martedì 1 aprile 2008

La Repubblica 1 aprile 2008
Il Pd, negli ultimi giorni di campagna elettorale, cerca lo scatto vincente
E Per il ministero dell'Economia continua il pressing su Mario Monti
Libri gratis, via le tasse universitarie
Veltroni studia la mossa pro-famiglia
di GOFFREDO DE MARCHIS


- Nei prossimi giorni Walter Veltroni presenterà la proposte del Partito democratico su sanità, giustizia (con un riferimento particolare alla certezza della pena), nuovo welfare (immaginando un patto sul potere d'acquisto). Ma lui per primo sa che nel rush finale c'è bisogno di un'iniziativa molto più forte, di un messaggio "generale, che interessi una platea di elettori la più vasta possibile". In una parola, le famiglie. E sul tavolo del candidato premier del Pd si va materializzando la parola d'ordine degli ultimi dieci giorni. Si lavora intorno al tema della formazione, quindi sul futuro. I tecnici stanno verificando la sostenibilità finanziaria di una vera rivoluzione: il taglio netto delle tasse universitarie o addirittura l'abolizione e la gratuità dei libri di testo per le scuole dell'obbligo.

È questa l'ipotesi principale nella cartella di Veltroni, il segno che può rimanere impresso sulla campagna elettorale come la proposta di abolire l'Ici lanciata da Berlusconi sul filo di lana nel 2006 che per poco non si portò via il vantaggio di Romano Prodi. Dentro il tema della formazione c'è tutto, i genitori e i figli, le nuove generazioni, le pari opportunità, un punto di vista che guarda in avanti. Domenica sera, al vertice dei fedelissimi con Goffredo Bettini, Walter Verini, Claudio Novelli e il vice Dario Franceschini, Veltroni ha sparso ottimismo a piene mani: "Sono sicuro
che alla fine vinceremo. Ce la faremo al Senato e alla Camera". Non a caso ha chiesto al costituzionalista Ceccanti e a Walter Vitali di uscire oggi sull'Unità con un fuoco di sbarramento al voto disgiunto. Eppure questa sicurezza va sorretta con proposte chiare, che arrivino a tutti.

Lo è il taglio secco delle tasse universitarie e dei costi dei libri. Ma tra gli altri progetti nelle ultime ore era spuntata anche la abolizione del bollo auto su una macchina a famiglia. Ipotesi scartata perché il Pd si presenta come un partito attento all'ambiente. L'altra strategia del loft
prevede una forte personalizzazione della battaglia. I sondaggi sono chiarissimi: il Pd soffre contro il Pdl, ma nel confronto Veltroni-Berlusconi il primo ha un buon margine di vantaggio. A questo sarebbe servito il duello televisivo con il Cavaliere: a concentrare il duello sulla persona e a polarizzare il voto, cosa che secondo gli esperti è destinata ad accadere comunque nei giorni finali. Veltroni quindi cercherà il corpo a corpo, per privilegiare la scelta tra due pretendenti a Palazzo Chigi e non tra due coalizioni.

Un candidato convinto del successo si preoccupa poco delle subordinate. Magari preferisce annunciare ai suoi interlocutori, come è successo domenica sera, che il Lazio, una delle regioni in bilico, finirà al Pd: "Rutelli e Zingaretti stanno conquistando voti anche per noi". Certo, quota 35 per cento è sempre la soglia minima negli obiettivi veltroniani. Gli consentirebbe, anche nel caso peggiore, di governare il partito e gli strascichi del dopo voto. Sapendo che qualcuno cercherà di fargliela pagare. Le insidie possono venire dal fronte dalemiano. La battuta del ministro
degli Esteri ("Lo slogan "'Si può fare' è moscio'") è stata considerata poco più di una battuta. Con qualche sospetto in più è stata letta l'intervista di Pierluigi Bersani alla Stampa.

Il titolare dell'Industria spiega che il Pd deve ancora fare il salto di qualità, che non parla davvero agli indecisi e al Nord. Ma in piena campagna elettorale Veltroni ha deciso di tirare dritto. L'uscita di Bersani non gli è piaciuta, per i modi e i tempi, ma i due si sono sentiti e l'autore delle liberalizzazioni andrà a rappresentare il partito nelle prossime trasmissioni tv. Resta un dato di fatto: una parte del Pd affila le armi per il dopo voto.

L'ultimo, ma forse più importante nodo da sciogliere, è legato alla squadra di governo. Anche ieri Veltroni ha garantito che farà alcuni nomi prima del 13 aprile. Nomi esterni, perché i politici non si toccano altrimenti qualche escluso potrebbe smettere di tirare la volata. Naturalmente, l'indicazione più attesa riguarda l'Economia. Veltroni ha corteggiato Mario Monti. E continua a farlo. È la sua primissima scelta, i due si sono sentiti spesso in queste settimane. Ma l'ex commissario europeo deve aver declinato l'invito se Veltroni, ancora pochi giorni fa, reagiva così a una domanda sull'uomo dei conti pubblici: "Non sta scritto da nessun parte che debba fare il nome del ministro del Tesoro. In nessun paese del mondo lo si sceglie prima del voto". Il pressing su Monti però va avanti.


La Repubblica 1 aprile 2008
Il candidato della Sinistra Arcobaleno risponde agli ascoltatori di
Repubblica Tv
"Ridurre il numero dei parlamentari ed abolire una delle due camere"
Mussi: "Con il Pd c'è competizione
tremo all'idea di un accordo con Pdl"
di EDOARDO BUFFONI

ROMA - Un accordo Berlusconi-Veltroni? Tremo solo all'idea. Con il Pd in questa campagna elettorale c'è un "gentlement agreement", ma anche competizione. Il voto utile? Esiste solo il voto che ti rappresenta. Fabio Mussi, ministro per la Ricerca e l'Università, candidato per la Sinistra Arcobaleno, risponde alle domande dei lettori nel videoforum di Repubblica Tv. Attaccando sia il Pd che il Pdl, e qualsiasi ipotesi di accordo post-elettorale tra i due partiti maggiori: "Un accordo sulle riforme non può essere un gioco a due tra Pd e Pdl, un passo doppio. Se però parliamo di riduzione del numero dei parlamentari, per noi è un invito a nozze. Una sola
Camera addirittura un doppio invito a nozze, mentre di fronte ad un iperpresidenzialismo la nostra risposta è no. Quanto alla legge elettorale, vorrei invitare i miei amici del Partito Democratico alla prudenza, perché non è prudente fare una legge elettorale che a tavolino cancelli qualsiasi altra variante".

Mussi su questo punto è drastico: "Non sarebbe possibile governare città e amministrazioni locali con i voti della sinistra, come Roma, e poi fare una legge elettorale che cancella tutto ciò che non è Pd e Pdl, perché non si può avere 7 botti piene e 7 moglie ubriache".

Molte le domande dei lettori sul voto utile: votare Pd o Sinistra Arcobaleno per il Senato, a seconda delle regioni, per contrastare Berlusconi.
"L'elettore - risponde Mussi - non può essere accompagnato alla soglia del seggio da esperti. Le scelta delle persone sono più semplici e alla fine anche più giuste. Il voto utile è prima di tutto quello che ti rappresenta, che rappresenta i tuoi valori e le tue idee". La vostra campagna non è
troppo sbilanciata contro il Pd, osservano alcuni lettori: "E' il Pd che ha radicalmente escluso la sinistra, definendola il male, e che ha fatto una campagna sistematica per dire: non votare a sinistra".

Ma con le vostre idee non vi condannate all'opposizione?
"Saremo all'opposizione solo se perderemo le elezioni. Ma voglio sottolineare che l'Italia rischia di essere l'unico grande paese europeo a rischiare di non avere più una forza politica che si dichiari di sinistra.
Ed è per questo che ho scelto di non aderire al Pd. Invece dovrà esistere nel futuro una forza di sinistra in Italia, per influenzare e condizionare la politica del Partito Democratico".

Ma la sinistra ce la può fare?
"Io spero prima di tutto che perda Berlusconi, e lo dico per ragioni patriottiche. Berlusconi è il lato tragicomico della vicenda italiana. E' sempre più stonato. Con la sua visione scombinata e populistica dell'Italia, che ha già fatto tanti danni".

Ma la Sinistra Arcobaleno resterà unita anche dopo le elezioni?
"Abbiamo fatto una lista comune. Se fosse un semplice cartello elettorale sarebbe destinato al fallimento. Invece stiamo creando una forza unita. E lo sta dicendo con forza anche Bertinotti".

Non era meglio candidare premier un leader più giovane, ad esempio Nichi Vendola?
"Mi sembra che Bertinotti si stia spendendo con autorevolezza. Sta facendo bene".

Cosa critica del governo Prodi?
"Aver spinto troppo sul risanamento dei conti pubblici. Si poteva destinare qualcosa in più per salari, fisco, ricerca scientifica. Ma quando lo dicevamo noi, tutti ci criticavano. Ora molti se ne sono accorti. Ma solo ora".

Come ministro, cosa è contento di aver realizzato?
"Ho fermato la proliferazione delle sedi, le lauree facili, i concorsi finti. Ora il sistema può essere governato secondo standard europei.
Purtroppo ho avuto solo 20 mesi di lavoro al ministero. Ma sono a un passo dall'approvazione l'agenzia nazionale di valutazione, i nuovi concorsi per associati e ordinari, e la riforma della governance delle università. Chiunque verrà dopo di me, dovrà riprendere da dove sono arrivato io".


La Repubblica 1 aprile 2008
Bossi: no al voto agli immigrati, consulterò la gente
Borghezio: se fa il ddl, allora governo addio
Berlusconi: "Da Santoro
uso criminoso della tv"
di ANDREA MONTANARI

"Michele Santoro fa ancora un uso criminale della tv". Sceglie questa volta Milano Silvio Berlusconi per lanciare il suo nuovo editto contro il conduttore di "Annozero". Nel corso della videochat con il Corriere ieri a Milano, prima nega perfino di avere pronunciato il precedente editto contro Enzo Biagi, poi attacca Santoro: "L'uso criminoso di una televisione pubblica pagata con i mezzi di tutti consiste nell'attaccare gli avversari senza dare a questi avversari la possibilità di una replica, cosa che lui continua impunemente a fare anche adesso."

Nel frattempo, non si placa la polemica con la Lega sulla sua proposta di dare il voto agli immigrati. Dopo la bocciatura di Roberto Maroni ieri su Repubblica, è direttamente Umberto Bossi a bacchettarlo. Fino a minacciare un referendum tra gli italiani, se insisterà ancora. Il Senatur non l'ha presa bene: "Berlusconi lo conosciamo. In certi momenti fa arrabbiare gli
alleati. Ma nel bene e nel male, è così. Vuole piacere, si adegua al posto dove va... Ma poi è troppo, se c'è un patto va rispettato". E Borghezio va oltre: "Se presenta un ddl, il governo è già finito".

L'ex premier sembra abbozzare. Nel corso del nuovo tour al Nord, prima a Milano e poi a Torino non solo non ne fa più cenno, ma raccoglie l'applauso più forte del pubblico torinese quando scalda la platea accusando la sinistra "di averci riempito di immigrati, tenendo troppo aperte le frontiere". Vorrebbe un modello educativo alla Sarkozy. Propone un decalogo per i giornalisti e gli insegnanti. "Dovrebbero portare sempre la cravatta" e "come gli scolari alzarsi in piedi davanti ai professori". Sostiene addirittura di essersi tenuto lontano gli anni scorsi da programmi come
"Ballarò" o "Annozero" perché i politici che li ospitavano "gli facevano ribrezzo". Lui si chiama fuori, spiegando che "la sua età in politica è solo quattordici anni".

Ma la sala resta fredda. Nella sua foga di piacere a tutti costi non si accorge nemmeno delle gaffe. Al mattino, ad esempio, nel comizio milanese davanti ai militanti del Partito dei pensionati rivolto a un gruppo di signore azzarda: "Ma guarda che belle tuse, da quella parte c'è il settore della menopausa". Subito dopo, sferra un durissimo attacco contro i partiti picccoli, quelli, a suo dire del voto inutile. Dimenticando, però, che sta parlando proprio dal palco di uno di questi, quello dei Pensionati, che pur avendo preso alle scorse elezioni solo lo 0,7 per cento alla Camera e l'1 al
Senato, gli ha fatto perdere le elezioni perché non si era alleato con la Cdl. Lui forse per farsi perdonare promette: "In pensione cinque anni prima alle famiglie che ospitano un anziano".

Non come la "sinistra delle favole di Veltroni". Come quella di Antonio Di Pietro "che percepisce la pensione da magistrato da quando ha quarantacinque anni". Non quella di Bertinotti "che considera i poliziotti e i carabinietri ddei traditori del proletariato". E nemmeno quella di "quei
mangiapreti dei radicali che dovranno vedersela nel Partito democratico con i teodem che sono dei baciapile".

A chi gli fa notare che non fa più sognare gli italiani risponde: "È difficile sognare oggi. Ci vuole un gran coraggio oggi a voler assumere responsabilità di governo. Bisogna essere quasi dei temerari". Dalla sala del teatro Nuovo di Torino qualcuno gli urla: "E allora non ci andare". Fa
finta di nulla, ma poi ammette che "al Senato sarà difficile avere una solida maggioranza".

Torna alla sua ossessione. I piccoli partiti. "Cosa hanno mai fatto in questi anni per il paese , se non esistere per appagare l'ambizione dei loro leader"? Non cita Pier Ferdinando Casini, ma è chiaramente a lui che allude quando dice: "Non si può votare uno solo perché è un bel fieu". Quindi una raccomandazione: "Nonni e nonne, prima di andare a votare fate le prove generali con il fac simile della scheda elettorale. Quella preparata dal ministero degli Interni rischia di farvi perdere la vista. Questa volta non sbagliate".



La Repubblica 1 aprile 2008
Il Cavaliere contro il Professore che rivendica il successo del governo
E l'altro replica: "Rovina un bel momento per il paese, si deve vergognare"
Expo, scontro Prodi-Berlusconi
"Non è merito del premier"
Plauso bipartisan al risultato di Milano. D'Alema: "L'Italia è un osso duro"
Rutelli: "Esempio di leale collaborazione". Bossi: "Felice per il Nord e la
Moratti"

E' una vittoria che "premia lo sforzo comune", "motivo di orgoglio per l'Italia intera". Le parole di Giorgio Napolitano arrivano poco dopo la proclamazione ufficiale di Milano vincitrice nella "finale" con Smirne per l'assegnazione dell'Expo 2015. Un risultato accolto con entusiasmo da ogni parte politica e frutto, è il commento generale, di un grande lavoro di squadra. Ma la soddisfazione bipartisan sfuma velocemente per lasciare il posto alla contesa sul merito. Perché quello dell'Esposizione universale diventa terreno di scontro per Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Se il primo traduce l'evento in un successo dell'Italia e del governo, "anche se abbiamo avuto un po' di paura negli ultimi giorni", il secondo commenta: "Non è merito del presidente del Consiglio". L'altro lo accusa di "rovinare un bel momento per il paese" e gli intima di "vergognarsi". La palla passa al portavoce del Cavaliere, Paolo Bonaiuti: "Si vergogni lui", dice riferendosi al premier.

A dire la verità, una prima frecciata la lancia il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema. Che, da Parigi, sottolinea l'"impegno corale" e il fatto che "l'Italia è un osso duro": "Ogni volta che ci siamo candidati a livello internazionale abbiamo sempre vinto. Questo vuol dire - ha precisato il
titolare della Farnesina - che questo Paese è migliore di come lo raccontiamo". Berlusconi invece non risparmia un cenno all'emergenza rifiuti dicendosi "molto lieto" della notizia di Milano dopo "il dramma di Napoli e della Campania". E si prende una fettina di torta: "Spero di essere stato
utile anch'io, con la mia amicizia con tanti capi di Stato".

"Amarezza e sconcerto" da Walter Veltroni "nel vedere che anche una grande vittoria "sia utilizzata per basse polemiche elettorali". Fra una tappa elettorale e l'altra - oggi nel Lazio - il candidato premier del Pd trova il modo per un plauso al risultato "raggiunto grazie al lavoro fatto tutti insieme", prova che "quando il paese è unito, nella differenza di opinioni e posizioni politiche ma unito istituzionalmente, si raggiungono obiettivi come questo".

Trattiene a stento la commozione il sindaco di Milano, Letizia Moratti, "contenta per la città e per il mondo perché sarà un'esposizione per il mondo, ci ho creduto, ci ho creduto proprio" dice, e le fa eco il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, che parla di "un risultato
indiscutibile, frutto del grande lavoro svolto insieme dalle nostre istituzioni e da tante forze della società civile".

"Un buon progetto, determinazione, gioco di squadra e capacità di dialogo": questi gli ingredienti della vittoria secondo il ministro del Commercio estero, Emma Bonino, anche lei a Parigi. "Sono contenta - ha detto - è segno che abbiamo un rapporto solido con gli altri Paesi". Gioia e soddisfazione per Francesco Rutelli: il ministro per i Beni culturali parla di "un buon
esempio di leale collaborazione istituzionale, fra governo e enti territoriali milanesi, che dovrebbe essere seguito ogni volta in cui è in causa il buon nome dell'Italia".

La vittoria di Milano "è una vittoria del Paese, frutto di un ottimo lavoro di squadra" anche per il ministro per le Politiche giovanili, Giovanna Melandri, che individua nello "spirito di coesione e unità" l'ingrediente "di una vittoria auspicata e meritata che, già da domani, chiama tutti a
dare il massimo". Milano "torni a essere un faro per tutta l'Italia - dice il ministro delle Pari opportunità Barbara Pollastrini - prima per dialogo, solidarietà, civismo, diritti civili, scienza".

E se nel centrodestra c'è chi è tentato dal vedere il lato positivo, come Umberto Bossi che si dice "molto felice sia per il Nord che per Moratti che si è data un gran da fare", c'è anche chi ne approfitta per battere sul tasto Alitalia. Renato Brunetta (Fi) e Roberto Calderoli (Lega) sono
convinti che adesso sia ancora più importante che la Lombardia e Milano abbiano un aeroporto di prima classe, un vero e proprio hub dove atterri e decolli la compagnia di bandiera. Quindi, Prodi e i suoi ministri devono fare retromarcia su Air France "oppure pensano - ironizza Calderoli - di far arrivare i 29 milioni di visitatori attesi a Milano a piedi o con il pullman di Veltroni?". Al contrario, secondo Prodi: il successo dell'Expo è il trampolino per rilanciare Milano e la Lombardia con una "prospettiva solida e forte, l'occasione di essere sotto i riflettori del mondo".

A rivendicare il successo di Milano anche i sindacati. Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, precisa che il risultato "è stato raggiunto anche grazie al ruolo svolto unitariamente dalle tre confederazioni a livello nazionale, lombardo e milanese".


La Repubblica 1 aprile 2008
La torre, il parco, miliardi e cantieri
le promesse e i rischi dell'Expò
Il problema del "dopo": come sarà utilizzato quello che resterà?
di GIUSEPPINA PIANO

MILANO - Una città dove si respira meglio perché emette il 15 per cento in meno di Co2. Dove si viaggia in metrò da Niguarda a San Siro, e da Lorenteggio a Linate. Dove saranno stati spesi 14 miliardi di euro in infrastrutture, autostrade e opere pubbliche. Ma anche una Milano con sette
anni di cantieri davanti e 29 milioni di persone in visita nei cinque mesi dell'Esposizione universale dedicata all'alimentazione, previste in media 160mila al giorno con (con punte di 250mila).

Una città da skyline anche verticale, con l'Expo Tower a Rho-Pero a contendere ai giganti di Citylife il record di altezza milanese. E con 11 miliondi di metri quadri di verde in più sparsi per tutte le periferie. Ma anche con un nuovo quartiere residenziale a Rho-Pero, dopo che smontata una parte dei padiglioni tirati su per l'Esposizione, si costruiranno al loro posto case e uffici.

Promesse e cartoline dalla Milano del 2015. Sperando di usare la locomotiva Expo per ripartire. Le stime, a guardare il dossier di candidatura di un migliaio di pagine, parlano di 70mila nuovi posti di lavoro - stima di una ricerca della Bocconi - per costruire tutto l'occorrente. Di quasi quattro miliardi di euro di indotto per il sistema economico locale. Di un'Esposizione universale ecosostenibile, un evento a "impatto zero", dove si viaggerà a idrogeno e si prenderà energia dai pannelli solari.

Ma arrivarci non sarà indolore. C'è tutta l'area della Fiera di Rho-Pero da trasformare in un cantiere a ciclo continuo per accogliere i visitatori. E di certo non aiuta l'umore vedere che oggi, a tre anni dall'apertura del polo sotto la Vela di Fuksas, non siano ancora finiti i lavori per strade e
collegamenti intorno.

Il rispetto dei tempi, questo sarà il primo banco di prova per l'operazione-Expo. L'altro sarà trovare, con bandi internazionali, gli architetti che disegneranno le strutture. A partire dalla torre di 200 metri d'altezza che dovrà diventare il simbolo dell'evento. Serviranno architetti, ingegneri, tecnici. Ma serviranno, anche, 36mila volontari che dovranno contribuire all'accoglienza dell'esercito di stranieri che farà tappa a Milano. A tutti sarà chiesto un impegno non più lungo di 16 giorni.

Il dossier da un migliaio di pagine con cui Milano si è candidata a vincere racconta la rivoluzione per Rho-Pero. L'area espositiva dovrà praticamente raddoppiare rispetto a oggi. Allargandosi verso est. Un milione di metri quadrati aperti al pubblico solo per gli spazi espositivi, altrettanti per le strutture di servizio e la logistica (parcheggi, alberghi, ristoranti, bar, un centro congressi). In totale, due milioni di metri quadri da strasformare.

Chi la visiterà, nel 2015, si troverà otto padiglioni per illustrare i progetti espositivi di mezzo mondo sull'alimentazione immersi in un parco, che da solo coprirà circa la metà dell'area giardino all'inglese. Un lago artificiale e ruscelli. Al centro di tutto, cuore e simbolo, la torre con ai lati due "ali" con sale per eventi, seminari, attività culturali, negozi. E pure un "centro ecumenico" per la preghiera. Sopra la torre invece, a 200 metri d'altezza, terrazza panoramica e ristoranti.

Il tutto con padiglioni immersi in un parco di 500mila metri quadrati, la metà dell'area. Ristoranti per 8mila metri quadrati e altrettanti per bar e ristoranti, 2.500 metri quadrati di negozi. Piazza Italia con un anfiteatro all'aperto di 9mila metri quadrati, e un auditorium di 6mila. Verde che dovrebbe aumentare comunque in tutta la città con 11 milioni di parchi in più. Altro capitolo delle promesse.

Ma cinque mesi di Expo non si fermano a Rho-Pero. Il dossier di canditura racconta di tutta una Milano ambientalista. Miracolosamente capace di diminuire del 15 per cento entro il 2012 (e del 20 per cento entro il 2020) le sue emissioni di anidride carbonica e dare una mano contro il gas serra.
E se la scossa dell'Ecopass ormai sarà stata ampiamente metabolizzata, dovrà contribuire la bioedilizia, il teleriscaldamento e l'utilizzo dell'acqua di falda. Il tutto, però, contando sul fatto che nel frattempo le sempre attese infrastrutture, dalla Brebemi alla Pedemontana, alla Tav e alle
metropolitane 4 e 5 in città, siano più che pronte per sopportare il peso dei turisti. Un capitolo da non meno di 10 miliardi di euro di investimenti pubblici in cantieri.

Solo per l'Expo serviranno quattro miliardi di euro, per costruire l'area fieristica e i collegamenti, 530mila metri quadrati di parcheggi e la ricettività. Quasi altrettanti torneranno però come indotto assicurato dalla vetrina internazionale e dall'afflusso dei visitatori. L'Esposizione in sé,
tra affitto dei padiglioni, sponsorizzazioni e vendita dei biglietti d'ingresso, garantirà invece circa 900 milioni di euro.

La Milano del 2015 non sarà un'altra città ma almeno, oggi, spera di usare la locomotiva Expo per crescere.

Altro, fondamentale capitolo, è quello sull'eredità. Qui molte sono le incognite. Si sa che a Rho-Pero resterà il parco, resterà la torre che dovrà essere rigenerata come spazio culturale e sociale. Resteranno altri padiglioni ed edifici di servizio. Ma la loro rigenerazione pubblica, oggi,
è ancora tutta da inventare. Il punto è che la maggior parte dei padiglioni verrà smontata. Le aree date in prestito al Comune torneranno ai loro proprietari, privati, ovvero la Fiera e il gruppo Cabassi. E là dove fino a oggi non si poteva costruire, in una zona vincolata dal piano regolatore per uso agricolo, potranno farci un nuovo quartiere residenziale.

L’Unità 1 aprile 2008

I 93 ANNI CON LA LECTIO DI CAMILLERI
Ingrao: parlate di più degli operai e della pace

Tra affetto e ammirazione Andrea Camilleri ha tenuto ieri a Roma a Palazzo Valdina una lectio magistralis per il 93esimo compleanno di Pietro Ingrao, anticipata da l’Unità. Per il padre di Montalbano, Ingrao è «un perfetto eroe dei nostri anni» che suscita «oltre a stima e ammirazione, la simpatia umana anche in chi non lo conosce». Utilizzando come filo conduttore «la qualità del dubbio ingraiano» vissuto come «strumento di conoscenza» lo scrittore ha ripercorso alcune delle scelte del politico. Commosso, Ingrao ha ringraziato: «I miei simili sono stati sempre per me un enorme dato di attrazione, un'emozione perenne e hanno segnato il senso più profondo del mio agire politico. Mi sarebbe piaciuto avere il tempo di sedermi a un caffè e vedere scorrere il fiume dell’umanità, osservare i volti e gli sguardi...». Poi ha ammonito: «In questa campagna elettorale si dovrebbe parlare di più delle condizioni dei lavoratori e del bisogno di pace in Medioriente e nel mondo, un problema bruciante». All’incontro, organizzato dal Crs e presieduto da Mario Tronti, erano presenti tra gli altri oltre a Fausto Bertinotti, che ha rivolto il saluto della Presidenza della Camera a Ingrao, anche Goffredo Bettini, Gennaro Migliore, Aldo Tortorella, Walter Tocci e Vincenzo Vita.


L’Unità 1 aprile 2008

IN LIBRERIA Nella nuova fatica di Fulvio Abbate, «Quando è la rivoluzione», un gruppo di maoisti interrompe un pranzo di nozze e...
Colpo di stato, i comunisti occupano «L’antico Girarrosto»
di Riccardo De Gennaro

Nel suo ultimo romanzo, Quando è la rivoluzione (pagine 311, euro 17,00, Baldini Castoldi Dalai), Fulvio Abbate immagina la presa del potere dell’Unione dei comunisti italiani, raggruppamento d’ispirazione maoista attivo a cavallo degli anni Settanta e guidato da Aldo Brandirali, oggi fervente ciellino.
Del colpo di stato, se di colpo di stato si tratta, si racconta tuttavia soltanto un episodio, l’occupazione armata di un ristorante della periferia romana, «L’antico Girarrosto», dove è in corso il pranzo di nozze di una coppia di «coatti» dell’Appio-Tuscolano. A quel punto gli invitati devono rinunciare all’esibizione del loro idolo, il cantante Drupi, e forzatamente assistere al documentario Viva il Primo Maggio rosso e proletario di
Marco Bellocchio, convinto all’epoca che il libretto di Mao potesse davvero trovare applicazione in Italia. Il particolare che quel 15 febbraio, presumibilmente del ’71 (ma Il mare color del vino di Sciascia, citato nel libro, è del ’73), la Rai continui a mandare in onda lunghi servizi dedicati all’Unione dei comunisti e Claudio Villa canti alla radio Bandiera rossa ci dice che i maoisti hanno preso possesso anche dei mezzi d’informazione.
La storia del matrimonio che «s’ha da fare», ma solo secondo i dettami contenuti nell’opuscolo Un matrimonio comunista, realmente edito da «Servire il popolo», s’intreccia con le vicissitudini di un annoiato gruppo di esponenti dell’alta borghesia salottiera che quello stesso giorno parte per andare a trovare Ugo Tognazzi, ma - data la sua assenza - finisce non si sa come a Cinecittà.
Qui il gruppo, guidato da una signora piuttosto sboccata e da un allievo di Lacan dal pene minuscolo, incontrerà Mario Schifano, il quale s’aggira proprio con Brandirali sul set di uno dei tanti B-movie a sfondo boccaccesco realizzati dopo il Decameron di Pasolini. Presto giungeranno a Cinecittà anche i «coatti», i capi delle guardie rosse e alla fine - con un’accelerazione di ritmo della comicità, che oscilla sempre tra Villaggio e Verdone - il papa in persona (Paolo VI) con un clistere in mano a mo’ di aspersorio.
Oltre al suo romanzo più bello, Zero maggio a Palermo, il primo, ambientato anch’esso negli anni Settanta ma scritto con grande leggerezza e poesia, questo nuovo libro di Abbate fa pensare al precedente Roma, la sua «guida non conformista» alla città. Quando è la rivoluzione è affollato di personaggi realmente frequentati dall’autore, che a questo proposito si abbandona, durante la narrazione, ad alcune digressioni. Il rischio è che l’attesa suscitata nel lettore da un’idea indiscutibilmente originale (l’improvvisa presa del potere dell’Unione dei comunisti nel loro momento di massimo fulgore) venga penalizzata dalla propensione all’omaggio e alla rievocazione di Abbate.
Il quale ama citare anche i nomi delle vie dove abitavano i vari Mastroianni, Sordi, Tognazzi, Pasolini o dove avevano sede i bar e i ristoranti più di moda della città, come se la guida Roma - un libro in cui, attraverso numerosissimi aneddoti, si passano in rassegna luoghi e protagonisti della vita mondana della Capitale - gli fosse rimasto ancora un po’ nella penna.

L’Unità 1 aprile 2008

Gabriela ha 50 anni, inventò il sesso senza peccato
di Franco Mimmi

Profumo di garofano, colore di cannella, Gabriela compie 50 anni ma è giovane, fresca e più o meno ventenne come quando Jorge Amado la diede alla luce, nel maggio del 1958. E già, senza neppure aspettare il giorno anniversario, è di nuovo nelle librerie di tutto il Brasile in una edizione (la numero 80) lanciata dalla casa editrice Companhia das Letras, che l’anno scorso battè le altre grandi case brasiliane e si aggiudicò i diritti delle opere dello scrittore baiano morto nel 2001. Ignoto il lato economico dell’offerta, che prevedeva pure la divulgazione nelle scuole e una intensa campagna di marketing per ridare smalto alle opere di Amado - ben 35 titoli - secondo i desideri della famiglia.
E infatti ecco già in vista l’omaggio ad Amado, che si è tenuto a Rio de Janeiro il 19 marzo, nell’Accademia brasiliana delle lettere. Ecco, a Rio e a San Paolo, la mostra Jorge Amado nel cinema. E il lancio ufficiale della collana, cui parteciperanno artisti come Caetano Veloso e Chico Buarque. Poi una esposizione fotografica. Poi uno show di Nana, Dori e Danilo Caymmi, figli del famoso cantante e compositore Dorival Caymmi che fu grande amico di Amado e scrisse quasi tutte le canzoni per i film e gli sceneggiati televisi tratti dai suoi romanzi. Autore, tra l’altro, della Modinha para Gabriela che nel 1975 accompagnava in tv, cantata da Gal Costa, una Sonia Braga allegra, spontanea, sensuale e primitivamente amorale (ma né lei né Marcello Mastroianni, nella parte del sirio Nacib, sarebbero riusciti a salvare dalla mediocrità il film di Bruno Barreto di otto anni dopo). Paradossalmente Bahia, terra natale dello scrittore, entrerà per ultima nel programma, in aprile, ma col vantaggio di poterlo fare nel bell’edificio azzurro che ospita la «Fondazione Casa di Jorge Amado» in pieno Pelourinho, il centro coloniale di Salvador.
Gabriela cravo e canela è la storia di una ragazza che nel 1925, durante uno dei peggiori periodi di siccità mai sofferti dal Nordeste, emigra dall’interno a Ilhéus, città costiera che sta vivendo il boom del cacao, e lì conquista tutti con la sua bellezza e la sua sensualità. Sposa il sirio Nacib, per il quale faceva la cuoca, ma gli è infedele e il matrimonio viene annullato grazie al fatto che i documenti di lei erano falsi. Separati, i due finiranno per riprendere la loro relazione amorosa, mentre la città assiste alla condanna in tribunale di un potentato che aveva ucciso sua moglie e l’amante di lei: i tempi sono cambiati, e superati i concetti di una società patriarcale o addirittura feudale.
Fu il libro nuovo di uno scrittore che, già notissimo per la quindicina di titoli pubblicati, si rivelava nuovo anch’egli, distaccato dai dogmi della militanza politica che avevano caratterizzato i primi venticinque anni di una carriera letteraria incominciata a diciannove. Forse era stata, con il Congresso del Pcus del 1956, la fine dell’era e del mito di Stalin; forse era stato l’incontro con Zelia Gattai e col suo spirito italiano anarchico e ironico al tempo stesso; certo è che Amado, con la freschezza di Gabriela, aveva evidentemente trovato una nuova forma letteraria per esprimere la sua critica della realtà sociale: una forma compassionevole, partecipe, affettuosa, in cui i vecchi temi tornano (in realtà il romanzo di Gabriela si riallaccia a Terre del finimondo e a São Jorge dos Ilhéus, ovvero al cosiddetto «ciclo del cacao»), la volontà di denunciare lo sfruttamento delle classi lavoratrici resta, ma con un umorismo che smussa la crudezza delle vicende narrate, le storie degli uomini e delle donne (e degli orixá, i «santi» del candomblé spesso chiamati in azione) che affollano la povera, violenta, crudele, allegra, bellissima Bahia.
Il romanzo fu subito un grande successo, sei edizioni nel primo anno, poi le traduzioni all’estero, a trenta lingue, perché il personaggio di Gabriela, con la sua libertà che comportava la separazione della parola sesso dalla parola peccato, rappresentava in quegli anni una provocazione enorme (per chi sia troppo giovane per ricordare l’ipocrisia dell’epoca: il film inglese del 1957 The Naked Truth, ovvero la nuda verità, uscì in Italia col titolo La verità... quasi nuda). E infatti Amado ricevette tali minacce, dalle signore della buona società di Ilhéus offese nella loro rispettabilità, che per anni evitò di rimettervi piede.
Sbaglia, dunque, chi pensi che da questo spartiacque la letteratura di Amado si faccia folclore: sempre, nei suoi romanzi, la storia e la realtà del Brasile in genere, del Nordeste in particolare, occupano una posizione di fondo sulla quale i personaggi di primo piano proiettano vicende illuminanti. «Ogni volta - scrisse Amado - io sto più vicino al popolo, al popolo più povero, al popolo più miserabile, sfruttato e oppresso. Ogni volta cerco più anti-eroi...». E infatti le donne di Amado non si limitano a vivere le loro vite dure e sorridenti (Gabriella garofano e canella, Teresa Batista stanca di guerra), tenere e vittoriose (Dona Flor e i suoi due mariti, Vita e Miracoli di Tieta d’Agreste): esse rivendicano i loro diritti, lottano per sostenerli, pagano per questo prezzi altissimi, e se strappano ai lettori il sorriso e la commozione è perchè già ne hanno riscosso la solidarietà.
Eppure non era questo né il personaggio né il libro preferito di Jorge Amado, che privilegiava il Pedro Archanjo de La bottega dei miracoli. Come non capirlo? È questo il romanzo della «miscigenação», ovvero della mescolanza quasi generale di sangue bianco e nero che, per quanto negata, pervade la società brasiliana, e Pedro Archanjo è l’eroe (o l’anti-eroe) mulatto che ridicolizza questo rifiuto. Però lo stesso Amado ammetteva che la sua creatura più conosciuta era Gabriella, che solo intende di cibo e d’amore. Perché? «Perché lei - ha detto Jorge Araújo, professore di letteratura brasiliana - non obbedisce alle regole della grammatica sociale ed è capace di vivere il piacere come istanza della libertà umana». Come non appassionarsi, per una donna così.


Corriere della Sera 01.04.2008

Internet Sul primo numero Cacciari ed Eco. Verrà presentata questa sera a Milano
Ecco «Sophias», rivista online di filosofia

Di Armando Torno

Questa sera alle 18, alla Casa della Cultura di Milano (via Borgogna, 3) verrà presentata Sophias, rivista online quadrimestrale gratuita di filosofia. Diretta da Chiara Colombo, laureanda poco più che ventenne alla Cattolica di Milano, nel Numero 0 — già disponibile in rete: www.ilmondodisofia. it — sono ospitati, oltre l'editoriale, interventi di Massimo Cacciari (è l'articolo «Fare» scritto per l'Enciclopedia
filosofica Bompiani), Alessandro Ghisalberti ( L'abisso in Sant'Agostino)
e Massimo Marassi ( Il concetto di campo e la storia dei problemi).
Parte poi la rubrica «Contributi kantiani», curata da Piero Giordanetti, che si propone di pubblicare ogni numero note di commento ed esegesi alla Critica della ragion pura
del sommo tedesco, in modo da consentire a studenti e studiosi un aggiornamento costante su una delle opere fondamentali del pensiero. Chiudono questo numero-prova un'intervista a Carlo Sini e alcune poesie filosofiche di Umberto Eco.
Nell'incontro di questa sera si parlerà anche dell'associazione culturale «Il mondo di Sofia», sorta a Milano nel luglio 2007 con il beneplacito di Jostein Gaarder, autore dell'omonimo libro (tradotto da Longanesi). Da essa è nata la rivista. La quale non sostituisce quelle cartacee, come le prestigiose
Rivista di storia della filosofia
(Franco Angeli) o Elenchos (Bibliopolis), ma copre uno spazio in rete accessibile a un vastissimo pubblico.
In un dialogo con Massimo Marassi, professore di Filosofia della Storia alla Cattolica e padre culturale di
Sophias, chi scrive ha chiesto quali opere potranno essere continuamente commentate e chiosate online da questa rivista, accanto e oltre la Ragion pura di Kant. Ha risposto: «La
Metafisica di Aristotele e la Fenomenologia dello spirito di Hegel». E per il Novecento? Aggiunge: « Essere e tempo di Heidegger, il Tractatus di Wittgenstein». Sarà lui insieme a un abile timoniere editoriale come Mario Andreose, un appassionato che sa far di conto quale lo svizzero Silvio Leoni e un professore con crediti internazionali come Riccardo Pozzo — tutti presenti questa sera — a rendere feconda Sophias, sino a trasformarla nel portale di riferimento in Italia della filosofia.

Il Riformista 1 aprile 2008
TONINO IN RETE È MEGLIO DI MARZULLO IN TV
di Mambo: l'editoriale

Di Pietro è un mago della Rete. Il suo conflitto storico con la lingua italiana diventa pace eterna quando viaggia su Internet. È forse il politico più cliccato. Ha due blog. Il primo con il suo nome. Il secondo con quello del partito che ha fondato e a cui ha affittato il proprio appartamento per
farne una sede politica e anche un po¹ di soldi (tiene famiglia, pure il ministro). Sui blog trovi una marea di video. Di Pietro in camicia, Di Pietro con la giacca, Di Pietro che parla a Repubblica Tv. C¹è Transilvania T. che fa l¹elenco di quanto gli faccia schifo il partito di Di Pietro ma lo
vota lo stesso. Poi ci sono i rimandi a Beppe Grillo che a sua volta rimanda a Di Pietro. Poi ci sono, infaticabili, i Di Pietro bloggers. Sono tanti.
Scrivono su tutto. Fino a ieri notte sono stati 917 sui temi del lavoro, 642 sulla sicurezza, 779 sulla legalità, 852 sulla politica, 728 sull¹informazione. Si può dire che sia riuscito a Di Pietro, attraverso la Rete, il collegamento della politica più mestierante con l¹antipolitica. E
si sfiora il sublime. Scrive un candidato da eleggere al Nord, il medico di Napoli Antonio Palagiano: «Devo presentarmi, a volte raccontarsi diventa una necessità per fermare un momento, un¹emozione, un¹esperienza. Per parlarsi.
Per capirsi... Non morire mai completamente in tutte quelle volte in cui in una vita si muore per poi rinascere di nuovo». E qui capite che il nuovo di Walter incontra inesorabilmente Gigi Marzullo.

Il Giornale di Vicenza 1.04.2008
Filosofia. Il fallito tentativo di completare "Essere e Tempo" in un saggio rimasto inedito e che doveva essere pubblicato solo cent'anni dopo la morte
Il naufragio di Heideggernel gran mare dell‚Essere
di Franco Volpi

Dalla baita di Todtnauberg, nell'alta Foresta Nera, «dove tutto è ancora come una volta», il 18 settembre 1932 Heidegger scriveva all'amica Elisabeth Blochmann: «Per il momento sto studiando i miei manoscritti, cioè leggo me stesso, e devo dire che, in positivo e in negativo, mi risulta molto più fruttuoso di altre letture». Forse che qui „la volpe Heidegger" - come lo apostrofava Hannah Arendt - cominciava a mordersi la coda? No, Heidegger cercava soltanto di ritrovare se stesso e di portare a termine Essere e tempo, l'opera pub blicata come „Prima parte‰ nel 1927 e di cui il mondo filosofico aspettava la seconda. Nella stessa lettera aggiungeva: «Già si fanno speculazioni e discorsi sul fatto che starei scrivendo Essere e tempo II. E va bene. Tuttavia, dato che Essere e tempo I è stato per me un cammino che mi ha portato da qualche parte ma che adesso non è più ba ttuto ed è ormai ricoperto di vegetazione, non posso più assolutamente scrivere Essere e tempo II. Né sto scrivendo alcun libro».
Heidegger stava in realtà pensando a una nuova grande opera, i Contributi alla filosofia, in cui intendeva riprendere la problematica della parte rimasta inedita di Essere e tempo. A interrompere il progetto sopraggiunse il fatale intermezzo politico del 1933, e solo dopo le dimissioni da rettore Heidegger ritroverà la concentrazione per realizzarlo. Tra il 1936 e il 1938 stende la nuova opera, ma la lascia inedita e dispone che sia resa pubblica solo a cent'anni dalla sua morte. Contrariamente al suo volere, essa è stata edita nel 1989 per il centenario della nascita, ed è ora tradotta da Adelphi (anche se priva di una adeguata introduzione, in ottemperanza a un'ottusa disposizione degli eredi, cui peraltro altri editori italiani, a ragione, non si attengono).
NUOVO APPROCCIO ALL‚ ESSERE. Avvolti in un'aura esoterica, e salutati come il secondo capolavoro di Heidegger, in realtà i Contributi rimangono ancora tutti da spiegare e da interpretare. Costruiti su un'ardita architettonica e scritti in un linguaggio insolito e ostico, sono il tentativo più organico e coerente - dopo la cosiddetta „svolta", cioè dopo l'interruzione del progetto di Essere e tempo - di trovare un nuovo approccio al problema dell'Essere. Essi squadernano un universo speculativo profondamente diverso e sorprendente rispetto a quello di Essere e tempo. Abbandonata la comprensione quasi trascendentale dell'esistenza, concentrata sul suo autoprogettarsi nel futuro, l'attenzione si rivolge ora alla immemoriale provenienza della fatticità: all'Essere stesso. Già, ma come pensare l'Essere se in linea di principio esso si sottrae alla nostra presa? La via tentata da Heidegger si orienta su un concetto, «intraducibile al pari della parola greca Logos e di quella cinese Tao», come egli stesso dichiarerà: Ereignis, "evento-appropriazione". Esso indica la coappartenenza di Essere ed essere umano, caratterizzata da una alternanza di manifestazioni e occultamenti che ritmano le „epoche" della storia tra un primo inizio greco e l‚"altro inizio" postmetafisico. Intorno a tale concetto Heidegger o rchestra tutta una serie di motivi, tra cui una sua diagnosi della modernità come epoca segnata dal „deserto che avanza" del nichilismo, cioè dalla dimenticanza dell'Essere e dal predominio dell'ente. E sceglie due figure di riferimento, che trasfigura in simboli: Nietzsche, che porta a compimento la metafisica, e Hölderlin, il poeta degli dei fuggiti, che annuncia l'evo a venir e.
IN MANOSCRITTO. I Contributi, consentono di scorgere l'ampio disegno speculativo sotteso alle meditazioni apparentemente disparate dello Heidegger dopo la „svolta". In ciò sta senza dubbio la loro importanza. Ma essi rimangono un'opera di transizione, lasciata non a caso allo stato di manoscritto, in cui chi sa leggere percepisce la cautela, la vigilanza critica e l'insoddisfazione di Heidegger nei confronti dei suoi stessi concetti. Si ha l'impressione - venuta meno la sorpresa iniziale e frequentato il testo con una certa assiduità - che il genio filosofico di Heidegger, la sua fantasia e la sua creatività si isteriliscano e subiscano un'involuzione. Forse per la natura stessa dell'interrogare filosofico, che spingendosi alla massima radicalità non si ferma dinanzi a nulla ma attacca e corrode tutto. Forse perché il pensare di Heidegger finisce per girare a vuoto, rinchiuso nel recinto della sua intelligenza come in una gabbia. In questo senso, anche lo stile dell'opera non è - come si è detto - sentenziale o aforistico, ma è qualcos'altro: ha la brevità, l'insistenza, la ripetitività che sono tradizionalmente proprie dei mantra, dell'orazione e della litania, più che dell'argomentazione filosofica.
CORPO A CORPO CON NIETZSCHE. Alla fine della stesura dei Contributi - che coincide c on il corpo a corpo con Nietzsche svolto nelle lezioni universitarie coeve - Heidegger cade in una profonda crisi filosofica e personale. Medita anche il suicidio, come si può inferire da un testamento (Le mie ultime volontà) di cui gli eredi negano l'esistenza. A Jaspers confiderà sconsolato: «Ho la sensazione di crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami». Effettivamente il fuoco appiccato da Nietzsche brucia ormai per tutta la casa, e Heidegger non trova più concetto, intuizione o proposta filosofica che resista a una interrogazione filosofica radicale. L'esperienza di Nietzsche vuota le sue metafore, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per lui l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Ma quanto più i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, tanto più i sentieri gli appaiono interrotti.
[\FIRMA]FEROCI CRITICHE. -La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo „procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Si è detto: Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio. Richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti. Demonizza la tecnica fi ngendo di accettarla come destino. Fabbrica una visione del mondo catastrofista. Azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - e soffia sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso. La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Non è detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se così fosse, allora i Contributi alla filosofia, questo tentativo fallito di completare Essere e tempo, sarebbero davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo al largo nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo c he si offre alla vista è sublime.



lunedì 31 marzo 2008

La Republica, lunedì 31 marzo 2008
È uno degli interpreti più promettenti della nuova generazione, protagonista per i registi più diversi da Paolo Virzì a Francesco Patierno e Paolo Franchi
Elio Germano: "Recitare non è una gara"
Non penso al mio lavoro come a una gara sportiva, invece vince la competizione, la ricerca del migliore del momento È assurdo
di MARIA PIA FUSCO

Se il talento di un attore si misura dalla varietà dei personaggi, Elio Germano è il più bravo della sua generazione. Romano di Monteverde, 28 anni, interprete di tanto teatro off e di oltre venti film, stupisce ogni volta per la capacità di cambiare fino all´irriconoscibilità, dal giocatore Baldini di "Il mattino ha l´oro in bocca" di Patierno al venditore invasato di "Tutta la vita davanti", al misterioso Luca di "Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi, il film di Venezia, dove il giudizio fu falsato dal giro di gossip sulla fugace apparizione di nudo, «un nudo necessario alla vicenda e tutt´altro che scandaloso», dice lui.
"Nessuna qualità agli eroi" è il film che più gli sta a cuore «perché è stata un´esperienza personale importante, Paolo ci ha chiesto di fare un percorso personale, vivere un´avventura emotiva anche a costo di mettersi in crisi. È un film, però è stato un concentrarsi su tematiche che riguardano il rapporto con i genitori, con l´autorità, soprattutto con noi stessi, perché è difficile liberarsi dell´autorità paterna, è un giudice impietoso che resta dentro di noi, non ci fa sentire mai all´altezza».
Vede il suo lavoro come una possibilità di scoperte nuove?
«Il bello di questo lavoro è stupirsi sempre, di se stessi e degli altri. L´attore è innamorato degli esseri umani in tutte le sfaccettature, positive e negative, anche esasperando come nel venditore di Virzì, quasi un cartone animato. Baldini è diverso, è vittima di una dipendenza, distaccato dalle emozioni, senza responsabilità, vive una vita non sua, ma con una leggerezza che è la sua via di salvezza. È degli anni Ottanta, allora si affermò la tendenza a non interrogarsi sul senso di quello che si fa, ma andare avanti, avere di più, comprare prodotti sempre nuovi».
Lei non è così.
«Cerco di non essere così, ma siamo tutti portati ad esserlo almeno in parte, se dovessimo essere rigorosi e fedeli alle nostre idee non dovremmo più lavorare ma scendere in piazza tutti i giorni o andare a mettere le bombe. Ho capito che non si può essere puri fino in fondo, bisogna solo cercare di essere sereni e felici».
Ci riesce?
«Ci provo, ce la metto tutta, anche per rendere sereni e felici gli altri. E ce la metto tutta per cercare di cambiare le cose. Domani potrei avere figli. Non so che padre sarò, ma mi fido di chi mi sta intorno, credo fortemente nella socialità, nella condivisione delle cose, un valore che si sta perdendo, tendiamo ad isolarci. Io ho avuto la fortuna di crescere per strada e quattro mesi all´anno a Duronia, nel Molise, il paese dei miei, tra ragazzi di ogni genere, anche cattivi, forse la mia è l´ultima generazione cresciuta così. Se avessi un figlio, non vorrei che crescesse solo con i genitori o davanti a un televisore».
Esiste solidarietà tra attori della sua generazione?
«Ci si ritrova tra chi ha la stessa passione per lo stesso mestiere, ma è una minoranza. Qualsiasi mestiere dovrebbe essere avvertito come qualcosa al servizio di una comunità, purtroppo la prospettiva è cambiata, il lavoro è visto come mezzo per la riuscita personale, i soldi, il successo. Per la mia categoria è meno pericoloso, mi fa più paura per lavori come i medici, gli insegnanti, chi ha tante responsabilità nei confronti della comunità».
Come reagisce al paragone tra lei e altri, per esempio Scamarcio?
«Lo trovo assurdo perché non penso al mio lavoro come a una gara sportiva, invece vince la competizione, la ricerca del migliore del momento. È assurdo, un attore si confronta sempre con il mistero della riuscita di un progetto, che non dipende solo da lui e soprattutto non è identificabile in termini numerici a meno che non si parli del successo al botteghino. In questo caso Scamarcio stravince. Abbiamo fatto un film insieme e se non ci fosse stato lui non avrebbe incassato così tanto. In termini qualitativi però il giudizio è soggettivo, un attore può piacere ad alcuni ed essere detestato da altri».
Ha amici tra gli attori?
«I miei amici sono quelli del mio paese e del quartiere, quelli con cui sono cresciuto. Loro sono la sicurezza per me che faccio un mestiere in cui l´unica certezza è l´insicurezza».
Lei è anche autore di racconti e musicista con il gruppo Le bestie rare.
«Per i racconti non ho più tempo, ma con il gruppo abbiamo appena finito un disco, Come un animale. Siamo in tre, facciamo un genere tra punk e stornello, più che l´hip hop americano che non ci riguarda. I titoli sono Precario, Signor padrone, Mondiali 90, cose anche molto forti. Per me è un modo di dire cose che non posso come attore. Abbiamo sempre venduto i dischi ai concerti, ora il dramma è che vorremmo un distributore ma chi è disposto vorrebbe lanciare il gruppo di Elio Germano. Non è giusto, Le bestie rare esistono da dieci anni, prima che io conoscessi un po´ di popolarità. Magari lancio un appello».




La Republica, lunedì 31 marzo 2008

L’antiberlusconismo è finito, parola di Silvio a Newsweek:

Il leader del Pd smentisce il settimanale americano "Newsweek"
per il quale solo un governo in comune salverebbe l'Italia
Veltroni: "Niente larghe intese
se perdo, resto segretario del Pd"
"Nessun inciucio, chi vince governa. Poi, insieme, le riforme"
Bonaiuti (Pdl): "Abbiamo la vittoria in mano, il resto è disinformazione"

- "Nessun inciucio, niente larghe intese, chi vince governa. Poi, le riforme istituzionali si fanno insieme". Acclamato dai suoi sostenitori, Walter Veltroni visita un gazebo, uno dei tanti allestiti in tutta Italia per il Democratic Day, e smentisce le affermazioni di Newsweek. Ovvero che per l'Italia l'unica speranza di "salvarsi" sarebbe un governo in comune Pdl-Pd. "Veltrusconi", titola il settimanale americano, che piazza in copertina un volto realizzato con le facce dei due candidati, entrambi intervistati.
Ma "chi vince, governa, niente intese né coalizioni" lo dice pure Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, aggiungendo: "Il Pdl è saldamente in testa a Camera e Senato, tutto il resto è disinformazione di sinistra". E se gli organizzatori del D-Day esultano perché "sono stati contattati 6 milioni di cittadini", un milione di romani invece riceverà presto un dossier con prefazione a firma di Silvio Berlusconi e rassegna dei "disastri" compiuti, a suo giudizio, da Veltroni e Rutelli come sindaci della capitale.
Veltroni: "Niente larghe intese. Partita più che mai aperta". Quello delle larghe intese, insiste il leader del Pd, "è un tema che non esiste". E se, una volta al governo, "le riforme istituzionali si fanno di concerto", questo è tutt'altro da un governo insieme. "Nessun inciucio. Non esiste alcuna grande coalizione". Quanto al risultato del voto, a Veltroni non manca la fiducia. "Una settimana fa avrei detto che la partita è aperta, adesso dico che è più che mai aperta. Sono assolutamente ottimista. Sono loro che parlano di pareggio". Sostiene, anzi, che il risultato al Senato non sarà in bilico e che il Pd possa vincere sia a Montecitorio che a Palazzo Madama. "Nel Paese c'è la convinzione crescente che si possa veramente cambiare, nonostante una legge elettorale folle. Ci saranno sorprese".
"Se sconfitto non mi farò da parte". Veltroni promette: anche in caso di disfatta elettorale "continuerò ad assolvere l'impegno, preso con tre milioni e mezzo di persone, di fare un grande partito, finché non potrà essere superato da una scadenza analoga". Cioè finchè non ci saranno nuove primarie a eleggere un altro segretario.
"Serve leadership seria e responsabile". Veltroni ribadisce che non risponderà agli insulti o agli attacchi di Berlusconi su stalinismo, brogli e simili. Ma al Cavaliere spedisce più di una stoccata: "L'Italia ha bisogno di una leadership europea, responsabile e seria, gente che non faccia le corna nelle foto con i capi di Stato". Quanto ai suoi rapporti con Berlusconi, aggiunge (senza farne esplicitamente il nome): "Mi dà fastidio la doppiezza di certi uomini politici. Il mio principale avversario, durante la discussione sulle riforme, parlava di me come se fossi Giolitti. Ora che c'è la campagna elettorale dice quanto di peggio possibile. I miei sono giudizi politici, mai personali. Questa è quella parte trash della vita politica che io non frequento". Una critica pesante anche sulle parole del Cavaliere sulla Cei. "Diversamente dal mio principale avversario io rispetto quello che pensa la Cei e non mi permetterei mai di affermare che quello che pensa questo o quell'esponente della Cei è riferibile a mie posizioni. Si tratta di un fatto di elementare rispetto e rigore istituzionale".
"D-Day, un successo". Intanto il Pd ha richiamato in piazza il popolo delle primarie per dare "l'ultima spinta", come l'ha definita Veltroni, verso le elezioni. "Da molti anni in Italia non si vedeva una mobilitazione elettorale di tali proporzioni" commenta in serata Ermete Realacci, responsabile comunicazione del partito. Secondo i dati diffusi dal Pd, sono stati contattati più di 6 milioni di cittadini e "reclutati" un milione e duecentomila volontari pronti a impegnarsi nella fase finale della campagna elettorale.
Berlusconi contro Veltroni. "E' un affabulatore, ma il grande spettacolo che sta mettendo in scena è finito" dice il Cavaliere nell'intervista a Newsweek. "Gli italiani hanno capito che in Italia ci sono due sinistre. Che la sinistra significa 67 nuove tasse, una pressione fiscale più alta, frontiere aperte con un crollo della sicurezza, la tragedia dei rifiuti di Napoli e lo stop" ai cantieri "dei lavori pubblici. Questi sono i fatti della sinistra. Poi ci sono le belle parole e le promesse e quella è la sinistra di Veltroni".
"L'antiberlusconismo è finito". "La sinistra ha semplicemente imparato che usare questo approccio era un boomerang - ha detto Berlusconi a Newsweek. Gli italiani mi conoscono per quello che sono e per quello che ho fatto. Dopo cinque anni di governo Berlusconi sanno che non possono pensare a qualcuno più liberale di me. Guardando le televisioni e leggendo i giornali che sono di proprietà della mia famiglia, sanno che non c'è mai stato un attacco contro la sinistra. Vedono che sono l'editore più liberale. Io credo che gli attacchi radicali creino rifiuto; la sinistra ha capito che non è più conveniente continuare così".
Il Cavaliere e i "disastri" di Roma. E' un libro fotografico - 96 pagine - in cinque capitoli, dal titolo "C'era una volta il modello Roma di Rutelli e Veltroni. L'eredità della sinistra". Ed è Berlusconi a scrivere le quattro pagine dell'introduzione. "La sinistra ha costruito una città egoista", si legge, prima di un elenco dei "numeri del fallimento della sinistra" che dimostrerebbero "non il 'modello Roma' ma il 'disastro Roma'". A giorni il volume sarà spedito a un milione di romani.




La Repubblica, 31.03.2008

Il presidente della Federazione Internazionale appare in un video hard
Nudo, legato con le catene ad una panca, chiede pietà mentre viene picchiato
Video sadomaso per il boss della F1
Le torture del nazicomandante Mosley


Giochi pericolosi per Max Mosley. Il presidente della Federazione Internazionale dell'Automobile (Fia) appare in un video sadomaso di cinque ore: gioca a fare il comandante nazista che infligge torture ad alcune donne, vestite con tute a strisce bianche e nere che ricordano molto quelle usate dai detenuti ebrei nei campi di concentramento. Per News of the world è il colpo dell'anno. Mosley è sicuramente uno dei personaggi più potenti dello sport mondiale. E' molto difficile che dopo questa vicenda riesca a conservare la sua carica.
In alcuni estratti del filmato diffuso dal tabloid, Mosley, 67 anni, dà ordini in tedesco a due ragazze e conta le frustate inflitte mentre altre donne, vestite con uniformi che ricordano quelle dell'esercito nazista, osservano in silenzio. Prima di infierire sulle giovani, il numero uno della Fia, si sottopone allo stesso trattamento. Nudo, si fa ispezionare i genitali da una donna-kapò, esaminare i capelli (per vedere se ha i pidocchi), poi, legato con le catene alla panca della tortura, chiede pietà mentre la finta guardia gli frusta il sedere.
Al termine dell'orgia, racconta poi il 'News of the World', le cinque 'escort', festeggiano brindando, mentre Mosley si riveste e ricompone prima di lasciare soddisfatto l'appartamento.
Il boss della Fia è il quarto figlio di sir Oswald Mosley, fondatore del British Union of fascists, una formazione politica di estrema destra che negli anni Trenta fu alleata del partito di Benito Mussolini. Sir Mosley, morto nel 1980, fu anche amico personale di Adolf Hitler e Joseph Goebbels (nella cui casa si celebrarono le sue seconde nozze). Il 23 maggio del 1940 fu arrestato e condannato, insieme alla moglie Diana Mitford, a tre anni di carcere. Max nacque durante il periodo di reclusione della coppia.
67 anni, sposato e con due figli adulti, Mosley viene descritto dal 'News of the World' come un "pervertito sessuale sadomasochista". Sede dell'orgia nazista un lussuoso appartamento nel quartiere londinese di Chelsea, a pochi passi dall'abitazione dell'apparentemente integerrimo presidente della Fia, che in pubblico ha preso le distanze dalle ideologie naziste del padre. Recentemente ha fermamente condannato gli episodi di razzismo in Formula Uno contro il pilota di colore Hamilton.
Non è possibile fare previsioni sul futuro di Mosley, ma la sua permanenza al vertice della Formula 1 appare quantomeno in dubbio. Il presidente della Fa, tanto per fare un esempio, ha gestito tutta la vicenda della spy story Mclaren-Ferrari. Quale credibilità potrà avere adesso?

L'Unità 31.03.2008
Von Karajan, un führer sul podio
di Luca Del Fra


Comunque era un grande Heribert Ritter von Karajan, al secolo Herbert von Karajan: senz'altro il più celebre, emblematico e inevitabilmente contraddittorio tra i cultori dell'arte della direzione d'orchestra, tanto da incarnarne il simbolo nella coscienza comune. Il centenario della sua nascita, avvenuta il 5 aprile del 1908, incentiva celebrazioni, riedizioni delle sue registrazioni discografiche e di certo le inevitabili biografie d'occasione che strillano di svelare nuovi e inediti risvolti. La figura di questo musicista, che pure campeggia nelle copertine di dischi e cd sugli scaffali di tutte le famiglie, non è stata esente da controversie. E in primo luogo perché Karajan non è stato, né forse poteva essere solo un ottimo musicista, ma anche un carrierista con enorme inventiva, energia e virulenta determinazione.
Nato in una famiglia di origini greche il giovane viene benedetto fin dall'età di 9 anni quando debutta nel 1917 come pianista al Mozarteum della natia Salisburgo: Bernhard Paumgarten lo ascolta eseguire la Fantasia K 397 di Mozart, gli fa i complimenti e senza mezzi termini gli spiega che mai sarà pianista, ma potrebbe diventare un direttore d'orchestra. Il fanciullino prodigio s'impegna, però si trasforma nel «Wunder Karajan», il miracolo Karajan, con le apparizioni al Festival di Salisburgo del 1929 e del 1934 e subito dopo quando arriva in Germania entra nelle simpatie dei gerarchi nazisti, e s'iscrive al partito diventando così ad Achen (Acquisgrana) il più giovane «Generalmusikdirector» del Reich. I trascorsi nazisti e l'essere il favorito di Hermann Göring di cui frequentava la cricca di gaudenti debosciati sono stati spesso rinfacciati a Karajan, che tuttavia ha più o meno ammesso i fatti, spiegando come la scelta era forzata al fine di lavorare e far carriera. Tuttavia alcuni biografi hanno precisato come Karajan s'iscrisse al partito nazista austriaco fin dal 1933 - prima di trasferirsi in Germania e ben prima dell'Anschluss (1939)-, senza rifiutare di aprire i suoi concerti con «Horst Wessell Lied», inno amatissimo dalle camice brune. Il giovane direttore viene trattato come un beniamino quando nel 1942 sposa Anita Güttermann, figlia di un magnate industriale, ma nipote di un ebreo, secondo la legislazione nazista una Vieterljüdin (un quarto ebrea) a cui, per decisione del partito, viene concessa la qualifica di quinta «Ariana onoraria del Reich». D'altra parte dopo il '42 Karajan cadrà in disgrazia presso i gerarchi di Berlino, e si rifugerà in Italia prima a Milano poi a Torino fino alla fine della guerra.
In ogni caso le avventure con la croce uncinata di Karajan possono essere una chiave per capire anche la sua ascesa e maturazione artistica avvenuta senza ombra di dubbio dopo la guerra, collegata a un culto della personalità e un autoritarismo a dir poco inquietanti. Dittatoriale con le orchestre, Karajan è stato un musicista di grandissima finezza interpretativa poiché riusciva a unire qualità all'apparenza contraddittorie. Curava i dettagli nelle prove con attenzione certosina, e le sue concertazioni delle opere di Giuseppe Verdi hanno aperto nuove prospettive sulla musica del bussetano. Al tempo stesso quando arrivava all'esecuzione dal vivo era un demiurgo in grado con il suo carisma di galvanizzare sia i musicisti che il pubblico. Se il pianissimo era un sussurro, il peso sonoro di un fortissimo di Karajan poteva anche atterrire, e l'orchestra, pur esaltata, non sfilacciava il suo suono in caciara, che oggi è la norma anche in un mezzo forte. La grande tradizione tedesca, di cui era certo erede, l'ha saputa rinnovare con idee spesso illuminanti: esemplari da questo punto di vista sono le sue esecuzioni di Anton Bruckner, Richard Strauss e soprattutto di Richard Wagner: la registrazione de L'anello del Nibelungo fu un salto epocale nell'interpretazione del ciclo che da massiccio e roboante si dischiuse a un'interpretazione musicale piena di delicate sfumature. Dalle magnifiche interpretazioni di questi compositori nasce l'idea, forse riduttiva, di un Karajan decadente. Ma il vitalismo che riusciva a imprimere alle esecuzioni resta esperienza memorabile e irripetibile, oltretutto difficilmente restituita dai dischi, basti pensare alla registrazione pirata dal vivo dei Maestri cantori di Salisburgo del 1974.
Con Karajan è anche il sistema della musica classica a compiere un indiscutibile giro di boa: dopo Arturo Toscanini è lui ad afferrare la potenza dei mezzi di comunicazione, che spesso sfuggiva ad altri direttori, e a decuplicarne l'efficacia. Se il parmense è stato il primo a registrare tutto il suo repertorio sinfonico e una parte di quello operistico, il salisburghese ha lasciato non solo tutto il suo repertorio sinfonico e quello operistico - spesso inciso anche in diverse edizioni con la scusa dei progressi della tecnica - ma anche moltissimi brani che dal vivo non ha mai eseguito o lo ha fatto molto raramente e a cui non sembrava troppo interessato. Nel complesso, una montagna di registrazioni la cui qualità complessiva a posteriori lascia qualche perplessità - naturalmente rispetto al livello che ci aspetteremmo da Karajan. L'assalto al sistema musicale avviene per tappe successive: nel 1955 alla morte di Willhelm Furtwängler gli succede alla testa dei Berliner Philharmoniker, carica che mantiene fino alla morte, avvenuta nel 1989, ed è l'ultimo direttore a vita della più celebre orchestra tedesca.
Nel 1967 conquista la direzione artistica del Festival di Salisburgo, e dirige in tutti i maggiori teatri europei: Vienna, Parigi, Milano, Londra, spesso con ritmi da capogiro. Per lui vengono coniate la scherzosa e un po' stizzosa definizione di «Generalmusikdirector» d'Europa, nonché una barzelletta molto in voga: il maestro entra in un taxì, il conducente gli chiede «Dove andiamo?» e lui risponde: «Dove vuole, tanto sono richiesto ovunque».


PERSONAGGI Il 5 aprile di cento anni fa nasceva l’uomo che divenuto il prototipo del direttore d’orchestra dei nostri giorni. Grandi risorse ma altrettanta disponibilità a servire il nazismo per far carriera. Dalle feste di Göring ai Berliner...

L'Unità 31.03.2008

Quando Amaldi salvò la fisica italiana dal disastro
di Pietro Greco

Nell’estate del 1938, settant’anni fa, un nutrito gruppo di scienziati italiani scrivono un manifesto dal titolo «Il fascismo e il problema della razza» in cui si afferma che le razze umane esistono; che tra loro c’è una gerarchia di capacità; che esiste una «razza italiana»; che questa razza va tutelata e che di essa non fanno parte gli ebrei, con cui va evitato ogni contatto di sangue. Sulla base di questo manifesto il regime vara, nelle settimane successive, le famigerate leggi razziali, il presupposto per la persecuzione anche in Italia degli ebrei.
Tra le prime conseguenze delle leggi razziali c’è l’inizio di quel «disastro» della scienza italiana che si consumerà per intero durante la successiva seconda guerra mondiale. Il «disastro» è dovuto sia al fatto che gli scienziati di origine ebrea devono abbandonare le università, sia al fatto che viene violentemente perturbato un ambiente relativamente protetto. Basta fare il caso della fisica, per rendersi conto di cosa tutto ciò ha significato. C’erano, a quell’epoca, due scuole di fisica in Italia che avevano raggiunto un valore mondiale. Quella sui raggi cosmici, costruita, tra Firenze e Padova, intorno alla figura di Bruno Rossi e quella di fisica nucleare, costruita, a Roma, intorno alla figura di Enrico Fermi. Entrambe vengono letteralmente dissolte dalle leggi razziali.
Bruno Rossi - che è ebreo ed è imparentato con la famiglia Lombroso, invisa al fascismo - deve fuggire dall’Italia e riparare negli Stati Uniti. Con lui la scuola sui «raggi cosmici» si disperde.
Stessa sorte tocca alla scuola romana. Enrico Fermi, che ha la moglie ebrea, approfitta dell’assegnazione del Premio Nobel, nel dicembre 1938, per emigrare in America. Lo stesso fanno Emilio Segré (che è ebreo) e Franco Rasetti (che ebreo non è, ma che è disgustato dalla situazione). Quanto a Bruno Pontecorvo (ebreo), resta in Francia, prima di scappare in America e sfuggire alle truppe hitleriane appena inizia la guerra. Dei «ragazzi di via Panisperna» solo Edoardo Amaldi resta in Italia: tutti gli altri sono perduti per sempre.
A Edoardo Amaldi, per pura coincidenza, è legato una seconda ricorrenza quest’anno: corre, infatti, il centenario della nascita, avvenuta a Carpaneto Piacentino, in Emilia, il 5 settembre 1908. Ed è una ricorrenza significativa, perché sarà proprio Amaldi ad assumersi sulle spalle la ricostruzione della fisica (e, per certi versi, dell’intera scienza) italiana dopo il disastro (la definizione è sua) delle leggi razziali e della guerra fascista. Un compito che svolge con lucidità e creatività. Anzi, con un metodo che ancora oggi risulterebbe straordinariamente attuale. Celebrare Amaldi significa dare una precisa indicazione alla scienza italiana e al paese intero.
Amaldi comprende che i tempi dei «ragazzi di via Panisperna», quando si poteva fare buona fisica con pochi mezzi e poco supporto politico, sono finiti per sempre. Sa che Fermi è andato via non solo per le leggi razziali, ma anche perché il regime gli aveva negato i fondi necessari per conservare l’assoluta eccellenza italiana in fisica nucleare. Sa, infine, che a conflitto finito e dopo il successo del progetto Manhattan negli Usa il problema non è quello della penuria di fondi, ma al contrario dell’eccesso di finanziamenti. In queste condizioni, i fisici italiani devono riunirsi, individuare poche tematiche, a basso costo e ad alta potenzialità scientifica, da sviluppare in pochi centri. È seguendo questa linea che, negli anni successivi, verrà fondato l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e che il nostro paese riuscirà non solo a ricostruire un buon ambiente di ricerca, ma anche a produrre una «via italiana alle alte energie».
Ma Amaldi sa che esiste anche un problema di scala. E che questo problema può essere risolto solo in sede europea, con una strategia «politica»: che usa la fisica per rafforzare la pace nel continente. Questa idea può essere realizzata, in pratica, creando in Europa un centro di ricerca comune, paragonabile anzi superiore ai centri americani. Per affermare questa idea deve vincere lo scetticismo, più o meno interessato, non solo dei colleghi americani (tra cui Isidor Rabi), ma anche dei più illustri fisici europei, inclusi Niels Bohr. Ma alla fine è la linea Amaldi che si afferma. E a Ginevra negli anni ‘50 nasce il Cern, il centro europeo di fisica nucleare: il più grande laboratorio del mondo. Amaldi diventa il primo Direttore generale del centro.
Ma Edoardo Amaldi sa che creare una fisica europea e integrarvi la ricerca italiana non basta. Occorre anche creare delle scuole di eccellenza (a lui si devono le prime scuole di formazione post-laurea) e integrare la fisica di base con la fisica applicata. Perché, ormai, nessuna delle due può essere sviluppata fino in fondo senza l’altra. E così si impegna direttamente anche nella realizzazione di un gruppo misto formato da scienziati, economisti e industriali, il Cise, per utilizzare l’energia nucleare a scopi civili. La fisica applicata, nella visione di Amaldi, non deve (non può) essere fine a se stessa, ma deve assolvere a due scopi, peraltro legati: creare le premesse, anche in Italia, perché si affermi un modello di sviluppo fondato sulla ricerca e dotare il nostro paese dell’indipendenza energetica (lo stesso progetto, assolto in altre forme, di Enrico Mattei).
È evidente che Amaldi assegna a se stesso e ai suoi colleghi scienziati una «funzione nazionale», di classe dirigente a tutto tondo, che si fa carico dei problemi complessivi del paese. Non è, dunque, un orpello il fatto che si impegni direttamente e fondi l’«Unione scienziati per il disarmo», un'organizzazione che si batte, con solidi argomenti, per la pace.
Il grande progetto di Amaldi - ricostruire la fisica italiana lacerata dalle leggi razziali e dalla guerra fascista facendone un motore della ricostruzione generale del paese - non si realizza per intero. Conosce notevoli successi: nella fisica fondamentale, nel ruolo dei fisici italiani per la pace. Ma anche forti insuccessi (non certo per colpa sua): l’Italia non si doterà di un modello di sviluppo fondato sulla ricerca e rinuncerà non solo al nucleare civile, ma anche al principio, ancora oggi valido, dell’indipendenza energetica.
Oggi conviene celebrare Amaldi non solo per il suo genio scientifico. Ma anche e soprattutto per questa capacità progettuale. Non solo perché tutte le sue principali strategie d’azione conservano intatte la loro validità. Ma anche e soprattutto perché nel loro combinato disposto c’è il modo - forse l'unico possibile - per uscire dal declino cui è avviato il nostro paese.


SETTANTA anni fa venivano promulgate le leggi razziali che azzerarono la comunità scientifica. Ma Edoardo Amaldi riuscì a ricostruire la fisica a livelli «alti». E quest’anno ricorre il centenario della sua nascita

L'Unità 31.03.2008
Scoperti i resti del primo antenato
dell’uomo che arrivò in Europa
di Cristiana Pulcinelli

È una mandibola importante quella che alcuni paleoantropologi hanno rinvenuto nel sito Sima del elefante nel nord della Spagna. Aveva ancora alcuni denti ed è stata trovata assieme a utensili litici e a resti di animali. La datazione dei fossili ha permesso di capire che si tratta di resti di oltre un milione di anni fa. Questo vuol dire che ci troviamo di fronte ai reperti di quello che potrebbe essere il primo ominino d'Europa.
Nella categoria Ominino rientrano tutti gli antenati dell'umanità attuale fino alla separazione dallo scimpanzé che avvenne intorno ai sei milioni di anni fa.
La prima occupazione dell'Europa da parte degli ominidi è uno dei punti più dibattuti della paleoantropologia. Anche i siti più importanti con testimonianze del primo Pleistocene finora avevano restituito solo utensili, ma non fossili umani. Così la scoperta di questo gruppo di scienziati spagnoli diventa particolarmente interessante.
Eudald Carbonell e i suoi colleghi hanno pubblicato la loro scoperta sul nuovo numero di Nature. La datazione dei fossili è stata ottenuta utilizzando diversi metodi, inoltre la biostratigrafia ha permesso di calcolare l'età della roccia nella quale i fossili sono stati rinvenuti. E la data è molto indietro nel tempo: tra 1,1 e 1,2 milioni di anni fa.
Gli utensili rinvenuti mostrano tracce di lavoro umano. Anche le ossa degli animali trovati nello stesso luogo mostrano i segni di raschiamenti fatti con qualche tipo di utensile, ad esempio per estrarre il midollo dalle ossa. I fossili degli animali, peraltro, sono molto più primitivi di quelli trovati nelle vicinanze. Gli ominini probabilmente si riparavano nella grotta dove sono stati rinvenuti e lì mangiavano.
Gli autori dell'articolo pensano che l'ominino trovato faccia parte della specie Homo antecessor, un possibile antenato sia dell'uomo di Neanderthal che dell'uomo moderno. Dai ritrovamenti sembrerebbe quindi che l'Europa occidentale sia stata colonizzata durante il primo Pleistocene da una popolazione di ominidi che arrivavano dall'Est. Probabilmente una espansione precoce degli ominidi che venivano dall'Africa. Una colonizzazione quindi avvenuta molto prima e in modo molto più continuativo di quanto pensato finora. Inoltre, confrontando questi resti con quelli rinvenuti in siti vicini, sembra di poter affermare che qui, in questa estrema regione del continente eurasiatico, avvenne una speciazione, ovvero si è formata una nuova specie da quelle preesistenti attraverso un processo evolutivo.

Corriere della Sera 31.03.2008
A sinistra Il candidato premier dell'Arcobaleno e il nodo della precarietà: bisogna restituire un futuro ai giovani
Bertinotti: non rinnego Prodi, noi spariti senza quell'esecutivo
Di Giuliano Gallo

DAL NOSTRO INVIATO
BARI — «Ci abbiamo provato, a governare. Non ci potevamo sottrarre, del resto: l'attesa di un cambiamento dopo 5 anni di Berlusconi era grande. E se non l'avessimo fatto, la sinistra avrebbe smesso di esistere, sarebbe stata cancellata. Il governo Prodi, anche se alla fine è stato deludente, ha fatto cose che non dobbiamo rinnegare. Penso soprattutto alla politica estera. Non si può dimenticare che ci siamo ritirati dall'Iraq». Nei suoi tre giorni di viaggio fra le piaghe del Sud, Fausto Bertinotti ripete più volte la confessione di quella che vive come una sconfitta. Davanti agli studenti di Arcavacata a Cosenza, in un comizio a Reggio Calabria. E ancora a Messina, a Palermo, a Bari. Dovevamo farlo, ripete. «Ma già a luglio, quando non erano state nemmeno prese in considerazione le nostre richieste su come impiegare il "tesoretto", avevamo capito che la nostra esperienza era fallita». E' un viaggio tutto in salita, quello del presidente della Camera. Un viaggio aspro, difficile, a volte pervaso da un vento di ostilità forte e generalizzata. Ma a anche un viaggio che fa brillare gli occhi al vecchio combattente. Come all'università di Arcavacata, dove si trova di fronte una platea tutta di ragazzi, e sono ragazzi che sanno bene quanto incerto sia il loro destino. Lui parla della precarietà («Un modo per governare le persone»), riflette sui genitori, emigrati per «regalare ai figli una laurea e ora costretti a vedere emigrare anche i figli».
La precarietà è il filo rosso che lega tutto il viaggio. Perfino nella casualità: al cinema Odeon, dove c'è il comizio, la sera proiettano «Tutta la vita davanti». Film sui precari, appunto. E lui di quello parla, del «supermercato della precarietà» aperto dalla legge 30. E dunque, dice, occorre «ricominciare un cammino difficile per restituire un futuro ai giovani, perché per la prima volta nella nostra storia una generazione sta peggio di quella precedente ». La sinistra che Bertinotti ha in mente è una sinistra nuova, garantisce. «Una casa comune aperta anche ai giovani fuori dai partiti, anche a quelli critici. Ma che vogliono tornare alla politica legata ai problemi quotidiani della gente».
A Messina, prima del comizio, si avventura fra i banchi del mercato comunale di piazza Zaera. Lo investe un fiume di rabbia, di frustrazione, di rancore. Non per lui in quanto leader della sinistra, ma per lui politico, faccia nota. «Il carovita è una vergogna per tutti i politici — grida un uomo —. Vi siete mangiati il Paese». Lui cerca di argomentare, di discutere, ma quelli non hanno domande da porre, solo una faccia contro cui sfogarsi. «Ma lei mi ascolta o no?», chiede ad un uomo. «E' interessato alla mia risposta? ». No, l'uomo non è interessato. A Palermo, adesso, per un altro comizio. E poi a Bari, dove lo aspetta quello che tutti considerano il suo erede, il suo delfino: il governatore della Puglia Nichi Vendola. Un pranzo da soli e poi assieme nella piazza del municipio. Dove ragazzi appassionati suonano tamburi, camminano sui trampoli, e parlano ancora di lavoro, di precarietà, del futuro.


Corriere della Sera 31.03.2008
Il caso Il ministro dell'Ambiente contestato a Taranto: «Ma erano infiltrati fascisti». Caldarola: ormai è il Mastella della sinistra
Fischi in Campania e Puglia, la difficile campagna di Pecoraro
Di Fabrizio Roncone
ROMA — «Volete montarci un caso?». Ma no, signor ministro Alfonso Pecoraro Scanio: anzi, racconti lei cos'è successo l'altro giorno, a Taranto. «Beh... durante la manifestazione anti-smog, intorno al sottoscritto... beh, sì, insomma, qualcuno ha cominciato a fare un po' di ammuine (in dialetto napoletano "fare confusione, rumore", ndr)... ma erano... erano veramente solo una decina di infiltrati fascisti...».
Ammettere una contestazione non è mai facile, specie in campagna elettorale e soprattutto se la Puglia, per il ministro dimissionario Pecoraro Scanio, doveva rivelarsi una regione un poco più accogliente e solidale della sua Campania, dove gli altri grandi capi della Sinistra Arcobaleno (Bertinotti, Mussi e Vendola) hanno ritenuto fosse strategico (o fisicamente prudente?) non candidarlo: il gran capo dei Verdi italiani — che al sospetto d'essere vanitoso ha recentemente risposto «di voler soltanto vedere l'interlocutore battuto e l'ascoltatore sedotto» — era ed infatti ancora è, almeno fino alle elezioni, il responsabile del dicastero dell'Ambiente, andato lentamente in fumo, giorno dopo giorno, con i cumuli delle immondizie.
Capolista alla Camera, 49 anni, ironico, spregiudicato, coraggioso — la grande fama arrivò con il coming-out provocato da un memorabile corteo pre-Gay Pride sotto il ministero («Pecoraro vieni giù/ che sei frocio pure tu») — è tornato prepotentemente sulle prime pagine dei giornali quando, nel gennaio scorso, durante una storica puntata di Porta a porta,
accanto al governatore della Campania Antonio Bassolino, tenne botta a ogni sorta di accusa e, davanti alle immagini della guerriglia fomentata dalla camorra e attuata da centinaia di cittadini esasperati dalle colline di rifiuti, disse sì all'intervento dell'esercito. Lui che, fino a quella sera, aveva detto sempre «no» a un mucchio di cose: alle discariche e agli Ogm, al tunnel della Valsusa, al ponte sullo Stretto, al fumo nei parchi di Napoli («se, nel raggio visuale del fumatore, compaiono bambini o donne incinte »), alla pesca del tonno rosso e all'albero di Natale («è doloroso fisicamente veder tagliare gli abeti: meglio quelli sintetici, o ripiegare sul presepe. Napoletano, s'intende»).
Peccato che a Napoli non possa più farsi vedere. La Puglia era sembrato un posto vicino, e sicuro. E invece, come ammette lui stesso, «si sta rivelando una campagna elettorale complessa, specie per me, che sono ambientalista». A Brindisi, con le fabbriche che vanno a carbone. A Taranto, «dove — spiega — si produce il 70% della diossina italiana». Poi ci si mette anche il suo amico Vendola, che tuona: «Ci sono aziende che inquinano e ammazzano i bambini». Risultato: «Ogni giorno — sospira Pecoraro — devo combattere l'antipatia agli operai, spiegando che io non voglio assolutamente che siano minacciati i loro posti di lavoro...».
Poi, però, c'è pure il pregresso. Sentite Gianrico Carofiglio, magistrato e giallista di successo, candidato numero 3 al Senato per il Pd, in Puglia: «Pecoraro Scanio, dopo quello che è accaduto in Campania, si sarebbe dovuto dimettere. Io, al posto suo, mi sarei dimesso». Spostarsi di un centinaio di chilometri non ha fatto dimenticare le sue responsabilità... «Questo lo sta dicendo lei... Però, certo, sì: la gente può non aver dimenticato... è un'ipotesi plausibile ».
Ipotesi, e pure certezze. Come quelle di un altro pugliese: Giuseppe Caldarola, ex direttore dell'Unità e deputato diessino, ancora membro, e anima critica, della direzione del Pd: «Pecoraro, temo, viene ormai percepito come un Mastella di sinistra. Cerca solo il consenso, il potere, il guadagno politico personale...».
Lui, il quasi ex ministro dell'Ambiente, fa il superiore: «Scriva, per favore, che sto anche affrontando la grande questione della siccità...».

Corriere della Sera 31.03.2008
Verso i Giochi Ieri ad Atene proteste per l'accensione del fuoco olimpico. Manifestazioni in Nepal
Tibet, la Cina sgrida l'Europa
Pechino: «Forte malcontento». La fiaccola in piazza Tienanmen
Di Fabio Cavalera


PECHINO — La fiaccola olimpica è partita per il suo «Viaggio dell'Armonia», il tema scelto dai cinesi per accompagnarla fino all'8 agosto, il giorno della inaugurazione dei Giochi. Ad Atene è stata salutata da manifestanti — una ventina i fermati poi rilasciati senza accuse — che hanno urlato «Tibet libero» ed esposto uno striscione «Stop al genocidio in Tibet». A Pechino la aspetta (oggi a metà mattina, la notte italiana) una adunata di folla in piazza Tienanmen. Il luogo simbolo della politica cinese: qui è nata la Repubblica popolare e Mao si è dato al popolo dal balcone della Porta della Pace Celeste, qui è esplosa la Rivoluzione culturale delle Guardie rosse nel 1966 ed è stata repressa nel sangue la protesta degli studenti nel 1989. Quale altro luogo, se non l'anima di questo Paese, poteva essere dunque scelto per raccogliere il testimone in un nuovo passaggio della sua Storia, la vetrina della modernizzazione? Centotrenta giorni all'inaugurazione ma incombe la crisi del Tibet. A Lhasa, secondo gli esuli, ci sono state nuove proteste e i monasteri sono isolati. In Nepal le manifestazioni sono finite con cariche e pestaggi dei 20 mila dimostranti. La Cina informa invece che in un luogo di culto nella provincia del Gansu sono stati trovati striscioni, coltelli e addirittura armi. L'Europa e gli Stati Uniti chiedono moderazione ma è come se parlassero a vuoto.
Pechino mostra il volto più duro e all'Ue, che pure ieri aveva usato toni quasi da resa nell'invitare al «dialogo costruttivo », replica irritata, esprimendo «forte malcontento ». Le frasi del portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu, sono uno schiaffo all'Europa dei 27 e al suo debole documento: «Il Tibet è un affare completamente interno alla Cina. Nessun Paese straniero e nessuna organizzazione internazionale hanno il diritto di interferire al riguardo ». Il regime continua a usare due linguaggi. Un editoriale di Nuova Cina, l'agenzia ufficiale, accusa «la cricca del Dalai Lama di avere chiuso le porte del dialogo» e spegne ogni speranza. Il premier Wen Jiabao sottolinea che «l'ordine è stato ristabilito in Tibet» e che «il governo cinese ha la capacità di risolvere la questione». Come? È in un contesto difficile che comincia il «Viaggio dell'Armonia». Pechino accoglie il fuoco di Olimpia nel suo santuario dove ha celebrato le vittorie e le sconfitte, le gioie e spesso le tragedie, dove ha agitato i fiori e fatto cantare i carri armati contro gli oppositori. E per l'occasione lo riempie di poliziotti e di volontari reclutati dal Partito comunista. Non ci può essere momento migliore per dare fiato alla retorica e alla propaganda del regime che sta massimizzando gli sforzi per riscaldare i sentimenti nazionalisti e patriottici dei cinesi. La televisione copre l'evento con le dirette per l'intera giornata e i giornali hanno una sola indicazione: dedicare pagine e pagine all'evento. Sono ammesse persino le telecamere straniere, una delle ultime volte: durante le Olimpiadi il blackout calerà sulle dirette e le riprese dalla piazza «sacra ». Motivi di sicurezza.
Dopo Pechino la fiaccola volerà nel mondo. La Cina ha messo in conto le proteste in Europa e nell'unica tappa americana, San Francisco. Ingoierà amaro. Ma ciò che teme veramente sono i passaggi interni nelle aree calde, il Tibet, il Gansu, il Sichuan, e lo Xinjiang, la provincia delle minoranze islamiche-uigure. È lì, fra maggio e giugno, che il regime si blinderà ancora di più a difesa della sua stabilità. Si avvicina alla prova con l'arma del nazionalismo che è sempre stata agitata nei momenti di crisi. La torcia in Tienanmen simbolo della Cina, oggi, significa questo: la Patria che chiama a raccolta contro i venti del dissenso.

Corriere della Sera 31.03.2008

La storia Salvò il reporter Schanberg e fu internato nei campi di Pol Pot

Morto il cambogiano Dith Pran eroe del film «Urla del silenzio»

Di Paolo Solon


I suoi occhi avevano visto l'inferno portato in Cambogia dai Khmer Rossi. Era stato imprigionato, torturato e infine era riuscito a fuggire dai killing fields, i campi della morte, che avevano inghiottito le vite di un milione e settecentomila esseri umani tra il 1975 e il '79. Ieri Dith Pran, fotografo e giornalista per il New York Times, la cui terribile esperienza era diventata nel 1984 un film intitolato appunto The Killing Fields (in italiano:
Urla del silenzio, di Roland Joffé), si è spento, dopo una breve malattia, in un ospedale del New Jersey. Aveva 65 anni. Accanto a lui c'era anche Sydney Schanberg, l'inviato del quotidiano americano che aveva salvato dalla morte (insieme ad altri reporter) all'indomani della vittoria di Pol Pot. Nel 1976 Schanberg fu premiato con il Pulitzer per i suoi servizi dal Sud-Est asiatico mentre Pran cercava di sopravvivere in un campo di concentramento. «Sapeva che non avremmo avuto alcuna possibilità senza di lui — ha ricordato ieri Sydney Schanberg —. Così mise in gioco la sua vita per salvare la nostra».
Il giornalista americano non fu fucilato dai Khmer rossi che avevano appena conquistato Phnom Penh grazie alla parlantina e al coraggio di Dith Pran, il suo interprete-factotum che facendosi notare dai nuovi padroni della Cambogia finì per condividere la stessa sorte di migliaia di concittadini. Poco dopo la partenza degli ultimi reporter stranieri, Dith sperimentò sulla propria pelle l'utopia di Pol Pot: le città furono svuotate e gli abitanti inviati in campagna per essere «rieducati » come cittadini di una nuova nazione «depurata » dalle influenze occidentali e borghesi. Si sa come finì l'esperimento: nel regno del terrore dei Khmer rossi, un terzo dei cambogiani fu ucciso e sepolto sommariamente. Fu poi proprio Dith Pran che, quando riuscì a fuggire verso la Thailandia, inciampando continuamente in resti umani, coniò l'espressione killing fields. «Vedo una montagna di teschi e ossa — scrisse nella prefazione al libro Figli dei campi della morte cambogiani: le memorie dei sopravvissuti —. Quello che vedo di fronte a me è troppo doloroso. Questi sono i miei parenti, gli amici, i vicini». Pran perse nei killing fields
tutta la sua famiglia: oltre 50 persone. Arrivato fortunosamente in Thailandia, nel 1979, Dith trovò ad attenderlo il suo amico Sydney Schanberg che lo portò negli Stati Uniti. Dove, oltre a rifarsi una vita, ed essere apprezzato per il suo lavoro di fotografo, continuò a tenere viva la memoria dell'Olocausto del suo popolo: «Voglio che i cambogiani, soprattutto le nuove generazioni, non dimentichino i volti dei familiari e degli amici uccisi in quel periodo. I morti ci stanno ancora chiedendo giustizia».

Corriere della Sera 31.03.2008

Il doppio fondo della Cina «moderna»



LA REPRESSIONE IN TIBET
In questi giorni la Cina appare, in moltissimi settori, come il modello di una potenza postmoderna del ventunesimo secolo. A Shanghai i visitatori ammirano i grattacieli svettanti e un'economia fiorente. A Davos e ad altri vertici internazionali i raffinati diplomatici cinesi parlano volentieri di gioco «dove tutti vincono», piuttosto che di «somma zero». I leader occidentali incontrano i loro omologhi cinesi e vedono tecnocrati convinti, che si sforzano di evitare le numerose insidie sulla strada della modernizzazione economica.
Ma di tanto in tanto la maschera scivola giù, svelando l'altra faccia della Cina. Infatti la Cina è anche una potenza ottocentesca, piena di orgoglio naziona-lista, ambizioni e rancori. Travagliata da questioni di sovranità territoriale, ricorre alla repressione per tenersi stretti, al suo interno, territori di antica conquista, mentre minaccia la guerra contro una piccola nazione insulare davanti alle sue coste.
La Cina è anche una dittatura autoritaria, seppur di tipo moderno. La natura del suo governo non è visibile per le strade di Shanghai, dove la gente gode di un certo livello di libertà personale finché non si immischia di politica. È solo quando qualcuno sfida la sua autorità che la forza bruta, su cui sostanzialmente poggia il regime, dà sfoggio di sé.
Nel 1989 furono gli studenti in piazza Tienanmen. Qualche anno fa toccò al Falun Gong. Oggi sono i manifestanti tibetani. Domani potrebbero essere i manifestanti di Hong Kong. Un giorno o l'altro, forse i dissidenti dell'isola «riunificata » di Taiwan.
Si direbbe sia questo l'aspetto immutabile della Cina, malgrado la nostra convinzione liberal-progressista che qualcosa sia cambiato. Negli anni '90, gli analisti sostenevano che era solo questione di tempo, e prima o poi la Cina si sarebbe spalancata al mondo. Si credeva che una riforma del sistema sarebbe partita proprio dall'attuale generazione di tecnocrati, non istruita a un comunismo di stampo sovietico. Persino se questi non avessero voluto le riforme, le esigenze di un'economia in via di liberalizzazione non avrebbero lasciato loro scelta: la crescente classe media cinese avrebbe preteso un maggiore potere politico, oppure la necessità della globalizzazione, nell'era di internet, avrebbe spinto la Cina sulla via del cambiamento per mantenersi competitiva. Oggi tutto questo appare solo un'illusione, un'illusione egoistica, per la precisione, dal momento che, secondo la teoria, la Cina sarebbe diventata più democratica man mano che gli imprenditori occidentali si arricchivano. Ora sembra che più un Paese si arricchisce, Cina o Russia che sia, più saldamente gli autocrati restano aggrappati al potere.
Le maggiori entrate economiche accontentano la borghesia e permettono al governo di rastrellare i pochi scontenti che manifestano le proprie opinioni su internet. La nuova ricchezza finanzia l'esercito e le forze di sicurezza, pronte a intervenire all'interno, in Tibet, o fuori dai confini, a Taiwan. E il miraggio di introiti ancor più cospicui impedisce a un mondo orientato al commercio di protestare troppo rumorosamente quando le cose si mettono male.
Il problema per gli osservatori della politica estera cinese è se la condotta interna del regime abbia alcuna rilevanza sul modo in cui si comporta nel mondo. Non dimentichiamo che negli anni '90 abbiamo presupposto che esistesse una forte correlazione: una Cina più liberale in politica interna sarebbe stata una Cina più liberale anche in quella estera, e ciò avrebbe gradualmente allentato le tensioni e facilitato la sua ascesa pacifica. Questa era la teoria alla base della strategia dell'impegno. Molti sostengono ancora che l'obiettivo della politica estera americana dovrebbe essere, nelle parole dell'esperto G. John Ikenberry, quello di «integrare» la Cina «nell'assetto liberale internazionale».
Ma un governo risolutamente autocratico può davvero entrare a far parte di un assetto liberale internazionale? Può una nazione con un'anima ottocentesca entrare in un sistema del ventunesimo secolo? Alcuni osservatori immaginano che le nazioni dell'Asia orientale potrebbero trasformarsi gradualmente in una specie di entità internazionale simile all'Unione Europea, con la Cina, si presume, nel ruolo della Germania. Ma il governo tedesco tratta il dissenso come fa la Cina? E, se lo facesse, esisterebbe un'Unione Europea?
Dopotutto la Cina non è l'unico Paese ad avere a che fare con popolazioni irrequiete e desiderose d'indipendenza. In Europa, diversi movimenti sottonazionali aspirano a una maggiore autonomia o persino all'indipendenza dal governo centrale, e con rivendicazioni meno legittime del Tibet o di Taiwan: i catalani in Spagna, per esempio, o i fiamminghi in Belgio, o anche gli scozzesi nel Regno Unito. Eppure nessuna guerra incombe su Barcellona, non si spediscono truppe ad Anversa e non si espelle la stampa internazionale da Edimburgo. Ma è qui che sta la differenza tra la mentalità postmoderna del ventunesimo secolo e una nazione che combatte ancora le sue battaglie per l'impero e il prestigio, retaggi di un passato lontanissimo.
In questi giorni gli analisti affermano che la Cina sta diventando un'«azionista responsabile» del sistema internazionale. Ma forse non dovremmo aspettarci troppo. Gli interessi delle autocrazie mondiali non sono gli stessi delle democrazie.
Noi vogliamo un mondo sicuro per la democrazia. La Cina vuole un mondo sicuro, se non per tutte le autocrazie, almeno per la propria. Si parla tanto del pragmatismo dei governanti cinesi, ma costoro, come tutti gli autocrati, sono pragmatici soprattutto nel mantenere se stessi al potere. Sarà bene non dimenticarlo, pur invitandoli ad aderire al nostro ordinamento liberale internazionale.
© 2008 Robert Kagan Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione a cura dello IULM

Corriere della Sera 31.03.2008

Rivoluzioni Il trattato di Eleonora Fiorani sul secolo delle ideologie e della tecnica

Da Freud a Internet: il lungo Novecento

Di Gillo Dorfles


Se all'alto del 2000, cerchiamo di guardare al secolo scorso, possiamo davvero parlarne come d'un secolo «a sé stante» per il quale le artificiose distinzioni temporali indicano qualcosa di effettivamente precisabile e documentabile. È quanto ha compiuto, con il consueto acume, Eleonora Fiorani, che nel suo ultimo volume arrivato in libreria ( Diversamente il Novecento,
Lupetti, pagine 240, e 18) ha cercato di definire i limiti e i confini storici, ma anche culturali, scientifici e artistici del secolo da poco trascorso. Quel secolo che ha visto alcune delle più cruente battaglie, dei più orrendi massacri nella storia dell'umanità; e che tuttavia ha dato vita a ricerche scientifiche eccezionali, a vicende artistiche del tutto innovatrici.
Basterebbero i nomi di Marx e di Einstein, quelli di Picasso e di Klee, di Freud e di Joyce a dirci che l'ingegno umano ha dato, nel Novecento rispetto ad altri secoli, il meglio (ma purtroppo anche il peggio) rispetto ad altre epoche passate.
«Il Novecento — afferma l'autrice — è il secolo delle grandi utopie di New York, di Brasilia, delle ricostruzioni, delle rivoluzioni, sia d'ottobre, cinese, cubana, che del Terzo Mondo, dei neri, delle donne, delle Avanguardie artistiche, della musica dodecafonica, dei manifesti... è il secolo del progresso scientifico, della meccanizzazione, e poi della rivoluzione informatica, è il secolo di Freud e della linguistica...
». Eleonora Fiorani ha avuto il grande merito di regalarci negli ultimi anni dei trattati di eccezionale precisione e chiarezza (la sua formazione di filosofa della scienza non l'ha mai tradita nella ricerca) su problemi di estrema «utilità» anche scolastica (come Il mondo degli oggetti pubblicato da Lupetti,
Moda corpo immaginario. Il divenire moda del mondo fra tradizione e innovazione stampato da Poli.design), ma ritengo che questo volume sia forse quello dove una visione unitaria della società e dell'arte, della scienza e della tecnica, è stata sviscerata con precisione e anche con una più intensa partecipazione.

Corriere della Sera 31.03.2008

Racconti Vicende di ordinaria e straordinaria follia

Patricia Highsmith: i fantasmi nascosti nelle case dei vicini



di ANTONIO DEBENEDETTI
C'è in questi racconti della Highsmith, ispirati a vicende di ordinaria e straordinaria follia, tutta l'irrazionalità del ventesimo secolo giunto alla sua conclusione. Ci sono i mostri da niente e le paure che abitano le giungle metropolitane, ci sono i perfidi fantasmi della solitudine e della frustrazione. C'è la paura di vivere che lotta con la paura di morire. Dominata dalla misantropia, la Highsmith non ha cedimenti moralistici, non fa prediche e non indica vie di salvezza. Descrive gli uomini come li vede, preda di eventi oscuri e di forze ingovernabili. Non fa della filosofia, comunque. Si mette sempre al servizio del lettore, lo ipnotizza, narrandogli dei casi estremi. Lo coinvolge, lo appassiona senza indorare la pillola. Basti, a titolo di esempio, citare quella sconcertante parabola in nero dell'amore paterno che si intitola «Il bottone».
Siamo a New York, in una notte di fine aprile. Roland Markow, un giovane e scrupoloso commercialista, si è portato il lavoro a casa. Sta cercando, a dispetto dell'ora tarda, di concentrarsi. Deve controllare e ricontrollare fatture, ricevute di pagamenti, bonifici e altre carte d'un suo cliente di riguardo. A un tratto, dalla stanza vicina, giunge un grido o forse un lamento o magari tutte e due le cose insieme. «Guuu...». L'uomo ha uno scatto, si trattiene a stento dall'imprecare contro l'idiota... anzi, si corregge, contro suo figlio, un povero bambino di cinque anni. Comincia cosi una vicenda, venticinque pagine, da inseguire col fiato in gola. La Highsmith, scavalcando d'impeto ogni possibile obiezione del buon senso, ricostruisce la genesi e il successivo compiersi d'un delitto raccapricciante. Descrive con spietata attendibilità un raptus omicida che più d'un lettore si sentirà comunque di poter giustificare. Roland Markow è infatti un uomo ancora giovane, fino a qualche tempo prima potenziale candidato a un'esistenza felice e vincente. Anche il suo matrimonio con Jane, donna deliziosa e innamorata, sembrava dovesse concorrere a un destino più che fortunato. Da quell'unione, fondata su una tranquilla e gioiosa attrazione reciproca, è nato però Bertie. Come definire quella povera creatura, dagli occhi vacui e dalla lingua penzoloni, se non un crudele sbaglio di natura? In ogni caso mamma Jane, con ammirevole generosità, gli si sacrifica completamente. Giunge persino a trascurarsi e a trascurare lo sposo. Un tempo bella e desiderabile, si lascia ingrassare, trascorrendo intere giornate in ginocchio sul pavimento a giocare con Berti. Il piccolo intanto sbava, emette suoni disarticolati e nulla più. Ecco il punto.
Roland, il papà, non accetta l'inferno domestico cui sembra averlo condannato il destino. Cosi, distolto dai suoi calcoli e dalle sue verifiche, ha un moto di ribellione. Esce nel buio di quella notte di aprile, cammina senza una meta. Intanto la sua esasperazione e il suo dolore si cambiano in «una rabbia rovente». Brutale. Tanto che all'improvviso, incrociando uno sconosciuto senza altra colpa che quella di essere grassottello, esce di testa. Gli salta addosso senza un perché, affonda i pollici nella gola del malcapitato e lo strozza. Poi «si china, afferra un bottone della giacca a quadri della sua vittima e lo strappa ». Quindi si infila in tasca quel trofeo e riprende la strada di casa. Quel «tondino di corno marrone», che da quel momento accompagnerà Roland ballando nel fondo d'una tasca, sarà la prova del suo riscatto. Gli ricorderà, anche nei momenti di scoramento, che «ha ucciso un uomo per vendicare Berti», cioè quello che pensa sia l'ingiusto destino di quell'innocente.
C'è un altro racconto, si intitola «Non in questa vita, forse nella prossima », che meriterebbe di figurare in un'antologia dedicata alle più agghiaccianti «short story» del secondo novecento. Racconta d'una vedova dolcemente mite, Eleonor, della sua gatta Bessie e d'un loro visitatore alto sessanta centimetri. Un essere, né uomo né animale, che a conti fatti potrebbe considerarsi la materializzazione d'una riposta, segretissima volontà di morte della protagonista. Il pensiero leggendo corre a «Miriam» di Truman Capote o a quel pezzo di bravura, nato trattando i fumi dell'irrazionale e del fantascientifico con gli inchiostri della ragione, che Ray Bradbury ha realizzato riferendo l'agghiacciante impresa d'un neonato diabolico. Un bambolotto di carne che, con strategie che appaiono agghiaccianti proprio perché in qualche modo plausibili, uccide i suoi genitori.
Nell'inquietante «Non sono bravo come gli altri», dove un tale per invidia dei vicini arriva a distruggere la propria casa, l'angoscia fa da lievito alla suspense. La poesia, come a volte in Hitchcock che nel suo «L'altro uomo» si è ispirato alla Highsmith, nasce qui da una composta freddezza nel descrivere l'orrore d'una situazione estrema.

Corriere della Sera 31.03.2008

Dibattiti Le critiche di Salingaros a City Life di Milano, Botta e Fuksas

«I grattacieli? Utopie totalitarie Serve un patto uomo-natura»



di NIKOS A. SALINGAROS
Il Corriere della Sera ha avviato un importante dibattito architettonico, anche prendendo spunto da un mio intervento apparso su Il Domenicale. Voglio sottolineare i fondamenti di questo dibattito, perché la mia è una visione nuova dell'architettura e dell'urbanistica, non un vecchio dogma riciclato per l'ennesima volta. Noi non invochiamo un ritorno al passato, anzi, siamo «noi» i contemporanei perché abbiamo una visione scientifica e, in termini filosofici, ci situiamo al centro dell'esistenza umana. Nell'attuale mondo artistico, filosofico e politico, ad alcuni piace stare in un universo astratto molto lontano dall'umanità. Si trovano libertà pervertite laggiù, dove non si deve pensare né agli esseri umani, né alla biologia umana. E dove si possono applicare delle tipologie ostili all'uomo senza la minima coscienza.
Il Corriere ha chiesto agli architetti Botta e Fuksas di rispondere alle mie idee e a quelle espresse da Roger Scruton su Il Foglio. Ammetto che questi due architetti non sono tra i miei preferiti, ma di sicuro non appartengono alla banda di «architetti da morte» contro i quali il mondo è spaventato. Perché allora questi due autori d'opere piuttosto neutrali difendono i mostri inumani d'altri architetti? Per l'autodifesa del culto. Non hanno capito ancora che un cambiamento enorme si sta sviluppando nel mondo intero, e che l'architettura e l'urbanistica di domani saranno «un'azione umana adattata alla natura».
La contraccusa del «ritorno nostalgico al passato» ha il gusto di una frittata riscaldata una volta di troppo. Le mie teorie sono basate sull'osservazione della natura e possono essere applicate da ogni architetto. Bisogna soltanto gettare nella spazzature idee fisse di bellezza intellettualizzata. Basta liberarsi dalle immagini cosiddette «contemporanee », e un architetto veramente contemporaneo potrà progettare con una facilità e una creatività sorprendenti. Siamo alla soglia di una comprensione dell'ambiente costruito come risultante dell'ambiente naturale. Qui si trova la vera e autentica nozione di sostentabilità. I grandi immobili fatti di titanio e di materiali high-tech nascondono in realtà costi enormi. Non soltanto di materiali, ma anche nell'uso (non sono sostenibili affatto, nonostante la propaganda corrente). I tre grattacieli di Milano seguono un'espressione satanica di Le Corbusier. Le torri nel parco sono un esperimento sadico, inumano, già fatto tante volte e fallito con conseguenze orribili ogni volta. Perché non possiamo imparare dai nostri sbagli? Noi scienziati lo facciamo: gli architetti non lo fanno e continuano a riprodurre tipologie inumane e insostenibili. I grattacieli di Milano negano ogni connessione all'ambiente; agiscono in un vacuo intellettualismo pericoloso. I loro architetti sanno veramente come funzionano le città, com'è legato il tessuto urbanistico tra reti di connessioni, come la città viva se è composta da una gerarchia di interconnessioni? Quale architetto di oggi fa un'osservazione scientifica? Io ho definito la città come un frattale composta da reti, nel mio libro Principles of Urban Structure.
Massimiliano Fuksas parla coraggiosamente della democrazia nell'architettura d'oggi. Mi dispiace, ma non la vedo. Quando un piccolo gruppo controlla tutto non abbiamo nessuna democrazia. Vedo architetti che possono soltanto esprimere la loro arroganza stilistica. Chi ha selezionato i grattacieli di Milano? Il popolo? Nella maggioranza dei progetti contemporanei, la selezione è in mano a un'élite intellettuale, che impone un'idea fondamentalista e totalitaria sulla città. E con tali mostruosità costruite dappertutto, la città va a morire poco a poco, perché l'infrastruttura non può sopportare il peso di questi mostri insaziabili. Non lo vede nessuno? Io vedo in ciò un gesto di sottomissione al potere del culto architettonico internazionale; il potere dalle immagini propagandistiche sostenute da un sistema artistico globale completamente corrotto.
La risposta dei giovani architetti, «non vogliamo né utopie totalitarie né ritorni nostalgici al classico», è triste. Sono pieni di speranza per un futuro migliore. Belle parole, ma non dimostrano di essersi svegliati dalla propaganda. La soluzione proposta della «terza via» è semplicemente il trucco per mantenere al potere gli architetti di culto d'oggi. Tutti gli argomenti fatti con belle parole esplodono in aria. Poveri giovani, inghiottono ancora una volta l'inganno. Aprite gli occhi e vedete i tre grattacieli in Milano: non rappresentano un'utopia totalitaria? Cosa sono dunque? Ancora una volta il trucco propagandistico ha funzionato molto bene.
Non c'è una terza via — esiste soltanto l'umano o l'inumano. Dio o Satana. Per fare la scelta, vi aiutiamo noi. Noi non torniamo al passato classico nostalgico (nonostante le accuse), ma alla natura umana biologica.

Corriere della Sera 31.03.2008

Elzeviro
Le regole, le leggi, la legalità

Il breviario civile di Gherardo Colombo



di VITTORIO GREVI
Dopo oltre 33 anni di magistratura, da circa un anno Gherardo Colombo non è più magistrato. Si è dimesso volontariamente dall'ordine giudiziario, al cui interno aveva tra l'altro svolto molte inchieste importanti e ricche di cospicui risultati. Ma ormai si era convinto che, per poter contribuire a rendere l'amministrazione della giustizia «meno peggio di quello che è», avrebbe dovuto mutare l'ambito del proprio impegno civile. E poiché la giustizia non può funzionare se i cittadini non avvertono le ragioni delle regole, la prospettiva prescelta è stata quella di adoperarsi (dunque, da ex magistrato) per contribuire al superamento delle difficoltà di comprensione, che troppo spesso contrassegnano il rapporto tra gli individui e le norme di legge.
In questa prospettiva si colloca, per l'appunto, il volume appena pubblicato ( Sulle regole,
Feltrinelli, pp. 158, e 14), che non è un saggio di diritto in senso tecnico, e nemmeno un saggio sulla giustizia amministrata nei tribunali mediante i processi. Si tratta, piuttosto, di una sorta di breviario laico di educazione civica, sviluppato con passione narrativa attraverso una serie di riflessioni semplici e lineari, tutte nascenti dalla ferma convinzione che senza l'osservanza delle regole non può esservi civile convivenza. Ma anche, nel contempo, dalla consapevolezza che parole come «regole» o «leggi» (o come «legalità», con cui si esprime l'atteggiamento dei cittadini di rispetto delle leggi) sono termini neutri, che acquistano risalto concreto solo se li si valuta nel loro contenuto. E di qui, allora, si dipana una serie di delicati interrogativi intorno al concetto di legge «giusta », che vengono riproposti da Colombo, con ovvi riferimenti ai modelli di Stato (dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, fondato sulla separazione di poteri), e quindi ai modelli di società cui le regole si ispirano.
A quest'ultimo riguardo, molte pagine sono dedicate alla descrizione di due modelli opposti di organizzazione della società. Da un lato un modello «verticale», fortemente gerarchizzato, basato sull'idea della selezione e quindi, spesso, sulla discriminazione dei più deboli e dei «diversi», nel quale la persona umana è soltanto uno strumento, finalizzato agli scopi ultimi dello sviluppo dello Stato e del successo dei più forti. Dall'altro un modello «orizzontale», basato sul riconoscimento della eguale dignità di ogni individuo, dove la persona umana è un valore da rispettare comunque, fino a farne il centro della costruzione costituzionale dello Stato, con evidenti conseguenze anche sul piano della repressione degli illeciti.
In una società ispirata a questo modello, per esempio, tutti i reati devono essere accertati e puniti (senza privilegi per nessuno), ma non sono ammissibili né la tortura né la pena di morte. Inoltre la pena carceraria, intesa come estrema risorsa punitiva, ha senso soltanto per «neutralizzare» la pericolosità di certi individui, non già in funzione afflittiva o retributiva.
Rispetto a tali modelli, che non sono l'uno di «destra» e l'altro di «sinistra», ma semmai riflettono il divario tra concezioni autoritarie e democratiche dello Stato, la Costituzione italiana si colloca decisamente nell'area dei modelli di società «orizzontale». In particolare, muovendo dal principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in senso sia formale, sia sostanziale), ed attraverso il riconoscimento a tutti dei diritti inviolabili dell'uomo, la nostra Costituzione definisce un quadro al cui interno l'osservanza delle regole significa dare concretezza ai contenuti positivi che vi sono sanciti. E perciò, in questo quadro, l'affermazione della legalità è un obiettivo cui devono tendere anzitutto i cittadini, dentro e fuori le istituzioni. Allo scopo, la ricetta proposta da Colombo è semplice, per chi creda nel primato della dignità della persona umana. Non solo chiarezza (cioè convinzioni profonde) e coerenza (fare quel che si dice), ma anche impegno e partecipazione: dunque disponibilità di ciascuno a mettersi in gioco per la tutela dei valori di fondo, e ad assumersi le sue responsabilità in vista della realizzazione di una società più giusta. Un impegno ed una responsabilità tanto più necessari nelle zone infestate dalle organizzazioni criminali.