogni anno i nuovi turisti del sesso in cerca di minorenni: in Asia e nei Carabi, in Kenia ed in Mongolia. Sfidando le leggi e le più elementari riserve morali. Utilizzando la complicità dei tour operator più spregiudicati ma utilizzando soprattutto il web e la possibilità di organizzare (pregustare?) tutto da casa. Con gli italiani in testa alle classifiche come raccontava ieri in una serie di servizi, atroci e ben documentati, il Corriere della Sera riportando i pareri autorevoli (e lo scoraggiamento doloroso) dei rappresentanti dell’Unicef e delle altre organizzazioni che in tutto il mondo si battono nel tentativo di arginare un fenomeno orrendo e, apparentemente, inarrestabile.
Difficile non riflettere, nel momento in cui ci si trova di fronte a dati come questi, sul modo in cui la vita del nostro Villaggio Globale è condizionata in modo sempre più pressante dalla potenza del dio denaro. I bambini vittime di sfruttamento sessuale a Santo Domingo, scrive Gabriela Jacomella, sono almeno 35.000 e chiunque può portarseli a letto per un pugno di dollari, dai 10 ai 30 (dai sette ai quindici euro): per un turista il prezzo di una cena, per un dominicano la paga di una settimana. Il che spiega insieme, purtroppo, il perché dell’abbandono in cui questi bambini sono lasciati da genitori (più spaventati, forse, che avidi) ed il perché del boom di un turismo sessuale in cui tutte queste cose ci si possono permettere spendendo poco o con la prospettiva, magari, di guadagnarci perché molti sono i turisti che filmano le loro “avventure”. Pronti, domani, a metterle in rete: en amateur e su siti peer to peer come si dice adesso ma anche a pagamento. Con un rischio davvero minimo, alla fine, di essere intercettati se il fenomeno è ormai così diffuso da rendere del tutto casuale l’intervento di una polizia che non può battere di continuo l’intero spazio (sconfinato) di internet.
«Dormo sulla spiaggia, qui arrivano i clienti, dice Josia, dodici anni, che vogliono rapporti orali o sesso por atrás». Abusi sessuali comunque, nel nome per lui di una quantità di denaro che vale la paga di una settimana del padre o della madre e nel nome, per chi gliela dà, di una mancia. Segnalando, con una forza simbolicamente straordinaria, che cosa è ancora oggi l’oppressione che l’uomo può esercitare su un altro uomo (sul suo bambino o sulla sua bambina) «Son nostre figlie/le prostitute/che muoion tisiche/negli ospedàl», cantavano da noi gli anarchici alla fine dell’Ottocento prima che la capacità di organizzarsi dei lavoratori mettesse dei limiti alle miserie e agli orrori del capitalismo selvaggio. Muoiono di Hiv invece che di tubercolosi i bambini oggetto del turismo sessuale di oggi costretti a darsi «por atrás», senza profilattici nella metà dei casi (secondo l’Unicef), dalla furia più che bestiale di questi brutti rappresentanti all’estero del nostro Paese e della nostra cultura. E uguale mi sembra, tuttavia, la ragione economica della sottomissione di quelle che erano allora le figlie degli operai e di quelli che sono oggi i bambini dei poveri in una fase della storia del mondo in cui il capitalismo (che selvaggio, quando può, non smette mai di essere) si è trasformato (dichiaratamente, abilmente e spregiudicatamente,) in impresa sopranazionale: globalizzata e globalizzante. Senza che ci siano più un Marx o un Engels, però, capaci di chiamare a raccolta, perché si uniscano contro i loro sfruttatori, tutti gli sfruttati del mondo.
Se questo è il problema dal punto di vista economico (o, forse, politico), quello che va affrontato è però anche l’altro versante, quello relativo ai “turisti”. Di cui sappiamo dall’inchiesta che non sono “pedofili” (malati, cioè, di pedofilia in quanto obbligati dal loro interno a fare sesso solo con dei bambini) o vecchietti più o meno “bavosi” ma uomini e donne, fra i trenta e i cinquanta, efficienti, manageriali, sportivi, dal reddito e dal livello culturale “alti”. Uomini e donne, cioè, che cercano semplicemente (o non tanto semplicemente) una occasione di piacere in più o una esperienza comunque diversa, capace di farli sentire insieme potenti (“faccio tutto quello che voglio”) e abbrutiti (“mi faccio un po’ schifo”): nel modo in cui più o meno ci si sente, forse, dopo una piccola orgia quando il sesso viene “arricchito” dall’alcool o dalla cocaina. Su linee che sono quelle, insomma, del bisogno indotto e di un consumismo che può alienare completamente l’uomo da se stesso. Contro cui giusto è, sicuramente, muoversi sul piano repressivo perché questo è l’unico modo, in fondo, per riproporre a tutti l’esistenza del limite oltre cui non si può andare. Contro cui quella che si dovrebbe riuscire a mettere in moto, tuttavia, è soprattutto una grande, violenta ondata di indignazione collettiva: capace di collegare il fatto (lo sfruttamento sessuale del minore) alla sua ragione particolare (la violenza dello sfruttatore) e sociale (la violenza della prevaricazione dell’uomo ricco di denaro e di potere).
Faremo ancora politica un giorno su questi temi? Usciremo ancora dall’agenda sempre più soffocante che ci allontana ogni giorno di più dalla Politica vera? Davvero le categorie che più continuano a sembrarmi utili, mentre mi guardo intorno e ragiono su un mondo in cui è così difficile riconoscersi, mi sembrano ancora quelle dell’analisi portata avanti da Marx nei suoi Manoscritti del 1844 e da quelli che per tanto tempo (l’ultimo è stato Attali nel suo bel libro su di lui, Karl Marx. Ovvero, lo spirito del mondo) hanno continuato a credere nel fatto che la storia ha un senso e delle finalità poste molto al di là delle aspirazioni del singolo.

Corriere della Sera 26.3.08
Quei corpi seducenti di marmo e di bronzo Così il fascino ellenico conquistò l'Occidente
di Roberta Scorranese


Non chiedetevi perché il corpo bianchissimo di quella Venere vi stordisce; non stupitevi se il torso levigato di quel giovane vi soggioga e se, davanti a quella testa riccioluta di ragazzo un po' sfrontato, non trovate le parole. La forza del bello non spiega: travolge.
Seduce con l'irripetibile equilibrio armonico delle statue, il vigore controllato dei bronzi, la potenza visiva delle centoventi opere di scultura antica in mostra da sabato a Palazzo Te, a Mantova. E l'arte greca (ri)conquista l'Italia, armata della sola «Forza del bello». Come fece dal VII secolo a. C., quando questa stessa bellezza irretì gli Etruschi prima e i Romani poi. «Ammutolirono— precisa Salvatore Settis, celebre archeologo e curatore dell'esposizione —. Consoli, generali, oratori, si inchinarono tutti e la Grecia divenne un modello di bellezza e perfezione».
La stessa perfezione che sedusse i Gonzaga: a fine Quattrocento, l'insaziabile desiderio di «cose antique» di Isabella d'Este promosse una larga diffusione di opere classiche nelle corti lombarde. Lo stesso Andrea Mantegna ne trasse un insegnamento importante. Ecco perché Mantova e le stanze nude e sobrie di Palazzo Te sono l'intelaiatura ideale: qui marmi e bronzi osservano lo spettatore con l'imperturbabilità dei vincitori. O con l'eleganza di una nudità etica, come nel Kouros Milani (520-510 a.C., qui ricongiunto alla testa), che inaugura la prima sezione: corpo teso, giovane, fatto per vincere nella corsa, per superare il nemico. Per superare persino un dio. «Statue fatte per educare — dice la curatrice, l'archeologa Maria Luisa Catoni — corpi intrisi di valori morali».
Non era importante che quella statua fosse bella: era importante che il corpo fosse bello. Riproducevano non il soggetto, ma il valore. La bellezza aveva vita a sé e la forza del bello nasce anche da questa autarchia etica. Nel fascino irriverente del giovanetto di Mozia (470-450 a.C.), quasi impaziente nelle linee nervose dei muscoli, sembra di risentire il monito del poeta Mimnermo: «Per un tempo brevissimo godiamo i fiori della giovinezza». L'antica Italia dei contadini e dei guerrieri impallidì di fronte alla supremazia estetica. E i Romani saccheggiarono: si ricercavano autentici e si commissionavano copie. La «Graecia capta» quindi oggi rinasce a Mantova nell'Afrodite Sosandra, impenetrabile in una simmetria di vesti; nell'Apollo di Piombino, simile a un angelo bestemmiatore.
Più tardi, la fama dell'arte greca divenne leggenda. «Dante, Petrarca e altri — dice Settis — nominavano Policleto senza averne mai visto un'opera. Era un modello ideale di perfezione». Tramandati dalla letteratura, visto che nel Medioevo dello splendore antico era rimasto poco: i bronzi erano diventati armi, i gessi calce. L'economia spicciola della sopravvivenza aveva vinto sulla gloria imperitura della bellezza? No: la fama continuava a vivere. Eppure, per secoli, l'arte greca venne assimilata a quella romana e, prima che l'archeologo tedesco Johann J. Winckelmann, nel '700, le restituisse la sua «nobile semplicità e serena grandezza», in Europa nacquero primordi di una ricerca «scientifica» della grecità. Tra collezionisti e ricercatori di antichità.

Corriere della Sera 26.3.08
Le due civiltà. L'acculturamento dell'aristocrazia terriera. Non appoggiato da tutti
E Roma si divise sullo stile «alla greca»
di Eva Cantarella


La critica di Plinio: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi...»

Nel 167 a. C. Lucio Emilio Paolo, il conquistatore della Macedonia, «decise di visitare la Grecia — racconta Livio — per vedere quelle bellezze che erano state magnificate alle sue orecchie come superiori a quanto l'occhio umano potesse contemplare». I romani, ormai, avevano imparato ad apprezzare le opere d'arte greche, inizialmente ammirate come trofei di guerra. Al termine della seconda guerra punica, il generale Marco Claudio Marcello aveva fatto sfilare nelle strade della città, durante il trionfo, le opere d'arte trafugate nel 212 a.C. a Siracusa. In età precedente, scrive Strabone, i romani, «presi da cose più grandi e più necessarie, non avevano mai prestato attenzione alla bellezza». Ma poi le cose cambiarono. Tra il periodo tardo repubblicano e quello imperiale un numero crescente di opere greche giunse a Roma: nel 146 a.C., in un portico fatto costruire appositamente, vennero collocate le splendide statue di Lisippo raffiguranti Alessandro Magno e i suoi ufficiali morti nella battaglia di Granico. Altre opere vennero esposte in altri portici, nei templi, alle porte di questi, e con il tempo trovarono collocazione anche nelle abitazioni. Il collezionismo privato si diffuse al punto da preoccupare Cicerone: è ingiusto ed egoista, scrisse, segregare tante meraviglie, impedendone il godimento ai meno fortunati (evidentemente, in quel momento non pensava alla splendida collezione che conservava nella sua villa di Tuscolo). Roma non era più quella di un tempo, ma i romani non si accontentavano di quel che vedevano nella loro città: come Emilio Paolo, volevano visitare la Grecia, vedere l'Afrodite di Prassitele, Europa su Toro di Pitagora di Reggio, i dipinti del grande pittore Apelle. Secondo Plinio il Giovane il turismo culturale era diventata una moda per molti aspetti criticabile: «Noi viaggiamo per strade e mari per vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi... ». Ma la Grecia era diventata il luogo ideale e irrinunciabile della formazione culturale: da Cicerone a Cornelio Nipote, da Varrone a Lucullo, da Cesare a Virgilio, da Augusto a Orazio a Properzio, tutti gli intellettuali la visitavano. Ma non tutti i romani condividevano questo amore.
Dopo le guerre puniche, pur essendo divenuta una superpotenza mediterranea, Roma continuava a essere dominata da poche famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era basata sulla proprietà terriera. Molti esponenti di questa nobiltà stentavano a staccarsi dall'orizzonte provinciale in cui erano nati i costumi dei loro antenati, educati alla guerra e temprati al sacrificio: l'arte, per questi nostalgici dei bei temi andati, era parte di una nuova cultura che rischiava di corrompere lo stile di vitache aveva fatto grande Roma. Il secondo secolo a.C. vide dunque un imponente scontro tra due opposte tendenze: da un lato i tradiziona-listi, il cui maggior esponente era Catone il Censore; dall'altro alcuni circoli della medesima nobiltà (celebre quello degli Scipioni), per i quali il confronto con le culture diverse, in particolare quella greca, era indispensabile perché Roma potesse svolgere il suo nuovo compito.
Evidentemente, la prima posizione era destinata alla sconfitta: l'influenza culturale greca, definita da Cicerone «un fiume impetuoso di civiltà e di dottrina» ebbe il sopravvento.
Graecia capta — scrisse Orazio — ferum victorem cepit: la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore. I romani sapevano bene quanti fossero i loro debiti verso i greci.
Tutto era cambiato: le abitazioni, più ampie, aperte a giardini e paesaggi; i mobili, le suppellettili. Con lo stile abitativo erano cambiati lo stile di vita e i rapporti sociali: i nobili si scambiavano visite nelle loro ville sul golfo di Napoli o sulle colline attorno a Roma, offrivano banchetti luculliani, gareggiando in lusso. Il rinvio alla cultura greca era costante: a Pompei, sulle pareti della «Casa del Menandro» erano raffigurate le scene più celebri dell'Iliade; nella «Casa del Poeta Tragico» il sacrificio di Ifigenia era la copia di un quadro del celebre pittore greco Timante. Gli esempi potrebbero continuare, ovviamente. Ma, tutto ciò premesso, resta da dire che sarebbe sbagliato sia pensare ai romani, prima dell'incontro con i greci, come a un popolo assolutamente incolto, sia pensare alla cultura della Roma ellenizzata come a una cultura priva di ogni originalità. I debiti dall'esterno vengono sempre elaborati, sino a diventare, a volte, rielaborazioni creative. Per limitarci alla pittura: fu a Roma, e non in Grecia, che nacque il ritratto. La cultura romana, certamente conquistata dai greci, ci riconduce a una Grecia vista dai romani, vale a dire vista da una cultura diversa, certamente eclettica, ma comunque romana.

Liberazione 26.3.08
Roma, viaggio coi movimenti nella città che lotta per i beni comuni
Bertinotti: «Occupare e requisire case sono atti di umanità»
di Checchino Antonini


Da Trastevere a Cinecittà: quattro tappe emblematiche nel disagio abitativo, ieri a Roma, per Fausto Bertinotti, candidato premier, a bordo del bus panoramico della Sinistra l'Arcobaleno. Un tour nel disagio abitativo di una metropoli «così poco europea - sottolinea Patrizia Sentinelli, coordinatrice della campagna elettorale - con quello striminzito 3% della spesa pubblica destinato all'edilizia popolare». E con numeri esorbitanti per misurare il dramma casa. 35mila persone nella graduatoria non aggiornata da troppo tempo, 7 anni fa erano il 30% in meno mentre, in 5 anni, sono state assegnate solo 2mila case. Il dramma cresce al ritmo di 30 sentenze di sfratto al giorno, 20 delle quali per morosità e 10 sfratti reali al giorno, 2mila l'anno. In 15mila hanno fatto richiesta per il buono casa e 70mila famiglie stanno per accendere un mutuo per via delle dismissioni degli enti parapubblici. «C'è fame di case ma a canoni sostenibili», spiega Guido Lanciano dell'Unione inquilini, accompagnando Bertinotti all'interno dello stabile comunale di Trastevere, sottratto 19 anni fa alla speculazione dalla prima esperienza di autorecupero, quella da cui è scaturita la legge regionale. Ora gli occupanti sono assegnatari e altre 200 famiglie romane sono alle prese con l'autorecupero. «E' un esempio concreto di come si può evitare di cementificare costruendo comunità», dice l'assessore uscente alle periferie, Dante Pomponi, cogliendo l'elemento di solidarietà delle lotte. Infatti, quello di Bertinotti sarà un tour nel disagio ma anche all'interno delle «esperienze più significative di movimento», spiega lui stesso a Liberazione al termine di un pomeriggio dedicato all'incontro e all'ascolto. «Conta molto il rapporto con il municipio e con le esperienze di democrazia partecipata, come le occupazioni o le requisizioni. Qui emerge ciò che la politica nasconde: le storie di resistenze già poste in atto».
Ha visto, Bertinotti, gli inquilini sotto sfratto del cinema Maestoso. Palazzo pregiato, citato su molti testi di architettura. Da Assitalia è passato a una sigla collegata a una società in cui figura Galliani nel Cda. E che, per «valorizzare l'area», vuole caccia persone e sala. Paradossi della città del megafestival del cinema. Susi Fantino (Prc), presidente del municipio, ha provato a requisirlo - ossia, per Bertinotti, a «ripristinare un minimo di legalità» - ma il Tar ha detto che non può farlo nemmeno il sindaco. In tanti hanno spiegato le vertenze di altri stabili cartolarizzati, di affitti che si sono moltiplicati e superano salari al palo, di attese interminabili di assegnazioni, prima che il bus con cui la Sinistra vuole osservare la città e farsi notare, muova verso Cinecittà passando davanti agli striscioni, sulla Tuscolana, della prima occupazione di donne. Donne sole, donne vittime di violenza, e i loro bambini. Sandro Medici, altro "minisindaco" requisitore, spiega la vicenda delle 141 famiglie di Via Marchisio hanno assistito alla svendita delle loro case, da Assitalia (ancora) a un imprenditore di Isernia che con 100mila euro e 4 ipoteche è riuscito a far lievitare i prezzi da 800 a 3500 euro al metro quadro di case costruite con fondi pubblici per famiglie a basso reddito. Rendita pura. «Dov'è l'intelligenza del mercato se lascia vuote le case e le persone senza casa?», si domanda Bertinotti riprendendo un'osservazione di Andrea Alzetta, per tutti Tarzan, candidato di Action al Campidoglio, con cui partecipa all'assemblea finale del tour, nella piazza Don Bosco di fronte a mille persone. Tarzan incalza: la nuova sinistra sarà un cartello di partiti o qualcosa di più? «Serve, eccome, la sinistra diffusa, deve trovare casa nelle sedi dei partiti e nei centri sociali e nessuno dovrà avere una parola in più - s'è sentito rispondere - le liste sono il frutto di un passaggio imperfetto ma il cammino ricomincia».

Liberazione 26.3.08
Perché anche voi parlate di voto utile? E' un modo per far polemica
Perché devo votare Sinistra? Per ricostruire
risponde Piero Sansonetti

Caro Piero, leggo dalla pagine di "Liberazione", nella tua risposta ad una lettrice, le seguenti parole: «il voto utile alla fine è quello per La Sinistra Arcobaleno». Con tutta la sincerità avrei preferito non leggere quella frase. Sono molto deluso e ho molte perplessità, proprio come quelle esternate nel suo articolo da Alessandro Dal Lago, ma a differenza di lui sono ancor indeciso. Ho una domanda senza risposte e questa mancanza non mi permette di capire se effettivamente la Sinistra L'Arcobaleno possa essere il futuro per la sinistra italiana. La frase che ti contesto, potrebbe essere una risposta indiretta alla mia domanda, ma commetterei un errore gravissimo se mi lasciassi trasportare dalla delusione. Ho ancora qualche settimana per trovare (forse) una risposta, ma comunque vada avrò la certezza che il mio voto sarà indiscutibilmente utile.
Francesco Bertolini Milano

Caro Bertolini, l'uso dell'espressione «voto utile» - pensavo francamente che si capisse - era un modo per prendere in giro la campagna degli altri. Sai, è difficile credere che chi sostiene una forza che nel migliore dei casi può aspirare al 10 per cento dei voti, possa usare come argomento elettorale l'utilità o l'inutilità del voto. Non ti pare? E' chiaro che ogni voto è utile. Io, addirittura, credo che la campagna per il voto utile sia una campagna di tipo autoritario, antidemocratico. L'idea che esista un voto inutile è una idea assolutamente totalitaria.
Nella risposta che ho dato ieri alla lettera di una lettrice, alla quale tu fai riferimento, svolgevo un ragionamento del tutto tecnico sulle possibilità che Berlusconi risulti senza maggioranza in Senato. E dimostravo (o cercavo di dimostrare) che paradossalmente in alcune regioni, come il Lazio, Berlusconi sarà danneggiato soprattutto dal voto ai partiti più piccoli. Tra questi partiti, ovviamente c'e La Sinistra l'Arcobaleno - e di qui lo slogan ironico sul voto utile - ma, figuriamoci, c'è anche Casini e persino - e soprattutto - la destra di Storace. Non credo che tu possa pensare che volessi fare propaganda a Storace, no?
Poi, mi sembra di capire, tu fai un'altra obiezione, o domanda - assai più pesante e complicata - a proposito dell'editoriale di Dal Lago che abbiamo pubblicato ieri. Era intitolato "Sinistra, sono deluso ma ti voto". Dal Lago elencava tutti i motivi della sua insoddisfazione. Che poi sono semplicemente i "punti" decisivi della sconfitta subìta dalla sinistra in questi ultimi due anni. Caro Francesco, sono convinto, come Dal Lago e come te, che la sinistra è stata sconfitta. E che ora dobbiamo ripartire dalla presa d'atto di questa sconfitta, per costruire qualcosa di nuovo: una politica nuova, nuovi legami di massa, una strategia nuova e io credo anche una nuova forza politica. E per questo penso che abbia una certa importanza che la Sinistra ottenga un discreto risultato elettorale, o un buon risultato elettorale. Perché mi sembra che un buon risultato elettorale renderebbe meno difficile l'opera di ricostruzione. Che serva un'opera di ricostruzione è indubbio. Ciascuno, è chiaro, ha una sua idea su come debba essere questa opera, e di questo bisognerà discutere. Con le forze che oggi stanno dentro l'Arcobaleno e con tante altre forze, che sono fuori, e magari vanno alle elezioni con liste diverse da quella che io voterò. Vuoi sapere se considero inutile un voto che non sia per l'Arcobaleno? Certo che non lo considero inutile, e comunque lo considero molto più utile di un voto per il Pd o per la destra.
Piero Sansonetti