lunedì 31 marzo 2008

La Republica, lunedì 31 marzo 2008
È uno degli interpreti più promettenti della nuova generazione, protagonista per i registi più diversi da Paolo Virzì a Francesco Patierno e Paolo Franchi
Elio Germano: "Recitare non è una gara"
Non penso al mio lavoro come a una gara sportiva, invece vince la competizione, la ricerca del migliore del momento È assurdo
di MARIA PIA FUSCO

Se il talento di un attore si misura dalla varietà dei personaggi, Elio Germano è il più bravo della sua generazione. Romano di Monteverde, 28 anni, interprete di tanto teatro off e di oltre venti film, stupisce ogni volta per la capacità di cambiare fino all´irriconoscibilità, dal giocatore Baldini di "Il mattino ha l´oro in bocca" di Patierno al venditore invasato di "Tutta la vita davanti", al misterioso Luca di "Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi, il film di Venezia, dove il giudizio fu falsato dal giro di gossip sulla fugace apparizione di nudo, «un nudo necessario alla vicenda e tutt´altro che scandaloso», dice lui.
"Nessuna qualità agli eroi" è il film che più gli sta a cuore «perché è stata un´esperienza personale importante, Paolo ci ha chiesto di fare un percorso personale, vivere un´avventura emotiva anche a costo di mettersi in crisi. È un film, però è stato un concentrarsi su tematiche che riguardano il rapporto con i genitori, con l´autorità, soprattutto con noi stessi, perché è difficile liberarsi dell´autorità paterna, è un giudice impietoso che resta dentro di noi, non ci fa sentire mai all´altezza».
Vede il suo lavoro come una possibilità di scoperte nuove?
«Il bello di questo lavoro è stupirsi sempre, di se stessi e degli altri. L´attore è innamorato degli esseri umani in tutte le sfaccettature, positive e negative, anche esasperando come nel venditore di Virzì, quasi un cartone animato. Baldini è diverso, è vittima di una dipendenza, distaccato dalle emozioni, senza responsabilità, vive una vita non sua, ma con una leggerezza che è la sua via di salvezza. È degli anni Ottanta, allora si affermò la tendenza a non interrogarsi sul senso di quello che si fa, ma andare avanti, avere di più, comprare prodotti sempre nuovi».
Lei non è così.
«Cerco di non essere così, ma siamo tutti portati ad esserlo almeno in parte, se dovessimo essere rigorosi e fedeli alle nostre idee non dovremmo più lavorare ma scendere in piazza tutti i giorni o andare a mettere le bombe. Ho capito che non si può essere puri fino in fondo, bisogna solo cercare di essere sereni e felici».
Ci riesce?
«Ci provo, ce la metto tutta, anche per rendere sereni e felici gli altri. E ce la metto tutta per cercare di cambiare le cose. Domani potrei avere figli. Non so che padre sarò, ma mi fido di chi mi sta intorno, credo fortemente nella socialità, nella condivisione delle cose, un valore che si sta perdendo, tendiamo ad isolarci. Io ho avuto la fortuna di crescere per strada e quattro mesi all´anno a Duronia, nel Molise, il paese dei miei, tra ragazzi di ogni genere, anche cattivi, forse la mia è l´ultima generazione cresciuta così. Se avessi un figlio, non vorrei che crescesse solo con i genitori o davanti a un televisore».
Esiste solidarietà tra attori della sua generazione?
«Ci si ritrova tra chi ha la stessa passione per lo stesso mestiere, ma è una minoranza. Qualsiasi mestiere dovrebbe essere avvertito come qualcosa al servizio di una comunità, purtroppo la prospettiva è cambiata, il lavoro è visto come mezzo per la riuscita personale, i soldi, il successo. Per la mia categoria è meno pericoloso, mi fa più paura per lavori come i medici, gli insegnanti, chi ha tante responsabilità nei confronti della comunità».
Come reagisce al paragone tra lei e altri, per esempio Scamarcio?
«Lo trovo assurdo perché non penso al mio lavoro come a una gara sportiva, invece vince la competizione, la ricerca del migliore del momento. È assurdo, un attore si confronta sempre con il mistero della riuscita di un progetto, che non dipende solo da lui e soprattutto non è identificabile in termini numerici a meno che non si parli del successo al botteghino. In questo caso Scamarcio stravince. Abbiamo fatto un film insieme e se non ci fosse stato lui non avrebbe incassato così tanto. In termini qualitativi però il giudizio è soggettivo, un attore può piacere ad alcuni ed essere detestato da altri».
Ha amici tra gli attori?
«I miei amici sono quelli del mio paese e del quartiere, quelli con cui sono cresciuto. Loro sono la sicurezza per me che faccio un mestiere in cui l´unica certezza è l´insicurezza».
Lei è anche autore di racconti e musicista con il gruppo Le bestie rare.
«Per i racconti non ho più tempo, ma con il gruppo abbiamo appena finito un disco, Come un animale. Siamo in tre, facciamo un genere tra punk e stornello, più che l´hip hop americano che non ci riguarda. I titoli sono Precario, Signor padrone, Mondiali 90, cose anche molto forti. Per me è un modo di dire cose che non posso come attore. Abbiamo sempre venduto i dischi ai concerti, ora il dramma è che vorremmo un distributore ma chi è disposto vorrebbe lanciare il gruppo di Elio Germano. Non è giusto, Le bestie rare esistono da dieci anni, prima che io conoscessi un po´ di popolarità. Magari lancio un appello».




La Republica, lunedì 31 marzo 2008

L’antiberlusconismo è finito, parola di Silvio a Newsweek:

Il leader del Pd smentisce il settimanale americano "Newsweek"
per il quale solo un governo in comune salverebbe l'Italia
Veltroni: "Niente larghe intese
se perdo, resto segretario del Pd"
"Nessun inciucio, chi vince governa. Poi, insieme, le riforme"
Bonaiuti (Pdl): "Abbiamo la vittoria in mano, il resto è disinformazione"

- "Nessun inciucio, niente larghe intese, chi vince governa. Poi, le riforme istituzionali si fanno insieme". Acclamato dai suoi sostenitori, Walter Veltroni visita un gazebo, uno dei tanti allestiti in tutta Italia per il Democratic Day, e smentisce le affermazioni di Newsweek. Ovvero che per l'Italia l'unica speranza di "salvarsi" sarebbe un governo in comune Pdl-Pd. "Veltrusconi", titola il settimanale americano, che piazza in copertina un volto realizzato con le facce dei due candidati, entrambi intervistati.
Ma "chi vince, governa, niente intese né coalizioni" lo dice pure Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, aggiungendo: "Il Pdl è saldamente in testa a Camera e Senato, tutto il resto è disinformazione di sinistra". E se gli organizzatori del D-Day esultano perché "sono stati contattati 6 milioni di cittadini", un milione di romani invece riceverà presto un dossier con prefazione a firma di Silvio Berlusconi e rassegna dei "disastri" compiuti, a suo giudizio, da Veltroni e Rutelli come sindaci della capitale.
Veltroni: "Niente larghe intese. Partita più che mai aperta". Quello delle larghe intese, insiste il leader del Pd, "è un tema che non esiste". E se, una volta al governo, "le riforme istituzionali si fanno di concerto", questo è tutt'altro da un governo insieme. "Nessun inciucio. Non esiste alcuna grande coalizione". Quanto al risultato del voto, a Veltroni non manca la fiducia. "Una settimana fa avrei detto che la partita è aperta, adesso dico che è più che mai aperta. Sono assolutamente ottimista. Sono loro che parlano di pareggio". Sostiene, anzi, che il risultato al Senato non sarà in bilico e che il Pd possa vincere sia a Montecitorio che a Palazzo Madama. "Nel Paese c'è la convinzione crescente che si possa veramente cambiare, nonostante una legge elettorale folle. Ci saranno sorprese".
"Se sconfitto non mi farò da parte". Veltroni promette: anche in caso di disfatta elettorale "continuerò ad assolvere l'impegno, preso con tre milioni e mezzo di persone, di fare un grande partito, finché non potrà essere superato da una scadenza analoga". Cioè finchè non ci saranno nuove primarie a eleggere un altro segretario.
"Serve leadership seria e responsabile". Veltroni ribadisce che non risponderà agli insulti o agli attacchi di Berlusconi su stalinismo, brogli e simili. Ma al Cavaliere spedisce più di una stoccata: "L'Italia ha bisogno di una leadership europea, responsabile e seria, gente che non faccia le corna nelle foto con i capi di Stato". Quanto ai suoi rapporti con Berlusconi, aggiunge (senza farne esplicitamente il nome): "Mi dà fastidio la doppiezza di certi uomini politici. Il mio principale avversario, durante la discussione sulle riforme, parlava di me come se fossi Giolitti. Ora che c'è la campagna elettorale dice quanto di peggio possibile. I miei sono giudizi politici, mai personali. Questa è quella parte trash della vita politica che io non frequento". Una critica pesante anche sulle parole del Cavaliere sulla Cei. "Diversamente dal mio principale avversario io rispetto quello che pensa la Cei e non mi permetterei mai di affermare che quello che pensa questo o quell'esponente della Cei è riferibile a mie posizioni. Si tratta di un fatto di elementare rispetto e rigore istituzionale".
"D-Day, un successo". Intanto il Pd ha richiamato in piazza il popolo delle primarie per dare "l'ultima spinta", come l'ha definita Veltroni, verso le elezioni. "Da molti anni in Italia non si vedeva una mobilitazione elettorale di tali proporzioni" commenta in serata Ermete Realacci, responsabile comunicazione del partito. Secondo i dati diffusi dal Pd, sono stati contattati più di 6 milioni di cittadini e "reclutati" un milione e duecentomila volontari pronti a impegnarsi nella fase finale della campagna elettorale.
Berlusconi contro Veltroni. "E' un affabulatore, ma il grande spettacolo che sta mettendo in scena è finito" dice il Cavaliere nell'intervista a Newsweek. "Gli italiani hanno capito che in Italia ci sono due sinistre. Che la sinistra significa 67 nuove tasse, una pressione fiscale più alta, frontiere aperte con un crollo della sicurezza, la tragedia dei rifiuti di Napoli e lo stop" ai cantieri "dei lavori pubblici. Questi sono i fatti della sinistra. Poi ci sono le belle parole e le promesse e quella è la sinistra di Veltroni".
"L'antiberlusconismo è finito". "La sinistra ha semplicemente imparato che usare questo approccio era un boomerang - ha detto Berlusconi a Newsweek. Gli italiani mi conoscono per quello che sono e per quello che ho fatto. Dopo cinque anni di governo Berlusconi sanno che non possono pensare a qualcuno più liberale di me. Guardando le televisioni e leggendo i giornali che sono di proprietà della mia famiglia, sanno che non c'è mai stato un attacco contro la sinistra. Vedono che sono l'editore più liberale. Io credo che gli attacchi radicali creino rifiuto; la sinistra ha capito che non è più conveniente continuare così".
Il Cavaliere e i "disastri" di Roma. E' un libro fotografico - 96 pagine - in cinque capitoli, dal titolo "C'era una volta il modello Roma di Rutelli e Veltroni. L'eredità della sinistra". Ed è Berlusconi a scrivere le quattro pagine dell'introduzione. "La sinistra ha costruito una città egoista", si legge, prima di un elenco dei "numeri del fallimento della sinistra" che dimostrerebbero "non il 'modello Roma' ma il 'disastro Roma'". A giorni il volume sarà spedito a un milione di romani.




La Repubblica, 31.03.2008

Il presidente della Federazione Internazionale appare in un video hard
Nudo, legato con le catene ad una panca, chiede pietà mentre viene picchiato
Video sadomaso per il boss della F1
Le torture del nazicomandante Mosley


Giochi pericolosi per Max Mosley. Il presidente della Federazione Internazionale dell'Automobile (Fia) appare in un video sadomaso di cinque ore: gioca a fare il comandante nazista che infligge torture ad alcune donne, vestite con tute a strisce bianche e nere che ricordano molto quelle usate dai detenuti ebrei nei campi di concentramento. Per News of the world è il colpo dell'anno. Mosley è sicuramente uno dei personaggi più potenti dello sport mondiale. E' molto difficile che dopo questa vicenda riesca a conservare la sua carica.
In alcuni estratti del filmato diffuso dal tabloid, Mosley, 67 anni, dà ordini in tedesco a due ragazze e conta le frustate inflitte mentre altre donne, vestite con uniformi che ricordano quelle dell'esercito nazista, osservano in silenzio. Prima di infierire sulle giovani, il numero uno della Fia, si sottopone allo stesso trattamento. Nudo, si fa ispezionare i genitali da una donna-kapò, esaminare i capelli (per vedere se ha i pidocchi), poi, legato con le catene alla panca della tortura, chiede pietà mentre la finta guardia gli frusta il sedere.
Al termine dell'orgia, racconta poi il 'News of the World', le cinque 'escort', festeggiano brindando, mentre Mosley si riveste e ricompone prima di lasciare soddisfatto l'appartamento.
Il boss della Fia è il quarto figlio di sir Oswald Mosley, fondatore del British Union of fascists, una formazione politica di estrema destra che negli anni Trenta fu alleata del partito di Benito Mussolini. Sir Mosley, morto nel 1980, fu anche amico personale di Adolf Hitler e Joseph Goebbels (nella cui casa si celebrarono le sue seconde nozze). Il 23 maggio del 1940 fu arrestato e condannato, insieme alla moglie Diana Mitford, a tre anni di carcere. Max nacque durante il periodo di reclusione della coppia.
67 anni, sposato e con due figli adulti, Mosley viene descritto dal 'News of the World' come un "pervertito sessuale sadomasochista". Sede dell'orgia nazista un lussuoso appartamento nel quartiere londinese di Chelsea, a pochi passi dall'abitazione dell'apparentemente integerrimo presidente della Fia, che in pubblico ha preso le distanze dalle ideologie naziste del padre. Recentemente ha fermamente condannato gli episodi di razzismo in Formula Uno contro il pilota di colore Hamilton.
Non è possibile fare previsioni sul futuro di Mosley, ma la sua permanenza al vertice della Formula 1 appare quantomeno in dubbio. Il presidente della Fa, tanto per fare un esempio, ha gestito tutta la vicenda della spy story Mclaren-Ferrari. Quale credibilità potrà avere adesso?

L'Unità 31.03.2008
Von Karajan, un führer sul podio
di Luca Del Fra


Comunque era un grande Heribert Ritter von Karajan, al secolo Herbert von Karajan: senz'altro il più celebre, emblematico e inevitabilmente contraddittorio tra i cultori dell'arte della direzione d'orchestra, tanto da incarnarne il simbolo nella coscienza comune. Il centenario della sua nascita, avvenuta il 5 aprile del 1908, incentiva celebrazioni, riedizioni delle sue registrazioni discografiche e di certo le inevitabili biografie d'occasione che strillano di svelare nuovi e inediti risvolti. La figura di questo musicista, che pure campeggia nelle copertine di dischi e cd sugli scaffali di tutte le famiglie, non è stata esente da controversie. E in primo luogo perché Karajan non è stato, né forse poteva essere solo un ottimo musicista, ma anche un carrierista con enorme inventiva, energia e virulenta determinazione.
Nato in una famiglia di origini greche il giovane viene benedetto fin dall'età di 9 anni quando debutta nel 1917 come pianista al Mozarteum della natia Salisburgo: Bernhard Paumgarten lo ascolta eseguire la Fantasia K 397 di Mozart, gli fa i complimenti e senza mezzi termini gli spiega che mai sarà pianista, ma potrebbe diventare un direttore d'orchestra. Il fanciullino prodigio s'impegna, però si trasforma nel «Wunder Karajan», il miracolo Karajan, con le apparizioni al Festival di Salisburgo del 1929 e del 1934 e subito dopo quando arriva in Germania entra nelle simpatie dei gerarchi nazisti, e s'iscrive al partito diventando così ad Achen (Acquisgrana) il più giovane «Generalmusikdirector» del Reich. I trascorsi nazisti e l'essere il favorito di Hermann Göring di cui frequentava la cricca di gaudenti debosciati sono stati spesso rinfacciati a Karajan, che tuttavia ha più o meno ammesso i fatti, spiegando come la scelta era forzata al fine di lavorare e far carriera. Tuttavia alcuni biografi hanno precisato come Karajan s'iscrisse al partito nazista austriaco fin dal 1933 - prima di trasferirsi in Germania e ben prima dell'Anschluss (1939)-, senza rifiutare di aprire i suoi concerti con «Horst Wessell Lied», inno amatissimo dalle camice brune. Il giovane direttore viene trattato come un beniamino quando nel 1942 sposa Anita Güttermann, figlia di un magnate industriale, ma nipote di un ebreo, secondo la legislazione nazista una Vieterljüdin (un quarto ebrea) a cui, per decisione del partito, viene concessa la qualifica di quinta «Ariana onoraria del Reich». D'altra parte dopo il '42 Karajan cadrà in disgrazia presso i gerarchi di Berlino, e si rifugerà in Italia prima a Milano poi a Torino fino alla fine della guerra.
In ogni caso le avventure con la croce uncinata di Karajan possono essere una chiave per capire anche la sua ascesa e maturazione artistica avvenuta senza ombra di dubbio dopo la guerra, collegata a un culto della personalità e un autoritarismo a dir poco inquietanti. Dittatoriale con le orchestre, Karajan è stato un musicista di grandissima finezza interpretativa poiché riusciva a unire qualità all'apparenza contraddittorie. Curava i dettagli nelle prove con attenzione certosina, e le sue concertazioni delle opere di Giuseppe Verdi hanno aperto nuove prospettive sulla musica del bussetano. Al tempo stesso quando arrivava all'esecuzione dal vivo era un demiurgo in grado con il suo carisma di galvanizzare sia i musicisti che il pubblico. Se il pianissimo era un sussurro, il peso sonoro di un fortissimo di Karajan poteva anche atterrire, e l'orchestra, pur esaltata, non sfilacciava il suo suono in caciara, che oggi è la norma anche in un mezzo forte. La grande tradizione tedesca, di cui era certo erede, l'ha saputa rinnovare con idee spesso illuminanti: esemplari da questo punto di vista sono le sue esecuzioni di Anton Bruckner, Richard Strauss e soprattutto di Richard Wagner: la registrazione de L'anello del Nibelungo fu un salto epocale nell'interpretazione del ciclo che da massiccio e roboante si dischiuse a un'interpretazione musicale piena di delicate sfumature. Dalle magnifiche interpretazioni di questi compositori nasce l'idea, forse riduttiva, di un Karajan decadente. Ma il vitalismo che riusciva a imprimere alle esecuzioni resta esperienza memorabile e irripetibile, oltretutto difficilmente restituita dai dischi, basti pensare alla registrazione pirata dal vivo dei Maestri cantori di Salisburgo del 1974.
Con Karajan è anche il sistema della musica classica a compiere un indiscutibile giro di boa: dopo Arturo Toscanini è lui ad afferrare la potenza dei mezzi di comunicazione, che spesso sfuggiva ad altri direttori, e a decuplicarne l'efficacia. Se il parmense è stato il primo a registrare tutto il suo repertorio sinfonico e una parte di quello operistico, il salisburghese ha lasciato non solo tutto il suo repertorio sinfonico e quello operistico - spesso inciso anche in diverse edizioni con la scusa dei progressi della tecnica - ma anche moltissimi brani che dal vivo non ha mai eseguito o lo ha fatto molto raramente e a cui non sembrava troppo interessato. Nel complesso, una montagna di registrazioni la cui qualità complessiva a posteriori lascia qualche perplessità - naturalmente rispetto al livello che ci aspetteremmo da Karajan. L'assalto al sistema musicale avviene per tappe successive: nel 1955 alla morte di Willhelm Furtwängler gli succede alla testa dei Berliner Philharmoniker, carica che mantiene fino alla morte, avvenuta nel 1989, ed è l'ultimo direttore a vita della più celebre orchestra tedesca.
Nel 1967 conquista la direzione artistica del Festival di Salisburgo, e dirige in tutti i maggiori teatri europei: Vienna, Parigi, Milano, Londra, spesso con ritmi da capogiro. Per lui vengono coniate la scherzosa e un po' stizzosa definizione di «Generalmusikdirector» d'Europa, nonché una barzelletta molto in voga: il maestro entra in un taxì, il conducente gli chiede «Dove andiamo?» e lui risponde: «Dove vuole, tanto sono richiesto ovunque».


PERSONAGGI Il 5 aprile di cento anni fa nasceva l’uomo che divenuto il prototipo del direttore d’orchestra dei nostri giorni. Grandi risorse ma altrettanta disponibilità a servire il nazismo per far carriera. Dalle feste di Göring ai Berliner...

L'Unità 31.03.2008

Quando Amaldi salvò la fisica italiana dal disastro
di Pietro Greco

Nell’estate del 1938, settant’anni fa, un nutrito gruppo di scienziati italiani scrivono un manifesto dal titolo «Il fascismo e il problema della razza» in cui si afferma che le razze umane esistono; che tra loro c’è una gerarchia di capacità; che esiste una «razza italiana»; che questa razza va tutelata e che di essa non fanno parte gli ebrei, con cui va evitato ogni contatto di sangue. Sulla base di questo manifesto il regime vara, nelle settimane successive, le famigerate leggi razziali, il presupposto per la persecuzione anche in Italia degli ebrei.
Tra le prime conseguenze delle leggi razziali c’è l’inizio di quel «disastro» della scienza italiana che si consumerà per intero durante la successiva seconda guerra mondiale. Il «disastro» è dovuto sia al fatto che gli scienziati di origine ebrea devono abbandonare le università, sia al fatto che viene violentemente perturbato un ambiente relativamente protetto. Basta fare il caso della fisica, per rendersi conto di cosa tutto ciò ha significato. C’erano, a quell’epoca, due scuole di fisica in Italia che avevano raggiunto un valore mondiale. Quella sui raggi cosmici, costruita, tra Firenze e Padova, intorno alla figura di Bruno Rossi e quella di fisica nucleare, costruita, a Roma, intorno alla figura di Enrico Fermi. Entrambe vengono letteralmente dissolte dalle leggi razziali.
Bruno Rossi - che è ebreo ed è imparentato con la famiglia Lombroso, invisa al fascismo - deve fuggire dall’Italia e riparare negli Stati Uniti. Con lui la scuola sui «raggi cosmici» si disperde.
Stessa sorte tocca alla scuola romana. Enrico Fermi, che ha la moglie ebrea, approfitta dell’assegnazione del Premio Nobel, nel dicembre 1938, per emigrare in America. Lo stesso fanno Emilio Segré (che è ebreo) e Franco Rasetti (che ebreo non è, ma che è disgustato dalla situazione). Quanto a Bruno Pontecorvo (ebreo), resta in Francia, prima di scappare in America e sfuggire alle truppe hitleriane appena inizia la guerra. Dei «ragazzi di via Panisperna» solo Edoardo Amaldi resta in Italia: tutti gli altri sono perduti per sempre.
A Edoardo Amaldi, per pura coincidenza, è legato una seconda ricorrenza quest’anno: corre, infatti, il centenario della nascita, avvenuta a Carpaneto Piacentino, in Emilia, il 5 settembre 1908. Ed è una ricorrenza significativa, perché sarà proprio Amaldi ad assumersi sulle spalle la ricostruzione della fisica (e, per certi versi, dell’intera scienza) italiana dopo il disastro (la definizione è sua) delle leggi razziali e della guerra fascista. Un compito che svolge con lucidità e creatività. Anzi, con un metodo che ancora oggi risulterebbe straordinariamente attuale. Celebrare Amaldi significa dare una precisa indicazione alla scienza italiana e al paese intero.
Amaldi comprende che i tempi dei «ragazzi di via Panisperna», quando si poteva fare buona fisica con pochi mezzi e poco supporto politico, sono finiti per sempre. Sa che Fermi è andato via non solo per le leggi razziali, ma anche perché il regime gli aveva negato i fondi necessari per conservare l’assoluta eccellenza italiana in fisica nucleare. Sa, infine, che a conflitto finito e dopo il successo del progetto Manhattan negli Usa il problema non è quello della penuria di fondi, ma al contrario dell’eccesso di finanziamenti. In queste condizioni, i fisici italiani devono riunirsi, individuare poche tematiche, a basso costo e ad alta potenzialità scientifica, da sviluppare in pochi centri. È seguendo questa linea che, negli anni successivi, verrà fondato l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e che il nostro paese riuscirà non solo a ricostruire un buon ambiente di ricerca, ma anche a produrre una «via italiana alle alte energie».
Ma Amaldi sa che esiste anche un problema di scala. E che questo problema può essere risolto solo in sede europea, con una strategia «politica»: che usa la fisica per rafforzare la pace nel continente. Questa idea può essere realizzata, in pratica, creando in Europa un centro di ricerca comune, paragonabile anzi superiore ai centri americani. Per affermare questa idea deve vincere lo scetticismo, più o meno interessato, non solo dei colleghi americani (tra cui Isidor Rabi), ma anche dei più illustri fisici europei, inclusi Niels Bohr. Ma alla fine è la linea Amaldi che si afferma. E a Ginevra negli anni ‘50 nasce il Cern, il centro europeo di fisica nucleare: il più grande laboratorio del mondo. Amaldi diventa il primo Direttore generale del centro.
Ma Edoardo Amaldi sa che creare una fisica europea e integrarvi la ricerca italiana non basta. Occorre anche creare delle scuole di eccellenza (a lui si devono le prime scuole di formazione post-laurea) e integrare la fisica di base con la fisica applicata. Perché, ormai, nessuna delle due può essere sviluppata fino in fondo senza l’altra. E così si impegna direttamente anche nella realizzazione di un gruppo misto formato da scienziati, economisti e industriali, il Cise, per utilizzare l’energia nucleare a scopi civili. La fisica applicata, nella visione di Amaldi, non deve (non può) essere fine a se stessa, ma deve assolvere a due scopi, peraltro legati: creare le premesse, anche in Italia, perché si affermi un modello di sviluppo fondato sulla ricerca e dotare il nostro paese dell’indipendenza energetica (lo stesso progetto, assolto in altre forme, di Enrico Mattei).
È evidente che Amaldi assegna a se stesso e ai suoi colleghi scienziati una «funzione nazionale», di classe dirigente a tutto tondo, che si fa carico dei problemi complessivi del paese. Non è, dunque, un orpello il fatto che si impegni direttamente e fondi l’«Unione scienziati per il disarmo», un'organizzazione che si batte, con solidi argomenti, per la pace.
Il grande progetto di Amaldi - ricostruire la fisica italiana lacerata dalle leggi razziali e dalla guerra fascista facendone un motore della ricostruzione generale del paese - non si realizza per intero. Conosce notevoli successi: nella fisica fondamentale, nel ruolo dei fisici italiani per la pace. Ma anche forti insuccessi (non certo per colpa sua): l’Italia non si doterà di un modello di sviluppo fondato sulla ricerca e rinuncerà non solo al nucleare civile, ma anche al principio, ancora oggi valido, dell’indipendenza energetica.
Oggi conviene celebrare Amaldi non solo per il suo genio scientifico. Ma anche e soprattutto per questa capacità progettuale. Non solo perché tutte le sue principali strategie d’azione conservano intatte la loro validità. Ma anche e soprattutto perché nel loro combinato disposto c’è il modo - forse l'unico possibile - per uscire dal declino cui è avviato il nostro paese.


SETTANTA anni fa venivano promulgate le leggi razziali che azzerarono la comunità scientifica. Ma Edoardo Amaldi riuscì a ricostruire la fisica a livelli «alti». E quest’anno ricorre il centenario della sua nascita

L'Unità 31.03.2008
Scoperti i resti del primo antenato
dell’uomo che arrivò in Europa
di Cristiana Pulcinelli

È una mandibola importante quella che alcuni paleoantropologi hanno rinvenuto nel sito Sima del elefante nel nord della Spagna. Aveva ancora alcuni denti ed è stata trovata assieme a utensili litici e a resti di animali. La datazione dei fossili ha permesso di capire che si tratta di resti di oltre un milione di anni fa. Questo vuol dire che ci troviamo di fronte ai reperti di quello che potrebbe essere il primo ominino d'Europa.
Nella categoria Ominino rientrano tutti gli antenati dell'umanità attuale fino alla separazione dallo scimpanzé che avvenne intorno ai sei milioni di anni fa.
La prima occupazione dell'Europa da parte degli ominidi è uno dei punti più dibattuti della paleoantropologia. Anche i siti più importanti con testimonianze del primo Pleistocene finora avevano restituito solo utensili, ma non fossili umani. Così la scoperta di questo gruppo di scienziati spagnoli diventa particolarmente interessante.
Eudald Carbonell e i suoi colleghi hanno pubblicato la loro scoperta sul nuovo numero di Nature. La datazione dei fossili è stata ottenuta utilizzando diversi metodi, inoltre la biostratigrafia ha permesso di calcolare l'età della roccia nella quale i fossili sono stati rinvenuti. E la data è molto indietro nel tempo: tra 1,1 e 1,2 milioni di anni fa.
Gli utensili rinvenuti mostrano tracce di lavoro umano. Anche le ossa degli animali trovati nello stesso luogo mostrano i segni di raschiamenti fatti con qualche tipo di utensile, ad esempio per estrarre il midollo dalle ossa. I fossili degli animali, peraltro, sono molto più primitivi di quelli trovati nelle vicinanze. Gli ominini probabilmente si riparavano nella grotta dove sono stati rinvenuti e lì mangiavano.
Gli autori dell'articolo pensano che l'ominino trovato faccia parte della specie Homo antecessor, un possibile antenato sia dell'uomo di Neanderthal che dell'uomo moderno. Dai ritrovamenti sembrerebbe quindi che l'Europa occidentale sia stata colonizzata durante il primo Pleistocene da una popolazione di ominidi che arrivavano dall'Est. Probabilmente una espansione precoce degli ominidi che venivano dall'Africa. Una colonizzazione quindi avvenuta molto prima e in modo molto più continuativo di quanto pensato finora. Inoltre, confrontando questi resti con quelli rinvenuti in siti vicini, sembra di poter affermare che qui, in questa estrema regione del continente eurasiatico, avvenne una speciazione, ovvero si è formata una nuova specie da quelle preesistenti attraverso un processo evolutivo.

Corriere della Sera 31.03.2008
A sinistra Il candidato premier dell'Arcobaleno e il nodo della precarietà: bisogna restituire un futuro ai giovani
Bertinotti: non rinnego Prodi, noi spariti senza quell'esecutivo
Di Giuliano Gallo

DAL NOSTRO INVIATO
BARI — «Ci abbiamo provato, a governare. Non ci potevamo sottrarre, del resto: l'attesa di un cambiamento dopo 5 anni di Berlusconi era grande. E se non l'avessimo fatto, la sinistra avrebbe smesso di esistere, sarebbe stata cancellata. Il governo Prodi, anche se alla fine è stato deludente, ha fatto cose che non dobbiamo rinnegare. Penso soprattutto alla politica estera. Non si può dimenticare che ci siamo ritirati dall'Iraq». Nei suoi tre giorni di viaggio fra le piaghe del Sud, Fausto Bertinotti ripete più volte la confessione di quella che vive come una sconfitta. Davanti agli studenti di Arcavacata a Cosenza, in un comizio a Reggio Calabria. E ancora a Messina, a Palermo, a Bari. Dovevamo farlo, ripete. «Ma già a luglio, quando non erano state nemmeno prese in considerazione le nostre richieste su come impiegare il "tesoretto", avevamo capito che la nostra esperienza era fallita». E' un viaggio tutto in salita, quello del presidente della Camera. Un viaggio aspro, difficile, a volte pervaso da un vento di ostilità forte e generalizzata. Ma a anche un viaggio che fa brillare gli occhi al vecchio combattente. Come all'università di Arcavacata, dove si trova di fronte una platea tutta di ragazzi, e sono ragazzi che sanno bene quanto incerto sia il loro destino. Lui parla della precarietà («Un modo per governare le persone»), riflette sui genitori, emigrati per «regalare ai figli una laurea e ora costretti a vedere emigrare anche i figli».
La precarietà è il filo rosso che lega tutto il viaggio. Perfino nella casualità: al cinema Odeon, dove c'è il comizio, la sera proiettano «Tutta la vita davanti». Film sui precari, appunto. E lui di quello parla, del «supermercato della precarietà» aperto dalla legge 30. E dunque, dice, occorre «ricominciare un cammino difficile per restituire un futuro ai giovani, perché per la prima volta nella nostra storia una generazione sta peggio di quella precedente ». La sinistra che Bertinotti ha in mente è una sinistra nuova, garantisce. «Una casa comune aperta anche ai giovani fuori dai partiti, anche a quelli critici. Ma che vogliono tornare alla politica legata ai problemi quotidiani della gente».
A Messina, prima del comizio, si avventura fra i banchi del mercato comunale di piazza Zaera. Lo investe un fiume di rabbia, di frustrazione, di rancore. Non per lui in quanto leader della sinistra, ma per lui politico, faccia nota. «Il carovita è una vergogna per tutti i politici — grida un uomo —. Vi siete mangiati il Paese». Lui cerca di argomentare, di discutere, ma quelli non hanno domande da porre, solo una faccia contro cui sfogarsi. «Ma lei mi ascolta o no?», chiede ad un uomo. «E' interessato alla mia risposta? ». No, l'uomo non è interessato. A Palermo, adesso, per un altro comizio. E poi a Bari, dove lo aspetta quello che tutti considerano il suo erede, il suo delfino: il governatore della Puglia Nichi Vendola. Un pranzo da soli e poi assieme nella piazza del municipio. Dove ragazzi appassionati suonano tamburi, camminano sui trampoli, e parlano ancora di lavoro, di precarietà, del futuro.


Corriere della Sera 31.03.2008
Il caso Il ministro dell'Ambiente contestato a Taranto: «Ma erano infiltrati fascisti». Caldarola: ormai è il Mastella della sinistra
Fischi in Campania e Puglia, la difficile campagna di Pecoraro
Di Fabrizio Roncone
ROMA — «Volete montarci un caso?». Ma no, signor ministro Alfonso Pecoraro Scanio: anzi, racconti lei cos'è successo l'altro giorno, a Taranto. «Beh... durante la manifestazione anti-smog, intorno al sottoscritto... beh, sì, insomma, qualcuno ha cominciato a fare un po' di ammuine (in dialetto napoletano "fare confusione, rumore", ndr)... ma erano... erano veramente solo una decina di infiltrati fascisti...».
Ammettere una contestazione non è mai facile, specie in campagna elettorale e soprattutto se la Puglia, per il ministro dimissionario Pecoraro Scanio, doveva rivelarsi una regione un poco più accogliente e solidale della sua Campania, dove gli altri grandi capi della Sinistra Arcobaleno (Bertinotti, Mussi e Vendola) hanno ritenuto fosse strategico (o fisicamente prudente?) non candidarlo: il gran capo dei Verdi italiani — che al sospetto d'essere vanitoso ha recentemente risposto «di voler soltanto vedere l'interlocutore battuto e l'ascoltatore sedotto» — era ed infatti ancora è, almeno fino alle elezioni, il responsabile del dicastero dell'Ambiente, andato lentamente in fumo, giorno dopo giorno, con i cumuli delle immondizie.
Capolista alla Camera, 49 anni, ironico, spregiudicato, coraggioso — la grande fama arrivò con il coming-out provocato da un memorabile corteo pre-Gay Pride sotto il ministero («Pecoraro vieni giù/ che sei frocio pure tu») — è tornato prepotentemente sulle prime pagine dei giornali quando, nel gennaio scorso, durante una storica puntata di Porta a porta,
accanto al governatore della Campania Antonio Bassolino, tenne botta a ogni sorta di accusa e, davanti alle immagini della guerriglia fomentata dalla camorra e attuata da centinaia di cittadini esasperati dalle colline di rifiuti, disse sì all'intervento dell'esercito. Lui che, fino a quella sera, aveva detto sempre «no» a un mucchio di cose: alle discariche e agli Ogm, al tunnel della Valsusa, al ponte sullo Stretto, al fumo nei parchi di Napoli («se, nel raggio visuale del fumatore, compaiono bambini o donne incinte »), alla pesca del tonno rosso e all'albero di Natale («è doloroso fisicamente veder tagliare gli abeti: meglio quelli sintetici, o ripiegare sul presepe. Napoletano, s'intende»).
Peccato che a Napoli non possa più farsi vedere. La Puglia era sembrato un posto vicino, e sicuro. E invece, come ammette lui stesso, «si sta rivelando una campagna elettorale complessa, specie per me, che sono ambientalista». A Brindisi, con le fabbriche che vanno a carbone. A Taranto, «dove — spiega — si produce il 70% della diossina italiana». Poi ci si mette anche il suo amico Vendola, che tuona: «Ci sono aziende che inquinano e ammazzano i bambini». Risultato: «Ogni giorno — sospira Pecoraro — devo combattere l'antipatia agli operai, spiegando che io non voglio assolutamente che siano minacciati i loro posti di lavoro...».
Poi, però, c'è pure il pregresso. Sentite Gianrico Carofiglio, magistrato e giallista di successo, candidato numero 3 al Senato per il Pd, in Puglia: «Pecoraro Scanio, dopo quello che è accaduto in Campania, si sarebbe dovuto dimettere. Io, al posto suo, mi sarei dimesso». Spostarsi di un centinaio di chilometri non ha fatto dimenticare le sue responsabilità... «Questo lo sta dicendo lei... Però, certo, sì: la gente può non aver dimenticato... è un'ipotesi plausibile ».
Ipotesi, e pure certezze. Come quelle di un altro pugliese: Giuseppe Caldarola, ex direttore dell'Unità e deputato diessino, ancora membro, e anima critica, della direzione del Pd: «Pecoraro, temo, viene ormai percepito come un Mastella di sinistra. Cerca solo il consenso, il potere, il guadagno politico personale...».
Lui, il quasi ex ministro dell'Ambiente, fa il superiore: «Scriva, per favore, che sto anche affrontando la grande questione della siccità...».

Corriere della Sera 31.03.2008
Verso i Giochi Ieri ad Atene proteste per l'accensione del fuoco olimpico. Manifestazioni in Nepal
Tibet, la Cina sgrida l'Europa
Pechino: «Forte malcontento». La fiaccola in piazza Tienanmen
Di Fabio Cavalera


PECHINO — La fiaccola olimpica è partita per il suo «Viaggio dell'Armonia», il tema scelto dai cinesi per accompagnarla fino all'8 agosto, il giorno della inaugurazione dei Giochi. Ad Atene è stata salutata da manifestanti — una ventina i fermati poi rilasciati senza accuse — che hanno urlato «Tibet libero» ed esposto uno striscione «Stop al genocidio in Tibet». A Pechino la aspetta (oggi a metà mattina, la notte italiana) una adunata di folla in piazza Tienanmen. Il luogo simbolo della politica cinese: qui è nata la Repubblica popolare e Mao si è dato al popolo dal balcone della Porta della Pace Celeste, qui è esplosa la Rivoluzione culturale delle Guardie rosse nel 1966 ed è stata repressa nel sangue la protesta degli studenti nel 1989. Quale altro luogo, se non l'anima di questo Paese, poteva essere dunque scelto per raccogliere il testimone in un nuovo passaggio della sua Storia, la vetrina della modernizzazione? Centotrenta giorni all'inaugurazione ma incombe la crisi del Tibet. A Lhasa, secondo gli esuli, ci sono state nuove proteste e i monasteri sono isolati. In Nepal le manifestazioni sono finite con cariche e pestaggi dei 20 mila dimostranti. La Cina informa invece che in un luogo di culto nella provincia del Gansu sono stati trovati striscioni, coltelli e addirittura armi. L'Europa e gli Stati Uniti chiedono moderazione ma è come se parlassero a vuoto.
Pechino mostra il volto più duro e all'Ue, che pure ieri aveva usato toni quasi da resa nell'invitare al «dialogo costruttivo », replica irritata, esprimendo «forte malcontento ». Le frasi del portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu, sono uno schiaffo all'Europa dei 27 e al suo debole documento: «Il Tibet è un affare completamente interno alla Cina. Nessun Paese straniero e nessuna organizzazione internazionale hanno il diritto di interferire al riguardo ». Il regime continua a usare due linguaggi. Un editoriale di Nuova Cina, l'agenzia ufficiale, accusa «la cricca del Dalai Lama di avere chiuso le porte del dialogo» e spegne ogni speranza. Il premier Wen Jiabao sottolinea che «l'ordine è stato ristabilito in Tibet» e che «il governo cinese ha la capacità di risolvere la questione». Come? È in un contesto difficile che comincia il «Viaggio dell'Armonia». Pechino accoglie il fuoco di Olimpia nel suo santuario dove ha celebrato le vittorie e le sconfitte, le gioie e spesso le tragedie, dove ha agitato i fiori e fatto cantare i carri armati contro gli oppositori. E per l'occasione lo riempie di poliziotti e di volontari reclutati dal Partito comunista. Non ci può essere momento migliore per dare fiato alla retorica e alla propaganda del regime che sta massimizzando gli sforzi per riscaldare i sentimenti nazionalisti e patriottici dei cinesi. La televisione copre l'evento con le dirette per l'intera giornata e i giornali hanno una sola indicazione: dedicare pagine e pagine all'evento. Sono ammesse persino le telecamere straniere, una delle ultime volte: durante le Olimpiadi il blackout calerà sulle dirette e le riprese dalla piazza «sacra ». Motivi di sicurezza.
Dopo Pechino la fiaccola volerà nel mondo. La Cina ha messo in conto le proteste in Europa e nell'unica tappa americana, San Francisco. Ingoierà amaro. Ma ciò che teme veramente sono i passaggi interni nelle aree calde, il Tibet, il Gansu, il Sichuan, e lo Xinjiang, la provincia delle minoranze islamiche-uigure. È lì, fra maggio e giugno, che il regime si blinderà ancora di più a difesa della sua stabilità. Si avvicina alla prova con l'arma del nazionalismo che è sempre stata agitata nei momenti di crisi. La torcia in Tienanmen simbolo della Cina, oggi, significa questo: la Patria che chiama a raccolta contro i venti del dissenso.

Corriere della Sera 31.03.2008

La storia Salvò il reporter Schanberg e fu internato nei campi di Pol Pot

Morto il cambogiano Dith Pran eroe del film «Urla del silenzio»

Di Paolo Solon


I suoi occhi avevano visto l'inferno portato in Cambogia dai Khmer Rossi. Era stato imprigionato, torturato e infine era riuscito a fuggire dai killing fields, i campi della morte, che avevano inghiottito le vite di un milione e settecentomila esseri umani tra il 1975 e il '79. Ieri Dith Pran, fotografo e giornalista per il New York Times, la cui terribile esperienza era diventata nel 1984 un film intitolato appunto The Killing Fields (in italiano:
Urla del silenzio, di Roland Joffé), si è spento, dopo una breve malattia, in un ospedale del New Jersey. Aveva 65 anni. Accanto a lui c'era anche Sydney Schanberg, l'inviato del quotidiano americano che aveva salvato dalla morte (insieme ad altri reporter) all'indomani della vittoria di Pol Pot. Nel 1976 Schanberg fu premiato con il Pulitzer per i suoi servizi dal Sud-Est asiatico mentre Pran cercava di sopravvivere in un campo di concentramento. «Sapeva che non avremmo avuto alcuna possibilità senza di lui — ha ricordato ieri Sydney Schanberg —. Così mise in gioco la sua vita per salvare la nostra».
Il giornalista americano non fu fucilato dai Khmer rossi che avevano appena conquistato Phnom Penh grazie alla parlantina e al coraggio di Dith Pran, il suo interprete-factotum che facendosi notare dai nuovi padroni della Cambogia finì per condividere la stessa sorte di migliaia di concittadini. Poco dopo la partenza degli ultimi reporter stranieri, Dith sperimentò sulla propria pelle l'utopia di Pol Pot: le città furono svuotate e gli abitanti inviati in campagna per essere «rieducati » come cittadini di una nuova nazione «depurata » dalle influenze occidentali e borghesi. Si sa come finì l'esperimento: nel regno del terrore dei Khmer rossi, un terzo dei cambogiani fu ucciso e sepolto sommariamente. Fu poi proprio Dith Pran che, quando riuscì a fuggire verso la Thailandia, inciampando continuamente in resti umani, coniò l'espressione killing fields. «Vedo una montagna di teschi e ossa — scrisse nella prefazione al libro Figli dei campi della morte cambogiani: le memorie dei sopravvissuti —. Quello che vedo di fronte a me è troppo doloroso. Questi sono i miei parenti, gli amici, i vicini». Pran perse nei killing fields
tutta la sua famiglia: oltre 50 persone. Arrivato fortunosamente in Thailandia, nel 1979, Dith trovò ad attenderlo il suo amico Sydney Schanberg che lo portò negli Stati Uniti. Dove, oltre a rifarsi una vita, ed essere apprezzato per il suo lavoro di fotografo, continuò a tenere viva la memoria dell'Olocausto del suo popolo: «Voglio che i cambogiani, soprattutto le nuove generazioni, non dimentichino i volti dei familiari e degli amici uccisi in quel periodo. I morti ci stanno ancora chiedendo giustizia».

Corriere della Sera 31.03.2008

Il doppio fondo della Cina «moderna»



LA REPRESSIONE IN TIBET
In questi giorni la Cina appare, in moltissimi settori, come il modello di una potenza postmoderna del ventunesimo secolo. A Shanghai i visitatori ammirano i grattacieli svettanti e un'economia fiorente. A Davos e ad altri vertici internazionali i raffinati diplomatici cinesi parlano volentieri di gioco «dove tutti vincono», piuttosto che di «somma zero». I leader occidentali incontrano i loro omologhi cinesi e vedono tecnocrati convinti, che si sforzano di evitare le numerose insidie sulla strada della modernizzazione economica.
Ma di tanto in tanto la maschera scivola giù, svelando l'altra faccia della Cina. Infatti la Cina è anche una potenza ottocentesca, piena di orgoglio naziona-lista, ambizioni e rancori. Travagliata da questioni di sovranità territoriale, ricorre alla repressione per tenersi stretti, al suo interno, territori di antica conquista, mentre minaccia la guerra contro una piccola nazione insulare davanti alle sue coste.
La Cina è anche una dittatura autoritaria, seppur di tipo moderno. La natura del suo governo non è visibile per le strade di Shanghai, dove la gente gode di un certo livello di libertà personale finché non si immischia di politica. È solo quando qualcuno sfida la sua autorità che la forza bruta, su cui sostanzialmente poggia il regime, dà sfoggio di sé.
Nel 1989 furono gli studenti in piazza Tienanmen. Qualche anno fa toccò al Falun Gong. Oggi sono i manifestanti tibetani. Domani potrebbero essere i manifestanti di Hong Kong. Un giorno o l'altro, forse i dissidenti dell'isola «riunificata » di Taiwan.
Si direbbe sia questo l'aspetto immutabile della Cina, malgrado la nostra convinzione liberal-progressista che qualcosa sia cambiato. Negli anni '90, gli analisti sostenevano che era solo questione di tempo, e prima o poi la Cina si sarebbe spalancata al mondo. Si credeva che una riforma del sistema sarebbe partita proprio dall'attuale generazione di tecnocrati, non istruita a un comunismo di stampo sovietico. Persino se questi non avessero voluto le riforme, le esigenze di un'economia in via di liberalizzazione non avrebbero lasciato loro scelta: la crescente classe media cinese avrebbe preteso un maggiore potere politico, oppure la necessità della globalizzazione, nell'era di internet, avrebbe spinto la Cina sulla via del cambiamento per mantenersi competitiva. Oggi tutto questo appare solo un'illusione, un'illusione egoistica, per la precisione, dal momento che, secondo la teoria, la Cina sarebbe diventata più democratica man mano che gli imprenditori occidentali si arricchivano. Ora sembra che più un Paese si arricchisce, Cina o Russia che sia, più saldamente gli autocrati restano aggrappati al potere.
Le maggiori entrate economiche accontentano la borghesia e permettono al governo di rastrellare i pochi scontenti che manifestano le proprie opinioni su internet. La nuova ricchezza finanzia l'esercito e le forze di sicurezza, pronte a intervenire all'interno, in Tibet, o fuori dai confini, a Taiwan. E il miraggio di introiti ancor più cospicui impedisce a un mondo orientato al commercio di protestare troppo rumorosamente quando le cose si mettono male.
Il problema per gli osservatori della politica estera cinese è se la condotta interna del regime abbia alcuna rilevanza sul modo in cui si comporta nel mondo. Non dimentichiamo che negli anni '90 abbiamo presupposto che esistesse una forte correlazione: una Cina più liberale in politica interna sarebbe stata una Cina più liberale anche in quella estera, e ciò avrebbe gradualmente allentato le tensioni e facilitato la sua ascesa pacifica. Questa era la teoria alla base della strategia dell'impegno. Molti sostengono ancora che l'obiettivo della politica estera americana dovrebbe essere, nelle parole dell'esperto G. John Ikenberry, quello di «integrare» la Cina «nell'assetto liberale internazionale».
Ma un governo risolutamente autocratico può davvero entrare a far parte di un assetto liberale internazionale? Può una nazione con un'anima ottocentesca entrare in un sistema del ventunesimo secolo? Alcuni osservatori immaginano che le nazioni dell'Asia orientale potrebbero trasformarsi gradualmente in una specie di entità internazionale simile all'Unione Europea, con la Cina, si presume, nel ruolo della Germania. Ma il governo tedesco tratta il dissenso come fa la Cina? E, se lo facesse, esisterebbe un'Unione Europea?
Dopotutto la Cina non è l'unico Paese ad avere a che fare con popolazioni irrequiete e desiderose d'indipendenza. In Europa, diversi movimenti sottonazionali aspirano a una maggiore autonomia o persino all'indipendenza dal governo centrale, e con rivendicazioni meno legittime del Tibet o di Taiwan: i catalani in Spagna, per esempio, o i fiamminghi in Belgio, o anche gli scozzesi nel Regno Unito. Eppure nessuna guerra incombe su Barcellona, non si spediscono truppe ad Anversa e non si espelle la stampa internazionale da Edimburgo. Ma è qui che sta la differenza tra la mentalità postmoderna del ventunesimo secolo e una nazione che combatte ancora le sue battaglie per l'impero e il prestigio, retaggi di un passato lontanissimo.
In questi giorni gli analisti affermano che la Cina sta diventando un'«azionista responsabile» del sistema internazionale. Ma forse non dovremmo aspettarci troppo. Gli interessi delle autocrazie mondiali non sono gli stessi delle democrazie.
Noi vogliamo un mondo sicuro per la democrazia. La Cina vuole un mondo sicuro, se non per tutte le autocrazie, almeno per la propria. Si parla tanto del pragmatismo dei governanti cinesi, ma costoro, come tutti gli autocrati, sono pragmatici soprattutto nel mantenere se stessi al potere. Sarà bene non dimenticarlo, pur invitandoli ad aderire al nostro ordinamento liberale internazionale.
© 2008 Robert Kagan Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione a cura dello IULM

Corriere della Sera 31.03.2008

Rivoluzioni Il trattato di Eleonora Fiorani sul secolo delle ideologie e della tecnica

Da Freud a Internet: il lungo Novecento

Di Gillo Dorfles


Se all'alto del 2000, cerchiamo di guardare al secolo scorso, possiamo davvero parlarne come d'un secolo «a sé stante» per il quale le artificiose distinzioni temporali indicano qualcosa di effettivamente precisabile e documentabile. È quanto ha compiuto, con il consueto acume, Eleonora Fiorani, che nel suo ultimo volume arrivato in libreria ( Diversamente il Novecento,
Lupetti, pagine 240, e 18) ha cercato di definire i limiti e i confini storici, ma anche culturali, scientifici e artistici del secolo da poco trascorso. Quel secolo che ha visto alcune delle più cruente battaglie, dei più orrendi massacri nella storia dell'umanità; e che tuttavia ha dato vita a ricerche scientifiche eccezionali, a vicende artistiche del tutto innovatrici.
Basterebbero i nomi di Marx e di Einstein, quelli di Picasso e di Klee, di Freud e di Joyce a dirci che l'ingegno umano ha dato, nel Novecento rispetto ad altri secoli, il meglio (ma purtroppo anche il peggio) rispetto ad altre epoche passate.
«Il Novecento — afferma l'autrice — è il secolo delle grandi utopie di New York, di Brasilia, delle ricostruzioni, delle rivoluzioni, sia d'ottobre, cinese, cubana, che del Terzo Mondo, dei neri, delle donne, delle Avanguardie artistiche, della musica dodecafonica, dei manifesti... è il secolo del progresso scientifico, della meccanizzazione, e poi della rivoluzione informatica, è il secolo di Freud e della linguistica...
». Eleonora Fiorani ha avuto il grande merito di regalarci negli ultimi anni dei trattati di eccezionale precisione e chiarezza (la sua formazione di filosofa della scienza non l'ha mai tradita nella ricerca) su problemi di estrema «utilità» anche scolastica (come Il mondo degli oggetti pubblicato da Lupetti,
Moda corpo immaginario. Il divenire moda del mondo fra tradizione e innovazione stampato da Poli.design), ma ritengo che questo volume sia forse quello dove una visione unitaria della società e dell'arte, della scienza e della tecnica, è stata sviscerata con precisione e anche con una più intensa partecipazione.

Corriere della Sera 31.03.2008

Racconti Vicende di ordinaria e straordinaria follia

Patricia Highsmith: i fantasmi nascosti nelle case dei vicini



di ANTONIO DEBENEDETTI
C'è in questi racconti della Highsmith, ispirati a vicende di ordinaria e straordinaria follia, tutta l'irrazionalità del ventesimo secolo giunto alla sua conclusione. Ci sono i mostri da niente e le paure che abitano le giungle metropolitane, ci sono i perfidi fantasmi della solitudine e della frustrazione. C'è la paura di vivere che lotta con la paura di morire. Dominata dalla misantropia, la Highsmith non ha cedimenti moralistici, non fa prediche e non indica vie di salvezza. Descrive gli uomini come li vede, preda di eventi oscuri e di forze ingovernabili. Non fa della filosofia, comunque. Si mette sempre al servizio del lettore, lo ipnotizza, narrandogli dei casi estremi. Lo coinvolge, lo appassiona senza indorare la pillola. Basti, a titolo di esempio, citare quella sconcertante parabola in nero dell'amore paterno che si intitola «Il bottone».
Siamo a New York, in una notte di fine aprile. Roland Markow, un giovane e scrupoloso commercialista, si è portato il lavoro a casa. Sta cercando, a dispetto dell'ora tarda, di concentrarsi. Deve controllare e ricontrollare fatture, ricevute di pagamenti, bonifici e altre carte d'un suo cliente di riguardo. A un tratto, dalla stanza vicina, giunge un grido o forse un lamento o magari tutte e due le cose insieme. «Guuu...». L'uomo ha uno scatto, si trattiene a stento dall'imprecare contro l'idiota... anzi, si corregge, contro suo figlio, un povero bambino di cinque anni. Comincia cosi una vicenda, venticinque pagine, da inseguire col fiato in gola. La Highsmith, scavalcando d'impeto ogni possibile obiezione del buon senso, ricostruisce la genesi e il successivo compiersi d'un delitto raccapricciante. Descrive con spietata attendibilità un raptus omicida che più d'un lettore si sentirà comunque di poter giustificare. Roland Markow è infatti un uomo ancora giovane, fino a qualche tempo prima potenziale candidato a un'esistenza felice e vincente. Anche il suo matrimonio con Jane, donna deliziosa e innamorata, sembrava dovesse concorrere a un destino più che fortunato. Da quell'unione, fondata su una tranquilla e gioiosa attrazione reciproca, è nato però Bertie. Come definire quella povera creatura, dagli occhi vacui e dalla lingua penzoloni, se non un crudele sbaglio di natura? In ogni caso mamma Jane, con ammirevole generosità, gli si sacrifica completamente. Giunge persino a trascurarsi e a trascurare lo sposo. Un tempo bella e desiderabile, si lascia ingrassare, trascorrendo intere giornate in ginocchio sul pavimento a giocare con Berti. Il piccolo intanto sbava, emette suoni disarticolati e nulla più. Ecco il punto.
Roland, il papà, non accetta l'inferno domestico cui sembra averlo condannato il destino. Cosi, distolto dai suoi calcoli e dalle sue verifiche, ha un moto di ribellione. Esce nel buio di quella notte di aprile, cammina senza una meta. Intanto la sua esasperazione e il suo dolore si cambiano in «una rabbia rovente». Brutale. Tanto che all'improvviso, incrociando uno sconosciuto senza altra colpa che quella di essere grassottello, esce di testa. Gli salta addosso senza un perché, affonda i pollici nella gola del malcapitato e lo strozza. Poi «si china, afferra un bottone della giacca a quadri della sua vittima e lo strappa ». Quindi si infila in tasca quel trofeo e riprende la strada di casa. Quel «tondino di corno marrone», che da quel momento accompagnerà Roland ballando nel fondo d'una tasca, sarà la prova del suo riscatto. Gli ricorderà, anche nei momenti di scoramento, che «ha ucciso un uomo per vendicare Berti», cioè quello che pensa sia l'ingiusto destino di quell'innocente.
C'è un altro racconto, si intitola «Non in questa vita, forse nella prossima », che meriterebbe di figurare in un'antologia dedicata alle più agghiaccianti «short story» del secondo novecento. Racconta d'una vedova dolcemente mite, Eleonor, della sua gatta Bessie e d'un loro visitatore alto sessanta centimetri. Un essere, né uomo né animale, che a conti fatti potrebbe considerarsi la materializzazione d'una riposta, segretissima volontà di morte della protagonista. Il pensiero leggendo corre a «Miriam» di Truman Capote o a quel pezzo di bravura, nato trattando i fumi dell'irrazionale e del fantascientifico con gli inchiostri della ragione, che Ray Bradbury ha realizzato riferendo l'agghiacciante impresa d'un neonato diabolico. Un bambolotto di carne che, con strategie che appaiono agghiaccianti proprio perché in qualche modo plausibili, uccide i suoi genitori.
Nell'inquietante «Non sono bravo come gli altri», dove un tale per invidia dei vicini arriva a distruggere la propria casa, l'angoscia fa da lievito alla suspense. La poesia, come a volte in Hitchcock che nel suo «L'altro uomo» si è ispirato alla Highsmith, nasce qui da una composta freddezza nel descrivere l'orrore d'una situazione estrema.

Corriere della Sera 31.03.2008

Dibattiti Le critiche di Salingaros a City Life di Milano, Botta e Fuksas

«I grattacieli? Utopie totalitarie Serve un patto uomo-natura»



di NIKOS A. SALINGAROS
Il Corriere della Sera ha avviato un importante dibattito architettonico, anche prendendo spunto da un mio intervento apparso su Il Domenicale. Voglio sottolineare i fondamenti di questo dibattito, perché la mia è una visione nuova dell'architettura e dell'urbanistica, non un vecchio dogma riciclato per l'ennesima volta. Noi non invochiamo un ritorno al passato, anzi, siamo «noi» i contemporanei perché abbiamo una visione scientifica e, in termini filosofici, ci situiamo al centro dell'esistenza umana. Nell'attuale mondo artistico, filosofico e politico, ad alcuni piace stare in un universo astratto molto lontano dall'umanità. Si trovano libertà pervertite laggiù, dove non si deve pensare né agli esseri umani, né alla biologia umana. E dove si possono applicare delle tipologie ostili all'uomo senza la minima coscienza.
Il Corriere ha chiesto agli architetti Botta e Fuksas di rispondere alle mie idee e a quelle espresse da Roger Scruton su Il Foglio. Ammetto che questi due architetti non sono tra i miei preferiti, ma di sicuro non appartengono alla banda di «architetti da morte» contro i quali il mondo è spaventato. Perché allora questi due autori d'opere piuttosto neutrali difendono i mostri inumani d'altri architetti? Per l'autodifesa del culto. Non hanno capito ancora che un cambiamento enorme si sta sviluppando nel mondo intero, e che l'architettura e l'urbanistica di domani saranno «un'azione umana adattata alla natura».
La contraccusa del «ritorno nostalgico al passato» ha il gusto di una frittata riscaldata una volta di troppo. Le mie teorie sono basate sull'osservazione della natura e possono essere applicate da ogni architetto. Bisogna soltanto gettare nella spazzature idee fisse di bellezza intellettualizzata. Basta liberarsi dalle immagini cosiddette «contemporanee », e un architetto veramente contemporaneo potrà progettare con una facilità e una creatività sorprendenti. Siamo alla soglia di una comprensione dell'ambiente costruito come risultante dell'ambiente naturale. Qui si trova la vera e autentica nozione di sostentabilità. I grandi immobili fatti di titanio e di materiali high-tech nascondono in realtà costi enormi. Non soltanto di materiali, ma anche nell'uso (non sono sostenibili affatto, nonostante la propaganda corrente). I tre grattacieli di Milano seguono un'espressione satanica di Le Corbusier. Le torri nel parco sono un esperimento sadico, inumano, già fatto tante volte e fallito con conseguenze orribili ogni volta. Perché non possiamo imparare dai nostri sbagli? Noi scienziati lo facciamo: gli architetti non lo fanno e continuano a riprodurre tipologie inumane e insostenibili. I grattacieli di Milano negano ogni connessione all'ambiente; agiscono in un vacuo intellettualismo pericoloso. I loro architetti sanno veramente come funzionano le città, com'è legato il tessuto urbanistico tra reti di connessioni, come la città viva se è composta da una gerarchia di interconnessioni? Quale architetto di oggi fa un'osservazione scientifica? Io ho definito la città come un frattale composta da reti, nel mio libro Principles of Urban Structure.
Massimiliano Fuksas parla coraggiosamente della democrazia nell'architettura d'oggi. Mi dispiace, ma non la vedo. Quando un piccolo gruppo controlla tutto non abbiamo nessuna democrazia. Vedo architetti che possono soltanto esprimere la loro arroganza stilistica. Chi ha selezionato i grattacieli di Milano? Il popolo? Nella maggioranza dei progetti contemporanei, la selezione è in mano a un'élite intellettuale, che impone un'idea fondamentalista e totalitaria sulla città. E con tali mostruosità costruite dappertutto, la città va a morire poco a poco, perché l'infrastruttura non può sopportare il peso di questi mostri insaziabili. Non lo vede nessuno? Io vedo in ciò un gesto di sottomissione al potere del culto architettonico internazionale; il potere dalle immagini propagandistiche sostenute da un sistema artistico globale completamente corrotto.
La risposta dei giovani architetti, «non vogliamo né utopie totalitarie né ritorni nostalgici al classico», è triste. Sono pieni di speranza per un futuro migliore. Belle parole, ma non dimostrano di essersi svegliati dalla propaganda. La soluzione proposta della «terza via» è semplicemente il trucco per mantenere al potere gli architetti di culto d'oggi. Tutti gli argomenti fatti con belle parole esplodono in aria. Poveri giovani, inghiottono ancora una volta l'inganno. Aprite gli occhi e vedete i tre grattacieli in Milano: non rappresentano un'utopia totalitaria? Cosa sono dunque? Ancora una volta il trucco propagandistico ha funzionato molto bene.
Non c'è una terza via — esiste soltanto l'umano o l'inumano. Dio o Satana. Per fare la scelta, vi aiutiamo noi. Noi non torniamo al passato classico nostalgico (nonostante le accuse), ma alla natura umana biologica.

Corriere della Sera 31.03.2008

Elzeviro
Le regole, le leggi, la legalità

Il breviario civile di Gherardo Colombo



di VITTORIO GREVI
Dopo oltre 33 anni di magistratura, da circa un anno Gherardo Colombo non è più magistrato. Si è dimesso volontariamente dall'ordine giudiziario, al cui interno aveva tra l'altro svolto molte inchieste importanti e ricche di cospicui risultati. Ma ormai si era convinto che, per poter contribuire a rendere l'amministrazione della giustizia «meno peggio di quello che è», avrebbe dovuto mutare l'ambito del proprio impegno civile. E poiché la giustizia non può funzionare se i cittadini non avvertono le ragioni delle regole, la prospettiva prescelta è stata quella di adoperarsi (dunque, da ex magistrato) per contribuire al superamento delle difficoltà di comprensione, che troppo spesso contrassegnano il rapporto tra gli individui e le norme di legge.
In questa prospettiva si colloca, per l'appunto, il volume appena pubblicato ( Sulle regole,
Feltrinelli, pp. 158, e 14), che non è un saggio di diritto in senso tecnico, e nemmeno un saggio sulla giustizia amministrata nei tribunali mediante i processi. Si tratta, piuttosto, di una sorta di breviario laico di educazione civica, sviluppato con passione narrativa attraverso una serie di riflessioni semplici e lineari, tutte nascenti dalla ferma convinzione che senza l'osservanza delle regole non può esservi civile convivenza. Ma anche, nel contempo, dalla consapevolezza che parole come «regole» o «leggi» (o come «legalità», con cui si esprime l'atteggiamento dei cittadini di rispetto delle leggi) sono termini neutri, che acquistano risalto concreto solo se li si valuta nel loro contenuto. E di qui, allora, si dipana una serie di delicati interrogativi intorno al concetto di legge «giusta », che vengono riproposti da Colombo, con ovvi riferimenti ai modelli di Stato (dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, fondato sulla separazione di poteri), e quindi ai modelli di società cui le regole si ispirano.
A quest'ultimo riguardo, molte pagine sono dedicate alla descrizione di due modelli opposti di organizzazione della società. Da un lato un modello «verticale», fortemente gerarchizzato, basato sull'idea della selezione e quindi, spesso, sulla discriminazione dei più deboli e dei «diversi», nel quale la persona umana è soltanto uno strumento, finalizzato agli scopi ultimi dello sviluppo dello Stato e del successo dei più forti. Dall'altro un modello «orizzontale», basato sul riconoscimento della eguale dignità di ogni individuo, dove la persona umana è un valore da rispettare comunque, fino a farne il centro della costruzione costituzionale dello Stato, con evidenti conseguenze anche sul piano della repressione degli illeciti.
In una società ispirata a questo modello, per esempio, tutti i reati devono essere accertati e puniti (senza privilegi per nessuno), ma non sono ammissibili né la tortura né la pena di morte. Inoltre la pena carceraria, intesa come estrema risorsa punitiva, ha senso soltanto per «neutralizzare» la pericolosità di certi individui, non già in funzione afflittiva o retributiva.
Rispetto a tali modelli, che non sono l'uno di «destra» e l'altro di «sinistra», ma semmai riflettono il divario tra concezioni autoritarie e democratiche dello Stato, la Costituzione italiana si colloca decisamente nell'area dei modelli di società «orizzontale». In particolare, muovendo dal principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in senso sia formale, sia sostanziale), ed attraverso il riconoscimento a tutti dei diritti inviolabili dell'uomo, la nostra Costituzione definisce un quadro al cui interno l'osservanza delle regole significa dare concretezza ai contenuti positivi che vi sono sanciti. E perciò, in questo quadro, l'affermazione della legalità è un obiettivo cui devono tendere anzitutto i cittadini, dentro e fuori le istituzioni. Allo scopo, la ricetta proposta da Colombo è semplice, per chi creda nel primato della dignità della persona umana. Non solo chiarezza (cioè convinzioni profonde) e coerenza (fare quel che si dice), ma anche impegno e partecipazione: dunque disponibilità di ciascuno a mettersi in gioco per la tutela dei valori di fondo, e ad assumersi le sue responsabilità in vista della realizzazione di una società più giusta. Un impegno ed una responsabilità tanto più necessari nelle zone infestate dalle organizzazioni criminali.


domenica 30 marzo 2008

l’Unità 30.3.08
Ingrao, l’eroe del dubbio
Oggi compie 93 anni
di Andrea Camilleri


LO SCRITTORE SICILIANO ha composto una lectio magistralis per il compleanno del leader politico che compie oggi 93 anni, nella quale rende omaggio a un «eroe dei nostri tempi che ha sempre rivendicato la libertà del dissenso»

Lunedì alle 11, a Palazzo San Macuto, a Roma, lo scrittore siciliano pronuncerà una lectio magistralis nel corso dei festeggiamenti per il novantatreesimo compleanno di Pietro Ingrao, organizzati dal Crs. Ne anticipiamo il testo.

La guerra di Spagna lo spinge a dire addio al cinema, la sua «Arcadia». Trent’anni dopo fa battaglia nel Pci in nome della pluralità

«Volevo la luna» ha intitolato le sue memorie. La luna se la sono presa gli americani. Ma lui è davvero comunque sbarcato sulla sua luna

Consentitemi di parlarvi con molta semplicità, a mio e a vostro agio. E parlarvi nemmeno da scrittore, ma da cittadino qualsiasi che però, dal 1942 ad oggi ha seguito, e continua a seguire, le vicende politiche del nostro paese, a lungo militando già fin dall’ottobre del 1943, ma tenete presente che gli Alleati sbarcarono in Sicilia nel luglio di quello stesso anno, nel Pci con alterne vicende.
Dirò subito che ho accettato con slancio l’invito di portare la mia testimonianza per il compleanno di Pietro Ingrao perché, nell’unica volta che l’ho incontrato di persona, in occasione della presentazione a Roma del libro di suo nonno Francesco, fui sommerso da una timidezza improvvisa e tale da non consentirmi d’esprimergli la profondissima stima, la grandissima ammirazione e tutta l’intensità dell’affetto che nutrivo, e nutro, per lui.
Quando Walter Tocci m’invitò, io pensai subito a un titolo che in qualche modo mettesse in relazione Ingrao e l’esercizio del dubbio costruttivo. Poco dopo è andata in libreria la sua conversazione con Claudio Carnieri intitolata appunto La pratica del dubbio. Mi sono sentito confortato nella scelta del mio tema che è appunto la qualità del dubbio ingraiano.
Ingrao, l’ha scritto e detto tante volte, nasce poeta, amante della letteratura del suo tempo e, in seguito, si avvicina al cinema iscrivendosi con l’amico fraterno Gianni Puccini all’appena nato Centro Sperimentale di cinematografia dove, tra parentesi, insegnava anche il russo Pietro Sharov al quale, dagli anni cinquanta e fino alla sua morte, mi legherà una profonda amicizia.
Insomma, pare avviato a una brillante carriera nel cinema quando, del tutto improvvisamente, abbandona il Centro sperimentale.
Che abbia già abbandonato gli studi universitari in giurisprudenza (ma si laureerà qualche anno dopo), intrapresi forse solo per compiacere la famiglia è cosa che può essere capita, ma la rinunzia volontaria allo studio di una materia dalla quale si sentiva così attratto appare assai più sorprendente.
Ingrao ne fornisce una sua spiegazione. Scrive che l’abbandono del Centro Sperimentale fu motivato in sostanza dal contraccolpo provato per l’inizio della guerra di Spagna. Considero questo un punto assolutamente nodale del suo percorso, ma Ingrao mi pare che si limiti sempre a farne breve cenno. Forse per un alto senso di pudore. Perché penso che la guerra di Spagna invece sia stata per lui qualcosa di più di un tragico impatto, sia stato un autentico, squassante cortocircuito. Tutti gli altri suoi compagni e amici, antifascisti come lui, ad esempio, non interruppero certo gli studi o le attività intraprese per il golpe di Franco. Ingrao, sì.
Penso che Ingrao ebbe in quel momento la lucida percezione di quello che in realtà veniva a significare la guerra di Spagna e ne ebbe esistenziale sgomento. Su di lui, sulla sua sensibilità, gravavano già da tempo quelli che Vittorini avrebbe chiamato «i dolori del mondo offeso» e la guerra di Spagna consisteva in un insopportabile aggravio dell’offesa.
Inoltre veniva a costituirsi come un nitido spartiacque tra fascismo e antifascismo, tanto che gli intellettuali di tutto il mondo vennero strattonati dalla Storia e scelsero l’antifascismo, comprendendo che si trattava non di una guerra locale, ma di uno scontro frontale che coinvolgeva il mondo intero. Scriveva Hemingway: «Se vinciamo qui, vinceremo dappertutto». Già, ma se si perdeva? Vide giusto Gustav Regler, quando cominciava a delinearsi la sconfitta: «Ora che una guerra finiva, credetti di sentire passare nel vento l’odore di cadavere delle prossime ecatombi».
Ecco, sono convinto che Ingrao venne allora preso da un dubbio che indirizzò diversamente la sua vita: il dubbio cioè che l’arte da sola e in sé, e in quel momento specifico, fosse assolutamente inadeguata a far barriera contro il fascismo. Io non so se all’epoca le maglie della censura fascista sull’informazione giornalistica avessero permesso, sia pure tra le righe, di lasciar capire quale vasta mobilitazione era in atto e quindi se lui era a conoscenza di quanti artisti e intellettuali fossero andati a combattere in prima linea, col fucile prima ancora che con la penna, da Hemingway a Orwell a Malraux a Saint-Exupéry e a tantissimi altri, certo è che egli in quei mesi, oltre a leggere testi che potessero fornirgli le armi della conoscenza, da Salvemini a Rigola, Trockij, Rosenberg, sente sempre più un’urgenza nuova. Scrive infatti: «Intanto dentro di te si compie una decisione nemmeno dichiarata. Muta il “che fare”: come domanda interna, prima ancora che essa diventi azione esplicita. Cominciò per me un nuovo rapporto con la politica. Mi strappò all’Arcadia».
Quindi dal dubbio nasce un meditato agire.
Personalmente, provo profondo disagio davanti a chi crede d’avere in sé solo certezze assolute. Contraddirsi, a molti, sembra espressione di malferma personalità e invece così non è, è tutto l’opposto. Per inciso, vorrei ricordare che Leonardo Sciascia in un primo momento voleva che sulla sua pietra tombale fosse scritto «Visse e si contraddisse», ma poi anche lui ci ripensò, contraddicendosi. A questo proposito, c’è un pensiero esemplare nel libro II dei Saggi di Montaigne: «Mi sembra che la madre nutrice delle opinioni più false e pubbliche e private sia la troppa certezza, la troppa buona opinione dell’uomo in sé…»
Per quel che mi riguarda, io mi sconfesso continuamente.
Il dubitare di Ingrao è sempre, come dire, la messa in moto di un motore che attivamente elabora il che fare più attinente al fine proposto. In altri termini, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del come. Certe altre volte il dubbio è inespresso, soprattutto quando Ingrao avverte una fortissima disparità tra la pochezza dei mezzi a disposizione per affrontare un obiettivo che appare impari. Questo dubbio, per esempio, traspare in tutte le pagine che in Volevo la luna si riferiscono al gruppo dei giovani antifascisti romani, e si condensa in un solo aggettivo più e più volte ripetuto: «gracile». Ma il dubbio sulla gracilità del gruppo non significa mai la possibilità dell’ipotesi dell’abbandono della lotta, significa semmai la lucida presa d’atto di una situazione secondo la quale sviluppare l’agire.
Ma c’è un altro punto nodale nella vita politica di Ingrao che, ai miei occhi, ha la stessa valenza di quello del 1936. È la richiesta da lui fatta, nel 1966, nel corso dell’XI congresso del partito, di libertà del dissenso. Com’è logico supporre, una tale ardita richiesta all’interno di una struttura rigida, gerarchica e centralista non può che essere la disperata, e ormai non più cancellabile somma finale di un innumerevole dubitare accumulato nel corso degli anni. E questa somma finale ha una precisa definizione: dissenso.
Perché questo dissenso? Scrive Ingrao: «In quella mia rivendicazione di libertà del dissenso c’era non solo il drammatico stimolo che era venuto dalla rivelazione dei delitti di Stalin, ma una convinzione più profonda che aveva anche a che fare con una riflessione sull’esistere. Mi muoveva non solo la tutela della libertà di opinione, ma ancor più la convinzione che il soggetto rivoluzionario era un farsi del molteplice: l’incontro fluttuante di una pluralità oppressa che costruiva e verificava nella lotta il suo volto».
«Un farsi del molteplice». È in sostanza anche questa una crisi esistenziale e politica che nasce dalla crisi di una certa concezione ristretta della politica e postula una sua rifondazione nel recupero di quella che Hannah Arendt chiamava la politica perduta.
Ancora nel ‘66, data la posizione che Ingrao occupava nel partito, ci voleva molto coraggio per proclamare pubblicamente la necessità del dubbio, del dissenso. Coraggio politico, certo. Ma a me appare anche e soprattutto un atto di coraggio umano. Perché è notorio che l’uomo comune nutre una forte diffidenza verso chi dubita, non è un caso che sia stata popolarescamente coniata l’espressione «cacadubbi».
Allora, qual è la funzione positiva del dubbio secondo Ingrao? Sentiamo le sue parole. «Mi appassionava la ricerca. E il dubbio mi scuoteva, vorrei dire: mi attraeva. Vedevo in esso una apertura alla complessità della vita. Dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare: aprirsi al “molteplice” del mondo…». E ancora: «Il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell’interrogarsi, cercando. Come se il mondo - nella sua problematicità - si dilatasse attorno a me».
Molti di voi ricorderanno l’incipit delle Meditazioni metafisiche di Cartesio. «Già da qualche tempo mi ero accorto che, sin dai miei primi anni, avevo accolto per vere molte opinioni false, e che ciò che avevo poi costruito su principi tanto malfermi, non poteva essere che assai dubbio e incerto». Il punto di partenza dal quale Ingrao muove ha una diversità di non poco peso, vale a dire che le opinioni da lui accolte all’inizio non si erano in seguito rivelate del tutto false e ingannevoli, ma continuavano ad essere sostanzialmente vere.
Il dubbio allora nasceva non dall’opportunità, ma dalla necessità d’accogliere o meno le inevitabili modificazioni che quelle basilari opinioni via via subivano nel convulso procedere della Storia, senza che però ne intaccassero la verità di fondo.
Ho detto convulso ma forse avrei dovuto dire compresso. Non a caso Hobsbawm ha definito il ‘900 «il secolo breve», per la somma di accadimenti politici, scientifici, sociali avvenuti nei suoi cento anni, con una rilevante accelerazione, motus in fine velocior, nel secondo cinquantennio.
Il dubbio quindi come mezzo di conoscenza, cioè un dubbio di marca cartesiana per il quale ogni dubbio doveva risolversi nella scoperta di un nuovo territorio su cui avventurarsi.
E su questi nuovi territori di conoscenza Ingrao si è sempre inoltrato non per il gusto dell’avventura intellettuale in sé, ma quasi per assolvere a un dovere politico e umano. Dovere che non gli ha mai impedito di godere nel contempo del piacere stesso del dubbio e della sua risoluzione. E che non gli ha impedito mai il fare concretamente politica e di assumersi in prima persona l’impegno di responsabilità di partito e istituzionali.
Direttore dell’Unità dal 1947 al 1956; deputato dal 1948 per dieci legislature fino a quando, nel 1992, chiede di non essere rieletto; nella segreteria del partito dal 1956 al 1966; nel 1968 presidente del gruppo parlamentare comunista alla Camera; presidente della Camera dei deputati dal 5 luglio 1976 fino al 1979, quando chiederà al partito di non essere ancora ricandidato e al suo posto subentrerà Nilde Jotti.
Mi sbaglierò, ma io sono convinto che del suo impegno politico egli sia rimasto maggiormente legato al periodo 1944-45, quando, in una grigia Milano con il piede straniero sopra il cuore, lavorava all’edizione clandestina dell’Unità , quando il vivere e l’agire quotidiani erano un azzardo, quando la possibilità dello scacco era dietro ad ogni angolo, quando si era uomini e no.
In quei giorni la lotta era passione, impegno di tutto se stesso, «fatale come una necessità biologica», e chi era uomo, per il solo fatto di esserlo, era anche potenzialmente un eroe.
Non vi sembri una parola eccessiva.
Cercherò di spiegarne il significato e la ragione per cui mi sento di adoperarla attraverso una frase, della quale vogliate perdonare la lunghezza, tratta da L'Eroe e l'uomo, un saggio compreso nel volume intitolato Senso e non senso di Maurice Merleau-Ponty.
Dopo avere lungamente esaminato i protagonisti di Per chi suona la campana di Hemingway, della Condizione umana di Malraux e di Pilota di guerra di Saint-Exupéry, Merleau-Ponty così conclude: «L’eroe dei contemporanei non è scettico, né dilettante né decadente. Senonché, ha l’esperienza del caso, del disordine e del fallimento, del ‘36, della guerra di Spagna, del giugno ‘40. È in un tempo in cui i doveri e i compiti sono oscuri. Prova meglio di quanto non si sia mai fatto la contingenza del futuro e la libertà dell’uomo. Considerando bene le cose, niente è sicuro: né la vittoria, ancora tanto lontana, né gli altri, che hanno spesso tradito. Mai gli uomini hanno verificato meglio che il corso delle cose è sinuoso, che molto è richiesto all’audacia, che sono soli al mondo e soli l’uno di fronte all’altro. Talvolta però, nell’amore, nell’azione, s’accordano fra di loro e le vicende corrispondono alla loro volontà…». L’eroe dei contemporanei non è Lucifero, non è nemmeno Prometeo, ma è l’uomo. L’uomo comune, l’uomo che puoi incontrare all’angolo della strada.
E in questo senso, con il viatico di Merleau-Ponty e totalmente spoglio di ogni esaltazione retorica, mi sento di considerare Ingrao un perfetto eroe dei nostri anni.
Volevo la luna, ha intitolato Ingrao il suo più recente libro autobiografico. E pare d’avvertire, nel titolo, come una certa disillusione per non essere riuscito a ottenerla.
È vero, la luna non è diventata né sua né nostra, se la sono presa gli americani.
Ma Ingrao sulla sua personale luna ci è sbarcato, eccome se ci è sbarcato, non ci ha messo nessuna bandiera, se l’è esplorata tutta e ne ha fornito una meravigliosa, unica e irripetibile relazione di viaggio attraverso la sua stessa vita.

l’Unità 30.3.08
Violenze a Genova. I pm: rinvio a giudizio per De Gennaro
di Giuseppe Vittori


I PM DI GENOVA accusano l’ex capo della polizia di aver indotto l’ex questore di Genova a rendere falsa testimonianza sull’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 del 2001. De Gennaro: «Mai venuto meno ai miei doveri».

«Scuola Diaz, ha indotto l’ex questore a mentire». L’ex capo della polizia: «Io sono tranquillo»

AVREBBE ISTIGATO l’ex questore di Genova a rendere falsa testimonianza per i fatti legati all’irruzione nella scuola Diaz, per questo Gianni De Gennaro, all’epoca del G8 di Genova capo della Polizia, deve essere rinviato a giudizio. È il passaggio essen-
ziale della richiesta dei pm genovesi che stanno cercando di far luce sulle giornate di sangue e pestaggi del G8. Dopo mesi e mesi di indagini, la richiesta di rinvio a giudizio per induzione alla falsa testimonianza del questore Colucci, è stata depositata dai pm anche nei confronti di Spartaco Mortola, all’epoca del G8 capo della Digos di Genova e oggi vicequestore a Torino. Nel corposo fascicolo a disposizione dei pubblici ministeri, ci sono numerose telefonate ricevute da Mortola, intercettato per il suo presunto coinvolgimento nella sparizoione delle due bottiglie molotov trovate alla Diaz. Proprio quelle conversazioni tra Mortola e Colucci avrebbero fornito ai magistrati le prove che De Gennaro voleva indurre Colucci a modificare le sue dichiarazioni, come puntualmente avvenne nell’udienza del 3 maggio scorso. «De Gennaro - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio - mediante istigazione o comunque induzione, ha determinato Colucci a deporre circostanze non corrispondenti al vero e comunque non appartenenti alla propria percezione, anche ritrattando sue precedenti dichiarazioni». Drastica la conclusione dei pubblici ministeri: «L’induzione alla falsa testimonianza di De Gennaro costituisce un fatto aggravato per aver determinato a commettere il reato persona a lui sottoposta e con abuso della funzione esercitata quale direttore generale del Dipartimento di Pubblica sicurezza».
Una vera e propria bomba che ha scatenato subito una serie di reazioni politiche e un giallo, quello della mancata firma del procuratore capo di Genova, Francesco Lalla. Ad ipotizzare una spaccatura interna alla procura ligure, un articolo del «Corsera».
«La spaccatura? Una menata». Il magistrato liquida così ogni indiscrezione. E aggiunge: «Non so se ridere, mi riesce difficile mantenere un atteggiamento serio su certe cose. Posso dire solo una cosa: io non dovevo firmare niente, non mi hanno chiesto di firmare niente e non ho chiesto io di firmare niente. Di questa cosa non sapevo niente perchè avevo delegato il procuratore aggiunto Mario Morisani. Gli avevo detto di occuparsi di tutto. Punto».
«Non mi sono volutamente occupato della vicenda - sottolinea ancora Lalla - perchè ho delegato il mio vice che è coassegnatario del procedimento e che doveva seguire quella fase li. Questo significa che ho proprio delegato al procuratore vicario tutte le valutazioni che ha fatto a nome dell’ufficio. Io non mi posso occupare di tutto e quindi questa inchiesta è stata seguita dal procuratore aggiunto e non da me».
Dello stesso tono le dichiarazioni dei pubblici ministeri. «Dietro la mancanza di una firma c’è solo la fantasia del giornalista e non altro. L’atto giudiziario oggetto della attenzione degli articoli reca “solo” le firme dei titolari dell’indagine, procuratore aggiunto e sostituti, perchè così richiedono le regole di organizzazione dell’ufficio. Inutile parlare quindi di dissenso con il procuratore capo». Tutto scritto in un comunicato. «Stupisce e allarma pertanto - proseguono i magistrati - il sorgere di illazioni, se non tese a screditare l’indagine, che si è invece svolta in un contesto di assoluta condivisione della valutazione del materiale istruttorio raccolto. Tale materiale era peraltro già noto nelle sue linee essenziali, a seguito del deposito degli atti dopo l’avviso di conclusione delle indagini, atto che già lasciava intendere la concorde volontà dell’ufficio, in assenza di nuove emergenze, in ordine al successivo esercizio dell’azione penale».
Gianni De Gennaro, ancora impegnato a Napoli nel difficile ruolo di commissario straordinario all’emergenza rifiuti, si dice «tranquillo». «Perchè consapevole di non essere mai venuto meno ai miei doveri. E’ una vicenda di cui mi occuperò con i miei legali al momento opportuno. Ora sono impegnato ad assolvere un delicato compito che il Governo mi ha affidato».

l’Unità 30.3.08
Eros
di Vincenzo Cerami


Eros è la parola di oggi. Nella famiglia olimpica dei Dodici Dei non figurò mai: era incostante, volubile, anarchico, lunatico, disobbediente e troppo eversivo. Eppure Eros, sgusciato dall’uovo cosmico, è il primo degli dei: è il motore della vita.
È strano che a simbolo della passione sessuale gli antichi abbiano scelto un fanciullo, una creatura che non ha ancora scoperto il desiderio, che odora ancora di culla e borotalco. La sua è un’immagine svolazzante (il Dispetto Alato), di angioletto ilare e malizioso a cui piace scommettere sull’impossibile.
Forse una spiegazione possibile è questa, ricavata da un dato scientifico, incontrovertibile: l’eros, fin dalla sua prima apparizione sulla Terra, è sempre riuscito a infilarsi nelle crepe (nelle contraddizioni) di tutte le culture, di tutte le società e le tribù, di tutte le galere e le fobie, a far sì che, ovunque, un maschio e una femmina si cercassero, si desiderassero, e spesso s’innamorassero. Il dio Eros, fermo e casto dentro la fanciullezza, non poteva avere nozione della Storia e delle Istituzioni (i dodici dei regnanti). Così, incosciente, immobile nel tempo, continua ancora oggi a lanciare le sue frecce infuocate di passione, fedele al Cosmo di cui è figlio e al servizio della Natura di cui è paladino.
Fino a qualche anno fa si diceva che l’amore è super partes rispetto alle classi sociali: ricchi e poveri, borghesi e proletari vengono ugualmente colpiti dal capriccioso dardo di Cupido. Quien más tiene, más quiere, dicono gli spagnoli. Chi più ha più vuole. Ma come sanno i poveri, i desideri non riempiono la borsa. A chi non ha niente non giova desiderare. Ma attenzione: in amore ogni morale è al contrario, chi più desidera più ottiene.

l’Unità 30.3.08
Uomini e fiori, il mondo del Pintoricchio
di Renato Barilli


LA MOSTRA Perugia espone le tele del suo pittore. Ma è negli affreschi di Spello che risplende davvero la sua arte. Forte della lezione dell’Alberti, ma prima che il genio di Leonardo inventasse la «prospettiva aerea»

Come è ben noto, la macchina espositiva dei nostri giorni va accanitamente alla ricerca di centenari o di altre ricorrenze per dedicare una giusta mostra a qualche illustre autore del passato. Far ricorso ai 550 anni dalla nascita del grand’uomo di turno può apparire un pretesto alquanto stiracchiato, ma ben venga se consente di rivolgere anche a Bernardino di Betto, più noto col soprannome di Pintoricchio, o Pinturicchio, si preferiva dire una volta (1457-1513), un’ampia retrospettiva, come quella che gli dedica, nella sua Perugia, la Galleria nazionale dell’Umbria (a cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini, fino al 29 giugno, cat. Silvana). Con molta buona volontà i curatori hanno raccolto in sede il maggior numero possibile di opere su tavola dell’illustre concittadino, ma questo artista appartiene alla vasta schiera di coloro che, a quei tempi, diedero assai più valida prova di sé nei grandi cicli parietali ad affresco. Per fortuna a poca distanza da Perugia c’è Spello con la Collegiata di Santa Maria Maggiore, a ospitare uno di quei cicli favolosi in cui il Pintoricchio sapeva cimentarsi assai bene. E a Roma aveva lavorato nei primi anni Ottanta, un po’ nascosto dietro la dominante figura del Perugino, addirittura nella Cappella Sistina, e poi con firma in proprio a S. Maria in Aracoeli. E sarebbero venuti ancora, negli anni maturi della sua carriera, i dipinti alla Libreria Piccolomini di Siena. Il fatto è che il Nostro, assieme ai suoi compagni di generazione, quali il Perugino, il Botticelli, il Signorelli, il Ghirlandaio, e nel manipolo ci può stare anche il veneziano Carpaccio, aveva bisogno di esprimersi, diciamo così, per il lungo, in storie animate, ricche di presenze reiterate, moltiplicate come cloni, tutte schierate in parata e in primo piano, a fare da paravento, fin quasi da nascondere alla vista i perfetti scacchieri prospettici, tracciati con assoluta maestria, ma purchè le loro lucide losanghe rimassero a occhieggiare vuote, non occupate dai protagonisti umani, presi dal terrore di spingersi in lontananza, come se su quelle distanze incombesse il proverbiale hic sunt leones a minacciare i troppo audaci. Quella terza generazione dei nati attorno alla prima metà del Quattrocento pativa su di sé una cruciale contraddizione, da un lato erano padroni della prospettiva albertiana, sapevano costruire una perfetta piramide rovesciata, col punto di fuga nitidamente individuato ad accogliere le sfilate di colonnati, di portici, o la lucida griglia delle mattonelle, ma purché non si chiedesse ai personaggi di avventurarsi in quegli infidi recessi. Questi artisti insomma condividevano le buone regole dei navigatori del loro tempo, che veleggiavano in vista delle coste, senza allontanarsi di troppo dalla terra ferma. A cambiare le regole del gioco vennero due loro coetanei, nati l’uno nel 1451, l’altro nel 1452, Cristoforo Colombo e Leonardo da Vinci, inconsapevolmente concordi nell’infrangere quella prudente condotta. L’uno, il navigatore, sullo scorcio del secolo avrebbe rivolto la prora delle sue caravelle verso l’alto mare, affrontando l’Oceano. In modo del tutto similare Leonardo avrebbe introdotto la prospettiva aerea, avrebbe invaso le lontananze con corrosive nebbie azzurrine, ben comprendendo che era ora di immergere l’uomo nell’atmosfera, sfumandone i contorni fin lì troppo netti.
Invece, nel Pintoricchio come nei suoi coetanei, le figure se ne stanno in parata, rigide, immobili, quasi attendendo che qualche autorità le passi in rivista, e intanto, come succede proprio nelle parate ufficiali, sullo sfondo vengono poste tante belle piante ornamentali. Il talento specifico del Pintoricchio, infatti, si esplica nello sforbiciare con grazia, con candore, con fantasia tutto un orto botanico di piante, maestose, imponenti o invece esili e calligrafiche, consuete ai nostri climi o invece esotiche, ricavate da terre lontane, ma con nozione incerta e approssimativa. Comunque si tratta di pennacchi, di ombrelli, di raggiere di palme che si spalancano, gracili, aeree, accompagnando il procedere in basso delle figurine di questi riquadri incantati, che ricalcano la serialità delle sequenze proprie delle colonne tortili romane, o addirittura anticipano il ritmo dei fumetti e dei cartoni animati resi possibili nei nostri giorni.
Attorno al Pintoricchio e compagni si realizzò uno dei più crudeli trapassi che si siano mai registrati nella storia del gusto. Ai loro tempi erano reputati e famosi, in quanto eredi di tutte le conquiste del primo Quattrocento, in fatto di conoscenze anatomiche e prospettiche, o appunto di abilità narrativa, tanto da venire chiamati a Roma a decorare l’appartamento pontificio, quella che si sarebbe conosciuta nei secoli come la Cappella Sistina. Lo abbiamo già detto, il Perugino e il Pintoricchio vi lavorano, fornendo gremite storie di Mosé e un Battesimo di Cristo anch’esso affollato di presenze. Ma circa un ventennio dopo papa Giulio II° capisce che c’è stata una rivoluzione, chiama al lavoro il genio di Michelangelo, e nelle attigue Stanze Vaticane l’invito va a Raffaello. Con loro il vascello della pittura salpa per il mare aperto, affronta i flutti e i marosi, travolge le fragili parate dei vecchi maestri, al punto che ci si chiese se non convenisse passarci sopra la calce, lasciare tutto lo spazio all’incalzare del nuovo.

l’Unità 30.3.08
Giuliano, l’aborto e la politica
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Partiamo dall’ammissione di una inclinazione intellettuale: i temi di spessore etico, nel confronto politico, sono sovente quelli che più ci appassionano. Ci fanno osservare come l’opinione pubblica possa ancora essere percorsa da istanze forti, da confronti appassionati, tra opzioni legittime e degne di tutela: e analogamente fondate su motivazioni morali. Tuttavia, non ci sfugge come «politicizzare» talune questioni rischi di tradurne sostanza e argomenti, nel migliore dei casi, in alternative indecidibili: non perché la politica sia indifferente all’etica; piuttosto, perché i conflitti che il diritto è in grado di comporre possono rimanere eticamente inconciliabili, come ben ha ricordato Piero Ostellino sul Corriere della Sera. Dunque, possono continuare a sollecitare il confronto e il conflitto politici, senza che la pretesa dell’affermazione del Bene trovi mai soluzione normativa.
La battaglia elettorale di Giuliano Ferrara in materia di aborto ha molto a che fare, per quanto ci riguarda, con tali contraddizioni. È evidente che il direttore de il Foglio condivida la stessa passione per la contesa intorno a grandi questioni morali; e che in questa si impegni, anche con coraggio, un po’ alla maniera di chi, allo speaker’s corner di Hyde Park, si erge su uno sgabello e dice la sua. Qui non discutiamo le sue argomentazioni etiche. Ci sarebbe molto, moltissimo da dire (e lo fa benissimo Adriano Sofri in “Contro Giuliano” Sellerio 2008). Bisognerebbe riconoscere talune ragioni e segnalare molte omissioni, e controbattere altrettanti torti. No: qui si discute dell’utilità (e della sostenibilità politica) di quanto Ferrara sta facendo. Ferrara dice di battersi contro l’indifferenza etica all’aborto. Sostiene che si tratta di un omicidio banalizzato a pratica contraccettiva; che la politica non fa nulla per ridurre il numero d’interruzioni di gravidanza; che la legge che regola la materia, in Italia, è applicata solo parzialmente e univocamente; che le donne sono lasciate sole, a fronteggiare i dilemmi della più grave piaga morale del nostro tempo; o che, alternativamente, sono lasciate sole in un lembo di pochezza morale, in cui interrompere la gestazione (uccidere il feto) diviene gesto banale e disimpegnato, estraneo a ogni considerazione sul valore della vita e sui diritti del nascituro. Ferrara sostiene anche che quell’omicidio non fa della donna che lo decide un’omicida; che non intende, con la sua battaglia, vietare per legge l’aborto. Ovvero, egli dice che quello che altri considerano un diritto (ma oggi chi lo considera un diritto? Fuori i nomi e i cognomi, please) deve rimanere facoltà e possibilità estrema; e che l’autorità pubblica deve intervenire, fin dove possibile e senza opporre divieti ultimi, per prevenire il concretizzarsi di quella facoltà in pratica abortiva.
In molti hanno già chiesto a Ferrara che senso abbia organizzare una lista, dunque proporre una rappresentanza parlamentare, avendo a riferimento della propria azione una norma vigente che si dice di non voler cambiare. Probabilmente, al suo promotore basta aver convocato l’attenzione e l’intelligenza di molti sulla questione che solleva; probabilmente considera di già una vittoria il «semplice» fatto di aver iscritto, nell’agenda dei temi dibattuti dalla politica e dalla cultura le sue (e con lui di altri) riflessioni sul valore della vita, sul concetto di «persona», sull’eugenetica, sulla qualità morale del nostro tempo. Tuttavia, una vittoria di questo genere (già rivendicata) ha il sapore - ci si perdoni - di una marachella; di un’astuzia (veniale, se si prendono per buoni gli argomenti di Ferrara e al peso di quelli la si commisura) che tale è e tale rimane, con tutto il suo portato di strumentalità. Come a dire: certo, fare una lista antiabortista per non cambiare (dobbiamo crederci? ma si, ci crediamo!) la 194 è cosa contraddittoria, apparentemente inutile; ma quell’offerta elettorale non ha volontà di incidere sul nostro ordinamento (e a che serve allora?), ma è un modo dirompente per far discutere di una questione importante. D’accordo, accettiamo anche questo argomento.
Ferrara vuole «mandare in Parlamento un gruppo di pressione che, su un tema centrale dell’esistenza moderna, abbia lo specifico mandato politico di promuovere la battaglia contro l’aborto e per la vita in tutto l’arco della sua manifestazione, che è cosa diversa dall’abrogazione delle leggi che oggi regolano l’interruzione di una gravidanza». Se ciò che gli sta a cuore fosse promuovere una serie di leggi di welfare mirate a scongiurare tutta quella quota di aborti dovuti a un deficit di tutela economica, sanitaria, occupazionale delle donne, noi ci iscriveremmo subito subito alla sua lista. Invece no, lo sappiamo ed è chiaro: Ferrara ha in odio la sciatteria morale di quella donna che abortisce per non ritrovarsi i glutei smagliati; che interrompe la gravidanza per l’ennesima volta, pur avendo mezzi economici ed emancipazione a sufficienza per praticare la contraccezione; che compie quel gesto senza avere contezza (senza affrontare un dramma morale intimo) del portato della sua decisione. Ed è su questo - principalmente - che insiste la sua azione politica. Su quelle forme di degrado morale e sulle cause, prossime e remote, complesse ed epocali, che quelle determinano. La politica può fare qualcosa per intervenire su tutto ciò? Qualcosa che non sia un comitato etico di riconoscimento della liceità morale psichica e sociale, oltre che sanitaria, per ogni istanza di aborto in ogni consultorio e in ogni ospedale? Ovvero: l’autorità pubblica, secondo Ferrara, dovrebbe avere modi e strumenti per indagare la coscienza individuale e le pieghe dell’esistenza degli individui, per decidere quando un aborto è motivato e quando invece non lo è? E in questo secondo caso cosa può fare? Vietare no, a quanto lo stesso Ferrara sostiene, e dunque? Biasimare formalmente la pochezza morale di talune donne? Impegnarsi in qualche pratica di moral suasion? Insomma: cosa produciamo sanzionando moralmente l’indifferenza etica all’aborto? Se si tratta di combattere la povertà spirituale del nostro tempo, beh, nessuna battaglia in questa direzione che assegni allo stato diritto e compito di limitare il libero arbitrio della persona potrai mai dirsi liberale. Se non è questo ciò a cui si mira - se la battaglia contro il degrado etico non passa per una revisione legislativa che renda più difficile abortire - non c’era bisogno di presentare una lista elettorale: non si va in Parlamento per far applicare le leggi (per far applicare in tutto il suo portato la 194); ci si va per farne di nuove o per modificarne di già esistenti. Poteva bastare, allora, scrivere, dibattere, informare, criticare. O impegnarsi, anche attraverso forme di azione volontaria, per promuovere le pratiche contraccettive, per accogliere più dignitosamente i migranti (già, sono le donne straniere, oggi, quelle che nel nostro paese abortiscono più frequentemente), per operare contrastando il disagio sociale di molte donne «istigate» all’aborto dalle persistenti iniquità di una società spesso eticamente agnostica. C’è chi, alcune (e solo alcune!) di queste cose già le fa; animato da una volontà di contrasto del «peccato» che si traduce, ancora una volta, in un giudizio morale sull’autodeterminazione della donna che sappiamo essere inesorabile. No: non fa bene a chi non vuole essere madre, a chi vorrebbe esserlo ma sente di non poterlo; e a chi deve ancora nascere.Scrivere a:
abuondiritto@abuondiritto.it

l’Unità 30.3.08
Obama, il reverendo Wright e i conti con Dio
di Stefano Pistolini


L’hanno trasformato da simbolo della contemporaneità multirazziale in tardiva incarnazione delle Pantere Nere. E durante la metamorfosi, lui ha visto prima allontanarsi e poi prodigiosamente tornare a profilarsi quei voti degli indecisi senza i quali un suo successo resta una chimera. Quale politico, prima di Barack Obama, ha dovuto fare i conti così dettagliatamente con Dio? Mesi fa s’è tentato di presentarlo come un musulmano mascherato. Adesso si sono raggiunti risultati migliori facendone un cristiano deviato, seguace dello scandaloso reverendo Jeremiah Wright, il pastore della Trinity Church, chiesa-istituzione del ghetto di Chicago che predica una cristianità afroamericana - antagonista alla riconciliazione coi bianchi - e invoca non una "blessed" (benedetta) America, ma una "damn" (dannata) America. Una polemica, legata alla decontestualizzazione mediatica di frasi pronunciate dal focoso reverendo, che negli ultimi giorni - quando già il furore sembrava quietarsi -ha tirato in ballo perfino noi italiani - "i nasi d’aglio" come ci ha ribattezzato - titolari, secondo lui, della crudeltà con cui venne crocefisso Gesù Cristo (meglio non approfondire, perché il ginepraio delle inestricabili confusioni è lì, dietro l’angolo). "Siamo dispiaciuti da parole simili usate da chi si definisce un reverendo cristiano" ha dichiarato Dominic DiFrisco, portavoce della Commissione congiunta degli italo-americani che però, almeno lui, la croce delle incontinenze di Wright non ha voluto gettarla sulle spalle di Obama. Il quale, comunque,
non si è mai sottratto alla questione religiosa né alle sue implicazioni razziali, e in passato ha pronunciato sul tema discorsi ben oltre gli standard della politica nazionale, frutto dell’essersi avvicinato alla questione da adulto e attraverso la formazione culturale di Harvard. Il cristianesimo di Obama si rifà al modello di Rienhold Niebuhr, il pensatore religioso più affascinante del Novecento americano. Secondo questo pastore protestante, la città terrena è segnata da inevitabili scontri tra interessi, e va smitizzata la perfezione americana come manifestazione di Dio, rimarcando piuttosto lo scarso equilibrio dell’uomo, agente d’ ingiustizie, tensioni e conflitti. Niebuhr critica i compromessi della politica e invita a intraprendere la battaglia morale nel nome di quella che chiama "la santificazione della propria posizione". Una teoria dell’umiltà e di un energetico stocismo culturale a cui Obama s’è assoggettato, allorché dice che "le chiese sono creazioni dell’uomo e perciò non c’è da sorprendersi se sbagliano". Visione che egli applica anche alle partigianerie e all’aggressività della chiesa afroamericana e alle devastanti dichiarazioni antipatriottiche di quel reverendo Wright che fu sua guida spirituale. Ma che poi non gli impedisce di far confluire nella propria piattaforma elettorale una religiosità progressista unita agli appelli per la giustizia sociale che sono patrimonio della chiesa afroamericana. Il tutto con quei toni ecumenici che danno alla sua proposta l’appeal di cui siamo oggi tutti testimoni, un richiamo che attira credenti e non-credenti, un coinvolgimento che fa sì che nel suo slogan "Change We Can Believe In" (ben più significativo dell’inflazionato "Yes We Can") la parola chiave non sia "cambiamento" ma quel "credere" che chiama a raccolta ogni via e ogni fede.
L’exploit di Obama è andato in scena mentre, in parallelo, la religione americana si va ridisegnando. Lo stesso mondo degli evangelici si sta rifondando, con nuovi leader, nuovi obbiettivi e una diversa tolleranza verso le istanze del presente - a cominciare dall’inclusione degli omosessuali nel tessuto sociale. Personaggi come Rick Warren, fondatore della potente Saddleback Church nella California meridionale, non percorrono oggi strade troppo distanti di Obama, con la loro invocazione di una religiosità che unisca e non divida, sfondo comune e non fattore di contrapposizione. In questo scenario, a seguito dello scandalo provocato dalle dichiarazioni estremistiche di Wright, Obama ha scelto di tornare a parlare all’America di religione, rinunciando agli aggiustamenti elettoralistici di comodo. Obama, invece, ha pronunciato un discorso importante, maturo, complesso, che ha chiesto il funzionamento delle cellule cerebrali di chi l’ha ascoltato. Bollato di colpevole contiguità con un agitatore antiamericano e perciò accusato di cospirazione razziale, Obama ha mantenuto il filo della sua dichiarazione di candidatura di 13 mesi orsono, tentando un passo decisivo nell’acquisizione di quell’indispensabile fiducia popolare che, sola, gli permetterà di sbarcare alla Casa Bianca, coronando una straordinaria impresa. Obama ha sconfessato le parole di Wright, ma non ha rinnegato né i suoi legami con lui, né la convinzione che il reverendo sia una personalità di valore - per lui "una famiglia", ha detto. Se le affermazioni di Wright vanno condannate senza appello, lo stesso non vale per il suo operato. E se Wright grida la rabbia per i torti subiti dai neri, Obama rivendica invece il valore di una cristianità immersa nei diritti civili e in quella speranza, la cui "audacia" - a cui ha intitolato il suo secondo libro - Obama ha tratto proprio da un sermone di Wright, "The Audacity Of Hope", appunto. Obama chiama al raduno, non alla battaglia. La sua religiosità parla di dedizione non di scontro. E la sua materia è civile prima che mistica, nel solco del Martin Luther King più conciliatorio. Proprio quella grande riconciliazione nazionale di cui la pacifica convivenza religiosa è il migliore lubrificante, con quel "girare la pagina" - secondo gli insegnamenti di Niebuhr - con l’impegno di tutti, anche dei nuovi evangelici della Saddleback Church.
La dignità espressa da Obama nel non scacciare da sé il reverendo Wright, l’uomo che lo unì in matrimonio, ma nell’operare chiari distinguo, ha raccolto l’ammirazione degli americani. Già ai tempi della candidatura pronunciata a Springfield, Obama all’ultimo momento aveva deciso di non affidare a Wright la pubblica benedizione della missione. Fin d’allora era consapevole degli imbarazzi che il personaggio gli avrebbe provocato. Chiese al pastore di fare un passo indietro, di non appesantire l’impresa con un marchio troppo razziale. Ma non andò oltre. Wright sì lamentò e approfittò dell’ondata di celebrità con una serie di pirotecniche apparizioni tv. Ora, affrontando una platea spazientita e in un momento difficile della campagna, coi repubblicani avviati a una bellicosa riorganizzazione e con un’avversaria disperata come Hillary, Obama ha detto agli americani che la questione-razza esiste ancora, che liquidarla come retaggio del passato è illusorio, che la rabbia dei neri e il risentimento dei bianchi sono sentimenti che solo il perbenismo isterico del "politically correct" può rimuovere e che di tutto ciò lui è disposto a riprendere a parlare. Perché se nel Mississippi il 90 percento dei democratici neri ha votato per lui e oltre il 70 dei bianchi per Hillary, non si può pensare solo a una competizione politica. Ma a una contrapposizione razziale. Sulla quale è urgente riaprire il dibattito. Obama, sia pure costretto dal precipitare degli eventi, dunque ha posto un "problema universale al quale tutti gli americani sono interessati". Se per un anno ha fatto campagna elettorale col preciso intento di andare oltre la razza, ora Obama non ha paura di far intravedere la propria appartenenza. L’ha fatto mentre chiedeva agli americani di comprendere - se non di scusare - le motivazioni da cui il suo reverendo Wright s’era scagliato contro la patria, nel nome di un’umiliazione razziale mai sanata. Per poi rivolgersi ai fratelli neri e domandar loro di ripensare ai percorsi sociali degli afroamericani - dal diffondersi della criminalità al controverso meccanismo dell’affirmative action - che hanno provocato lo scontento dei bianchi.
Obama chiede a tutti uno sforzo. Chiede di muoversi e non restare fermi. Chiede di guardare, non di girarsi dalla parte opposta. Dice che l’America è una nazione coi lavori in corso, dove gente di razza e fede diversa deve imparare a vivere a contatto. Se le sue parole, e la sua visione saranno premiate, lo si potrà dire il 22 aprile alle primarie della Pennsylvania. Un analista dell’ascesa di Barack come Shelby Steele, intellettuale politico anch’egli birazziale, riassume lapidariamente le necessità del senatore dell’Illinois per superare questa congiuntura: "Gli serve il coraggio dei bianchi". Obama il passo l’ha fatto. Ora i bianchi devono trovare la convinzione di fidarsi di lui.

Repubblica 30.3.08
Il candidato della Sinistra arcobaleno: "Dobbiamo rimotivare i nostri, frustrati dal governo Prodi"
Bertinotti, mission impossible in Sicilia "Niente desistenza, voto utile è per noi"
Il 2 per cento dei nostri elettori non andrà a votare: per noi non è trascurabile
di Umberto Rosso


PALERMO - Il gran ritorno, sotto mentite spoglie, della desistenza a sinistra? «Macché, non esiste. E se qualcuno dalle parti del Pd proprio è tentato dal voto utile, sappia che può essere solo e soltanto unilaterale». Nel senso che, presidente Bertinotti? «Unica direzione di marcia. Dal Pd verso la Sinistra arcobaleno. Per intenderci, come ha annunciato di voler fare Mauro Zani, che non è uno qualunque ma un pezzo di storia del Pci in Emilia». Presunzione, superbia politica del candidato premier, impegnato in Sicilia in una mission impossible rosso-verde? No, conti e tabelle alla mano, giura il presidente della Camera, «il voto alla sinistra è sempre, ovunque, un voto sottratto alla Pdl e non al Pd, un voto perciò per fermare la destra e Berlusconi». Giunto in fondo allo stivale, con al fianco la capolista Rita Borsellino che in Sicilia per la presidenza della Regione fa ticket con la Finocchiaro mentre in Emilia le due sono in competizione per il Senato, Fausto sbarra la strada agli "scambisti", i fautori di una collaborazione nel segreto dell´urna fra Pd e sinistra radicale. E via allora con i siluri alla conferenza operaia di Veltroni a Brescia, nello stesso giorno in cui anche la sinistra tiene la propria a Milano.
Pd partito dei lavoratori? «Neanche la Dc aveva mai messo in lista uno dei padroni più anti-operai, come ha fatto Veltroni con Calearo. La Dc, almeno, il senso del conflitto degli interessi fra lavoratori e padroni ce l´aveva». Bertinotti spara a zero da Palermo e nel frattempo Franco Giordano, sotto la Madonnina, lancia la proposta di riscrivere in dieci punti il paniere per fotografare un´inflazione reale. Mentre la corda con Veltroni si fa più tesa, si metteno a tacere le sirene della non-belligeranza. Idea, raccontano all´interno del Prc, che piace a Bersani e ai dalemiani ma non a Bettini e ai veltroniani, che puntano a incassare quanto più possibile come partito «e - aggiungono, arrabbiati, i rifondaroli - a umiliare la sinistra, per farla uscire domani di scena». Risultato: nemmeno a taccuino chiuso, nelle valutazioni più riservate, lo stato maggiore prende in considerazione forme di desistenza, più o meno mascherate. Liquidata con una battuta: «È una trappola». Un giudizio che attraversa le argomentazioni di Bertinotti. Le seguenti. Se il cartello dei quattro partiti si gioca il match sul filo dell´8%, invece di veleggiare tranquillo sopra il 10 come la somma dei soci avrebbe dovuto produrre, è frutto avvelenato di un combinato disposto. La frustrazione nell´elettorato di sinistra per il governo Prodi e, appunto, l´erosione verso il Pd da richiamo al voto utile. Da questo momento, la campagna del candidato premier punterà su entrambi i fronti al massimo della contrapposizione. Giocata d´azzardo, rischi? Bertinotti la mette così: «Siamo ovunque sopra l´8%, solo in tre regioni la partita del Senato per noi è sul filo: Toscana, Emilia e in qualche misura anche in Lombardia. Ma il problema vero non è il voto utile, non credo a un´emorragia verso il Pd. Solo qualche frangia, che so fra i verdi, o casi isolati come quello del ministro Bianchi».
Qual è allora il cuore del problema, l´ansia che sale a sinistra? Riprendersi i "propri" voti che rischiano di perdersi nel nulla, nell´astensionismo. «Il 2% dei nostri elettori - lancia l´allarme Bertinotti - delusi e frustati dall´esperienza di governo al momento, secondo i sondaggi, non ha intenzione di andare a votare. Una percentuale che per un piccolo partito fa la differenza». Eccolo l´obiettivo del rush finale del presidente della Camera, «rimotivare i nostri, riconquistarli», e non lo fai di certo prefigurando accordi con il Pd. «Lo fai in tutt´altro modo: spiegando che noi staremo all´opposizione, che con Prodi ci abbiamo provato ma è stato inutile».
Come del resto il presidente della Camera deve aver sentito sulla propria pelle, fra i mercati di Messina o fra i giovani universitari di Rende, in un bar di Rosarno o nei vicoli di Palermo, toccando con la mano la delusione e la rabbia del sud, contro tutti i politici, nessuno escluso. E in certi casi, la contestazione non fa sconti. «Anche tu Bertinotti, tornatene a casa».

Repubblica 30.3.08
Luther King, santo americano
di Vittorio Zucconi


Il 4 aprile del 1968 il paladino dei diritti dei neri fu ucciso a Memphis da un galeotto evaso di prigione. Aveva appena trentanove anni. Come Lincoln, come John e poi Robert Kennedy, quel colpo di fucile lo beatificò istantaneamente, proiettandolo nel pantheon. E rendendo immortale il grande sogno sociale di cui si era fatto portavoce

Martin Luther King jr nacque il giorno in cui fu assassinato, il 4 aprile del 1968. Fu alle ore 18 e 01 sul balcone della sua stanza di motel a Memphis, quando un solo proiettile da caccia al cervo sparato dall´edificio di fronte penetrò nella mandibola, deviò nel collo e si fermò nella clavicola, il momento nel quale morì un giovane trascinatore di folle e attivista di appena trentanove anni e dai suoi resti si alzò il Martin Luther King che conosciamo oggi: un santo americano, per sempre beatificato dal proiettile di un fucile Remington.
Non ci sono faticose inchieste canoniche nel processo di santificazione laica e istantanea nell´America della violenza politica, che soprattutto in quegli anni Sessanta produceva martiri come un anfiteatro Flavio nei suoi giorni migliori. Il colpo di pistola che trafisse Abramo Lincoln fece dimenticare le sue esitazioni sulla questione degli schiavi e ne fece per sempre l´apostolo della emancipazione. I colpi del "Carcano modello 91" sparati da Lee Harvey Oswald sterilizzarono la vita non esemplare di John F Kennedy, immunizzandone il ricordo dalle rivelazioni più sordide, così come le rivoltellate che freddarono suo fratello Robert nell´hotel Ambassador di Los Angeles cancellarono, nell´empireo della sinistra americana, il ricordo della sua attiva partecipazione al maccartismo. Nel Pantheon e nel martirologio dei santi americani, il processo della assunzione al cielo del mito richiede i pochi centesimi di secondo necessari perché una pallottola copra il percorso, a velocità supersonica, dalla canna dell´assassino al bersaglio.
E così è stato per King, per il figlio ed erede della chiesina battista di Atlanta guidata dal padre King senior e intitolata ad Ebenezer, la «pietra della speranza» che il profeta Samuele piazzò in Palestina, secondo la Bibbia. L´uomo che era stato costretto a tornare in fretta e controvoglia a Memphis, aveva guidato per quasi quindici anni l´ala non violenta, disobbediente ma non rivoluzionaria, gandhiana, del fronte per il riconoscimento di quei diritti civili e soprattutto sociali ed economici che l´emancipazione degli schiavi non aveva spostato di un passo. Dall´appoggio e dall´organizzazione del boicottaggio in favore di Rosa Parks a Montgomery, arrestata nel 1955 dalla polizia dell´Alabama perché aveva rifiutato di sedere nei «posti riservati ai negri» sull´autobus, al suo "discorso del sogno" sulla spianata monumentale di Washington nel ‘63, l´autorità e la statura internazionale del dottore in teologia che aveva studiato in un college di gesuiti a Boston, il Boston College, erano solide e confermate da un Nobel per la pace.
Ma autorità e prestigio non sono ancora santità e lui lo sapeva. Non tutta l´America di sangue africano lo venerava, nella concorrenza crescente con i duri, come Malcolm X già assassinato e anche lui assurto al cielo degli intoccabili, le Pantere Nere, i Weathermen. Quando fu costretto a tornare a Memphis da Atlanta, due città distanti un´ora di volo tra le quali aveva fatto la spola per tutto il mese di marzo, King era un uomo distrutto dalla fatica, tormentato dai dubbi e depresso dall´accanimento persecutorio con il quale J. Edgar Hoover e l´Fbi cercavano di demolirlo, secondo il classico sistema già usato dallo stesso Hoover per attaccare gli odiati Kennedy: il sesso, un terreno particolarmente caro al creatore dei G-men che si dilettava di indossare costumi da ballerina classica, con collane e tutù di tulle, per intrattenere il proprio collaboratore e braccio destro a fine lavoro.
Il compagno di battaglia, il reverendo Abernathy, lo descriverà come un uomo «allo stremo della forza fisica». Jesse Jackson, che fu con lui quando il proiettile da caccia grossa gli trapassò il volto e il collo, dirà che per la prima volta da quando lo conosceva lo aveva visto «spaventato». Non dalla morte, ma dal timore di fallire, di essere la vox clamantis in deserto, la voce di colui che grida a vuoto nel deserto dell´America violenta del 1968. «L´America è oggi la massima esportatrice di violenza e di guerra nel mondo», aveva detto pensando alla carneficina in Vietnam esplosa con la battaglia del Tet in febbraio, e alla brutalità interna di quel tempo. Parole che ricordano assai da vicino le omelie di quel pastore nero di Chicago, Wright, il mentore e consigliere spirituale di Barack Obama, descritto dagli avversari come un fanatico anti-americano.
Gli costò un enorme sforzo fisico e di volontà tornare a Memphis, dove i milletrecento "operatori sanitari", gli spazzini della città, quasi tutti neri, erano in sciopero da giorni per ottenere un aumento di stipendio da un dollaro e trentacinque a due dollari l´ora, docce per lavarsi e guanti per maneggiare immondizia verminosa, nel clima umido e malsano del grande padre Mississippi, il fiume di Memphis. Le dimostrazioni degli spazzini erano degenerate in violenza, soprattutto dopo la morte di due di loro schiacciati da un camion-scopa; il sindaco Loeb aveva respinto ogni compromesso proclamando che lui «non avrebbe mai fatto accordi con un sindacato di negri», e in questo suo ritorno alla Gerusalemme che lo avrebbe crocefisso, King, portato di peso dai collaboratori nel Tempio della loggia massonica per il discorso, vide la propria fine: «Sono stato sulla vetta della montagna e ho visto il panorama ai miei piedi della terra che ci è stata promessa».
Il suo volo da Atlanta era arrivato con grande ritardo, dopo che una telefonata anonima aveva annunciato una bomba a bordo. Minaccia presa sul serio perché già una bomba era esplosa davanti alla sua chiesa, un´altra era stata scoperta e disinnescata in tempo, e lui era sopravvissuto alla coltellata di una donna, di colore, che lo aveva pugnalato in una libreria sfiorandogli con la punta l´arteria aorta: «I chirurghi mi dissero che se avessi starnutito sarei morto». «Ora sono a Memphis», disse in quel discorso della montagna, «e so che qualche nostro demente fratello bianco vuole attaccarmi. Mi piacerebbe vivere una lunga vita, la longevità può essere una buona cosa, ma ora non mi importa, voglio soltanto fare la volontà di Dio». Coretta, la moglie, che telefonava da Atlanta, pianse quando le riferirono di quel discorso e di quel presentimento.
«Il demente fratello bianco» era già ben sistemato alla finestra di un vecchio edificio delabré, un hotel a ore, proprio di fronte al Lorraine Motel dove sempre scendevano i leader del movimento quando erano a Memphis. Costava poco, era dignitoso nella sua banalità anni Cinquanta ed era nel cuore della città nera. Il suo nome era James Earl Ray, evaso dal penitenziario del Mississippi, ricercato dallo Fbi e da tutte le polizie. Non era un tiratore scelto, come era stato Oswald, "cecchino" addestrato dai Marines, e il suo fucile, un Remington 30/60, aveva un mirino telescopico che non funzionava. E se la distanza è assai breve, forse trenta metri fra il motel e il lupanare, la precisione del colpo fu micidiale. Un proiettile in testa non lascia scampo. King, un po´ vacillante sulla gambe per la stanchezza, si era affacciato alla balaustra con i suoi apostoli: Andy Young, Jesse Jackson, Ralph Abernathy, sul quale l´Fbi stava raccogliendo dossier enciclopedici conditi di immancabili sospetti di simpatie «comuniste». Il colpo, che qualcuno vide arrivare da un cespuglio, abbatté King, ma non lo fece morire istantaneamente. Mentre gli altri chiamavano il centralinista dell´albergo, che non rispondeva, per domandare un´ambulanza, l´ormai quasi santo martire fece a tempo a mormorare a un musicista che era accorso dalle stanze: «Stasera suona l´inno Vengo da te, mio prezioso Signore e suonalo bene». Poi morì. L´ambulanza non arrivò perché il centralinista del motel era morto anche lui, stecchito da un infarto fulminante quando aveva sentito lo sparo. Ma non avrebbe fatto alcuna differenza.
E cominciò lo stesso processo di sdoppiamento che si era già visto con Kennedy, quasi identico. La transustanziazione del reverendo ucciso fu quasi immediata. Il presidente Johnson, che già aveva dovuto seguire il feretro di Kennedy assassinato, lo proclamò immediatamente eroe nazionale, creando un giorno della memoria per lui e lanciando l´intitolazione di strade, autostrade, edifici che oggi pullulano nelle città, assai meno nella campagne. Ma parallelamente si aprì quell´abisso di sospetti e di "complottismi" che ancora non si è chiuso. Ray, «il fratello demente», fu subito identificato, perché lasciò molto cortesemente una borsa con i propri indumenti e il fucile stampato delle sue impronte digitali, ben conosciute alla polizia essendo un detenuto evaso. Fu arrestato mesi dopo, mentre tentava di passare la frontiera inglese, dunque oltremare, con un passaporto falso. Confessò su consiglio dell´avvocato per risparmiarsi la sedia elettrica in cambio di novantanove anni di carcere, ma appena battuta la sentenza, ritrattò.
Se sul caso Kennedy rimane, ancora oggi, la domanda senza risposta del movente (chi aveva davvero interesse a ucciderlo? La Mafia? La Cia? I cubani, come pensava Johnson, per conto dei russi umiliati da lui con la crisi del missili? L´apparato militare-industriale?), i possibili pretendenti al martirio di King potevano essere legioni. Dall´Fbi che lo aveva giudicato «il peggior bugiardo e impostore», nelle parole di Hoover che lo vedeva come una marionetta dell´onnipresente congiura comunista; al mondo politico del Sud, che ancora tentava di resistere all´avanzata dell´integrazione; ai grandi "padroni del vapore" spaventati dalla piega sempre meno mistica e sempre più economicista che lui aveva preso, convinto ormai che non ci sarebbe mai stata eguaglianza di diritti senza eguaglianza di reddito (aveva anche invitato i neri americani a negare i trenta miliardi di acquisti annuali alle grandi multinazionali come la Coca Cola o alle compagnie di assicurazione, destinando i loro soldi ai commerci e alle imprese di gente di colore).
Al processo civile che trent´anni più tardi Coretta, la vedova, avrebbe intentato e promosso, la giuria riconobbe che in quell´omicidio c´erano ben altre impronte digitali che quelle lasciate sul fucile da Ray. Agenti di polizia e vigili del fuoco di Memphis, stazionanti accanto al motel, rivelarono di essere stati misteriosamente ritirati dal quartiere per ordini superiori arrivati all´ultimo momento. L´arma del delitto fu collegata a un mafioso italiano proprietario di un ristorante-taverna, Jim´s Grill, aggiungendo, come Jack Ruby a Dallas, il Fattore Cosa Nostra al complotto. Spuntarono doppiogiochisti, agenti della Cia, un misterioso «Raul», nome ispanico come quel «Ramon» che l´assassino aveva usato per il passaporto falso usato per espatriare. E la famiglia King chiese ed ottenne cento dollari di danni punitivi contro la città di Memphis, somma simbolica.
Ma la causa vinta cadde nella totale indifferenza anche dell´America di colore (quando fu emessa, c´erano soltanto due giornalisti in aula, un americano e l´inviata di un giornale portoghese) non per scetticismo ma per certezza. Tutti sanno, e dicono di sapere, che Martin Luther King fu sacrificato perché la sua minaccia non violenta era infinitamente più pericolosa delle grottesche azioni paramilitari delle Pantere Nere o dei guerriglieri della liberazione, facilmente riducibili ad atti criminali e quindi reprimibili. E quarant´anni più tardi, di rivolte armate come quelle che incendiarono i centri delle metropoli americane dopo la notizia dell´assassinio nessuno parla più, mentre Martin Luther King jr è più vivo che mai. Non nelle autostrade, ma in quelle donne e in quegli uomini, da Colin Powell a Condoleeza Rice fino alla campagna elettorale non violenta e messianica di Barack Obama, che dimostrano ancora una volta come ammazzare i santi sia sempre controproducente.

Corriere della Sera 30.3.08
Religioni. L'annuario pontificio: ora i fedeli dell'Islam sono più numerosi dei cattolici
Il Vaticano: sorpassati dai musulmani
di Bruno Bartoloni


ROMA — Il Vaticano, nell'Annuario pontificio, lo ha ammesso ufficialmente per la prima volta: i cattolici hanno ceduto la prima posizione ai musulmani nel mondo e uno dei motivi è che questi ultimi fanno più figli. Nel globo ci sono un miliardo e 322 milioni di musulmani (il 19,2% della popolazione mondiale) e un miliardo e 130 milioni di cattolici (17,4%).
«Colpa della scarsa natalità»

ROMA — Il Vaticano lo ha ammesso ufficialmente per la prima volta: i cattolici hanno ceduto la prima posizione ai musulmani. Uno dei motivi è che questi ultimi fanno più figli. Già lo scorso anno il World Christian Database, un istituto americano specializzato nello studio dei trend religiosi, lo aveva anticipato. La Santa Sede non si è fidata e ha voluto fare le sue verifiche. Ora ha dovuto prenderne atto: un miliardo e 322 milioni di musulmani rappresentano il 19,2% della popolazione mondiale, un miliardo e 130 milioni di cattolici il 17,4%.
La conferma viene dal libro ufficiale della Chiesa, il «libro rosso» della Santa Sede, come l'Osservatore Romano ha definito ieri l'Annuario Pontificio in un'intervista al suo responsabile, monsignor Vittorio Formenti. L'Annuario, 2.511 pagine di dati, diffuso in diecimila copie, soprattutto tra le gerarchie militari oltre che tra le gerarchie ecclesiastiche, è il libro più rappresentativo della Chiesa. Dal prossimo anno lo si potrà consultare su Internet. Per alcuni è «il libro dei sogni» perché, come afferma il prelato, «non pochi sognano che il proprio nome figuri tra le sue pagine ».
Così monsignor Formenti spiega il sorpasso: «I cattolici nel mondo aumentano perché aumenta la popolazione nel mondo. Diciamo che nel rapporto tra aumento della popolazione e aumento dei cattolici siamo stabili. Però, per la prima volta nella storia, non siamo più ai vertici: i musulmani ci hanno superato. Si tratta chiaramente del risultato di rilevazioni effettuate nei Paesi interessati e consegnate alle Nazioni Unite. Noi possiamo solo garantire per le nostre indagini statistiche, fondate su Il dato positivo per la Chiesa è il numero dei sacerdoti: è cresciuto di 700 unità. Vengono soprattutto da Asia, Filippine, India, Corea, Vietnam, Giappone, Africa e da una parte dell'America Latina un metodo scientifico. I dati provenienti dal mondo islamico si basano su stime che tengono conto soprattutto della crescita delle popolazioni musulmane. È anche vero però che mentre le famiglie islamiche, com'è noto, continuano a procreare molti figli, quelle cristiane invece tendono ad averne sempre di meno. Attualmente, mentre i cattolici sono rimasti fermi al 17,4% della popolazione, i musulmani sono al 19,2%. Le statistiche si riferiscono al 2006. Se però il confronto lo facciamo considerando tutti i cristiani — cattolici, ortodossi, anglicani, protestanti — allora arriviamo al 33% della popolazione mondiale».
A compensare in parte il sorpasso musulmano sui cattolici, l'annuario ha registrato una novità che ha particolarmente soddisfatto il Papa, assicura monsignor Formenti: il numero dei sacerdoti è cresciuto di settecento unità, un numero consistente rispetto al primo saldo attivo di 18 unità che risaliva a dieci anni fa. I nuovi sacerdoti non vengono né dall'Europa, né dall'America del Nord, ma soprattutto dall'Asia: Filippine, India, Corea, Vietnam, Giappone. E poi dall'Africa, mentre l'America Latina va un po' a macchia di leopardo. La «maglia nera» in Europa ce l'hanno la Francia, l'Olanda e il Belgio. In Italia si registra una piccolissima ripresa. Diminuiscono viceversa le suore. E scompare, rivela l'Annuario, la figura della suora portinaia e quella della suora cuoca, ma si moltiplicano le suore laureate che partecipano a concorsi pubblici, che diventano medici e anche primari d'ospedali.

il Riformista 29.3.08
Chiesa. La nota dottrinale sui politici cattolici arriverà dopo il voto per fortuna del Pd


Un sito internet cattolico ha riportato una notizia secondo la quale sarebbero alla firma del Papa - che tale firma avrebbe posticipato allo svolgimento delle elezioni politiche generali in Italia - una Nota Dottrinale della Congregazione della Dottrina della Fede che dovrebbe costituire, insieme all'annunciato documento della Pontificia Commissione per la Famiglia, una specie di summula delle posizioni del Magistero ecclesiastico in materia di natura del matrimonio, tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, e quindi condanna dell'aborto e dell'eutanasia, rifiuto del riconoscimento delle copie di fatto, condanna delle forme estreme di assistenza alla procreazione e della sperimentazione su gli embrioni, limiti alla procreazione responsabile, riconoscimento del diritto all'obiezione di coscienza in queste materie a medici, farmacisti, paramedici e infermieri. Vi sarebbe anche una riaffermazione dei principi già proclamati da altra Nota Dottrinale dell'ex Sant'Offizio sui doveri dei politici e in particolare dei parlamentari cattolici in relazione alle eventuali proposte in queste materia.
Ciò sembrerebbe dover preoccupare i futuri parlamentari cattolici che saranno eletti nelle liste del Partito democratico se esso, come sembra essere sempre più possibile alla soglia dell'alta probabilità, dovesse vincere le elezioni. Poiché anche in caso di vittoria questo partito non otterrebbe certamente al Senato un numero di seggi che gli assicurasse una maggioranza non a rischio e anche per questo, oltre che per avere un collegamento saldo con le masse sindacali, operaie e "alternative", dovrebbe allearsi con la Sinistra Arcobaleno. Ma questa volta la sinistra radicale non si pensa sarebbe tollerante nei confronti del Partito democratico come lo è stata con il governo di Romano Prodi. Certo nei termini di un accordo non ci potrà non essere una revisione del permesso concesso dal precedente governo di centrosinistra all'amministrazione americana per l'ampliamento della base militare di Vicenza, il ritiro del ricorso per conflitto di attribuzioni contro i pubblici ministeri di Milano per il caso Sismi-Abu Omar, una accentuazione della peraltro già netta politica filo palestinese e filo Hezbollah in Medio Oriente e la richiesta da parte dell'Italia di una conferenza internazionale di pace per l'Afghanistan, che apra il tavolo delle trattative anche ai Taleban - senza l'accordo con i quali che riconosca almeno de facto il diritto a assicurare in quel paese una zona di rifugio garantito per Al Qaeda, non ci potrà essere pace in quel Paese - e con la minaccia che ove questa non fosse convocata l'Italia ritirerebbe la sua missione militare, una apertura alla Russia e alla Serbia in relazione al Kossovo.
Nell'accordo non vi potrà non essere una legislazione aperta a una più ampia integrazione degli immigrati, la tassazione delle rendite finanziarie, l'abolizione almeno de facto della legge Biagi, il salario minimo garantito a tutti i maggiori di sedici anni, l'esproprio o almeno la requisizione delle case sfitte, e così via. Sono peraltro questi temi che sono propri ai cattolici democratici e che non ostacolerebbero, ma anzi li aiuterebbero nel loro sostegno al governo Veltroni. Certo vi sarebbe il problema della istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti del G8 di Genova, ma il leader Veltroni l'ha già promessa, e i cattolici democratici non potranno dimenticare che l'opposizione al G8, quella di piazza ma non violenta (ma quale manifestazione di piazza per avere efficacia potrà mai essere non violenta?) fu benedetta nel corso di una Santa Messa celebrata ad hoc dall'allora arcivescovo di Torino.
Se la Nota dottrinale e il Documento che dovrebbero essere emanati lo fossero, certo essi potrebbero mettere in qualche imbarazzo i parlamentari cattolici del Partito democratico, dato che questo partito per la sua composizione e i suoi riferimenti ideologici, anche cattolico-progressisti, oltre che per la necessità di stringere un accordo con la Sinistra Arcobaleno, non potrà astenersi dal fare approvare provvedimenti legislativi che sarebbero in contrasto con il tradizionale insegnamento della Chiesa. Anzitutto però, forti sembrano essere le pressioni di larga parte dell'Episcopato italiano, dei movimenti cattolici e anche da ambienti della Segreteria di Stato vaticana perché questa Nota e questo documento non vengano pubblicati, almeno per ora. Ma se anche lo fossero, la questione non sarebbe poi forse così grave! Per la Chiesa italiana, come è apparso chiaro dalla relazione introduttiva del presidente della Conferenza Episcopale Italiana all'ultima sessione della Commissione Permanente, per i cattolici italiani vi è non un solo ordine di valori: quello collegato alle materie che il Papa definì «non negoziabili», ma anche l'ordine dei «valori sociali», ben rappresentato dal programma sociale e politico della Sinistra Arcobaleno, e anche oltre in materia di «pace senza se e senza ma» e di politica filoaraba e anti-israeliana e antiebraica in generale. E i parlamentari cattolici democratici - i teodem sono stati spazzati via dalle liste o posti con il loro "esilio" alla Camera dei Deputati nelle condizioni di non poter nuocere! - potrebbero ben sostenere che dato il carattere laico della nuova maggioranza e l'accentuato carattere laicista della società italiana nella quale i cattolici «senza se e senza ma» si avviano a diventare una diaspora, potrebbero ben sostenere che al fine di difendere puramente e semplicemente il primo ordine dei valori, non si può sacrificare il secondo, anche applicando i criteri propri della morale cattolica, detti del «male minore» o del «bene possibile». E poi si potrebbero ottenere garanzie sul mantenimento dell'otto per mille, dell'esenzione dall'Ici, del finanziamento dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche e così anche di altri privilegi concessi alla Chiesa d'Italia dalle leggi civili. E poi, è passato il tempo del tandem Sodano-Ruini; e oggi siamo a quello meno dottrinale o sovrano, ma più pratico e compromissorio, di Bertone-Bagnasco! Io ero per il primo, ma io non conto né siedo in Parlamento.